Esce finalmente anche in Italia, «Agorà» il film
dedicato all’astronoma e filosofa greca, uccisa da
fanatici cristiani nel 391 dopo Cristo.
Lo porta in sala Mikado che parla di «stizza e silenzio» da parte della Chiesa
Alejandro Amenábar: Il Vaticano ha nascosto la mia «Ipazia» con una coltre di silenzio
«Dopo duemila anni il fanatismo religioso continua ad uccidere»
Il regista: «Ho trattato un periodo del cristianesimo mai portato al cinema»
La Commissione «Dalla Cei ci è arrivata solo qualche espressione stizzita»
di Gabriella Gallozzi (l’Unità, 20.04.2010)
Stizza e silenzio. Questa la reazione della Commissione della Cei, preposta alla valutazione dei film da destinare alle sale del circuito cattolico, di fronte ad Agorà, la pellicola di Alejandro Amenábar sulla vita di Ipazia, filosofa greca uccisa dagli integralisti cattolici nel 391 dopo Cristo.
Evidentemente alla Commissione di prelati non deve proprio essere andato giù vedere quell’orda di fanatici cristiani assalire e distruggere la storica Biblioteca di Alessandria d’Egitto, simbolo universale della cultura, alla stregua dei talebani che distruggono Buddha secolari ed ogni iconona del sapere. Per non parlare poi del vescovo Cirillo, riconosciuto tra i padri fondatori della chiesa, descritto come uno spietato carnefice che usa la religione per controllare il potere politico e mandare a morte Ipazia, simbolo di tolleranza e fede nella conoscenza. Anche se è storia, è troppo scomoda per la Chiesa quella che racconta Agorà. Tanto che l’uscita del film, così in ritardo rispetto alla sua presentazione allo scorso Cannes, è stata anticipata da infinite polemiche.
POLEMICHE E PRESSIONI
Con tanto di petizione in rete per sollecitarne una distribuzione in Italia. Alla fine è stata Mikado a scegliere di potarlo in sala (esce il 23 in 200 copie), come sottolinea la nuova ad Sonia Raule, sfidando eventuali pressioni vaticane: «non ci siamo posti questo problema», spiega. Ma anzi, al contrario, «abbiamo tentato di aprire un dialogo con l’ambiente cattolico», dice stavolta Andrea Cirla, responsabile marketing della Mikado. Per questo hanno anticipato la proiezione per la Commissione della Cei già alcuni mesi fa. «Da parte loro, però prosegue Cirla ci è arrivata solo qualche espressione stizzita di dissenso. E poi una voluta coltre di silenzio sui loro organi di stampa. Secondo noi un atteggiamento studiato».
Consapevole delle polemiche che avrebbe suscitato il film si dice lo stesso regista: «Quello che abbiamo raccontato spiega l’autore di Mare dentro è un periodo del cristianesimo mai portato al cinema. Ma il film non vuol essere offessivo nei confronti dei cristiani, piuttosto un forte atto di denuncia contro l’intolleranza. Volevo far vedere che la storia di allora non è così diversa dal nostro presente: certo, il cristiano di oggi non uccide, ma altre forme di estremismo sì». Pensate a proposito, prosegue Amenábar, «che Agorà è stato vietato ad Alessandria d’Egitto per timore che potesse scatenare violenze da parte dei musulmani nei confronti della minoranza cristiana. Come vedete la storia si ripete».
DONNE E INTOLLERANZA
Così come la violenza nei confronti delle donne. «I primi obiettivi dell’intolleranza prosegue il regista sono le donne e la scienza. In questo senso la storia di Ipazia ha una forte componente femminista, poiché tiene in sè le due cose: lei è l’unica scienziata, l’unica astronoma tra tanti uomini. Anzi i suoi allievi sono degli uomini e questo è intollerabile per il potere. Forse se fosse stata un uomo non l’avrebbero neanche uccisa». Invece la sua fine è stata atroce: scarnificata viva. Ma Amenábar ha scelto un finale più «soft»: la lapidazione. «Sempre per ricollegarmi all’attualità conclude perché purtroppo questo accade ancora oggi a molte donne, in molte parti del mondo».
Dalla Mikado: "Lo abbiamo mostrato ad alcuni prelati La reazione è stata il silenzio"
Mi affascinava l’idea di rappresentare la scienza attraverso una donna dalla mentalità aperta e tollerante
Oggi mi sento un ateo
di Maria Pia Fusco (la Repubblica, 20.04.2010)
ROMA. Uscito sei mesi fa in Spagna, Agora, il film di Alejandro Amenábar sulla filosofa Ipazia (l’attrice Rachel Weisz), vissuta ad Alessandria alla fine del 300 dopo Cristo, sarà nelle sale italiane venerdì con oltre 200 copie. Ipazia fu uccisa con orribile crudeltà dai parabolani, fanatici cristiani che dopo aver distrutto la Biblioteca Alessandrina infierirono contro pagani ed ebrei, per ordine del vescovo Cirillo, oggi onorato come santo e padre della Chiesa. È la ragione per cui quando il film fu presentato a Cannes, l’anno scorso, si diffuse il timore di pressioni da parte del Vaticano per impedirne l’uscita, tanto che su Facebook intellettuali e filosofi aprirono una campagna di sensibilizzazione. Dice oggi Andrea Cirla, responsabile marketing della Mikado che distribuisce Agora, «quando lo abbiamo comprato, prima del doppiaggio, lo abbiamo mostrato a una commissione di giornalisti e prelati del Vaticano, c’è stata una reazione stizzita, poi è scesa una coltre di silenzio. Pensiamo che sia un silenzio studiato».
Amenábar, ha pensato alle reazioni del Vaticano mentre realizzava il film?
«Temevo qualche polemica, perché il film evoca un momento del cristianesimo mai raccontato sullo schermo. Ma non vuole offendere la Chiesa, è contro l’intolleranza e il fanatismo, da qualunque parte provenga. Purtroppo oggi come allora l’intolleranza continua ad uccidere. Non mi aspettavo che ad Alessandria ci fosse il divieto sul film per paura che le minoranze cristiane subiscano aggressioni dalla maggioranza islamica».
Com’è nata l’idea di raccontare Ipazia?
«Il film è nato per caso. Dopo una storia intima come Mare dentro volevo fare qualcosa sul tema dell’astronomia, che mi appassiona da sempre. Durante le ricerche tra tanti grandi come Galileo, Newton o Keplero ho scoperto un solo nome femminile, Ipazia. Un personaggio ideale e non solo per la componente femminista. Mi affascinava l’idea di rappresentare la scienza attraverso una donna che, in un’epoca di intolleranza, voleva diffondere la conoscenza con una mentalità aperta e tollerante. Alle sue lezioni c’erano giovani di ogni religione, anche cristiani».
Che tipo di donna era Ipazia?
«Le cronache dell’epoca raccontano che non si sposò e non ebbe figli e dedicò tutta la sua vita alla filosofia e alla scienza. Ho discusso del personaggio con Rachel Weisz, l’interprete di Ipazia, le ho spiegato che non volevo nessuna implicazione sessuale o amorosa con i suoi studenti perché l’ipotesi più attendibile è che sia morta vergine. Purtroppo non è rimasto nulla dei suoi studi e dei suoi scritti, per cui ho potuto permettermi qualche libertà da questo punto di vista. Ma è un peccato che non sia rimasto niente. Secondo me se non avessero distrutto la Biblioteca alessandrina oggi l’uomo sarebbe arrivato su Marte».
Nel film lei attenua la crudeltà dell’uccisione di Ipazia, ma nei titoli di coda ricorda che il vescovo Cirillo è diventato santo. Perché?
«Secondo le cronache Ipazia fu letteralmente fatta a pezzi, volevo una fine più sopportabile per il pubblico, ho scelto la lapidazione, che fa anche parte della realtà di oggi in alcuni paesi. Quanto a Cirillo è importante per il contesto storico. Di lui sapevo che era un santo, mi ha sconvolto la scoperta di tutto il male che ha fatto mentre era vescovo. Nel film racconto solo il 30 per cento della sua crudeltà. Penso che alla santità sia più vicina Ipazia di lui. Ipazia che, come Cristo, è stata uccisa perché amava il prossimo e parlava con tutti».
Lei è cattolico?
«Ho studiato in un collegio cattolico, conosco la cultura cattolica. Con The others sono passato all’agnosticismo, ora ho capito di essere ateo. Non significa che non creda in qualche entità superiore ma, da ateo, preferisco chiamarla natura».
Ma la religione non è storia di violenza
Il cristianesimo non è riducibile agli assassini di Ipazia e al loro violento fanatismo
I cristiani non erano la massa di fondamentalisti semianalfabeti come nel film
di Vito Mancuso (la Repubblica, 20.04.2010)
È inevitabile affermare che l’omicidio di Ipazia rimarrà sempre una macchia indelebile sul cristianesimo e la sua storia. Ma il cristianesimo non è riducibile agli assassini di Ipazia e al loro violento fanatismo. L’assassinio di Ipazia si affianca a quelli già riconosciuti come tali da Giovanni Paolo II (in particolare il caso Galileo, la tratta degli schiavi, i crimini dell’Inquisizione) e a quelli non ancora riconosciuti pubblicamente, tra cui lo sterminio dei catari, l’assassinio di Ian Hus (6 luglio 1415) e di Giordano Bruno (17 febbraio 1600), esempi eclatanti di una generale persecuzione violenta dei dissidenti bollati come eretici o scismatici.
È infatti importante notare che il più delle volte i crimini di cui si è macchiato il cristianesimo sono avvenuti per motivi dottrinali. Ne viene che la formulazione della dottrina cattolica, quella ancora oggi depositata nel Catechismo firmato da Giovanni Paolo II nel 1992 e da Benedetto XVI nel 2005 in forma compendiata, non sarebbe tale senza quella violenza. Per una religione che fa della sacralità della vita umana da tutelare fino al livello embrionale un principio "non negoziabile", non è certo un problema da poco. Per risolverlo è necessario non solo chiedere pubblicamente perdono a Dio e agli uomini dei crimini commessi, ma anche rivedere profondamente il metodo dell’elaborazione dottrinale, ancora oggi basato sulla repressione del dissenso e della criticità all’interno della teologia.
Sul secondo aspetto spero che nessuno possa pensare che il cristianesimo si riduca a san Cirillo d’Alessandria e ai suoi parabolani. Anzitutto perché lo stesso fondatore del cristianesimo è parte di quella schiera di scomodi testimoni della verità che, come Ipazia, vennero tolti di mezzo dai potenti di turno e dai fanatici al loro servizio. Poi perché già la vicenda di Ipazia presenta un modo di essere cristiano di ben altro livello rispetto a Cirillo e ai parabolani, vale a dire Sinesio di Cirene.
A suo riguardo però non posso fare a meno di criticare il film di Amenábar. Non si tratta tanto del fatto che il vero Sinesio, a differenza del protagonista del film dai bei capelli fluenti, fosse calvo (come si viene a sapere dallo scritto di Sinesio intitolato Encomio della calvizie). Immagino che il regista abbia avuto precise esigenze di immagine che l’hanno indotto a far crescere i capelli a Sinesio. Non si tratta neppure del fatto che il vero Sinesio, prima di essere vescovo e benché fosse vescovo, era sposato e padre di tre figli: anche qui le medesime esigenze di comunicazione hanno portato a semplificare questa interessante dimensione biografica, che pure sarebbe stato molto utile far conoscere allo spettatore.
La mia critica non si rivolge neppure al fatto che Sinesio non poteva essere ad Alessandria al tempo dell’uccisione di Ipazia, perché questa avvenne nel 415 mentre Sinesio era morto due anni prima, nel 413. La mia critica si rivolge piuttosto a come Amenábar utilizza tali inesattezze e anacronismi (dico anacronismi al plurale perché anche l’accusa di stregoneria a Ipazia lo è: la persecuzione per stregoneria da parte della Chiesa fu molto posteriore e raggiunse il suo acme 10 secoli dopo).
Mi riferisco, invece, alla scena che segue il rifiuto da parte del prefetto Oreste di inginocchiarsi davanti a Cirillo che regge una Bibbia. Da quanto ci è dato conoscere leggendo le 156 lettere dell’epistolario, il vero Sinesio non avrebbe mai compiuto un gesto del genere. Era uno spirito tollerante, talora dubbioso, sempre filosofico, mai dogmatico. Lo si vede bene in una lettera indirizzata al fratello nel 410 in cui scrive: «Non mi stancherò mai di ripetere che il saggio non deve forzare le opinioni degli altri, né lasciarsi forzare nelle proprie».
Il vero Sinesio è uno che non vuole "forzare le opinioni degli altri", e quindi la scena che lo ritrae mentre fa inginocchiare Oreste costituisce una forzatura, una distorsione bell’e buona. Mi chiedo a quale scopo. Forse il regista vuole far intendere che tutti i credenti contengono in se stessi un’inevitabile violenta intolleranza?
A prescindere dall’intenzione di Amenábar, la tesi secondo cui nel cuore della religione sia radicata la violenza è falsa. È la stessa storia del cristianesimo ad Alessandria ad attestarlo, una storia ben lungi dall’essere ridotta a quella massa di fondamentalisti semianalfabeti quali nel film vengono presentati i cristiani. Ben prima di Cirillo, Alessandria era stata la patria di una celebre scuola teologica di alta cultura e di raffinata spiritualità, rappresentante di quel cristianesimo pacifico, amico della ragione, della scienza e della filosofia, che lungo la storia annovera nomi come Scoto Eriugena, Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam, Antonio Rosmini, Teilhard de Chardin e moltissimi altri, tra cui ai nostri giorni, Carlo Maria Martini e Gianfranco Ravasi.
Forse sbaglio a sostenere che il film voglia dare l’impressione che le religioni sono foriere di intolleranza e violenza, mentre solo la scienza e la filosofia aprono alla tolleranza e alla pace. Si tratta, lo ripeto, di una tesi falsa, ampiamente smentita dalla storia del 900. Sarebbero molti gli esempi al riguardo, qui mi limito a una figura che si potrebbe definire un’Ipazia del XX secolo.
Mi riferisco a Pavel Florenskij, matematico e scienziato russo, e insieme filosofo, storico dell’arte, teologo e sacerdote ortodosso, il quale, dopo anni di prigionia nei gulag staliniani, venne ucciso l’8 dicembre 1937 per le sole idee che professava. Ipazia, filosofa e matematica, ad Alessandria nel 415; Florenskij, teologo e matematico, a Leningrado nel 1937: la prima uccisa dall’intolleranza dogmatica della religione, il secondo ucciso dall’intolleranza dogmatica dell’antireligione.
C’è qualche sostanziale differenza? Norberto Bobbio disse che «la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa». Se il film di Amenábar avesse lasciato intravedere anche questa sottile dialettica, sarebbe stato più vero.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA: "Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO.
La bustina di minerva
Ipazziammo!
Il film ’Agorà’ di Amenabar sulla filosofa, matematica e astronoma Ipazia fatta a pezzi dal vescovo Cirillo, ha scatenato una guerra di religione e ha fatto gridare al complotto. Che non c’è
di Umberto Eco (L’Espresso, 30 aprile 2010
È difficile che con il battage pubblicitario e la serie di dibattiti intorno al film ’Agorà’ di Alejandro Amenabar qualcuno non abbia almeno sentito nominare Ipazia. Comunque, per coloro ancora poco informati dei fatti, dirò che all’alba del quinto secolo d. C., in un impero in cui anche l’imperatore ormai è cristiano, in una Alessandria dove si scontrano l’ultima aristocrazia pagana, il nuovo potere religioso rappresentato dal vescovo Cirillo e una vasta comunità ebraica, vive e insegna Ipazia, filosofa neoplatonica, matematica e astronoma, bellissima (si diceva) e idolatrata dai suoi allievi. Una banda di parabalani, talebani cristiani dell’epoca, milizia personale del vescovo Cirillo, si scaglia su Ipazia e la fa letteralmente a pezzi.
Di Ipazia non rimangono opere (forse Cirillo le ha fatte distruggere), e pochissime testimonianze, vuoi cristiane che pagane. Tutte più o meno ammettono che Cirillo qualche responsabilità ce l’aveva. A lungo Ipazia cade nel dimenticatoio, sinché viene rivalutata dal Seicento in avanti, e particolarmente dagli illuministi, come martire del libero pensiero, celebrata da Gibbon, Voltaire, Diderot, Nerval, Leopardi, e via via sino a Proust e a Luzi, sino che diventa icona del femminismo.
Il film non è certo tenero coi cristiani e con Cirillo (anche se non cela le violenze dei pagani e degli ebrei) e si è subito diffusa la voce che le forze oscure della reazione in agguato stessero per impedirne la circolazione in Italia, così che era partita una sottoscrizione di migliaia di firme. Per quello che ho capito, la distribuzione italiana era piuttosto esitante a far circolare un film che forse avrebbe suscitato forti opposizioni da parte cattolica, compromettendone la circolazione, ma quelle firme l’hanno decisa a tentare l’avventura. Ma non è del film che voglio occuparmi (filmicamente ben fatto, malgrado alcuni vistosi anacronismi) bensì della sindrome del complotto che ha scatenato.
Navigando per Internet ho trovato attacchi cattolici, in cui si protestava contro chi voleva mostrare solo il lato violento delle religioni (ma il regista ripete che il suo obiettivo polemico era il fondamentalismo di ogni sorta), ma nessuno ha tentato di negare che Cirillo, che non era solo uomo di chiesa ma anche personaggio politico, fosse stato un duro, con gli ebrei come coi pagani. Non è un caso se santo e dottore della chiesa lo ha fatto quasi millecinquecento anni dopo Leone XIII, un papa ossessionato dal nuovo paganesimo rappresentato dalla massoneria e dai liberali mangiapreti che dominavano nella Roma dei suoi tempi. Ed è imbarazzante la celebrazione di Cirillo tenuta il 3 ottobre 2007 da papa Ratzinger, il quale loda "la grande energia" del suo governo senza spendere due righe per assolverlo da quell’ombra che la storia ha fatto pesare su di lui.
Cirillo mette a disagio tutti: su Internet trovo Rino Camilleri (già difensore del Sillabo) che a garantire l’innocenza di Cirillo chiama in causa Eusebio di Cesarea. Eccellente testimone, salvo che Eusebio era morto settantacinque anni prima del supplizio di Ipazia e quindi non aveva potuto testimoniare nulla. Dico, se si deve scatenare una guerra di religione, almeno si consulti Wikipedia.
Ma veniamo al complotto: circolano su Internet varie notizie sulla censura attuata (da chi?) per celare lo scandalo Ipazia. Per esempio si denuncia che il volume otto della ’Storia della filosofia greca e romana’ di Giovanni Reale (Bompiani) dedicato al Neoplatonismo, con notizie su Ipazia, sia misteriosamente scomparso dalle librerie. Una telefonata alla Bompiani mi ha chiarito che è vero che di tutta la serie dei dieci volumi gli unici due esauriti (e che quindi saranno ristampati) sono il sette e l’otto, certamente perché toccano argomenti come il ’Corpus Hermeticum’ e alcuni aspetti del neoplatonismo che non interessano solo chi si occupa di filosofia ma arrazzano tutti i dissennati che si impicciano di scienze occulte vero o presunte. Ma poi sono andato a vedere nei miei scaffali questo famigerato volume otto e ho visto che Reale, il quale è uno storico della filosofia e si occupa solo di testi consultabili, mentre di Ipazia non ci è rimasto nulla, dedica a Ipazia sette righe (dico sette) dove si limita a dire il poco che seriamente si sa. E allora perché censurarlo?
Ma la teoria del complotto va oltre e sempre su Internet si dice che sono scomparsi dalle librerie tutti i libri sul neoplatonismo, asineria da far sghignazzare qualsiasi studente del primo anno di filosofia. Insomma, se volete sapere qualche cosa di serio su Ipazia, cercate in linea ’enciclopediadelledonne.it’ con una bella voce di Sylvie Coyaud sul tema e, per qualcosa di più erudito, chiedete a Google ’Silvia Ronchey Ipazia’ e troverete pane (non censurato) per i vostri denti.
Il santo del giorno
Cirillo di Alessandria.
Nell’unione di due nature il fascino del cristianesimo
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 27 giugno 2020)
Un Dio che rimane sé stesso, anche se si “mescola” con l’umanità senza svilirne l’identità profonda: è questo uno dei messaggi più affascinanti e profondi del cristianesimo. Un appello a trovare Dio nel volto del compagno di strada sapendo che comunque Egli rimane il “totalmente altro”. Non è stato facile rendere a parole il complesso concetto teologico delle due nature, umana e divina, unite nella persona di Cristo; una formulazione cui hanno contribuito padri come san Cirillo d’Alessandria, vescovo e dottore della Chiesa. Nato attorno al 370, nel 412 divenne vescovo di Alessandria, comunità che guidò fino alla morte, nel 444. Il confronto teologico vide Cirillo (difensore anche del titolo mariano di “Madre di Dio”) contrapposto soprattutto a Nestorio, la cui dottrina, basata sulla divisione tra le due nature di Cristo, fu condannata dal Concilio di Efeso del 431.
Altri santi. San Sansone, sacerdote (VI sec.); sant’Arialdo di Milano, diacono e martire (XI sec.).
Letture. Lam 2,2.10-14.18-19; Sal 73; Mt 8,5-17.
Ambrosiano. Lv 23,9.15-22; Sal 96 (97); Rm 14,13-15,2; Lc 11,37-42.
LA "STORIA" DI IPAZIA, I "DUE SOLI", E L’"ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE" COSTANTINIANA ... *
Ipazia, sedici secoli di bugie
La filosofa di Alessandria d’Egitto fu uccisa nel 415 da un gruppo di fanatici cristiani. E’ passata alla storia come una martire della scienza, versione femminile di Galileo. Ma la sua vicenda nasconde un mistero ancora piu’ inquietante.
di Luisa Muraro ("Giudizio Universale", 11.12.2009)
Ipazia di Alessandria ha un conto aperto con la nostra civilta’ che dobbiamo incominciare a pagare.
Parlo, per chi ancora non conoscesse questo nome, della scienziata e filosofa neoplatonica, maestra nel Museo di Alessandria d’Egitto (non un museo, ma un centro di studi superiori) che, nell’anno 415 dell’era cristiana, venne trucidata da un gruppo organizzato di cristiani fanatici. Il delitto resto’ impunito perche’ l’inviato imperiale non fece il suo dovere.
Da parte di chi ha a cuore la tradizione religiosa cristiana, io mi aspetto un preciso contributo. Posto che le fonti non consentono di attribuire al vescovo di Alessandria, il futuro santo e padre della Chiesa Cirillo, alcuna responsabilita’ diretta nella morte violenta della filosofa, si stabiliscano le innegabili responsabilita’ indirette, nel contesto di una diffusione del cristianesimo che e’ piena di luci e ombre.
Da coloro che hanno a cuore le grandi conquiste della modernita’ (liberta’ di pensiero, pluralismo, liberta’ di ricerca, valore delle scienze sperimentali), mi aspetto che smettano di strumentalizzare la figura della filosofa deformandola in quella di una martire della libera scienza. Le fonti storiche non autorizzano questa rappresentazione che si alimenta da una serie di stereotipi, gia’ confutati, sulla storia delle scienze e la cultura cattolica. Non si faccia di Ipazia un anacronistico pendant femminile di Galileo.
Lei fu indubbiamente una scienziata di prima grandezza e, come Galileo, si dedico’ all’astronomia con avanzate tecniche di osservazione. L’analogia finisce qui. La famosa vicenda del processo di Galileo riguarda il protagonista di una svolta epocale nell’idea di scienza, che non ha nulla a che fare con l’epoca di Ipazia, il cui tempo fu agitato da una somma di problemi che non riguardavano la concezione della scienza, se non molto indirettamente.
Detto in breve, Galileo e’ il campione e il martire del nuovo che avanza. Ipazia e’ l’esponente di una tradizione secolare (millenaria, se contiamo l’Egitto) e venne schiacciata dal nuovo avanzante, il cristianesimo, che fu anche rivoluzione sociale, non dimentichiamo.
Il mio contributo al pagamento del debito che abbiamo verso Ipazia, consistera’ nell’esporre, in forma di racconto basato sulle fonti storiche, le circostanze che portarono alla sua uccisione.
Di Ipazia non abbiamo una data di nascita, possiamo immaginare che fu intorno al 370. Trascorse la sua vita ad Alessandria; non risulta che abbia fatto viaggi fuori dalla sua citta’. Le fonti la ricordano come figlia di Teone, scienziato del Museo; di lui fu allieva, collaboratrice e, in un certo senso, successora. Le fonti dicono che lei lo supero’. Della sua opera non si e’ conservato quasi nulla.
Intorno al 375 nacque ad Alessandria anche Cirillo, che crebbe all’ombra dello zio Teofilo cui succedette sul seggio episcopale nel 412. Come lo zio, era un uomo di grande decisione, al limite della spregiudicatezza.
Per favorire la Chiesa, Cirillo cerco’ l’alleanza del prefetto imperiale Oreste, un battezzato anche lui ma poco propenso a schierarsi con i cristiani.
Scoppiarono incidenti, uno gravissimo nel 415: un gruppo di monaci venuti dal deserto (i cosiddetti parabolani) per servire il vescovo, a che titolo non sappiamo, assaltarono il carro del prefetto e riuscirono a ferirlo con una sassata. Il loro capo fu catturato e duramente punito, Cirillo voleva farne un martire ma i cittadini si opposero, compresi alcuni cristiani. Siamo alla vigilia dell’uccisione di Ipazia.
Bisogna sapere che Oreste era un ammiratore della filosofa e aveva preso l’abitudine di consultarla sui problemi della citta’. All’epoca Alessandria era una citta’ multietnica, abitata da elleni, egizi, ebrei, costellata da vari edifici religiosi: sinagoghe, templi alle divinita’ greche ed egizie, chiese cristiane. Il gruppo dominante e’ costituito dagli elleni (gli abitanti di origine greca), molti dei quali stavano passando al cristianesimo, che era diventato la religione dell’imperatore.
Ipazia, che apparteneva a questo gruppo sociale, non era cristiana. Fra i suoi allievi aveva tuttavia dei cristiani, come Sinesio, il futuro vescovo di Cirene, che la chiamava "madre" e "patrona", e su di lei ha lasciato una preziosa testimonianza scritta.
Le fonti raccontano che un giorno il vescovo Cirillo si trovo’ a passare nei pressi della casa di Ipazia e noto’ un assembramento di carri, lettighe e guardie.
Il vescovo, possiamo immaginare, senti’ una fitta penosa nell’anima. Per certo il nome di quella donna, famosa in citta’, non gli era nuovo. Nuovo fu per lui scoprire che il prefetto si degnasse di farle visita, dopo che aveva rifiutato l’offerta fatta da lui, Cirillo, che era un uomo e un vescovo.
Le fonti ci autorizzano a immaginare anche il pensiero che segui’ a quel penoso, ma cosi’ umano! sentimento: "Ad Alessandria le cose andrebbero meglio se io e il prefetto fossimo amici. Io e il prefetto non siamo amici per colpa di Ipazia che si e’ messa di mezzo e ha attirato Oreste nella sua orbita".
Questo e’ l’antefatto. Il fatto e’ che un giorno del marzo 415 un gruppo di parabolani, guidati da un tale di nome Pietro il lettore, sequestro’ Ipazia, la porto’ in una chiesa e qui, al chiuso, la trucidarono usando strumenti taglienti che non erano coltelli, forse pezzi di vetro o di conchiglia. Poi ne portarono i resti in una localita’, il Cinarone, forse assegnata alla eliminazione di materie di scarto con il fuoco, e qui li bruciarono.
Da questo insieme di fatti risulta che Ipazia, se siamo alla ricerca di un titolo da dare alla sua morte, fu principalmente una martire politica.
Colpita per colpire il prefetto imperiale, e’ la prima supposizione, Ma, se allarghiamo lo scenario storico, le circostanze suggeriscono piuttosto che lei fu eliminata perche’ disturbava, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra due poteri, quello imperiale e quello ecclesiastico, che erano anche due uomini, Oreste e Cirillo, e impediva cosi’ che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un compromesso per una conveniente alleanza.
A cio’ si aggiunga un senso di rivalita’ del capo della Chiesa alessandrina nei confronti di quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, aveva l’autorita’ di una sacerdotessa.
La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorita’ della loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere politico.
Sicuramente contarono anche altre circostanze, fra cui il conflitto tra la cultura del mondo antico declinante e la nuova religione cristiana, purche’ abbiamo chiaro che il conflitto non si configurava come un antagonismo e che la vittoria del cristianesimo era ormai evidente. Conto’ il fatto che non di un filosofo si trattasse, ma di una filosofa? La domanda va riformulata, considerato che non esistono culture in cui la differenza sessuale sia indifferente. Quanto conto’, nella vicenda di Ipazia? E abbiamo noi modo di stabilirlo? Senza addentrarci, consideriamo che la nascente religione cristiana, a differenza di quella grecoromana e di quella egizia, non rendeva pensabile e accettabile una donna con le prerogative di Ipazia, libera di se’, non subordinata a partiti o fazioni, presente e parlante in luoghi pubblici, sapiente, maestra dotata di una parola autorevole per donne e uomini.
Questa considerazione ci porta ai nostri tempi per costatare che il tipo umano femminile incarnato da una Ipazia non ha corso nella nostra cultura, forse perche’ essa deriva dalla versione cristiana del patriarcato. Il che ci fa capire il perche’ di certi stereotipi laici o laicisti: questi stereotipi resistono e si ripresentano per non poter ammettere che quello che faceva veramente problema ai cristiani di Alessandria, continua a fare problema anche ai nostri giorni, e non solo ai "cristiani"! Voglio dire che gli stereotipi anticlericali con cui si accosta la figura e la vicenda di Ipazia (Chiesa nemica della scienza, della ragione, delle donne) sono fatti per coprire una certa coda di paglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA" !!! IL MAGGIORASCATO : L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, -L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
“VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
UN GIARDINO PER IPAZIA: MEGLIO TARDI CHE MAI *
Finanlamente dopo secoli di oblio, una piazza, o meglio un giardino, verrà dedicato a Ipàzia (Alessandria d’Egitto, 415) che considerata la prima matematica, astronoma e filosofa della greca antica. La sua uccisione da parte di una folla di cristiani in tumulto composta di monaci detti parabolani guidati dal Vescovo Cirillo di Alessandra, peraltro poi fatto Santo, che non vedevano di buon occhio una donna dedicarsi a materie allora ritenute prettamente "maschili".
Il Comitato “Una Piazza per Ipazia”, costituitosi a seguito della raccolta firme lanciata dalla sezione ANPI Trullo-Magliana nel dicembre 2014, e promotore della richiesta di intitolazione di una Piazza o Giardino alla filosofa neoplatonica e filomate Ipazia d’Alessandria comunica che è stata finalmente apposta dalla toponomastica di Roma Capitale la targa, in zona Tor Sapienza, che intitola un giardino ad “Ipazia d’Alessandria”.
"Abbiamo più volte sottolineato - spiega il comitato - come Ipazia sia di grande attualità per i significati che veicola la sua singolare esistenza: vittima del fondamentalismo religioso ma anche esempio di donna integerrima, studiosa, scienziata, divulgatrice di conoscenza".
"È per noi significativa in quanto simbolo di una resistenza morale e non violenta all’ordine dominante al quale rispose con il rifiuto di sottomettersi docilmente alla costrizione. Tale rifiuto legandosi all’impegno positivo di difendere valori fondamentali quali l’uguaglianza e la libertà assume la veste dell’affermazione. Da uno degli allievi di Ipazia, Sinesio di Cirene, si apprende che Ipazia è stata la madre della scienza moderna in quanto utilizzava la sperimentazione pratica, Fermat la definì ’la meraviglia del suo secolo’."
"Ci auguriamo - conclude il comitato - che il riconoscimento attribuitole con la dedica di un giardino nella nostra città possa essere uno stimolo per restituirle la visibilità che merita per, parafrasando Sinesio, “tenere desti i semi di sapienza da lei ricevuti”.
Per celebrare l’intitolazione il comitato si farà promotore della cerimonia che si terrà nel Giardino Ipazia d’Alessiandria, in data da definire".
* Comitato “Una Piazza per Ipazia” (ANPI Trullo - Magliana Sez. “F.Bartolini”; Ipazia ImmaginePensiero onlus;Donne di Carta; Associazione Filomati-Philomates Associaton; Associazione Toponomastica Femminile; G.A.MA. DI; UDI Monteverde; Circolo UAAR Roma , Civiltà Laica Roma, Adriano Petta.)
* Fonte: Gravità-Zero, domenica 7 agosto 2016 (ripresa parziale - senza immagini).
Letteratura
Ipazia, maestra del dubbio
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, 05.08.2016)
L’età cruciale per diventare dogmatici e intolleranti oppure, al contrario, persone aperte, amanti del dialogo e della pluralità dei punti di vista è l’adolescenza. Una serie infinita di studi sullo sviluppo del cervello umano lo dimostra.
La regista e scrittrice Roberta Torre però, con il suo libro dedicato a Ipazia e la musica dei pianeti - edito da rueBallu nella collana Jeunesse ottopiù, cioè per bambini di più di otto anni, vincitrice del Premio Andersen 2016 come miglior progetto editoriale - ci ricorda implicitamente quanto sia bene cominciare presto a preparare il nostro cervello all’apertura mentale e al pensiero critico. E che cosa c’è di meglio di una scienziata di epoca alessandrina, che sembra anticipare l’approccio fallibilista di Karl Popper, per raccontare una bella storia, attualissima in tempi di Isis, in cui i cattivi sono i fondamentalisti e i buoni sono coloro che socraticamente sanno di non sapere? Solo loro potranno elevare il dubbio a metodo rigoroso, individuando l’unica via percorribile per arrivare alla conoscenza.
Ipazia è stata una martire. Non una martire cistiana, però, bensì una martire uccisa dai cristiani. «A uccidermi - dice in questo racconto, splendidamente illustrato da Pia Valentinis - sono state le persone. Parabolani li chiamavano, dei monaci del deserto, guerrieri, pronti a uccidere per Dio, o meglio per quello che altri uomini più furbi indicavano loro circa il volere di Dio. Che una donna non fosse degna, di insegnare, di parlare, di pensare».
E Ipazia, proprio come Socrate, amava insegnare ovunque le capitasse: «Per strada, alle persone qualsiasi, a chiunque incontrassi e volesse sapere qualcosa sui filosofi del passato, sulle loro idee. Indossavo il mio mantello e uscivo per le vie di Alessandria. Ecco quello che mi manca della vita...». Sì perché il racconto è ambientato in una specie di oltretomba spaziale. Camilla, un’astronauta che ha appena compiuto vent’anni, atterra su un asteroide per fare una serie di rilevazioni da mandare alla base. In realtà non ha pensieri scientifici, come i buchi neri o i limiti della galassia, ma passa il suo tempo ad ascoltare musica rock con gli auricolari. È lì che Ipazia ora passa i suoi giorni. Ne nasce un dialogo, costellato dalle vicende che la videro protagonista nell’Alessandria del quarto secolo dopo Cristo.
Ipazia è una delle poche donne filosofo della storia occidentale, e a quei tempi essere filosofi significava occuparsi anche e soprattutto di astronomia, di matematica, geometria, di tutte le arti liberali. Perfezionò l’astrolabio di Ipparco e insegnò alla scuola della Biblioteca di Alessandria, prima che questa subisse l’ennesima distruzione da parte dei cristiani in lotta contro i seguaci di Serapide, motivati dalla politica loro favorevole dell’imperatore cristiano Teodosio.
Ipazia è divenuta celebre per avere criticato il sistema tolemaico e difeso l’eliocentrismo di Aristarco, se è vero ciò che scrive il suo allievo prediletto, Sinesio. L’opera di Tolomeo non era da considerarsi, agli occhi degli studiosi di Alessandria, definitiva e inattaccabile, ma popperianamente falsificabile.
La filosofia neoplatonica di cui la maestra Ipazia nutriva i suoi discepoli - un neoplatonismo che prendeva le distanze dagli eccessi teologici delle scuole orientali ed era invece improntato più al modello ateniese - li educava al rispetto della pluralità delle ipotesi e alla ricerca della verità.
Ipazia fu massacrata in modo barbaro e violento. Furono i cristiani a ucciderla. Forse perché i suoi insegnamenti astronomici erano visti con sospetto. Forse perché era una donna. Forse perché era “laica”, libera, in un’età di lotte atroci tra fondamentalismi religiosi.
Alla fine forse proprio questo è ciò che Roberta Torre vuole trasmettere ai bambini dagli otto anni in su - almeno fino ai venti di Camilla, che pur appartenendo a una missione scientifica non sembra essere una campionessa di pensiero critico: - la laicità come elemento essenziale delle persone libere, amanti della conoscenza e della civiltà. La musica dei pianeti può legare la neoplatonica Ipazia alla musica dell’iPod di Camilla ma solo se anche lei, come già Sinesio, saprà abbeverarsi alla scuola del dubbio.
«Forse tutta questa rabbia che hanno nell’affermare il loro credo - dice Ipazia - è un modo per non pensare ai dubbi, che pure devono esserci. Come si fa a non avere dubbi?, dicevo a Sinesio, e lo ripeto anche a te, astronauta. Che cosa bella sono i dubbi, sono degli amici che sembrano nemici, ma in verità ti dico che il nostro compito come studenti è quello di diventare amici dei dubbi».
Una straordinaria donna moderna
(Dora Russel Ipazia e la guerra tra i sessi)
di Francesca Magni ("Letto fra noi", 29 gennaio 2013)
«Se volessimo aggiungere qualcosa alle conquiste di coloro che vennero prima di noi, dovremmo dire che per noi adesso il corpo non è più un semplice contenitore per la mente, ma quel tempio di gioia e di estasi che, se lo vorremo, già racchiude il nostro futuro. Il compito fondamentale per il femminismo moderno, per me, è dunque quello di accettare e proclamare il sesso. Di seppellire per sempre la menzogna che per troppo tempo ha corrotto la nostra società, quella secondo la quale il corpo non è che un impaccio per la mente e che il sesso è solo un male necessario alla sopravvivenza della specie. Comprenderlo, donargli dignità e bellezza, conoscerlo anche su base scientifica, in luogo dell’istinto brutale e dello squallore, credo sarà la chiave di volta a colmare la breccia fra Giasone e Medea» (pag, 38).
Rompo il lungo silenzio su questo blog - e mi scuso di questo silenzio, e vi ringraizio per non esservene andati - con una citazione.
Vi invito a rileggere con una domanda: quando è stata scritta?
Difficile indovinare che parole così moderne siano uscite dalla penna di una donna nel 1925 ["Una stanza tutta per sè" di Virginia Woolf, è del 1929 - fls].
Dora Russell, seconda moglie del filosofo Bertrand Russell, ci regala cento pagine colme di saggezza senza tempo, di impegno politico e civile, di riflessioni mai abbastanza assimilate su una parità fra i sessi che nasca dal riconoscere una verità: siamo, uomini e donne, uguali a cominciare dal bisogno naturale di una vita sessuale che non reprima gli istinti ma sappia guidarli con educazione e intelligenza. «Gli amanti sanno che attraverso l’intesa sessuale ciascuno comprende meglio le qualità della mente dell’altro» dice, ed è una consapevolezza che non a tutti è dato raggiungere.
È un testo imprescindibile che mette una parola di verità su tutte le ciance da guerra dei sessi. Un libro da regalare a tutti, uomini e donne, a chi ha vissuto gli anni del femminismo e a chi viene dall’onda di ritorno della generazione successiva. A questa, alla quale appartengo, dedico un brano su cui non si è ancora riflettuto abbastanza.
«C’è dunque qualcosa di sbagliato nell’educazione delle donne, e nel caso che cosa? Penso proprio che dobbiamo rispondere affermativamente. E la ragione sta nel senso di inferiorità inculcato nelle donne da tanta oppressione, e il risultato inevitabile fu che il loro primo obiettivo, mentre combattevano dal basso, fosse quello di provare che valevano tanto quanto gli uomini. Il secondo fu invece di dimostrare che potevano spassarsela tranquillamente anche senza gli uomini. Esattamente come il lavoratore, avanzando nella scala sociale, cerca di provare a se stesso di essere un borghese. Entrambi gli sforzi sono sbagliati. Ciascuna classe ed entrambi i sessi hanno qualcosa di unico da dare al progresso, alla conoscenza, al pensiero di cui la comunità viene privata con questo scimmiottamento».
* Scritto da: Francesca Magni
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
REALTA’ E RAPPRESENTAZIONE. STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM") ... E INTELLETTUALI.
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
PETIZIONE*
Diretta a Roma Capitale
Questa petizione sarà consegnata a:
Roma Capitale
UNA PIAZZA PER IPAZIA
ANPI Trullo-Magliana Franco Bartolini *
Italia
Ipazia era una donna libera ed una libera pensatrice, simbolo della laicità, del sapere trasmesso per insegnamento e della libera ricerca scientifica, vittima dell’integralismo religioso, dell’opportunismo politico e della violenza dell’uomo sulla donna. Ipazia è stata una figura poliedrica la cui attualità risiede nel fatto che l’essere umano ha da sempre dovuto lottare per la propria libertà e identità.
Ipazia è stata filosofa neo-platonica, astronoma, matematica, nata ad Alessandria d’Egitto intorno al 360 d.C. Fu l’ultima discepola alessandrina dopo la distruzione della biblioteca e della scuola filosofica di Alessandria voluta dall’imperatore Teodosio nel 391. Ipazia continuò a insegnare e studiare sino al marzo del 415, quando su istigazione del vescovo Cirillo fu catturata dai monaci Parabolani, sue guardie personali e guidate dal vicevescovo Pietro il Lettore, accecata, lapidata, fatta a pezzi e bruciata.
Nel 2015 cade il sedicesimo centenario della sua morte e a Roma manca un luogo, un toponimo che la ricordi è per questo che i seguenti firmatari chiedono che venga intitolata a suo nome una piazza, o in alternativa una strada o altro luogo pubblico.
* PER FIRMARE: vai su -> change.org
Ipazia filosofa, matematica e astronoma martire civile del fanatismo cristiano
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 19.10.2013)
Accadde ad Alessandria d’Egitto, nel mese di marzo del 415 a.C.: una donna venne crudelmente assassinata, le sue carni fatte a brandelli, gli occhi cavati dalle orbite, i resti dati alle fiamme. L’assassino non era un marito o un amante tradito, un maniaco o un serial killer... A ucciderla fu una folla inferocita. Perché? La donna si chiamava Ipazia, ed era un’esponente di spicco dell’aristocrazia ellenica. Iniziata allo studio dal matematico Teone, suo padre, Ipazia insegnava matematica, astronomia e filosofia nella scuola platonica, di cui si dice fosse il capo. C’era chi diceva che la sua sapienza superava quella dei filosofi della sua cerchia. Una posizione eccezionale per una donna, ai tempi (e non solo). Ma non fu la misoginia la causa della sua morte. Si colloca invece all’interno dalla lotta che per secoli oppose paganesimo e cristianesimo.
A distanza di un secolo dall’Editto di Costantino che aveva concesso ai cristiani libertà di culto, il potere imperiale aveva dichiarato guerra ai culti pagani. Dal 319 il cristianesimo era religione di Stato, e le costituzioni imperiali arrivavano a stabilire la pena di morte per i pagani. Ad Alessandria, poi, il vescovo Cirillo si distingueva per un atteggiamento particolatamente violento e persecutorio. E al suo servizio agiva un gruppo di fanatici estremisti, i «parabalani», monaci del deserto egizio provenienti dalle file degli zeloti. Furono loro gli assassini di Ipazia. L’orrore e la bestiale crudeltà del massacro sconvolse il mondo della cultura dell’impero romano d’Oriente. E sconvolge ancora, dopo 1.500 anni.
di Luisa Muraro ("Alias”, 24 dicembre 2011)
Maria di Nazaret (Palestina) è tornata di moda. Dico tornata perché chi sa un po’ di storia religiosa la conosce come una figura che si è regolarmente prestata a interpretare esigenze del momento, provenienti dall’alto e dal basso, da destra e da sinistra.
La sua carriera comincia prestissimo, alle nozze di Cana, quando si accorge che manca il vino e chiede al figlio di provvedere. Il culmine lo raggiunge nel Concilio di Efeso, quinto secolo, quando i padri conciliari le danno il titolo di madre di Dio. Chi ha lottato per questo risultato?
Sorpresa, quel Cirillo di Alessandria al quale gli storici imputano una parte di responsabilità nell’uccisione della filosofa neoplatonica Ipazia. Cirillo era un politico spregiudicato,ma anche buon teologo. A lui interessava essenzialmente la dottrina su Gesù e la sua identità: doppia (uomo e dio) o una? Una, sosteneva Cirillo, quella divina; il titolo dato a Maria veniva di conseguenza. Non è finita lì, le peripezie continueranno, una storia in cui si trova di tutto, pensate soltanto alla Porta di Gaudí (la natività) nella Sagrada Familia di Barcellona, che fu concepita per recuperare alla religione le famiglie operaie.
La Maria di moda ai nostri giorni trionfa con il femminismo che combatte il patriarcato ancora annidato nella religione. Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico,ma anche le agnostiche si sono dedicate e strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti), che ha convocato una schiera di amici a commentare il canto che Luca mette in bocca a Maria. Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini.
Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni ’80, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso: memorabile quel numero della rivista “Inchiesta” (1989) da lei curato, Il divino concepito da noi, con numerosi testi mariani. Per i nostri giorni penso a Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente. Riaffiora a questo punto il titolo esorbitante dato a Maria dai padri conciliari di Efeso: madre di Dio. E perché non Dio lei stessa? La donna che dà corpo a Dio, come non vedere Dio nel suo, di lei, corpo? Mi pare che ci sia una sentenza dell’ex Sant’Uffizio che vieta di pensarlo, ma come fermare le idee? Solo la mediocrità e la paura fermano le idee, altrimenti premono per svilupparsi.
Teresa di Lisieux (una femminista, qualcuno ha scritto di lei) va in quella direzione. In una sua poesia di meditazione sulla Vergine che allatta Gesù, dice: il serafino contempla Dio faccia a faccia, beato lui, io su questa terra che cosa posso vedere? un’ostia bianca come il latte... Ecco che cosa io posso vedere e godere: il latte della Vergine. Cirillo, vescovo di Alessandria e padre della Chiesa, aveva altro in testa, indubbiamente, ma la umana testa, per quanto robusta, sarebbe limitata, la fa grande e libera che la teniamo aperta al soffio delle idee.
Il fisico Russo
Ma anche Euclide è un classico
[Intervista a c. di Luigi Dell’Aglio] *
Attenzione: la tendenza a dimenticare i classici, a lasciarli morire, sta danneggiando non solo la conoscenza umanistica ma la stessa conoscenza scientifica. Oggi sempre meno studenti sanno dimostrare teoremi e chi abbandona questa antica tradizione domani non sarà in grado di argomentare, cioè di ragionare, avverte Lucio Russo, professore all’Università di Roma Tor Vergata, che ha insegnato in Italia e a Princeton, negli Usa. Russo ha sperimentato personalmente come sia naturale e proficuo un continuo scambio fra i due saperi: ha lavorato diversi anni nella meccanica statistica e nel calcolo delle probabilità, poi nel 1991, affascinato dalla lettura di un classico - il trattato Sui galleggianti di Archimede (anche i grandi libri di scienza sono classici) - è passato d’impulso a studiare storia della scienza, ora il suo principale campo di ricerca.
Professore, storicamente l’"auctor classicus" era quello le cui opere costituivano un tale modello di eccellenza da essere studiate nelle scuole. È giusto che ora vengano isolate ed estromesse?
«I classici sono le opere in cui le idee radicate nella nostra cultura (che spesso finiscono con l’essere assorbite inconsapevolmente e acriticamente) appaiono in forma viva e consapevole. I classici, così intesi, sono fondamentali per la formazione del pensiero. Non perché trasmettano verità e valori perenni, come in genere si dice, ma, al contrario, perché permettono di esaminare criticamente, nella loro genesi, strutture concettuali e valori che ci sono familiari».
Esiste una sufficiente consapevolezza che difendere i classici significa difendere il libero esercizio del pensiero?
«Certo la lettura dei classici non può essere apprezzata da chi preferisce il conformismo e l’adesione passiva ai luoghi comuni. Le prospettive dei classici coincidono quindi in larga misura con quelle della cultura e del pensiero critico. Ora si sta abbassando il livello culturale della scuola e dell’università: queste rischiano di non fornire più né gli strumenti culturali necessari per comprendere i classici, né le motivazioni sufficienti per leggerli».
Oggi conoscenza scientifica e conoscenza umanistica combattono per ampliare (la prima) o per difendere strenuamente (la seconda) la propria sfera di influenza. Come sta cambiando il rapporto di forze tra i due saperi?
«A me sembra che cresca la pressione diretta a ridurre in generale lo spazio del sapere nelle scuole e nella società. L’impressione che la cultura umanistica sia sacrificata a vantaggio della cultura scientifica è un’illusione ottica di cui è vittima chi adotta un particolare punto di vista. Credo piuttosto che le discipline oggi vincenti, che hanno assunto un ruolo centrale nell’organizzazione degli studi, siano le tecniche di marketing e le arti della comunicazione. Il diminuito peso dei "classici" non colpisce solo il sapere umanistico. Tra i classici più importanti includerei gli Elementi di Euclide: l’opera ellenistica che, per ventidue secoli, ha trasmesso i fondamenti del metodo scientifico non solo ai futuri scienziati ma a tutti gli uomini di cultura. Quintiliano, nella Institutio oratoria, sosteneva che non si può diventare oratori se si è digiuni di geometria. A maggior ragione non vi è stato filosofo che non conoscesse il metodo dimostrativo usato in geometria. Oggi nessuno legge più Euclide; nello stesso tempo si sta spegnendo la tradizione di insegnare come si dimostrano i teoremi. Pesanti saranno le conseguenze sulle capacità di argomentare che avranno le nuove generazioni. Mi sembra questo un buon esempio di come sia pericoloso l’abbandono dei classici e di come il fenomeno colpisca in pieno anche le conoscenze scientifiche».
Ma quali teorie alimentano lo scontro?
«Direi che siano oggi vincenti due tendenze solo apparentemente contrapposte, che in realtà rappresentano due facce della stessa medaglia. Da una parte vedo uno scientismo ingenuo che nega la rilevanza di temi, come quelli etici ed epistemologici, non affrontabili con i soli metodi scientifici (ma che non possono neppure essere affrontati ignorando gli strumenti conoscitivi forniti dalla scienza). Dall’altra, un diffuso atteggiamento anti-scientifico. Questo, più che di teorizzazioni esplicite, vive del dilagare dell’ignoranza in materia scientifica, spesso esibita quasi con compiacimento. Mi piacerebbe pensare a un "nuovo umanesimo" che superasse questa contrapposizione recuperando, nell’ambito di una cultura unitaria, un pensiero scientifico critico. Ma non si tratterebbe certo di un umanesimo in conflitto con la scienza».
Dall’umanesimo prende corpo il metodo sperimentale della scienza moderna. Perciò lo scientismo, quando attacca il sapere umanistico e vuole limitarne lo spazio nella scuola, attacca anche Galileo.
«Credo che l’attacco scientista contro l’umanesimo nasca dall’ignoranza e debba essere respinto. È necessario però respingere, nello stesso tempo, una versione anti-scientifica della cultura umanistica, che in Italia ha una lunga e triste tradizione. Per essere più chiaro, penso che non sia esistito un solo umanesimo ma almeno due versioni della cultura umanistica. Una, che penso sia oggi superata, proponeva un modello di cultura (basato su classici come il De oratore di Cicerone) che assegnava una posizione centrale all’eloquenza e mirava soprattutto a formare dirigenti politici. A questi venivano trasmesse le virtù civiche descritte in opere letterarie e storiche latine. Tutt’altra cosa è la cultura di quegli intellettuali del Rinascimento che crearono la civiltà moderna basandola in larga misura sul recupero della filosofia e della scienza dei Greci. A questa cultura dobbiamo non solo capolavori artistici e letterari, ma anche la nascita della scienza galileiana. Si tratta di una cultura realmente unitaria, un approccio di cui abbiamo oggi bisogno anche per affrontare le questioni nuove poste dalla scienza e dalla tecnologia».
Lo scienziato, il tecnologo, il medico non possono agire secondo scienza e coscienza se hanno ricevuto un insegnamento esclusivamente specialistico...
«Sono convinto che la carenza di educazione umanistica avrebbe effetti gravi. Credo, in particolare, che il livello di consapevolezza epistemologica degli scienziati si sia abbassato nell’ultimo secolo, insieme con il livello di cultura filosofica di chi si dedica alla scienza. Se vengono ignorati i classici della scienza e della filosofia, si ridà spazio, tra gli scienziati, a tendenze filosofiche che direi arcaiche, come quelle neopitagoriche. Naturalmente gli eccessi dello "specialismo" non costituiscono un problema delle sole facoltà scientifiche. Mi sembra che le facoltà umanistiche ne siano colpite in misura simile, ma con effetti forse ancora più devastanti, proprio perché l’eccessivo specialismo mina alla base il senso stesso degli studi umanistici. Sarebbe utile e significativo che uno studente di fisica potesse seguire corsi di filosofia, ma mi sembrerebbe addirittura indispensabile, per un futuro studioso di filosofia della scienza o di storia della scienza, seguire corsi scientifici (e oggi può non accadere)».
Luigi Dell’Aglio
* Avvenire, 2010-05-26
La scienza di Ipazia e la violenza cristiana
Il film di Amenabar sulla filosofa del IV secolo trucidata da San Cirillo Non è Hollywood: è uno splendido affresco sull’intolleranza religiosa
di Alberto Crespi (l’Unità, 23.04.2010)
Non capitava da secoli. Si è parlato molto, in questi giorni, di Ipazia: filosofa e matematica, nonché donna attiva in politica nell’Egitto del IV secolo dopo Cristo provincia romana che, prima dell’Impero, era stata non a caso governata da una donna, Cleopatra. La memoria di Ipazia è da sempre parte integrante del «pantheon» femminista, ma stavolta il motivo scatenante è un film: Agorà, fuori concorso a Cannes 2009, solo ora sugli schermi italiani. E se da un lato il dibattito filosofico e scientifico ferve, dall’altro l’uscita del film è accompagnata da un assordante silenzio della Chiesa, che ha deciso di boicottare Agorà sui suoi mezzi di comunicazione.
Bisogna capirli, poveretti: hanno già troppi problemi, di questi tempi, per commentare un film che per altro racconta un’incontrovertibile verità storica. Ipazia, «pagana» non convertita, fu uccisa dai parabolani, la guardia armata del vescovo Cirillo. Costui, poi fatto santo e tutt’ora venerato come tale, era uno spietato uomo di potere i cui sgherri ammazzavano allegramente tutti coloro che rifiutavano di adeguarsi ai nuovi costumi. Nel film, i parabolani ricordano i talebani, e possiamo capire che per la Chiesa avere simili criminali fra i propri «padri» sia fonte d’imbarazzo.
ORBITE ELLITTICHE
Il film di Alejandro Amenabar (The Others, Il mare dentro) è molto bello. È un raro esempio di film spettacolare e speculativo al tempo stesso. Non date retta a chi lo liquida come un prodotto hollywoodiano: non lo è. Ipazia è interpretata dall’inglese Rachel Weisz, figlia di genitori austro-ungheresi, e la produzione è quasi totalmente spagnola. Negli Usa, per la cronaca, non è nemmeno uscito. Lavorando sulle immagini ricorrenti del cerchio e dell’ellissi (Ipazia potrebbe aver intuito, qualche secolo prima di Keplero, le orbite ellittiche dei pianeti), Amenabar realizza una «falsa biografia» di un’eroina sulla cui vita ben poco sappiamo. Più che di Ipazia, Agorà parla di un’epoca in cui le religioni si combattono con violenza per assicurarsi il dominio sulle menti dei semplici. Ipazia non era una donna semplice. Vedere il film significa aiutarla, ancora oggi, nella sua lotta per la ragione.
(...) Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo (...)
Sindrome Ipazia per la Chiesa del XXI secolo
di Nicla Vassallo (l’Unità, 25 aprile 2010)
Mentre sto leggendo per diletto e con interesse You’ve Changed: Sex Reassignment and Personal Identity, curato da Laurie J. Shrage (Oxford University Press, 2009, pp. 220) in cui undici autori discutono, tra l’altro, di abolizione del concetto di gender, ambiguità sessuali, artificialità, aspirazioni a mutare le proprie esistenze, autenticità, autonomia, autorità di prima persona, chirurgia, auto-conoscenza, costrizioni, etiche della trasformazione di sé, femminismi, genetica, genitalità, identità contestuali, nontransessualismo, normalità, preferenze sessuali, privacy, queer, schematicità, sesso, soggettività, stabilità, transessualità, transgender, transidentità, transizioni sesso/genere, ricado inaspettatamente su una cultura nostrana e qualcosa stona.
Già, mi sarei attesa che Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, motivasse quella sua infausta dichiarazione, stando a cui la recente vicenda «pedofilia» sarebbe stata trasformata in un vessillo polemico contro la Chiesa cattolica. Invece no, l’arcivescovo si picca di scrivere di «teoria del gender», dimentico che di teorie ve ne sono più d’una, in un articolo intitolato «Il riduzionismo punisce il corpo» (“Domenica”, Sole 24 Ore, 18 aprile): articolo minestrone in cui tutto si trova un po’ confuso con tutto, citando qualche testo qui e là, per volgarizzare il concetto di genere, far emergere l’usuale granitica fede nella differenza sessuale, contrabbandandola per dato di fatto naturale, terminare col biasimare l’aborto.
Consiglierei di cominciare col documentarsi, se non subito con You’ve Changed, perlomeno con due autorevoli voci della Stanford Encyclopedia of Philosophy, una sul riduzionismo in biologia (http://plato.stanford.edu/entries/reduction-biology/), l’altra sulle prospettive femministe a riguardo di sesso e genere (http://plato.stanford.edu/entries/feminism-gender/).
Banalmente, non fa comunque male rammentare che la natura è cosa ben più seria, al pari della biologia, di quanto l’arcivescovo ci inciti a immaginare: del resto, spetta alle scienze, non alle religioni, la descrizione di cos’è la natura, o cosa sono le nature, quelle sessuali incluse.
A turbarmi non è tanto il concetto in sé di appartenenza di genere (criticato da parecchie parti, l’arcivescovo dovrebbe saperlo, in quanto concetto normativo, che però farebbe gioco alla normatività clericale più di quel che si lasci trapelare), né il concetto di appartenenza sessuale (ripartirci assolutamente e mediocremente in femmine e maschi, punto e basta, risale ad «Adamo e Eva»), bensì quanto questi concetti (scientificamente da investigare) dominino oggi, senza riflessione, la cultura «popular», che da quella clericale pare attingere volentieri.
Qualche riga, tratta a caso dall’articolo, per dare un’idea del tono: «Il delta a cui si è approdati, coi multi-gender, post-gender, trans-gender e così via, rivela soprattutto una meta verso la quale si voleva tendere: superare la natura, ritenuta un fittizio stampo rigido e frigido». No, non mi pare che si tratti di un delta, semmai di una fluidità; sarà addirittura un precetto clericale l’identificazione della natura con la madre (madre natura), mentre quello della scienza col maschio (scienza maschia) non sempre è convenuto e conviene; a ogni buon conto, che sgraziato quel termine «frigido», tanto associato a una qualche «insensibilità» delle femmine nel rapporto sessuale coi maschi! Ma chissà che non venga utile per difendere quella differenza sessuale, inesauribile fonte di deleteri dualismi, sempre a danno delle donne: mascolino/femmineo, razionale/irrazionale, attivo/passivo, culturale/naturale, oggettivo/soggettivo, e via dicendo. Perché questo costante incaponirsi sulla differenza sessuale?
Come ho avuto modo di sostenere (Donna m’apparve, Codice Edizioni, 2009, p. 146), «è forse proprio il fine di circoscrivere il desiderio sessuale al rapporto eterosessuale che rende la differenza sessuale necessaria al desiderio sessuale, a partire dal presupposto che il rapporto sessuale deve essere finalizzato alla riproduzione, piuttosto che all’amore e alle varie rappresentazioni vissute che dell’amore si possono offrire».
Sempre bene esercitare il controllo sui desideri, sessuali e non: per esempio, sul desiderio di Ipazia di fare filosofia e scienza, la cui storia torna or ora in auge dopo secoli, in versione a sufficienza pop. Sebbene ne abbia scritto magistralmente su queste pagine Mariateresa Fumagalli il 13 aprile, mi piace ricordare che, per Giovanni Malala, Ipazia è «la celebre filosofa della quale si tramandano grandi cose» e che, seppur cancellata dalla storia (maschilista) della filosofia, un bel volumetto del 1690, Mulierum philosopharum historia, la celebra con la seguente descrizione di Niceforo: «Ipazia era disposta a offrire la sua conoscenza a tutti gli studiosi. Inoltre, quanti erano animati dall’amore per la filosofia si recavano da lei non soltanto per la sua onesta e profonda libertà nel parlare, ma anche perché si rivolgeva agli uomini di potere in modo onesto e prudente: e non sembrava cosa indecorosa che lei si trovasse in mezzo a un’assemblea di uomini. Tutti la trattavano rispettosamente per la sua straordinaria onestà di comportamento. Tutti provavano ammirazione nei suoi confronti, quando l’invidia si armò contro di lei».
Invidia di che? Di una donna «contro natura», in quanto capace di mettere a tacere con onestà intellettuale ogni teoria della differenza sessuale e ogni nocivo dualismo cui la differenza si presta. Sarà magari stata uccisa da uomini il cui fanatismo si doveva all’ignoranza, ma il mandante pare fosse Cirillo, patriarca di Alessandria d’Egitto, che meriterà la santificazione - pure lui ignorante?
Peraltro, contro Ipazia riescono a essere mosse le medesime (ingiuste) accuse rivolte a Socrate: corrompe le menti degli esseri umani con la sua razionalità, razionalità che mina l’ordine sociale, non crede nel giusto Dio e nella sacralità delle sue leggi - Dei nel caso di Socrate. Sconosciuta ai più fino a poco fa, ora in molti parlano, sanno, scrivono di Ipazia, spesso senza interrogarsi su quante Ipazia e quanti Socrate vengono ancor oggi condannati; per di più, altrettanto spesso, Ipazia viene usata, per rimbeccarsi l’un l’altro sui fondamentalismi, religiosi e non.
Lo scorso anno, invece, la Repubblica del 12 maggio, Natalia Aspesi, in un inciso sul Festival di Cannes, diceva: «Chissà cosa penseranno le filosofe femministe del ritratto di Ipazia interpretato da Rachel Weisz nel film di Amenabar Agora». Già, cosa ne pensano? Le filosofe della differenza sessuale non possono, per coerenza, che concordare con la Chiesa cattolica, mentre nel nostro paese le altre filosofe rappresentano una netta minoranza.
A PROPOSITO DI TEMPI BUI
Se è scontato che Gianfranco Ravasi, oltre a non trattare di pedofilia, eviti di nominare Ipazia, si rivela all’opposto curioso che nei giorni scorsi il Corriere della Sera abbia sollevato un dibattito sul femminismo in cui a Ipazia viene dedicato uno spazio in qualche senso indiretto, a partire proprio dall’articolo (del 17 aprile) di Susanna Tamaro, devota al mondo cattolico, che ci racconta di «tempi bui della repressione, della donna oggetto manipolata dai maschi e dai loro desideri, oppressa dal potere della Chiesa che, secondo gli slogan dell’epoca, vedeva in lei soltanto un docile strumento di riproduzione»; della «difesa della vita che sembra essere appannaggio, oggi come allora, solo della Chiesa, dei vescovi, di quella parte considerata più reazionaria e retriva della società». In sostanza: «Siamo passati... dalla falsa immagine della donna come angelo del focolare, che si realizza soltanto nella maternità, alla mistica della promiscuità».
Già, Ipazia non era né donna oggetto, né docile strumento di riproduzione, mentre la sua vita (lasciamo in pace quella degli embrioni) non è stata difesa da alcun vescovo, bensì (probabilmente) soppressa dalla guardia armata di un patriarca, reazionario e retrivo, senz’altro nei confronti dell’onesta razionalità androgina della filosofascienziata.
Né angelo del focolare, né dedita alla promiscuità, Ipazia non rientrava negli schemi rigidi e «frigidi» della Chiesa che da sempre categorizza le donne in donne-madonne e donne-maddalene, incessantemente sorda nei confronti dei tanti femminismi - e il nostro presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, se ne deve aggettivare uno, menziona ovviamente quello radicale. C’è un’etica della convinzione e un’etica della convenienza: a quest’ultima si deve l’assassinio d’Ipazia e di quanto Ipazia continua a rappresentare.
Il sesso, il gender, le femministe e la Chiesa cattolica
di Ritanna Armeni (il Riformista, 5 maggio 2010)
Che cosa diventerebbe il mondo senza i sessi? Che cosa potrebbe accadere se non ci fossero più maschi e femmine, ma solo “persone” nelle quali si incrociano e si incontrano caratteri femminili e maschili ma nessuno dei due è così assoluto da determinare una differenza incolmabile? Ed è questa un’eventualità reale? Sicuramente per molti è un fantasma, uno spettro pericoloso che distruggerebbe un pilastro “naturale” della vita e della storia degli esseri viventi (non solo degli umani) quello che li divide in maschi e femmine. Ed è un fantasma soprattutto per la Chiesa.
Di questo fantasma è dominato il libro - agile e intenso - di Giulia Galeotti “Gender - genere”. In esso si descrive con precisione, preoccupazione (e qualche esagerazione) la teoria femminista del Gender e i timori che provoca, le conseguenze gravi a cui - secondo l’autrice - si va incontro. Secondo questa teoria l’identità sessuale dell’uomo e della donna non sono il prodotto di una differenza biologica ma il frutto di cultura, costruzione sociale e rigida determinazione dei ruoli. Sono questi ad aver provocato la disuguaglianza fra i sessi e la conseguente costrizione della donna in un ruolo emarginato e subalterno. Devono quindi essere smantellati, ma insieme ad essi si chiede che sia cancellata anche la differenza sessuale.
Il “gender” - scrive Galeotti - si contrappone al sesso. Di sesso maschile e femminile possiamo nascere, ma questo non impedisce - se si eliminano gli ostacoli culturali - di divenire “un genere” che non coincide esattamente con esso. Così si può essere insieme donne e uomini, si può nascere donne e divenire uomini e viceversa. Oppure l’umanità potrebbe scivolare verso una neutralità sessuale.
Alla cultura del “genere” che ha acquistato un peso nella cultura planetaria e si è diffusa nelle organizzazioni internazionali si contrappongono due forze diverse, ma alleate: il femminismo della differenza e la Chiesa cattolica. Entrambe sono interessate a confermare la differenza fra i sessi e a contestare le teorie del genere. Entrambe pensano che la differenza femminile contenga una ricchezza che non contrasta con l’eguaglianza ma la potenzia e la arricchisce.
L’alleanza di cui parla Giulia Galeotti effettivamente esiste. Nella Mulieris dignitatem fu affermata da Giovanni Paolo II. «La donna nel nome della liberazione dal dominio dell’uomo - scriveva - non può tendere ad appropriarsi delle caratteristiche maschili, contro la sua propria originalità femminile. Esiste il fondato timore che su questa via la donna non si realizzerà, ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che costituisce la sua essenziale ricchezza. Si tratta di una ricchezza enorme...» E ancora «Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna dunque - come, del resto, anche l’uomo - deve intendere la sua realizzazione come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse, secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare dell’immagine e somiglianza di Dio».
Quella alleanza diventò evidente nel 2004 quando Benedetto XVI, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, nella sua lettera «sulla collaborazione fra uomo e donna» attaccò sia il femminismo paritario perché - scriveva - «sottolinea fortemente la condizione di subordinazione della donna allo scopo di suscitare un atteggiamento di contestazione» e poi una seconda tendenza del femminismo quella secondo cui «per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. L’oscurarsi della differenza o dualità dei sessi produce conseguenze enormi a diversi livelli. Questa antropologia, che intendeva favorire prospettive egualitarie per la donna, liberandola da ogni determinismo biologico, di fatto ha ispirato ideologie che promuovono, ad esempio, la messa in questione della famiglia, per sua indole naturale bi-parentale, e cioè composta di padre e di madre, l’equiparazione dell’omosessualità all’eterosessualità, un modello nuovo di sessualità polimorfa».
Le femministe gridarono alla svolta. Stupendosi e compiacendosi della cultura di colui che sarebbe diventato Benedetto XVI. Luisa Muraro, la più nota esponente del femminismo della differenza giudicò la lettera una «novità interessantissima» e «dirompente». Ratzinger, sentenziò, ha assunto e ha fatto proprio il pensiero della differenza. Ida Dominjanni sul Manifesto trovò nella lettera del cardinale «un ascolto del divenire storico, del mutamento innescato dalla rivoluzione femminile che va riconosciuto e incassato». Marina Terragni scrisse sul Foglio: «Nessun pensiero politico maschile oggi dialoga con il femminismo della differenza, come la Chiesa mostra di voler fare».
Il libro di Giulia Galeotti lascia però senza risposta alcune domande. Perché la Chiesa nei suoi ordinamenti istituzionali ha dato sempre alla donna un ruolo secondario facendo coincidere la differenza con la subordinazione e la relazione con l’abnegazione? Quando la teoria del gender è nata e poi si è sviluppata negli anni 70 a partire dal femminismo statunitense aveva poi tutti i torti a individuare nelle costruzioni sociali e culturali della femminilità l’origine di tanta discriminazione nei confronti delle donne? L’assenza di una donna-Papa per fare il più banale degli esempi, non è una delle dimostrazione di quanto quelle costruzioni sociali abbiano avuto cittadinanza anche nella Chiesa? La teoria del gender non era un passaggio storico necessario per arrivare a quella nuova libertà femminile che oggi può anche rivendicare la differenza? Una libertà femminile con cui persino la Chiesa che tanto ha contribuito nella storia alla costruzione sociale della donna “costola dell’uomo” oggi deve fare i conti? Insomma le teorie e le loro conseguenze sono importanti. Ma la storia e l’esperienza lo sono altrettanto.
Intorno all’“Agorà”. Ipazia, una donna per la libertà
di Gabriella Caramore (Adista - Segni Nuovi - n. 36 del 1 maggio 2010)
La figura di Ipazia - matematica, astronoma e filosofa greca, massacrata nel V sec. dal fanatismo
della prima Chiesa cristiana - continua ad affascinare e a essere oggetto di studio. Ora che la sua
storia, raccontata dal regista Alejandro Almenábar nel film campione d’incassi, “Agorà”, dopo
mesi di ritardo arriva finalmente nelle sale italiane (dal 23 aprile), fioccano le iniziative di
approfondimento.
Un incontro a Roma (Palazzo Mattei, 14 aprile scorso), in collaborazione con
l’Istituto Treccani, ha visto la partecipazione dello storico Luciano Canfora, del filosofo Giulio
Giorello, della giornalista Gabriella Caramore (conduttrice e curatrice della trasmissione
radiofonica “Uomini e Profeti”), e della bizantinista Silvia Ronchey. Di seguito il testo
dell’intervento di Gabriella Caramore.
(...) La storia dell’intreccio tra Chiesa e potere è lunga, lo sappiamo, quasi duemila anni, frastagliata, diversamente composta e ricomposta. Non ho nessuna pretesa di farne qui una sintesi. E inoltre andrebbe ripercorsa sui due fronti: quello della laicità e quello della fede, quello di Cesare e quello di Dio.
Quello che, personalmente, più mi interessa, è cogliere la “tragedia” - non potrei chiamarla diversamente - consistita nel legame stretto stabilitosi tra la Chiesa e l’Impero: la tragedia di una comunità [o più comunità] di dispersi e perseguitati che, aggrappandosi alle vesti ormai a brandelli dell’Impero, ne accoglie e asseconda l’istanza di egemonia e di dominio. Ma, così facendo, nega, cancella e tradisce la parola di libertà e di benedizione per le genti dalla quale era sorta. Nella storia di Ipazia prende forma l’intreccio di un potere religioso e un potere politico che si danno la mano (siamo a quasi un secolo dalla svolta di Costantino) per stroncare la libertà della ricerca e la bellezza della conoscenza.
Naturalmente è doveroso pensare che le cose non siano state così schematiche. Da una parte Chiesa e potere, dall’altra il puro e libero sapere. Molteplici tensioni erano in gioco, poliedrici interessi. (...) Ma quello che colpisce è che il grande passo è stato compiuto: quella che era una ecclesìa di poveri e umiliati, di smarriti e diseredati, di mansueti e fiduciosi nella misericordia di Dio e non nel trionfo del mondo, si mette dalla parte dei potenti, si arroga il diritto di imporre la propria verità, fa valere con la violenza la propria egemonia, baratta con la prepotenza l’umile adesione a una vicenda di sconfitta.
Non dobbiamo essere “manichei” nel giudizio. Sappiamo quale scommessa, quale salto nel buio sia uscire da uno stato di minorità per sopravvivere. Tutti i movimenti sovversivi della storia, nati come movimenti di liberazione, ce lo hanno mostrato. (...) Sappiamo anche che sarebbe troppo semplicistico ribaltare il giudizio di secoli di storia che hanno visto nei grandi padri fondatori della Chiesa - da Ambrogio a Giovanni Crisostomo ad Agostino - delle persone dal retto giudizio sul mondo, ribaltarlo giudicandoli spietati persecutori delle minoranze oppresse. (...) Ma quello che non possiamo non vedere - e che anche la Chiesa di oggi, forse, dovrebbe considerare - è che stringendosi, con un patto, al potere la Chiesa ha vinto nel mondo, ma ha perso nel Regno (se così si può dire).
Tutte le parole dell’Evangelo, e la vicenda stessa della croce, narrano di una vita che deve essere perduta se la si vuole salva (Matteo 16,25; Marco 8,35; Luca 9,24; 16,33); di una opzione per avere la postazione “ultima” nelle graduatorie del potere (Matteo 20,16; Marco 10,31; Luca 13,30); di una adesione ai poveri, agli afflitti, ai miti, a quelli che hanno fame e sete della giustizia, ai misericordiosi, ai puri di cuore, agli operatori di pace, ai perseguitati per causa della giustizia, agli insultati (Matteo 5,3-11; Luca 6,12-13.20).
Nel momento in cui la Chiesa capovolge questa “logica” di Gesù - che è una logica capovolta rispetto ai valori del mondo -, nel momento in cui si fa “prima” e siede sui troni del potere, in questo momento inizia la sua “crisi”. Non una crisi rispetto alla mondanità, ma una crisi rispetto alla “evangelicità”. Inizia la sua fatica, la sua contraddittorietà, che dura ancora oggi, a vivere nella sequela del Cristo.
Gesù di Nazareth non ha mai taciuto di fronte alla menzogna, non ha mai preteso egemonie, si è lasciato condurre al macello come “pecora muta” senza mai aggrapparsi a poteri mondani. Il cristianesimo - non la cristianità nella sua storia, ma la parola cristiana nella sua sorgività - è una religione della libertà. Gesù ha predicato la libertà dalla menzogna, la libertà dal potere, la libertà dai vincoli familiari, la libertà dall’ossequio al tempio. Sposando l’Impero la Chiesa ha “tradito” questo impegno di libertà e si è immessa in un traiettoria ambigua, di cui stenta a disegnare i contorni.
Di Ipazia si dice che era bellissima, sapiente, capace di scrutare negli spazi stellari, inventrice di strumenti di misurazione e quindi versata nella speculazione e nella sperimentazione, indomabile nell’amore di conoscenza. Non dobbiamo fare l’errore di pensare che fosse l’unica donna sapiente nel suo tempo e nel suo ambiente. E altrettanto sbagliato sarebbe far risalire la misoginia della Chiesa alla fonte evangelica che - nonostante le parole dell’apostolo Paolo, ancora oggi citate a testimonianza di una sottomissione della donna -, testimonia di una straordinaria accoglienza nei confronti dell’universo femminile.
(...) Ma non c’è dubbio che il suo essere donna, sapiente, bellissima era un pericolo troppo grande per l’ottusità, l’arroganza, la menzogna. Era “troppo”, Ipazia. Troppo simbolicamente eversiva, pur nell’assoluta innocuità, troppo vistosamente rappresentativa per non personificare un bottino succulento. Una donna che rifiuta di obbedire senza convinzione. Questo è stato intollerabile.
In un poemetto del 1978, Il Libro di Ipazia, Mario Luzi tratteggia Ipazia con modalità che mi sembra possano corrispondere a quelle di una figura di profezia. Vittima di fanatismi incrociati, martire - testimone - dell’amore per la bellezza e per la conoscenza, per la giustizia e per il sapere.
Profezia è fenomeno che ha avuto espressioni diverse nelle diverse culture. Biblicamente, il profeta è colui che parla la voce di Dio (che parla “al posto” di Dio). Anche il mondo greco ha avuto i suoi profeti, coloro che parlavano con parresìa, con franchezza, in amore di verità, in spregio del pericolo, a costo della loro vita, perché la comunità fosse salva. Ipazia non ha divinità da ascoltare. Parla a nome di se stessa. Nessun dio le appare immune dagli attributi di idolo che l’essere umano gli conferisce. E tuttavia anche Ipazia è in ascolto di una voce che le impone di dire la verità, di fare verità, e di esprimersi in piena e totale libertà. Anche Ipazia, come i profeti, viene fatta selvaggiamente e esemplarmente sparire - sminuzzata, quasi a dimostrare quanto poteva essere calpestata la voce della verità - cercando di sprofondarla nel silenzio. Ma dove le persone tacciono le pietre continuano a gridare (Luca 19,40). E le pietre e i manoscritti bruciati ad Alessandria hanno continuato a gridare. Si è cercato di farli tacere. Più volte. Ma il loro grido è tornato a risuonare.
(...) Se dovessimo dare una parola “moderna” alla tenace insistenza di Ipazia dovremmo usare, credo, la parola “responsabilità”. Fare buon uso - dare una buona risposta - di ciò che ha ricevuto in dono: fare un buon uso, nella prospettiva delle comunità, della sapienza, della bellezza, della conoscenza.
Ipazia è figura del dubbio, della perplessità, della ricerca. Ma la sua storia cade in un momento in cui dubitare è vietato. Occorrono opzioni certe. Occorre scegliere il proprio campo, schierarsi con chi e contro chi combattere. Tutti i poteri totalitari si sono imposti in questo modo. Ma qui, in questo angolo di mondo, in una Alessandria che perde la sua prerogativa di società plurale, ha inizio anche, o si consolida, la monoliticità della Chiesa cristiana. E un mondo che annaspa per non affondare affonda nella barbarie e nella crudeltà per non saper cambiare.
Ipazia, la congiura dei mediocri
In attesa di Agorà, ecco chi era la filosofa che diresse la scuola neoplatonica
Era ascoltata dal popolo e consultata dai potenti: per questo fu uccisa
di Giovanni Ghiselli (il Fatto, 22.04.2010)
Sta per uscire Agorà, il film di Amenábar su Ipazia, una donna di grande levatura uccisa nel 415 d. C. da monaci fanatici detti parabalani, un’orda sanguinaria istigata al massacro dal vescovo Cirillo di Alessandria d’Egitto. Aspettando l’opera cinematografica, scopriamo chi era questa martire del pensiero. Utilizzerò fonti antiche: la Storia Ecclesiastica di Socrate Scolastico, le Epistole di Sinesio, un discepolo di Ipazia, neoplatonico e pure cristiano illuminato, che divenne vescovo di Tolemaide e morì poco prima di lei, rimpiangendone lo “spirito divinissimo”, poi un epigramma di Pallada, un maestro allontanato dalla scuola in quanto non cristiano, tutti contemporanei di Ipazia. Inoltre, la Vita di Isidoro di Damascio, ultimo scolarca dell’Accademia neoplatonica di Atene, fatta chiudere da Giustiniano nel 529. Gli autori sono concordi nel presentare Ipazia come intelligente, bella, generosa.
All’inizio del V secolo Alessandria era un centro commerciale e culturale tra i più importanti dell’impero romano d’Oriente e pure una città turbolenta per la presenza di tre gruppi religiosi che si facevano guerra: ebrei, cristiani e pagani. Ma vediamo i testi a partire dall’epigramma di Pallada: “Quando ti osservo, mi prostro davanti a te e alle tue parole,/vedendo la casa astrale della vergine,/infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto/Ipazia sacra, bellezza delle parole,/astro incontaminato della cultura”.
Ipazia nacque intorno al 370. Suo padre Teone le insegnò le scienze matematiche. La discepola divenne presto più brava del maestro. Diresse la scuola neoplatonica. Era ascoltata dal popolo e consultata dai potenti per la magnifica libertà di parola, per il fatto che era dialettica nei suoi discorsi e per le sue competenze matematiche, geometriche, astronomiche e filosofiche. Per tali motivi suscitò invidia, l’anima della congiura dei mediocri contro l’individuo eccezionale. La mente del complotto era Cirillo: la venerazione e il prestigio che pretendeva come capo della religione vincente, andavano a una pagana, a una femmina!
Il rancore divenne pernicioso, per Ipazia, quando l’iniquo prelato vide una ressa di uomini davanti alla casa di lei. Motivi sessuali non c’erano: Damascio racconta che la donna era vergine, sebbene facesse innamorare molti, e, addirittura, a un uomo malato d’amore, “gettò una delle pezze usate per il mestruo e gli disse: questo tu ami, giovane, niente di bello”. Cirillo “si rodeva a tal punto che tramò la sua uccisione, fra tutte la più empia”. Si può dire di Ipazia quanto P. B. Shelley scrisse dell’eroina di Sofocle: “Che sublime ritratto di donna! Alcuni fra noi, in una precedente esistenza, si sono innamorati di un’Antigone: ecco perché non troveranno mai completa soddisfazione in un legame mortale!”.
Ma torniamo ad Alessandria. Negli anni precedenti l’imperatore Teodosio “il Grande” aveva fatto distruggere gli edifici ellenici del culto e della cultura, e aveva promosso una serie di provvedimenti giuridici avversi al paganesimo. Teofilo, vescovo della città dal 385 al 412, un uomo violento, aveva eseguito con sadica sollecitudine, e Cirillo ne fu il degno erede e prosecutore, fino alla morte (444). Quindi venne proclamato Santo e Padre della Chiesa. Costui detestava Ipazia che parlava nell’agorá, liberamente, culturalmente e politicamente. Il suo magistero rappresentava una resistenza alla volontà di cancellare il pensiero e l’arte dei Greci.
Il vescovo non sopportava che Ipazia fosse la stella polare per tanti, a partire dal prefetto augustale Oreste, odiato anche lui dalla gerarchia ecclesiastica al punto che uno dei parabalani, Ammonio, lo ferì gravemente, colpendolo in testa con una pietra. Questo sicario venne processato secondo la legge e lasciato morire sotto tortura. Quindi Cirillo ne fece collocare il corpo in una chiesa, ne cambiò il nome in Thaumasios (ammirevole) e lo encomiò quale martire della religione cristiana. Sembra prefigurare il bandito della Magliana sepolto con i pii prelati. Nel 415 l’impero d’Oriente era retto da Pulcheria, figlia di Arcadio e nipote di Teodosio: ebbene costei era alleata di Cirillo. Ciò nondimeno “i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da Ipazia”, racconta Damascio. Cirillo bruciava di odio implacabile.
Vediamo la morte di Ipazia. Tornano in azione le squadracce che avevano tentato di uccidere Oreste. “Siccome ella si incontrava spesso con Oreste, l’invidia mise in giro la calunnia che fosse lei a non permettere che il prefetto si riconciliasse con il vescovo. Allora alcuni uomini infiammati si appostarono per sorprendere la donna mentre tornava a casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa denominata Cesario.
Qui, strappatale la veste, la uccisero con dei cocci (ostrákois). Dopo che l’ebbero fatta a pezzi membro a membro, cancellarono ogni traccia di lei con il fuoco”. Fu attuata una forma inaudita, violentissima, di ostracismo. “Questo-conclude Socrate Scolastico procurò biasimo non piccolo a Cirillo e alla Chiesa di Alessandria ”. Un biasimo santo che si rinnova con il film Agorà. Con l’assassinio di Ipazia si chiuse un’epoca. Oramai i templi degli dèi e della cultura pagana, in primis il Serapeo con le sue biblioteche, erano stati distrutti, oppure snaturati come il Cesario trasformato in cattedrale cristiana, e Alessandria era stata svuotata della sua vita culturale, privata dei suoi studiosi, ammazzati o costretti alla fuga.
g.ghiselli@tin.it
.Ieri a Milano la serata dedicata alla filosofa e al film
Umberto Eco, ipazia e Benedetto XVI *
MILANO. Umberto Eco e Vito Mancuso contro Papa Ratzinger. L’occasione è il dibattito su Agora, il film di Alejandro Amenàbar (nelle sale da venerdì) dedicato a Ipazia, la scienziata filosofa del IV secolo d.C. assassinata da una setta di fanatici cristiani. Loro cattivo maestro, se non mandante dell’omicidio fu il vescovo Cirillo, poi fatto santo e Padre della Chiesa. Ma Benedetto XVI, ricorda con triste ironia il teologo Mancuso, quando tre anni fa celebrò in udienza generale la figura di Cirillo, non trovò altre che queste laconiche, reticenti parole: «Governò per 32 anni con grande energia...». Alla faccia dell’energia, incalza Eco: «È come se uno storico rievocando Pio XII ignorasse il suo controverso atteggiamento nei confronti dell’Olocausto».
Trecento persone affollano la Sala delle Colonne della Banca Popolare di Milano. Molti sono rimasti fuori. Introduce Giancarlo Bosetti, direttore di Reset: «Da laico, dico che tutte le religioni hanno un versante violento, maligno, fanatico. Quello di cui fu vittima Ipazia». Tra i relatori, Franco Tatò, presidente di Mikado (distribuisce il film in Italia), la classicista Eva Cantarella, la medievalista Maria Teresa Fumagalli. Eco ricorda la "fortuna critica" di Ipazia: divise il mondo antico, fu dimenticata nel Medioevo, risorse nell’Ottocento illuminista come cavallo di battaglia dei laici anticlericali, martire del libero pensiero protofemminista: «Anche per questo il mondo cristiano l’ha cancellata, il che è sbagliato. Ma forse anche i laici hanno esagerato nel volerla trasformare in una specie di Giordano Bruno».
Il film, avverte Eco, «è bellissimo, a dispetto di numerose licenze e anacronismi». Un esempio? «E’ estremamente improbabile che Ipazia abbia potuto pensare alla ellitticità delle orbite planetarie tanto tempo prima di Keplero e dell’invenzione del cannocchiale».
Ancora Eco, sull’incontro-scontro, nel film, tra il prefetto Oreste e il vescovo Cirillo: «Oreste è cristiano, ma da laico rifiuta di inginocchiarsi di fronte a Cirillo. Vi invito a osservare questa scena ripensando alla storia politica italiana del dopoguerra, all’atteggiamento di De Gasperi nei confronti della Chiesa». Sottinteso: e alle odierne genuflessioni di tanti politici cattolici e atei devoti. Anche Mancuso loda il film, ma ne critica gli eccessi ideologici: «Sembra costruito sulla tesi che tutte le religioni sono intolleranti».
Replica il regista: «È pieno di licenze storiche, questo è vero. Ma non è antireligioso. Il messaggio è un altro: come la ragione possa essere distrutta dal fondamentalismo».
* la Repubblica, 21.04.2010
FILOSOFARE AL FEMMINILE
di Umberto Eco *
La vecchia affermazione filosofica per cui l’uomo è capace di pensare l’infinito mentre la donna dà senso al finito, può essere letta in tanti modi: per esempio che siccome l’uomo non sa fare i bambini, si consola coi paradossi di Zenone. Ma sulla base di affermazioni del genere si è diffusa l’idea che la storia (almeno sino al Ventesimo secolo) ci abbia fatto conoscere grandi poetesse e narratrici grandissime, e scienziate in varie discipline, ma non donne filosofe e donne matematiche.
Su distorsioni del genere si è fondata a lungo la persuasione che le donne non fossero portate alla pittura, tranne le solite Rosalba Carriera o Artemisia Gentileschi. È naturale che, sino a che la pittura era affresco di chiese, montare su un’impalcatura con la gonna non era cosa decente, né era mestiere da donna dirigere una bottega con 30 apprendisti, ma appena si è potuta fare pittura da cavalletto le donne pittrici sono spuntate fuori. Un poco come dire che gli ebrei sono stati grandi in tante arti ma non nella pittura, sino a che non si è fatto vivo Chagall.
È vero che la loro cultura era eminentemente auditiva e non visiva, e che la divinità non doveva essere rappresentata per immagini, ma c’è una produzione visiva di indubbio interesse in molti manoscritti ebraici. Il problema è che era difficile, nei secoli in cui le arti figurative erano nelle mani della Chiesa, che un ebreo fosse incoraggiato a dipingere madonne e crocifissioni, e sarebbe come stupirsi che nessun ebreo sia diventato papa.
Le cronache dell’Università di Bologna citano professoresse come Bettisia Gozzadini e Novella d’Andrea, così bella che doveva tenere lezione dietro un velo per non turbare gli studenti, ma non insegnavano filosofia. Nei manuali di filosofia non incontriamo donne che insegnassero dialettica o teologia. Eloisa, brillantissima e infelice studente di Abelardo, aveva dovuto accontentarsi di divenire badessa.
Ma il problema delle badesse non è da prendere sottogamba, e vi ha dedicato molte pagine una donna-filosofo dei nostri tempi come Maria Teresa Fumagalli. Una badessa era un’autorità spirituale, organizzativa e politica e svolgeva funzioni intellettuali importanti nella società medievale. Un buon manuale di filosofia deve annoverare tra i protagonisti della storia del pensiero grandi mistiche come Caterina da Siena, per non dire di Ildegarda di Bingen che, quanto a visioni metafisiche e a prospettive sull’infinito, ci dà del filo da torcere ancora oggi.
L’obiezione che la mistica non sia filosofia non tiene, perché le storie della filosofia riservano spazio a grandi mistici come Suso, Tauler o Eckhart. E dire che in gran parte la mistica femminile dava maggior risalto al corpo che non alle idee astratte sarebbe come dire che dai manuali di filosofia deve scomparire, che so, Merleau-Ponty.
Le femministe hanno da tempo eletto a loro eroina Ipazia che, ad Alessandria, nel quinto secolo, era maestra di filosofia platonica e di alta matematica. Ipazia è diventata un simbolo, ma purtroppo delle sue opere è rimasta solo la leggenda, perché sono andate perdute, e perduta è andata lei, fatta letteralmente a pezzi da una turba di cristiani inferociti, secondo alcuni storici sobillati dal quel Cirillo di Alessandria che, anche se non per questo, è stato poi fatto santo.
Ma c’era solo Ipazia?
Meno di un mese fa è stato pubblicato in Francia (da Arléa) un librettino, ’Histoire des femmes philosophes’. Se ci si chiede chi sia l’autore, Gilles Ménage, si scopre che viveva nel diciassettesimo secolo, era un latinista precettore di Madame de Sévigné e di Madame de Lafayette e il suo libro, apparso nel 1690, s’intitolava ’Mulierum philosopharum historia’.
Altro che la sola Ipazia: anche se dedicato principalmente all’età classica, il libro di Ménage ci presenta una serie di figure appassionanti, Diotima la socratica, Arete la cirenaica, Nicarete la megarica, Iparchia la cinica, Teodora la peripatetica (nel senso filosofico del termine), Leonzia l’epicurea, Temistoclea la pitagorica, e Ménage, sfogliando i testi antichi e le opere dei padri della chiesa, ne aveva trovate citate ben sessantacinque, anche se aveva inteso l’idea di filosofia in senso abbastanza lato. Se si calcola che nella società greca la donna era confinata tra le mura domestiche, che i filosofi piuttosto che con fanciulle preferivano intrattenersi coi giovinetti, e che per godere di pubblica notorietà la donna doveva essere una cortigiana, si capisce lo sforzo che debbono avere fatto queste pensatrici per potersi affermare. D’altra parte, come cortigiana, per quanto di qualità, viene ancora ricordata Aspasia, dimenticando che era versata in retorica e filosofia, e che (teste Plutarco) Socrate la frequentava con interesse.
Sono andato a sfogliare almeno tre enciclopedie filosofiche odierne e di questi nomi (tranne Ipazia) non ho trovato traccia. Non è che non siano esistite donne che filosofassero. È che i filosofi hanno preferito dimenticarle, magari dopo essersi appropriati delle loro idee.
* "Bustina di Minerva" - L’espresso, 2004