RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO"
di Leonardo Boff (Da Adista del 9 ottobre 2000 n. 70)*
DOC-1002. RIO DE JANEIRO-ADISTA. "Con questo documento il timido card. Ratzinger appare come lo sterminatore del futuro dell’ecumenismo": così il teologo della liberazione Leonardo Boff commenta la dichiarazione del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, "Dominus Iesus" (v. Adista n. 64/00). La strategia del documento vaticano, spiega il teologo, è la stessa di tutti gli altri totalitarismi: del nazi-fascismo, come dello stalinismo, come delle dittature latino-americane. Il principio di fondo è: "la verità è solo dentro il sistema", il metodo: "convertire gli altri o sottometterli, demoralizzarli o distruggerli". "Questo metodo lo conosciamo bene in America latina, fu applicato minuziosamente dai primi missionari spagnoli" che vennero a colonizzare le società indigene, e le "distrussero con la croce unita alla spada".
Perché tanta arroganza? Dove ha radici questo fondamentalismo senza pietà? Chiede Boff. Sicuramente non nel messaggio di Cristo. Piuttosto nella manipolazione delle Sacre Scritture ad uso e consumo di questa ideologia totalitaria, su cui la gerarchia vaticana, come mostra chiaramente "Dominus Iesus", ha costruito il proprio "esclusivo edificio di salvezza". Di seguito il testo che ci ha mandato Leonardo Boff, in una nostra traduzione dal portoghese.
Mentre si avvicina la conclusione dei festeggiamenti per i duemila anni di cristianesimo, il card. Ratzinger ci saluta con un documento dottrinario del quale dobbiamo ringraziarlo. In esso, senza maschera né sotterfugi, si espone la visione che una parte della Chiesa, la gerarchia vaticana, possiede circa la rivelazione, il progetto di Dio in Cristo, la natura della Chiesa, il dialogo ecumenico e interreligioso.
Adesso tutti, uomini e donne di buona volontà, persone religiose e spirituali, Chiese cristiane e tutti i fedeli sanno quello che devono aspettarsi dalla Chiesa gerarchica vaticana rispetto al futuro del dialogo micro e macroecumenico. Questo futuro è spaventoso, ma assolutamente coerente con il sistema che la Chiesa gerarchica vaticana ha elaborato negli ultimi due secoli e che ora ha raggiunto la sua più pietrificata espressione. È il sistema romano, ferreo, implacabile, crudele e senza pietà.
1. L’inaudita aggressività di un cardinale timido
In un’unica formula, picaresca ma autentica, ecco il riassunto della sua opera: "Cristo è l’unica via di salvezza e la Chiesa è il pedaggio esclusivo. Nessuno percorrerà il cammino se prima non pagherà il pedaggio". Altrimenti formulato: "Cristo è il telefono ma solo la Chiesa è la telefonista. Tutte le comunicazioni di corta e lunga distanza passano necessariamente attraverso di lei". Chiesa e Cristo formano "un unico Cristo totale" (n. 16), perché, "così come esiste un solo Cristo, esiste un solo corpo e una sola sua Sposa, una sola Chiesa cattolica e apostolica" (n. 16). Fuori della mediazione della Chiesa, tutti, inclusi "gli adepti di altre religioni, oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria" (n. 22).
Con enfasi, si dice, citando il Catechismo della Chiesa Cattolica: "Non dobbiamo credere in nessuno se non in Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo" (n. 7).
Perché questo riduzionismo? Qui comincia ad articolarsi il sistema romano, il romanismo, a partire dal "carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo" (n. 4). Possono passare millenni, possono gli esseri umani emigrare in altri pianeti o galassie, fino al giudizio finale la storia è ingessata, poiché non si avrà nessuna novità in termini di rivelazione: "non si dovrà attendere alcuna nuova rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa di Nostro Signore Gesù Cristo" (n. 5).
Il sistema è completo, chiuso e totale, tutto è proprietà privata della Chiesa (gerarchia vaticana) che deve estenderlo al mondo intero. Che dirà agli esseri umani, anche fra milioni di anni di evoluzione e di incontro spirituale con Dio, e agli altri cristiani che non sono cattolici-romani?
Le risposte sono chiare e senza titubanze, autentiche stilettate di pugnale nel petto dei destinatari: a voi, persone religiose del mondo, membri di religioni anche più antiche del nostro cristianesimo (come il buddismo o l’induismo), annuncio questa desolante verità: voi non avete "fede teologale", a mala pena possedete "credenza"; le vostre dottrine non sono cosa dello Spirito ma sono cose che "l’uomo nella sua ricerca della verità ha ideato". Se possiedono degli elementi positivi, "ad essi non può essere attribuita l’origine divina", né sono vostri, sono nostri perché "ricevono dal mistero di Cristo gli elementi di bontà e di grazia in essi presenti" (n. 8).
E voi, Chiese ortodosse che possedete gerarchia e eucarestia, voi siete appena "Chiese particolari, senza la piena comunione perché non accettate il primato del Papa" (n. 16).
E voi, Chiese evangeliche, uscite dalla Riforma, e le altre sorte in un secondo tempo, ascoltate bene questa sentenza: "non siete Chiese in senso proprio" (n. 17), siete "comunità separate", "il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità che fu affidata alla Chiesa cattolica" (n. 17).
E ora ascoltate tutti quello che il Concilio Vaticano II ha sentenziato e noi riaffermiamo: l’"unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato il compito di diffonderla tra tutti gli uomini" (n. 23). Sappiate che unicamente in questa è la verità. Tutte le persone sono obbligate a cercare la verità che altro non è se non Cristo e la Chiesa. Una volta conosciuta, voi siete obbligati ad aderire ad essa, perché al di fuori di questa verità tutti voi siete irrimediabilmente nell’errore.
In fondo, questo documento, espressione suprema di totalitarismo, dirà a tutti, in modo crudele e impietoso: senza Cristo e la Chiesa voi tutti non possedete niente di vostro; se, per ventura, avete qualche elemento positivo, non è vostro ma di Cristo e della Chiesa. A voi non resta altra strada se non la conversione. Fuori della conversione c’è solo il rischio oggettivo della perdizione.
Dopo tale pronunciamento, per noi mortali, impegnati nel micro e nel macro ecumenismo, una cosa è chiara: qualsiasi iniziativa del Vaticano in quest’area nasconde una farsa e prepara un’esca. Gli appelli che il documento fa alla continuità del dialogo non sono propriamente sui contenuti religiosi, ma sul rispetto delle persone, uguali in dignità, ma assolutamente disuguali in termini di condizioni oggettive di salvezza. Con queste tesi il timido cardinal Joseph Ratzinger è apparso come lo sterminatore del futuro dell’ecumenismo.
Come si è giunti a questo sistema totalitario, il romanismo, che fa tante vittime e che produce un discorso di esclusione e di disperazione?
2) Il capitalismo gerarchico romano
Questo tipo di discorso non è specifico del romanismo ma di tutti i totalitarismi contemporanei: del nazi-fascismo, dello stalinismo, del settarismo religioso, dei regimi latino-americani di sicurezza nazionale, del fondamentalismo del mercato e del pensiero unico neoliberista.
Il sistema è totalitario e chiuso in se stesso, nel caso della Chiesa gerarchica vaticana, un "totatus" ("totalitarismo") come dicevano i teologi cattolici critici verso l’assolutismo dei papi. La realtà comincia e termina là dove comincia e termina l’ideologia totalitaria. Non esiste nulla oltre il sistema. Ad esso tutti devono sottomettersi, come dice il documento di Ratzinger, in "pieno ossequio dell’intelletto e della volontà", "dando il proprio assenso volontario" (n. 7).
La verità è solo "intrasistemica". Solo quelli che obbediscono al sistema partecipano dei benefici della verità che è la salvezza. Tutti gli altri sono in errore. Chi pretende di possedere da solo la verità assoluta è condannato all’intolleranza verso tutti gli altri che non sono in essa. La strategia è sempre la stessa, in tutti questi totalitarismi: convertire gli altri o sottometterli, demoralizzarli e distruggerli.
Questo metodo lo conosciamo bene in America Latina. Fu applicato minuziosamente dai primi missionari spagnoli che vennero in Messico, nei Caraibi e in Perù con l’ideo-logia assolutista romana. Considerarono false le divinità delle religioni indigene e una pura invenzione umana le loro dottrine. E li distrussero con la croce unita alla spada.
I lamenti dei saggi aztechi riecheggiano fino ad oggi: "Avete detto che i nostri dei non erano veri. È nuova questa parola che dite. A causa sua siamo danneggiati, a causa sua siamo molestati. Ascoltate, signori: non fate al nostro popolo cosa che gli rechi disgrazia e che lo faccia morire, non possiamo stare tranquilli" (Miguel León Portilla, "La conquista dell’America Latina vista dagli indios", Vozes, Petrópolis 1987, 21-22). I maya piangevano singhiozzando: "Addoloriamoci, perché sono arrivati (gli spagnoli cristiani). Sono venuti a far marcire i fiori. Perché vivesse il loro fiore hanno distrutto e inghiottito il nostro fiore. Castrare il sole: questo sono venuti a fare qui. Questo Dio "vero" che viene dal cielo parlerà solo di peccato, solo sul peccato sarà il suo insegnamento. Ci hanno insegnato la paura" (León-Portilla, op. cit. 60-62).
Il card. Ratzinger potrà immaginare quello che un pio presbiteriano, che lavora con gli indigeni all’interno della selva amazzonica, o un monaco taoista, immerso nella sua contemplazione, proveranno quando, in un qualsiasi incontro interreligioso, verrà detto loro che non hanno fede o che non sono Chiesa, che in sé non possiedono nulla di divino e di positivo, e se lo possiedono è solo a causa di Cristo e della Chiesa? Così umiliati e offesi hanno motivo di piangere come gli aztechi e i maya. Il loro lamento arriverà fino al cuore di Dio che sempre ascolta il grido degli oppressi, senza la mediazione non necessaria della Chiesa. Ma poiché sono giusti e saggi, di sicuro sorrideranno solamente di fronte a tanta arroganza, a tale mancanza di rispetto e tale assenza di spiritualità riguardo ai percorsi di Dio nella vita dei popoli.
La strategia del documento vaticano obbedisce alla stessa logica dei citati totalitarismi: va dalla demoralizzazione e dalla svalutazione fino alla completa negazione del valore teologico delle convinzioni degli altri. Distrugge tutti i fiori del giardino non-cattolico e religioso perché resti, sovrano e solitario, solo il fiore della Chiesa cattolica romana. E tutto con l’invocazione di Dio, di Cristo e della rivelazione divina, peccando allegramente contro il secondo comandamento della Legge di Dio che proibisce di usare il santo nome di Dio invano, o per coprire interessi meramente umani.
Come si è giunti a questa rigidità fondamentalista e senza pietà? Non vogliamo riassumere l’indagine storica, fatta dai migliori storici ed esegeti cattolici che il card. Ratzinger conosce bene avendoli studiati a Frisinga, Bonn, Tubinga e Regensburg: dalla comunità fraterna degli inizi del cristianesimo si è arrivati per ragioni storiche, comprensibili ma non giustificabili, alla società ecclesiastica piramidale e disuguale. Nei primi secoli, fino a dopo l’anno mille, il popolo cristiano partecipava del potere della Chiesa-comunità dei fedeli nelle decisioni e nell’elezione dei suoi ministri secondo l’antico adagio: "tutto quello che riguarda tutti deve essere da tutti discusso e deciso". In seguito il popolo cominciò ad essere a malapena consultato, ed infine totalmente emarginato ed espropriato della capacità che in origine possedeva. Così nella Chiesa è sorta una innegabile divisione e disuguaglianza: una gerarchia che tutto sa, tutto insegna, tutto discute e tutto decide al di sopra di una massa di fedeli depotenziata e destituita, che deve obbedire e aderire totalmente alla gerarchia.
Questa realtà è in sé perversa e contraria al significato originario del messaggio di Gesù. Per renderla accettabile entrano in funzione i meccanismi di legittimazione. La gerarchia vaticana elabora una corrispondente teologia con l’obiettivo di giustificare, rafforzare e socializzare il suo potere. Per rendere questo potere irriformabile, intoccabile e assoluto gli attribuisce un’origine divina, quando in verità è una produzione storica e frutto di un processo implacabile di espropriazione.
Per ottenere tale "faraonismo" la gerarchia vaticana mise mano alla manipolazione di decreti e alla falsificazione del famoso Testamento di Costantino, fino ad istituire con Gregorio VII nel 1075, con il suo "Dictatus Papae" (la Dittatura del Papa), il potere assoluto del papato in formule come queste: "Il papa è l’unico uomo al quale tutti i prìncipi baciano i piedi (questo valeva fino alla metà di questo secolo, con Pio XII); la sua sentenza non deve essere corretta da nessuno e lui solo può correggere quella di tutti; egli non deve essere giudicato da nessuno". Alla fine con Pio IX, infelicemente beatificato di recente, il papa fu proclamato infallibile nel suo magistero, potendo decidere tutto "da sé e senza il consenso della Chiesa".
A partire da questa ideologia totalitaria si leggono le Scritture e si estrapola da queste ciò che serve a fondamento di questa dottrina ideata dalla sete di potere, spiritualizzando prospettive contrarie o semplicemente riducendole al silenzio. Anche le più essenziali. Il documento del card. Ratzinger continua questo metodo senza una benché minima sottigliezza, come ci si sarebbe potuto aspettare da uno che è stato un tempo un teologo di riconosciuta competenza.
Occorre ricordare che il Gesù storico fu vittima di un sistema assolutista simile, architettato da scribi e farisei che, in nome di quell’assolutismo, rigettarono Gesù come falso profeta, nemico della verità, belzebù, traditore delle tradizioni e seduttore del popolo. Gesù replica loro, e lo stesso diremo al card. Ratzinger: "in verità, annullate così la Parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte" (Mc 7,13); "a causa delle tradizioni voi non insegnate il precetto di Dio" (Mt 15,3).
Cos’è che il card. Ratzinger non insegna in nome di tradizioni spurie?
3) Errori teologici che rendono inaccettabile il documento vaticano.
Il card. Ratzinger non insegna l’essenza del cristianesimo, senza la quale nulla si sostenta e vana è l’intera argomentazione del documento. Tra le altre cose essenziali, due sono le più gravi: non annuncia la centralità dell’amore, né predica l’importanza decisiva dei poveri. Sono completamente assenti dal suo documento.
Per Gesù e per tutto il Nuovo Testamento l’amore è tutto (Mt 22, 38-39) perché Dio è amore (1 Gv 4,8-16) e solo l’amore salva (Mt 25,34-37), amore che deve essere incondizionato (Mt 5,44). Niente di questo si legge nel documento cardinalizio. Parla solo di verità rivelate e della fede teologale come piena adesione ad esse. E sa bene il cardinale che la fede da sola non salva, poiché come dicono tutti i Concilii, salva solo la fede "informata d’amore" (fides charitate informata). È un silenzio clamoroso, comprensibile solo in chi non possiede un’esperienza spirituale, non si incontra con il Dio-comunione di persone divine, non ama Dio né il prossimo, ma aderisce solo pigramente alle verità scritte e astratte. Per il fatto che il testo non rivela nessun amore, mostra anche di non amare nessuno che non sia il proprio sistema. Anzi, senza compassione o sforzo di comprensione, offende e distrugge il credo degli altri.
Più ancora, come aggravante, in nessun momento si riferisce ai poveri. Per Gesù e per tutto il Nuovo Testamento il povero non è un tema fra gli altri. È il luogo a partire dal quale si scopre il vangelo come buona notizia di liberazione ("beati i poveri") e funziona come criterio finale di salvezza o di dannazione.
A nulla vale appartenere alla Chiesa romano-cattolica, possedere l’intero arsenale degli strumenti di salvezza, sottomettersi con mente e cuore al sistema gerarchico, accogliere tutte le verità rivelate. Se non avessi l’amore "non sarei niente" (1 Cor 15,2). Se non avessimo amore per gli affamati, gli assetati, gli ignudi, i forestieri e i prigionieri nessuno, né io, né il card. Ratzinger potremmo udire le parole delle Beatitudini: "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo" (Mt 25,34); perché "ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me" (Mt 25,45). La questione del povero è così essenziale all’eredità di Gesù che quando Paolo andò a Gerusalemme a definire la sua dottrina con gli apostoli, questi gli ricordarono l’attenzione verso i poveri (Gal 2,10).
La tradizione teologica della Chiesa ha sempre argomentato correttamente: dove sta Cristo, lì sta la Chiesa; Cristo è nei poveri; quindi la Chiesa è (deve essere) nei poveri. Non solo nei poveri laboriosi e buoni, ma nei poveri puramente e semplicemente per il solo fatto che sono poveri. Essendo poveri, hanno meno vita e perciò sono i primi destinatari del Vangelo e dell’intervento liberatore del Dio della vita. Nessuna risonanza di questo annuncio di libertà e di compassione troviamo nel vile documento vaticano. Sulla questione dei poveri si potrebbe inaugurare un ecumenismo aperto e fecondo con tutte le Chiese, le religioni, le tradizioni spirituali e le persone di buona volontà.
Nell’amore incondizionato e nei poveri si trova la centralità del messaggio di Gesù e non nel ragionamento ideologico messo su dal documento del cardinale. C’è nel documento una forma di negazione del Dio vivo che solo gli ecclesiastici realizzano: parlare di Dio, della sua rivelazione e della sua grazia senza mostrare nessuna compassione verso i poveri e verso gli offesi. Non parlano del Dio di Gesù che ascolta il grido degli oppressi e scende per liberarli (Esodo 3,4), ma di un feticcio ecclesiastico che l’uomo "ha ideato" (n. 7) nella sua brama di potere. Non senza motivo l’immagine di Dio che emerge dal documento è quella di un Dio funereo che è morto da molto tempo ma che ha lasciato come testamento frasi, raccolte nel Nuovo Testamento, con le quali la gerarchia vaticana costruisce un edificio di salvezza esclusivo per che vi vuole entrare.
Ma ci sono altre insufficienze gravi di teologia che occorre denunciare:
Il documento offende il Verbo che "illumina ogni persona che viene al mondo" (Gv 1,9) e non solo i battezzati e i romano-cattolici.
Il documento bestemmia contro lo Spirito che "soffia dove vuole" (Gv 3,8) e non solo sopra coloro che sono legati agli schemi del cardinale. Gesù enfatizza che "i veri adoratori che il Padre desidera, devono adorarlo nello Spirito e nella verità" e non solo in Roma (Gerusalemme) o Garizim (Cracovia) (Gv 4,21-23), vale a dire tutte le persone aperte alla dimensione spirituale e sacra dell’universo, manifestazione della presenza del Mistero divino, il cui culmine è l’incarnazione.
Il documento si fa gioco degli esseri umani negando loro l’essenza del messaggio di Gesù, cioè l’amore incondizionato e la centralità dei poveri e degli oppressi. Al suo posto, offre loro un indigesto menù di citazioni arrangiate per giustificare le discriminazioni e le disuguaglianze prodotte contro la volontà manifesta di Gesù che ha proibito a chiunque di farsi chiamare maestro o padre (papa è l’abbreviazione di padre dei padri: pater-patrum = papa) o di considerarsi il più grande o di mettersi al primo posto, "perché voi siete tutti fratelli e sorelle" (Mt 23,6-12).
La gerarchia romana ha bisogno urgentemente di conversione perché possa trovare il suo posto nella totalità del popolo di Dio e come servizio dentro la comunità di fede. Essa non è una fazione, ma una funzione della Chiesa-comunità di fedeli e di servizi. Il documento è anni luce dall’atmosfera di giovialità e di benevolenza propria dei Vangeli e della gesta di Cristo. È un testo di scribi e farisei e non di discepoli di Gesù, un testo privo di virtù umane e divine più destinato a giudicare, a condannare e ad escludere che a valorizzare, comprendere ed includere come nella prima alleanza che Dio ha stabilito con la vita e l’umanità, simbolizzata dall’arcobaleno. Ratzinger non vuole la molteplicità dei colori nell’unità dello stesso arcobaleno, ma solo il predominio imperativo del colore nero, quello della triste gerarchia vaticana.
4) L’ecumenismo passa per Ginevra e non per Roma
Con questo documento il card. Ratzinger ha costruito la tomba per l’ecumenismo nella prospettiva della gerarchia vaticana. Possiede il merito di distruggere tutte le illusioni. A partire da ora non possiamo contare sulla gerarchia vaticana per cercare la pace spirituale e religiosa dell’umanità. Al contrario, per il suo capitalismo accentratore della verità divina, per l’arroganza con cui tratta tutti gli altri, il cristianesimo gerarchico romano costituisce il più grande bastione reazionrio, maschilista e di totalitarismo ideologico oggi esistente. Ma la gerarchia romana non è l’intera Chiesa né rappresenta l’intera gerarchia ecclesiastica mondiale. In seno alla gerarchia ci sono cardinali, arcivescovi, vescovi e presbiteri che seguono il cammino evangelico del reciproco apprendistato, del dialogo aperto e della sincera ricerca della pace religiosa, che risiede nell’esperienza radicale del Mistero che si vela e rivela lungo tutta la storia dell’universo e dell’umanità e prende corpo, ogni volta in modo singolare, nelle religioni e nel cristianesimo. Ma questo non è il cammino sostenuto da Roma. Al contrario, è sospettato di relativismo e condannato.
Se il Vaticano continua nel suo atteggiamento escludente, l’ecumenismo cristiano non passerà più per Roma, ma per Ginevra, sede del Consiglio Mondiale delle Chiese. Lì si perpetua l’eredità di Gesù, aperta alle dimensioni dello Spirito che riempie la terra e scalda i cuori dei popoli e delle persone.
Poiché il documento di Ratzinger è frutto di un sistema chiuso e ferreo, non mostra nessuna sensibilità verso la realtà che va al di là di esso. È il rospo che vive nel fondo del pozzo e non sa nulla degli universi che ci sono al di fuori. Un documento che guarda al dialogo religioso mondiale dovrebbe mostrare la pertinenza e la rilevanza che tale dialogo ha per la drammatica situazione che attraversano la Terra e l’umanità. Niente di questo rientra nel piano del documento.
Il senso del dialogo ecumenico ed interreligioso non si esaurisce nella gestazione della pace religiosa. Esso è ordinato alla costruzione della giustizia e della pace tra i popoli e alla salvaguardia di tutto il creato. Stiamo camminando verso un’unica società mondiale. Questa geosocietà ha il volto del Terzo mondo perché quattro miliardi di persone su sei, secondo i dati della Banca mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, vivono al di sotto della linea di povertà. Chi asciugherà le lacrime di questi milioni di vittime? Chi ascolta il grido che viene dalla terra ferita e dalle tribù della terra, affamate ed escluse?
Il documento non ha orecchie per queste tribolazioni. Chi è sordo al grido degli oppressi non ha niente da dire a Dio e niente da dire in nome di Dio. Il cristianesimo rappresentato dal card. Ratzinger non è globalizzabile, è espressione della faccia più oscura dell’Occidente che sempre più diventa danno. Il suo documento chiude il secondo millennio in un tipo di cristianesimo che non deve essere prolungato se si crede nel Mistero di Dio che si rivela nella storia, nell’amore di Gesù Cristo il cui significato e messaggio non vuole escludere né sminuire nessuno, nella comunione con le altre Chiese cristiane che portano avanti la memoria di Gesù e nel rispetto degli altri cammini religiosi e spirituali attraverso cui Dio ha sempre visitato tutti gli esseri umani nella salvezza e nella grazia.
Nel millennio che si inaugura, si farà un nuovo ecumenismo cattolico come quello che si sta facendo in importanti settori della gerarchia che si sono convertiti al suo significato evangelico di servizio e animazione della fede, nella base della Chiesa e nelle comunità cattoliche e cristiane; ecumenismo fondato sulla spiritualità e sulla mistica dell’incontro vivo con lo Spirito e il Risorto, a servizio degli uomini e delle donne, cominciando dai più poveri e penalizzati, in comunione e in dialogo con altri portatori di spiritualità. È missione di tutti suscitare ed animare la fiamma sacra del Divino e del Mistero che arde dentro ogni cuore e nell’universo intero. Senza questa fiamma sacra non salveremo la vita né garantiremo un futuro di speranza per la famiglia umana e la casa comune, la Terra. Per questo motivo ogni ecumenismo è desiderabile, ogni sinergia imprescindibile. E Roma dovrà un giorno, post Ratzinger locutum, unirsi a questo compito messianico.
*
www.ildialogo.org/Ratzinger/ecumenismo.htm#t1
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
L’APOSTOLO ASTUTO MENTITORE, SENZA GRAZIA ("CHARIS") E SENZA AMORE ("CHARITAS")! UNA NOTA SULL’OPERAZIONE DI SAN PAOLO:
LA LEZIONE DI FREUD: "MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA". INDICAZIONI PER UNA RILETTURA
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO - La politica nobiliare del Regno d’Italia 1861-1946. Actes du colloque de Rome, 21-23 novembre 1985 (Giorgio Rumi)
Doc.:
A) Testo latino
B) Testo italiano
COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
42. « Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine [132]. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
* PAOLO VESCOVO
SERVO DEI SERVI DI DIO
UNITAMENTE AI PADRI DEL SACRO CONCILIO
A PERPETUA MEMORIA
ANTROPOLOGIA "CATTOLICA" E PEDAGOGIA "PAOLINA": "ECCE HOMO" ("Come si diventa ciò che si è").
APPUNTI SUL TEMA DELLA IDENTIFICAZIONE DEL SACERDOTE E DEI CREDENTI CON LA FIGURA DI CRISTO:
Alcuni paragrafi dalla "Lettera del Santo Padre Francesco sul ruolo della letteratura nella formazione, 04.08.2024"
"1. Inizialmente avevo scritto un titolo riferito alla formazione sacerdotale, ma poi ho pensato che, analogamente, queste cose si possono dire circa la formazione di tutti gli agenti pastorali,come puredi qualsiasi cristiano. Mi riferisco al valore della lettura di romanzi e poesie nel cammino di maturazione personale. [...]
13. Che cosa ha fatto Paolo? Egli ha compreso che la “letteratura scopre gli abissi che abitano l’uomo, mentre la rivelazione, e poi la teologia, li assumono per dimostrare come Cristo giunge ad attraversarli e a illuminarli”. In direzione di questi abissi, la letteratura è dunque una “via d’accesso”, che aiuta il pastore a entrare in un fecondo dialogo con la cultura del suo tempo.
14. Prima di approfondire le ragioni specifiche per le quali è da promuovere l’attenzione alla letteratura nel cammino di formazione dei futuri sacerdoti, mi sia concesso richiamare qui un pensiero circa il contesto religioso attuale: «Il ritorno al sacro e la ricerca spirituale che caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui. Ma più dell’ateismo, oggi abbiamo di fronte la sfida di rispondere adeguatamente alla sete di Dio di molta gente, perché non cerchino di spegnerla con proposte alienanti o con un Gesù Cristo senza carne». L’urgente compito dell’annuncio del Vangelo nel nostro tempo richiede, dunque, ai credenti e ai sacerdoti in particolare l’impegno a che tutti possano incontrarsi con un Gesù Cristo fatto carne, fatto umano, fatto storia. Dobbiamo stare tutti attenti a non perdere mai di vista la “carne” di Gesù Cristo: quella carne fatta di passioni, emozioni, sentimenti, racconti concreti, mani che toccano e guariscono, sguardi che liberano e incoraggiano, di ospitalità, di perdono, di indignazione, di coraggio, di intrepidezza: in una parola, di amore.
15. Ed è proprio a questo livello che un’assidua frequentazione della letteratura può rendere i futuri sacerdoti e tutti gli agenti pastorali ancora più sensibili alla piena umanità del Signore Gesù, in cui si riversa pienamente la sua divinità, e annunciare il Vangelo in modo che tutti, davvero tutti, possano sperimentare quanto sia vero ciò che dice il Concilio Vaticano II: «in realtà solamentenel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo». Ciò non vuol dire il mistero di un’umanità astratta, ma il mistero di quell’essere umano concreto con tutte le ferite, i desideri, i ricordi e le speranze della sua vita. [...]
23. Che cosa, allora, guadagna il sacerdote da questo contatto con la letteratura? Perché è necessarioconsiderare e promuovere la lettura dei grandi romanzicome una componente importante dellapaideiasacerdotale? Perché è importante recuperare e implementare nel percorso formativo dei candidati al sacerdozio l’intuizione, delineata dal teologo Karl Rahner, di un’affinità spirituale profonda tra sacerdote e poeta? [...]
41. Confido di aver evidenziato, in queste brevi riflessioni, il ruolo che la letteratura può svolgere nell’educare il cuore e la mente del pastore o del futuro pastore in direzione di un esercizio libero e umile della propria razionalità, di un riconoscimento fecondo del pluralismo dei linguaggi umani, di un ampliamento della propria sensibilità umana, e infine di una grande apertura spirituale per ascoltare la Voce attraverso tante voci. [...]
43. La potenza spirituale della letteratura richiama, da ultimo, il compito primario affidato da Dio all’uomo: il compito di “nominare” gli esseri e le cose (cfr.Gn2, 19-20). La missione di custode del creato, assegnata da Dio ad Adamo, passa innanzitutto proprio dalla riconoscenza della realtà propria e del senso che ha l’esistenza degli altri esseri. Il sacerdote è anche investito di questo compito originario di “nominare”, di dare senso, di farsi strumento di comunione tra il creato e la Parola fatta carne e della sua potenza di illuminazione di ogni aspetto della condizione umana. [...]
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 17 luglio dell’anno 2024, dodicesimo del mio Pontificato. FRANCESCO"
(Lettera..., cit., ripresa parziale, senza le note).
Federico La Sala
ARTE E STORIOGRAFIA: "IL POLITTICO DELL’#AGNELLO MISTICO", UN MANIFESTO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DEL CATTOLICESIMO EUROPEO.
"Il Polittico dell’Agnello Mistico, o Polittico di #Gand, è un’opera monumentale di Jan van Eyck (e del misterioso Hubert van Eyck), dipinta tra il 1426 e il 1432 per la cattedrale di San Bavone a Gand, dove si trova tutt’oggi. Si tratta di un polittico apribile composto da dodici pannelli di legno di quercia, otto dei quali sono dipinti anche sul lato posteriore, in maniera da essere visibili quando il polittico è chiuso. La tecnica usata è la pittura a olio e le misure totali sono 375x258 cm da aperto. [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Polittico_dell%27Agnello_Mistico ):
Per una contestualizzazione di questo straordinario "testo", forse, è proprio necessario ri-#leggere il lavoro di Johan #Huizinga, "L’autunno del Medioevo" (Sansoni Editore, I ed. it. 1940): "Il desiderio di conoscere - egli scrive nella "Prefazione alla prima edizione dell’opera" del 1919 - un po’ meglio l’arte dei van Eyck e dei loro successori, in stretto rapporto colla vita di quel tempo, m’indusse a scrivere questo libro". Su quanto sia importante il risultato di tale sforzo, è bene ricordare gli anni della metà del Quattrocento con le sue tensioni riformistiche di tipo teologico-politico all’interno della Chiesa e i crescenti attacchi del mondo musulmano: del 1453 è la caduta di #Costantinopoli).
CORPO MISTICO DI #CRISTO. PER COGLIERE IL SENSO SIMBOLICO DEL #SACRIFICIO DELL’«AGNELLO MISTICO», occorre richiamare il tema (e il problema) delle #indulgenze (che darà il via alla #RiformaProtestante), e chiarire, con lo stesso Huizinga, "la dottrina del «thesaurus ecclesiae» o tesoro delle opere superogatorie di Cristo e dei santi. L’idea di tale tesoro, di cui è partecipe ogni credente, come membro del corpo mistico di Cristo, cioè della Chiesa, è molto antica, ma la dottrina che tali buone opere costituiscano una riserva inesauribile, che può essere distribuita dalla Chiesa e più precisamente dal papa, fa la sua comparsa solo nel secolo XIII. [...]. La dottrina si diffuse non senza opposizioni, finché trovò la sua perfetta enunciazione ed illustrazione nella bolla papale «Unigenitus» di Clemente VI nel 1343. In essa il tesoro è considerato come un capitale, che Cristo affidò a S. Pietro e ai suoi discepoli [...]".
FILOLOGIA AL SERVIZIO (DELLE ORECCHIE) DEI #MERCANTI, IL PROBLEMA DELL’#UNO (IN FILOSOFIA TEOLOGIA E POLITICA), E LA #QUESTION #HAMLETICA DELLA "PACE PERPETUA" (#KANT2024).
QUALE #FUTURO DELLE NAZIONI E DELLO STESSO #PIANETATERRA? DIO E’ AMORE ("DEUS #CHARITAS EST" (1 Gv. 4, 8-16) O "DIO E’ MAMMONA (" DEUS #CARITAS EST")?!
STORIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA: il "#SAPEREAUDE! (KANT, 1784) E LA FIGURA DEL "#CAPO" DEL "CORPO MILITARE" DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA...
A omaggio della tradizione critica (e cristica) dell’Europa, in particolare dello Spirito del messaggio evangelico (1 Gv. 1), ricordo la frase (in onore, oggi, #17gennaio) di Sant’#AntonioAbate (https://lnkd.in/e_HR5Cxw ): "Nulla potrà separarmi dalla #Carità di Cristo" (Rm 8,35-39) e, al contempo, che la #Parola "Charitas" dice della #grazia e di una Relazione d’Amore, non di una relazione militare e proprietaria di un "#Dominus" (un "#Vir", un #Signore) con il "corpo mistico" di tutti i suoi sacri "soldati", sottoposti al suo #giogo e ai suoi "ordini":
Non è il caso e il tempo di "non fare orecchie di mercante" e di risolversi dalla rovinosa "caduta" nel letargo filosofico e filologico di lunga durata? Se non ora, quando?
Dichiarazione dottrinale apre alle benedizioni per coppie “irregolari”
Con “Fiducia supplicans” del Dicastero per la Dottrina della Fede, approvata dal Papa, sarà possibile benedire coppie formate da persone dello stesso sesso ma al di fuori di qualsiasi ritualizzazione e imitazione delle nozze. La dottrina sul matrimonio non cambia, la benedizione non significa approvazione dell’unione *
Di fronte alla richiesta di due persone di essere benedette, anche se la loro condizione di coppia è “irregolare”, sarà possibile per il ministro ordinato acconsentire. Ma evitando che questo gesto di prossimità pastorale contenga elementi anche lontanamente assimilabili a un rito matrimoniale. È quanto afferma la dichiarazione Fiducia supplicans sul senso pastorale delle benedizioni, pubblicata dal Dicastero per la Dottrina della Fede e approvata dal Papa. Un documento che approfondisce il tema delle benedizioni, distinguendo tra quelle rituali e liturgiche, e quelle spontanee più assimilabili ai gesti della devozione popolare: proprio in questa seconda categoria si contempla ora la possibilità di accogliere anche coloro che non vivono secondo le norme della dottrina morale cristiana ma umilmente chiedono di essere benedetti. Era dall’agosto di 23 anni fa che l’ex Sant’Uffizio non pubblicava una dichiarazione (l’ultima fu nel 2000 Dominus Jesus), documento dall’alto valore dottrinale.
“Fiducia supplicans” si apre con l’introduzione del prefetto, il cardinale Victor Manuel Fernández, il quale spiega che la dichiarazione approfondisce il «significato pastorale delle benedizioni», permettendo «di ampliarne e arricchirne la comprensione classica» attraverso una riflessione teologica «basata sulla visione pastorale di Papa Francesco». Una riflessione che «implica un vero sviluppo rispetto a quanto è stato detto sulle benedizioni» fino ad ora, arrivando a comprendere la possibilità «di benedire le coppie in situazioni irregolari e le coppie dello stesso sesso, senza convalidare ufficialmente il loro status o modificare in alcun modo l’insegnamento perenne della Chiesa sul matrimonio».
Un cuore di pastore che non chiude mai la porta 18/12/2023 Un cuore di pastore che non chiude mai la portaLa Dichiarazione che apre alla possibilità di semplici benedizioni alle coppie "irregolari", l’atteggiamento di Gesù e il magistero di Francesco Dopo i primi paragrafi (1-3), dove si ricorda il precedente pronunciamento del 2021 che ora viene approfondito e superato, la dichiarazione presenta la benedizione nel sacramento del matrimonio (par. 4-6) dichiarando «inammissibili riti e preghiere che possano creare confusione tra ciò che è costitutivo del matrimonio» e «ciò che lo contraddice», per evitare di riconoscere in qualunque modo «come matrimonio qualcosa che non lo è». Si ribadisce che secondo la «perenne dottrina cattolica» sono considerati leciti solo i rapporti sessuali nell’ambito del matrimonio tra un uomo e una donna.
Un secondo ampio capitolo del documento (par. 7-30) analizza il senso delle diverse benedizioni, che hanno per destinazione persone, oggetti di devozione, luoghi di vita. Si ricorda che «da un punto di vista strettamente liturgico», la benedizione richiede che quanto viene benedetto «sia conforme alla volontà di Dio espressa negli insegnamenti della Chiesa». Quando con un apposito rito liturgico «si invoca una benedizione su alcune relazioni umane», occorre che «ciò che viene benedetto sia in grado di corrispondere ai disegni di Dio iscritti nella Creazione» (11). Dunque la Chiesa non ha il potere di conferire una benedizione liturgica alle coppie irregolari o formate da persone dello stesso sesso. Ma si deve evitare il rischio di ridurre il senso delle benedizioni soltanto a questo punto di vista, pretendendo per una semplice benedizione «le stesse condizioni morali che si chiedono per la ricezione dei sacramenti» (12). Dopo aver analizzato le benedizioni nella Scrittura, la dichiarazione offre una comprensione teologico-pastorale. Chi chiede una benedizione «si mostra bisognoso della presenza salvifica di Dio nella sua storia», perché esprime «una richiesta di aiuto a Dio, una supplica per poter vivere meglio» (21). Questa richiesta va accolta e valorizzata «al di fuori di un quadro liturgico» quando ci si trova «in un ambito di maggiore spontaneità e libertà» (23). Guardandole nella prospettiva della pietà popolare, «le benedizioni vanno valutate come atti di devozione». Per conferirle non occorre pertanto richiedere «una previa perfezione morale» come precondizione.
Approfondita questa distinzione, sulla base della risposta di Papa Francesco ai dubia dei cardinali pubblicata lo scorso ottobre, che invitava ad un discernimento sulla possibilità di «forme di benedizione, richieste da una o più persone, che non trasmettano una concezione errata del matrimonio» (26), il documento afferma che questo tipo di benedizioni «si offrono a tutti, senza chiedere nulla, facendo sentire alle persone che rimangono benedette nonostante i loro errori e che «il Padre celeste continua a volere il loro bene e a sperare che si aprano finalmente al bene» (27).
Ci sono «diverse occasioni nelle quali le persone si avvicinano spontaneamente a chiedere una benedizione, sia nei pellegrinaggi, nei santuari, ed anche per strada quando incontrano un sacerdote», e tali benedizioni «sono rivolte a tutti, nessuno ne può essere escluso» (28). Dunque, rimanendo il divieto di attivare «procedure o riti» per questi casi, il ministro ordinato può unirsi alla preghiera di quelle persone che «pur in una unione che in nessun modo può essere paragonata al matrimonio, desiderano affidarsi al Signore e alla sua misericordia, invocare il suo aiuto, essere guidate a una maggiore comprensione del suo disegno di amore e verità» (30).
Il terzo capitolo della dichiarazione (par. 31-41) apre dunque alla possibilità di queste benedizioni, che rappresentano un gesto verso coloro che «riconoscendosi indigenti e bisognosi del suo aiuto, non rivendicano la legittimazione di un proprio status, ma mendicano che tutto ciò che di vero di buono e di umanamente valido è presente nella loro vita e relazioni, sia investito, sanato ed elevato dalla presenza dello Spirito Santo» (31). Tali benedizioni non vanno normate, ma affidate al «discernimento pratico in una situazione particolare» (37). Sebbene si benedice la coppia ma non l’unione, la dichiarazione include tra ciò che è benedetto i rapporti legittimi tra le due persone: nella «breve preghiera che può precedere questa benedizione spontanea, il ministro ordinato potrebbe chiedere per costoro la pace, la salute, uno spirito di pazienza, dialogo ed aiuto vicendevole, ma anche la luce e la forza di Dio per poter compiere pienamente la sua volontà» (38). Si chiarisce inoltre che per evitare «qualsiasi forma di confusione e di scandalo», quando a chiedere la benedizione è una coppia irregolare o dello stesso sesso, «mai verrà svolta contestualmente ai riti civili di unione e nemmeno in relazione a essi. Neanche con degli abiti, gesti o parole propri di un matrimonio» (39). Questo tipo di benedizione «può trovare la sua collocazione in altri contesti, quali la visita a un santuario, l’incontro con un sacerdote, la preghiera recitata in un gruppo o durante un pellegrinaggio» (40).
Infine, il quarto capitolo (par. 42-45) ricorda che «anche quando il rapporto con Dio è offuscato dal peccato, si può sempre chiedere una benedizione, tendendo la mano a lui» e desiderarla «può essere il bene possibile in alcune situazioni» (43).
HEGELISMO, PLATONISMO, FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA)*
"MENSCHWERDUNG" ("DIVENTARE UN ESSERE UMANO"). "Dio è amore" ("Deus charitas est"), condivido (è una questione di "h": "Charitas", gr. "Xapitas"). Hegel ha messo il dito nella piaga: "La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’#amore ["ein Spielen der Liebe"] con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio ["Arbeit"] del negativo" ("Fenomenologia dello Spirito", §19).
A ben "orientarsi nel pensiero" (Kant) e, al contempo, nel sollecitare una ri-considerazione unitaria della "Prefazione" ("Vorrede") della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel e la figura della profetessa di Mantinea, Diotima, a mio parere, emerge chiaramente il #nodo antropologico di fronte a cui Hegel si è trovato e che ha sciolto in modalità tragica, edipica e paolina, con tutta la "socratica" potenza di un #Napoleone (Alessandro Magno); non con lo spirito del #Logos (di Eraclito e dell’evangelista Giovanni) né della #Giustizia di Parmenide, egli ruba "alla #Platone" l’anima a Diotima ("Simposio") e ripropone una demiurgica e demogorgonica #cosmoteandria t(al)ebana: "[...] che il vero sia effettuale solo come sistema o che la sostanza sia essenzialmente soggetto ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’#assoluto come #spirito - elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua #religione" (Fenom. d. spir., § 22).
A che gioco giochiamo, a che giogo vogliamo continuare a giocare? Non è meglio, forse, riprendere il filo proprio da Diotima e, con Dante Alighieri ("Due Soli") e portarsi fuori dalla tragedia dei "Tempi moderni" (Charlie Chaplin)?
P. S. 1 - «Senza Hegel non sarebbe stato possibile neppure Darwin, afferma Nietzsche, e l’avrebbe potuto dire anche di se stesso; infatti chi si ammali una volta di hegelite - così mordacemente si era espresso un decennio prima - non ne guarirà mai del tutto. E che cosa sarebbe la critica alla religione di Fuerbach e di Marx, o anche quella odierna di Ernst Bloch e Georg Lukács senza Hegel?» (Hans Küng, "Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia", Queriniana, 1972).
P. S. 2 - EUROPA: CRISTIANESIMO CATTOLICESIMO COSTITUZIONE E SPIRITO DI ASSISI (1986). Quando Benedetto Croce pubblicò il suo «Perché non possiamo non dirci "cristiani"» (1942), don Giuseppe De Luca ’confessò’ al Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai: si è "rincristianito per dispetto". Come concordato...!!!
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ARTE, FILOLOGIA, "NASCITA DELLA TRAGEDIA" (NIETZSCHE), E
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("ECCE HOMO", 1888):
PLATONE E "NOI", OGGI (11MAGGIO 2023). MESSA A MORTE LA #GIUSTIZIA (#DIKE) DI #PARMENIDE, #PLATONE SALE SULL’ACROPOLI E DICHIARA: "IO, PLATONE, SONO LA [DEA DELLA] VERITÀ". "L’essere che realmente è, senza colore, senza forma, non apparente [...] occupa questo luogo. [...] e [l’anima] contemplando il vero se ne nutre e ne gode" (Fedro 247 c-d).
ELEUSIS_2023. Abbandonata "M_Arianna", interi millenni di labirinto ... nella ’invisibile’ caverna plutonica (ricordando Demetra ed Eleusis).
Dopo #Dante2021, ancora in un profondissimo #letargo (Pd., XXXIII, 94)!
P. S. - Su Platone, oggi, alcuni appunti per una possibile diversa "lettura": nelle Università e nelle Accademie (laiche e devote) si insegna ancora a credere che Aristofane scherzasse su Socrate!
HAMLETICA: FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA), LINGUISTICA, E "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (FREUD). Un omaggio a Shakespeare, alla "question" di Hamlet (Amleto, e a Ferdinand de #Saussure. In #principio era il #Logos, non un #logo...
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EUROPA, CRISTIANESIMO E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ": IL "CORPO DEL SIGNORE ("CORPUS DOMINI)" E L’ EUCARISTIA (Eu-charis-tia").
Due note:
A) SACRAMENTALISMO. "Il termine #sacramentalismo descrive il sistema concettuale e pratico attraverso il quale in particolare la Chiesa cattolica romana, ma anche il #cristianesimo ortodosso comprende la funzione e l’uso dei #sacramenti come mezzi mediante i quali la #grazia di Dio verrebbe impartita ai fedeli. Esso è strettamente legato alla figura del #sacerdote [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Sacramentalismo);
B) SACRAMENTARISMO. "Si definisce sacramentismo o #sacramentarismo il movimento di opposizione, sviluppatosi nei Paesi Bassi alla fine del Medioevo, alla tradizionale teologia eucaristica e alle relative pratiche devozionali, consistente nel #rifiuto della dottrina della transustanziazione e della messa intesa come ripetizione del #sacrificio di Cristo, dando alla comunione, la cena del #Signore, un carattere simbolico e commemorativo.
A definire sacramentisti o sacramentari i seguaci di tale movimento furono le stesse autorità ecclesiastiche, per le quali sacramentarius era chiunque sostenesse che ogni sacramento era soltanto un #segno, senza che nella cerimonia avvenisse alcuna alterazione della materia sacramentale. Anche Lutero, creatore della teoria della consustanziazione, chiamò sacramentari i suoi avversari nella controversia eucaristica che ebbe con Carlostadio, Ecolampadio, Schwenckfeld e Zwingli, quest’ultimo il più autorevole sostenitore del carattere simbolico della comunione. [...]
Alla crescita del movimento sacramentario fece seguito la reazione dell’Inquisizione. La prima vittima fu Lauken van Moeseken, decapitato nel 1518 a Bruxelles; l’ex-prete Jan de Bakker fu bruciato a L’Aja nel 1525, mentre la prima donna a morire per la sua fede fu Wendelmoet Claesdochter, strangolata e bruciata nel 1527. Negli interrogatori dichiarò che il sacramento dell’altare era « solo pane e farina» e, riferendosi all’estrema unzione, che « l’olio è buono per l’insalata e per lucidare le scarpe». Sul patibolo, rifiutando il crocifisso, dichiarò: «Il mio Dio e Signore non è questo. Il mio Signore è in me e io in lui ».[...]"(https://it.wikipedia.org/wiki/Sacramentarismo).
Federico La Sala
Boff: «Quella porta sbattuta in faccia alla modernità»
INTERVISTA. Il suo sogno, rievangelizzare l’Europa sotto la guida della Chiesa cattolica. Un progetto medievale, un’umiliazione per i teologi della liberazione
«Quella porta sbattuta in faccia alla modernità»
di Claudia Fanti (il manifesto, 6 gennaio 2023)
Era il 7 settembre del 1984 e Leonardo Boff sedeva come imputato dinanzi al prefetto della Congregazione per la dottrina delle fede Joseph Ratzinger, in quello che appariva a tutti gli effetti come un moderno processo per eresia. Sotto accusa c’era il suo libro Chiesa: carisma e potere, di cui l’ex Sant’uffizio aveva evidenziato aspetti «tali da mettere in pericolo la sana dottrina della fede».
Ma nel mirino del Vaticano non c’era solo un libro: c’era piuttosto quella Teologia della Liberazione (TdL), che, nata dalla realtà dei poveri (interpretata con l’ausilio delle scienze sociali e dell’analisi marxiana della storia) e diretta alla loro liberazione, aveva subito messo in allarme i centri più sensibili del potere politico e religioso.
Sarebbe stato, aveva garantito Ratzinger, un «colloquio tra fratelli» - con gli occhi del mondo puntati su Roma non era il caso di evocare immagini inquisitoriali -, ma l’esito era già scritto. L’anno successivo Boff sarebbe stato punito con l’obbligo del silenzio ossequioso. E nel 1992, in seguito alla minaccia di ulteriori provvedimenti disciplinari, avrebbe abbandonato l’Ordine dei Francescani e rinunciato al sacerdozio, pur continuando infaticabilmente a svolgere la sua attività di teologo della liberazione. Oggi, di fronte alla morte del suo persecutore, dice di non provare alcun risentimento, evidenziando solo la necessità di una «lettura oggettiva» del pensiero e dell’azione di Ratzinger.
È normale parlare bene dei morti, soprattutto se si tratta di un papa. Tuttavia, la teologia, non potendo sottrarsi a una lettura oggettiva e critica, deve avere il coraggio di mostrare anche le ombre di Benedetto XVI. Era un teologo progressista e stimato quando insegnava in Germania. Ma poi si era lasciato contaminare dal virus conservatore della millenaria istituzione ecclesiastica, fino ad abbracciare, in alcuni aspetti, posizioni reazionarie e fondamentaliste.
Basti pensare alla dichiarazione Dominus Iesus del 2000, nella quale rilanciava la vecchia tesi medievale, superata dal Vaticano II, secondo cui “fuori dalla Chiesa non c’è salvezza”: Cristo è l’unica via di salvezza e la Chiesa è il pedaggio esclusivo. Nessuno percorrerà il cammino se prima non pagherà il pedaggio. Quanto alle Chiese non cattoliche, non sarebbero «Chiese in senso proprio», ma solo «comunità separate». Una porta sbattuta in faccia all’ecumenismo. Il suo sogno era quello di una rievangelizzazione dell’Europa sotto la guida della Chiesa cattolica. Un progetto risibile e impraticabile, dovendo fare piazza pulita di tutte le conquiste della modernità. Ma Ratzinger era un rappresentante della vecchia cristianità medievale.
Per noi teologi latinoamericani è stata una grande ferita il fatto che egli avesse proibito a decine di teologi e teologhe di tutto il continente di produrre una collana di 53 volumi, dal titolo Teologia della Liberazione, come sussidio per studenti, comunità di base e operatori di pastorale impegnati nella prospettiva dei poveri. Era chiaro che egli non volesse saperne di una teologia elaborata a partire dalle periferie. Per i poveri fu uno scandalo, per noi teologi, appoggiati da centinaia di vescovi, un’umiliazione.
Il processo si concluse con l’imposizione di un “silenzio ossequioso”, un eufemismo per indicare il divieto di parlare, di insegnare, di svolgere qualsiasi attività teologica. Ma non provo alcun risentimento ripensando a quei giorni turbolenti: il fatto di aver abbracciato la causa dei poveri, i prediletti del Gesù storico, mi faceva sentire sicuro. Inoltre quel processo, seguito dai mezzi di comunicazione di tutto il mondo, aveva offerto un’enorme opportunità per far conoscere la TdL. Tutti compresero che in gioco non c’era solo una teologia, ma la posizione della Chiesa dinanzi al dramma dei poveri e degli oppressi. Con la censura e la persecuzione di tanti teologi, da Gustavo Gutiérrez a Jon Sobrino, Ratzinger non ha offerto un buon esempio: non ha ascoltato il clamore dei poveri, ha condannato i loro amici e alleati e ha frainteso la TdL. Guai a chi non si colloca al lato dei poveri, perché saranno loro a giudicarci.
Il mancato appoggio di Ratzinger alla TdL ha fatto vacillare molti cristiani. Tanto più in quanto ai teologi nella linea della liberazione era vietato offrire consulenze pastorali ai vescovi e persino accompagnare le comunità di base. È stata negata loro la gioia di lavorare nella pastorale e di insegnare teologia. Ratzinger è stato un fattore di divisione all’interno della nostra Chiesa latinoamericana.
Benedetto XI ha dato continuità all’inverno ecclesiale avviato da Giovanni Paolo II con l’abbandono delle riforme del Concilio. Con il «ritorno alla grande disciplina» da lui promosso ha persino accentuato questa tendenza. Basti pensare alla reintroduzione della messa in latino. Ha concepito la Chiesa come un castello fortificato contro gli errori della modernità, dal relativismo al marxismo fino alla perdita della memoria di Dio nella società. Ha posto al centro la Verità, con la sua difesa dell’ortodossia. Privo di capacità di governo, ha seminato nella Chiesa più paura che gioia, più controllo che libertà. Era una persona affabile e delicata, ma senza il carisma del suo predecessore. Tuttavia, per le sue virtù personali e la sofferenza che ha patito, sono certo che verrà accolto tra i beati.
Aveva preso coscienza degli scandali sessuali e finanziari nella Chiesa, ma sentiva di non avere le forze per modificare la situazione. Serviva un altro papa più di polso. Non si trattava di problemi di salute, ma del fatto che si sentiva psicologicamente, mentalmente e spiritualmente impotente.
Il filosofo.
Cacciari: «Ratzinger intellettuale europeo in confronto con la modernità»
di Simone Paliaga (Avvenire, venerdì 6 gennaio 2023)
«Ratzinger è un intellettuale europeo al mille per cento»: così Massimo Cacciari, uno tra i filosofi più noti in Italia e in Europa, che non ha mai esitato a confrontarsi con i grandi temi della filosofia e della teologia, parla di Benedetto XVI.
In quale relazione si trova il pensiero di Benedetto XVI con il pensiero moderno?
La sua posizione sull’eterno problema del rapporto tra fede e ragione è evidente fin dai primi studi sulla filosofia medievale e su san Bonaventura. L’attenzione a questo rapporto lo caratterizza in modo fondamentale rispetto alle correnti del pensiero e della teologia contemporanei, che da una parte negano la possibilità di porlo positivamente e dall’altra lo risolvono in modo compromissorio. Mentre per Ratzinger è proprio della fede rapportarsi con il logos, immanente all’atto di fede e che deve tendere alla verità esattamente come l’atto di fede. Quando Gesù dice “io sono la verità”, la questione non si risolve ripetendo quanto lui dice ma indagando che cosa lui tende a dire.
Quindi la verità è centrale in Benedetto XVI?
Aletheia è la parola chiave, che distingue Ratzinger da Bultmann e da tanta teologia. Per Ratzinger è legittimo e giusto il legame che si opera fin dai primi secoli del cristianesimo tra la filosofia greca e il Vangelo. È un legame che non si è sovrappone al Vangelo ma che in qualche modo nasce dal Vangelo stesso, che si impone a partire da quel messaggio. Questo è il discorso intorno a cui dibatte la teologia e dell’Otto e Novecento a partire dall’idealismo tedesco, cioè tutta quella tradizione a cui Ratzinger appartiene anima e corpo».
Quale ruolo recita allora la ragione?
La filosofia svolge la sua missione nella misura in cui interroga la fede ed esige che renda ragione di sé. È una funzione critica positiva: ma deve essere una filosofia interessata al programma della verità. La filosofia contemporanea per Ratzinger tende invece a una deriva relativistica e svolge una funzione di critica della teologia e della fede in senso negativo, ritenendo a priori che l’atto di fede non abbia più alcuna significato nel mondo della scienza e della tecnica.
In questa concezione che funzione gioca la Chiesa?
Per lui “nulla salus extra ecclesiam”. La Chiesa non è una forma politica, perché ha una missione fondamentale, e la cristianità non sarebbe concepibile senza di lei. Quella esaltata da Schmitt e da tanti altri pensatori conservatori è una visione della Chiesa ridotta alla funzione di religio civilis che serve solo a tenere in forma questo mondo senza religio. La Chiesa per Ratzinger, invece, non è un katechon, non è ciò che trattiene il male e che tiene in forma questo mondo. Essa ha una missione evangelizzatrice in senso proprio, cioè deve mostrare il Cristo e interrogarsi sulla verità che Cristo manifesta.
E la speranza?
Quando Ratzinger parla di speranza parla di una virtù teologale. Per caprine la riflessione, oltre alla fede, occorre capire che, come Wojtyla, ha elaborato la propria teologia in un’epoca storica in cui il marxismo era forza vivente, come movimento culturale oltre che storico. L’uno scrive le sue opere fondamentali con la Germania divisa in due, l’altro con la Polonia occupata. La speranza di Ratzinger si fonda sulla fede, perché altrimenti sarebbe vuota; non ha nulla a che fare con la speranza di chi non crede. Perché a un certo momento Benedetto XVI scrive i libri su Gesù? Perché comunica che per sperare bisogna guardare a Lui, solo allora la speranza ha senso. Ci sono discrimini profondi con le marmellate sentimental-patetiche dove i termini valgono in maniera indistinta. In Ratzinger la Chiesa deve chiamare a una conversione, questa è la sua Chiesa necessaria. Che non è, appunto, katechon. Che chiede costantemente la conversione a questa speranza. Che non è fondata finché non si pone sulla via della verità. Il grande teologo - e l’uomo che ha alle spalle quella storia di cui parlavo - chiede distinzione e discriminazione, chiede di comprendere bene i termini che si usano.
E per la carità?
Valgono le stesse considerazioni. La misericordia non è semplicemente fare la carità, la misericordia è partecipazione esistenziale, carnale con il prossimo: nel senso che il prossimo sei tu quando ti approssimi. Questa è la dinamica della caritas: non si tratta di schiacciare il bottoncino e dare l’euro quando te lo chiede il presentatore. Non è questa la misericordia di cui la Chiesa deve farsi testimone. Bisogna distinguere per non confondere, non per condannare, perché la Chiesa non può condannare nessuno, non spetta a lei esprimere il giudizio. È un grande tema francescano che all’inizio mi sembrava fosse la novità centrale anche di papa Francesco, quando invitava ad andare ovunque a predicare il verbo ma senza giudicare, perché il giudizio spetta ad Altri.
Occorre dunque evangelizzare?
L’evangelizzazione dell’Europa è un compito impossibile. Ecco perché Ratzinger, come Wojtyla, è una figura tragica. In entrambi vibrava l’attesa che, caduto il comunismo, iniziasse una nuova evangelizzazione per l’Europa. Ma è un’aspettativa delusa perché le potenze della secolarizzazione la rendono impossibile. Per questo tutti i termini che abbiamo usato finora possono essere soltanto declinati in termini etico-morali: in una chiave diversa non verrebbero ascoltati.
Quale eredità lascia?
Con Wojtyla lasciano la testimonianza della loro esperienza e della loro intelligenza a tenersi aperti al confronto con le correnti filosofiche contemporanee e le altre fedi, e qui si apre tutto il discorso dell’ecumenismo, ma tenendo la posizione senza generare confusione. Sono stati cattolici senza cedimento, e questa è la loro forza.
La teologia di Joseph Ratzinger
di Massimo Borghesi (Insula europea, 2 gennaio 2023)
Nei commenti che si succedono sulla figura di papa Benedetto l’attenzione cade sulla sua persona, il suo stile, la sua umanità dolce e gentile. Tutto ciò è importante. Ratzinger ha saputo, nonostante il suo riserbo, conquistarsi la stima e l’affetto di milioni di uomini. E tuttavia colui che ha governato la Chiesa per otto anni, dal 2005 al 2013, è stato grande anche per il modo in cui ha percepito l’essenza del cristianesimo nel mondo contemporaneo. Un modo che si riflette nella sua scelta di scrivere tre encicliche dedicate alle tre virtù teologali: Deus caritas est (2005), Spe salvi (2007), Lumen fidei, del 2013 che esce sotto il nome del nuovo papa Francesco. Che si manifesta altresì nella decisione di scrivere e pubblicare tre volumi sulla vita di Gesù di Nazareth nel 2007, nel 2011, nel 2012. Ciò che si palesa, nelle encicliche e nei volumi è un modo storico di intendere la fede.
La teologia di Ratzinger è storica, questo è il lascito spirituale ed intellettuale che egli consegna alla Chiesa. Illuminante, da questo punto di vista, è la sua biografia, il documento che, più di altri, ci apre le porte sulla sua formazione. Qui Ratzinger chiarisce gli autori che, nei suoi studi giovanili, ha sentito affini, e quelli, invece, verso cui maturava una distanza. La teologia di Ratzinger è, da subito, una teologia esistenziale, personalistico-agostiniana, distante dai moduli astratti della neoscolastica dominante prima del Concilio: “L’incontro con il personalismo, che poi trovammo esplicitato con grande forza persuasiva nel grande pensatore ebreo Martin Buber, fu un evento che segnò profondamente il mio cammino spirituale, anche se il personalismo, nel mio caso, si legò quasi da sé con il pensiero di Agostino che, nelle Confessioni, mi venne incontro in tutta la sua passionalità e profondità umane. Ebbi, invece, delle difficoltà nell’accesso al pensiero di Tommaso d’Aquino, la cui logica cristallina mi pareva troppo chiusa in se stessa, troppo impersonale e preconfezionata. Ciò dipese probabilmente anche dal fatto che il filosofo del nostro seminario, Arnold Wilmsen, ci presentava un rigido tomismo neoscolastico, che per me era semplicemente troppo lontano dalle mie domande personali[1]“.
La distanza del giovane Ratzinger dall’intellettualismo neoscolastico non prelude ad un atteggiamento antimetafisico come documenta la sua insistenza, da Papa, sul nesso fondamentale tra fede e ragione. Indica, però, una sottolineatura particolare della dimensione storica della fede la cui attualità non può essere esaurita da nessuna trascrizione filosofica. Il primato della realtà sull’idea, che costituisce un principio fondamentale della gnoseologia di Jorge Mario Bergoglio, è un punto fermo anche in Ratzinger. Ciò implica, dal punto di vista cristiano, un accordo tra storia della salvezza e metafisica che non sacrifichi la prima alla seconda e questo senza acconsentire al fideismo tipico della posizione protestante.
Come scriverà l’autore nella prefazione americana del suo volume del 1959 San Bonaventura. La teologia della storia: “quando nell’autunno del 1953 iniziai il lavoro di preparazione per questo studio, una delle questioni che occupavano un posto di primo piano all’interno dei circoli teologici cattolici di lingua tedesca era la questione concernente la relazione tra storia della salvezza e metafisica.
Si trattava di un problema sorto soprattutto dai contatti con la teologia protestante che, sin dai tempi di Lutero, tendeva a vedere nel pensiero metafisico un allontanamento dall’istanza specifica della fede cristiana, la quale non indica semplicemente all’uomo la via verso l’eterno ma verso quel Dio che opera nel tempo e nella storia. A questo riguardo sorsero interrogativi di carattere differente e di diverso ordine.
Come può divenire storicamente presente ciò che è avvenuto? Come può avere un significato universale ciò che è unico e irripetibile? Ma, d’altra parte, la “ellenizzazione” della cristianità, che tentò di vincere lo scandalo del particolare attraverso una miscela di fede e metafisica, non ha forse portato ad uno sviluppo in direzione sbagliata? Non ha creato uno stile statico di pensiero che non è in grado di rendere giustizia al dinamismo dello stile biblico? Queste domande esercitarono su di me un forte influsso ed io intendevo dare il mio contributo per rispondere ad esse[2]“.
Il giovane Ratzinger partecipava qui ad una tendenza che qualificava la parte migliore del pensiero cattolico, unitamente a quello protestante, del Novecento. Come scriveva Hans Urs von Balthasar nel 1951: «È certamente vero che oggi la teologia cattolica è dominata dall’inarrestabile tendenza a comprendere la storicità nella sua ampiezza e profondità. Preparato in Germania dalla scuola di Tubinga, in Francia da Blondel e Laberthonnière, in Inghilterra dalla scuola di Oxford e da Newman, questo movimento è rappresentato da tutti i maggiori pensatori cattolici»[3].
Nel contesto di allora questa direzione doveva muoversi evitando due tendenze contrarie: quella modernista condannata da Pio XII con la Humani generis, che favoriva il disprezzo degli aspetti razionali e filosofici della teologia; lo scolasticismo arido e razionalistico di un certo tomismo ufficiale dimentico della storicità della Rivelazione. Fuori da questi estremi si muoveva la riflessione di colui che Ratzinger ha sempre considerato come suo «maestro»: Gottlieb Söhngen, professore di teologia fondamentale presso la facoltà teologica di Monaco di Baviera. In Germania Söhngen è uno dei primi che avvia un ripensamento della teologia come historia salutis, centrale poi nel Concilio Vaticano II.
In un saggio del 1967 Ratzinger osserverà come «non si è ancora studiato il problema di quando e dove precisamente abbia avuto luogo la ricezione dell’idea di storia della salvezza in ambito cattolico. A mio modo di vedere nell’ambito della lingua tedesca per primo fu Gottlieb Söhngen che individuò il problema nel dialogo con Karl Barth ed Emil Brunner»[4]. Per Söhngen, il quale sottolineava «con forza che la verità del cristianesimo non è quella di un’idea valida in generale, ma la verità di un fatto avvenuto una volta sola»[5], la complementarità tra modello metafisico-astratto e quello storico-concreto era la chiave del discorso cattolico. Sotto la guida del suo maestro anche il giovane Ratzinger avvertiva l’urgenza di una concezione storica della salvezza come correttivo di un modo di impostare le questioni eccessivamente dislocato sul terreno metafisico.
Il primo lavoro di Ratzinger, su suggerimento di Söhngen, è la dissertazione per il dottorato su Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino. Una ricerca preziosa in cui l’autore tentava «di approfondire il modo in cui la concezione storica è andata sempre più imponendosi in Agostino nei confronti di una posizione inizialmente quasi puramente ontologica»[6].
Agostino, quindi, come correttivo all’eredità della scolastica, contrassegnata da un pensiero astorico. Correttivo parziale, però, nella misura in cui «Agostino nel De civitate Dei interrompe la storia dello stato di Dio con la nascita di Cristo e non include la storia della Chiesa nella sua considerazione»[7]. Vero è che «una certa valenza propria della storia della Chiesa si afferma manifestamente nei noti racconti di miracoli del De civitate Dei, XXII 8 col 760-771. Teologicamente questi racconti significano senza dubbio un nuovo sviluppo del pensiero di Agostino»[8]. Una direzione feconda che, tuttavia, richiedeva una riflessione ulteriore.
È in questa prospettiva che si situa il secondo lavoro di Ratzinger, la tesi di abilitazione per la libera docenza in teologia, a Monaco, San Bonaventura. La teologia della storia. Il grande maestro francescano offriva, al giovane teologo, la possibilità di delineare una teologia della storia comprensiva della Chiesa, capace quindi di delineare la presenza di Cristo nel tempo. Un cristocentrismo, quello bonaventuriano, che non incorreva nella trasformazione della necessità fattuale in quella metafisica. Il che è quanto accade, nel Novecento, nella dottrina della creazione, radicalmente cristologica, di Karl Barth, e, nel Medioevo, nella teologia francescana - e qui Ratzinger pensa a Duns Scoto -, «la quale si presenta dapprima come rigorosamente storico-salvifica, cioè cristologica, poi però nella esasperazione di tale punto di partenza dà all’insieme un ruolo metafisico nell’idea della praedestinatio absoluta di Cristo e raggiunge così l’abbandono del progetto originariamente storico-salvifico»[9]. La cristologia metafisica corre costantemente il rischio di risolvere la verité de fait nella verité de raison, di schiacciare l’Evento nella struttura, l’Unico nel modello. Non così in Bonaventura, per il quale Cristo come «centro» è inizio di una storia nuova al cui culmine v’è, nel tempo a lui presente, la figura cristologica di Francesco d’Assisi, la figura della santità come dilatazione di Cristo nel tempo.
Il tragitto ideale da Agostino a Bonaventura diviene in tal modo, nel giovane teologo, la via di scoperta della teologia della storia, di un approccio storico al cristianesimo. È a questo livello che si pone la differenza tra la sua prospettiva teologica e quella di Karl Rahner: “La sua teologia [di Rahner] - malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni - era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e della sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui alla fin fine la Scrittura e i padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai padri, da un pensiero essenzialmente storico. In quei giorni [durante il Concilio, nel 1962] ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui ero passato, e quella di Rahner[10]“.
Una differenza essenziale, tra teologia trascendentale di ascendenza idealistico-kantiana e teologia realistico-storica, che attraverserà tutto il pensiero teologico post.conciliare e troverà la sua espressione dialettica nelle due riviste che qualificheranno due indirizzi ideali: «Concilium» da un lato e «Communio» dall’altro. La riflessione di Ratzinger si poneva al di là della frattura che segna la teologia cristiana odierna, divisa tra una storia della salvezza radicalmente contraria alla metafisica - come accade nella teologia protestante (Barth, Bultmann, Culmann, Moltmann) - e un cristocentrismo ontologico (trascendentale o cosmico), di matrice cattolica, che svuota la novità della storia della salvezza.
Il pensiero cristiano, secondo Ratzinger, se voleva avere un futuro doveva ritrovare la giusta «tensione fra ontologia e storia», la quale «ha il suo fondamento ultimo nella tensione dello stesso essere umano, che dev’essere fuori di sé per poter essere in sé»[11]. Si rende così manifesto come «salvezza in quanto storia dice proprio che l’uomo non trova la salvezza nel venire-a-sé della riflessione, ma nell’essere portato-via-da-sé che va oltre la riflessione»[12].
Con ciò viene in primo piano la categoria dell’extra, dell’evento, di ciò che sta fuori del cerchio dell’io. È qui che si apre la dimensione storica della fede: “La fede poggia sul fatto che ci viene incontro qualcosa (o qualcuno) a cui la nostra esperienza di per sé non riesce a giungere. Non è l’esperienza che si amplia o si approfondisce - come nel caso dei modelli rigorosamente “mistici” - ma è qualcosa che accade. Le categorie di “incontro”, “alterità” (alterité, Lévinas), evento, descrivono l’intima origine della fede cristiana e indicano i limiti del concetto di “esperienza”. Indubbiamente ciò che ci tocca ci procura esperienza, ma esperienza come frutto di un evento, non di una discesa nel profondo di noi stessi. È proprio questo che si intende col concetto di rivelazione: il non-proprio, ciò che non appartiene alla sfera mia propria, mi si avvicina e mi porta via da me, al di là di me, crea qualcosa di nuovo. Questo è ciò che determina anche la storicità della realtà cristiana, che poggia su eventi e non sulla percezione della profondità del proprio intimo[13]“.
Forte di questa prospettiva Ratzinger ha criticato, con profonda competenza, gli indirizzi razionalistici derivati da un uso improprio del metodo storico-critico in sede esegetica. Un metodo che, laddove non venga assunto con consapevolezza critica, soggiace al dualismo illuministico tra verità di ragione e verità di fatto. È quanto accade nella teologia kerygmatica di Rudolf Bultmann: “Per Dibelius, Bultmann e la corrente principale dell’esegesi moderna, l’evento è l’elemento irrazionale. Esso appartiene al dominio della pura fatticità, composta dal caso e dalla necessità. Come tale, il fatto non può essere portatore di senso. Questo senso non è che nella parola; e là dove gli avvenimenti stessi sembrano essere portatori di senso, bisogna piuttosto considerarli come illustrazioni della parola e ad essa occorre riferirli[14]“.
Questa impostazione, riducendo l’evento storico a fatto “particolare”, irrazionale, si vieta, apriori, la possibilità che Dio possa manifestarsi nella storia. L’invisibile non può farsi visibile, il Verbo non può farsi carne. Con ciò questo metodo dimostra di essere legato ad una pregiudiziale che condiziona il lavoro della ragione. Diversamente, secondo Ratzinger: “occorre considerare tanto la parola quanto l’evento come originali, se si desidera restare fedeli alla prospettiva biblica. Il dualismo tra la parola e l’evento, che relega l’evento in una regione «senza parola», cioè senza significato, in realtà toglie anche alla parola la sua forza significante, perché questa si trova allora in un mondo privo di senso. Questo dualismo conduce ad una cristologia docetista, in cui la realtà, cioè l’esistenza concreta e carnale del Cristo e quella dell’uomo in generale, è esclusa dall’ambito del significato. Ma in questo modo si perde l’essenza della testimonianza biblica[15]“.
Questa “testimonianaza biblica”, fondata sulla realtà storica, è al cuore della teologia di Ratzinger. Per essa, da teologo e da Papa, si è battuto contro le forme “docetiste”, gnostiche, che svuotano, oggi come ieri, il messaggio cristiano, che impediscono al Verbo di farsi “carne”. È il lascito che consegna alla Chiesa e al pensiero cattolico. Come ha scritto nel suo testamento spirituale: “Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita - e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo[16]“.
[1] J. RATZINGER, La mia vita. Autobiografia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, p. 44.
[2] J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, Edizioni Porziuncola, Assisi 2008, pp. 9-10.
[3] H. U. VON BALTHASAR, La teologia di Karl Barth, Jaca Book, Milano 1977, p. 358.
[4] J. RATZINGER, Storia della salvezza ed escatologia, in ID., Storia e dogma, Jaca Book, Milano 1971, p. 74.
[5] Op. cit., p. 75.
[6] J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, cit., p. 114, nota 88
[7] J. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1971, p. 321, nota 27.
[8] Op. cit., p. 321, nota 29.
[9] Op. cit., p. 318, nota 15.
[10] J. RATZINGER, La mia vita. Autobiografia, cit., p. 95.
[11] J. RATZINGER, Salvezza e storia, in Storia e dogma, cit., p. 110.
[12] Op. cit., p. 109.
[13] J. RATZINGER, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, pp. 91-92
[14] J. RATZINGER, L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea, in AA.VV., L’esegesi cristiana oggi, Piemme, Casale Monferrato 1991, p. 118.
[15] Op. cit., p. 120.
[16] L’integrale. Ecco il testamento spirituale di Benedetto: “Grazie a Dio e famiglia” («Avvenire» 31-12-2022).
Far risplendere la luce di Cristo, non la propria
di ANDREA TORNIELLI *
Benedetto XVI è morto emerito ed è stato sepolto da Pontefice. Un oceano di preghiere ha accompagnato il rito funebre presieduto da Papa Francesco sul sagrato della basilica di San Pietro. Preghiere di gratitudine che si sono levate da tutto il mondo, nella certezza che Joseph Ratzinger finalmente può godere del volto di quel Signore che ha amato e seguito per tutta la vita, e al quale si è rivolto con le sue ultime parole prima di entrare in agonia: «Signore ti amo!».
C’è un tratto distintivo che unisce Benedetto XVI al suo successore e lo possiamo ritrovare nelle parole che fin nel suo primo messaggio Urbi et orbi, la mattina del giorno dopo l’elezione, Papa Ratzinger disse: «Nell’intraprendere il suo ministero, il nuovo Papa sa che il suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo». Non la propria luce, il proprio protagonismo, le proprie idee, i propri gusti, ma la luce di Cristo. Perché, come ebbe a dire Benedetto XVI , «la Chiesa non è la Chiesa nostra, ma la sua Chiesa, la Chiesa di Dio. Il servo deve rendere conto di come ha gestito il bene che gli è stato affidato. Non leghiamo gli uomini a noi, non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi».
È interessante notare come già da cardinale, per anni, Ratzinger avesse messo in guardia la Chiesa da una patologia che l’ha afflitta e l’affligge ancora: quella di confidare nelle strutture, nell’organizzazione. Quella di voler “contare” sulla scena del mondo per essere “rilevante”.
Nel maggio 2010 a Fátima Benedetto XVI disse ai vescovi portoghesi: «Quando, nel sentire di molti, la fede cattolica non è più patrimonio comune della società e, spesso, si vede come un seme insidiato e offuscato da “divinità” e signori di questo mondo, molto difficilmente essa potrà toccare i cuori mediante semplici discorsi o richiami morali e meno ancora attraverso generici richiami ai valori cristiani». Perché «il semplice enunciato del messaggio non arriva fino in fondo al cuore della persona, non tocca la sua libertà, non cambia la vita. Ciò che affascina è soprattutto l’incontro con persone credenti che, mediante la loro fede, attirano verso la grazia di Cristo, rendendo testimonianza di Lui». Non sono i discorsi, i grandi ragionamenti o vibranti richiami ai valori morali a toccare il cuore delle donne e degli uomini di oggi. Non servono per la missione le strategie del marketing religioso e proselitista. Né la Chiesa di oggi può pensare di vivere nella nostalgia della rilevanza e del potere che aveva nel passato. Anzi, al contrario: sia Benedetto XVI che il suo successore Francesco hanno predicato e testimoniato l’importanza di tornare all’essenziale, a una Chiesa ricca soltanto della luce che gratuitamente riceve dal suo Signore.
E proprio questo ritorno all’essenziale è la chiave per la missione. Joseph Ratzinger lo aveva detto quando ancora era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, durante una catechesi del dicembre 2000, che è stata citata in questi giorni dal direttore di Fides Gianni Valente. Ratzinger prese le mosse dalla parabola evangelica del Regno di Dio, paragonato da Gesù al granello di senape, che «è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero». Spiegò che parlando di “nuova evangelizzazione” nelle società secolarizzate bisognava evitare «la tentazione dell’impazienza, la tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri». Perché questo «non è il metodo di Dio». La nuova evangelizzazione, aggiunse, «non può voler dire: attirare subito con nuovi metodi più raffinati le grandi masse allontanatesi dalla Chiesa». La storia stessa della Chiesa, osservava ancora il cardinale Ratzinger, insegna che «le grandi cose cominciano sempre dal granello piccolo ed i movimenti di massa sono sempre effimeri». Perché Dio «non conta con i grandi numeri; il potere esteriore non è il segno della sua presenza. Gran parte delle parabole di Gesù indicano questa struttura dell’agire divino e rispondono così alle preoccupazioni dei discepoli, i quali si aspettavano ben altri successi e segni dal Messia - successi del tipo offerto da Satana al Signore». I cristiani, ricordava ancora il futuro Benedetto XVI , «erano piccole comunità disperse nel mondo, insignificanti secondo i criteri mondani. In realtà furono il germe che penetra dall’interno la pasta e portarono in sé il futuro del mondo». Non si tratta perciò di «allargare gli spazi» della Chiesa nel mondo: «Non cerchiamo ascolto per noi, non vogliamo aumentare il potere e l’estensione delle nostre istituzioni, ma vogliamo servire al bene delle persone e dell’umanità dando spazio a Colui che è la Vita. Questa espropriazione del proprio io offrendolo a Cristo per la salvezza degli uomini, è la condizione fondamentale del vero impegno per il Vangelo».
È questa consapevolezza che ha accompagnato per tutta la sua lunga esistenza il cristiano, il teologo, il vescovo e il Papa Benedetto XVI . Una consapevolezza che riecheggia in una citazione che il suo successore - al quale egli ha sempre garantito «reverenza e obbedienza» - ha voluto includere nell’omelia delle esequie. È tratta dalla Regola pastorale di san Gregorio Magno: «In mezzo alle tempeste della mia vita, mi conforta la fiducia che tu mi terrai a galla sulla tavola delle tue preghiere, e che, se il peso delle mie colpe mi abbatte e mi umilia, tu mi presterai l’aiuto dei tuoi meriti per sollevarmi». «È la consapevolezza del Pastore - ha commentato Papa Francesco - che non può portare da solo quello che, in realtà, mai potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa abbandonarsi alla preghiera e alla cura del popolo che gli è stato affidato». Perché senza di Lui, senza il Signore, non possiamo far nulla.
di ANDREA TORNIELLI
*
Costituzione Apostolica “Praedicate Evangelium”
sulla Curia Romana e il suo servizio alla Chiesa e al Mondo,
19.03.2022
Comunicato della Sala Stampa della Santa Sede *
INDICE
PREAMBOLO
1. Praedicate evangelium (cfr Mc 16,15; Mt 10,7-8): è il compito che il Signore Gesù ha affidato ai suoi discepoli. Questo mandato costituisce «il primo servizio che la Chiesa può rendere a ciascun uomo e all’intera umanità nel mondo odierno»[1]. A questo essa è stata chiamata: per annunciare il Vangelo del Figlio di Dio, Cristo Signore, e suscitare con esso in tutte le genti l’ascolto della fede (cfr Rm 1,1-5; Gal 3,5). La Chiesa adempie il suo mandato soprattutto quando testimonia, in parole e opere, la misericordia che ella stessa gratuitamente ha ricevuto. Di ciò il nostro Signore e Maestro ci ha lasciato l’esempio quando ha lavato i piedi ai suoi discepoli e ha detto che saremo beati se faremo anche noi così (cfr Gv 13,15-17). In questo modo «la comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo»[2]. Facendo così, il popolo di Dio adempie al comando del Signore, il quale chiedendo di annunciare il Vangelo, sollecitò a prendersi cura dei fratelli e delle sorelle più deboli, malati e sofferenti.
La conversione missionaria della Chiesa
2. La “conversione missionaria” della Chiesa[3] è destinata a rinnovare la Chiesa secondo l’immagine della missione d’amore propria di Cristo. I suoi discepoli e discepole sono quindi chiamati ad essere “luce del mondo” (Mt 5,14). Questo è il modo con cui la Chiesa riflette l’amore salvifico di Cristo che è la Luce del mondo (cfr Gv 8,12). Essa stessa diventa più radiosa quando porta agli uomini il dono soprannaturale della fede, «luce che orienta il nostro cammino nel tempo» e servendo il Vangelo perché questa luce «cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce»[4].
3. Nel contesto della missionarietà della Chiesa si pone anche la riforma della Curia romana. Fu così nei momenti in cui più urgente si avvertì l’anelito di riforma, come avvenuto nel XVI secolo, con la Costituzione apostolica Immensa aeterni Dei di Sisto V (1588) e nel XX secolo, con la Costituzione apostolica Sapienti Consilio di Pio X (1908). Celebrato il Concilio Vaticano II, Paolo VI, riferendosi esplicitamente ai desideri espressi dai Padri Conciliari[5], con la Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae (1967), dispose e realizzò una riforma della Curia. Successivamente, Giovanni Paolo II promulgò la Costituzione apostolica Pastor bonus (1988), al fine di promuovere sempre la comunione nell’intero organismo della Chiesa.
In continuità con queste due recenti riforme e con gratitudine per il servizio generoso e competente che nel corso del tempo tanti membri della Curia hanno offerto al Romano Pontefice e alla Chiesa universale, questa nuova Costituzione apostolica si propone di meglio armonizzare l’esercizio odierno del servizio della Curia col cammino di evangelizzazione, che la Chiesa, soprattutto in questa stagione, sta vivendo.
La Chiesa: mistero di comunione
4. Per la riforma della Curia romana è importante avere presente e valorizzare anche un altro aspetto del mistero della Chiesa: in essa la missione è talmente congiunta alla comunione da poter dire che scopo della missione è proprio quello «di far conoscere e di far vivere a tutti la «nuova» comunione che nel Figlio di Dio fatto uomo è entrata nella storia del mondo»[6].
Questa vita di comunione dona alla Chiesa il volto della sinodalità; una Chiesa, cioè, dell’ascolto reciproco «in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri, e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo Spirito della verità (cfr Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli dice alle Chiese (cfr Ap 2,7)»[7]. Questa sinodalità della Chiesa, poi, la si intenderà come il «camminare insieme del Gregge di Dio sui sentieri della storia incontro a Cristo Signore»[8]. Si tratta della missione della Chiesa, di quella comunione che è per la missione ed è essa stessa missionaria.
Il rinnovamento della Chiesa e, in essa, anche della Curia romana, non può che rispecchiare questa fondamentale reciprocità perché la comunità dei credenti possa avvicinarsi il più possibile all’esperienza di comunione missionaria vissuta dagli Apostoli con il Signore durante la sua vita terrena (cfr Mc 3,14) e, dopo la Pentecoste, sotto l’azione dello Spirito Santo, dalla prima comunità di Gerusalemme (cfr At 2,42).
Il servizio del Primato e del Collegio dei Vescovi
5. Fra questi doni dati dallo Spirito per il servizio degli uomini, eccelle quello degli Apostoli, che il Signore scelse e costituì come “gruppo” stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro[9]. Agli stessi Apostoli affidò una missione che durerà sino alla fine dei secoli. Per questo essi ebbero cura di istituire dei successori[10], sicché come Pietro e gli altri Apostoli costituirono, per volontà del Signore, un unico Collegio apostolico, così ancora oggi, nella Chiesa, società gerarchicamente organizzata[11], il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli, sono uniti tra loro in un unico corpo episcopale, al quale i Vescovi appartengono in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del Collegio e con le sue membra, cioè con il Collegio stesso[12].
6. Insegna il Concilio Vaticano II: «L’unione collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli Vescovi con le Chiese particolari e con la Chiesa universale. Il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi, sia della moltitudine dei fedeli. I singoli Vescovi, invece, sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari. Queste sono formate a immagine della Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica. Perciò i singoli Vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano la Chiesa universale in un vincolo di pace, di amore e di unità»[13].
7. È importante sottolineare che grazie alla Divina Provvidenza nel corso del tempo sono state stabilite in diversi luoghi dagli Apostoli e dai loro successori varie Chiese, che si sono riunite in diversi gruppi, soprattutto le antiche Chiese patriarcali. L’emergere delle Conferenze episcopali nella Chiesa latina rappresenta una delle forme più recenti in cui la communio Episcoporum si è espressa al servizio della communio Ecclesiarum basata sulla communio fidelium. Pertanto, ferma restando la potestà propria del Vescovo, quale pastore della Chiesa particolare affidatagli, le Conferenze episcopali, incluse le loro Unioni regionali e continentali, insieme con le rispettive Strutture gerarchiche orientali sono attualmente uno dei modi più significativi di esprimere e servire la comunione ecclesiale nelle diverse regioni insieme al Romano Pontefice, garante dell’unità di fede e di comunione[14].
Il servizio della Curia romana
8. La Curia romana è al servizio del Papa, il quale, in quanto successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli[15]. In forza di tale legame l’opera della Curia romana è pure in rapporto organico con il Collegio dei Vescovi e con i singoli Vescovi, e anche con le Conferenze episcopali e le loro Unioni regionali e continentali, e le Strutture gerarchiche orientali, che sono di grande utilità pastorale ed esprimono la comunione affettiva ed effettiva tra i Vescovi. La Curia romana non si colloca tra il Papa e i Vescovi, piuttosto si pone al servizio di entrambi secondo le modalità che sono proprie della natura di ciascuno.
9. L’attenzione che la presente Costituzione apostolica dà alle Conferenze episcopali e in maniera corrispondente ed adeguata alle Strutture gerarchiche orientali, si muove nell’intento di valorizzarle nelle loro potenzialità[16], senza che esse fungano da interposizione fra il Romano Pontefice e i Vescovi, bensì siano al loro pieno servizio. Le competenze che vengono loro assegnate nelle presenti disposizioni sono volte ad esprimere la dimensione collegiale del ministero episcopale e, indirettamente, a rinsaldare la comunione ecclesiale[17], dando concretezza all’esercizio congiunto di alcune funzioni pastorali per il bene dei fedeli delle rispettive nazioni o di un determinato territorio[18].
Ogni cristiano è un discepolo missionario
10. Il Papa, i Vescovi e gli altri ministri ordinati non sono gli unici evangelizzatori nella Chiesa. Essi «sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo»[19]. Ogni cristiano, in virtù del Battesimo, è un discepolo-missionario «nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù»[20]. Non si può non tenerne conto nell’aggiornamento della Curia, la cui riforma, pertanto, deve prevedere il coinvolgimento di laiche e laici, anche in ruoli di governo e di responsabilità. La loro presenza e partecipazione è, inoltre, imprescindibile, perché essi cooperano al bene di tutta la Chiesa[21] e, per la loro vita familiare, per la loro conoscenza delle realtà sociali e per la loro fede che li porta a scoprire i cammini di Dio nel mondo, possono apportare validi contributi, soprattutto quando si tratta della promozione della famiglia e del rispetto dei valori della vita e del creato, del Vangelo come fermento delle realtà temporali e del discernimento dei segni dei tempi.
11. La riforma della Curia romana sarà reale e possibile se germoglierà da una riforma interiore, con la quale facciamo nostro «il paradigma della spiritualità del Concilio», espressa dall’«antica storia del Buon Samaritano»[22], di quell’uomo, che devia dal suo cammino per farsi prossimo ad un uomo mezzo morto che non appartiene al suo popolo e che neppure conosce. Si tratta qui di una spiritualità che ha la propria fonte nell’amore di Dio che ci ha amato per primo, quando noi eravamo ancora poveri e peccatori, e che ci ricorda che il nostro dovere è servire come Cristo i fratelli, soprattutto i più bisognosi, e che il volto di Cristo si riconosce nel volto di ogni essere umano, specialmente dell’uomo e della donna che soffrono (cfr Mt 25,40).
12. Deve pertanto essere chiaro che «la riforma non è fine a se stessa, ma un mezzo per dare una forte testimonianza cristiana; per favorire una più efficace evangelizzazione; per promuovere un più fecondo spirito ecumenico; per incoraggiare un dialogo più costruttivo con tutti. La riforma, auspicata vivamente dalla maggioranza dei Cardinali nell’ambito delle Congregazioni generali prima del Conclave, dovrà perfezionare ancora di più l’identità della stessa Curia romana, ossia quella di coadiuvare il Successore di Pietro nell’esercizio del suo supremo Ufficio pastorale per il bene e il servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari. Esercizio col quale si rafforzano l’unità di fede e la comunione del popolo di Dio e si promuove la missione propria della Chiesa nel mondo. Certamente raggiungere una tale meta non è facile: richiede tempo, determinazione e soprattutto la collaborazione di tutti. Ma per realizzare questo dobbiamo innanzitutto
Dato a Roma, presso San Pietro, nella Solennità di San Giuseppe Sposo della Beata Vergine Maria, il giorno 19 marzo 2022, decimo di Pontificato.
Francesco
* Fonte: Vatican.va - Comunicato della Sala Stampa della Santa Sede (ripresa parziale).
LA GUERRA DI TROIA NON E’ MAI FINITA: SIMONE WEIL TRA STORIA E PROFEZIA. Il potere delle "parole maiuscole"
Novecento. Simone Weil tra storia e profezia
Continua a suscitare interesse la filosofa, della quale tornano in libreria saggi e testimonianze Forte in lei il rifiuto del potere, violento tradimento dell’ideale
di Roberto Righetto (Avvenire, domenica 27 febbraio 2022)
È sempre l’ora di Simone Weil. Anche in Italia si continuano a pubblicare, o ripubblicare, le sue opere. La casa editrice Eleuthera propone, nel volume Incontri libertari a cura di Maurizio Zani (pagine 272, euro 18,00) alcuni suoi scritti giovanili su marxismo e nazismo ove trapela l’ostilità della pensatrice francese verso ogni forma di Stato. Erano gli anni in cui la Weil decideva di andare a lavorare in fabbrica per condividere la sorte degli operai e in cui maturava l’idea di porre in atto un’opera di sensibilizzazione culturale dei ceti popolari, consapevole - come sarebbe stato anni dopo don Milani - che solo l’istruzione avrebbe potuto infondere nei lavoratori e nelle lavoratrici la coscienza dei propri diritti. Anni in cui Simone si recò in Germania per verificare l’operato dei partiti di sinistra e dei sindacati e in cui ospitò a Parigi Trockij, col quale però litigò perché l’esponente comunista, pur rivale di Stalin, giudicava ancora positivamente l’esperimento sovietico e qualificava come “operaio” lo Stato russo.
In quei primi anni Trenta la Weil maturò un giudizio complessivamente negativo verso la forma statale, ritenuta sinonimo di oppressione. Aveva in mente le degenerazioni autoritarie del comunismo in Russia e presentiva quanto stava germinando in Germania con l’affermarsi del nazismo. Anche a livello di filosofia della storia, criticava Marx e le sue teorie viziate da un «riduzionismo esasperato», che riconduce solo agli elementi economici e ai rapporti di produzione i movimenti storici fondamentali, ignorando l’apporto degli individui e dei fattori psicologici e culturali.
Delusa dai partiti comunisti e socialdemocratici che vede all’opera in terra tedesca, «la Weil - scrive Zani - avverte un sensibile isolamento rispetto a tutte quelle forze intellettuali e politiche che sembrano incapaci di cogliere le minacce incombenti in Europa e che porteranno alla tragedia della Seconda guerra mondiale». Spirito inquieto e sinceramente ribelle, Simone Weil, dopo l’infelice esperienza della Guerra civile spagnola, lasciò cadere a poco a poco i suoi interessi verso la politica e si indirizzò verso temi più filosofici e religiosi.
Come risulta evidente da un altro volume che Mimesis ora ripropone, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta di Joseph-Marie Perrin e Gustave Thibon (pagine 170, euro 16,00), che raccoglie le testimonianze delle due figure che più la introdussero alla fede cristiana assieme a padre Marie-Alain Couturier, quest’ultimo incontrato dopo aver lasciato la Francia per gli Stati Uniti, nel luglio 1942. Non a caso scrisse proprio a lui queste parole nella Lettera a un religioso: «Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, avverto quasi la certezza che questa fede è la mia, o più esattamente sarebbe mia senza la distanza che la mia imperfezione ha posto tra me e lei».
A Couturier l’aveva presentata il confratello domenicano Perrin, che Simone aveva frequentato a Marsiglia a partire dal 1941. Con quest’ultimo, impegnato nella Resistenza, era diventato amico e a lungo avevano discusso del cristianesimo, anche animatamente. Ma la filosofa aveva preferito non ricevere il battesimo.
Pur manifestando la sua adesione alla figura di Cristo, rimanevano in lei numerose perplessità sulla Chiesa cattolica. Che emergono in tutta evidenza nel volume Attesa di Dio, pubblicato postumo nel 1949 proprio su iniziativa di padre Perrin.
Non sopportava la Chiesa cattolica come organizzazione e collettività, e poi l’incapacità che riscontrava a quel tempo di valorizzare le altre culture e religioni e il mondo dei non credenti (non c’era ancora stato il Concilio), manifestatasi con la violenza più volte nel corso della storia. Infine, pesava il suo sentirsi inadeguata a essere accolta dalla Chiesa. Per questo partecipava alla Messa ma non voleva ricevere l’ostia.
Anche in un altro saggio, I catari e la civiltà mediterranea, che opportunamente Marietti rimanda in libreria, emerge la sua critica alla politica centralizzatrice della Chiesa che avrebbe aperto la strada all’Inquisizione, fermando anche la spinta per un modello pacifico che veniva dall’Umbria, con san Francesco. Allo stesso modo, il gotico avrebbe cancellato il romanico.
Come racconta nel volume ripubblicato da Mimesis Gustave Thibon, il filosofo-contadino che Simone frequentò in Provenza fra il 1941 e il ’42, l’ostacolo intellettuale verso la Chiesa rimase insormontabile. Di qui la sua simpatia verso il manicheismo e il catarismo e la sua ripetuta condanna delle degenerazioni totalitarie del cattolicesimo nel corso della storia.
La sua preferenza andava ai vinti, a coloro che avevano - e hanno - saputo resistere al male prendendo su di sé il dolore degli altri. Thibon ne riporta un aforisma: «La pulizia filosofica della religione cattolica non è mai stata fatta; per farla, bisognerebbe essere al contempo dentro e fuori».
Ma nonostante tutto, così conclude la sua testimonianza: «Tutto ciò che sappiamo di Simone Weil ci fa intuire che appartiene a quella Chiesa dei santi la cui vita è nascosta in Dio. Simone Weil ha appassionatamente amato l’anima della Chiesa; se ne è nutrita, vi ha attinto le sue più alte ragioni di vita: il suo solo errore è stato di dimenticare che quest’anima si portava dietro un corpo, con la sua miseria e le sue esigenze. E non solo ha vissuto di Chiesa, ma ha desiderato morire per essa».
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E MESSAGGIO EVANGELICO: UNA QUESTIONE DI "RICAPITOLAZIONE", SECONDO UMANITA’ ("ECCE HOMO") NON SECONDO VIRILITA’ ("ECCE VIR)! *
La “ricapitolazione” di tutte le cose in Cristo
di Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 14 febbraio 2001) *
1. Il disegno salvifico di Dio, “il mistero della sua volontà” (Ef 1,9) concernente ogni creatura, è espresso nella Lettera agli Efesini con un termine caratteristico: “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, celesti e terrestri (cfr Ef 1,10). L’immagine potrebbe rimandare anche a quell’asta attorno alla quale si avvolgeva il rotolo di pergamena o di papiro del volumen, recante su di sé uno scritto: Cristo conferisce un senso unitario a tutte le sillabe, le parole, le opere della creazione e della storia.
A cogliere per primo e a sviluppare in modo mirabile questo tema della ‘ricapitolazione’ è sant’Ireneo vescovo di Lione, grande Padre della Chiesa del secondo secolo. Contro ogni frammentazione della storia della salvezza, contro ogni separazione tra Antica e Nuova Alleanza, contro ogni dispersione della rivelazione e dell’azione divina, Ireneo esalta l’unico Signore, Gesù Cristo, che nell’Incarnazione annoda in sé tutta la storia della salvezza, l’umanità e l’intera creazione: “Egli, da re eterno, tutto ricapitola in sé” (Adversus haereses III, 21,9).
2. Ascoltiamo un brano in cui questo Padre della Chiesa commenta le parole dell’Apostolo riguardanti appunto la ricapitolazione in Cristo di tutte le cose. Nell’espressione “tutte le cose” - afferma Ireneo - è compreso l’uomo, toccato dal mistero dell’Incarnazione, allorché il Figlio di Dio “da invisibile divenne visibile, da incomprensibile comprensibile, da impassibile passibile, da Verbo divenne uomo. Egli ha ricapitolato tutto in se stesso, affinché come il Verbo di Dio ha il primato sugli esseri sopracelesti, spirituali e invisibili, allo stesso modo egli l’abbia sugli esseri visibili e corporei. Assumendo in sé questo primato e donandosi come capo alla Chiesa, egli attira tutto in sé” (Adversus haereses III, 16,6). Questo confluire di tutto l’essere in Cristo, centro del tempo e dello spazio, si compie progressivamente nella storia superando gli ostacoli, le resistenze del peccato e del Maligno.
3. Per illustrare questa tensione, Ireneo ricorre all’opposizione, già presentata da san Paolo, tra Cristo e Adamo (cfr Rm 5,12-21): Cristo è il nuovo Adamo, cioè il Primogenito dell’umanità fedele che accoglie con amore e obbedienza il disegno di redenzione che Dio ha tracciato come anima e meta della storia. Cristo deve, quindi, cancellare l’opera di devastazione, le orribili idolatrie, le violenze e ogni peccato che l’Adamo ribelle ha disseminato nella vicenda secolare dell’umanità e nell’orizzonte del creato. Con la sua piena obbedienza al Padre, Cristo apre l’era della pace con Dio e tra gli uomini, riconciliando in sé l’umanità dispersa (cfr Ef 2,16). Egli ‘ricapitola’ in sé Adamo, nel quale tutta l’umanità si riconosce, lo trasfigura in figlio di Dio, lo riporta alla comunione piena con il Padre. Proprio attraverso la sua fraternità con noi nella carne e nel sangue, nella vita e nella morte Cristo diviene ‘il capo’ dell’umanità salvata. Scrive ancora sant’Ireneo: “Cristo ha ricapitolato in se stesso tutto il sangue effuso da tutti i giusti e da tutti i profeti che sono esistiti dagli inizi” (Adversus haereses V, 14,1; cfr V, 14,2).
4. Bene e male sono, quindi, considerati alla luce dell’opera redentrice di Cristo. Essa, come fa intuire Paolo, coinvolge tutto il creato, nella varietà delle sue componenti (cfr Rm 8,18-30). La stessa natura infatti, come è sottoposta al non senso, al degrado e alla devastazione provocata dal peccato, così partecipa alla gioia della liberazione operata da Cristo nello Spirito Santo.
Si delinea, pertanto, l’attuazione piena del progetto originale del Creatore: quello di una creazione in cui Dio e uomo, uomo e donna, umanità e natura siano in armonia, in dialogo, in comunione. Questo progetto, sconvolto dal peccato, è ripreso in modo più mirabile da Cristo, che lo sta attuando misteriosamente ma efficacemente nella realtà presente, in attesa di portarlo a compimento. Gesù stesso ha dichiarato di essere il fulcro e il punto di convergenza di questo disegno di salvezza quando ha affermato: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E l’evangelista Giovanni presenta quest’opera proprio come una specie di ricapitolazione, un “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52).
5. Quest’opera giungerà a pienezza nel compimento della storia, allorché - è ancora Paolo a ricordarlo - “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).
L’ultima pagina dell’Apocalisse - che è stata proclamata in apertura del nostro incontro - dipinge a vivi colori questa meta. La Chiesa e lo Spirito attendono e invocano quel momento in cui Cristo “consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza... L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa (Dio) ha posto sotto i piedi” del suo Figlio (1Cor 15,24.26).
Al termine di questa battaglia - cantata in pagine mirabili dall’Apocalisse - Cristo compirà la ‘ricapitolazione’ e coloro che saranno uniti a lui formeranno la comunità dei redenti, che “non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione” (CCC, 1045).
La Chiesa, sposa innamorata dell’Agnello, con lo sguardofisso a quel giorno di luce, eleva l’invocazione ardente:“Maranathà” (1Cor 16,22), “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20).
* FONTE: VATICAN.VA, 14 FEBBRAIO 2001 (RIPRESA PARZIALE)
FLS
COSMOTEANDRIA E SONNO DOGMATICO: SCHOPENHAUER E IL MACROANTROPO, IL CORPO MISTICO DEL MONDO.
Storia della filosofia
Le considerazioni di Schopenhauer sulla sua filosofia
di Saverio Mariani (Ritiri Filosofici, 20 Febbraio 2022)
In quella che abbiamo definito (almeno in parte) un’opera a sé stante di Arthur Schopenhauer, il filosofo tedesco si pone nella posizione di commentare il suo contributo filosofico in relazione alla storia della filosofia nella quale sente di ricoprire un posto. Nei Supplementi a «Il Mondo come volontà e rappresentazione» infatti, Schopenhauer è franco, diretto, in alcuni passaggi appare “scocciato” da un certo ambiente filosofico. Ci sono ampi passi dell’opera nei quali entra in un dialogo nient’affatto morbido con la filosofia del suo tempo. -L’ultimo capitolo dei Supplementi, il cinquantesimo, è sintomatico essenzialmente di due cose: dell’enorme contrasto che Schopenhauer ha vissuto con l’ambiente filosofico tedesco e del rapporto ambivalente con Spinoza [1]. Entrambe queste cose, a ritroso potremmo dire, ci permettono di capire ancora meglio quanto nelle pagine precedenti l’autore ha trattato con dovizia e una acutezza importante. In queste poche pagine l’autore condensa alcune coordinate fondamentali per apprezzare lo sforzo immane che nel Mondo e poi nei Supplementi egli ha compiuto.
Filosofia immanente ed esperienza
In apertura del capitolo Schopenhauer dice esplicitamente che, prima di chiudere, c’è ancora qualche considerazione sulla sua filosofia che si può svolgere. Ancora una volta, per i motivi che abbiamo già indagato, egli rivendica l’aderenza «ai dati di fatto dell’esperienza esteriore e interiore» (Schopenhauer 2013, 817), quasi a rimarcare la solidità delle premesse di tutto il suo ragionamento. Ciò che è fuori dell’esperienza non è oggetto della filosofia: la filosofia per questo è immanente, ovvero si occupa di ciò che è all’interno della sfera dell’esperienza («nel senso kantiano del termine», scrive).
Tuttavia, persistono delle domande che non possono non essere prese in considerazione; domande che però evadono il campo dell’esperienza e quindi si pongono su un livello diverso rispetto alla filosofia immanente di cui Schopenhauer si fa promotore. Sono le stesse questioni che Kant riconosceva come oggetto della metafisica, alle quali quindi il Principio di ragione - che per l’autore è «l’espressione della forma più generale e costante del nostro intelletto» (Schopenhauer 2013, 818) - non può rispondere. È il tentativo di applicare il Pdr a elementi esterni all’esperienza che ci porta a sbattere contro problemi senza soluzione, «contro le pareti del nostro carcere». L’imperscrutabilità di queste domande, si badi bene, è assoluta, non relativa: in nessun luogo e in nessun tempo si potrà dare, per mezzo dell’intelletto umano, una risposta a tali questioni. Questa zona insondabile non rientra nella forma della conoscenza, e per dare conto di ciò Schopenhauer si affida alle parole di Scoto Eriugena nel De divisione naturae: «Della meravigliosa divina ignoranza, per la quale Dio non capisce che cosa Egli stesso sia» (Schopenhauer 2013, 819).
Quello che sfugge è dunque l’essenza delle cose, una essenza che non è «conoscente, non è intelletto, bensì un’essenza priva di conoscenza», di essa se ne può avere una comprensione parziale, non «esauriente e capace di soddisfare ogni esigenza». Ma questo, conclude Schopenhauer, «concerne i limiti della mia e di ogni filosofia» (Schopenhauer 2013, 819-820).
L’unità
Fatte tutte queste premesse, Schopenhauer compie un passo in avanti. Scrive infatti che l’unità e unicità dell’essenza delle cose è qualcosa di già concepito da tempo: «gli Eleati, Scoto Eriugena, Giordano Bruno e Spinoza lo avevano ampiamente insegnato e Schelling aveva rinfrescato questa dottrina» (Schopenhauer 2013, 820). Il che cosa sia questa unità (Uno) e come si manifesti nella molteplicità (ovvero come si compia il processo di rarefazione da Uno a Molti), sono questioni «la cui soluzione si trova per la prima volta nella mia filosofia».
La svolta si ha grazie a un rovesciamento del punto di vista e al contempo del principio su cui si incardina la comprensione del mondo: non è l’uomo ad essere un microcosmo, piuttosto è il mondo ad essere un «macroantropo». Il mondo si comprende a partire dall’uomo, da ciò che è immediato (l’autocoscienza), per poi passare a quel che è mediato, ovvero all’intuizione esterna.
Il metodo analitico che Schopenhauer rivendica - installato nel quadro ineluttabile dell’esperienza - apre una nuova visuale filosofica nella quale i dati immediati della coscienza, come li chiamerà Bergson qualche anno dopo, ci mostrano la rete di rapporti e il tessuto che ci tiene connessi l’uno all’altro: la volontà.
Se questa posizione può sembrare affine a quella della filosofia panteista, Schopenhauer prende subito le distanza mostrando come esistano sì dei punti di contatto ma anche dei decisivi punti di distanza. Innanzitutto il metodo di conoscenza, ma anche la ricomprensione del male e delle storture del mondo nella “perfezione” di Dio o della Natura. Inoltre, scrive Schopenhauer «per i panteisti il mondo dell’intuizione, ossia il mondo come rappresentazione, è appunto una manifestazione intenzionale del Dio che abita in esso, ma questo non include alcuna spiegazione autentica del suo prodursi» (Schopenhauer 2013, 821-822).
Spinoza
Le riflessioni generali sui panteisti non sono che i prodromi del confronto che Schopenhauer sente di dover avere con Spinoza, e con il quale chiuderà la sua opera.
Dopo la critica kantiana, sostiene Schopenhauer, «i filosofanti tedeschi si sono nuovamente gettati quasi tutti su Spinoza», costruendo di fatto una filosofia post-kantiana che «altro non è che spinozismo agghindato senza gusto, avviluppato in discorsi incomprensibili d’ogni sorta e in vario modo deformato» (Schopenhauer 2013, 822). Il giudizio è sferzante, netto, inequivocabile e pienamente nello stile schopenhaueriano.
Il rapporto che c’è fra Spinoza e Schopenhauer, dice quest’ultimo, è quello che intercorre fra il Vecchio e il Nuovo Testamento: per entrambi «il mondo esiste per sua forza interiore e da se stesso». Ma se Spinoza si è limitato a spersonalizzare Jehova, il Dio-Creatore del Vecchio Testamento, la Volontà schopenhaueriana - «intima essenza del mondo» - è Gesù crocefisso, o il ladrone crocefisso al suo fianco. In Spinoza, infatti secondo Schopenhauer, il Deus è una perfezione di cui rallegrarsi, un’unità dalla quale nulla fuoriesce e tutto è divino. «Quello di Spinoza è ottimismo» (Schopenhauer 2013, 823); ottimismo a cui Schopenhauer guarda con sospetto, poiché tanto il neo-spinozismo, quanto ogni altra dottrina che riconduce l’esistenza del mondo a una qualche necessità assoluta, tanto le dottrine di chi crede che il mondo sia il frutto della creazione benevola di un Dio, ci pongono nell’alveo del fatalismo.
Schopenhauer sostiene di essere il primo ad aver liberato la filosofia da questo vincolo, perché «l’atto di volontà dal quale scaturisce il mondo è il nostro. È un atto libero, giacché il principio di ragione, dal quale solamente ogni necessità riceve il proprio significato, è la mera forma della sua manifestazione fenomenica» (Schopenhauer 2013, 824). E per questo nel momento in cui essa esiste si dipana secondo necessità. Il piano della rappresentazione, dunque, governato dal Principio di ragione ci mostra come necessario qualcosa che è invece, naturalmente, libero. La nostra libertà - conclude Schopenhauer - sta nell’arretrare alle spalle della rappresentazione, immergersi nella «costituzione di quell’atto di volontà e conseguentemente eventualiter volere altrimenti». In altre parole, risiede in quello “spazio” pre-umano che pone le condizioni del nostro mondo come rappresentazione.
Su quest’ultimo punto, per quanto Schopenhauer scriva, Spinoza risuona forte insieme a una piccola schiera di filosofi per cui la molteplicità è il mondo e la porta di accesso alla sfera comune entro la quale tutti ci ritroviamo a bagno sentendoci finalmente liberi.
Note:
[1] Su un altro rapporto ambivalente nei confronti di Spinoza ho provato a dare conto in: Bergson duplice. Spinoza nemico-amico della filosofia della durata, in Lo sguardo n. 26-2018 (I): http://www.losguardo.net/it/bergson-duplice-spinoza-nemico-amico-della-filosofia-della-durata/
Bibliografia:
Schopenhauer 2013: A. Schopenhauer, Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione», trad. Giorgio Brianese, Einaudi, 2013
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
SPINOZA, UN "FIGLIO" DEL "DEUS", NON UN "FIGLIO" DEL "LUPUS" (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL).
Federico La Sala
Verso il 25 dicembre.
Perché l’albero di Natale ha un significato cristiano
Una tradizione nata nel Nord Europa che rimanda all’Eden, al peccato originale riscattato da Cristo, alla croce come albero della vita. Fra i doni sotto l’abete anche quello per i poveri
di G.Gamb. (Avvenire, sabato 18 dicembre 2021)
L’albero di Natale evoca sia l’albero della vita piantato al centro dell’Eden, sia l’albero della croce perché Cristo è il vero albero della vita che ha liberato l’uomo dal peccato. Secondo gli evangelizzatori dei Paesi nordici, l’albero è cristianamente ornato con mele e ostie sospese ai rami. Il Direttorio avverte che «tra i doni posti sotto l’albero non dovrà mancare il dono per i poveri».
Scriveva l’allora cardinale Joseph Ratzinger nel 1978: «Quasi tutte le usanze prenatalizie hanno la loro radice in parole della Sacra Scrittura. Il popolo dei credenti ha, per così dire, tradotto la Scrittura in qualcosa di visibile... Gli alberi adorni del tempo di Natale non sono altro che il tentativo di tradurre in atto queste parole: il Signore è presente, così sapevano e credevano i nostri antenati; perciò gli alberi gli devono andare incontro, inchinarsi davanti a lui, diventare una lode per il loro Signore».
Il significato cristiano dell’albero di Natale non va fatto derivare dal solstizio d’inverno, ma ha un’origine propria che risale ad una tradizione medievale e al suo significato religioso: le rappresentazioni dei misteri, che, quale preludio alla festività natalizia, nella Santa Notte mettevano in scena, davanti ai portali delle chiese, la storia del peccato originale nel Paradiso. Nella Bibbia non viene indicata la specie dell’albero, e a secondo delle zone esso si identificava con le piante locali. In Germania si trattava del melo e il suo frutto si è imposto come «frutto proibito».
Poiché il 24 dicembre era difficile trovare un melo in fiore, si ricercò un albero diverso, e naturalmente si impose la scelta del sempreverde abete, tanto più che già in precedenza i suoi rami erano serviti da ornamento dei portali durante il periodo natalizio. All’abete si appese la mela (o parecchie mele). Così questo tipo di rappresentazione conferì all’albero di Natale il suo significato cristiano: nella notte del Natale il peccato dell’uomo è stato espiato per mezzo dell’incarnazione di Cristo.
ARTE, RELIGIONE, E ANTROPOLOGIA. SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO...
#DIVINACOMMEDIA: #DUESOLI (#DANTE2021)! PER UNA MIGLIORE #LETTURA DELLA FIGURA DEL PADRE NELL’OMBRA #RICORDARSI DEL #RICONOSCIMENTO DI #SANGIUSEPPE PROPOSTO DA #TERESADAVILA E DI #COMENASCONOIBAMBINI
Quel padre nell’ombra
Il più bel dipinto su san Giuseppe rimasto per secoli ignoto
di Claudio Strinati (L’Osservatore Romano, 04 dicembre 2021)
Uomo probo e riservato, padre maturo, amorevole, sollecito. Questo è il san Giuseppe dipinto nella bellissima pala d’ altare della chiesa di Santa Maria Assunta nel piccolo remoto borgo di Serrone, oggi depositata presso il museo capitolare diocesano di Foligno. Un’ opera d’ arte tanto importante in un luogo così appartato! Un grande dipinto ad olio su tela, alto quasi tre metri per due, rimasto ignoto per secoli fino a che, una quarantina d’ anni fa, fu visto e studiato da un manipolo di esperti guidati da Bruno Toscano, uno dei maggiori storici dell’arte del nostro tempo.
Ne rimasero incantati ma si accorsero che non c’erano testimonianze o documenti antichi che parlassero dell’autore. E non c’erano firme sull’opera tranne una lettera G segnata sulla pialla dietro alla figura del tenero Bambino Gesù in piedi. Lettera che può far individuare l’autore in un artista misterioso e pressoché dimenticato, Giovanni Demostene Ensio, aristocratico pittore attivo in area romana per committenti provenzali tra fine Cinquecento e inizio Seicento, aggregato all’ Accademia di San Luca e noto solo per lusinghiere testimonianze documentarie.
Risultò, infatti, evidente, oltre alla meravigliosa bellezza, la mirabile composizione dei colori fatti di materiali preziosi di origine soprattutto minerale, di cui si sa che il maestro Giovanni Demostene Ensio fosse tra i pochissimi in quel tempo a utilizzare, confermando l’ ipotesi di Toscano che aveva immaginato un ignoto pittore di origine francese o fiamminga, operoso in Italia nei primi anni del diciassettesimo secolo.
Il quadro rappresenta la bottega di san Giuseppe che non è qui un semplice artigiano ma un tecnico di primo livello che lavora il legno anche per l’edilizia. Il pittore descrive infatti con cura scientifica, veramente fiamminga, tutti gli strumenti di lavoro, le assi e i piani su cui il maestro ebanista sta lavorando, nonché la poderosa porta di ingresso al laboratorio fabbricata da Giuseppe stesso, appena aperta per far entrare la morbida luce del mattino. Questa rischiara il sorriso sul volto del Bambino Gesù che, sotto gli occhi seri, attenti e scrupolosi del padre sta legando un pezzetto del filo bianco proveniente dal gomitolo utilizzato dalla mamma nel cucito, per fabbricare un giocattolino a forma di croce, chiara premonizione della sua Passione futura. Con amorevole evangelica umiltà, il pittore rappresenta una miriade di cose sparse per il laboratorio, dai trucioli per terra, alla scatola di lavoro della Vergine agli zoccoli abbandonati al suolo. Tutto forgiato da quell’uomo saggio e avveduto. È lui che ha progettato, costruito e attrezzato il grande ambiente compresa la magnifica finestra bifora che si vede in fondo facendolo sembrare una cattedrale piuttosto che un laboratorio. Ed è lui che ha plasmato il clima familiare e morale che genera sia la composta quiete espressa dalla giovane moglie assorta nei suoi pensieri, sia la crescente consapevolezza del divino fanciullo colto nel momento magico della prima scoperta della famiglia intorno a noi e del mondo che si aprirà di fronte.
Il volto di Giuseppe immerso nell’ombra è nitidamente percepibile. E in questo modo rifulge il padre putativo della tradizione che significa la funzione paterna svincolata dal fattore biologico primario che compete esclusivamente alla madre.
Quasi che il pittore volesse farci vedere, attraverso tale umanissima rappresentazione di san Giuseppe, come questo principio, insondabile e apparentemente discriminante, non valga solo per lui, ma valga in realtà per tutti gli esseri umani anche se i nostri figli non sono figli di Dio.
Ma il pittore ci dice che invece è proprio così. Tutti, maschi o femmine o quant’altro, siamo, in quanto embrioni, feti e persone, figli di Dio perché il corpo generato dalla madre funziona a seguito dell’esito della fecondazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo ma la vita in sé che possiamo chiamare l’ anima scaturisce da qualcos’ altro che possiamo chiamare il divino.
di Claudio Strinati
Segretario Generale dell’ Accademia Nazionale di san Luca
NOTA:
ARTE, RELIGIONE,E ANTROPOLOGIA.
SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
"[...] è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo.
Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe.
Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva.
È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe” [...]" (Antonio Faita, "Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli", Fondazione Terra d’Otranto, 19.03.2020).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 10.11.2019).
Federico La Sala
#DIVINACOMMEDIA (#DANTE2021)!
IL CARDINALE #CUSANO CERCA DI PENSARE L’#INCARNAZIONE MA FA UN PASSO AVANTI E #TRE INDIETRO, VERSO LA #DIALETTTICA COSMOTEANDRICA DELL’#ASSOLUTO DI #HEGEL *
Le tre eresie di Cusano
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 21 Novembre 2021)
«Quando entra nel campo del potere-che-è, ossia nel campo dove il potere è in atto, l’intelletto va a caccia di un cibo estremamente nutriente». Con questa promessa, Cusano inizia la descrizione del secondo campo nel quale cercare la sapienza. La linea argomentativa è quella per cui ciò che non può essere, non è: quod esse potest non est. Ne discende una scoperta che Cusano definisce non di poco conto: e cioè che il non essere non è una creatura. In termini parmenidei si direbbe che il nulla non è pensabile e che la domanda “perché l’essere e non il nulla” non ha nemmeno senso perché il nulla non può mai essere. Di fatto, come dirà in altre opere, esiste solo ciò che può essere in quanto ciò che è impossibile non si realizza. Come conseguenza, noi vediamo l’attualità assoluta in virtù della quale le cose che sono in atto sono ciò che esse sono: hinc actualitatem conspicimus. Tutte queste affermazioni implicano uno scontro con le posizioni della tradizione filosofica aristotelico-tomistica.
Nel Possest la coincidenza di possibilità e necessità
Aristotele aveva stabilito il principio secondo cui l’atto è anteriore alla potenza. La potenza infatti, in quanto principio del divenire, non è sufficiente a realizzare il divenire in quanto è necessario che ci sia una causa che trasformi la potenza in atto. Ma questa causa, che Aristotele definisce come causa efficiente, deve necessariamente essere già in atto.
Cusano non accoglie lo schema aristotelico dell’anteriorità dell’atto sulla potenza in quanto né l’attualità né la possibilità possono avere una precedenza: se l’attualità precedesse la possibilità, allora essa non sarebbe più attualità (che attualità sarebbe infatti quella che si risolvesse in una non attualità?); se la possibilità precedesse l’attualità si avrebbe invece un regresso all’infinito (perché ogni attualità richiederebbe sempre una possibilità che la porta all’atto e via di seguito).
La conseguenza di questo ragionamento è quella di ammettere la coincidenza di possibilità e necessità. Tale coincidenza ha bisogno di un nome e Cusano inventa il neologismo possest, termine che nasce dalla composizione di due termini, posse-est, traducibile con l’espressione il poter essere che è. Con questo termine egli indica la coincidenza, nell’assoluto, del poter essere con l’essere in atto. Tutte le cose, nella realtà indicata da questo termine, sono complicate, perché tutto ciò che esiste, per esistere, deve poter esistere, e dunque deve esistere in quello che è il potere allo stato puro. Ma in questo potere assoluto, che è un potere che è, nel quale l’essere coincide con il potere e la possibilità con l’attualità, devono essere incluse (cioè complicate nel linguaggio cusaniano) tutte le cose. Nel termine possest il Cardinale conia un termine che esprime la congiunzione della potenza di divenire e della potenza divenuta. Poter essere è dunque poter essere in atto, per cui siccome questo poter essere è considerato in atto, si dice che questo poter essere è un posse. Si tratta di una conclusione talmente forte che, prima di proseguire, Cusano la nasconde dietro tre affermazioni che, con l’apparenza di essere devote, contengono altrettante eresie le quali, ad altri pensatori, in altri tempi e in altri modi, sono costate la libertà e la vita.
Un Dio glorioso che non compie miracoli
Quello che noi consideriamo come Dio nella nostra tradizione, afferma Cusano, non è altro che la coincidenza dell’atto puro e della potenza pura. Nonostante egli chiami questa coincidenza Dio glorioso, l’affermazione si risolve in una vera e propria eresia rispetto al pensiero ortodosso, perché la potenza pura era da sempre stata considerata il prodotto dell’atto: ad esempio, come applicazione di questo schema, la prima cosa che Dio produce è la materia la quale, nella tradizione scolastica, non ha niente a che vedere con Dio, il quale era considerato piuttosto come una sostanza costituita da un’essenza diversa da quella che possiede la sostanza materia. Cusano cancella un simile quadro teorico perché quello che era un effetto, la materia, lo inserisce nella causa, che egli chiama Dio, considerata simultaneamente come un soggetto di contrari.
Il risultato di questo ragionamento produce una seconda eresia consistente nel rifiuto del concetto di eminenza. Con questo termine la tradizione aveva designato un modo di esistenza in cui, ciò che si dà attualmente nel mondo, è presente in modo diverso nell’idea di Dio. Questo significa che la creatura è contenuta nella mente del creatore in modo qualitativamente diverso rispetto a quello della creatura: in Dio (ad esempio) anche il mio gatto esiste, ma non esiste così come esiste in sé o come esiste nella mia mente: esiste in un modo diverso (diversità intesa come perfezione) in quanto la sua vera natura non è attingibile dalla nostra conoscenza.
Come conseguenza di questo approccio teorico della Scolastica, la potenza di Dio poteva essere concepita contemporaneamente in due modi: potenza assoluta e potenza ordinata. In quanto Dio è Dio, la potenza di Dio è assoluta; se invece si considera la potenza di Dio espressa nel mondo, la potenza ordinata, questa potenza non è assoluta, perché si ritiene che il mondo non sia tutto ciò che Dio poteva creare e che esso sia una tra le creature di Dio. Nel caso del gatto, esso esiste ed è stato creato; ma il gatto non solo non poteva non essere stato creato ma esistono nella mente di Dio tutta una serie di gatti che, trattenuti nella sua mente, non sono stati creati. Si ritiene cioè che non tutto ciò che è nell’intelletto di Dio è stato da lui creato: la sua volontà infatti avrebbe fatto da filtro rispetto all’infinità delle idee che sono in Dio, idee che solo in parte si sono tradotte nel mondo.
Anche in questo caso Cusano liquida la tradizione perché il concetto di Dio coincide con la possibilità attuata in cui non vi è più alcun residuo di possibilità da esplicare. Se la creazione deriva dalla natura di Dio (e non dalla volontà), se questa natura è infinita, anche l’effetto è infinito, e quindi dobbiamo dire che nel mondo c’è la piena e totale espressione della potenza di Dio. Dire ciò significa anche abolire il principio dei miracoli, ovvero che Dio non può, a partire dalla sua volontà, porre in essere qualcosa che prima era nella sua mente.
La materia è parte di Dio
La coincidenza di possibilità e necessità provoca un mutamento anche nel concetto di materia e ciò dà luogo alla terza eresia, sicuramente quella più scandalosa. Nella Dotta ignoranza, Cusano aveva già spiegato che il concetto della possibilità coincideva con quello della materia. Il problema è che la tradizione aristotelica era giunta a quel concetto nella modalità del non sapere, pensandola come possibilità eretta come principio assoluto e che coesisteva con lo stesso Dio (il quale era pensato in termini puramente spirituali). I platonici chiamarono la possibilità assoluta mancanza, in quanto essa manca di ogni forma. Gli aristotelici la definivano “quasi niente”, perché la materia aveva soltanto in minimo grado le qualità della sostanza. Di conseguenza, essi sostenevano che le forme sono presenti nella materia solo allo stato di possibilità. concludendo poi con la tesi che nella possibilità è presente la totalità delle cose. Cusano stabilisce invece che è impossibile che vi sia una possibilità assoluta, non congiunta cioè con l’atto, perché altrimenti bisognerebbe ammettere conseguenze assurde, come riconoscere un’infinità che parte dalla mancanza: cosa del tutto contraria a Dio perché semmai, in lui, l’infinità non può che partire da un’abbondanza.
Nasce il modello della causalità immanente
Come osserva un interlocutore del cardinale, si deve dire che Dio è in tutte le cose in modo tale da non poter essere altro quello che è. Questa, dice Cusano, è una dottrina da sostenere nel modo più fermo perché la coincidenza nell’assoluto di potenza ed atto consente di spiegare altrimenti la sua dottrina della complicatio. Dio infatti è tutte le cose in modo tale da non essere una di esse più di quanto non sia un’altra. Dio è sole ma non secondo il modo di essere del sole, il quale non è tutto ciò che può essere. Se questa prospettiva si può definire panteistica, non si deve dimenticare il modo esatto in cui essa si qualifica. Nel potere-che-è sono complicate tutte le cose e nessun grado di conoscenza riesce a coglierlo. Ma, soprattutto, «il potere, considerato in senso assoluto, è ogni potere. Pertanto se io vedessi che ogni potere è in atto non resterebbe più nulla. Se infatti restasse qualcosa, si tratterebbe pur sempre di qualcosa che potrebbe essere, per cui non resterebbe se prima non fosse già stata compresa nel potere». La conseguenza di questo discorso è che qualcosa, per essere qualcosa, deve avere la potenza di essere ciò che è e quindi, se non c’è il poter essere, non esiste nulla. Così come non si porta un’onda fuori del mare, è necessario che tutte le cose che sono, siano esistite da sempre nell’eternità: ciò che è stato creato è sempre esistito nel poter essere. Tutte le cose che sono e che si muovono, sono e si muovono nel possest.
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
Santo del giorno: 21 novembre
Solennità di Cristo Re *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
«Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire. In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo. Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo « ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ». Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: « Il mio regno non è di questo mondo ». L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Fonte: Santo del giorno, 21 novembre 2021 (ripresa parziale).
Note:
Martirologio Romano: Solennità di nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo: a Lui solo il potere, la gloria e la maestà negli infiniti secoli dei secoli:
"[...] Questa festa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica “Quas primas” dell’11 dicembre 1925, a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell’anno.
È poco noto e, forse, un po’ dimenticato. Non appena elevato al soglio pontificio, nel 1922, Pio XI condannò in primo luogo esplicitamente il liberalismo “cattolico” nella sua enciclica “Ubi arcano Dei”. Egli comprese, però, che una disapprovazione in un’enciclica non sarebbe valsa a molto, visto che il popolo cristiano non leggeva i messaggi papali. Quel saggio pontefice pensò allora che il miglior modo di istruirlo fosse quello di utilizzare la liturgia. Di qui l’origine della “Quas primas”, nella quale egli dimostrava che la regalità di Cristo implicava (ed implica) necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico: “Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici”. Dichiarava, quindi, di istituire la festa di Cristo Re, spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l’umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.
Tale festività coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico, con ciò indicandosi che Cristo Redentore è Signore della storia e del tempo, a cui tutti gli uomini e le altre creature sono soggetti. Egli è l’Alfa e l’Omega, come canta l’Apocalisse (Ap 21, 6). Gesù stesso, dinanzi a Pilato, ha affermato categoricamente la sua regalità. Alla domanda di Pilato: “Allora tu sei re?”, il Divino Redentore rispose: “Tu lo dici, io sono re” (Gv 18, 37).
Pio XI insegnava che Cristo è veramente Re. Egli solo, infatti, Dio e uomo - scriveva il successore Pio XII, nell’enciclica “Ad caeli Reginam” dell’11 ottobre 1954 - “in senso pieno, proprio e assoluto, ... è re”. [...]" (cfr. "Santi e beati": Francesco Patruno).
PIO XI, LETTERA ENCICLICA QUAS PRIMAS, 11 dicembre 1925
FLS
FILOLOGIA, TEOLOGIA, E STORIA: LA SANTA EUCARISTIA E LA DIPLOMAZIA DELL’EUCARESTIA.
#ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA #STORIA E #FILOLOGIA. "La #politica dell’#eu-#carestia" - #oggi (la @repubblica , #30ottobre2021) - "segnala" un #problema di #dottrina, di #interpretazione, e di #storiografia di #lungadurata... quello della #Grazia ("#Charis"). O no? Buon lavoro. Grazie.
Federico La Sala
L’esito del Sinodo? Si vedrà da quel che dirà sui monaci, non sui divorziati
Oggi chiude il Sinodo sulla famiglia. Cosa ne uscirà? Ne abbiamo parlato con lo storico Alberto Melloni. «Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci». Ecco perché.
di Sara De Carli (Vita, 24 ottobre 2015)
Perché è necessario ripensare il concetto di matrimonio e di famiglia? E perché lo deve fare proprio la Chiesa dal momento che sulla scena culturale oggi abbiamo comunque già tante altre proposte di unione?
Quando noi oggi parliamo di famiglie e matrimonio, con tutte le varianti e i plurali del caso, non parliamo in realtà di cose tanto diverse. Il matrimonio oggi ha una radice unitaria, quella del matrimonio tridentino, che prevede il consenso tra i due coniugi e due ospiti ingombranti: i fini (essenzialmente il remedium concupiscienzae e il fare figli) e l’autorità. Non si esce da questo modello, tant’è che anche nella discussione più progressista sulla scena, quella sul matrimonio fra persone omosessuali, il punto è sempre ancora l’autorità dello Stato che riconosca il matrimonio e i fini ovvero la questione dei figli e dell’adozione. Se non vogliamo rimanere fermi lì dobbiamo recuperare il fatto che il matrimonio vive nello scarto fondamentale che c’è in ciò che Gesù dice di esso: da un lato ripudia la pena di morte per l’adultera, dall’altro dice “chi sono mia madre e i miei fratelli?”. Gesù annuncia una possibilità per il coniugio e nel tempo stesso ne dice l’irrilevanza. L’annuncio di Gesù è un annuncio che dice che la relazione fra due persone è più grande e al tempo stesso più piccola di quello che ci si può aspettare, che l’amore e il coniugio è infinitamente fragile e infinitamente forte, che nell’amore è possibile vivere già qui l’unione così come la voleva Dio prima dell’inizio del mondo e insieme che la relazione non conta nulla davanti al Regno. Le cose viste da qui assumono tutta un’altra prospettiva.
Partire dalla relazione e dalla fragilità significa contemplare la possibilità del fallimento o la fine dell’amore?
Mi ha colpito che la discussione in preparazione del Sinodo, su divorziati, risposati e omosessuali, ha avuto una declinazione tutta giocata sulla teologia morale, mentre i due veri punti del discorso sono Eucaristia e penitenza. La Chiesa sente di avere l’autorità di unire e di sciogliere ma non quella di comunicare il perdono di Dio a chi ha fatto un’esperienza di matrimonio fallimentare, che non necessariamente è nulla, è solo andata male, come capita nella vita? È un cul-de-sac. Che distinzione è quella fra “coniuge innocente” e “coniuge colpevole”? Se c’è una cosa certa nel matrimonio è questa, che non si possono dividere le responsabilità e le colpe, attribuendole solo a uno o solo all’altro. Le ripeto, è un cul-de-sac se non si riesce a indicare la via della penitenza.
Cioè della misericordia, su cui tanto insiste Papa Francesco?
Sì, tant’è che Papa Francesco, con l’indizione dell’Anno Santo della Misericordia ma anche con il motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus ci dice di non essere disposto ad arretrare: non considera la sua posizione sulla famiglia, il matrimonio e la misericordia come una materia politica, ma una questione teologica.
Il Concilio di Trento diceva che la Santa Eucaristia toglie tutti i delitti, anche quelli più gravi. L’Eucarestia non è il certificato di cittadinanza della Chiesa cattolica o di appartenenza a una statualità ecclesiatica: è una medicina, che guarisce tutto. Non c’è una “proprietà” dell’Eucarestia. Dobbiamo ripartire dal sacramento, dal Vangelo, non dalla valutazione dei peccati.
Se si guarda alla condotta morale e al catalogo dei peccati non si può andare lontani da Alfonso de’ Liguori, secondo cui la penitenza per il peccato più grave deve essere piccolissima perché il percorso interiore che hai fatto per arrivare a confessare quel peccato è stata già la tua penitenza. Ma se lo si prende dalla parte dell’annuncio di Gesù, le cose assumono un’altra prospettiva.
Capisco che questo radicale disancoramento è scandalosissimo, anche oggi: pensi - lo scoprì il Cardinale Martini, da biblista - che nel IV secolo i copisti saltarono il capitolo dell’adultera dal Vangelo perché pensarono che fosse “troppo”.
L’ha sorpesa il motu proprio del Papa di riforma dell’iter per ottenere la nullità del matrimonio? Spiazza tutti i giochi di potere dei fronti interni alla Chiesa, in vista del Sinodo, no?
Con questa mossa Papa Francesco ha bruciato le soluzioni facili. Poteva non pubblicare il motu proprio e darlo al Sinodo, così il Sinodo avrebbe potuto dire “Ecco, abbiamo prodotto questo, siamo arrivati a un bel risultato” e fare bella figura davanti al mondo. Lui ha bruciato le tappe, è come se ai Vescovi dicesse: “Cercate ancora, cercate qualcos’altro”. È un alzare l’asticella, oppure un calcio nel sedere: questo lo dimostreranno i Vescovi, che non sono lì per giudicare una proposta, sono lì per lavorare ed essere giudicati. Da un punto di vista canonistico questa semplificazione è una cosa che il cardinale Pompedda chiedeva già negli Anni 90: in molte circostanze i fedeli hanno la perfetta coscienza della nullità del loro matrimonio e questa coscienza non può essere giuridicamente irrilevante per la Chiesa. Vedo però complicazione tutta italiana, che è quella concordataria: l’annullamento infatti annulla gli effetti civili del matrimonio, quindi restano gli obblighi verso i figli ma cessano quelli verso il coniuge. Si rischia di produrre un’ingiustizia, che colpirebbe soprattutto le donne.
Lei si aspetta una rivoluzione dal Sinodo?
Non lo so. Intanto così è troppo breve, sarà come giocare una partita di calcio in 6 minuti anziché in 90: non vince il migliore, vince chi fa gol prima. Se il Sinodo continuerà a ragionare dal punto di vista della teologia morale le strade sono solo due, il rigorismo o il lassismo. Il Sinodo allora sarà un battibecco morale o un virtuosismo canonistico.
L’alternativa vera è partire dall’Eucaristia - che cura tutto - e dall’annuncio del Regno che illumina tutto - il celibato, il matrimonio, il matrimonio naufragato e quello nullo - e illuminando giudica e perdona. Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci.
Che conseguenze ci sarebbero sul piano sociale, al di fuori del recinto della cattolicità?
Sarebbe tutto diverso, perché se la Chiesa si sgancia dal discorso sui fini e sull’autorità anche la politica avrà un’altra libertà. Oggi se uno è contrario al matrimonio fra omosessuali è per forza omofobo e se è favorevole alle unioni civili è per forza anticattolico. Non ha senso. Prendiamo il patto civile: vogliamo immaginare cosa vuol dire una società in cui una unione civile fallisce senza tutele per la parte debole? O pensiamo che le unioni civili resisteranno più dei matrimoni? No, si squaglieranno tanto quanto i matrimoni, uno su quattro, e in quel momento non conterà nulla il fatto che io abbia giocato l’unica cosa che conta nella vita, il tempo, nella compagnia di un altro? In una società di relazioni squagliate chi avrà la peggio? Le donne, che saranno condannate a una subalternità vecchia come il mondo.
Nel suo libro lei scrive che la Chiesa dovrebbe avere la capacità di dire «che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente di vivere un amore senza fine o la fine dell’amore». Come si può pensare il “ricominciare” in un modo più pregnante di una banale “seconda chance”?
La cosa più mirabolante dei divorziati risposati e in quanti chiedono la nullità di un matrimonio è proprio il fatto che una persona che ha fatto un’esperienza umanamente straziante, di fallimento, voglia ancora un rapporto sacramentale e organico con la comunità ecclesiale. La sapienza cristiana ha una chiave per questo. I padri del deserto raccontano di un viandante che va al monastero e chiede “ma voi cosa fate?”. “Cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo”, rispondono quelli. Questa è la chiave della sapienza cristiana. Il cristianesimo non è solo camminare ma è camminare, cadere, rialzarsi, camminare cadere, rialzarsi, camminare. La chiesa avrebbe molto da dire sul perdono, non solo quando uno ha fatto un’esperienza di rottura che si risolve in una nuova relazione, ma nel momento stesso in cui si consuma la rottura. Il perdono non sta alla fine del matrimonio per farne un altro, ma sta dentro al matrimonio. Il matrimonio non è un “tenere duro” nella speranza che non succeda niente: è sapere che qualcosa succederà, ma che si è capaci di perdonare. La Chiesa deve tornare a dire che il fallimento della vita coniugale deriva dalla carenza di perdono e che quando il matrimonio o l’amore finisce c’è bisogno di un surplus di perdono. In quest’ottica il femminicidio, che spesso nasce dall’incapacità di accettare il “torto” dell’abbandono, è anche un problema pastorale.
FLS
PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 8 settembre 2021 *
Catechesi sulla Lettera ai Galati - 8. Siamo figli di Dio
Fratelli e sorelle, buongiorno!
Proseguiamo il nostro itinerario di approfondimento della fede - della nostra fede - alla luce della Lettera di San Paolo ai Galati. L’Apostolo insiste con quei cristiani perché non dimentichino la novità della rivelazione di Dio che è stata loro annunciata. In pieno accordo con l’evangelista Giovanni (cfr 1 Gv 3,1-2), Paolo sottolinea che la fede in Gesù Cristo ci ha permesso di diventare realmente figli di Dio e anche suoi eredi. Noi cristiani diamo spesso per scontato questa realtà di essere figli di Dio. È bene invece fare sempre memoria grata del momento in cui lo siamo diventati, quello del nostro battesimo, per vivere con più consapevolezza il grande dono ricevuto.
Se io oggi domandassi: chi di voi sa la data del proprio battesimo?, credo che le mani alzate non sarebbero tante. E invece è la data nella quale siamo stati salvati, è la data nella quale siamo diventati figli di Dio. Adesso, coloro che non la conoscono domandino al padrino, alla madrina, al papà, alla mamma, allo zio, alla zia: “Quando sono stato battezzato? Quando sono stata battezzata?”; e ricordare ogni anno quella data: è la data nella quale siamo stati fatti figli di Dio. D’accordo? Farete questo? [rispondono: sì!] È un “sì” così, eh? [ridono] Andiamo avanti...
Infatti, una volta che è «sopraggiunta la fede» in Gesù Cristo (v. 25), si crea la condizione radicalmente nuova che immette nella figliolanza divina. La figliolanza di cui parla Paolo non è più quella generale che coinvolge tutti gli uomini e le donne in quanto figli e figlie dell’unico Creatore. Nel brano che abbiamo ascoltato egli afferma che la fede permette di essere figli di Dio «in Cristo» (v. 26): questa è la novità. È questo “in Cristo” che fa la differenza. Non soltanto figli di Dio, come tutti: tutti gli uomini e donne siamo figli di Dio, tutti, qualsiasi sia la religione che abbiamo. No. Ma “in Cristo” è quello che fa la differenza nei cristiani, e questo soltanto avviene nella partecipazione alla redenzione di Cristo e in noi nel sacramento del battesimo, così incomincia. Gesù è diventato nostro fratello, e con la sua morte e risurrezione ci ha riconciliati con il Padre. Chi accoglie Cristo nella fede, per il battesimo viene “rivestito” di Lui e della dignità filiale (cfr v. 27).
San Paolo nelle sue Lettere fa riferimento più volte al battesimo. Per lui, essere battezzati equivale a prendere parte in maniera effettiva e reale al mistero di Gesù. Per esempio, nella Lettera ai Romani giungerà perfino a dire che, nel battesimo, siamo morti con Cristo e sepolti con Lui per poter vivere con Lui (cfr 6,3-14). Morti con Cristo, sepolti con Lui per poter vivere con Lui. E questa è la grazia del battesimo: partecipare della morte e resurrezione di Gesù. Il battesimo, quindi, non è un mero rito esteriore. Quanti lo ricevono vengono trasformati nel profondo, nell’essere più intimo, e possiedono una vita nuova, appunto quella che permette di rivolgersi a Dio e invocarlo con il nome di “Abbà”, cioè “papà”. “Padre”? No, “papà” (cfr Gal 4,6).
L’Apostolo afferma con grande audacia che quella ricevuta con il battesimo è un’identità totalmente nuova, tale da prevalere rispetto alle differenze che ci sono sul piano etnico-religioso. Cioè, lo spiega così: «non c’è Giudeo né Greco»; e anche su quello sociale: «non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina» (Gal 3,28). Si leggono spesso con troppa fretta queste espressioni, senza cogliere il valore rivoluzionario che possiedono. Per Paolo, scrivere ai Galati che in Cristo “non c’è Giudeo né Greco” equivaleva a un’autentica sovversione in ambito etnico-religioso. Il Giudeo, per il fatto di appartenere al popolo eletto, era privilegiato rispetto al pagano (cfr Rm 2,17-20), e Paolo stesso lo afferma (cfr Rm 9,4-5). Non stupisce, dunque, che questo nuovo insegnamento dell’Apostolo potesse suonare come eretico. “Ma come, uguali tutti? Siamo differenti!”. Suona un po’ eretico, no? Anche la seconda uguaglianza, tra “liberi” e “schiavi”, apre prospettive sconvolgenti. Per la società antica era vitale la distinzione tra schiavi e cittadini liberi. Questi godevano per legge di tutti i diritti, mentre agli schiavi non era riconosciuta nemmeno la dignità umana. Questo succede anche oggi: tanta gente nel mondo, tanta, milioni, che non hanno diritto a mangiare, non hanno diritto all’educazione, non hanno diritto al lavoro: sono i nuovi schiavi, sono coloro che sono alle periferie, che sono sfruttati da tutti. Anche oggi c’è la schiavitù. Pensiamo un poco a questo. Noi neghiamo a questa gente la dignità umana, sono schiavi. Così infine, l’uguaglianza in Cristo supera la differenza sociale tra i due sessi, stabilendo un’uguaglianza tra uomo e donna allora rivoluzionaria e che c’è bisogno di riaffermare anche oggi. C’è bisogno di riaffermarla anche oggi. Quante volte noi sentiamo espressioni che disprezzano le donne! Quante volte abbiamo sentito: “Ma no, non fare nulla, [sono] cose di donne”. Ma guarda che uomo e donna hanno la stessa dignità, e c’è nella storia, anche oggi, una schiavitù delle donne: le donne non hanno le stesse opportunità degli uomini. Dobbiamo leggere quello che dice Paolo: siamo uguali in Cristo Gesù.
Come si può vedere, Paolo afferma la profonda unità che esiste tra tutti i battezzati, a qualsiasi condizione appartengano, siano uomini o donne, uguali, perché ciascuno di loro, in Cristo, è una creatura nuova. Ogni distinzione diventa secondaria rispetto alla dignità di essere figli di Dio, il quale con il suo amore realizza una vera e sostanziale uguaglianza. Tutti, tramite la redenzione di Cristo e il battesimo che abbiamo ricevuto, siamo uguali: figli e figlie di Dio. Uguali.
Fratelli e sorelle, siamo dunque chiamati in modo più positivo a vivere una nuova vita che trova nella figliolanza con Dio la sua espressione fondante. Uguali perché figli di Dio, e figli di Dio perché ci ha redento Gesù Cristo e siamo entrati in questa dignità tramite il battesimo. È decisivo anche per tutti noi oggi riscoprire la bellezza di essere figli di Dio, di essere fratelli e sorelle tra di noi perché inseriti in Cristo che ci ha redenti. Le differenze e i contrasti che creano separazione non dovrebbero avere dimora presso i credenti in Cristo. E uno degli apostoli, nella Lettera di Giacomo, dice così: “State attenti con le differenze, perché voi non siete giusti quando nell’assemblea (cioè nella Messa) entra uno che porta un anello d’oro, è ben vestito: ‘Ah, avanti, avanti!’, e lo fanno sedere al primo posto. Poi, se entra un altro che, poveretto, appena si può coprire e si vede che è povero, povero, povero: ‘sì, sì, accomodati lì, in fondo’”. Queste differenze le facciamo noi, tante volte, in modo inconscio. No, siamo uguali. La nostra vocazione è piuttosto quella di rendere concreta ed evidente la chiamata all’unità di tutto il genere umano (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Lumen gentium, 1). Tutto quello che esaspera le differenze tra le persone, causando spesso discriminazioni, tutto questo, davanti a Dio, non ha più consistenza, grazie alla salvezza realizzata in Cristo. Ciò che conta è la fede che opera seguendo il cammino dell’unità indicato dallo Spirito Santo. E la nostra responsabilità è camminare decisamente su questa strada dell’uguaglianza, ma l’uguaglianza che è sostenuta, che è stata fatta dalla redenzione di Gesù.
Grazie. E non dimenticatevi, quando tornerete a casa: “Quando sono stata battezzata? Quando sono stato battezzato?”. Domandare, per avere sempre in mente quella data. E anche festeggiare quando arriverà la data. Grazie.
* Fonte: Vatican.va, 08.09.2021
UNA QUESTIONE FILOLOGICA E ANTROPOLOGICA, EPOCALE:
"L’ #Amore non verrà mai meno": un breve video di @Mode_Valdese con una riflessione e un invito a seguirci - con le opportune restrizioni - nelle attività relative al #sinodovaldese e metodista tra il 22 e il 25 agosto, da Torre Pellice (TO).
"L’ #Amore non verrà mai meno" (1 Cor. 13, 8). Domanda, ma quello antropologico-evangelico o quello andrologico-paolino ("di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo (gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»), e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3).)?! Non è bene precisarlo? Grazie.
Roma.
Benedetto XVI: la Chiesa si esprima con "cuore e spirito", non con le "funzioni"
Il Papa emerito in una intervista a una rivista parla della Chiesa tedesca e la invita a "demondanizzarsi" affinché "il mondo non continui ad allontanarsi dalla fede"
di Redazione Internet (Avvenire, martedì 27 luglio 2021)
Il Pontefice emerito Benedetto XVI rompe il silenzio e rispondendo per iscritto alle domande della rivista tedesca Herder Korrespondenz avanza alcune osservazioni critiche alla Chiesa tedesca. Una Chiesa, osserva Benedetto XVI, che deve parlare "con il cuore e lo spirito" e che deve "demondanizzarsi", perché "finché nei testi ufficiali della Chiesa parleranno le funzioni, ma non il cuore e lo Spirito, il mondo continuerà ad allontanarsi dalla fede".
L’intervista sarà pubblicata nel numero di agosto e la rivista ha anticipato qualche estratto online.
Sullo sfondo, il cammino sinodale della Chiesa in Germania. Joseph Ratzinger osserva che ci si attende "una vera e personale testimonianza di fede degli operatori della Chiesa"; che "nelle istituzioni ecclesiali - ospedali, scuole, Caritas - molte persone sono coinvolte in posizioni decisive che non supportano la missione della Chiesa e quindi spesso oscurano la testimonianza di questa istituzione" e dice che "i testi ufficiali della Chiesa in Germania sono in gran parte scritti da persone per le quali la fede è solo ufficiale".
Nel testo, il Papa emerito definisce irrealistica anche una "fuga nella pura dottrina". Piuttosto, la dottrina deve "svilupparsi nella e dalla fede, non accanto ad essa". Perché una "dottrina che dovesse esistere come una riserva naturale, separata dal mondo quotidiano della fede e dalle sue necessità sarebbe allo stesso tempo una rinuncia alla fede stessa". Nell’intervista, Ratzinger, ricordando la parabola del Vangelo secondo Matteo, ha sottolineato che "la Chiesa è fatta di grano e pula, pesci buoni e pesci cattivi. Quindi non si tratta di separare i buoni dai cattivi, ma di separare i fedeli dagli infedeli".
Benedetto XVI è tornato anche sul suo discorso di Friburgo, pronunciato nel 2011 quando era pontefice, due anni prima di rinunciare al papato. Allora il Papa emerito esortò la Chiesa a "distaccarsi dal mondo"; oggi Benedetto XVI si chiede se la scelta della parola "Entweltlichung" (demondanizzazione), tratta dal filosofo Martin Heidegger, sia stata adeguata in quanto forse non ha "espresso a sufficienza" l’aspetto positivo della sua argomentazione.
#FILOLOGIA
E
#STORIA.
#PILATO
(#Ecce Homo gr.: «idou ho #anthropos»),
#SAN PAOLO
(1Cor. 11, 3: "di ogni #uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]"),
#GIUSEPPEFLAVIO
("Egli era il #Cristo")
Il caso.
Giuseppe Flavio, ambiguo testimone del Cristo
Ci hanno provato in tanti a farne un cripto-cristiano, basandosi su alcuni passi dove sembra porgere la prova dell’esistenza storica di Gesù. Ma in un saggio Luciano Canfora smonta molti pregiudizi
di Franco Cardini (Avvenire, giovedì 8 luglio 2021)
Che ci sia sempre stato, e fin dall’antichità, qualcuno che ha dubitato dell’esistenza di Gesù come personaggio storico, è cosa nota. Del resto, è successo così anche per altri personaggi storici: per Napoleone, ad esempio, che ai bei tempi dell’ipercriticismo storiografico qualche bello spirito in vena di funambolismi comparativistici qualcuno volle far passare come un ’mito solare’.
Per Gesù, poi, le voci dovevano circolare con tanta insistenza che i Padri del Concilio di Nicea, nel 325, credettero bene di metter fine alle chiacchiere annoverandolo nel loro Synbolon (poi divenuto la preghiera del Credo) tra le verità oggetto di dogma. Si continua ancor oggi, peraltro, a discutere sulla storicità della figura del Cristo: argomento al quale è stato dedicato recentemente un tomo di ben 702 pagine, L’invenzione di Gesù di Nazareth, di Fernando Bermejo-Rubio (Bollati Boringhieri). E lo studioso spagnolo, esaminando nel primo capitolo del suo saggio il tema delle fonti storiche disponibili, dedica alcune dense pagine a un passo testuale da secoli considerato ’croce e delizia’ - ma soprattutto ’croce’, ed è il caso di dirlo... - dalla critica.
Si tratta del celebre Testimonium Flavianum, l’insieme di due brevi passi delle Antichità giudaiche (XVIII, 63-64, e XX, 200), nei quali lo storico Giuseppe - che si era denominato ’Flavio’ in omaggio al suo liberatore e patrono, l’imperatore Flavio Vespasiano -, scrivendo naturalmente in greco, accenna a Gesù e lo definisce ’il Cristo’. Personalità straordinaria e discussa, questo Giuseppe. Vissuto fra il 37 e il 103 circa d.C., di famiglia sacerdotale e di tendenze farisaiche, aveva partecipato alla rivolta giudaica del 66 ricoprendo anche funzioni militari importanti. Imprigionato nel 67 dall’imperatore Vespasiano, aveva ricevuto un generoso trattamento, era rimasto in Palestina con Tito, era stato testimone oculare della distruzione del Tempio di Gerusalemme e aveva seguito quindi a Roma il nuovo imperatore.
Giuseppe è (insieme con Filone d’Alessandria, di un paio di generazioni prima) uno dei massimi esempi di quegli ambienti ebraici che si convinsero dell’opportunità della collaborazione con l’impero romano restandone sudditi fedeli. È molto probabile che, nel lungo soggiorno romano coinciso con la seconda parte della sua esistenza, Giuseppe abbia avuto notizia dei nuovi fatti che laceravano sia la comunità degli ebrei restati in Palestina, sia quelli da tempo sparsi per l’impero - ed oltre - e in modo particolare presenti nel Caput Mundi. Il testo di quel passo della sua opera più ampia sembrerebbe una decisa dichiarazione filocristiana. Ma su questo punto è nata una violenta polemica: alcuni hanno accusato il Testimonium di essere un vero e proprio falso, altri vi hanno visto comunque delle infiltrazioni.
Nella secolare polemica sono entrati un po’ tutti: il cardinal Baronio, il dotto calvinista Isaac Casaubon, Edward Gibbon, ovviamente il Voltaire e via dicendo. La pietra dello scandalo non era tanto se davvero Giuseppe Flavio avesse mai nominato Gesù, quanto il fatto che fino dai suoi primi tempi l’intellighenzia cristiana si era impadronita di lui: da Giustino e Minucio Felice a metà del II secolo, fino a Eusebio e quindi, con decisione, a sant’Ambrogio e a san Girolamo, egli era divenuto non solo un testimone sicuro di Gesù ma un cristiano o filocristiano egli stesso.
È stato forse proprio Isaac Casaubon a gettare Luciano Canfora in caccia, sulle tracce di Giuseppe Flavio, della parziale o totale autenticità o meno del Testimonium Flavianum, della legittimità o meno della decisione con la quale gli autori cristiani procedettero al suo arruolamento nelle loro fila. Perché dalla filoromanità al filocristianesimo il passo di un ebreo ellenizzato del I secolo d.C. non è breve e potrebb’essere problematico. E la lettera del Testimonium è di per sé sottilmente ambigua: potrebbe esser letta come un’ovvia attestazione di fede, ma altresì come una tanto dura qualto sottile attestazione anticristiana.
Casuabon è abbastanza noto al grande pubblico in quanto egli e un paio di personaggi con il suo stesso cognome figurano nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco, del 1988. Canfora ne aveva fatto il protagonista di uno studio attentissimo e coinvolgente del 2002, Convertire Casuabon (Adelphi, 2002), un vero e proprio ’thriller filologico’ fondato su un articolato tentativo gesuitico di conquistare al campo cattolico il dotto e implacabile erudito calvinista. Può darsi dunque che quel breve ma non brevissimo scritto che un ventennio fa valse a Canfora il ’Premio Capalbio’ sia la radice e l’antefatto di un suo libro recentissimo, La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato (Salerno, pagine 196, euro 18), che ha l’unico torto di essere stato riduttivamente inserito dall’Editore nella collana ’Piccoli Saggi’. Che un libro di quasi 200 pagine sia, quanto alla sua mole, già ’piccolo’, è discutibile ma accettabile; sul piano della sostanza, però, siamo al livello del Canfora migliore: come filologo rigoroso, come duttile storico capace di spaziare dall’antica Grecia al presente, come polemista lucido e talora perfido e infine - è giusto riconoscerglielo - come scrittore lucido e spesso divertente. Si è detto di lui ch’egli è capace di «trasformare la filologia in spy story e la storia della cultura in appassionante racconto».
Fedeli al suo spirito, ci guarderemo bene dall’assecondare l’odiosa e spregevole pigrizia di quei pessimi lettori di ’gialli’ che vanno subito a sbirciare nelle ultime pagine il nome dell’assassino. Del resto, in questo caso se lo facessero rimarrebbero delusi. Canfora è troppo buon professore per assecondare i vizi degli allievi: e il suo Epilogo - incentrato sulla corrispondenza fra Spinoza ed Heinrich/Henry Oldenburg, segretario della Royal Society di Londra e ’cristiano-apoca-littico’, è la perfetta conclusione filologica di una spy story: se non si è letto con attenzione il libro, si rischia di fraintenderne le conclusioni. Sine labore, nullum gaudium.
“La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato” di Luciano Canfora
Scritto da Laura Bigoni *
Nel XVIII libro delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, autore ebreo di età romana imperiale (37-100 d.C. ca.), si fa menzione del processo a Gesù:
Queste parole, definite nel corso del tempo Testimonium Flavianum, hanno rappresentato il principale biglietto da visita del loro autore per accedere alla tradizione manoscritta occidentale, in massima parte come sappiamo dovuta a mani cristiane; esse costituiscono però anche un appassionante caso filologico, se non altro per la strana ambiguità che le contraddistingue, se le si pensa (così come ce le trasmettono i manoscritti) nella penna di un intellettuale ebreo. -Nella ristampa del 2018 dell’edizione UTET delle Antichità, a cura di Luigi Moraldi, da cui è tratta la traduzione sopra riportata, il passo è presentato addirittura in copertina al secondo volume, di per sé un riconoscimento della centralità di quelle poche righe all’interno dell’opera di Giuseppe Flavio.
Si tratta però, prevedibilmente, di una centralità acquisita nel corso della tradizione e della sempre più grande fortuna che i padri della Chiesa costruirono attorno a Giuseppe Flavio e al suo Testimonium, decretandone di fatto la diffusione (e la copiatura). Proprio della storia di questa straordinaria fortuna ci fa dono Luciano Canfora nella breve ma densissima indagine dal titolo La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato, recentemente pubblicata per Salerno Editrice.
Il libro è organizzato in diciotto brevi capitoli, preceduti da un’introduzione e seguiti da un epilogo; ciascuno aggiunge un tassello al mosaico della tradizione testuale di Giuseppe Flavio, introducendone via via i protagonisti e i contesti. La struttura rende agevole a chi legge il viaggio tra i meandri di una tradizione testuale fatta di riconoscimenti, di attribuzioni pseudonime, di ritocchi più o meno tendenziosi, ma soprattutto, e fatalmente quando si tratta di testi cui si attribuisce valore religioso, di fazioni.
La storia del testo di Giuseppe Flavio narrataci da Canfora diventa infatti ben presto simile a quella della traduzione greca delle Scritture di Israele detta dei Settanta, campo di battaglia per dispute di natura teologica e oggetto di ripetute canonizzazioni. Secondo la puntuale ricostruzione del libro, infatti, la sopravvivenza delle opere quasi complete dell’autore (ovvero Guerra giudaica, Antichità, Contro Apione e Autobiografia) nella tradizione manoscritta sembra ricollegabile ad una cosciente appropriazione culturale da parte dei pensatori cristiani, fin da Eusebio di Cesarea (260-337 ca.) e Girolamo (347-419 ca.).
Nella temperie dei primi secoli del cristianesimo, apparve infatti vantaggioso che uno storico ebreo, che aveva assistito, dalla parte dei Romani, alla distruzione del Tempio a Gerusalemme, avesse anche solo menzionato Gesù e il suo processo, sebbene nel contesto di una serie di seditiones del tempo di Ponzio Pilato (cf. pp. 76ss.). Segno inequivocabile dell’avvenuta appropriazione è la migrazione del Testimonium all’altra grande opera di Giuseppe, la Guerra giudaica, che si trova in alcuni manoscritti, tra cui il Vossiano greco F 72, oggi conservato a Leiden, in cui il nostro testo è addirittura seguito da una scena di giudizio universale, che fa dunque della vicenda terrena di Gesù una tappa cruciale della storia della salvezza, secondo una visione strettamente cristiana; l’accoppiamento ha poi una vita propria nella tradizione successiva (cf. pp. 51s.).
Parallelamente alla fortuna negli ambienti dell’apologetica cristiana, nel mondo ebraico (come in quello pagano, in cui sempre cercò di inserirsi e di farsi leggere, senza successo) Giuseppe è stato ben presto ridotto al silenzio. Le vicende del testo sono alterne a seconda del contesto politico, ma per i cristiani il Testimonium sembra sempre un asso nella manica, come ad esempio nel periodo di crisi della Chiesa sotto Giuliano l’Apostata, in cui fu agevole forzare la dizione di un passo della Guerra guidaica (VI 250, 288-310) a significare una precisa volontà di Dio dietro la distruzione del Tempio, profetizzata ex post nei Vangeli (cf. pp. 155ss.).
Soffermandosi sul Testimonium e tratteggiando uno status quaestionis, l’autore si chiede come mai non ci si sia mai dedicati troppo alla domanda, per lui al contrario centrale, relativa all’appropriazione culturale operata dai cristiani sul testo di Giuseppe Flavio. Verrebbe da chiedersi se non ci sia forse ancora un impalpabile velo di sostituzionismo latente in questo genere di studi, che scoraggi i tentativi di fare luce su stadi precristiani dei testi poi incardinati nella tradizione della Chiesa. Pur lasciando irrisolta l’aporia a proposito degli studi moderni, Canfora punta il dito sul dato, eclatante per la storia della tradizione, che l’opera in greco di Giuseppe sia giunta intera (a fronte del naufragio di gran parte della letteratura, storiografica e non, in greco classico e postclassico), mentre non è rimasta nessuna traccia delle stesure aramaiche (cf. pp. 35ss.).
Importante è il riconoscimento e lo smascheramento del ruolo della progressiva cristianizzazione del Testimonium, che lo apparenta alla traduzione della Bibbia dei Settanta. Sul paragone l’autore si sofferma considerando un dato tanto ovvio quanto trascurato come l’appropriazione delle Scritture tradotte in greco dai giudei della diaspora ellenistica, che passano così nettamente nell’alveo della Chiesa da prendere il nome di ‘Antico Testamento’, che significa naturalmente un presupposto del Nuovo. Come Giuseppe Flavio perde terreno nella tradizione ebraica e di fatto ne scompare, lo stesso varrà per questa straordinaria impresa traduttoria del mondo antico.
Alla fine del capitolo IX è presentato con chiarezza il cruccio che fu di Ambrogio, ma anche di tutta la tradizione patristica, ovvero fino a quanto la Chiesa potesse permettersi di mostrare una continuità tra la tradizione cristiana e il mondo ebraico. In questo senso stabilire un canone diverso da quello ebraico, nella selezione dei libri sacri, nel loro ordine, nella denominazione e nel numero, fu un graduale ma vincente passo verso l’emancipazione della cristianità dalle sue pur irrinunciabili radici ebraiche[1].
La comunanza di destini che lega due testi molto diversi come le Antichità (e a partire da esse, come si è visto, gli opera omnia di Giuseppe Flavio) e la traduzione della Bibbia è occasione per una riflessione sull’importanza della philologia sacra per il metodo storico-critico. Così si esprimeva Pasquali a proposito della eccessiva divisione del lavoro all’interno della filologia: «La colpa di questa ignoranza [della prefazione di Lachmann al Nuovo Testamento] è, credo, tutta della specializzazione. La metà del secolo XIX fu il tempo dei classicisti puri e dei latinisti puri: chi si occupava di Catullo, sdegnava di leggere e studiare il Nuovo Testamento. E d’altra parte i teologi, anche quelli protestanti, non avevano interesse per le quisquilie della storia dei testi. Tutto questo è una prova di più che nella filologia la specializzazione non può che nuocere»[2].
Naturalmente, il testo di Giuseppe Flavio non è ritenuto sacro da alcuna confessione religiosa, ma si è visto come questo non impedisca alla sua storia testuale di presentare questioni simili a quelle tipiche dei testi religiosi, in quanto molto copiati e diffusi, proprio perché ritenuti oltremodo autorevoli. Un omaggio all’affinamento degli strumenti della philologia profana attraverso quella sacra sembra quindi doveroso (cf. pp. 87s.).
In questo libro, Canfora ha molti meriti: il primo è saper restituire gli ingranaggi di eventi molto lontani come se lontani non fossero, come se appartenessero a un presente senza tempo. Il merito di avvicinare le storie dei testi classici raccontandole per quello che sono, storie umane. E spogliandole così dell’aura di sacralità e intoccabilità che abbiamo progressivamente affibbiato all’antico. Nel suo narrare, assumono un ruolo centrale i recessi, il backstage che viene alla luce grazie alla minuzia filologica, col risultato di restituire un complesso vivo. Nei primi capitoli traccia un profilo dell’autore, sottolineando la tipicità e la concretezza della vita di un transfuga ebreo in epoca romana, il compromesso raggiunto con l’ellenismo e con la dominazione straniera, senza mai rinnegare la fede dei padri, ma tentando di inserirla nella (e legittimarla agli occhi della) cultura dominante. Come ci riferisce nel proemio, Giuseppe scrive «perché ritengo di essere debitore a tutti i Greci, perché - così mi pare - comprenderanno la nostra grande antichità e l’ordinamento politico degli Ebrei» (AJ, I 5). Nei capitoli successivi Canfora scava altrettanto scrupolosamente nelle ragioni dei rappresentanti delle fazioni pro e contra Giuseppe, restituendocene i tratti notevoli.
Un secondo merito è quello di aver sparso tra le pagine più di una lezione di filologia e di metodo, con un taglio divulgativo al punto giusto da essere comprensibile ai non addetti ai lavori, ma anche istruttivo, se non altro come memento, a chi addetto lo è eccome. Sfata, ad esempio, miti come quello del copista capriccioso che cambia il testo a suo (com)piacimento (pp. 42s.), e non lo fa per rendere meno appassionante la lettura di un saggio filologico, quanto per rinfrescare in chi legge l’attitudine al metodo storico-critico come valore inderogabile dello studio quotidiano; come ricorda, con felice espressione, a p. 49, «la via d’uscita è sempre la storia del testo».
In questo quadro credo debbano inserirsi anche le parole sferzanti riservate, spesso in nota ma non solo, ad alcune delle nuove imprese di studio comprensivo dell’antichità e dei suoi autori, in cui si ignora sistematicamente la discussione sei-settecentesca e in generale la storia della disciplina. Per esempio, l’affondo di p. 117 su studi contemporanei che, «purché espressi in inglese», possono dire quel che vogliono, dal momento che il nostro «è un ambito di studi nel quale non costa nulla fare passi indietro», o la desolante conclusione di p. 128: «Bilancio. Anche a seguito della feticistica devozione al monolinguismo anglico, si è andata via via smarrendo la conoscenza dei risultati cui era giunta la grande erudizione dei secoli XVI-XVII (quasi sempre in latino). Di conseguenza si riscrive goffamente e con qualche contributo peggiorativo ciò che era stato già da secoli prospettato e argomentato con ben altra finezza e disciplina critica». In effetti, quella di tornare a leggere la storia di una disciplina come la filologia, che funziona inevitabilmente per accumulazione, è nota importante, in un’epoca che sembra talora perdere l’attenzione per la storia[3]. Anche senza entrare in un discorso troppo generale e perciò troppo generico, occorre fare attenzione alla maniera in cui certe argomentazioni sono già state poste in passato; Canfora porta dunque alla luce del pubblico contemporaneo delle situazioni a loro modo paradigmatiche del mestiere della storia e della critica testuale, considerando uno spettro di fonti davvero ampio e riconoscendo il giusto credito a studiosi che sarebbero altrimenti dimenticati anche in opere di settore.
Oltre che illuminare sul metodo, Canfora ricorda a chi legge anche un dato cruciale della natura dei testi, ovvero la loro intrinseca mobilità (è forse questo che più di ogni altro cardine della filologia dovrebbe essere insegnato). L’autore riporta un breve ma significativo cenno ai tempi moderni, in cui sottolinea il valore costante e universale di questa caratteristica dei testi: «per chiarezza, è bene non dimenticare che una ‘citazione’ può nascere anche da un fraintendimento, o da una notizia di seconda mano, che - nel passaggio da una fonte all’altra - si gonfia e si complica, e magari [...] finisce in una ‘Enciclopedia’ (accade anche in tempi moderni)» (p. 51). Nel mutare continuo dei testi, anche una sola parola può bastare a cambiarne il volto, come nel caso del Testimonium, in cui è stato sufficiente sostituire un ‘era ritenuto’ con un ‘era’ nella frase cruciale «egli era il Cristo» (cf. p. 58). Non è certo la prima né l’ultima volta che un’unica parola è in grado di generare effetti così notevoli; si pensi al filioque dei primi concili cristiani, o al solum aggiunto da Lutero nella sua traduzione della Lettera ai Romani (3,28)[4].
Sebbene questo risulti quasi paradossale, vista la sua smisurata produzione scientifica, Canfora ricorda a chi si occupa di filologia il monito nietzschiano a proposito della lentezza di questa disciplina, per cui il/la filologo/a «non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento»[5]. Proprio nel lento ascolto delle fonti e nell’attento vaglio di ciascuna di esse sta la straordinaria (e forse per alcuni inaspettata) apertura della filologia: una metodologia non dogmatica, che presta attenzione alla pluralità delle fonti e al loro intreccio: lo si vede nel libro, ad esempio nell’uso della tradizione araba (cui è dedicato il cap. VII), o di quella siriaca. Le interazioni sempre più strette con le discipline orientalistiche e con le tradizioni delle lingue semitiche spostano l’orizzonte di quello che siamo abituati a conoscere come il mondo classico, ampliandolo e riformandone il concetto stesso.
L’ultima e forse la più importante delle lezioni che si può trarre dalla conoscenza così approfondita di certe controversie sull’autorità dei testi, fitte di accuse e controaccuse dettate da opportunità di politica religiosa (o culturale in senso ampio), è quella di tentare un affrancamento dalla faziosità, una visione laica, inclusiva e basata sulla profondità storica quando si approcciano testi dalla tradizione così imponente. È insomma quella di provare a sostenere un campo di studi che sproni a lasciarsi questo tipo di controversie finalmente alle spalle.
[1] Cf. J. Mead, The Biblical Canon Lists from Early Christianity. Texts and Analysis, Oxford University Press, Oxford 2018.
[2] G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Le Lettere, Firenze 2015, p. 8.
[3] Recentissimo il volumetto di Adriano Prosperi dall’eloquente titolo Un tempo senza storia. La distruzione del passato (Einaudi, Torino 2021).
[4] Sul primo caso, si veda l’inquadramento di L. Perrone, Da Nicea (325) a Calcedonia (451). I primi quattro concili ecumenici: istituzioni, dottrine, processi di redazione, in G. Alberigo (ed.), Storia dei concili ecumenici, Queriniana, Brescia 1990, pp. 11-118; sul secondo, basti leggere la luterana Lettera del tradurre, nella versione italiana a cura di E. Bonfatti (Marsilio, Venezia 2001).
[5] F. Nietzsche, Aurora. Pensieri su pregiudizi morali, trad. it. F. Masini, in B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 329.
* FONTE: PANDORA RIVISTA
#Parola Di Dante
...viro
(Paradiso XXIV, 34)
***
#Beatrice chiede al #proboviro
#SanPietro di verificare
se #Dante ha capito la differenza tra
l’#Ecce Homo dell’#antropologia
(#PonzioPilato: gr. «idou ho #anthropos»)
e
il #vir dell’#andrologia di
#SanPaolo
(#capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]: 1 Cor 11,1-3).
Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza (Mc 12,29-30)
#Questione Antropologica.
La cit. di Mc 12, 29-30 ha un senso andrologico (e cosmo-te-andrico) o antropologico,
come il #Padre di ogni essere umano (#PonzioPilato: #Ecce homo),
quell’#Amore (di #Dante Alighieri),
che muove il #sole e le altre #stelle -
e anche la #Terra?!
#NiccoloCusano,
per indicare la #via alla "#Visione di Dio" (1454), si serve di
un quadro dell’artista Rogier Van der Wayden,
allievo di Robert #Campin,
autore del #TritticodiMerode
Con #Virgilio e #Beatrice (#dueSoli),
#NiccoloCusano,
(«Non è la madre che genera chi è chiamato figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei»)
non esce dall’orbita
della #tragedia (#Eschilo).
#filologia «(gr. «idou ho #anthropos»)
e
#principiodicarità:
#Ascensione «per uno», «per molti» o «per tutti»?!
#DanteAlighieri non narra come stato è possibile uscire dall’#inferno
e
#giungere in #purgatorio e in #paradiso?!
ripartendo dal #saperedinonsapere,
Niccolò Cusano
ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440
la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427)
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*
Controparola/
Donne al futuro
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 20 marzo 2021)
Da quando ho scoperto che nella grammatica esistono termini marcati e termini non marcati - me li ha spiegati un illustre linguista amico di tastiera - non dico che non dormo di notte ma quasi. I termini non marcatI, se ho capito bene, sono dominanti e includenti: per esempio il termine «giorno», che comprende il giorno e la notte; notte invece è un termine marcato, giacché designa soltanto il tempo dell’oscurità. Non marcato è uomo (ci avviciniamo al tema) in quanto comprende se stesso e anche la donna, la quale invece, guardacaso, è marcata quale «soltanto» donna.
Dovevo ripensare a questa disparità grammaticale nel leggere Donne al futuro, raccolta di saggi di donne che parlano «soltanto» di altre donne, uscito per il Mulino a cura delle amiche di Controparola. Si tratta di un gruppo di scrittrici e giornaliste, nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini, che ha pubblicato diversi libri sulle donne tra i quali Donne del Risorgimento, Donne nella Grande Guerra, nella Repubblica, nel Sessantotto e ora al futuro. Sono Paola Cioni, Eliana Di Caro, Paola Gaglianone, Dina Lauricella, Lia Levi, Dacia Maraini, Cristiana Palazzoni, Maria Serena Palieri, Valeria Papitto, Linda Laura Sabbadini, Francesca Sancin, Cristiana di San Marzano, Mirella Serri, cui si deve Donne al futuro (il Mulino, Bologna 2021). Sempre e soltanto donne. O donne sole, si potrebbe anche dire, che è un’espressione un po’ deprimente ma anche molto divertente, a leggerla con ironia, e con la quale si intendono donne in compagnia di altre donne ma non di uomini. Mentre la dicitura per soli uomini sta per luoghi e/o attività in cui le donne non possono entrare e a cui non devono partecipare (e così è intitolata l’eccellente analisi statistica Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design, appena pubblicata da Codice Edizioni e condotta dalla giornalista Emanuela Griglié e del collega Guido Romeo).
Le donne al futuro di questo libro, soltanto donne marcate nella loro donnità, sono di fatto figure straordinarie, proiettate, come dice il titolo, al futuro o declinate al futuro, visto che siamo partiti dalla grammatica (che innocentemente mi costringe qui a scrivere al maschile benché io sia donna che scrive di donne che scrivono di donne. La lingua sarà anche colpevole ma non nel modo semplificato e a tratti oltraggioso che le attribuiscono le interpretazioni corrive, come spiega puntualmente l’amico linguista il cui nome adesso svelo, Nunzio La Fauci, ma la dice lunga). Donne giovani che lavorano per fabbricare il futuro con l’arte e la musica, l’architettura e l’astrofisica; con l’impegno civile e umanitario (donnitario?), con la ricerca medica, l’economia, la pratica sportiva e l’insegnamento.
Le elenco qui tutte in fila in ordine alfabetico: Alice Pasquini (AliCè), Paola Antonelli, Marica Branchesi, Francesca Bria, Ilaria Capua, Silvia Colasanti, Ilaria Cucchi, Emma Dante, Sara Gama, Rita Giaretta, Giuseppina Multari, Eliana La Ferrara, Laila Abi Ahmed e Isabella Mancini, Barbara Riccardi, Fulvia Signani e le altre, Beatrice Vio. Un ricordo è dedicato alla cittadina del mondo Agitu Ideo Gudeta, uccisa nel dicembre scorso in Trentino, dove si era trasferita e portava avanti la sua attività di imprenditrice.
Non potendo parlare di tutte ho scelto di citarne una sola, l’unica tra l’altro che mi era del tutto ignota, lo confesso e chiedo venia: Sara Gama. Sara Gama, classe 1989, madre triestina e padre congolese, capitana della Nazionale azzurra femminile di calcio nonché vicepresidente dell’Assocalciatori (termine non marcato che comprende anche le calciatrici mentre le calciatrici, marcate dall’essere soltanto donne, non comprendono i calciatori).
Sara Gama, ho scoperto, non soltanto gioca al calcio femminile da quando era una bambinetta ma rivendica anche, per quel calcio di donne, assicurazione sanitaria, previdenze, stipendio e soprattutto dignità. Studentessa liceale, studentessa universitaria - sulla storia del calcio femminile in Europa ha anche scritto la tesi - Sara Gama, che nell’immagine di copertina sembra, coi suoi bei capelli ricci, l’Italia turrita, nel discorso del 4 luglio 2019 al Quirinale, di fronte al presidente Mattarella, ha ricordato l’articolo 3 della Costituzione che sancisce la dignità di tutti i cittadini «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
E questo grazie alle donne della Costituzione, le madri costituient, che contro l’opinione di alcuni padri della costituzione insistettero affinché nell’art. 3 venisse inserita la specificazione «di sesso», perché senza quella la conquista della parità sarebbe stata ancor più difficile di quanto già lo sia.
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE, MARIA, E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE... *
Lo sposalizio di Maria e Giuseppe
Un amore semplice
di Antonio Tarallo *
Si erge con magnifico splendore la pala del Raffaello, insigne maestro del Rinascimento: «Sposalizio della Vergine», olio su tavola firmato Raphael Vrbinas, datato mdiiii . Colpisce la maestria dei colori. Colpisce l’equilibrio perfetto delle forme. La scena del matrimonio di Maria e Giuseppe è posta in primo piano. Dietro di loro, al centro, un sacerdote. Tiene le mani di entrambi, custode delle nozze. Alla sinistra di Maria, le donne. A destra di Giuseppe, un gruppo di uomini. Nell’iconografia tradizionale, usualmente, proprio uno di questi uomini è colto nell’atto di spezzare un bastone. È un ramo secco destinato a non fiorire, a non portare frutto. Solo quello di Giuseppe, invece, fiorisce. Ma da dove proviene questa tradizione?
Secondo i vangeli apocrifi, Maria era cresciuta nel Tempio di Gerusalemme - conservando, quindi, la castità - e, quando giunta in età di matrimonio (secondo la tradizione ebraica) la troviamo promessa sposa di Giuseppe. Il Protovangelo di Giacomo ( ii secolo) ci fornisce alcune informazioni a riguardo. Giuseppe è discendente dalla famiglia di David e originario di Betlemme. Prima del matrimonio con Maria, si sposò con una donna con la quale ebbe sei figli. Rimase però, poi, vedovo. Ed è in questo contesto che si introduce la famosa tradizione del bastone fiorito di Giuseppe. Come? Andando ad approfondire il tema - grazie al lavoro che sta compiendo, da tempo, la Pontificia Accademia mariana internationale sul recupero di una vera ed autentica “storia di Maria”, su un sempre maggiore approfondimento della sua figura, scrostando le sovrastrutture che il tempo ha costruito sopra la Vergine - riusciamo a comprendere meglio questo “arcano” che si dipana tra tradizione e iconografia. Basterebbe pensare a tutte le immagini che raffigurano Giuseppe che tiene in mano un bastone fiorito. È, allora, assai interessante andare a scovare le parole che il vangelo apocrifo riserva a questo episodio: «Indossato il manto dai dodici sonagli, il sommo sacerdote entrò nel santo dei santi e pregò a riguardo di Maria. Ed ecco che gli apparve un angelo del Signore, dicendogli: “Zaccaria, Zaccaria! Esci e raduna tutti i vedovi del popolo. Ognuno porti un bastone: sarà la moglie di colui che il Signore designerà per mezzo di un segno”. Uscirono i banditori per tutta la regione della Giudea, echeggiò la tromba del Signore e tutti corsero. Gettata l’ascia, Giuseppe uscì per raggiungerli. Riunitisi, andarono dal sommo sacerdote, portando i bastoni. Presi i bastoni di tutti, entrò nel tempio a pregare. Finita la preghiera, prese i bastoni, uscì e li restituì loro; ma in essi non v’era alcun segno. Giuseppe prese l’ultimo bastone: ed ecco che una colomba uscì dal suo bastone e volò sul capo di Giuseppe. Il sacerdote disse allora a Giuseppe: “Tu sei stato eletto a ricevere in custodia la vergine del Signore”». Fin qui, ciò che una errata tradizione ci dice. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su questo evento che ha segnato il piano di salvezza di Dio per l’umanità intera.
Il mese di Adar era il mese dei matrimoni. Un proverbio diceva: «Quando arriva Adar, Israele si riempie di gioia!». Troviamo una Maria quindicenne, allora. È una fanciulla che si avvicina all’età in cui le ragazze d’Israele erano solite contrarre matrimonio. Molto probabile che i genitori fossero già morti. Maria era, allora, nella casa di qualche parente della sua famiglia. Il capo di quella famiglia, come rappresentante del padre di Myriam, deve occuparsi del suo futuro. Viene concordato il matrimonio di Maria con Giuseppe. Sono poche le notizie che i Vangeli ci offrono sul “promesso sposo” di Maria. Del loro incontro, nulla sappiamo. È molto probabile che si conoscessero già prima del matrimonio. Il villaggio è piccolo: Nazaret, questo piccolo paese della Galilea.
Giuseppe era della stirpe reale di Davide e, in virtù del suo matrimonio con Maria, conferirà al figlio della Vergine - Figlio di Dio - il titolo legale di figlio di Davide. È l’adempimento delle profezie. Maria sa soltanto che il Signore l’ha voluta sposa di Giuseppe, un “uomo giusto”. Come immaginare, allora, il loro matrimonio? La tradizione giudaica antica ci viene in aiuto. Sappiamo bene che tutta la comunità del villaggio partecipava a questa gioia. Gran sfarzo di abiti. Frasi dell’Antico Testamento che riecheggiavano nella cerimonia: il Talmud, il libro principe di tutto. Gli anziani della città coprivano il loro capo con veli bianchi in segno di superiorità: sono gli anziani, gli uomini più rispettati della comunità. I bambini, in quel giorno così particolare, ricevevano dolci di miele e noci. E lo sposo faceva un regalo alla sposa, un regalo significativo.
«Il ragazzo e Maria si capivano senza parole, non c’era mai tra i due il minimo urto: sembrava che entrassero l’uno nell’altra, che costituissero un’unica persona, tanto era stretta la loro unione», così lo scrittore Pasquale Festa Campanile ci presenta i due coniugi nel suo romanzo Per amore, solo per amore (1983). E a noi, piace trovare in quella parola, «amore», l’infinito Amore di Dio per l’umanità, espresso proprio in un matrimonio, in una unione sponsale tra un giovane e una giovane. Così, semplicemente. Perché Dio è semplice nel suo Amore.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 23 gennaio 2021
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Il Trittico di Mérode è un dipinto di Robert Campin, olio su tavola (129x64,50 cm) conservato nel Metropolitan Museum di New York, nella sezione The Cloisters, e databile al 1427. - Il trittico, formato tipico della produzione di Campin, poteva essere chiuso, ed era probabilmente destinato alla devozione privata. La scena centrale mostra l’Annunciazione, mentre gli scomparti laterali mostrano i due committenti inginocchiati e San Giuseppe al lavoro
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Luoghi dell’Infinito.
Adamo dove sei? Tra la discarica e il Giardino
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo...
di Giovanni Gazzaneo (Avvenire, giovedì 14 gennaio 2021)
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo saputo generare nei millenni creando opere d’arte e meraviglie tecnologiche, modellando colline, facendo dei campi un tripudio di colori e di geometrie, progettando giardini e parchi che, consapevolmente o meno, sono la tangibile nostalgia del Paradiso perduto.
Scrive papa Francesco nella Laudato si’: «Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (215). Abuso che non conosce frontiere, dentro e fuori di noi: smog nei cieli e nei nostri polmoni, microplastiche nei ghiacciai e nelle profondità degli abissi marini, ma anche nel nostro sangue.
Abbiamo reso il mondo una discarica. Ma prima vittima della “cultura dello scarto”, come insegna papa Francesco, è proprio l’uomo: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (Laudato si’ 48).
La cultura meccanicistica e positivista - che si è accompagnata ai primi grandi successi tecnologici dell’epoca moderna e alla promessa dei paradisi in terra (comunisti o capitalisti in questo si equivalgono) - ha proposto una visione riduzionista dell’uomo e della natura. L’uomo è solo corpo, tassello intercambiabile nel mondo della produzione e contenitore di desideri (sempre indotti e mai appaganti) nel magico universo del mercato. La natura è solo materia da sfruttare per la produzione e, a partire dal dopoguerra, per le vacanze di massa.
Questo modo di vedere le cose e gli uomini si è evoluto, più nei linguaggi che nella sostanza. Come sostiene papa Benedetto nel 2012: «Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi». Continuiamo a preferire l’ideologia - oggi destrutturata ma onnipresente con i suoi falsi idoli - alla realtà.
È cresciuta la sensibilità ambientale, ma l’ecologia integrale, proposta da Benedetto XVI e da papa Francesco, non può prescindere da un umanesimo integrale, che riconosca la dignità di ogni persona e di tutti i popoli. Sono tante le persone di buona volontà e le associazioni che lottano perché la natura non sia violata, per le trentamila specie a rischio, perché la foresta amazzonica sia preservata, e anche i cani non siano abbandonati... Ma cala il silenzio, anzi scatta la censura, se lottiamo perché a non essere violata e manipolata sia la natura umana, perché gli embrioni non siano “prodotti” di fabbrica, perché l’utero non si trasformi in un parcheggio a pagamento, perché cinquantasei milioni di bambini non vengano ogni anno democraticamente uccisi nel seno delle loro madri. «I deserti esteriori - afferma papa Benedetto nel 2005 - si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» e continuano a crescere.
La natura è bellezza, ma bellezza sfigurata, fin dalla Genesi, fin dal peccato di Adamo. Ricomporre l’armonia perduta è possibile, come testimonia Francesco d’Assisi. Lui non si è convertito all’ecologismo. L’amore di Francesco per il Creato nasce dalla sua conversione a Cristo, da questa sua sequela che l’ha portato a vedere il mondo e i suoi abitanti con lo stesso sguardo del Figlio dell’uomo, a percepire la giusta e feconda relazione con gli elementi e le creature, ad amare la potenza e la bellezza della vita come riflesso di un atto creativo che non si ferma alla Genesi, ma che continua nello scorrere del tempo. Un sentimento, uno sguardo, un’invocazione che trasformano la vita nella poesia del Cantico delle creature, e poi, con Giotto, nei colori e nelle immagini della più straordinaria rivoluzione artistica. Francesco sapeva che il vertice della Creazione non è l’uomo, ma il Figlio dell’uomo, l’Increato che si fa creatura, l’Eterno che si fa storia, l’Infinito che abbraccia il limite.
La strada indicata da san Francesco è semplice e ardua: non può esserci autentica cura del Creato se dimentichiamo che il nostro abitare, nel segno della custodia e non del possesso e dello sfruttamento, nasce dal nostro essere voluti come figli da un Dio che ci è Padre. Siamo creature e non creatori (al massimo inventori e, con le arti, imitatori dell’atto creativo originario), ma siamo figli: siamo la Sua immagine, magari ferita, rugosa, infangata, perfino negata, combattuta. Eppure quell’immagine resta. È la parte di noi più vera, più gioiosa, più viva, più profonda. Da qui, da questa Presenza in noi, nasce l’amore per la terra, che è madre e sorella e figlia, per le sue creature, per gli uomini tutti. Francesco è stato il giullare del Gran Re, perché ha saputo vivere da figlio del Gran Re.
Papa. «Le donne accedano ai ministeri del lettorato e dell’accolitato»
Con un motu proprio Francesco abroga la limitazione dell’accesso ai due ministeri istituiti ai laici maschi. Nessuna relazione con il sacerdozio. Riconoscimento del contributo femminile all’annuncio
di Mimmo Muolo (Avvenire, lunedì 11 gennaio 2021)
Le donne potranno accedere da ora in poi ai ministeri del lettorato e dell’accolitato nella Chiesa Cattolica. Senza che però questo debba essere confuso con una sia pur parziale apertura verso l’ordinazione sacerdotale. -Con il motu proprio “Spiritus Domini”, infatti, il Papa ha modificato il primo paragrafo del canone 230 del Codice di Diritto canonico, stabilendo che le donne possano accedere a questi ministeri (la lettura della Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o lo svolgimento di un servizio all’altare, come ministranti - chierichette o come dispensatrici dell’eucaristia), che essi vengano attribuiti anche attraverso un atto liturgico che li istituzionalizza. Nella nuova formulazione del canone si legge ora: “I laici che abbiano l’età e le doti determinate con decreto dalla Conferenza episcopale, possono essere assunti stabilmente, mediante il rito liturgico stabilito, ai ministeri di lettori e di accoliti”. Viene così abrogata la specificazione “di sesso maschile” riferita ai laici e presente nel testo Codice fino alla modifica odierna.
Francesco tuttavia specifica che si tratta di ministeri laicali “essenzialmente distinti dal ministero ordinato che si riceve con il sacramento dell’ordine”. E in una lettera indirizzata al Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Luis Ladaria, cita le parole di san Giovanni Paolo II secondo cui “rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”.
Per i ministeri non ordinati come il letterato e l’accolitato, però, "è possibile, e oggi appare opportuno - sottolinea il Pontefice -, superare tale riserva”. Il Papa spiega che “offrire ai laici di entrambi i sessi la possibilità di accedere al ministero dell’Accolitato e del Lettorato, in virtù della loro partecipazione al sacerdozio battesimale incrementerà il riconoscimento, anche attraverso un atto liturgico (istituzione), del contributo prezioso che da tempo moltissimi laici, anche donne, offrono alla vita e alla missione della Chiesa”.
Già da tempo, infatti, in moltissime chiese le donne leggono durante le celebrazioni e le bambine (soprattutto) svolgono il servizio di ministranti. Tuttavia questi ruoli venivano svolti, come ricorda anche Vatican News, senza un mandato istituzionale vero e proprio, in deroga a quanto stabilito da san Paolo VI, che nel 1972, pur abolendo i cosiddetti “ordini minori”, aveva deciso di mantenere riservato l’accesso a questi ministeri alle sole persone di sesso maschile perché li considerava propedeutici a un eventuale accesso all’ordine sacro.
Francesco, invece, recepisce quanto richiesto anche da diversi Sinodi dei vescovi e menzionando il documento finale del Sinodo per l’Amazzonia osserva come “per tutta la Chiesa, nella varietà delle situazioni, è urgente che si promuovano e si conferiscano ministeri a uomini e donne... È la Chiesa degli uomini e delle donne battezzati che dobbiamo consolidare promuovendo la ministerialità e, soprattutto, la consapevolezza della dignità battesimale”.
Ministero istituito, non ordinato
Come sottolinea il Papa nella Lettera che accompagna il motu proprio, al cardinale Ladaria Ferrer prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il lettorato e l’accolitato sono ministeri “istituiti”, cioè affidati con atto liturgico del vescovo, dopo un adeguato cammino, «a una persona che ha ricevuto il Battesimo e la Confermazione e in cui siano riconosciuti specifici carismi». Sono altro rispetto ai ministeri “ordinati”, che hanno invece origine in uno specifico Sacramento: l’Ordine sacro. Si tratta dei ministeri ordinati del vescovo, del presbitero, del diacono.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA:"Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
LO SPIRITO DI ASSISI. LA LEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II SULLA DONNA E SULL’UOMO E SU DIO: Karol J. Wojtyla ha compreso il "segreto" delle due persone che gli hanno dato la vita (il padre di religione cattolica e la madre di religione ebraica) e, al di là della loro identità e differenza, ha ritrovato l’Arca dell’Alleanza d’Amore ("Charitas") dei "due cherubini". Per questo ha potuto ri-illuminare il mondo e ri-unificare l’intera umanità intorno a sé, non per altro e non - confondendo Dio-Mammona ("caritas") con Dio-Amore ("charitas") - per negare e uccidere addirittura l’Altro!!! (Federico La Sala, 08.02.2008).
FLS
Motu Proprio. Così il Papa riconosce ruolo essenziale e servizio reso dalle donne
di Rosanna Virgili ( Avvenire, martedì 12 gennaio 2021)
«Vi sono diversi carismi ma uno è lo Spirito; vi sono diversi ministeri ma uno solo è il Signore», scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinti (12,4-5) e proprio nel nome dello Spirito, papa Francesco inizia il Motu Proprio pubblicato ieri «circa l’accesso delle donne ai ministeri del Lettorato e dell’Accolitato» (che modifica il primo paragrafo del canone 230 del Codice).
Seguendo la tradizione della Chiesa, che ha chiamato sin dalle origini «ministeri le diverse forme che i carismi assumono quando sono pubblicamente riconosciuti e sono messi a disposizione della comunità e della sua missione in forma stabile», Francesco ha ritenuto di occuparsi del tema ecclesiale dei carismi, specialmente di quelli più numerosi e vari di cui godono i laici, visto che questi costituiscono «l’immensa maggioranza del popolo di Dio» (EG 102).
Ha ritenuto di dover riconoscere ai carismi dei laici e delle donne la dignità di un nome e, quindi, di un mandato, di una stabilità e di un’autorità che permetta loro di poter spendere il Dono ricevuto da Dio, e riservato a tutti i battezzati, in un servizio concreto, costruttivo, di responsabilità nella comunità cristiana. Quanto consiste, appunto, nel ’ministero’.
Negare, del resto, a un battezzato di fare questo, significa pretendere di soffocare la Grazia e rendere quella persona un membro inerte del Corpo mistico di Cristo. È la preoccupazione di Francesco che ribadisce «l’urgenza di riscoprire la corresponsabilità di tutti i battezzati nella Chiesa e in particolare la missione del laicato» che è stata, poi, reclamata anche nel Sinodo per la regione pan-amazzonica (2019).
Ora si viene al punto, mettendo il focus sui diversi ministeri, per dare «una loro migliore configurazione e un più preciso riferimento alla responsabilità che nasce, per ogni cristiano, dal Battesimo e dalla Confermazione». Distinguendo con precisione tra ministeri ordinati e non ordinati e concentrando l’interesse su questi ultimi. Si tratta, insomma, degli antichi «ordini minori» i quali, sinora erano, però, consentiti solo agli uomini in quanto tappe di un percorso che portava - e porterà ancora per gli uomini - a quelli «maggiori ».
Ed ecco la novità: se per i ministeri ordinati la Chiesa «non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale» (cfr. san Giovanni Paolo II, Ordinatio sacerdotalis, 1994), per i ministeri non ordinati «è possibile, e oggi appare opportuno superare tale riserva ». Le donne possono, dunque, essere stabilite come Lettori e Accoliti, accompagnando, almeno quel percorso che compiono gli uomini verso i ministeri ordinati del diaconato e del sacerdozio.
Anche a esse è garantita un’adeguata preparazione e il discernimento dei pastori. È un accesso, pertanto, dovuto allo Spirito Santo, secondo le Scritture e nell’alveo della teologia cattolica. Importante per le donne le quali da una parte si vedono riconosciuto un ’servizio’ che molte già svolgevano, dall’altra acquistano «un’incidenza reale ed effettiva nell’organizzazione, nelle decisioni più importanti e nella guida delle Comunità». Urgente per la Chiesa che non può più fare a meno del concorso qualificato delle donne nella sua ’uscita’ di evangelizzazione e non può neppure permettersi di ignorare o perdere le donne stesse.
Santo del giorno
Solennità di Cristo Re
Ricorrenza: 22 novembre *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
« Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re.
Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire.
In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo.
Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo «ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ».
Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: «Il mio regno non è di questo mondo».
L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Santo del giorno, 22 novembre (ripresa parziale e senza immagine).
Sul tema, in rete, si cfr.:
Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano
"La nuova Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano del 26 novembre 2000, in sostituzione della precedente - la prima - emanata il 7 giugno 1929 dal Papa Pio XI di v.m., è entrata in vigore il 22 febbraio 2001, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo.
Come ben illustrato nell’introduzione della nuova Legge, il Sommo Pontefice ha "preso atto della necessità di dare forma sistematica ed organica ai mutamenti introdotti in fasi successive nell’ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano". Allo scopo, pertanto, di "renderlo sempre meglio rispondente alle finalità istituzionali dello stesso, che esiste a conveniente garanzia della libertà della Sede Apostolica e come mezzo per assicurare l’indipendenza reale e visibile del Romano Pontefice nell’esercizio della Sua missione nel mondo", di Suo Motu Proprio e certa scienza, con la pienezza della Sua sovrana autorità, ha promulgato la seguente Legge:
Art. 1
1. Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. [...] (Acta Apostolicae Sedis, Supplemento, 01.02.2001)
FLS
DANTE 2021: DUE SOLI. "Sogno un’Europa sanamente laica" (papa Francesco, Lettera all’Europa) *
Laicismo.
Crocifisso nelle aule scolastiche senza pace, questa volta va in Cassazione
Rimessa alla decisione delle Sezioni unite la questione sollevata dalla battaglia legale di un insegnante di lettere toscano che chiede di rimuovere il simbolo cristiano durante le sue lezioni
di Marcello Palmieri (Avvenire, sabato 31 ottobre 2020)
Crocifisso sì o crocifisso no? Il simbolo cristiano divenuto nei secoli anche immagine di "laicissimi" e condivisi valori universali, torna di nuovo nelle aule giudiziarie. Ma non sul muro: sul banco degli imputati.
A portarcelo, stavolta, è un insegnante di lettere toscano, che ha ingaggiato da anni una battaglia legale contro il proprio dirigente scolastico - e pure contro l’assemblea dei suoi studenti - per vedersi riconoscere il diritto di staccare dal muro delle aule il crocifisso durante le ore delle proprie lezioni.
La vicenda, ora, è arrivata in Cassazione. Dove la Sezione lavoro, ritenendo la causa di particolare importanza, ha deciso di rimetterla al primo presidente della Corte, perché la devolva alle Sezioni unite. Così facendo, la pronuncia avrà un grande valore: difficilmente, infatti, i giudici territoriali potranno decidere in modo difforme eventuali casi analoghi che dovessero presentarsi successivamente in Italia.
Ma, già ora, sorge una perplessità di fondo: solitamente la Cassazione decide a Sezioni unite le questioni sulle quali si era formato un contrasto giurisprudenziale. Spesso, infatti, situazioni quasi uguali vengono risolte dai giudici in modo diverso, e lo stesso accade anche tra le diverse sezioni della medesima Cassazione.
Sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, però, sembrava non esserci più alcun dubbio. Il Consiglio di Stato nel 2006 aveva stabilito che «è un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento di valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, etc...)», che hanno sì un’origine religiosa, ma che pure «delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato». Da qui, dunque, l’idea che «il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte laico, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica, altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni».
E che il crocifisso potesse rimanere nelle scuole l’ha detto più di recente, nel 2011, anche la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, massima istanza della Cedu: «È un simbolo essenzialmente passivo - hanno scritto i giudici di Strasburgo, decidendo la causa intentata da Soile Lautsi, un’italiana di origini finlandesi, contro il nostro Pese - che non contrasta né con il diritto dei genitori alla libera educazione dei figli né con la libertà di pensiero, coscienza e religione. E se è vero che questa icona «dà alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico», è pur sempre una discrezionalità dello Stato - insindacabile dalla Corte europea - quello di decidere dove esporlo.
Ma ecco che l’ordinanza di remissione alle Sezioni unite della Cassazione mette in dubbio proprio questa "passività" riconosciuta dalla Cedu: «Si potrebbe dubitare dell’asserito ruolo passivo - hanno scritto i giudici della Sezione lavoro - qualora all’esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata e i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama».
Ma per Angelo Salvi, giurista del Centro Studi Livatino, questa perplessità «non sembra valorizzare l’eredità più importante del causo Lautsi, che consiste nell’individuazione del perimetro nel quale va delimitato il concetto di neutralità religiosa».
In parole povere: secondo la Cedu, lo Stato non deve astenersi da qualsiasi richiamo religioso. Semplicemente, gli viene chiesto di non offendere i diritti di ognuno in relazione al proprio credo. Cosa che, ovviamente, un crocifisso appeso al muro non può fare. Ma attenzione: diversamente - è sempre Salvi a notarlo - si rischierebbe di «virare verso un modello di laicità "rigida" alla francese, che si declina in termini di incompatibilità con la religione».
L’Italia e il crocifisso, una controversia infinita
Dall’Europa l’ultimo sì, ’la sua esposizione non lede la libertà religiosa’
di Redazione ANSA 01 ottobre 2019
ROMA L’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici - in particolare nelle scuole, nelle aule di giustizia e nei seggi elettorali - è legittima o è in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini, di libertà di religione e di laicità dello Stato? La controversa questione - che contrappone da decenni cattolici e laici - si ripropone periodicamente e torna ora di nuovo di attualità alla luce delle ultime affermazioni del ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti, il quale ha detto di ritenere l’esposizione della croce nelle aule scolastiche "una questione divisiva" e di preferire una "scuola laica", suscitando reazioni di disapprovazione da parte del mondo cattolico, favorevoli da parte degli atei e degli agnostici.
Sull’argomento, l’ultima pronuncia giurisdizionale di rilievo si è avuta nel 2011 ed è stata della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo, che, accogliendo un ricorso dell’Italia, ha definitivamente ritenuto legittima l’esposizione del crocifisso, ribaltando una sentenza di segno opposto della stessa Corte europea.
La vicenda giudiziaria, durata quasi nove anni, ebbe origine in una scuola di Abano Terme e seguì un iter complesso: IL FATTO - Il 27 maggio 2002 il Consiglio di Istituto della scuola Vittorino da Feltre di Abano Terme (Padova) respinge il ricorso della famiglia di due alunne e decide che possono essere lasciati esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi, ed in particolare il crocifisso, unico simbolo esposto.
IL RICORSO - La decisione del Consiglio di Istituto viene impugnata dalla madre delle due alunne davanti al Tar del Veneto. Nel ricorso si sostiene che la decisione del Consiglio di Istituto sarebbe in violazione del principio supremo di laicità dello Stato, che impedirebbe l’esposizione del crocifisso e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, perche’ violerebbe la "parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche a-religiose".
LA POSIZIONE DEL MINISTERO - Il Ministero dell’Istruzione, costituitosi nel giudizio, sottolinea che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è prevista da disposizioni regolamentari contenute in due regi decreti: uno del 1924, n. 965; l’altro del 1928, n. 1297 Tali norme, per quanto lontane nel tempo, sarebbero tuttora in vigore, come confermato dal parere reso dal Consiglio di Stato n.63 del 1988.
LA PRIMA DECISIONE DEL TAR, ATTI ALLA CONSULTA - Il Tar compie un esame delle norme regolamentari sull’esposizione del crocifisso a scuola e conclude che esse sono tuttora in vigore. Rimette, tuttavia, gli atti alla Corte costituzionale. La norma che prescrive l’obbligo di esposizione del crocifisso - scrivono i giudici - sembra delineare "una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre confessioni, attribuendole una posizione di privilegio", che apparirebbe in contrasto con il principio di laicità dello Stato.
LA CORTE COSTITUZIONALE, RICORSO INAMMISSIBILE - La Consulta dichiara inammissibile il ricorso: le norme sull’esposizione del crocifisso a scuola sono "norme regolamentari", prive "di forza di legge" e su di esse "non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale". Gli atti tornano al Tar.
SECONDA DECISIONE TAR, CROCE NON CONTRASTA CON LAICITA’ - Il crocifisso, "inteso come simbolo di una particolare storia, cultura ed identità nazionale (...), oltre che espressione di alcuni principi laici della comunità (...), può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato". Si conclude con queste parole la sentenza del 2005 con la quale il Tar rigetta il ricorso della madre della due alunne di Abano.
IL CONSIGLIO DI STATO, CROCIFISSO HA FUNZIONE EDUCATIVA - Il Consiglio di Stato chiude la parte italiana della vicenda, con il rigetto definitivo del ricorso della madre delle due alunne.
Il crocifisso - scrivono i giudici - non va rimosso dalle aule scolastiche perché ha "una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni"; non è né solo "un oggetto di culto", ma un simbolo "idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili" - tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, riguardo alla sua liberta’, solidarietà umana, rifiuto di ogni discriminazione - che hanno un’origine religiosa, ma "che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato".
CORTE EUROPEA BOCCIA ITALIA, POI RIMETTE A GRANDE CAMERA - Il 3 novembre 2009 la Corte europea per i diritti dell’uomo boccia l’Italia: il crocifisso appeso nelle aule scolastiche - rileva la Corte - è violazione della liberta’ dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni. Il governo italiano ricorre e la Corte europea decide di affidare la soluzione del caso alla Grande Camera.
GRANDE CAMERA STRASBURGO ASSOLVE L’ITALIA. Con la sentenza del 18 marzo 2011 la Grande Camera ribalta il verdetto della Corte e dice definitivamente sì all’Italia, ritenendo che l’ esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e negli altri luoghi pubblici non possa essere considerato un elemento di "indottrinamento" e dunque non comporta una violazione dei diritti umani. "Le autorità - dice la Grande Camera - hanno agito nei limiti della discrezionalità di cui dispone l’Italia nel quadro dei suoi obblighi di rispettare, nell’esercizio delle funzioni che assume nell’ambito dell’educazione e dell’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire l’istruzione conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche".
FLS
Leonardo Boff fa il pelo e il contropelo a Vittorio Messori per il suo articolo sul “Corriere” *
Appoggio al Papa Francesco contro uno scrittore nostalgico
di Leonardo Boff, teologo brasiliano *
Ho letto con un po’ di tristezza l’articolo critico di Vittorio Messori sul Corriere della Sera esattamente nel giorno meno adatto: la felice notte di Natale, festa di gioia e di luce. Lui ha provato a danneggiare questa gioia al buon pastore di Roma e del mondo, Papa Francesco. Ma invano perché non conosce il senso di misericordia e di spiritualità di questo Papa, virtù che sicuramente non dimostra Messori. Dietro parole di pietà e di comprensione porta un veleno. E lo fa in nome di tanti altri che si nascondono dietro di lui e non hanno il coraggio di apparire in pubblico.
Voglio proporre un’altra lettura di Papa Francesco, come contrappunto a quella di Messori, un convertito che, a mio parere, ancora deve portare a termine la sua conversione con il ricevimento dello Spirito Santo, per non dire più le cose che ha scritto.
Messori dimostra tre insufficienze: due di natura teologica e un’altra di comprensione della Chiesa del Terzo Mondo.
Lui si è scandalizzato per la “imprevedibilità” di questo pastore perché “continua a turbare la tranquillità del cattolico medio”. Bisogna chiedersi della qualità della fede di questo “cattolico medio”, che ha difficoltà ad accettare un pastore che ha l’odore delle pecore e che annuncia “la gioia del vangelo”. Sono, generalmente, cattolici culturali abituati alla figura faraonica di un Papa con tutti i simboli del potere degli imperatori pagani romani. Adesso appare un Papa “francescano” che ama i poveri, che non “veste Prada”, che fa una critica dura al sistema che produce miseria nella gran parte del mondo, che apre la Chiesa non solo ai cattolici ma a tutti quelli che portano il nome di “uomini e donne”, senza giudicarli ma accogliendoli nello spirito della “rivoluzione della tenerezza” come ha chiesto ai vescovi dell’America Latina riuniti l’anno scorso a Rio.
C’è un grosso vuoto nel pensiero di Messori. Queste sono le due insufficienze teologiche: la quasi assenza dello Spirito Santo. Direi di più, che incorre nell’errore teologico del cristomonismo, cioè, solo Cristo conta. Non c’è propriamente un posto per lo Spirito Santo. Tutto nella Chiesa si risolve con il solo Cristo, cosa che il Gesù dei Vangeli esattamente non vuole. Perché dico questo? Perché quello che lui deplora è la “imprevedibilità” della azione pastorale di questo Papa. Or bene, questa è la caratteristica dello Spirito, la sua imprevedibilità, come lo dice San Giovanni: “Lo Spirito soffia dove vuole, ascolti la sua voce, però non sai da dove viene né verso dove va”(3,8). La sua natura è la improvvisa irruzione con i suoi doni e carismi. Francesco di Roma nella sequela di Francesco d’Assisi si lascia condurre dallo Spirito.
Messori è ostaggio di una visione lineare, propria del suo “amato Joseph Ratzinger” e di altri Papi anteriori. Purtroppo, fu questa visione lineare che ha fatto della Chiesa una cittadella, incapace di comprendere la complessità del mondo moderno, isolata in mezzo alle altre Chiese ed ai cammini spirituali, senza dialogare e imparare dagli altri, anche essi illuminati dallo Spirito. Significa essere blasfemi contro lo Spirito Santo pensare che gli altri hanno pensato solo in modo sbagliato. Per questo è sommamente importante una Chiesa aperta come la vuole Francesco di Roma. Bisogna che sia aperta alle irruzioni dello Spirito chiamato da alcuni teologi “la fantasia di Dio”, a motivo della sua creatività e novità, nelle società, nel mondo, nella storia dei popoli, negli individui, nelle Chiese e anche nella Chiesa Cattolica.
Senza lo Spirito Santo la Chiesa diventa un’istituzione pesante, noiosa, senza creatività e, ad un certo punto, non ha niente da dire al mondo che non siano sempre dottrine sopra dottrine, senza suscitare speranza e gioia di vivere.
È un dono dello Spirito che questo Papa venga da fuori della vecchia cristianità europea. Non appare come un teologo sottile, ma come un Pastore che realizza quello che Gesù ha chiesto a Pietro: “conferma i fratelli nella fede”(Lc 22,31). Porta con se l’esperienza delle chiese del Terzo Mondo, specificamente, quelle della America Latina.
Questa è una altra insufficienza di Messori: non avere la dimensione del fatto che oggi come oggi il cristianesimo è una religione del Terzo Mondo, come ha accentuato tante volte il teologo tedesco Johan Baptist Metz. In Europa vivono solo il 25% dei cattolici; il 72,56% vive nel Terzo Mondo (in America Latina il 48,75%). Perché non può venire da questa maggioranza uno che lo Spirito l’ha fatto vescovo di Roma e Papa universale? Perché non accettare le novità che derivano da queste chiese, che già non sono chiese-immagine delle vecchie Chiese europee ma chiese-sorgenti con i loro martiri, confessori e teologi?
Forse nel futuro, la sede del primato non sarà più Roma e la Curia, con tutte le proprie contradizioni, denunciate da Papa Francesco nella riunione dei Cardinali e dei prelati della Curia con parole sentite solo nella bocca di Lutero e con meno forza nel mio libro condannato dal card.J.Ratzinger “Chiesa: carisma e potere”(1984), ma là dove vive la maggioranza dei cattolici: in America, Africa o Asia. Sarebbe un segno proprio della vera cattolicità della Chiesa all’interno del processo di globalizzazione del fenomeno umano.
Speravo in maggiore intelligenza e apertura di Vittorio Messori con i suoi meriti di cattolico, fedele a un tipo di Chiesa e rinomato scrittore. Questo Papa Francesco ha portato speranza e gioia a tanti cattolici e ad altri cristiani. Non perdiamo questo dono dello Spirito in funzione di ragionamenti piuttosto negativi su di lui.
Leonardo Boff, 1938, Brasile, teologo della liberazione e scrittore con molte opere tradotte in italiano.
Sito: www.leonardoboff.com - Blog: leonardoboff.wordpres.com
* FONTE: NOI SIAMO CHIESA, 28.12.2014
Papa Francesco: non valido battesimo con formula ’noi battezziamo’
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene dunque per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti che cambiano le formule dei riti dei sacramenti pensando di migliorarle. "Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole : ’A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’. A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale - riferisce la Congregazione per la Dottrina della Fede - è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità".
Ma l’"io", che il sacerdote deve pronunciare ha un valore dottrinale ben preciso : "segno-presenza dell’azione stessa di Cristo". "Nel caso specifico del Sacramento del Battesimo, il ministro non solo non ha l’autorità di disporre a suo piacimento della formula sacramentale, per i motivi di natura cristologica ed ecclesiologica sopra esposti, ma non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini, dei familiari o degli amici, e nemmeno a nome della stessa assemblea radunata per la celebrazione", spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ora si apre la questione dei battesimi celebrati con questo rito errato. Al quesito "Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta ?", la risposta del Vaticano è : "affermativamente". "Negativamente" è la risposta che si dà al quesito principale : "È valido il Battesimo conferito con la formula : ’Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’ ?".
In pratica i battesimi con la formula ’noi’ è come se non fossero mai stati fatti. Anche se comunque nel Catechismo della Chiesa Cattolica - secondo quanto spiegato da esperti in Vaticano - potrebbe trovarsi una via d’uscita per evitare il ’ripetersi’ del sacramento. Anche perché senza il Battesimo, a cascata non sono validi neanche gli altri sacramenti, dalla Cresima alla Comunione, dal Matrimonio alla Confessione. Nel Catechismo si stabilisce infatti che "Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti". Sempre nel Catechismo ci sono aperture per i non battezzati : "Ogni uomo che, pur ignorando il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato". (ANSA).
Sul tema, in rete, si cfr.:
Trasmettere ciò che si è ricevuto (di Angelo Lameri) - Congregazione per la dottrina della fede,Nota dottrinale circa la modifica della formula sacramentale del Battesimo (L’Osservatore Romano, 06.08.2020).
FLS
Chiesa.
Il primato del Papa e l’infallibilità, i due dogmi compiono 150 anni
Approvati dal Concilio Vaticano I, affrontano temi dibattuti per secoli. Lo storico Fantappiè: una scelta per ribadire la sovranità spirituale della Chiesa. Il Vaticano II aprirà poi alla collegialità
di Filippo Rizzi (Avvenire, sabato 18 luglio 2020)
Era il 18 luglio 1870, esattamente centocinquanta anni fa, quando veniva promulgata la Costituzione Pastor Aeternus approvata dal Concilio Vaticano I. Con questa Costituzione il Concilio presieduto dal futuro beato il papa Pio IX ha definito due dogmi della Chiesa cattolica : il primato di giurisdizione del Vescovo di Roma e l’infallibilità papale. Un evento di portata storica che suscitò reazioni fortissime sia all’esterno sia in alcuni settori della Chiesa, provocando lo scisma dei “vecchi cattolici”.
Il documento venne approvato due mesi prima della fine del potere temporale dei Papi che avvenne con l’ingresso delle truppe piemontesi a Porta Pia a Roma.
A giudizio di Carlo Fantappiè, docente di storia del diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, il testo conciliare « rappresentò il coronamento di un processo di verticalizzazione interna alla Chiesa, dall’età gregoriana al Concilio di Trento, dopo la sconfitta delle tesi conciliariste intorno al primato del Concilio sul Papa e la consacrazione delle sue prerogative magisteriali dopo secolari discussioni intorno alla infallibilità del Papa ».
Infatti, se fin dai primi secoli fu riconosciuto il ruolo del Vescovo di Roma come « custode della fede», nell’età moderna, prima Lutero e i riformatori, poi i gallicani e i giansenisti, tentarono più volte di negare o di limitare l’infallibilità papale.
Il professore che è anche ordinario di diritto canonico all’Università Roma Tre si sofferma sul legame stretto che si venne a creare nel corso dell’Ottocento fra l’affermazione del potere assoluto di governo del Papa nella Chiesa, sollecitato dalle correnti ultramontane e dal pensiero controrivoluzionario di De Maistre, e la formazione della sovranità negli Stati-nazione.
« Il conflitto fra Stati e Chiesa romana si venne a focalizzare sul problema della sovranità e dell’appartenenza dei fedeli alla Chiesa o alla nazione. Pio IX volle affermare la sovranità spirituale della Chiesa con i due dogmi del Vaticano I contro la sovranità temporale degli Stati che assoggettavano le strutture della Chiesa ai poteri secolari e minacciavano lo Stato pontificio ».
In questo secolo e mezzo si è avvalso della prerogativa dell’infallibilità papale Pio XII per la proclamazione nel 1950 del dogma dell’Assunzione della Vergine in anima e corpo in Cielo.
Fantappié si sofferma su alcuni aspetti della Pastor Aeternus che, visti con gli occhi di oggi, possono apparire controversi. « Il testo definitivo che noi conosciamo - spiega - è concentrato sulle prerogative del Papa. In verità si pensava di elaborare una seconda Costituzione che completasse gli aspetti mancanti ma, a causa della sospensione del Vaticano I, ciò non fu possibile.
Anche per questo il Vaticano I fu un “Concilio monco”. In questa Costituzione avviene un sbilanciamento dottrinale a favore delle funzioni e dei poteri del Vescovo di Roma mentre vengono sottaciuti i diritti e le prerogative dell’episcopato come la partecipazione della “comunità dei fedeli” all’elaborazione del magistero e della vita della Chiesa. Per la verità diversi padri conciliari si resero conto di questo “sbilanciamento”. Una lacuna che sarà colmata cento anni dopo solo con il Vaticano II ».
Inoltre osserva : « I padri conciliari ebbero l’avvertenza di restringere le prerogative del Pontefice quando egli parla “ex cathedra” nella sua veste di “pastore e dottore di tutti i cristiani” in materia di fede e di costumi, cioè lasciando lo spazio all’idea che anche un Papa quando esprime una semplice opinione può errare.... ». Bisogna distinguere infatti fra infallibilità e inerranza.
Fantappié legge soprattutto il filo rosso di continuità « non solo ideale di magistero » che i successori di Pio IX (in particolare Giovanni XXIII e Paolo VI, « entrambi grandi estimatori di papa Giovanni Maria Mastai Ferretti ») hanno intravisto nel Vaticano II come « il completamento di ciò che non fu possibile realizzare durante l’assise conciliare del 1869-1870 ».
Di qui la riflessione finale: « In un certo senso lo stesso cardinale e oggi santo John Henry Newman comprese prima di altri che ogni Concilio, incluso il Vaticano I, doveva essere letto alla luce di quelli precedenti. Egli era convinto che, proprio perché il Vaticano I fu oggetto di “grandi opposizioni e prove” a livello di discussioni teologiche, avesse avuto bisogno di un riassetto e di un riequilibrio che ridefinisse quelle verità di fede che rimanevano valide. E cento anni dopo il suo auspicio fu esaudito con il Vaticano II. Per questo Newman per le sue intuizioni è considerato tra i migliori ermeneuti del Vaticano I e il precursore, secondo Jean Guitton, del Concilio successivo ».
Leggi anche
MEMORIA E STORIA / STORIA E MEMORIA.... *
il santo del giorno
Conversione di san Paolo.
La luce improvvisa, la caduta, la voce di Cristo. La fede è apertura all’inaspettato infinito
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 25 gennaio 2020)
Il cambio di rotta, la strada nuova, la svolta imprevista: la fede è apertura all’inaspettato, alla novità che trasforma la vita, all’infinita luce che entra dentro il buio dei nostri errori. Ecco perché la Chiesa oggi celebra la Conversione di san Paolo, ricordando a tutti, così, che Dio ci chiama sempre, continuamente, che nessuno è "spacciato".
"All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo - si legge negli Atti degli Apostoli - e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?". Era l’inizio di una nuova esistenza per Paolo, che sarebbe diventato uno dei pilastri della comunità dei credenti, l’apostolo che fece del Vangelo un messaggio davvero "cattolico", cioè offerto a ogni popolo e a ogni nazione della Terra.
Dopo l’incontro con Cristo sulla via di Damasco, Paolo rimase accecato e dopo aver recuperato la vista fu battezzato: l’immersione nella vita di Dio è il dono di uno sguardo diverso sul mondo.
Altri santi. Sant’Anania di Damasco, martire (I sec.); beata Arcangela Girlani, vergine (1460-1494).
Letture. At 22,3-16; Sal 116; Mc 16,15-18.
Ambrosiano. At 9,1-18; Sal 116 (117); 1Tm 1,12-17; Mt 19,27-29.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
La Domenica della Parola. Fisichella: «C’è polvere sulle nostre Bibbie»
L’arcivescovo: quella di Francesco è una iniziativa profondamente pastorale. Il nostro popolo ascolta la Parola solo a Messa la domenica, serve un contatto quotidiano
di Mimmo Muolo (Avvenire, martedì 1 ottobre 2019)
Parla il presidente del Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione: il Papa dà grande importanza all’omelia. Sollecita molto i sacerdoti a non improvvisare ma a dare ai fedeli dei contributi che aiutino a riflettere «Ricordo la lettura integrale della Bibbia in tv. Esperienza molto positiva»
Sull’importanza e il significato della Domenica della Parola di Dio, Avvenire ha sentito l’arcivescovo Rino Fisichella. «È una iniziativa profondamente pastorale - spiega il presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione - con cui papa Francesco vuole far comprendere quanto sia importante nella vita quotidiana della Chiesa e delle nostre comunità il riferimento alla Parola di Dio, cioè a una Parola non confinata in un libro, ma che resta sempre viva e si fa segno concreto e tangibile».
Ci sono tre icone bibliche che il Papa utilizza nella Lettera per esprimere l’importanza di questa iniziativa. Ce le vuole spiegare?
La prima è l’episodio dei discepoli di Emmaus. Il Papa prende questa immagine per sottolineare che è Cristo stesso a farci comprendere le Scritture nel loro significato più profondo. E in tal modo mostra che tutta la Scrittura parla di Cristo e che può essere interpretata a partire da Cristo. Il secondo esempio proviene dal libro di Neemia. Al ritorno dall’esilio il popolo ritrova i rotoli della legge e al sentir risuonare il libro sacro piange di commozione. In sostanza è la Sacra Scrittura che ci rende un popolo. E quindi ci dà anche la possibilità di trasmettere in maniera viva la Parola che è stata messa per iscritto. La terza immagine è presa dal profeta Ezechiele e dal libro dell’Apocalisse, dove si dice che il rotolo del libro dato al profeta perché ne mangiasse era dolce al palato. Ma l’Apocalisse aggiunge che una volta arrivato nello stomaco divenne amaro. E il Papa prende questa immagine per dire che certo la Parola di Dio è dolce, va annunciata perché corrisponde alle nostre domande di senso, ma l’amarezza viene quando ne siamo distanti o la rifiutiamo o non la mettiamo in pratica.
Con quali modalità verrà celebrata la Domenica?
Molto semplicemente si chiede - senza modificare nulla nella liturgia - di rendere più evidente la proclamazione della Parola di Dio. Il Papa si rivolge anche ai vescovi perché in quella domenica affidino il ministero ai Lettori e suggerisce di formare delle persone che sull’esempio dei ministri straordinari dell’Eucaristica, siano ministri straordinari della Parola.
Perché è stata scelta come data la terza domenica del Tempo ordinario?
Perché in questa domenica le letture, il Vangelo particolarmente, parla dell’inizio del ministero di Gesù, che annuncia il Regno di Dio. Così il Santo Padre indica alla Chiesa una modalità di azione. La domenica della Parola di Dio deve porsi come un punto verso cui orientare sempre di più il cammino delle Chiese, che poi può essere integrato con diverse iniziative per dare sostegno, forza e significato a tutto l’anno liturgico. Non dimentichiamo inoltre che la terza domenica del Tempo ordinario cade sempre nel mese di gennaio e dunque a ridosso della giornata del dialogo con gli ebrei e della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Questa scelta assume perciò anche una grande valenza ecumenica e interreligiosa.
C’è anche un valore di condivisione con i più poveri?
Senz’altro. Il Papa cita la parabola del ricco e di Lazzaro e sottolinea il rimprovero di Abramo al ricco che chiede di mandare qualcuno dai morti. Non ce n’è bisogno. Hanno Mosè e i profeti. Li ascoltino. È il richiamo all’ascolto della Parola di Dio che ci provoca ad essere attenti alla testimonianza fatta di segni tangibili a favore dei più disagiati.
L’iniziativa del Papa si iscrive nel cammino conciliare che dalla Dei Verbum ha rimesso la Parola nelle mani dei fedeli?
Certamente sì. Francesco ricorda i grandi passi fatti grazie alla Dei Verbum e fa riferimento anche alla Verbum Domini, pubblicata dopo il Sinodo sulla Parola di Dio. Anzi, nella sua Lettera c’è l’invito a riprendere in mano soprattutto il secondo capitolo della Dei Verbum. Vale a dire: la Parola di Dio è viva e viene trasmessa attraverso l’azione e la responsabilità del popolo di Dio. Da qui l’impegno di tutti i credenti ad essere fedeli annunciatori alle generazioni future.
Anche qui il Papa sottolinea l’importanza dell’omelia. Perché?
Papa Francesco attribuisce grande importanza all’omelia. Sollecita molto i sacerdoti perché non improvvisino e anzi diano ai fedeli dei contributi che aiutino a riflettere. È un grande stimolo pastorale che tocca tutti i ministri ordinati e ci aiuta a comprendere come l’annuncio della Parola richieda uno sforzo previo di preghiera di meditazione e di studio.
Si potrà accompagnare la Domenica della Parola anche con iniziative di tipo culturale?
Perché no? Ricordo ad esempio la lettura integrale della Bibbia fatta in tivù qualche anno fa. Sono esperienze molto positive che attraggono e che ci riportano alla scena del libro di Neemia quando il popolo ascoltava. Purtroppo abbiamo un limite. Il nostro popolo ascolta la Parola di Dio solo quando si reca a Messa la domenica. Per il resto la Bibbia è il libro più diffuso ma anche quello più carico di polvere nelle nostre librerie di casa. Ben vengano dunque tutte le iniziative complementari a quelle della proclamazione liturgica, dove è Cristo stesso che ci parla. Inoltre non dimentichiamo che il Papa ha voluto firmare questo documento il 30 settembre, in occasione della memoria liturgica di san Girolamo, grande studioso della Bibbia, perché quest’anno iniziano in tutto il mondo le celebrazioni per i 1.600 anni della sua morte avvenuta nel 420. E quindi le iniziative che già sono pianificate per l’anniversario faranno da sostegno a questa Domenica, che si spera possa radicarsi sempre di più come una tradizione felice in tutte le nostre comunità. Rino Fisichella
Cosa significa Gesù per me
di Mohandas Karamchand Gandhi *
Benché io abbia dedicato gran parte della mia vita allo studio della religione e alla discussione con i capi religiosi di tutte le fedi, riconosco molto bene di non poter non sembrare presuntuoso nel momento in cui mi accingo a scrivere di Gesù Cristo e a cercare di spiegare ciò che Lui significa per me. (...)
... Egli è stato sicuramente il più alto esempio di chi ha desiderato di dare tutto senza chiedere in cambio niente e senza interessarsi a quale sarebbe stato il credo che avrebbe professato il ricevente. Sono sicuro che se Lui in questo momento vivesse tra gli uomini, Egli benedirebbe le vite di molti di coloro che forse non hanno mai sentito il Suo nome, se soltanto le loro vite incarnassero le virtù delle quali Lui è stato l’esempio vivente sulla terra, la virtù di amare il prossimo come se stessi e del fare del bene e della carità tra i propri simili.
Allora, cosa può significare per me Gesù? Per me Egli è stato uno dei più grandi maestri che l’umanità abbia mai conosciuto. Secondo i Suoi credenti Egli è stato l’Unigenito Figlio di Dio. Ma il fatto che io accetti o meno questa convinzione può far sì che Gesù abbia maggiore o minore influenza nella mia vita? È forse che tutta la grandezza dei Suoi insegnamenti e della Sua dottrina devono essermi vietati? Non posso crederci.
Per me ciò implica una nascita spirituale. In altre parole, la mia interpretazione è che nella vita di Gesù vi è la chiave della Sua vicinanza a Dio e che Egli espresse, come nessun altro ha saputo fare, lo spirito e la volontà di Dio. È in questo senso che io Lo vedo e Lo riconosco come Figlio di Dio.
(...)
E poiché la vita di Gesù ha quel senso e quella trascendenza ai quali io ho alluso, credo che Egli appartenga non soltanto al cristianesimo ma al mondo intero, a tutte le razze e a tutti i popoli, poco importa sotto quale bandiera, nome o dottrina essi possano lavorare o professare una fede o adorare un dio ereditato dai propri avi.[1]
*
[1] Mohandas Karamchand Gandhi, Cosa significa Gesù per me, «Modern Review», ottobre 1941. Pubblicato in Mohandas Karamchand Gandhi, La forza della verità. Scritti etici e politici, Edizioni Sonda, Torino 1991, vol. I, pp. 458-460 .
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Papa Francesco a Napoli: «Servono nuove narrazioni per toccare il cuore della realtà»
In visita a Napoli, Papa Francesco ha preso parte all’incontro sul tema “La teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo”, promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - sezione San Luigi - e ha pronunciato un discorso incentrato sul tema del dialogo e della ricerca di senso in quello spazio comune che è il Mare nostrum
di Marco Dotti (VITA, 21 giugno 2019)
In visita a Napoli, Papa Francesco ha preso parte all’Incontro sul tema “La teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo”, promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - sezione San Luigi - di Napoli e ha pronunciato un discorso incentrato sul tema dell’incontro e del dialogo.
Incontro e dialogo sono strade per il riconoscimento comune, per uno spazio di incontro e non di scontro, come si legge nel Documento di Abu Dhabi e nel proemio della Veritatis gaudium, due testi chiave per comprendere come rinnovare e fare in un contesto aperto, come quello «spazio fra le terre» che è il Mediterraneo. Da qui, la definizione di Teologia del Mediterraneo.
Altri sguardi, altre narrazioni
Il Mediterraneo, ha spiegato il Papa nella sua lectio è «un mare geograficamente chiuso rispetto agli oceani, ma culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione».
Il modo di procedere dialogico, ha proseguito il Papa, «è la via per giungere là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli». Dobbiamo procedere come «etnografi spirituali dell’anima dei popoli per poter dialogare in profondità e, se possibile, contribuire al loro sviluppo con l’annuncio del Vangelo del Regno di Dio, il cui frutto è la maturazione di una fraternità sempre più dilatata ed inclusiva».
Per questo, «abbiamo bisogno di narrazioni rinnovate e condivise che - a partire dall’ascolto delle radici e del presente - parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza».
Mediterraneo: il mare del meticciato
«Il dialogo come ermeneutica teologica presuppone e comporta l’ascolto consapevole. Ciò significa anche ascoltare la storia e il vissuto dei popoli che si affacciano sullo spazio mediterraneo per poterne decifrare le vicende che collegano il passato all’oggi e per poterne cogliere le ferite insieme con le potenzialità. Si tratta in particolare di cogliere il modo in cui le comunità cristiane e singole esistenze profetiche hanno saputo ― anche recentemente ― incarnare la fede cristiana in contesti talora di conflitto, di minoranza e di convivenza plurale con altre tradizioni religiose.
Tale ascolto dev’essere profondamente interno alle culture e ai popoli anche per un altro motivo. Il Mediterraneo è proprio il mare del meticciato - se noi non capiamo il meticciato, non capiremo mai il Mediterraneo - un mare geograficamente chiuso rispetto agli oceani, ma culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione. Nondimeno vi è bisogno di narrazioni rinnovate e condivise che ― a partire dall’ascolto delle radici e del presente ― parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza». Papa Francesco a Napoli (21 giugno 2019)
La «realtà multiculturale e pluri-religiosa del nuovo Mediterraneo si forma con tali, nuove narrazioni, nel dialogo che nasce dall’ascolto delle persone e dei testi delle grandi religioni monoteiste, e soprattutto nell’ascolto dei giovani”, ha osservato il Papa che ha invitato a praticare una “teologia dell’accoglienza” come “metodo interpretativo della realtà” e forma di un “dialogo sincero” che necessita di «teologi che sappiano lavorare insieme e in forma interdisciplinare, superando l’individualismo nel lavoro intellettuale».
I teologi, in particolare, devono porsi davanti alla realtù come « uomini e donne di compassione, toccati dalla vita oppressa di molti, dalle schiavitù di oggi, dalle piaghe sociali, dalle violenze, dalle guerre e dalle enormi ingiustizie subite da tanti poveri che vivono sulle sponde di questo ‘mare comune’. Senza comunione e senza compassione, costantemente alimentate dalla preghiera, la teologia non solo perde l’anima, ma perde l’intelligenza e la capacità di interpretare cristianamente la realtà»
COME IL BUON-GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").... *
Messaggio.
Il Papa: ecco la Rete che vogliamo. Per liberare, non intrappolare
Oggi, memoria di san Francesco di Sales, pubblicato il Messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali che sarà celebrata il 2 giugno
di Gianni Cardinale (Avvenire, giovedì 24 gennaio 2019)
Internet «rappresenta una possibilità straordinaria di accesso al sapere», ma è anche «uno dei luoghi più esposti alla disinformazione e alla distorsione consapevole e mirata dei fatti e delle relazioni interpersonali, che spesso assumono la forma del discredito». La rete poi «è un’occasione per promuovere l’incontro con gli altri», ma «può anche potenziare il nostro autoisolamento, come una ragnatela capace di intrappolare». Ecco quindi che il web deve essere fatto non «per intrappolare, ma per liberare».
Lo scrive papa Francesco nel Messaggio, diffuso oggi, per la 53ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che quest’anno si celebra, in molti Paesi, domenica 2 giugno, Solennità dell’Ascensione del Signore.
Il Messaggio del Pontefice è pubblicato come da tradizione nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria liturgica di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Ed ha come titolo «’Siamo membra gli uni degli altri’ (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana» (IL TESTO INTEGRALE).
Nel testo il Pontefice denuncia l’uso dei social per fomentare "spirali di odio" e "ogni tipo di pregiudizio", nonché i rischi del cyberbullismo, del narcisismo e dell’autoisolamento che porta al fenomeno degli "eremiti sociali". Papa Francesco inoltre ribadisce che la rete deve fondarsi "sulla verità" e non "sui like".
Per Papa Francesco «le reti sociali, se per un verso servono a collegarci di più, a farci ritrovare e aiutare gli uni gli altri, per l’altro si prestano anche ad un uso manipolatorio dei dati personali, finalizzato a ottenere vantaggi sul piano politico o economico, senza il dovuto rispetto della persona e dei suoi diritti». Senza contare che «tra i più giovani le statistiche rivelano che un ragazzo su quattro è coinvolto in episodi di cyberbullismo».
Usando la metafora della rete come comunità, il Pontefice osserva come «nello scenario attuale, la social network community non sia automaticamente sinonimo di comunità». Infatti «nei casi migliori le community riescono a dare prova di coesione e solidarietà, ma spesso rimangono solo aggregati di individui che si riconoscono intorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli».
Come ritrovare allora «la vera identità comunitaria nella consapevolezza della responsabilità che abbiamo gli universo gli altri anche nella rete online?».
Una possibile risposta, scrive papa Francesco, «può essere abbozzata» a partire da un’altra metafora, quella del corpo e delle membra, che san Paolo usa nella Lettera agli Efesini «per parlare della relazione di reciprocità tra le persone, fondata in un organismo che le unisce». Infatti «l’essere membra gli uni degli altri è la motivazione profonda, con la quale l’Apostolo esorta a deporre la menzogna e a dire la verità: l’obbligo a custodire la verità nasce dall’esigenza di non smentire la reciproca relazione di comunione».
Per il Pontefice «l’immagine del corpo e delle membra ci ricorda che l’uso del social web è complementare all’incontro in carne e ossa, che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro». Così quando «la rete è usata come prolungamento o come attesa di tale incontro, allora non tradisce se stessa e rimane una risorsa per la comunione». Quando «una famiglia usa la rete per essere più collegata, per poi incontrarsi a tavola e guardarsi negli occhi, allora è una risorsa». Quando «una comunità ecclesiale coordina la propria attività attraverso la rete, per poi celebrare l’Eucaristia insieme, allora è una risorsa». Quando “la rete è occasione per avvicinarmi a storie ed esperienze di bellezza o di sofferenza fisicamente lontane da me, per pregare insieme e insieme cercare il bene nella riscoperta di ciò che ci unisce, allora è una risorsa”.
La «rete che vogliamo» conclude papa Francesco è «la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza...». Una rete insomma «non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere». E la Chiesa stessa «è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui ‘like’, ma sulla verità, sull’’amen’, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».
Il Messaggio del Pontefice ha raccolto il plauso di Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione della Stampa: "È un’esortazione e un invito alla riflessione".
Vedi anche: Ecco la nuova App Cei per restare informati sulla vita della Chiesa e non solo
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
Federico La Sala
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
TERZO MILLENNIO
Il mondo va incontro a qualcosa di peggio
LEONARD BOFF. Il fondatore della Teologia della liberazione fa un sentito appello di fronte all’imminente collasso sociale ed ambientale
Intervista
di Agustín Saiz e Paola Becco *
Cosa pensa dell’avanzamento della destra? Recentemente in America latina si sono create le condizioni per aprire nuovi orizzonti ma difficilmente si sono poi concretizzate, quali sono gli errori commessi?
Credo che abbiamo vissuto due fasi, due epoche dopo i colpi militari. Prima la resurrezione delle democrazie e dei governi progressisti appoggiati da grandi movimenti popolari e questo ha permesso grandi trasformazioni positive che hanno promosso la giustizia sociale, la partecipazione, ecc. Poi però, con la crisi globale, che ha minato lo status di benessere dei paesi europei, si è spezzato questo avanzamento popolare e la logica dell’impero degli USA ci ha colpito. Poi nel 2007, 2008, quando il sistema capitalista entrò in crisi, fu lo Stato a salvare la situazione ma venne lasciato spazio all’ascesa della destra in tutto il mondo.
Questo insieme di cose, questa forma di pensiero, secondo me, a iniziato a farsi strada con la salita al potere di Reagan e della Thatcher, furono loro stessi ad affermare che la società non esisteva, in altre parole equivale a dire che esiste è l’individuo.
Ora c’è un’omogeneità dello spazio politico, economico, biologico. Non c’è più guerra fredda, non c’è contro-rivoluzione e tutti siamo, consapevoli o no, ci trovaimo a vivere secondo la logica del capitalismo. Si è dato il via ad un processo di capitalizzazione tremendamente vorace, individualista, si è creata la cultura del capitale: il consumismo.
Inoltre dobbiamo tenere in considerazione la strategia dell’impero. Ci sono studi molto dettagliati che sostengono che il Pentagono ha tre linee guida. La prima è: “un mondo un impero”, loro vogliono dominare tutto.
Curiosamente il Papa, nella sua ultima enciclica ha detto invece “un mondo e un progetto collettivo”, che è ben diverso. Secondo: occupare ogni spazio, l’espressione equivalente in inglese è “full screen”, controllare tutti gli spazi (mediatici, fisici, personali ecc) e non lasciare nessuno libero. E terzo, in termini politici è destabilizzare tutti i governi progressisti di base popolare dell’America latina, senza utilizzare la forza militare, bensì il parlamento.
E’ curioso il fatto che la stessa ambasciatrice che organizzò il colpo di Stato in Honduras fu trasferita in Paraguay per mettere in atto un altro golpe e fu poi trasferita in Brasile così da provocare un ulteriore colpo di Stato.
Basti pensare che l’Atlantico Sud, dove ci sono i grandi giacimenti di gas e petrolio del Brasile e che si affaccia all’Africa, è uno spazio aperto. Ma siccome il sistema USA non accetta che un Paese abbia una politica sovrana con un proprio percorso. Gli Stati uniti hanno deciso di intervenire nell’Atlantico Sud con due intenzioni. La prima è quella di per occupare lo spazio fisico, mettendo la quarta flotta nordamericana, si pensi che solamente il portaerei ha più potere di fuoco che tutte le armi della seconda guerra mondiale.
La seconda intenzione è di dare una dimostrazione di forza alla Cina, dobbiamo pensare che la nuova guerra fredda non è tra la Russia e gli USA ma tra gli USA e la Cina. Quest’ultima, infatti, sta entrando in tutta l’America latina ed ora costruirà una ferrovia che va dall’Atlantico al Pacifico, 54.000 milioni di dollari, un progetto immenso per l’esportazione. Il fatto che investa anche in Argentina preoccupa molto gli Stati Uniti per cui per i governi che seguono la linea degli Stati Uniti è fondamentale frenare la Cina.
Questo gioco geopolitico complica l’analisi e il trovare la soluzione per i nostri problemi. Il problema in Argentina non si risolve solo a partire dall’Argentina, così come quello del Brasile. Bisogna considerare quella correlazione di forze. Ad esempio, i giacimenti di gas e petrolio delle coste oceaniche del Brasile sono tra i più grandi del mondo e vengono privatizzati. Il giacimento più grande è stato venduto al governo della Norvegia ad un prezzo irrisorio, fissando il prezzo di barile di petrolio all’equivalente di una coca-cola. Quello che costava 10 miliardi di dollari lo hanno venduto per 2 miliardi di dollari.
Credo che questo impedisca una reale applicazione della sovranità popolare, dove il cittadino sia partecipe alla vita politica e sociale. Se analizziamo quanto all’effetivo siano presenti i diritti umani e la giustizia nelle democrazie attuali, ci rendiamo conto che sono più che altro una farsa. Non sono vere democrazie. Sono sistemi mantenuti da oligarchie, dai grandi gruppi economici globalizzati che occupano il paese, e hanno quindi quella forza di imporre quel tipo di politica.
Dall’altra parte, ci sono diversi movimenti sociali che si stanno risvegliano perché sono stati depoliticizzati. Si stanno risvegliando e tornano a scendere in strada per manifestare, discutere e cercare di fare la resistenza. Questo sta crescendo enormemente in Brasile. All’ultimo sciopero di tre giorni fa ha aderito oltre un milione di persone, il fatto positivo è che più di 100 vescovi hanno convocato il popolo ad uscire in strada, questo è profetico!
Le persone che beneficiavano di borse di cibo, i poveri, stanno cadendo nella miseria. E sono milioni. Hanno sottomesso completamente il popolo, tutti i progetti sociali sono stati tagliati. E così ci sono milioni di persone che tornano nella miseria questo comporta un aumento della violenza terribile a Rio e nelle grandi città. Nascono vere e proprie guerre civili, urbane dove spesso scappa il morto o dove vengono bruciati autobus ed altri mezzi. E’ decisamente una situazione allarmante e preoccupante.
Come vede lo spostamento forzato dei popoli aborigeni che sta avvenendo in tutta l’America latina, a causa degli ‘agroaffari’ che espropriano le terre a queste persone con violenze continue, mentre i governi restano in silenzio. Qual’è la sua analisi?
In Brasile c’è un massacro sistematico di indigeni a causa degli ‘agrobusiness’ con la scusa che gli indigeni stanno "invadendo" le nostre terre, quando in realtà sono loro i legittimi proprietari. Una settimana fa hanno ucciso otto di loro, hanno tagliato loro le mani. Il governo centrale è illegittimo, tutti i ministri sono accusati di corruzione, e non intervengono. E l’‘agrobusiness’ sta dominando perché è quello che produce la ricchezza del paese, con l’esportazione di soia e carne. Una situazione drammatica.
D’altra parte, io che sto circolando per l’America Latina, mi preoccupo di trovare gruppi indigeni. Loro stanno recuperando le loro memorie, la loro dignità, le loro lingue, le loro religioni, nella consapevolezza che sono delle vere nazioni. Chi ha preso più sul serio la questione è stato Evo Morales che ha costruito un paese, con l’interazione di popoli indigeni. Qualcosa di nuovo che prima era disprezzato, considerato un elemento naturale come gli animali, non valorizzati come indigeni.
Emerge quindi un fenomeno nuovo e credo che in questo le chiese hanno svolto un ruolo importante, valorizzando le culture originarie, difendendo i loro diritti e le loro lingue ed accettando le loro religioni. Ora c’è dialogo tra le religioni. Lo stesso succede anche con le tradizioni afrobrasiliane, prima erano "riti", ora sono religioni. Non bisogna dimenticare che il 62% della popolazione brasiliana è nera, è il secondo paese più grande del mondo dopo il Kenya con popolazione nera. È un fenomeno abbastanza nuovo, e molti stanno riscattando le loro lingue attraverso scuole dove le reimparano, celebrano i loro riti, come i mapuche, i maya, gli inca.
Io ho partecipato a molte di queste celebrazioni e secondo me i maya sono i più creativi. E si vede che stanno cercando di recuperare i testi smarriti, stanno scoprendo sempre di più frammenti che ricostruiscono le loro tradizioni e questo è un fenomeno nuovo che bisogna appoggiare. Noi abbiamo un debito che non abbiamo mai pagato perché l’invasione iberica, europea, fu un genocidio. Quando Hernán Cortés arrivò dal Messico c’erano 20 milioni di abitanti, 70 anni dopo 1,7 milioni, morirono in guerra o per malattie.
Come vede il ruolo delle religioni al di là delle chiese, in questo scenario che ci sta descrivendo, dove ci sono oltre 40 situazioni di conflitto, il problema dell’ambiente, la violenza sociale, quale è il contributo delle religioni in questo momento?
Io credo che uno degli sforzi più importanti che il Papa sta facendo sia quello di articolare le chiese e i sentieri spirituali, per agire insieme a beneficio dell’umanità e specialmente dell’umanità più povera, più vulnerabile. Di tutti i viaggi che ha fatto, 80 sono stati in paesi non cristiani. Ed il Papa non accetta la tesi che la religione musulmana sia una religione violenta di guerra. Violento è il sistema di morte, dell’adorazione del capitalismo, dello sfruttamento della Terra, delle persone. Quello è il nemico della vita. Ed è quello che alimenta le guerre. Quindi, io credo che bisogna astrarre il fondamentalismo islamico che ha un aspetto di violenza che bisogna analizzare, che non proviene dalla religione ma dalla politica. Il Papa a Lampedusa disse una frase importante che bisogna ricordare: “Quei rifugiati sono qui perché prima noi siamo stati lì per 200 anni sfruttando le loro terre, le loro ricchezze, imponendo i nostri stili di vita, la nostra politica, la nostra religione, per questo motivo ora sono qui”.
Quindi dietro la violenza ed i gruppi radicali islamici, c’è molta delusione, molta rabbia, molta indignazione nel trattare con l’Occidente.
Io ho avuto l’opportunità di trattare con gli arabi, quelli al potere e dicevano: "Noi abbiamo il sangue del sistema che è il petrolio, ma nessuno ci invita a discutere le soluzioni del mondo", come se non esistessero, ma sono essenziali per il sistema. D’altra parte, io credo che le religioni stanno giocando un ruolo molto importante in termini di presa di coscienza della nostra responsabilità del futuro della Terra e dell’umanità.
Il Papa sta facendo questo, il consiglio mondiale delle chiese negli anni 70 proclamava giustizia, pace e protezione del Creato. Io credo sia importante che le religioni lavorino con un atteggiamento ecologico corretto, che è il rispetto verso la natura, il sentirsi parte della natura, e intenderla come creazione. Dopo tutto la missione dell’essere umano è anche di tutelare quelle leggi sacre.
Il teologo Leonardo Boff
“Ratzinger non era all’altezza. Vatileaks, il colpo finale”
Come prefetto del Sant’Uffizio, scrisse una lettera in cui chiedeva ai vescovi di impedire che i preti pedofili venissero portati davanti ai tribunali
di Alessandro Oppes (il Fatto, 1.03.2013)
“Una grande pena. Pena e compassione”. Nel lungo ragionamento, a tratti molto duro, di Leonardo Boff sulla figura del Papa che da ieri sera non è più Papa, queste sono forse le parole di maggiore vicinanza e comprensione. Pena per l’implicita ammissione di un fallimento, compassione per la figura di un pontefice che ha dovuto gettare la spugna di fronte all’enormità di una missione costellata di ostacoli insormontabili, in un ambiente diventato ormai irrespirabile.
Dell’uomo che un tempo gli fu amico, il grande teologo brasiliano ricorda ancora che è “una persona estremamente gentile, estremamente cortese, estremamente timida, estremamente intelligente”. Così, senza tralasciare neppure un superlativo.
Nonostante tutto, pur se di mezzo, e dopo una frequentazione proficua durata cinque anni in Germania, ci fu quel famoso processo sommario: il Ratzinger che, una volta nominato cardinale di Curia e assurto alla guida del’’ex-Sant’Uffizio, nel 1984 convoca Boff in Vaticano e lo condanna al “silenzio ossequioso” per zittire la voce scomoda della Teologia della liberazione, di cui era rappresentante di punta.
“Da allora, non ci siamo più visti. Io non ho mai conservato rancore nè risentimento, perché ho capito la logica che determinava quella decisione, pur non essendo d’accordo. Il suo sospetto era che la nostra visione teologica fosse il cavallo di Troia attraverso il quale il marxismo si faceva strada nella Chiesa. Questa era la sua idea. Ma so che ancora oggi, quando parla di me, si esprime in termini persino affettuosi. Mi definisce come ‘il teologo pio’”
Leonardo Boff, oggi 75enne, risponde alle domande del Fatto Quotidiano al telefono dalla sua casa di Jardim Araras, una riserva ecologica alla periferia di Petropolis, l’antica città imperiale brasiliana che fu residenza dei Bragança, a poco più di un’ora di distanza da Rio de Janeiro.
Un gesto rivoluzionario, o semplicemente umano, quello di Benedetto XVI che abbandona la cattedra di Pietro?
Un chiaro gesto d’impotenza, in parte dovuto all’età, in parte alla gravità dei crimini nei quali l’istituzione ecclesiastica si è vista immersa nel corso di questi ultimi anni. Scandali sessuali, sete di denaro, pedofilia. Il vero Spirito Santo, di questi tempi, si chiama Vatileaks. Di fronte a questa situazione, il Papa è stato colto da una profonda depressione.
Una fuga dalle responsabilità?
No, è qualcos’altro: è un Papa che demitizza la figura del Papa, che si riconosce umano come tutti gli altri umani. C’è tutta una papolatria che è stata coltivata troppo a lungo, soprattutto per interessi interni alla gerarchia vaticana. Lui, con un gesto inedito e in questo senso da lodare, è stato capace di distinguere tra la persona del Papa, che può essere malata, o sentirsi per qualche motivo debole, e la funzione del Papa, che è quella di governare la Chiesa.
Non è rimasto sorpreso da questa decisione?
No, posso dire che me l’aspettavo. Joseph Ratzinger è uomo troppo sensibile e timido, incapace di maneggiare i conflitti. Ad un certo punto ha capito di avere a che fare con una sorta di governo parallelo gestito dal cardinale Tarcisio Bertone.
In sostanza, pensa che non sia stato all’altezza delle circostanze?
Non solo non è stato all’altezza delle sfide, ma ha anche commesso una serie di errori molto gravi. Prima con i musulmani, con quell’infelice discorso all’università di Ratisbona che provocò violente reazioni nel mondo islamico. Poi con gli ebrei, urtandone la sensibilità. Poi con i levebvriani, annullando la scomunica del vescovo Williamson, negatore dell’Olocausto. Ha fatto della Chiesa un’istituzione machista e reazionaria, che ha mantenuto un rapporto estremamente negativo con le donne, con gli omosessuali, che non ha saputo affrontare i temi della morale sessuale.
Si è molto polemizzato intorno ai silenzi e i ritardi del Papa sugli scandali di pedofilia.
L’origine della questione risale all’epoca in cui era ancora cardinale: come prefetto dell’ex Sant’Uffizio, scrisse una lettera in cui chiedeva ai vescovi di impedire che i preti pedofili venissero portati davanti ai tribunali. Poi, da Papa, quando cominciavano a emergere le prove del coinvolgimento non solo di sacerdoti ma anche di vescovi e cardinali in quelle pratiche, si è dovuto ricredere, ha cominciato a prendere decisioni per bloccare il fenomeno. Ma non sarà mai possibile dimenticare che si è reso complice di quei crimini.
Nella sua ultima intervista, il cardinale Carlo Maria Martini disse che la Chiesa è rimasta in ritardo di almeno duecento anni. Condivide questa valutazione?
Io andrei ancora più in là, parlando non di 200 ma almeno di 500 anni e anche più. Dall’epoca della Riforma la Chiesa ha un atteggiamento negativo nei confronti del mondo, chiamando la democrazia come delirio moderno. É rimasta afferrata al tempo medioevale. Questo Papa, ancor più che i suoi predecessori, ha recuperato quella vecchia tesi secondo cui fuori della Chiesa non c’è salvezza.
L’Abdicazione di Benedetto XVI
Quale contributo dà la Chiesa al futuro dell’umanità?
di Leonardo Boff *
Non mi propongo di presentare un bilancio del pontificato di Benedetto XVI cosa fatta da altri con competenza. Per i lettori è forse più interessante conoscere meglio una tensione sempre viva dentro la Chiesa e che segna il profilo di ciascun Papa. La questione centrale è questa: qual è la posizione e la missione della Chiesa nel mondo? Anticipo subito che una concezione equilibrata deve poggiare su due pilastri fondamentali: il Regno è il Mondo.
Il Regno è il messaggio centrale di Gesù, la sua utopia di una rivoluzione assoluta che riconcilia la creazione con se stessa e con Dio.
Il mondo è il luogo dove la Chiesa realizza il suo servizio al Regno e dove essa stessa si costruisce.
Se pensiamo la Chiesa come troppo legata al Regno si corre il rischio di spiritualismo e di idealismo; se troppo vicina al mondo, si rischia di cadere nella tentazione di mondanizzazione e politicizzazione. Quello che importa è saper articolare Regno-Chiesa-Mondo. La Chiesa appartiene al Regno e anche al mondo. Possiede una dimensione storica con le sue contraddizioni e una trascendente. Come vive questa tensione dentro al mondo e alla storia? Abbiamo a disposizione due modelli differenti e a volte in conflitto tra di loro: testimonianza e dialogo.
Il modello della testimonianza afferma con convinzione: abbiamo il deposito della fede, che contiene tutte le verità necessarie alla salvezza; abbiamo i sacramenti che comunicano la grazia; abbiamo una morale ben definita; abbiamo la certezza che la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo, l’unica vera; abbiamo il Papa che gode di infallibilità nelle questioni di fede e morale; abbiamo una gerarchia che governa il popolo dei fedeli; abbiamo la promessa dell’assistenza permanente dello Spirito Santo; questo va testimoniato a fronte di un mondo che non si sa dove va e che da solo mai arriverà alla salvezza. I cristiani di questo modello, dal Papa fino ai semplici fedeli, si sentono pervasi di una missione di salvezza unica. In questo sono fondamentalisti e poco dediti al dialogo. Perché dialogare? Abbiamo tutto. Il dialogo è per facilitare la comprensione è anche un gesto di civiltà.
Il modello del dialogo parte da altri presupposti. Il Regno è più ampio che la Chiesa e conosce pure una realizzazione non religiosa, sempre dove ci sono verità, amore e giustizia. Il Cristo risorto ha dimensioni cosmiche e spinge l’evoluzione verso il buon fine; lo Spirito sta sempre presente nella storia e nelle persone oneste; lui arriva prima del missionario, visto che stava già presente nei popoli sotto forma di solidarietà, amore e compassione. Dio non ha abbandonato i suoi e a tutti offre un’opportunità di salvezza perché gli altri al di fuori dal cuore un giorno potessero vivere felici nel Regno della libertà.
La missione della Chiesa consiste nell’essere segno di questa storia di Dio dentro alla storia umana e pure strumento della sua implementazione insieme ad altri cammini spirituali. Se la storia, sia quella religiosa che quella secolare è impastata di Dio, dobbiamo dialogare tutti: scambiarsi, imparare l’uno dagli altri, rende il cammino umano verso la promessa felice più facile e sicuro.
Il primo modello di testimonianza è quello della Chiesa in Africa, Asia e in America Latina, fino ad essere complice delle decimazioni e della dominazione di molti popoli indigeni, africani e asiatici. Era il modello del papa Giovanni Paolo II, che percorreva il mondo impugnando la croce come testimonianza che da lì veniva la salvezza. Era il modello, ancora più radicalizzato di Benedetto
che negò il titolo di «chiesa» alle chiese evangeliche, offendendole duramente; attaccò direttamente la modernità perché la vedeva negativamente come relativista e secolaristica. Logicamente non le negò tutti i valori, ma vedeva in essi, come fonte, la fede cristiana. Ridusse la Chiesa a una isola isolata o a una fortezza, circondata da tutte le parti da nemici contro i quali bisogna difendersi.
Il modello di dialogo è del Concilo Vaticano II, di Paolo VI, di Medellin e di Puebla in America Latina. Vedevano il cristianesimo non come un deposito, sistema chiuso con il rischio che rimanesse fossilizzato, ma come una fonte di acque vive cristalline che possono essere canalizzate attraverso molte condutture culturali, un luogo di apprendistato mutuo perché tutti sono portatori di Spirito Creatore e dell’essenza del sogno di Gesù.
Il primo modello, della testimonianza, ha spaventato molti cristiani che si sentivano infantilizzati e non valorizzati nei loro saperi di professionali; non sentivano più la Chiesa come un focolare spirituale e, sconsolati, si allontanavano dall’instituzione ma non dal cristianesimo come valore e utopia generosa de Gesù.
Il secondo modello, quello del dialogo, ha avvicinato molti perché si sentivano in casa, aiutandoli a costruire una chiesa-apprendista e aperta al dialogo con tutti. L’effetto era il sentimento di libertà e di creatività. Così vale la pena esse cristiani. Questo modello di dialogo diventa urgente nel caso che l’istituzione-chiesa volesse uscire dalla crisi in cui si è messa e che ha raggiunto il punto d’onore: la moralità (pedofili) e la spiritualità (furto di documenti segreti e problemi gravi di trasparenza nella Banca vaticana).
Dobbiamo discernere con intelligenza quello che ora serve meglio al messaggio cristiano all’interno di una crisi ecologica e sociale con gravissime conseguenze. Il problema centrale non è la Chiesa ma il futuro della Madre Terra, della vita e della nostra civiltà. La Chiesa come aiuta in questa traversata? Solo dialogando e sommando le forze con tutti.
*Leonardo Boff è autore di Chiesa: carisma e potere, libro messo sotto accusa dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger.
* Il Dialogo, Lunedì 18 Febbraio,2013
intervista a Fulvio Ferrario,
a cura di Paola Cavallari e Lucia Scrivanti
in “Esodo” n° 4, dell’ottobre-dicembre 2010
La prima questione che ti poniamo è un commento al passo di Matteo 16,18 ("E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa") - un commento da te, pastore valdese e affermato professore di teologia.
La teologia protestante e quella cattolica hanno da tempo acquisito che la figura di Pietro, già prima, e sicuramente dopo la morte di Gesù, ha svolto un ruolo preminente all’interno del gruppo più stretto intorno al Signore. Prima della Pasqua, troviamo nella tradizione sinottica il fatto che Pietro è il portavoce del gruppo dei dodici, e che comunque svolge un ruolo di preminenza. Dopo la Pasqua, Pietro è il primo nelle liste delle apparizioni, e tutto lascia pensare che l’iniziativa di ricostituire il gruppo dei discepoli dopo la morte di Gesù risalga a Pietro.
Un consenso trasversale tra protestanti e cattolici? Non sussistono problemi di interpretazione?
Sì. Questo consenso non conosce al suo interno delle differenziazioni confessionali, perché da tempo l’esegesi a livello scientifico si è emancipata dalle ipoteche confessionali. Ma qui finisce il piano della constatazione storica.
I problemi dei protestanti non sono con Pietro, sono con il pontefice romano Benedetto XVI. Cominciano con l’idea di successione. La domanda è se la figura di Pietro come tale, e il ruolo che Pietro ha avuto possano ammettere l’idea di una successione; se il ruolo di Pietro non si sia esaurito con Pietro.
Il passo che lega a Pietro l’idea della custodia di una tradizione relativa a Gesù: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa", certamente, dal punto di vista di chi l’ha scritto, non prevede che altre persone esercitino lo stesso ruolo dopo Pietro. Quello che si vuol dire, invece, è che la tradizione su Gesù è legata al nome di questo testimone.
Prova ne sia che il passo di Matteo è riferito al vescovo di Roma solo a partire dal III secolo. Per 250 anni a nessuno è venuto in mente di legare il passo di Matteo su Pietro alla figura del vescovo di Roma. In una prima fase, a Roma non c’è stato un monoepiscopato; nel I secolo a Roma la chiesa era una rete di gruppi governata da un collegio di presbiteri. Il monoepiscopato, l’idea cioè di un vescovo unico in una chiesa locale, si stabilisce a Roma relativamente tardi.
Poi, dopo la morte di Ignazio di Antiochia - che è colui che dall’oriente importa in occidente l’idea dell’episcopato unico - a Roma vediamo apparire il vescovo.
Passano ancora cent’anni circa e, a questo punto, la sede romana rivendica una sorta di primato tra le chiese. È questa la fase in cui si passa dal greco al latino, come lingua ufficiale della chiesa, ed è anche la fase in cui il vescovo di Roma si comprende come successore di Pietro. Egli inizia a citare il passo petrino come testimonianza di una particolare autorità del vescovo di Roma.
La chiesa di Roma, prima d’allora, era comunemente definita la chiesa di Pietro e di Paolo, con riferimento al fatto che entrambi erano morti martiri a Roma. Nel III secolo essa inizia a essere chiamata la chiesa di Pietro - non più di Pietro e Paolo. Si osserva un’esigenza di legare un mito di fondazione alla funzione di accentramento della figura dirigente. Questo è il quadro.
Il testo di Matteo non ha nulla a che vedere con la questione confessionale relativa al papato come funzione primaziale del vescovo di Roma. Stupisce che - dopo tutto quello che l’esegesi ci ha spiegato - in alcuni testi ancora oggi - penso, ad esempio, all’enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II - la rivendicazione del primato del vescovo di Roma venga motivata con riferimento al passo petrino.
Se capiamo bene, allora, l’esegesi scientifica, sia cattolica, sia protestante, attesta che, dopo la morte di Pietro come guida nel primo periodo - guida motivata dalle stesse parole di Gesù - ci sia stata una sorta di eclisse del modello monocratico, che riemergerà dopo secoli nel monoepiscopato...
È tutto diverso. L’evangelo di Matteo fa un discorso sulla persona di Pietro. La persona di Pietro muore a Roma verosimilmente sotto Nerone. Il Nuovo Testamento non è in alcun modo nemmeno sfiorato dall’idea che esista qualcosa come una successione a Pietro in una funzione. Questo può essere letto solo in lavori che non hanno un carattere scientifico. Negli altri, invece, si sostiene che il Nuovo Testamento non ha alcuna idea di una successione alla figura di Pietro. O, più spesso, non si affronta nemmeno il tema.
A Roma non c’era un vescovo - una persona singola - ma un collegio. L’idea che una successione a Pietro godrebbe delle prerogative e delle promesse associate al passo matteano di Gesù è, lo ripeto, del III secolo. Cioè nasce ed è documentata per la prima volta in una fase tardiva, nella quale la chiesa di Roma rivendica un primato rispetto alle altre chiese.
Quale sarebbe stata allora l’esigenza per cui Gesù avrebbe pronunciato la famosa frase del passo matteano, creando così il "primato" di Pietro?
Non possiamo più risalire all’intenzione del Gesù della storia. Quello che possiamo dire è che Matteo, nel momento in cui scrive il vangelo, cioè più o meno 50 anni dopo la morte di Gesù, intende affermare che le tradizioni relative a Gesù che si richiamano a Pietro - cioè che sarebbero state tramandate da Pietro e dai suoi seguaci - dispongono di una particolare autorevolezza. È verosimile, in base a criteri di critica storica, che Pietro abbia svolto una funzione particolare nel gruppo di persone più vicine a Gesù.
Ci può essere qualche legame con il conflitto Pietro/Paolo nel cosiddetto concilio di Gerusalemme?
La questione non era tanto tra Pietro e Paolo, i quali si sono scontrati in un’altra disputa ad Antiochia, relativa alla partecipazione dei non cristiani di origine ebraica alla cena. Il conflitto era tra Paolo e i giudei cristiani, cioè tra Paolo e i cristiani di origine ebraica/palestinese di Gerusalemme. Paolo era uno dei cristiani ebrei di lingua greca: si trattava dei cosiddetti ellenisti, come li chiama il libro degli Atti. I cristiani palestinesi (di lingua greca) erano i "progressisti", per così dire, invece i cristiani di lingua aramaica erano il partito conservatore; essi pensavano che, siccome Gesù era nato ebreo ed era ebreo, per diventare cristiani occorresse diventare ebrei, cioè farsi circoncidere; Paolo li chiama anche giudaizzanti. Questo era lo scontro.
Paolo si reca a Gerusalemme, Pietro assume, per quel che noi ne possiamo sapere soprattutto da quanto possiamo dedurre dalle epistole di Paolo - infatti il libro degli Atti è assai successivo alla fonte -, il ruolo di mediazione tra il partito giudeo palestinese duro, che viene identificato sempre col nome di Giacomo - Paolo lo chiama il fratello del Signore - e Paolo stesso.
In mezzo c’è Pietro, che in qualche modo cerca di mediare. Ma il ruolo primaziale nella comunità di Gerusalemme, se mai ce n’è stato uno, non era di Pietro ma di Giacomo, per quel che noi possiamo capire in base alla testimonianza di Paolo.
Tutta la discussione relativa al primato di Pietro non si situa nel contesto di Gerusalemme, ma già dopo il trasferimento di Pietro a Roma. La questione Pietro/Paolo non è la più lacerante. Appare invece evidente una dicotomia Paolo/Giacomo. Ad un certo punto, Pietro si schiera, in una discussione ad Antiochia - sempre secondo Paolo - troppo dalla parte di quelli di Giacomo, e questo crea uno scontro tra i due.
Ma allora sorge una domanda: non avrebbe dovuto essere Pietro questo “capo” della comunità, secondo quanto abbiamo detto prima?
Non è questo il punto, perché la tradizione che pone in luce Matteo si sviluppa altrove. Non bisogna pensare a Gerusalemme come ad un centro da cui tutto si dipana. Il conflitto tra Giacomo e Paolo si verifica prima che venga scritto l’Evangelo di Matteo. Non solo, ma l’Evangelo di Matteo non si sa dove sia stato scritto, pensiamo alla Siria; quindi da un’altra parte.
La tradizione relativa al primato di Pietro - tradizione che si consolida nell’Evangelo di Matteo, e il riferimento c’è solo in Matteo - non gioca alcun ruolo nella disputa tra Paolo e Giacomo. Paolo non ne sa nulla. Non c’è nessun passo nelle lettere di Paolo, da cui noi apprendiamo che Pietro sia stato investito di una particolare responsabilità da parte di Gesù.
C’è un errore di prospettiva nella domanda, che deriva da questo presupposto: all’origine c’è il passo petrino, che è precedente a tutto, poi viene il resto...
In un certo senso ci troveremmo di fronte ad un presupposto vero perché, se l’avesse detto Gesù - ma non possiamo ricostruire se storicamente sia così - l’avrebbe detto prima. Però quello che noi conosciamo è una tradizione filtrata dalla teologia di Matteo. E il Vangelo di Matteo è stato scritto ben dopo le dispute tra Paolo e Giacomo. Ben dopo l’invio o l’andata di Pietro a Roma, ben dopo la morte di Pietro.
Ora vorremo sapere un tuo parere sul dogma dell’infallibilità papale.
Il dogma dell’infallibilità papale viene definito nel 1870, in un momento in cui Roma sta per essere attaccata dall’esercito italiano. Il Concilio Vaticano I° viene interrotto a motivo della presa di Roma da parte dei bersaglieri dell’esercito italiano. Rappresenta il culmine di un processo iniziato con la controriforma, ma che ha avuto una accelerazione nell’800 col papato di Pio IX. Roma vuol accentuare il peso della tradizione, contrapponendosi al Sola scriptura dei protestanti. Roma si richiama così ad una tradizione orale che sarebbe antecedente alla Scrittura. Col tempo questa tradizione viene identificata col magistero ecclesiastico: esso sarebbe il custode della tradizione, e il magistero ecclesiastico viene poi identificato col papato.
Il dogma del 1870 è un frutto del cosiddetto ultramontanismo, di quel movimento centrato sulla autorità del papa, che pretende di resistere all’illuminismo, al liberalismo, insomma alla modernità. I dogmi del Vaticano I sono due: l’infallibilità dottrinale del papa quando parla ex cathedra, e il primato di giurisdizione del pontefice romano. Quindi un’estrema personalizzazione e accentramento del ministero, dell’autorità in ambito dottrinale e morale.
E un commento protestante?
Il fenomeno rappresenta il punto di vertice di un processo di lievitazione incontrollata dalla funzione del vescovo di Roma. È un lungo percorso, le cui tappe sono, ad esempio, prima Leone Magno, poi Gregorio VII, quindi Innocenzo III, la Controriforma, eccetera. Ma certamente il papato della Riforma, quello con cui polemizza Lutero, dal punto di vista dottrinale e dogmatico, è molto più leggero del papato di Pio IX. Ad esempio, nel dibattito ecumenico attuale, se la dottrina romana relativa al papato fosse quella del XVI sec., per molti protestanti oggi - e certamente per molti ortodossi - non ci sarebbero ostacoli decisivi.
Paolo Ricca parla di carismi differenti, a proposito delle diverse confessioni cristiane. Esiste, a tuo parere, un qualche carisma anche nella figura dell’autorità papale in sé, a prescindere dalle "degenerazioni" storiche che si sono create nel tempo?
No, io non credo. Può darsi che esistano dei protestanti che rispondano affermativamente. Io credo che storicamente il papato abbia svolto un ruolo pernicioso per l’unità cristiana. Il papato ha favorito sia la divisione tra l’Oriente e l’Occidente, sia quella, all’interno dell’Occidente, tra le chiese della Riforma e la chiesa che non ha accolto la Riforma. Poi, all’interno del cattolicesimo romano, ha favorito lo scisma dei vecchi cattolici - quelli che non hanno accettato il dogma dell’infallibilità; e, sempre dentro la chiesa romana, ha favorito tutti gli scontri successivi - ad esempio, il modernismo
sulla libertà. Ha favorito un accentramento del quale la chiesa romana ha incredibilmente sofferto.
Se in altre condizioni il vescovo di Roma potrebbe o potrà svolgere un ministero diverso, è una questione che allo stato attuale non è dato di dirimere. Sono molto drastico: l’idea che spesso si dà del ministero papale come un ministero di unità è ideologica. Di fatto il papa ha svolto e svolge una funzione di divisione.
Ma non si potrebbe pensare, in qualche modo, ad una funzione di utilità, all’interno di una chiesa ecumenica, nella figura di un primate?
Bisogna distinguere due questioni. Quello che afferma il dogma del primato - più che quello dell’infallibilità - è che il vescovo di Roma esercita un primato di giurisdizione sulla chiesa universale per diritto divino, perché tale primato corrisponde alla volontà di Dio nella sua rivelazione in Gesù Cristo. Questo viene rifiutato dagli evangelici. Una questione diversa è se, dal punto di vista della praticità - e non dal punto di vista del diritto divino -, sia o meno utile che un vescovo eserciti una questione presidenziale in una ipotetica chiesa ecumenica, cattolica, una sorta di coordinatore, di portavoce, di presidente. Spesso si discute di questo, ma è una discussione campata per aria, perché in realtà quello che esiste de facto è un papato romano, il quale si fa forte di un apparato dogmatico, cioè di due dogmi della fede che lo riguardano.
Per quanto riguarda le altre forme di esercizio del papato, diverse da quelle attuali, che a suo tempo Giovanni Paolo II ha ipotizzato, bisogna dire che il problema non riguarda l’esercizio, bensì la concezione che il papato ha di se stesso. Solo che queste forme di esercizio più collegiale del primato non le ha mai viste nessuno. Quali sono? Sarebbe interessante - ma non risolutivo - vedere queste nuove forme più collegiali all’opera all’interno della chiesa romana. Ma qui, invece, continua ad operare un forte centralismo papale, per nulla collegiale. Anzi, le prerogative dei singoli vescovi e del collegio episcopale sembrano oggi notevolmente ridotte rispetto al primo decennio successivo al Concilio Vaticano II.
Il papa monarca-assoluto: cenni storici su origine e sviluppo del suo potere.
di Leonardo Boff ("Jornal do Brasil”, 17 settembre 2012) *
Abbiamo scritto precedentemente su queste pagine che la crisi della Chiesa-istituzione-gerarchia ha le sue radici nell’assoluta concentrazione di potere nella persona del Papa, potere esercitato in modo assolutistico, lontano da qualsiasi partecipazione dei cristiani e fonte di ostacoli praticamente insormontabili per il dialogo ecumenico con le altre Chiese.
All’inizio non fu così. La Chiesa era una comunità di fratelli. Non esisteva la figura del Papa. Nella Chiesa comandava l’Imperatore. Era lui il sommo pontefice (Pontifex Maximus), non il vescovo di Roma o di Costantinopoli, le due capitali dell’Impero. E così è l’imperatore Costantino a convocare il primo concilio ecumenico a Nicea (325), per decidere la questione della divinità di Cristo.
E di nuovo nel secolo VI è l’imperatore Giustiniano che ricuce Oriente e Occidente, le due parti dell’impero, reclamando per se stesso il primato di diritto e non quello di vescovo di Roma. Tuttavia, per il fatto che Roma vantava le tombe di Pietro e Paolo, la Chiesa romana godeva di particolare prestigio, come del resto il suo vescovo che davanti agli altri deteneva "la presidenza nell’amore" e esercitava il "servizio di Pietro", quello di confermare i fratelli nella fede, non la supremazia di Pietro nel comando.
Tutto cambia con Papa Leone I (440-461), grande giurista e uomo di Stato. Lui copia la forma romana del potere che si esprime nell’assolutismo e autoritarismo dell’imperatore; comincia a interpretare in termini strettamente giuridici i tre testi del N.T. riferibili al primato di Pietro: Pietro, in quanto roccia su cui si costruirebbe la Chiesa (Mt 16,8); Pietro, colui che conforta i fratelli nella fede ( Lc 22,32); e Pietro come pastore che deve prendersi cura delle pecore (Gv 21,15). Il senso biblico e gesuanico va nella direzione diametralmente opposta, quella dell’amore, del servizio e della rinuncia a ogni onore. Ma l’interpretazione dei testi alla luce del diritto romano - assolutistico - ha il sopravvento. Coerentemente, Leone I assume il titolo di Sommo Pontefice e di Papa in senso proprio.
Subito dopo gli altri papi cominciarono a usare le insegne e il vestiario imperiali, porpora, mitra, trono dorato, pastorale, stole, pallio, mozzetta: si creano palazzi con rispettive corti; si introducono abiti per vita da palazzo in vigore fino ai nostri giorni con cardinali e vescovi, cosa che scandalizza non pochi cristiani che leggono nei vangeli che Gesù era un operaio povero e senza fronzoli. Così finisce per essere chiaro che i gerarchi stanno più vicini al palazzo di Erode che alla culla di Betlemme.
C’è però un fenomeno che noi stentiamo a capire: nella fretta di legittimare questa trasformazione per garantire il potere assoluto del Papa, si fabbricano documenti falsi.
Primo. Una pretesa lettera del Papa Clemente (+96), successore di Pietro in Roma, diretta a Giacomo, fratello del Signore, il grande pastore di Gerusalemme, nella quale si dice che Pietro, prima di morire, aveva stabilito che lui, Clemente, sarebbe stato l’unico e legittimo successore. Evidentemente anche gli altri che sarebbero venuti dopo.
Falsificazione ancora più grande è la Donazione di Costantino, documento fabbricato all’epoca di Leone I, secondo il quale Costantino avrebbe dato in regalo al Papa di Roma tutto l’Impero Romano.
Più tardi, nelle dispute con i re Franchi, fu creata un’altra grande falsificazione le Pseudodecretali di Isidoro, che mettevano insieme documenti e lettere come provenienti dai primi secoli, il tutto a rafforzare il Primato giuridico del Papa di Roma.
Tutto culmina con il codice di Graziano (sec. XIII), ritenuto la base del diritto canonico, ma che poggiava su falsificazioni e norme che rafforzavano il potere centrale di Roma oltre che su canoni veri che circolavano nelle chiese.
Evidentemente tutto ciò viene smascherato più tardi, senza che con questo avvenga una qualsiasi modificazione nell’assolutismo dei Papi. Ma è deplorevole, e un cristiano adulto deve conoscere i tranelli usati e fabbricati per gestire un potere che cozza contro gli ideali di Gesù e oscura il fascino del messaggio cristiano, portatore di un nuovo tipo di esercizio del potere servizievole e partecipativo.
In seguito si verifica un crescendo nel potere dei Papi. Gregorio VII (+1085) nel suo Dictatus Papae (dittatura del Papa) si autoproclamò Signore assoluto della Chiesa e del mondo; Innocenzo III (+1216) si annuncia come vicario e rappresentante di Cristo; e infine Innocenzo IV (+1.254) si atteggia a rappresentante di Dio. Come tale sotto Pio IX, nel 1.870, il Papa viene proclamato infallibile in fatto di dottrina e morale.
Curiosamente, tutti questi eccessi non sono mai stati ritrattati o corretti dalla Chiesa gerarchica, perché questa ne trae benefici. Continuano a valere come scandalo per coloro che ancora credono nel Nazareno, povero, umile artigiano e contadino mediterraneo perseguitato e giustiziato sulla croce e risuscitato contro ogni ricerca di potere, e sempre più potere, perfino dentro la Chiesa. Questa comprensione commette una dimenticanza imperdonabile: i veri vicari-rappresentanti di Cristo, secondo il vangelo di Gesù (Mt 25,45) sono i poveri, gli assetati, gli affamati. La gerarchia esiste per servirli non per sostituirli.
Tradotto da Romano Baraglia
* Fonte: Incontri di Fine settimanana
Benedetto XVI è il capo di tutti i cristiani?
intervista a Christophe Delaigue,
a cura di Hugues Lefèvre
in “www.lavie.fr” del 18 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Nel 2006 papa Benedetto XVI sopprime improvvisamente il suo titolo di patriarca d’Occidente. Perché? Mistero... Tanto più che questa decisione non è accompagnata a monte da nessuna comunicazione del Vaticano. Padre Christophe Delaigue, prete diocesano della zona di Grenoble, pone la domanda di questa soppressione in un’indagine universitaria dal titolo: “Il Papa, Vescovo di Roma, successore di Pietro, patriarca d’Occidente?” Nel dicembre scorso, il Consiglio delle Chiese cristiane in Francia (CECEF) - che riunisce i responsabili delle famiglie ecclesiali (anglicana, armena, cattolica, ortodossa, protestante), gli ha consegnato un premio per quell’indagine sulla storia e sui testi.
Perché ha iniziato questa indagine?
Nel marzo 2006, dei giornalisti scoprono, spulciando l’annuario pontificio, che il titolo di patriarca d’Occidente non fa più parte degli attributi del sovrano pontefice. Alla sorpresa iniziale, segue uno sconcerto tra gli ortodossi, o comunque, degli interrogativi... Il papa si considerava di nuovo capo di tutta la Chiesa universale, ponendosi al di sopra dei vescovi e delle chiese d’Oriente? Gli ortodossi hanno potuto interpretare questa soppressione come una specie di “putsch” di Roma sull’insieme del mondo cristiano.
Il Vaticano ha spiegato questo gesto?
Davanti ad una levata di scudi, e visibilmente nella precipitazione, il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha espresso due motivazioni. Nel suo comunicato, la Chiesa cattolica ritiene il titolo di patriarca d’Occidente come “obsoleto” e privo di senso. In seguito ha annunciato che questa soppressione potrebbe aprire nuove strade ecumeniche. Eppure, da sette anni: silenzio! Il papa non si è mai pronunciato sulla questione. Come se Roma avesse perso la cartografia di queste nuove strade...
Qual è la posta in gioco della questione del patriarcato?
Il primato d’onore tra i diversi centri storici della tradizione cristiana. Storicamente, il patriarcato è il solo titolo comune tra la Chiesa greca e quella latina. Nel 325, il primo concilio ecumenico di Nicea ha concesso un privilegio d’onore ai vescovi di Roma, Antiochia, Alessandria e Gerusalemme. Qualche anno dopo sarà la volta anche di Costantinopoli, con il secondo concilio ecumenico. Queste cinque sedi formeranno i tradizionali patriarcati. Scoppieranno dispute per il primato tra Roma e i patriarcati greci, guidati da Costantinopoli. Dopo lo scisma del 1054, il vescovo di Roma manterrà simbolicamente il suo titolo di patriarca d’Occidente. Ecco perché la decisione della Santa Sede poteva dare l’impressione di rendere più forte la rottura tra l’Oriente e l’Occidente. Era la scomparsa ad un riferimento ad una storia comune.
Ma non sono dispute di un’altra epoca, “bizantine”, come si dice? Qual è l’interesse per i cristiani di oggi?
Questa faccenda obbliga ciascuna Chiesa a riflettere sul proprio funzionamento, sul proprio modo di esercitare l’autorità, e sul modo di considerare le altre Chiese. Quindi grazie alla decisione di Benedetto XVI si potrebbero aprire delle porte. Il primo passo è la ridefinizione di “Oriente e Occidente”. Fino ad oggi, si definiva sempre l’Occidente come ciò che non rientrava nei territori dell’Oriente. Già limitata, questa definizione non può più corrispondere alla nostra epoca, a causa della diaspora dei cristiani. Ad esempio, nel mondo, più della metà degli ortodossi si ricollegano ormai al patriarcato di Mosca. Se prima un patriarcato era sempre inteso come l’esercizio di un’autorità su un territorio preciso, oggi non può più essere così. Un ortodosso di Parigi può dire di dipendere da Mosca. Ormai, si fa riferimento più ad una cultura che a un territorio.
D’altro canto, il patriarca di Costantinopoli, che assicura la comunione tra i patriarcati greci, conta ormai soltanto alcune migliaia di fedeli sul suo territorio “canonico” (Istanbul e alcune isole). Anche se numerose chiese si raccolgono più o meno sotto la sua giurisdizione, demograficamente non è più rappresentativo. La decisione di Benedetto XVI costringe la Chiesa ortodossa a riflettere sulla sua nozione di patriarcato, che deve evolvere. Del resto, gli ortodossi stanno lavorando da diversi anni per riunirsi in un concilio. Ma resta difficile trovare un’intesa, su un calendario e sui temi che vi saranno affrontati, non essendoci un leader effettivo. Infatti Costantinopoli rivendica un primato d’onore, ma il rapporto di forze numerico è a favore di Mosca.
Quali sono le conseguenze per la Chiesa cattolica?
La soppressione del titolo di patriarca d’Occidente obbliga a riflettere sul funzionamento interno della Chiesa cattolica. Nel 1971, un certo Joseph Ratzinger, in un libro intitolato “Il nuovo popolo di Dio”, proponeva di decentralizzare certe prerogative detenute da Roma, ed attribuirle a delle giurisdizioni regionali. Invece di un blocco monolitico, si pensava all’emergere “di Chiese continentali”, evidentemente in comunione con il papa. Un modo di preservare una figura forte in uno spirito di collegialità effettiva. Questa sorta di patriarcato “all’orientale” avrebbe il vantaggio di ridare al successore di Pietro il suo vero carisma di ministro della comunione, e di attenuare il suo ruolo di monarca regnante.
Che cosa ne è di questa proposta di decentralizzazione del potere?
È rimasta lettera morta. Certo, il Vaticano II aveva aperto la porta creando delle conferenze episcopali continentali. Ma nei fatti, queste ultime non hanno potere giuridico, in quanto tutte dipendono da Roma. Quando si guarda alla situazione di divisione in seno alla Comunione anglicana, è vero che sembra più semplice avere una figura forte e unica, che mantiene l’unità. Ma è il modo migliore di governare? Il più cristiano? La domanda deve essere posta.
È una faccenda che riguarda solo cattolici e ortodossi?
La soppressione del titolo di patriarca d’Occidente può essere interpretata anche come la volontà di Roma di riconoscere le diverse forme di Chiese presenti in Occidente. Infatti, protestanti e anglicani non sono sempre riconosciuti da Roma veramente come Chiese. Ma, per andare nella direzione dell’ecumenismo, ognuno dei soggetti deve essere rispettato. Il titolo di patriarca d’Occidente non può essere “concentrato” nella persona del papa, come prima della Riforma. Molti cristiani in Occidente non rientrano più nel cattolicesimo. Togliendo di mezzo il suo titolo, il papa non intende certo proporsi come capo di tutti i cristiani, ma potrebbe porre la Chiesa cattolica accanto alle altre Chiese dell’Occidente, in uno spirito di dialogo e di pace.
Per lei si tratta allora di un passo verso la riconciliazione?
Questa interpretazione resta un’ipotesi. Ma anche se nulla si è mosso da sette anni, questa decisione può essere intesa come un passo verso una riconciliazione. Mostra che le chiese cristiane devono ripensare la loro organizzazione, a volte superata dalle evoluzioni culturali, demografiche e sociali.
Le ricchezze e gli interrogativi posti da alcuni possono aiutare gli altri a riflettere. In questo senso, Giovanni Paolo II parlava “di scambi di doni” tra le Chiese, per trovare una strada efficace verso l’ecumenismo. L’abbandono del titolo può facilitare la realizzazione di una struttura visibile di unità, in uno spirito di collegialità effettiva.”
LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000). Egli regna e governa in nome del suo Dio, Mammona ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006).
LUMEN GENTIUM (1964) E DOMINUS IESUS (200O): IL DISEGNO DI RATZINGER - BERTONE. DUE TESTI A CONFRONTO:
Sempre l’imbroglio del latino
di Giancarla Codrignani *
Un’amica mi ha segnalato con sua grande afflizione l’ultimo recupero del Concilio di Trento da parte di Benedetto XVI: ha stabilito che, nella formula della consacrazione, il valore salvifico vada limitato a "molti" e non "a tutti", come era diventato abituale dopo il Concilio Vaticano II e come, nell’assemblea plenaria del novembre 2010, 171 vescovi su 182, avevano "votato" di preferire.
A me importano poco le precisazioni filologiche anche perché, non avendo registrazioni dell’ultima cena del Signore, il testo greco è già una traduzione e quella latina di Girolamo è la traduzione di una traduzione. Il guaio è che il praticante cattolico, quello che "sente essa" recitando il rosario o pensando ai casi suoi o a niente, non si accorge di questo genere di cambiamenti, dato che, evidentemente (altrimenti si ribellerebbe), non capisce neppure la differenza di condividere la "comunione" accogliendola con la mano o di riceverla come il bimbo che si fa imboccare. Per questo il cambiamento è grave. Il papa può giustificare la sua scelta raccontando che, andando in giro per il mondo, si è accorto che le parole rituali subiscono impatti linguistici diversi e ha sentito il dovere di definire una volta per tutte il testo del Messale Romano: tanto varrebbe tornare al latino per tutti i paesi del mondo, così si eliminerebbe definitivamente urbi et orbi la possibilità di comprendere il senso della consacrazione. Tuttavia chi si informa sulla vita della sua chiesa pensa che si tratti di un’altra risposta indiretta al clero austro-tedesco in fermento per le marce indietro del Papa e ritenuto disubbidiente.
La strategia autoritaria del pontefice romano rappresenta un atto grave di potere: se il sangue di Gesù è stato versato "per molti" e non per tutti, per salvarsi i peccatori dovrebbero obbligatoriamente farsi assolvere dal prete della Chiesa cattolica e le altre religioni passare per la conversione. Con l’aggravante che il provvedimento va non solo contro il Vaticano II e il suo Spirito, ma anche contro l’ecumenismo e contro tutti gli "infedeli". Di questi tempi abbastanza temerario per un Papa che crede che Dio sia amore.
* http://www.mosaicodipace.it/. 10 maggio 2012
Ritrovare certi accenti del Vaticano II
di Gaston Piétri, prete ad Ajaccio
in “La Croix” del 25 agosto 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Vi sono degli accenti, perfettamente fedeli alla tradizione cristiana più antica, che nell’opera del Vaticano II sono apparsi come innovatori. Sono quegli stessi accenti che oggi non solo si attenuano, ma addirittura scompaiono troppo frequentemente dalle parole e dalle pratiche di certe nostre comunità.
Per esprimere la condizione comune dei credenti in Cristo, la Costituzione Lumen Gentium mette al primo piano l’uguaglianza: “sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti cooperano all’edificazione del corpo di Cristo” (n° 31). Al di fuori di questa uguaglianza ci sarebbero altrimenti dei cristiani di serie A e dei cristiani di serie B? Il Concilio non manca, nello stesso testo, di notare la differenza delle funzioni, e tra queste funzioni quella del pastore.
Perché parlare così poco dell’uguaglianza e aver così poca audacia per viverla in maniera più visibile? Senza dubbio per timore di “far scomparire” i pastori nella comunità. Per insufficiente comprensione della vera natura delle differenze. E in definitiva per una deplorevole svalutazione di quel nome comune di “cristiano” che i discepoli hanno ricevuto un giorno ad Antiochia (Atti 11,26). Ma che cosa ci sarebbe per noi, al di sopra dell’onore di essere cristiani, cioè di Cristo? È stato detto, ma bisogna ripeterlo: non ci sono “supercristiani”.
Talvolta si sente dire “i cristiani e i pastori”. Enunciare in questo modo la distinzione non ha alcun senso nella logica del cristianesimo. Nel decreto sul ministero e sulla vita dei presbiteri, il Vaticano II ricorda quanto il ministero dei preti sia insostituibile “nel e per il popolo di Dio”, e precisa subito: “sono discepoli del Signore come gli altri fedeli (...). In mezzo a tutti i battezzati, i presbiteri sono fratelli dei loro fratelli, membra dello stesso e unico corpo di Cristo, la cui edificazione è affidata a tutti” (n° 9). La relazione di fraternità è la più fondamentale e, se non fosse visibile nella vita quotidiana, l’aspetto di “paternità spirituale” che il ministero pastorale comporta si snaturerebbe perdendo il suo senso evangelico: “avete un unico Padre, e siete tutti fratelli”.
Durante “l’anno sacerdotale”, abbiamo fatto molta fatica, nell’abbondanza delle pubblicazioni, a scoprire delle tracce nette e insistenti di questo importante richiamo conciliare. Di che cosa abbiamo paura? Abbiamo bisogno di vocazioni al ministero presbiterale. Crediamo forse che la valorizzazione urgente di questa vocazione possa essere feconda e soprattutto ben compresa, se non tiene seriamente in considerazione il “rientro” del ministero del prete all’interno del popolo di Dio come ve lo include la dinamica di Lumen Gentium?
Nel decreto sull’ecumenismo, il Concilio raccomanda una presentazione della fede cristiana che metta nel giusto posto, cioè al centro, ciò che è direttamente “in rapporto con i fondamenti della nostra fede” (n° 11). A questo titolo parla di “una gerarchia delle verità”. Le devozioni hanno la loro ragion d’essere. Illustrano talvolta in maniera opportuna un aspetto o un altro del Mistero cristiano.
Ma in altri momenti l’eccessiva e persistente attenzione su certi aspetti finisce per occultare ciò che è al cuore della Rivelazione del Dio di Gesù Cristo e di conseguenza ciò che è comune tra confessioni cristiane. L’identità cattolica manifestata da queste devozioni nate nel corso dei secoli, deve essere subordinata alla specificità cristiana in ciò che essa ha di essenziale. È quella che bisogna far vedere innanzitutto.
La Costituzione Gaudium et Spes esamina l’originalità della Chiesa, che non può essere ridotta al alcun modello politico. Ma lo fa situando questa particolarità nella società in cui la Chiesa è solidale con tutti i protagonisti della vita comune. Il Concilio non esita a presentare la Chiesa e la società in situazione di reciprocità. Ciò che la Chiesa dona al mondo non è slegato da ciò che la Chiesa riceve dal mondo (n° da 41 a 44).
È da Cristo stesso che noi riceviamo incessantemente il Vangelo della salvezza per proporlo al mondo. È “dalla storia e dal genere umano” che la Chiesa riceve nuove indicazioni per la sua presenza effettiva tra gli uomini di questo tempo. Non possiamo prendere a pretesto degli errori individuali e collettivi dei nostri contemporanei per porre la Chiesa al di sopra di una società che non avrebbe nulla da dirci.
L’idea democratica, ad esempio, non si applica alla Chiesa allo stesso modo che nella società politica. Essa può e deve tuttavia ispirare i modi di relazione all’interno della comunità cristiana. Non basta ripetere fino alla nausea che “la Chiesa non è una democrazia”. Sarebbe meglio mostrare ciò che può offrire di vivificante un sano spirito democratico nell’attuazione di quel “momento comune” che è l’espressione del popolo di Dio. Ci crediamo veramente a questo “momento comune” dove lo Spirito stesso “parla alla Chiesa”?
Questi accenti non esauriscono certo l’opera del Vaticano II. Tuttavia è necessario rivivificarli se la Chiesa ci tiene a che non si stemperino quegli elementi importanti del rinnovamento voluto dal Concilio. La vera Tradizione ecclesiale vi perderebbe in parte il soffio che si è manifestato cinquant’anni fa e di cui la comunità cristiana ha più che mai bisogno per essere fedele testimone dello Spirito che “rinnova la faccia della terra”.
"Lei non sai chi sono io!" equivale a una minaccia
di GRAZIA LONGO *
Dall’ironica ilarità che scatena sul grande schermo, per bocca di Totò e Alberto Sordi, alla condanna in tribunale. «Lei non sa chi sono io, questa gliela faccio pagare!» è un’esclamazione ritenuta minacciosa e quindi punibile dalla legge.
Lo ha stabilito la Cassazione che ha annullato l’assoluzione di un distinto sessantenne di Salerno, Antonio G., che aveva così inveito contro una conoscente, la signora Licia C., con la quale c’erano già state liti e incomprensioni. La suprema Corte ha, infatti, stabilito che l’espressione ha un contenuto in grado di limitare la «libertà psichica» altrui se scappa di bocca in un «contesto di alta tensione verbale».
Antonio G. era stato graziato dal giudice di pace che - con il suo verdetto del 27 aprile 2010 - aveva stabilito «l’inidoneità offensiva» della locuzione oggi incriminata, dopo il ricorso del Procuratore generale della Corte di Appello di Salerno. Il sessantenne s’indigna, protesta, ribadisce di non aver mai voluto intimidire la signora e si definisce un «perseguitato giudiziario». Ma la Cassazione non gli crede e scrive chiaro e tondo che «è sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire e irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente».
E di certo non è piacevole stare di fronte a qualcuno che per indurti a fare qualcosa, o ancor più a non farla, ti rifila un sonoro «Lei non sa chi sono io!». Tra i casi più recenti, per evitare una multa dei vigili, l’hanno pronunciata la showgirl Aida Yespica, i parlamentari Gabriella Carlucci e Vittorio Sgarbi. Persino l’attuale presidente del Senato Renato Schifani, nel 2002, chiese alla sua scorta di identificare una maschera del cinema Aurora di Palermo perché gli aveva restituito, in quanto scaduta, la sua tessera Agis (Associazione generale italiana spettacolo) per vedere gratis i film.
Ma anche nella finzione, la frase può suonare in modo diverso in base a chi la pronuncia e al contesto. Nel film «Totò a colori» il principe della risata suscita simpatia quando apostrofa l’onorevole Trombetta. Nel «Vigile», con Alberto Sordi che vuole multare persino il sindaco (Vittorio De Sica), questi lo riprese stizzito con la frase minacciosa ed ha la meglio. La realtà con la sentenza della Cassazione, restituisce dignità ai destinatari dell’illegale «Lei non sa chi sono io!».
* La Stampa, 8 luglio 2012.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La pace igiene del mondo
intervista a John Gittings
a cura di Ennio Carretto (Corriere della Sera/ La Lettura, 29 aprile 2012)
Non è la guerra, ma la pace, l’autentica molla del progresso tecnologico umano. Lo sostiene lo storico inglese John Gittings, già autore di importanti lavori sulla Cina, in un libro che sta facendo parecchio rumore in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Editorialista di politica estera del quotidiano britannico «The Guardian» dal 1983 al 2003, oggi alla Oxford International Encydopedia of Peace, Gittings è fautore di un diverso revisionismo storico, propedeutico a un nuovo, pacifico ordine globale. Nel saggio The Glorious Art of Peace. From the Iliad to Iraq («La gloriosa arte della pace. Dall’Iliade all’Iraq», Oxford University Press), Gittings non contesta solo che la matrice della scienza e della tecnologia sia soprattutto bellica. Afferma anche che, rivisitando i millenni della storia, vi si trovano le direttive, più che mai valide ai nostri giorni, per un mondo in pace, prospero e giusto.
Come è giunto a queste conclusioni?
«Ho sempre creduto che la pace sia la condizione umana ultima e la più favorevole al progresso. Da giovane, feci parte del movimento antinucleare e pacifista di Bertrand Russell. Ma con il passare del tempo mi resi conto che in prevalenza gli storici scrivono di guerre. Se visitiamo Foyles a Londra, la più grande libreria al mondo, troviamo 280 scaffali di libri sulle guerre, ma meno di uno sulla pace, sebbene alcuni libri dove si parla anche di pace siano sparsi in altri 40 scaffali».
E in questi libri sulle guerre si sostiene che esse sono all’origine delle maggiori scoperte scientifiche e tecnologiche?
«Di solito sì. È la "teoria del carro", secondo cui l’invenzione del carro da guerra trasformò l’età del bronzo, come la scoperta dell’energia nucleare ha trasformato la nostra. Ma se è vero che le guerre promuovono scoperte, è ancora più vero che la pace ne promuove di più, e sovente di più importanti. E la "teoria del palo", alla quale aderisco, secondo cui la pace è il requisito per la crescita culturale della società».
Perché è chiamata così?
«La dottrina prende il nome dal palo imperniato con contrappeso e secchio, inventato in Mesopotamia per estrarre acqua dai pozzi, più o meno contemporaneamente al carro da guerra. Una scoperta che fu decisiva per l’irrigazione dei campi e lo sviluppo agricolo. Non dimentichiamo che nei millenni la maggior parte dell’umanità non ha conosciuto guerre. Purtroppo in prevalenza gli storici tralasciano di raccontarlo».
Per quali ragioni?
«Sostanzialmente per due motivi. Le guerre appaiono più affascinanti della pace alla maggioranza degli storici: per alcuni di loro anzi, la pace è soltanto una parentesi tra le guerre. Inoltre la lettura che essi danno di eventi o movimenti cruciali è almeno in parte errata, rispecchia una sorte di pregiudizio. Si prenda Charles Darwin. Lo si considera il teorico della sopravvivenza dei più forti, il cosiddetto darvinismo sociale. Ma Darwin disse che, progredendo, l’umanità passerà dalla competizione alla cooperazione».
Lei ritiene errata anche la lettura di Omero, Shakespeare e Tolstoj come cantori della guerra, per citare qualcuno dei grandi su cui si è soffermato?
«È una lettura unilaterale. Prendiamo lo storico greco Tucidide. È giudicato favorevole alla guerra. Ma in lui non mancano gli auspici di pace. Anche Omero lascia intravedere alternative alla guerra. A un certo punto i soldati greci abbandonano l’assedio di Troia, equivocando sul discorso di Agamennone, e soltanto gli dei riescono a fermarli. Sullo scudo di Achille sono raffigurate scene agresti e di danza. Lo stesso si può dire di Shakespeare. In Russia la censura vietò la pubblicazione dei racconti di guerra di Tolstoj in quanto il romanziere si chiedeva perché i soldati si uccidano l’un l’altro».
Il pacifismo non è un fenomeno recente?
«No. All’epoca delle guerre in Cina, Confucio sedeva nella casa del tè, vicino all’ingresso nella città, dando consigli ai governanti su come ottenere o preservare la pace. Sono molte e autorevoli le voci levatesi contro la guerra nel corso dei millenni, ma vennero spesso soffocate. Si dice che la storia sia scritta dai vincitori. Io penso che sia scritta anche dai belligeranti».
Lei dà particolare rilievo all’insegnamento di Erasmo da Rotterdam, l’apostolo dell’umanesimo cristiano.
«Nel libro contrappongo Erasmo a Machiavelli. Tutti conoscono Il Principe e Dell’arte della guerra di Machiavelli: per generali e governanti furono quasi dei manuali, per qualcuno lo sono ancora. Ma pochi conoscono L’educazione del principe cristiano di Erasmo, che è quasi un trattato pacifista. Tornando a Foyles: espone più edizioni di Machiavelli e nessuna copia del libro di Erasmo, che denuncia i costi delle guerre, proponendo negoziati e mediazioni di pace. Per fortuna Erasmo influì sull’Illuminismo e sui filosofi a lui successivi».
Lei è convinto che il passato ci fornisca direttive di pace?
«Sì. L’insegnamento di Erasmo è utile. Se approfondissimo i pro e i contro a lungo termine delle guerre, ne eviteremmo molte. Tipico è il caso della guerra in Iraq: chi l’avrebbe cominciata, se ne avesse saputo in anticipo il costo? Idem per i negoziati di pace: va accettato il principio che per raggiungerla bisogna rinunciare a qualcosa. Un fattore importante è anche la pubblica opinione, che un tempo non aveva il peso di oggi. In retrospettiva, il merito della riduzione degli armamenti nucleari è anche suo».
Questo insegnamento non ci ha però risparmiato due guerre mondiali né la Guerra Fredda.
«Abbiamo perso grandi occasioni di pace perché siamo stati incapaci di assorbire la lezione della storia. Ci chiediamo ancora perché scoppiò la Prima guerra mondiale, di cui ricorrerà presto il centenario. Equivochiamo sugli anni Trenta, che inizialmente furono costruttivi, non distruttivi. Non ammettiamo che la Guerra Fredda fosse prevenibile. Ci chiediamo perché non siamo riusciti a creare un nuovo ordine mondiale negli anni Novanta, dopo il crollo del Muro di Berlino e dell’Urss. Dobbiamo cambiare».
Non pecca di ottimismo suggerendo nel suo libro che il secolo attuale può essere contraddistinto dalla pace?
«Il XX secolo è stato un secolo di sangue, circa 8o anni di guerre su 100. Abbiamo i mezzi per evitare che lo sia anche il XXI. Non m’illudo che si risolvano tutti i problemi. Siamo nell’età della globalizzazione e la situazione è complessa. Le soluzioni devono essere globali. Non si tratta soltanto di impedire che scoppino guerre, ma anche di ridurre la povertà e le disuguaglianze, di proteggere l’ambiente. Scienza e tecnologia non bastano».
Ci vuole una rivoluzione culturale?
«In un certo senso sì, anche se non uso questa espressione. Ci vogliono meno strumentalizzazioni da parte del potere, meno machismo intellettuale da parte degli storici, più collaborazione internazionale, più enfasi nelle scuole e sui media sui dividendi della pace, che ultimamente ci siamo lasciati sfuggire. Alle tv, quando si discute di Afghanistan, si invitano solo esperti di guerre, non esperti di pace. È un errore».
IL CONCETTO TEOLOGICO-POLITICO DEL VOLTO DEL FIGLIO DI DIO SECONDO LA DOTTRINA RATZINGERIANA E LA LETTERA DEL VATICANO SULLO SPETTACOLO DI ROMEO CASTELLUCCI:
Berlusconi, il volto e il vuoto
di GIANNI BAGET BOZZO (La Stampa,26/7/2008).
Dal ‘94 ad oggi le elezioni politiche, e persino quelle regionali e locali, sono state vissute come un referendum pro o contro Berlusconi. Il volto di una persona è diventato il messaggio: un fatto singolare nella democrazia, che ha indotto a spiegare Berlusconi come il frutto di un potere personale, delle sue proprietà televisive, del suo carattere di comunicatore e imbonitore. Il voto sulla persona è stato vissuto dai partiti come un sequestro della democrazia storicamente legata ai partiti e quindi, per questo, illegittimo.
Nel 2008 le cose sono andate diversamente. Il partito democratico ha posto fine all’esperienza Prodi e ha proposto il suo messaggio in termini di cooperazione politica con il centrodestra. Le elezioni hanno determinato la sconfitta del Pd e la scomparsa della sinistra antagonista. E’ caduta la forza politica alternativa a Berlusconi ed egli è diventato, come persona, il titolare della legittimità politica senza alternative: una situazione che ricorda quella della Dc dopo le elezioni del ‘48. Perché tanto consenso attorno a un volto, un consenso che non ha mai investito l’insieme dei partiti di centrodestra in quanto tale, ma è rimasto legato alla persona, inscindibile da essa?
Questo crea un problema politico obiettivo perché non può essere una soluzione ma chiede una spiegazione: perché Berlusconi è diventato il volto della politica italiana.
Ciò indica che alla base di questo vi è un problema di Stato e non di governo. Un uomo solo riguarda il caso di emergenza, non una soluzione stabile. L’elettorato del centrodestra è nato da una crisi di Stato e non da questione di scelta politica, è nato da una crisi del consenso attorno alla Costituzione del ‘48 e allo Stato che su di essa si fondava. La crisi del consenso costituzionale si manifesta nel ‘92-‘93 con due eventi: l’autoscioglimento dei partiti democratici occidentali che avevano guidato la democrazia italiana di fronte al comunismo e il sorgere di un problema indipendentista del nord espresso da Bossi. Ciò ha alterato il consenso attorno allo Stato, perché era impossibile far decadere il partito cattolico, il partito socialista e il partito liberale, che avevano retto la storia della democrazia italiana del Novecento e porre il Pds come chiave della legittimità politica. La Costituzione del ‘48 supponeva il consenso dei partiti antifascisti che ne erano mallevadori, la sua costituzione materiale. La loro pluralità e differenza era la base della legittimità politica della Costituzione. Il documento stesso era un compromesso politico: e supponeva che i partiti fondatori, nella loro diversità, rimanessero la base politica dello Stato. La riduzione al solo Pds dei partiti antifascisti creava un vuoto politico, non sul piano del governo, ma sul piano dello Stato, cioè sul piano dell’accettazione della Costituzione come base politica della Repubblica. A ciò si aggiunge il fatto che l’indipendentismo padano (che aveva allora figura etnica e si richiamava alla tradizione celtica del nord Italia come base di una differenza radicale) metteva in crisi l’impianto del sistema politico italiano fondato sulla centralità della questione meridionale. Poteva un partito rispondere a un tale stato di eccezione politica, quando tutte le tradizioni politiche diverse da quella comunista erano dissolte e vi era un vuoto obbiettivo, un vuoto che corrispondeva alla sfida indipendentista del Nord?
Ci voleva un volto, perché non c’erano più i partiti. Perché questo sia stato quello di Berlusconi non si può spiegare, esso è un fatto e non vi è dubbio che ciò corrisponde a un carisma politico, a una capacità di interpretare il popolo oltre i partiti. Berlusconi fu un evento straordinario, non prevedibile e quindi non facilmente giustificabile. Non entrava nella logica della politica e si pensava che non entrasse nelle regole della democrazia. Invece la tesi di Berlusconi fu quella di rappresentare la sovranità popolare e il suo potere costituente di un ordine politico diverso da quello dei partiti antifascisti ormai distrutto. Solo il volto di un uomo poteva coprire il vuoto politico delle istituzioni. E ciò avvenne mediante l’alleanza con la Lega Nord e con l’Msi si creando così un’alternativa alla sinistra che non era mai esistita prima e che era assai diversa dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista. Berlusconi ha rappresentato questo ruolo evitando ogni carattere salvifico persino autorevole, ha messo in luce la sua persona, non il suo carisma, lo ha fatto nelle sue debolezze, persino femminili, presentandosi come l’italiano medio, come rappresentante e non come salvatore. Il fatto di difendere la sua proprietà televisiva non gli ha nuociuto: anzi ha mostrato che egli era un potere della società e che poteva quindi bilanciare poteri istituzionali proprio perché aveva roba. Ciò che venne sentito come un difetto dai suoi oppositori, venne sentito come un vantaggio da parte del suo popolo.
Don Giuseppe Dossetti disse che, con la Costituzione del ‘48, il popolo italiano aveva abbandonato il suo potere costituente, Berlusconi mostrò che non era così e si pose come alternativa alla Costituzione del ‘48, entrando in conflitto con tutti i poteri di garanzia dal Quirinale, alla Corte Costituzionale, al Csm. Toccò così un difetto essenziale della Costituzione del ‘48: quello di fondare i poteri di garanzia e non quelli di governo.
Sovranità popolare contro Costituzione rigida: questa è l’essenza del dilemma berlusconiano che otterrebbe la sua perfezione se si rivedesse l’art. 138 e si riconoscesse che il popolo ha un potere costituente che né i partiti e né gli organi di garanzia istituzionale possono espropriare.
Lettera del Vaticano sullo spettacolo di Castellucci
IL CONTROVERSO SPETTACOLO DI CASTELLUCCI
La Segreteria di Stato risponde all’appello di padre Cavalcoli: «Il Papa auspica che ogni mancanza di rispetto incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana»
di ANDREA TORNIELLI (La Stampa, 19/01/2012)
CITTÀ DEL VATICANO
Il Papa, « auspica che ogni mancanza di rispetto verso Dio, i santi e i simboli religiosi incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana, illuminata e guidata dai suoi pastori». Lo scrive la Segreteria di Stato in una lettera indirizzata al domenicano padre Giovanni Cavalcoli, del convento bolognese di San Domenico, che l’8 gennaio aveva inviato al Pontefice una missiva parlando dello spettacolo «Il concetto del volto del Figlio di Dio» di Romeo Castellucci, in programma al Teatro Parenti di Milano la prossima settimana. La lettera vaticana, datata 16 gennaio, è firmata dall’assessore della Segreteria di Stato, lo statunitense Brian B. Wells.
Padre Calavalcoli, nella lettera inviata a Benedetto XVI, scriveva a nome di un gruppo di fedeli definendo «indegno e blasfemo» lo spettacolo di Castellucci, un’opera «gravemente offensiva della persona del nostro Divin Salvatore Gesù Cristo». «Ci addolora inoltre in modo particolare - continuava il teologo domenicano - la consapevolezza che questo inqualificabile atto di empietà colpisca pure, benché indirettamente, la venerabile e da noi amata persona di vostra Santità», in quanto vicario di Cristo. Padre Cavalcoli osservava che l’avvenimento non rappresenta «un fenomeno casuale, isolato e senza radici», ma si inserisce in «una crescente ostilità nei confronti del cristianesimo che si sta diffondendo nel mondo, nonché di un sintomo ed effetto di un disagio e di una crisi spirituali profondi e diffusi ormai da decenni anche in Italia, in parte anche per una mancata o malintesa applicazione del Concilio Vaticano II».
Dopo aver citato le forze che dentro la Chiesa «remano contro» il Papa, Cavalcoli afferma che episodi come quello del controverso spettacolo di Castellucci «sono resi possibili non solo dagli attacchi della cosiddetta “cristianofobia”, ma anche da gravi vuoti e carenze dottrinali ed educative non dovutamente eliminati da parte di chi di dovere. Pensiamo in modo particolare - scrive il domenicano, riferendosi ai casi di pedofilia del clero - allo scandalo subito dai bambini, nei confronti del quale il Signore ha parole di estrema severità». «Siamo preoccupati - conclude Cavalcoli - per coloro che, come il Castellucci, cercano di trarre vantaggio da una situazione nella quale si fa desiderare una maggiore vigilanza da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche».
Otto giorni dopo l’invio, dunque a stretto giro di posta, ecco la risposta della Segreteria di Stato, nella quale, citando la lettera del frate domenicano, si parla dell’opera teatrale «che risulta offensiva nei confronti del Signore nostro Gesù Cristo e dei cristiani». «Sua Santità - continua la missiva vaticana firmata dall’assessore Wells - ringrazia vivamente per questo segno di spirituale vicinanza e, mentre auspica che ogni mancanza di rispetto verso Dio, i santi e i simboli religiosi incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana, illuminata e guidata dai suoi pastori, le augura ogni bene per il ministero e invia di cuore l’implorata benedizione apostolica». La riproduzione originale della lettera della Segreteria di Stato è messa online da padre Cavalcoli sul sito Riscossa Cristiana e dal comitato San Carlo Borromeo.
La grande perversione
di Leonardo Boff *
Per risolvere la crisi economico-finanziaria della Grecia e dell’Italia è stato costituito, per esigenza della Banca Centrale Europea, un governo di soli tecnici senza la presenza di politici, nell’illusione che si tratti di un problema economico che deve essere risolto economicamente. Chi capisce solo di economia finisce col non capire neppure l’economia.
La crisi non è di economia mal gestita, ma di etica e di umanità. E queste hanno a che vedere con la politica. Per questo, la prima lezione di un marxismo minimo è capire che l’economia non è parte della matematica e della statistica, ma un capitolo della politica. Gran parte del lavoro di Marx è dedicato alla destrutturazione dell’economia politica del capitale. Quando in Inghilterra si visse una crisi simile all’attuale e si creò un governo di tecnici, Marx espresse con ironia e derisione dure critiche perché prevedeva un totale fallimento, come effettivamente successe. Non si può usare il veleno che ha creato la crisi come rimedio per curare la crisi.
Per guidare i rispettivi governi di Grecia e Italia hanno chiamato gente che apparteneva agli alti livelli dirigenziali delle banche. Sono state le banche e le borse a provocare l’attuale crisi che ha affondato tutto il sistema economico. Questi signori sono come talebani fondamentalisti: credono in buona fede nei dogmi del mercato libero e nel gioco delle borse. In quale punto dell’universo si proclama l’ideale del greed is good, ovvero l’avidità è un bene? Come fare di un vizio (e diciamo subito, di un peccato) una virtù? Questi signori sono seduti a Wall Street e alla City di Londra. Sono volpi che non si limitano a guardare le galline, ma le divorano. Con le loro manipolazioni trasferiscono grandi fortune nelle mani di pochi. E quando è scoppiata la crisi sono stati soccorsi con miliardi di dollari sottratti ai lavoratori e ai pensionati. Barack Obama si è dimostrato debole, inchinandosi più a loro che alla società civile. Con i soldi ricevuti hanno continuato la baldoria, giacché la promessa regolazione dei mercati è rimasta lettera morta. Milioni di persone vivono nella disoccupazione e nel precariato, soprattutto i giovani che stanno riempiendo le piazze, indignati contro l’avidità, la disuguaglianza sociale e la crudeltà del capitale.
Persone formate al catechismo del pensiero unico neolibersita tireranno fuori la Grecia e l’Italia dal pantano? Quello che sta succedendo è il sacrificio di tutta una società sull’altare delle banche e del sistema finanziario.
Visto che la maggioranza degli economisti dell’estabilishment non pensa (né ha bisogno), tentiamo di comprendere la crisi alla luce di due pensatori che nello stesso anno, il 1944, negli Stati Uniti, ci hanno fornito una illuminante chiave di lettura. Il primo è il filosofo ed economista ungaro-canadese Karl Polanyi con il suo La grande trasformazione (1944; Einaudi, 1974), un In che consiste? Consiste nella dittatura dell’economia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale che ha aiutato a superare la grande Depressione del 1929, il capitalismo ha messo a segno un colpo da maestro: ha annullato la politica, mandato in esilio l’etica e imposto la dittatura dell’economia. A partire dalla quale non si ha più, come si era sempre avuta, una società con mercato, ma una società di solo mercato. L’ambito economico struttura tutto e fa di tutto commercio, sorretto da una crudele concorrenza e da una sfacciata avidità. Questa trasformazione ha lacerato i legami sociali e ha approfondito il fossato fra ricchi e poveri in ogni Paese e a livello internazionale.
L’altro pensatore è un filosofo della scuola di Francoforte, esiliato negli Usa, Max Horkheimer, autore de L’eclissi della ragione (1947; Einaudi 1969). Qui si danno i motivi per la Grande Trasformazione di cui parla Polanyi che consistono fondamentalmente in questo: la ragione non è più orientata dalla verità e dal senso delle cose, ma è stata sequestrata dal processo produttivo e ridotta ad una funzione strumentale «trasformata in un semplice meccanismo molesto di registrazione dei fatti». Deplora che concetti come «giustizia, uguaglianza, felicità, tolleranza, per secoli giudicati inerenti alla ragione, abbiano perso le loro radici intellettuali». Quando la società eclissa la ragione, diventa cieca, perde significato lo stare insieme, rimane impaludata nel pantano degli interessi individuali o corporativi. È quello che abbiamo visto nell’attuale crisi. I premi Nobel dell’Economia, i più umanisti, Paul Krugman e Joseph Stiglitz hanno scritto ripetutamente che i “giocatori” di Wall Street dovrebbero stare in carcere come ladri e banditi.
Ora, in Grecia e in Italia, la Grande Trasformazione si è guadagnata un altro nome: si chiama la Grande Perversione.
* Teologo e filosofo
* Adista/Segni Nuovi, n. 92 del 10/12/2011
SOCIETA’
Nel mondo globale l’«altro» non c’è più
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 01.12.2011)
Alla fine “noi” siamo davvero gli “altri”. Basta con la condiscendenza verso i primitivi, basta con il paternalismo di chi pensa che, se si impegnassero, gli aborigeni di qualsiasi latitudine potrebbero raggiungere l’unico livello di civilizzazione universalmente riconosciuto come tale, e cioè quello che obbedisce agli standard dell’Occidente illuminista. Un conto era quando gli altri se ne stavano nei loro villaggi, in atolli sperduti o in avamposti inaccessibili. Adesso invece abitano le nostre città, esercitando su di noi lo stesso sguardo sorpreso e indagatore che fino a poche generazioni fa l’Occidente riservava al resto del pianeta. Noi il centro, loro periferia. Tutto mescolato, adesso. Senza che gli altri ci diano almeno la soddisfazione di lasciarsi corrompere dai nostri vizi. La globalizzazione viaggia a modo suo e i simboli tribali convivono con la logica del consumismo. Non è un “altro” mondo: è il mondo così com’è. Il nostro e, nel contempo, il loro.
Una provocazione? La lanterna dell’antropologo di Marshall Sahlins (a cura di Cristiano Casalini, Medusa, pagine 64, euro 9,00) è anche questo, non c’è dubbio. Nello stesso tempo, è un’eccellente introduzione al pensiero di quello che viene ormai considerato il maggior antropologo vivente: statunitense, classe 1930, Sahlins ha studiato in particolare le culture della Polinesia, pubblicando numerosi saggi, alcuni dei quali già noti al lettore italiano (Capitan Cook, per esempio, edito da Donzelli nel 1997, e Un grosso sbaglio, uscito da Eleuthera lo scorso anno). Quanto alla Lanterna dell’antropologo, si tratta di una conferenza pronunciata nel 1997 a Nanterre, quindi in Francia, patria dell’Illuminismo. Il posto ideale per “rovesciare la torta” dei pregiudizi occidentali. Partendo, letteralmente, dalla metafora cara al maestro di Sahlins, Leslie White, per il quale la base di ogni società era marxianamente costituita dalle tecnologie e dai mezzi di produzione, su cui in un secondo momento si stendeva la “glassa” delle forme simboliche e culturali. Niente affatto, ribatte l’intemperante allievo, che pure di economia se ne intende: i simboli vengono prima, le tecnologie contano fino a un certo punto. Altrimenti non si spiegherebbe il fenomeno dei cosiddetti develop man, i melanesiani che, una volta inurbati, continuano a praticare le antiche usanze tribali, magari adoperando mazzi di banconote al posto delle conchiglie votive.
«La riflessione di Sahlins ha come obiettivo il superamento di un equivoco fortemente radicato - sottolinea l’antropologo Franco La Cecla -, quello per cui le culture tradizionali sarebbero fatalmente destinate a soccombere quando vengono a contatto con l’Occidente. È un pregiudizio che in realtà ne sottintende un altro, vale a dire che le culture degli “altri” siano immutabili nelle loro strutture e immobili nel tempo. Prive di storia, insomma. Oggi sappiamo che questa distinzione, cara a un autore come Claude Lévi-Strauss, non ha più senso. Le culture che fino a poco tempo fa immaginavamo rigide e fisse si dimostrano, al contrario, capaci di adattarsi in modo originale ai processi della globalizzazione. Da un certo punto di vista, questo rappresenta la fine del mito della “purezza” degli indigeni, che fa da contraltare alla presunta malvagità del nostro modello di civilizzazione. Il quale, tra l’altro, non per questo rinuncia a proporsi come egemonico. Chi parla di “culture subalterne” lo fa nella convinzione di non essere subalterno. Di essere centro, non periferia». E il denaro? «Il riconoscimento dell’elemento simbolico insito nella moneta è ben presente, oltre che in Sahlins, negli studi di Maurice Bloch. In generale, poi, l’attenzione per i significati profondi dei processi economici è determinate in ambito neomarxista, dove si tende a dare per scontato che gli elementi culturali vengano prima di quelli strutturali o, se si preferisce, sovrastrutturali». Ma una rivoluzione come quella suggerita da Sahlins non si traduce in una sorta di relativismo? «Non direi - afferma la Cecla -. Anche da un punto di vista religioso, mi pare interessante l’intuizione per cui alcune popolazioni indigene possono ormai considerare il cristianesimo appreso dai missionari come una componente essenziale della loro identità».
Meno severo verso l’eredità dell’antropologia classica si dimostra lo storico Franco Cardini: «È una disciplina che discende da buone intenzioni e da cattiva coscienza insieme - sintetizza -. In questo c’è tutto il paradosso dell’Occidente, che prende coscienza della propria marginalità con Erodoto, per il quale è evidente che il centro sta altrove, nell’Impero persiano, rispetto al quale i greci sono sudditi periferici. Si tratta di un atteggiamento unico nella storia della cultura, perché di solito ogni civiltà rivendica un primato, un’unicità che la rende centrale e irriducibile a confronto delle altre. Lo stesso cristianesimo, a ben vedere, si fonda su una promessa altrettanto insolita: già per Agostino la legittimità dell’Impero romano è considerata la condizione che rende possibile la nascita di Gesù, eppure Gesù non è romano. Appartiene a un popolo che in quel momento è assoggettato all’autorità centrale, un popolo che, tra l’altro, fonda da sempre la propria identità sul principio di elezione e quindi di centralità». Da dove viene, allora, la cattiva coscienza? «Dal fatto che queste premesse sono clamorosamente contraddette dalla prassi dell’Occidente - risponde Cardini -, che con la forza bruta dell’azione ha cercato di imporre il proprio modello al resto del mondo. Cercando, nei momenti più drammatici, un correttivo nel principio di tolleranza, che emerge nel Seicento, con Locke, in ambito religioso e diventa universale nel secolo seguente». E adesso a che punto siamo? «Al punto indicato da san Paolo nella Lettera ai Galati - rilancia Cardini -. Per effetto della globalizzazione ci rendiamo conto che davvero non esiste più “giudeo né greco" e che l’alterità è, da un certo punto di vista, l’unico tratto che accomuna gli esseri umani. Siamo tutti gli altri di qualcuno, ma questo non si traduce in una resa al relativismo. Se mi permette il gioco di parole, solo il riconoscimento della relatività delle culture rende possibile la relazione fra di esse. Del resto, è quello che sosteneva Cusano nel De pace fidei. E pensare che a quell’epoca, a metà Quattrocento, Colombo non aveva ancora scoperto l’America...»
Alessandro Zaccuri
Ad Assisi niente preghiera comune fra le religioni
Assisi, leader religiosi non pregheranno
per la Pace: paura di confondere i fedeli
di Franca Giansoldati *
CITTA’ DEL VATICANO - Il nome di Dio non verrà invocato. Stavolta niente preghiere ad Assisi: i leader religiosi invitati dal Papa a riunirsi sulla tomba di San Francesco per riflettere sul tema della pace non pregheranno nè da soli, nè collettivamente. La «Giornata di riflessione, dialogo e preghiera» ideata da Papa Wojtyla 25 anni fa sarà solo una «Giornata di riflessione e dialogo» tra diverse fedi. In questo modo Benedetto XVI vuole evitare ogni possibile rischio di sincretismo religioso, confondendo i fedeli; e così nella cittadina umbra, il 26 ottobre prossimo, non si invocherà il nome del Signore. Anche da cardinale Papa Ratzinger aveva manifestato qualche perplessità al suo predecessore proprio su questo punto, pur condividendo ovviamente l’importanza di un momento di dialogo.
Cambiamenti a parte il venticinquesimo anniversario dello storico summit promosso da Papa Wojtyla nel 1986 sarà comunque importante e significativo. A cominciare dalle presenze. Hanno aderito in parecchi. Solo le delegazioni cristiane sono già una trentina e c’è il problema di contenerle. Saranno presenti l’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, l’arcivescovo ortodosso di Cipro, l’arcivescovo metropolita di Astana, Alexander, uomo di fiducia del Patriarca di Mosca, Kirill. Ortodossi, anglicani, luterani, evangelici, ma anche ebrei, rappresentanti del World Jewish Congress e rabbini di peso, poi induisti, animisti, buddisti.
Solo i musulmani saranno sotto rappresentati dal momento che l’università del Cairo di Al-Azhar, il maggiore centro teologico sunnita, ancora immensamente irritato con il Papa per il discorso fatto l’anno scorso davanti al Corpo Diplomatico, ha fermamente declinato l’invito (anche se al summit di Sant’Egidio a Monaco, nel settembre scorso, lo sceicco Al Tayyeb aveva inviato due rappresentanti). Sulla tomba di san Francesco ci sarà però il Principe Ghazi di Giordania, al quale spetterà l’onore di sedere accanto al pontefice al momento del pranzo.
Per la prima volta arriveranno anche 5 atei incalliti, tra cui Julia Kristeva, celebre psicanalista francese, allieva di Lacan, di origini bulgare. I nomi degli intellettuali atei sono stati forniti dal cardinale Gianfranco Ravasi, ideatore del Cortile dei Gentili, un think thank per il dialogo con i ’lontani’. La giornata si compone, grosso modo, in tre momenti. Un primo, nella basilica degli Angeli, dove gli ospiti parleranno (sono previsti una decina di interventi) e prenderanno visione di un filmato con le immagini di quel 26 ottobre 1986 ormai entrato nella Storia. Seguirà un frugale pranzo, nel rispetto delle regole alimentari previste dalle varie religioni e, infine, una visita alla tomba del santo seguita dalla lettura, in piazza, di un testo sulla pace nel mondo.
Papa Ratzinger, come aveva già fatto il suo predecessore, partirà con tutte le delegazioni dalla stazione vaticana con un convoglio con le insegne vaticane, messo a disposizione dalle Ferrovie dello Stato. Partenza alle 8 di mattina per circa trecento persone tra leader religiosi, prelati, autorità italiane e uomini della sicurezza. Al ritorno il treno rallenterà alle stazioni di Terni e Foligno per permettere al Pontefice di salutare i fedeli.
Venerdì 07 Ottobre 2011
* Articolo tratto dal sito: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=165697&sez=HOME_NELMONDO
* Il Dialogo, Domenica 09 Ottobre,2011 Ore: 17:49
Caro "Fra Pietro"
Registriamo con piacere che del discorso fatto dal francescano Leonard Boff qualcosa ti abbia turbato. e che tu abbia sentito il bisogno di dire la tua sulla sua analisi. Evidentemenete la tua cattolicità non è proprio cattolica! Qualcosa, anzi - qui ed ora -Qualcuno ti spinge a svegliarti.
Ora che fai? Ti alzi e cammini ... o stai tranquillo, e continui a dormire sulle tue "proprie Verità"?!
Cosa pensi? E’ il caso, c’è qualche ragione per cui tu debba svegliarti e vedere che ora è e se è giorno o ancora notte e a a sapere dove ti trovi, o no?!
A te la decisione. Nessuno costringe nessuno a diventare né ecumenico né cattolico. Solo i ’cattolici’ hanno questo vecchio vizio.
Grazie per il tuo intervento e .... buon giorno!
Cordiali saluti,
Per la Redazione
Federico La Sala
L’alternativa si chiama Gesù
di Vittorio Cristelli (vita trentina, 13 febbraio 2011)
È in atto in questi giorni a Dakar, capitale del Senegal, il Forum Sociale Mondiale e dentro lo stesso (non più collaterale come in passato) il Forum Mondiale di Teologia e Liberazione, animato da ben novanta teologi (uomini e donne) di tutto il mondo. Siamo in un momento cruciale perché la crisi non è solo quella economica ma è pure culturale e religiosa. Si tratta di individuare un’alternativa all’egemonia neoliberista che si sta rivelando fallimentare e tanti disastri ha provocato e provoca. In crisi sono anche le religioni, specie di fronte al multiculturalismo di fatto che le interpella.
E si impone grande, epocale la domanda: di quale anima ha bisogno il mondo per vivere in maniera più degna e con maggiore speranza? In tutti i campi si è in affannosa ricerca di sistemi diversi, di vie nuove per uscire dall’impasse in cui è piombato il mondo occidentale. Anche le religioni si trovano in difficoltà sia perché non più ascoltate come maestre di vita, sia per la varietà culturale, etnica e di visioni del mondo che le interpellano.
Il teologo Josè Antonio Pagola presenta come risposta la figura di Gesù, ma non quello accaparrato dalle religioni cristiane, bensì il Gesù considerato "patrimonio dell’umanità". Dice Pagola che oggi ci sono persone che non sono neppure credenti, ma che affermano: "Gesù non appartiene solo ai cristiani". Altre dicono: "Gesù è senza dubbio il meglio che la storia ha offerto e sarebbe una tragedia se un giorno l’umanità lo dimenticasse". E ancora: "Gesù ha inaugurato non solo una nuova religione, ma una nuova era’. E qual è il progetto di Gesù? Si chiama "’Regno di Dio".
A questo punto mi urge un ricordo personale. Eravamo nell’"Anno dello Spirito Santo", proclamato da Papa Wojtyla in preparazione al Giubileo del 2000. In una conferenza ai consigli pastorali di Trento mi son permesso di dire che la Chiesa è penultima rispetto al Regno di Dio da realizzare già su questa terra. Ci fu una reazione vivacissima e qualcuno chiamò in causa La stessa Curia perché intervenisse a precisare e confutare l’eresia". Io consegnai la mia conferenza scritta ed ebbi la soddisfazione di sentirmi dire dal teologo e biblista incaricato di verificare, che non solo la Chiesa è penultima, ma anche Gesù Cristo è penultimo rispetto al Regno di Dio. Lui stesso infatti è venuto per portare e realizzare sulla terra il Regno di Dio.
Il teologo Pagola argomenta che oggi tutti i ricercatori pensano che il Regno di Dio sia stato "la vera passione di Gesù, il nucleo e il cuore del suo messaggio”. E soggiunge che fu pure la ragione per cui è stato condannato a morte. Tornando all’oggi, sentenzia: "Il Regno di Dio è l’alternativa di Gesù". Ma quali sono le caratteristiche costitutive di questo Regno? La prima è la compassione come principio di azione e l’unico modo per somigliare a Dio. La seconda è la dignità degli ultimi da prendere come meta dell’agire. La terza è l’azione terapeutica come programma. E applica Pagola: "Quando si lotta contro la sofferenza, quando si allevia il dolore, quando si offre una vita più sana, lì sta operando il Regno di Dio". E infine il perdono come orizzonte. Cioè l’amicizia, l’accoglienza verso tutti, anche quelli che ignorano Dio o lo rifiutano. Il teologo conclude rilevando che le religioni sono in crisi, ma Gesù no, anzi, interessa più che mai. E ammonisce i cristiani dicendo: "Siamo distratti da molte cose, squalificandoci e condannandoci gli uni gli altri all’interno della stessa Chiesa senza ascoltare Gesù’. Che ci suggerisce l’alternativa a questo mondo in crisi.
Sarà un nuovo cristocentrismo, ma che si traduce in cosmocentrismo, quello che il summit teologico di Dakar si propone per rispondere alla globalizzazione.
CENTRO STUDI TEOLOGICI di MILANO
nota alla stampa
DENUNCIA PUBBLICA DEL CENTRO STUDI TEOLOGICI di MILANO del SITO cattolico PONTIFEX per ANTISEMITISMO RELIGIOSO.....
clicca:
continuano le interviste diffamanti di Vescovi emeriti ( vecchi in tutti i sensi...)
ma il Vaticano e la CEI tacciono?!
forse non vogliono dare troppa visibilità internazionale a questi spropositi di Prelati fuori dalla realtà... (come accaduto per i Vescovi antisemiti lefebvriani)
ma si può continuare a lasciar intervistare i Vescovi in pensione, che danno i numeri del Lotto?
... e che rischiano di screditare tutta quanta la Chiesa cattolica uscita dal Concilio Vaticano II e danneggiare lo stesso Ecumenismo ed il Dialogo interreligioso?...
e un altro quesito inquietante ed angosciante: MA QUANTI SONO I VESCOVI CHE NUTRONO TALI PENSIERI O TALI IDEOLOGIE in SENO ALLA CHIESA OGGI?
CST di Milano - Centro Studi Teologici - Centro Ecumenico
+ mons. Giovanni Climaco Mapelli - Arcivescovo Presidente
tel. 339.5280021
CHIESA CRISTIANA ANTICA CATTOLICA E APOSTOLICA in ITALIA
Via Govone , 56
M I L A N O
Con Monsignor Vincenzo Franco, Vescovo Emerito di Otranto, parliamo del caso dei tre preti gay che sarebbero stati pizzicati tempo fa dal giornale Panorama. Secondo quanto riporta Repubblica, in Curia a Roma ci sarebbe malumore perché costoro sarebbero ancora in attività. Chiediamo il parere del Prelato: " la Chiesa deve andare sempre, per ragioni di forza maggiore, con i piedi di piombo. Se corre troppo la criticano, se va piano anche. Insomma, come la fa, sbaglia. Certamente il caso che lei ha citato va analizzato con attenzione e bisogna valutare con scrupolo se quanto riportato risponde al vero. Anche loro hanno diritto alla garanzia di un processo giusto e approfondito".E se dovesse risultare vero quanto riportato dal giornale, che comunque é un organo di stampa serio ed autorevole, che fare?: " se le responsabilità vengono acclarate con nettezza e senza alcun dubbio, é del tutto evidente che bisognerà adottare ogni ...
... tipo di sanzione, anche le più rigide e severe perché questi confratelli hanno sbagliato sotto due aspetti".
Quali?: " indipendetentemente dalla questione omosessuale, hanno comunque violato il dovere di castità e pertanto sarebbero responsabili ugualmente anche se li averrero colti con donnine allegre. Nel caso di specie lo scandalo é ancora maggiore, in quanto hanno ceduto ad una pratica che offende la natura umana".
Insomma, la ptatica omosessuale: "esattamente. Se le tendenze gay sono soltanto una disgrazia che affligge il soggetto e non costitiuscono peccato se vissute castamente, la pratica, cioé l’ esercizio di atti, é contro natura, una cosa depravata che offende Dio in modo turpe. In sostanza non é possibile predicare dall’ ambone la dottrina della Chiesa e nel privato fare l’ esatto opposto. A loro nessuno ha imposto di fare i preti, ma una volta fatta questa scelta, siano per lo meno coerenti".
Questo riguarda una generale caduta dei valori etici: "vero, da molti punti di vista assistiamo ad una morale fortemente ridotta o addirittura inesistente. Se anche noi preti diamo il cattivo esempio, é finita". In Terra Santa si riprende a sparare: " una situazione spinosa".
Per amor di verità, questa volta gli israeliani sono stati provocati. " Vero, ma nulla toglie, sotto l’ aspetto religioso alcune cose che non sempre sono dette con chiarezza". Cioé?: "sono della idea che loro erano perfidi e lo rimangono e che quella espressione tolta era giusta. Intanto, come ho detto altre volte, perfido non é un insulto, ma poi loro, che sono lontani dalla fede, hanno messo in croce Cristo e le conseguenze sono cadute tragicamente su di loro. Mi auguro che possano convertirsi, ma vista la durezza dei loro cuori, non credo. Io, per esempio, non visiterei mai una sinagoga, non ne sento il bisogno".
Giovanni Paolo II baciò il Corano: "egli ha fatto tante cose buone, ma anche errori e questo lo fu. Io quel libro non lo avrei mai baciato, non per disprezzo, ma in quanto non ci vedo nulla di sacro, una pubblicazione qualunque".
Come baciare Topolino: "esatto, come baciare un qualsivoglia testo, che senso ha"?
Bruno Volpe
Lettera
Giusto negare la messa funebre al vescovo di Otranto
di Elisa Merlo
Il vescovo emerito di Otranto, Vincenzo Franco, ha dichiarato: “Non darei la comunione a Vendola perché ostenta la sua condizione perversa e malata di omosessuale praticante”. Ed ha avuto il coraggio di aggiungere: “Se muore un gay certamente me ne dolgo e prego per lui, ma non posso celebrare una messa funebre per la semplicissima ragione che è morto senza pentimento". Il vescovo somiglia molto a San Paolo, e per niente a Gesù. Così va il mondo della Chiesa.
San Paolo, infatti, riguardo agli omosessuali, ma anche riguardo alle donne, faceva discriminazioni che Gesù non ha mai fatto. Il vescovo di Otranto, dando pubblicamente del perverso e del malato ad un omosessuale, non ha calpestato solo il Vangelo, ma anche la ragione. Doppio peccato. Qualora dovesse morire senza pentimento (Dio non voglia!), stando alla sua affermazione, sarebbe giusto gli fosse negata la messa funebre. Vale forse la pena ricordare al buon vescovo che il Gesù del Vangelo non negò il pane spezzato neppure all’apostolo traditore.
Elisa Merlo
MESSAGGIO DELL’EVANGELO ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv. 4.8), MESSAGGIO DEL POSSESSORE DELL’"ANELLO DEL PESCATORE" ("DEUS CARITAS EST": BENEDETTO XVI, 2006), E TEOLOGIA POLITICA DELL’"UOMO SUPREMO" ("DOMINUS JESUS").
(...) Lestingi è, comunque, convinto che Lessing «non abbia mai voluto sfilarsi di dosso il cristianesimo come una vecchia tunica logorata, ma ha inteso interpretarlo in maniera nuova e ardita facendogli fare un salto in avanti». Un salto, però, piuttosto rischioso che ha sotto di sé anche il vuoto di uno smarrimento della specificità e dell’autenticità teologica.
Perché la Chiesa non vuole abolire la legge del celibato
di Leonardo Boff - teologo, filosofo e scrittore *
Traduzione di Stefania Salomone
20.04.10 - MUNDO Adital - L’emergere dei casi dei preti pedofili in quasi tutti i paesi cattolici è ancora in corso, rivelando la portata di questi crimini che tanto danno hanno causato alle loro vittime.
E’ troppo poco affermare che la pedofilia è la vergogna della chiesa, o chiedere scusa e pregare. E’ peggio. Rappresenta un debito inestinguibile a quei minori che furono abusati sotto il mantello della credibilità e della confidenza che la funzione presbiterale incarna. La tesi principale di papa Ratzinger, che mi sono scocciato di ascoltare nelle sue conferenze e lezioni, si smentisce da sé. Per lui, l’importante non è cha la chiesa sia grande. Basta che sia un “piccolo gregge”, costituito di persone altamente spirituali.
E’ un piccolo “mondo riconciliato” che rappresenta gli altri e l’intera umanità. Accade che in questo piccolo branco ci siano peccatori criminali e che sia tutt’altro che un “mondo riconciliato”. Bisogna accettare umilmente quello che dice la tradizione: la Chiesa è santa e peccatrice, una “prostituta casta”, come dicevano alcuni antichi Padri.
Non è sufficiente che sia Chiesa; ma deve perseguire, come tutti, il cammino del bene, e integrare le pulsioni della sessualità, che già hanno mille milioni di anni di memoria biologica, per diventare espressione di tenerezza e di amore e non di ossessione e di violenza sui minori.
Lo scandalo della pedofilia diventa un segno dei tempi. Dal Vaticano II abbiamo appreso che bisogna scoprire nei segni dei tempi il messaggio che Dio ci vuole trasmettere. Mi sembra che il messaggio vada in questa direzione: è il momento che la chiesa cattolico-romana faccia quello che le altre chiese hanno già fatto: abolire il celibato imposto per legge ecclesiastica, e renderlo facoltativo affinché coloro che vogliono abbracciarlo possano viverlo con gioia e freschezza di spirito. Ma questa lezione non viene considerata dalle autorità romane. Al contrario, nonostante gli scandali, riaffermano il celibato con maggior forza. Sappiamo che l’educazione per l’integrazione della sessualità nel processo di formazione dei preti è insufficiente. Li si tiene lontani dal normale contatto con le donne, cosa che provoca una sorta di atrofia nella formazione identitaria.
Le scienze della psiche hanno chiarito che gli uomini maturano solo sotto lo sguardo delle donne, e le donne sotto lo sguardo degli uomini. Uomini e donne sono reciproci e complementari. Il sesso genetico delle cellule ha dimostrato che la differenza tra un uomo e una donna, in termini di cromosomi, è ridotto a un solo cromosoma. La donna ha due cromosomi XX e il nome di un cromosoma X e un Y. Ne consegue che il sesso-base è il sesso femminile (XX), essendo il sesso maschile (XY) una differenziazione dello stesso. No vi è quindi un sesso assoluto, ma solo uno dominante. In ogni essere umano, uomo e donna, esiste un “secondo sesso”. Nell’integrazione di “animus” e “anima”, vale a dire delle due dimensioni del femminile e maschile presenti in ogni essere umano, si manifesta la maturità sessuale.
Questa integrazione è ostacolata dalla assenza di una delle due parti, la donna, che viene sostituita dalla immaginazione e dai fantasmi, che, se non soggetti alla disciplina, possono degenerare in distorsioni. Ciò che veniva insegnato nei seminari non era privo di una qualche saggezza: chi controlla l’immaginazione, controlla la sessualità. E in parte è vero. Ma la sessualità è una forza vulcanica. Paul Ricoeur, che ha dato vita a profonde riflessioni filosofiche sulla teoria psicanalitica di Freud, afferma che la sessualità è al di là di ogni controllo della ragione, delle norme morali o delle leggi. Vive nella legge del giorno, dove valgono regole e comportamenti stabiliti, e in quella della notte, nella quale dominano le pulsioni, la forza vitale della spontaneità.
Solo un progetto di vita etico e umanistico (quello che vogliamo avere) può dare senso alla sessualità, trasformandolo in forza per l’umanizzazione e la costruzione di relazioni feconde. Questo processo non esclude il celibato. E’ una delle opzioni possibili, che io difendo. Ma il celibato non può derivare da una carenza d’amore; al contrario, deve risultare da una sovrabbondanza di amore a Dio che trabocca verso coloro che ci circondano.
Perché la chiesa cattolica romana non fa un passo verso l’abolizione della legge del celibato? Perché è in contrasto con la sua struttura. E’ una istituzione totalitaria, autoritaria, patriarcale, fortemente gerarchica, uno degli ultimi bastioni del conservatorismo mondiale. Sovrasta una persona dalla sua nascita alla sua morte. Secondo un minimo di consapevolezza pubblica, il potere conferito al papa è pura tirannia. Il canone 331 è chiaro: si tratta di un potere “ordinario, supremo, pieno, immediato ed universale”. Se togliamo la parola “papa” e la sostituiamo con “Dio”, funziona lo stesso.
Per questo si usava dire: “Il papa è il dio minore sulla terra”, come hanno affermato anche molti canonisti. Una chiesa che mette il potere al suo centro, chiude porte e finestre all’amore, alla tenerezza e alla compassione. La persona celibe è funzionale a questo tipo di chiesa, poiché questa nega al celibe quello che esiste di più profondamente umano, amore, tenerezza, incontro affettivo con le persone, maggiormente favorito se i preti fossero sposati.
Essi diventano completamente disponibili per l’istituzione, che può mandarli a Parigi o in Corea del Sud. Il celibato implica cooptare il prete interamente non al servizio dell’umanità, ma a questo tipo di chiesa. Dovrà amare solo la chiesa. Quando scopre che questa non è solo “la santa madre chiesa” ma che può essere una matrigna che usa i suoi ministri per la logica del potere, si disaffeziona, lascia il ministero col suo celibato obbligatorio e si sposa.
Finché perdura questa logica di potere assolutista e centralizzatore, non aspettiamoci che la legge del celibato venga abolita, per quanti scandali possano esserci. Il celibato è troppo comodo e utile per l’istituzione ecclesiastica. Ma dov’è allora il sogno di Gesù di una comunità fraterna e egualitaria? Beh, questo è un altro problema, forse il principale. Con questo presupposto si porrebbe diversamente la questione del celibato e dello stile di chiesa che sarebbe più adeguato al messaggio liberatore di Gesù.
* Il Dialogo, 29.04.2010 (ripresa parziale - senza testo originale).
Gherush92
Committee for Human Rights
ECOSOC Organization
GLI AFFAMATI DAL CROCIFISSO
La disutile presenza del pontefice al vertice della FAO, se da una parte evidenzia l’incapacità di questo mastodontico organismo ad affrontare le tematiche della fame, dall’altra ci costringe a delle osservazioni sull’enciclica Caritas in Veritate. Il testo, richiamato più volte nel discorso del papa in plenaria, è l’apogeo di un’ideologia universalista e neo-omologazionista con la quale il cristianesimo vorrebbe costruirsi la patente di risolutore dei problemi della povertà e della fame estrema del mondo, dopo esserne stato uno degli artefici principali in Africa, in America Latina e non solo.
In verità, la Caritas in Veritate non risolve né il problema della povertà, né quello della fame, anzi le aggrava. Il difetto principale sta nel voler gestire il problema con l’assistenzialismo e l’evangelizzazione. Il titolo sintetizza la teoria: la carità nella verità ovvero nell’evangelizzazione; il corollario riepiloga il programma: la croce per un pugno di riso.
Il cristianesimo pratica e prescrive l’evangelizzazione e l’uniformità sotto forma di un unico modello culturale. La diffusione del cristianesimo non è altro che la diffusione di un prototipo universale precostituito, che ostacola la conoscenza e gli scambi fra le specie, fra i popoli e le culture. E’ un processo contro natura perché non accetta la diversità e si adopera per ricondurre le migliaia di opere e culture che incontra all’interno di uno schema precostituito, auto referenziato, ma del tutto inefficace a spiegare e interagire con l’universo, la diversità culturale e i fenomeni naturali. L’evangelizzazione, insieme con altre forme di omologazione, è la causa principale della cancellazione delle diversità, porta alla perdita di conoscenza e ha significato e provocato la scomparsa e l’assimilazione di molti popoli e culture. L’evangelizzazione è una delle principali cause della povertà, della miseria e della fame estrema, perché cancellando la diversità si elimina la conoscenza che è olistica, il bene più prezioso, il motore per la produzione di cibo e di benessere.
L’enciclica Caritas in Veritate, sulla quale si sono espressi in modo servile, ossequioso e incompetente politici e intellettuali e la FAO, è, in realtà, un guazzabuglio tuttologico che affronta i temi della globalizzazione, della cooperazione internazionale, dello sviluppo umano, dell’ambiente, dei cambiamenti climatici, della natalità, della finanza internazionale, del sindacato, usando qua è là parametri di giudizio ereditati, secondo la convenienza, da vulgate terzomondiste e neoglobal da una parte e da analisi economiche di stampo liberale dall’altra.
Tesi e opinioni sostenute con ambiguità, per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, fatte per il politicume, per accontentare i benpensanti, i teorici della banalità, i conformisti ad oltranza e, nel caso, qualche cariatide ammuffita degli organismi intergovernativi.
L’enciclica, invece, disboscata e ripulita dalle molte ed inutili incrostazioni, afferma che la salvezza dell’uomo e dei popoli viene solo “dall’unità della carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini”.
A questo punto vogliamo affermare in maniera chiara che il diritto al cibo non può essere mediato né da Gesù Cristo né da speculazioni finanziarie né da altre presunte verità. Il diritto al cibo deve essere garantito e basta, lasciando la possibilità a ciascuno di riappropriarsi della propria conoscenza per la produzione delle proprie risorse alimentari. Sembrerebbe che il papa voglia fare concorrenza alla FAO nell’agguantare risorse finanziarie da utilizzare nell’assistenzialismo o per lo sviluppo della Caritas in Veritate, dopo averle opportunamente decurtate a proprio uso e consumo. E’ così da sempre.
Il documento parla di carità, ma non propone, come sempre, nessuna regola su come, cosa e quanto dare, su come scambiare, su come creare benessere, sulla soluzione del problema della povertà e della fame. La carità cristiana, infatti, “supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. La “città dell’uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione.” Si tratta, viceversa, proprio di un problema di giustizia per sanare le ingiustizie sociali, economiche, ambientali e spirituali commesse nel corso dei secoli da parte del cristianesimo - con la scusa della misericordia che supera la giustizia - per appropriarsi arbitrariamente e avidamente di risorse, uomini, anime, conoscenze e spiritualità. La concezione della carità cristiana ha bisogno di uniformità umana indistinta, “universalizzata”, ridotta all’incapacità di provvedere a se stessa, quale terreno fertile per un disegno di evangelizzazione-omologazione che si perpetua da secoli.
La carità cristiana, così definita, non ha alcuna parentela con il concetto ebraico e islamico rispettivamente di Tzedaka e Sadaqah che vuol dire giustizia e si rifà ai concetti giustizia e diritto sociale e di distribuzione dei beni e che tende a considerare la povertà non uno status perenne da utilizzare per attingere proseliti, ma un incidente di percorso a cui porre rimedio in modo equo ed efficace. Secondo Maimonide esistono otto livelli di carità ma la forma più alta è quella di aiutare qualcuno ad aiutare se stesso cioè a provvedere ai mezzi per la sua riabilitazione.
D’altronde il documento incalza quando sostiene che “le povertà spesso sono generate dal rifiuto dell’amore di Dio e che l’umanità intera è alienata quando si affida a progetti solo umani, a ideologie e a utopie false........Tra evangelizzazione e promozione umana - sviluppo, liberazione - ci sono infatti dei legami profondi ”
Cosa significa tutto ciò? L’enciclica lo spiega in modo chiaro e inequivocabile in questo passaggio chiave dove affonda la lama della evangelizzazione:
“Per questo motivo, se è vero, da un lato, che lo sviluppo ha bisogno delle religioni e delle culture dei diversi popoli, resta pure vero, dall’altro, che è necessario un adeguato discernimento. La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali. Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano », porta in se stesso un simile criterio.”
La carità non è, quindi, semplice atto di donazione ma, addirittura, metro di giudizio del cristianesimo, per stabilire quali culture e quali popoli possono essere inclusi nella “comunità universale” e quindi possono mangiare. Una nuova inquisizione, dunque, dal volto inumano, dove la scelta è: fame o conversione. Qual è il metodo migliore per convertire se non mantenere popoli e comunità in uno stato perenne di indigenza?
L’enciclica è, peraltro, in perfetta continuità con la dichiarazione Dominus Jesus dello stesso Ratzinger dove “La missione ad gentes anche nel dialogo interreligioso conserva in pieno, oggi come sempre, la sua validità e necessità ...e che il dialogo interreligioso deve avere essenzialmente lo scopo di convertire”.
L’evangelizzazione ha praticato il razzismo, lo sfruttamento di risorse ed uomini, fino alla schiavitù.
Ecco cosa significava il rifiuto della conversione nel “Requerimemiento”, il documento letto dai cristiani in spagnolo ai popoli dell’America Latina: “...Ma, se voi non vi convertite (al cristianesimo) e con malizia frapponete ritardi, io vi dichiaro che, con l’aiuto di Dio, noi faremo ingresso con la forza nel vostro paese e vi faremo guerra in tutti i modi e maniere che potremo e vi assoggetteremo al giogo e all’obbedienza della Chiesa, e prenderò le vostre persone e figli e i farò schiavi e come tali li venderò....” .
Ed ecco ancora cosa veniva sancito nel breve Dum Diversitas : “Noi concediamo per il presente atto, con la nostra Autorità apostolica, pieno e libero permesso di invadere catturare e sottomettere i saraceni e i pagani e qualunque altro infedele o nemico di Cristo, in qualunque luogo, come anche nei suoi regni ducati, contee e principati e altre proprietà... e di ridurre queste persone a schiavitù perpetua”. Il testo della bolla del papa Nicola V specifica la concessione di ridurre a schiavitù perpetua gli africani e riguarda gli abitanti di tutti i territori a partire da Capo Bojador a Capo Nun e quindi «tutte le coste meridionali fino al limite estremo». Il papa allora poteva condannare interi continenti, come l’Africa, alla cattività perpetua perché esisteva la teologia della schiavitù. Le conseguenze le conosciamo: decine e decine di milioni di morti ammazzati e di schiavi. Ecco da dove viene la povertà e la fame.
La teologia della schiavitù appare come lo sbocco inevitabile dell’evangelizzazione, la quale, definita come il motore di un processo evolutivo dell’umanità verso valori più elevati, per giustificare la propria esistenza, deve necessariamente schematizzare i rapporti fra i popoli (e fra le diverse culture o società), secondo un sistema gerarchico in cui si degradano gli altri per affermare il ruolo guida del cristianesimo. Se l’evangelizzazione è un’operazione di emancipazione, a cui si è sempre associato il significato di civilizzazione, è implicito che deve essere diretta ad emancipare e a civilizzare chi ne ha bisogno, nel caso specifico, gli Ebrei, i Mori, gli Africani e poi gli Indiani, i Roma. Questi non solo erano considerati una merce ma, secondo la teologia della schiavitù, erano destinati ad un’esistenza di subordinazione e assoggettamento ai cristiani, come metodo per evangelizzare il mondo.
Ora c’è da chiedersi che differenza epistemologica c’è tra i documenti di oggi che reiterano il ricatto dell’evangelizzazione come chiave per accedere alla “carità” e le disposizioni di cinque secoli fa che hanno messo interi popoli, allora pienamente in grado di vivere in armonia con l’ambiente, traendone risorse alimentari e il giusto godimento per la vita, sotto il giogo del crocifisso attraverso: separazioni delle famiglie, battesimi forzati, editti da fè, inculturazione, encomiendas, la tratta degli schiavi fino ad oggi con il costoso assistenzialismo perpetuo?
Si resta quindi scioccati nel vedere il massimo esponente della Chiesa Cattolica - campione dell’impoverimento e della distruzione secolare di popoli - dare lezioni alla FAO su come risolvere il problema della povertà che ha contribuito a creare. Si resta anche scioccati nel vedere la FAO senza programmi diventare succube di queste inconsistenti teorie. Nessun “mea culpa”, nessuna volontà di confrontarsi con la propria storia e di riconoscere che il processo di evangelizzazione, del passato e del presente, sia produttore e mantenitore di povertà in quanto distruttore di quella diversità culturale e ambientale data in principio dal Creatore.
Un’operazione di costante revisione e falsificazione storica in contrasto, peraltro, con la Convenzione sulla Diversità Biologica nella quale si prescrive di “rispettare, conservare e mantenere la conoscenza, le innovazioni e le pratiche delle popolazioni indigene e delle comunità locali, comprendendo gli stili di vita tradizionali come rilevanti per la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica”.
Questo principio è in netto contrasto con la concezione dell’enciclica dove, invece, è continua l’ipotesi di un’omogeneizzazione del mondo verso lo status entropico del pensiero unico, del cibo unico, della cultura e religione unica.
E’ assolutamente necessario fermare l’opera degli oltre 300.000 missionari che assediano popoli e nazioni nel nome dell’uniformità e interrompere la loro attività distruttiva di cristianizzazione. E’ necessario anche contenere l’opera delle NGO che si ispirano ai principi dell’evangelizzazione e dell’assistenzialismo cristiano.
Secondo Gherush92 è necessario che vengano riaffermati i seguenti principi, senza il ricatto della conversione:
Il principio della solidarietà - aiutare gli altri ad aiutare se stessi;
Il principio della riparazione - ogni danno ad un popolo provocato da razzismo e/o schiavitù deve essere compensato;
Il principio del negoziato - ogni decisione deve essere presa in accordo con ciascun popolo;
Il principio dell’extraterritorialità - ogni cultura deve avere il diritto di gestire la sua identità come un popolo e una nazione;
Il principio della salvaguardia della diversità culturale.
Svelato l’arcano ci sembra chiaro che l’annunciata visita del papa in Sinagoga sia più dannosa che utile. Chiediamo pertanto che non venga. Ad ogni buon conto non porti con se né la Dominus Jesus né la Caritas in Veritate come dono e, nella denegata ipotesi, tale regalia non sia accettata.
NO ALLA VISITA DEL PAPA IN SINAGOGA
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UN ECOSOC
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Come osi dire "Padre"? Ma CHI è il "Padre" tuo?
Una breve considerazione di Erasmo, ad onorem di tutte le gerarchie (laiche e religiose) del nostro tempo.
di Erasmo da Rotterdam *
Quale preghiera, vorrei sapere, recitano i soldati durante [le] messe? Il Pater noster?
Faccia di bronzo! Osi chiamarlo "padre", tu che vuoi tagliare la gola al tuo fratello?
"Sia santificato il tuo nome". Che cosa c’è che disonori il nome di Dio più che queste vostre risse?
"Venga il tuo Regno". Preghi così tu, che con tanto sangue hai edificato la tua tirannide?
"Sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra". Lui vuole la pace e tu prepari la guerra?
"Dacci il nostro pane quotidiano". Chiedi al Padre comune il pane quotidiano tu, che incendi le messi del fratello e preferisci morire di fame tu stesso, piuttosto che egli se ne giovi? Con che fronte pronunci queste parole:
"E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori", tu, che ti appresti alla strage fraterna?
"E non ci indurre in tentazione". Scongiuri il pericolo della tentazione tu, che con tuo rischio provochi il rischio del tuo fratello?
"Ma liberaci dal male". Chiedi di essere liberato dal male tu, che dal male sei ispirato a ordire il male estremo del tuo fratello? (Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, 1509)
Ne parla il segretario di Stato in un’intervista rilasciata alla vigilia della Perdonanza celestiniana
Il progetto di Chiesa e di società di Benedetto XVI *
Il perdono è la forza della Chiesa per vincere il male ed è il percorso scelto da Benedetto XVI per proporre in termini convincenti alla società contemporanea una rinnovata apertura a Dio. Il cardinale Tarcisio Bertone, in una intervista esclusiva al nostro giornale, prende spunto dalla celebrazione della Perdonanza celestiniana all’Aquila il 28 agosto per ribadire che solo una Chiesa e una società inclusive rispecchiano il progetto per cui sta operando Benedetto XVI. È la prima volta di un segretario di Stato alla storica celebrazione, decisa quale segno di affetto e vicinanza del Papa alle popolazioni abruzzesi colpite dal terremoto. Tanti gli spunti concreti di novità per sacerdoti e laici, che ci saranno nella curia romana e nella pastorale, che il cardinale Bertone offre. La pubblica opinione è chiamata a un alto senso di responsabilità che aiuta, tra l’altro, a superare ogni fraintendimento sul percorso scelto da Papa Benedetto, il pontefice che non brandisce la spada dello scontro e si fa capire dalla gente.
Perché il cardinale segretario di Stato ha deciso quest’anno di partecipare alla celebrazione del Perdono di Celestino V?
Il segretario di Stato è un vescovo e come primo collaboratore del Papa partecipa alla sua missione pastorale per il bene del popolo di Dio. Dopo aver celebrato il rito funebre per le vittime del terremoto, sono stato invitato a presiedere all’inaugurazione dell’Anno celestiniano e della sessantesima Settimana liturgica nazionale che doveva tenersi all’Aquila. Ho accettato volentieri sia per la connessione affettiva e spirituale che ormai mi lega alla terra abruzzese, sia per il tema scelto: il sacramento del perdono, forza che vince il male. Poi, per evidenti motivi, la Settimana liturgica è stata trasferita a Barletta, in Puglia, mentre la festa della Perdonanza non poteva che essere celebrata all’Aquila, sotto il segno della riconciliazione che ricostruisce la comunione con Dio e con i fratelli, e risana le ferite del corpo e dello spirito. La mia partecipazione, inoltre, si pone in continuità con la vicinanza del Papa alle popolazioni abruzzesi colpite dal terremoto. Dopo la sua commovente visita all’Aquila, il Papa ha seguito l’azione della Chiesa, che si è espressa con i generosi contributi di molte diocesi italiane e non italiane, e si mantiene informato sull’azione delle istituzioni civili, sugli aiuti già avviati e anche sulle promesse fatte a livello internazionale, in occasione del g8. Come tutti noi, auspica che nulla possa fare pensare a lentezze o a disimpegno nel ridare alle persone la possibilità di riprendere una normale vita familiare nelle loro case, ricostruite o rese agibili, e nelle loro attività economiche e sociali.
La Perdonanza fu una importante iniziativa di Celestino V per estendere con larghezza le indulgenze spirituali, che in questo modo erano messe a disposizione anche dei cristiani più umili. Qual è l’attenzione ai poveri della Chiesa di Benedetto XVI?
Conosciamo la forza dirompente dell’atto compiuto da Celestino V: il suo dono ha spinto poi il suo immediato successore, Bonifacio viii, a promulgare il Giubileo, con l’indulgenza estesa ormai a tutto il mondo, in un impulso plenario di rinnovamento, di perdono e di condono anche a livello economico e sociale, oltre che spirituale. Si rammentino le iniziative planetarie nate dal Giubileo del 2000. Venendo all’atteggiamento di Benedetto XVI verso i poveri, vorrei sottolineare innanzi tutto la sua particolare attenzione ai piccoli e agli umili. Pur essendo un grande teologo e maestro di dottrina, un intellettuale e uno studioso importante, che si misura con gli uomini e le donne di pensiero del nostro tempo, Papa Ratzinger si fa capire da tutti ed è vicino alla gente, perché nelle sue parole anche la gente semplice percepisce la verità e coglie il senso di una fede e una saggezza umana ricca di paternità. Parafrasando una espressione biblica, potremmo dire, con le parole del salmo 25, che "guida gli umili nella giustizia e ai poveri insegna la via del Signore". Benedetto XVI raggiunge una molteplicità di situazioni di povertà di singoli, di famiglie e di comunità sparse nel mondo, sia direttamente, sia attraverso la Segreteria papale o Segreteria di Stato, sia attraverso gli organismi preposti alla carità, come l’Elemosineria apostolica, il Pontificio Consiglio Cor Unum e altri, e con essi distribuisce non solo le offerte che riceve dai fedeli, dalle diocesi, dalle congregazioni religiose e le associazioni benefiche, ma anche i suoi diritti di autore, frutto del suo personale lavoro. Si può dire che realmente, secondo la definizione di sant’Ignazio di Antiochia, egli "presiede nella carità", guidando con l’esempio quel vasto movimento di carità e di solidarietà planetaria che la Chiesa svolge nelle sue più articolate componenti e ramificazioni capillari. Infine, sulla scia dei suoi predecessori, con un accento peculiare interviene, richiama, risveglia, sollecita l’azione dei Governi e delle organizzazioni internazionali per sanare le disuguaglianze e le discriminazioni più brucianti in tema di sottosviluppo e di povertà. Vorrei ricordare, tra gli innumerevoli testi, appelli e messaggi, il numero 27 della Caritas in veritate dove denuncia l’accentuarsi di una estrema insicurezza di vita e di crisi alimentari provocate sia da cause naturali sia dall’irresponsabilità politica nazionale e internazionale: "È importante evidenziare come la via solidaristica allo sviluppo dei Paesi poveri possa costituire un progetto di soluzione della crisi globale in atto, come uomini politici e responsabili di Istituzioni internazionali hanno negli ultimi tempi intuito".
Lei conosce i consensi che circondano Benedetto XVI ma anche alcune riserve, specialmente sulla fedeltà al concilio Vaticano II e sulla riforma della Chiesa. Le sembrano timori fondati?
Per capire le intenzioni e l’azione di governo di Benedetto XVI occorre rifarsi alla sua storia personale - un’esperienza variegata che gli ha permesso di attraversare la Chiesa conciliare da vero protagonista - e, una volta eletto Papa, al discorso di inaugurazione del pontificato, a quello alla Curia romana del 22 dicembre 2005 e agli atti precisi da lui voluti e firmati (e talora pazientemente spiegati). Le altre elucubrazioni e i sussurri su presunti documenti di retromarcia sono pura invenzione secondo un cliché standardizzato e ostinatamente riproposto. Vorrei solo citare alcune istanze del concilio Vaticano II dal Papa costantemente promosse con intelligenza e profondità di pensiero: il rapporto più comprensivo instaurato con le Chiese ortodosse e orientali, il dialogo con l’ebraismo e quello con l’islam, con una reciproca attrazione, che hanno suscitato risposte e approfondimenti mai prima verificati, purificando la memoria e aprendosi alle ricchezze dell’altro. E inoltre mi fa piacere sottolineare il rapporto diretto e fraterno, oltre che paterno, con tutti i membri del collegio episcopale nelle visite ad limina e nelle altre numerose occasioni di contatto. Si ricordi la prassi da lui avviata dei liberi interventi alle assemblee del Sinodo dei vescovi con puntuali risposte e riflessioni dello stesso Pontefice. Non dimentichiamo poi il contatto diretto instaurato con i superiori dei dicasteri della Curia romana con i quali ha ripristinato i periodici incontri di udienza. Quanto alla riforma della Chiesa - che è soprattutto una questione di interiorità e di santità - Benedetto XVI ci ha richiamati alla fonte della Parola di Dio, alla legge evangelica e al cuore della vita della Chiesa: Gesù il Signore conosciuto, amato, adorato e imitato come "colui nel quale piacque a Dio di far abitare ogni pienezza", secondo l’espressione della lettera ai Colossesi. Con il volume Gesù di Nazaret e con il secondo che sta preparando, il Papa ci fa un grande dono e sigilla la sua precisa volontà di "fare di Cristo il cuore del mondo".
Non dimentichiamo quanto ha scritto nella lettera ai vescovi cattolici dello scorso 10 marzo sulla remissione della scomunica dei vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre: "Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr. Gv 13, 1) - in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più".
Quali sono stati gli interventi qualificanti nella Curia romana di Benedetto XVI e quali bisogna ancora attendersi?
Benedetto XVI è un profondo conoscitore della Curia romana, dove ha ricoperto un ruolo preminente come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, un osservatorio e un dicastero centrale per la connessione delle giunture con tutti gli altri organismi di governo della Chiesa. Così ha potuto conoscere perfettamente persone e dinamismi e seguire il percorso delle nomine avvenute sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, pur nel suo distacco dalle manovre e dal chiacchiericcio che a volte si sviluppa in certi ambienti curiali, purtroppo poco permeati da vero amore alla Chiesa. Dall’inizio del suo pontificato, ancora breve, sono oltre 70 le nomine di superiori dei vari dicasteri, senza contare quelle dei nuovi nunzi apostolici e dei nuovi vescovi in tutto il mondo. I criteri che hanno guidato le scelte di Benedetto XVI sono stati: la competenza, il genuino spirito pastorale, l’internazionalità. Sono alle porte alcune nomine importanti e non mancheranno le sorprese, soprattutto in relazione alla rappresentanza delle nuove Chiese: l’Africa ha già offerto e offrirà eccellenti candidati.
È giusto attribuire alla responsabilità del Pontefice tutto quello che accade nella Chiesa o è utile per una corretta informazione applicare il principio di responsabilità personale?
È invalsa l’abitudine di imputare al Papa - o, come si dice, soprattutto in Italia, al Vaticano - la responsabilità di tutto ciò che accade nella Chiesa o di ciò che viene dichiarato da qualsiasi esponente o membro di Chiese locali, di istituzioni o di gruppi ecclesiali. Ciò non è corretto. Benedetto XVI è un modello di amore a Cristo e alla Chiesa, la impersona come Pastore universale, la guida nella via della verità e della santità, indicando a tutti la misura alta della fedeltà a Cristo e alla legge evangelica. Ed è giusto, per una corretta informazione, attribuire a ciascuno (unicuique suum) la propria responsabilità per fatti e parole, soprattutto quando essi contraddicono patentemente gli insegnamenti e gli esempi del Papa. L’imputabilità è personale, e questo criterio vale per tutti, anche nella Chiesa. Ma purtroppo il modo di riportare e di giudicare dipende dalle buone intenzioni e dall’amore per la verità dei giornalisti e dei media. Ho letto di recente un bell’articolo di Javier Marías, che fa un’amara riflessione: "Ho avuto modo di osservare che una vasta percentuale della popolazione mondiale non si preoccupa più della verità. Temo però di aver peccato di eccessiva cautela, perché ciò che sta accadendo è di gran lunga più funesto: una vasta percentuale della popolazione oggi non è più in grado di distinguere la verità dalla menzogna, oppure, per essere più precisi, la realtà dalla finzione". Rimane perciò ancora più urgente e necessario insegnare la verità, far conoscere e amare la verità, su se stessi, sul mondo, su Dio, convinti, secondo la parola di Gesù, che "la verità vi farà liberi!" (Giovanni, 8, 32).
Può spiegare, magari anche con qualche esempio, come nella Chiesa di Benedetto XVI la libertà di pensiero e di ricerca vada di pari passo con la responsabilità della fede?
In relazione a questo tema - che è assai importante e centrale nella Chiesa, e che tocca altri binomi strettamente connessi, come fede e ragione, fede e cultura, scienza e fede, obbedienza e libertà - occorre riandare all’esempio della vita e dell’esperienza di Joseph Ratzinger, pensatore, teologo e maestro di dottrina riconosciuto, come ho appena detto. Non si può ovviamente scindere la sua prassi e il suo stile di governo dalle convinzioni più profonde che hanno nutrito e segnato il suo comportamento di studioso e di ricercatore. Nel suo lungo percorso di intellettuale, assai attivo sulle cattedre universitarie e sui media, si sono aggiunte successivamente due formidabili responsabilità: dapprima quella di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e poi quella di Pastore supremo della Chiesa cattolica. È evidente che queste due funzioni hanno segnato gli insegnamenti e gli atti del cardinale e del Papa, orientandoli ancor più efficacemente, se così si può dire, a una interazione e a una sinergia fra la libertà fondamentale di pensiero e di ricerca e la responsabilità dell’atto di fede e dell’adesione di fede a Dio che si rivela, che parla e chiama a essere "nuova creatura". Non quindi una contrapposizione o una "secessione", ma una armonia da ricercare, da costruire con intelligenza d’amore. Tale è l’atteggiamento di Joseph Ratzinger quando parla a organismi come la Pontificia Commissione Biblica, la Commissione Teologica Internazionale, la Pontificia Accademia delle Scienze, la Pontificia Accademia per la Vita, e così via, oppure quando dialoga con singoli studiosi e pensatori. Chiede ai teologi di non essere sradicati dalla fede della Chiesa, per essere veri teologi cattolici, e ha elogiato - ad Aosta, lo scorso 25 luglio - "la grande visione che ha avuto Teilhard de Chardin: l’idea paolina che alla fine avremo una vera liturgia cosmica, e il cosmo diventerà ostia vivente". E vorrei ancora citare una bella pagina della Caritas in veritate ove parla "dell’impegno per fare interagire i diversi livelli del sapere umano in vista della promozione di un vero sviluppo dei popoli". Dopo aver spiegato che il sapere non è mai solo opera dell’intelligenza, e che il sapere è sterile senza l’amore, conclude: "Le esigenze dell’amore non contraddicono quelle della ragione. Il sapere umano è insufficiente e le conclusioni delle scienze non potranno indicare da sole la via verso lo sviluppo integrale dell’uomo. C’è sempre bisogno di spingersi più in là: lo richiede la carità nella verità. Andare oltre, però, non significa mai prescindere dalle conclusioni della ragione né contraddire i suoi risultati. Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena di amore" (n. 30).
Trova che sia facile o difficile raccontare l’azione e il pensiero di Benedetto XVI giunto al quinto anno di pontificato?
Sinceramente ritengo che sarebbe molto facile per i giornalisti raccontare l’azione e il pensiero di Benedetto XVI. Scorrendo i volumi dei suoi Insegnamenti o i testi pubblicati su "L’Osservatore Romano" - che sempre ne trasmette fedelmente gli interventi, talora anche spontanei e ricchi di immediatezza e di attualità - non sarebbe difficile ricostruire il suo progetto di Chiesa e di società, coerentemente ispirato al Vangelo e alla più autentica tradizione cristiana. Benedetto XVI ha una visione limpida e vorrebbe spingere i singoli e le comunità a una vita divinamente e umanamente armonica, con la teologia dell’et e la spiritualità del "con", mai del "contro", a meno che non si tratti delle terribili ideologie che hanno portato l’Europa nei baratri del secolo scorso. Basterebbe essere altrettanto limpidi e fedeli, riportando sine glossa, cioè senza l’aggiunta di contorte interpretazioni, le sue genuine parole e i suoi gesti di padre del popolo di Dio.
Un’ultima domanda: come è nata l’idea dell’Anno sacerdotale?
Ricordo che dopo il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio, sul tavolo del Papa vi era una proposta, già precedentemente presentata, per un anno della preghiera, che di per sé era ben collegata con la riflessione sulla Parola di Dio. Tuttavia, la ricorrenza del centocinquantesimo anniversario della morte del curato d’Ars e l’emergenza delle problematiche che hanno investito tanti sacerdoti, hanno mosso Benedetto XVI a promulgare l’Anno sacerdotale, dimostrando così una speciale attenzione ai sacerdoti, alle vocazioni sacerdotali e promuovendo in tutto il popolo di Dio un movimento di crescente affetto e vicinanza ai ministri ordinati. Essi sono senza dubbio la spina dorsale delle Chiese locali e i primi cooperatori del vescovo nella missione dell’annuncio della fede, della santificazione e della guida del popolo di Dio. Il Papa ha sempre dimostrato una grande vicinanza e affabilità verso i sacerdoti, soprattutto nei dialoghi spontanei, ricchi di esperienza e di indicazioni concrete sulla loro vita, e con risposte puntuali alle loro domande. L’Anno sacerdotale sta suscitando un grande entusiasmo in tutte le Chiese locali e un movimento straordinario di preghiera, di fraternità verso e fra i sacerdoti e di promozione della pastorale vocazionale. Si sta inoltre irrobustendo il tessuto del dialogo, talora appannato, tra vescovi e sacerdoti, e sta crescendo una attenzione speciale anche verso i sacerdoti ridotti a una condizione marginale nell’azione pastorale. Si auspica anche che avvenga una ripresa di contatto, di aiuto fraterno e possibilmente di ricongiungimento con i sacerdoti che per vari motivi hanno abbandonato l’esercizio del ministero. Molte iniziative sono indirizzate a rafforzare la coscienza dell’identità e della missione sacerdotale, che è essenzialmente una missione esemplare ed educativa nella Chiesa e nella società. I santi sacerdoti che hanno popolato la storia della Chiesa non mancheranno di proteggere e di sostenere il cammino di rinnovamento proposto da Benedetto XVI.
* ©L’Osservatore Romano - 28 agosto 2009.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RABBINI, CON RATZINGER CANCELLATI 50 ANNI DI DIALOGO
ROMA, 13 GEN - Con Benedetto XVI, la Chiesa sta cancellando i suoi ultimi "cinquanta anni di storia" nel dialogo tra ebraismo e cattolicesimo: a lanciare la critica è il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, che - in un editoriale per il mensile dei gesuiti "Popoli", ha spiegato i motivi che hanno portato il rabbinato italiano a non partecipare alla prossima Giornata sull’ebraismo, indetta per il 17 gennaio dalla Confrenza episcopale italiana.
Il rabbino di Venezia ricorda innanzitutto la decisione di Benedetto XVI di reintrodurre, con il messale pre-conciliare, la preghiera del Venerdì Santo per la conversione degli ebrei. Il rabbinato italiano - riferisce Richetti - ha chiesto spiegazioni ed un ripensamento: con risposte ufficiose, "una risposta della Conferenza episcopale, sia pure sollecitata, è mancata", la Chiesa - afferma l’esponente ebraico - ha fatto presente che "gli ebrei non hanno niente da temere", in quanto "la speranza espressa dalla preghiera ’Pro Judaeis’ è ’puramente escatologica’, è una speranza relativa alla ’fine dei tempi’ e non invita a fare proselitismo attivo". "Queste risposte - osserva tuttavia rav. Richetti - non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano. Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identità. Non si tratta, quindi, di ipersensibilità: si tratta del più banale senso del rispetto dovuto all’altro come creatura di Dio".
"Se a ciò aggiungiamo - aggiunge - le più recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perché in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana, è evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa". "In quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità", ha concluso.
Il Pontefice approva un testo dove Roma viene posta al di sopra
Lo strale più forte contro i protestanti, "carenze" per gli ortodossi
Documento voluto da papa Ratzinger
"L’unica chiesa di Cristo è quella cattolica" *
CITTA’ DEL VATICANO - Roma contro Lutero e la Riforma per affermare il primato del Papa e della chiesa cattolica sulle altre. Perché Cristo ha costituito "sulla terra un’unica Chiesa", che si identifica "pienamente" solo nella Chiesa cattolica e non nelle altre comunità cristiane. E’ quanto afferma il documento "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa" redatto dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, diffuso oggi dalla Santa Sede e approvato dal Papa che ne ha ordinato la pubblicazione.
Il testo è firmato dal Prefetto della Congregazione, il cardinale William Levada, e dal segretario, monsignor Angelo Amato e porta la data del 29 giugno, solennità dei santi Pietro e Paolo, scelta, evidentemente, non a caso. Come non a caso arriva una precisazione sul Concilio Vaticano II: "Nel periodo postconciliare - dice l’articolo - la dottrina del Vaticano II è stata oggetto, e continua ad esserlo, di interpretazioni fuorvianti e in discontinuità con la dottrina cattolica tradizionale sulla natura della Chiesa: se, da una parte, si vedeva in essa una ’svolta copernicana’, dall’altra, ci si è concentrati su taluni aspetti considerati quasi in contrapposizione con altri. In realtà - spiega la congregazione - l’intenzione profonda del Concilio Vaticano II era chiaramente di inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio".
Nel testo si legge anche che il Vaticano riconosce nelle altre comunità cristiane non cattoliche, in particolare nella Chiesa ortodossa, l’esistenza "numerosi elementi di santificazione e di verità". Ma vi sono anche - indica il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicato oggi - "carenze", in quanto tali confessioni non riconoscono "il primato di Pietro", ovvero del Papa di Roma. Tale primato - avverte tuttavia la nota - "non deve essere inteso in modo estraneo o concorrente nei confronti dei vescovi delle Chiese particolari".
Sì al dialogo anche con le chiese "particolari" ma, afferma l’ex Sant’Uffizio, "perché il dialogo possa veramente essere costruttivo, oltre all’apertura agli interlocutori, è necessaria la fedeltà alla identità della fede cattolica". Le comunità protestanti, nate dalla riforma luterana del XVI secolo, non possono essere considerate, dalla dottrina cattolica, "chiese in senso proprio", in quanto non contemplano il sacerdozio e non conservano più in modo sostanziale il sacramento dell’Eucarestia.
"L’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica - è quanto afferma in un’intervista monsignor Angelo Amato - non è da intendersi come se al di fuori della chiesa cattolica ci fosse un ’vuoto ecclesiale’, dal momento che nelle chiese e comunità ecclesiali separate si danno importanti ’elementa ecclesiae’". "Il volto nuovo della Chiesa - aggiunge - non implica rottura ma armonia in una comprensione sempre più adeguata della sua unità e della sua unicità".
Il segretario della Congregazione spiega anche perché sia stato scelto, nel documento, lo stile delle domande con risposte. "E’ un genere - osserva - che non implica argomentazioni diffuse e molto articolate, proprie ad esempio delle Istruzioni o delle Note dottrinali. Nel nostro caso invece si tratta di alcune brevi risposte a dubbi relativi alla corretta interpretazione del Concilio".
* la Repubblica, 10 luglio 2007
Nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede
Ribadita la Dominus Iesus
Nuovi ostacoli sulla via dell’ecumenismo
Riportiamo di seguito le notizie dell’agenzia SIR del 10-7-2007 sul nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede dal titolo : "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa" che affronta questioni legate all’ecumenismo. L’attuale documento si muove nel solco della Dominus Iesus che tanta polemica suscitò nel 2000 all’atto della sua promulgazione e che di fatto può considerarsi come il primo atto di Papa Ratzinger quando era ancora Cardinale. Nulla di nuovo dunque, se non la constatazione che il cammino ecumenico si fa sempre più difficile ed impervio. Il nuovo documento può essere letto al seguente link:
10/07/2007 12:00
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “FUGARE VISIONI INACCETTABILI” PER “PROSEGUIRE IL DIALOGO ECUMENICO”
“Un chiaro richiamo alla dottrina cattolica sulla Chiesa”, che “oltre a fugare visioni inaccettabili, tuttora diffuse nello stesso ambito cattolico, offre preziosi indicazioni anche per il proseguimento del dialogo ecumenico, che resta sempre una delle priorità della Chiesa cattolica”. E’ il nuovo documento della Congregazione della dottrina della fede, “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Il testo - 16 pagine, articolate in cinque quesiti a domanda e risposta - intende “richiamare il significato autentico di alcuni interventi dl Magistero in materia di ecclesiologia perché la sana ricerca teologia non venga intaccata da errori e da ambiguità”, in modo da rispondere ad “interpretazioni errate”, “deviazioni e inesattezze”. Punto di partenza, la costituzione dogmatica Lumen Gentium ed i decreti conciliari sull’ecumenismo (Unitatis Redintegratio) e sulle Chiese orientali (Orientalium Ecclesiarum), e gli “approfondimenti e orientamenti per la prassi” offerti da Paolo VI nell’Ecclesiam Suam e da Giovanni Paolo II nell’Ut Unum Sint. Non mancano “puntualizzazioni e richiami” più recenti della stessa Congregazione per la Dottrina della Fede, come quelli contenuti nella Dominus Iesus.
10/07/2007 12:00
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “IL CONCILIO NON HA CAMBIATO LA PRECEDENTE DOTTRINA DELLA CHIESA”
“Il Concilio ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato” la precedente dottrina sulla Chiesa, “ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente”. A ribadirlo è il nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede, “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Nel primo quesito, citando le parole di Paolo VI nel suo discorso di promulgazione della Lumen gentium, la Congregazione pontificia fa notare che “c’è continuità tra la dottrina esposta dal Concilio e quella richiamata nei successivi interventi magisteriali”: anche la Dominus Iesus “ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla”. Nonostante ciò, la dottrina del Concilio, denuncia il dicastero vaticano, “è stata oggetto, e continua ad esserlo, di interpretazioni fuorvianti e in discontinuità con la dottrina cattolica tradizionale sulla natura della Chiesa”, concentrandosi “su singole parole di facile richiamo” e “favorendo letture unilaterali e parziali della stesa dottrina conciliare”. “L’idea di popolo di Dio, la collegialità dei vescovi come rivalutazione del ministero dei vescovi insieme con il primato del Papa, la rivalutazione delle Chiese particolari all’interno della Chiesa universale, l’apertura ecumenica del concetto di Chiesa e l’apertura alle altre religioni”: queste le acquisizioni centrali dell’ecclesiologia conciliare, così come viene delineata nella Lumen gentium. Su tutto, puntualizza la Congregazione per la dottrina della fede, si staglia però “la questione dello statuto specifico della Chiesa cattolica, che si esprime nella formula secondo cui la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, di cui parla il Credo, ‘subsistit in Ecclesia catholica’ (sussiste nella Chiesa cattolica, ndr.).
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10/07/2007 12:01
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “DIVISIONE TRA I CRISTIANI OSTACOLO ALLA PIENA REALIZZAZIONE DELLA CHIESA”
“L’universalità propria della Chiesa, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, a causa della divisione dei cristiani, trova un ostacolo per la sua piena realizzazione nella storia”. E’ una delle affermazioni centrali del nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Il secondo e il terzo quesito, in particolare, si soffermano sull’”unica Chiesa di Cristo, una santa, cattolica e apostolica”, come recita la Lumen gentium. “Secondo la dottrina cattolica - spiega il testo - mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica grazie agli elementi di santificazione e di verità che sono presenti in esse, la parola ‘sussiste’, invece, può essere attribuita esclusivamente alla sola Chiesa cattolica, poiché si riferisce appunto alla nota dell’unità professata nei simboli della fede”. La “preoccupazione” di fondo del documento, dunque, è “salvaguardare l’unità e l’unicità della Chiesa, che verrebbe meno se si ammettesse che vi possano essere più sussistenze della Chiesa fondata da Cristo”. Per i padri conciliari, precisa la Congregazione per la dottrina della fede, “l’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica non è da intendersi come se al di fuori della Chiesa cattolica ci fosse un ‘vuoto ecclesiale’”: al contrario, con l’espressione “subsistit in”, il Concilio ha voluto affermare “da un lato, che la Chiesa di Cristo, malgrado le divisioni dei Cristiani, continua ad esistere pienamente soltanto nella Chiesa cattolica, e, dall’altro, l’esistenza di numerosi elementi di santificazione e di verità al di fuori della sua compagine, ovvero nelle Chiese e comunità ecclesiali che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica”: di qui il carattere “a prima vista paradossale” dell’ecumenismo cattolico, in camino verso “l’unità con tutti i cristiani”. “Il Concilio ha voluto insegnare che la Chiesa di Gesù Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica”, si legge ancora nel testo, in cui il quarto e quinto quesito sono dedicati al rapporto con le Chiese orientali separate, chiamate “Chiese sorelle delle Chiese particolari cattoliche” perché “restano unite alla Chiesa cattolica per mezzo della successione apostolica e della valida eucaristia”, e con le comunità ecclesiale nate dalla Riforma, con le quali “la ferita è molto più profonda”.
VATICANO: CHIESA CATTOLICA UNICA VOLUTA DA CRISTO
(di Elisa Pinna) *
Cristo ha "costituito sulla terra un’unica Chiesa", che si identifica"pienamente" solo nella Chiesa cattolica: è quanto ribadisce un documento pubblicato oggi dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, che però riconosce alle altre confessioni cristiane, e in particolare agli ortodossi,"numerosi elementi di santificazione e verità".
La nuova nota dottrinale, firmata dal Prefetto del Dicastero vaticano per la fede, lo statunitense William Levada, ed approvata da Benedetto XVI lo scorso 29 giugno, è un testo agile, con stile didascalico, di una quindicina di pagine, diviso in tre parti: una prefazione, una sezione dialogica con cinque risposte ad altrettanti quesiti, e un articolo di commento. Il titolo è "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa". Scopo dichiarato del libriccino è quello di sgombrare l’orizzonte teologico dalle tante confusioni e interpretazioni "infondate" che si sono accumulate negli anni attorno al documento conciliare ’Lumen Gentium’ (1963) e in particolare su un passaggio in cui i padri conciliari affermano che ’la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica’. In tale pronunciamento, alcuni studiosi cattolici - tra cui é citato esplicitamente il brasiliano Leonardo Boff - hanno visto la possibilità che la Chiesa di Cristo "sussista", con pari pienezza, anche in altre chiese cristiane, oltre che in quella romana. Si tratta - puntualizza il documento della Congregazione per la Fede - di "interpretazioni infondate", "inaccetttabili", che hanno "frainteso" l’insegnamento dottrinale del Concilio Vaticano II. La parole ’sussiste’ - afferma il testo - "può essere attribuita alla sola Chiesa cattolica", che presenta "perenne continuità storica" e "la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo". Nonostante questo dato di principio, il documento apre la porta dell’ecumenismo: benché le altre chiese cristiane abbiano alcune "carenze" (in particolare il fatto di non riconoscere il primato del Papa su tutti gli altri vescovi), esse "non sono affatto spoglie di significato e di peso" nel "mistero della salvezza". "Infatti - si afferma in uno dei passaggi chiave - lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come strumento di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica". Inoltre - puntualizza la nota in un’altra frase di rilievo ecumenico - "sarà sempre necessario sottolineare che il Primato del successore di Pietro, Vescovo di Roma, non deve essere inteso in modo estraneo o concorrente nei confronti dei vescovi delle chiese particolari".
La nota del Vaticano ribadisce, sulla scia dello spirito conciliare, che il titolo di "Chiese particolari" spetta alle diverse comunità nazionali ortodosse, accomunate alla Chiesa cattolica dal riconoscimento del sacerdozio e dell’eucarestia. Viceversa le comunità protestanti, nate dalla riforma luterana del sedicesimo secolo, non possono essere considerate, dalla dottrina cattolica, "chiese in senso proprio", in quanto non contemplano il sacerdozio e non conservano più in modo sostanziale il sacramento dell’Eucarestia. Nessun accenno, nel documento, all’ebraismo e all’Islam. Del resto sarebbe stato fuori luogo perché si tratta di un testo tutto interno alla dottrina cristiana e alla riflessione teologica innescata dal Concilio vaticano II.
* ANSA» 2007-07-10 16:28
Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione
di ADISTA *
Importante iniziativa di Adista che ha tradotto e messo a disposizione gratuitamente il libro "Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione" edito dalla Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo, in risposta alla notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino.
Care lettrici, cari lettori,
segnaliamo un’importante novità sul nostro sito. Si può leggere finalmente anche in italiano, scaricandolo gratuitamente dalla home page di www.adista.it, il libro digitale "Bajar de la cruz a los pobres: cristología de la liberación" ("Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione") della Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo.
La traduzione italiana, curata da Adista, dell’originale spagnolo (che, insieme alla traduzione in inglese, è disponibile agli indirizzi www.eatwot.org/TheologicalCommission e http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales) è presentata dal teologo Carlo Molari e presenta due contributi in più: di Aloysius Pieris e dello stesso Molari (è possibile leggere l’originale )
Il libro della Asett è la risposta di circa 40 teologi della liberazione alla Notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino (autore dell’epilogo del libro), ma non solo: è una difesa, appassionata e potente, della cristologia della liberazione, quella che Leonardo Boff, nel prologo, definisce "una teologia militante che lotta per ’far scendere dalla croce i poveri’".
È questa voce potente quella che è oggi offerta anche al pubblico italiano, attraverso un nuovo metodo che l’Asett ha voluto sperimentare: quello di un libro digitale, libero e gratuito, che, scrive José María Vigil, coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della Asett/Eatwot, "può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento della "stampa digitale", un metodo che permette di stampare su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20...), a un prezzo praticamente uguale a quello di un libro normale".
Per scaricare il libro, clicca qui
* IL DIALOGO, Mercoledì, 06 giugno 2007
Sulla condanna del padre gesuita Jon Sobrino
Ombre dell’inquisizione
di Frei Betto *
Oggi è un giorno triste per me. Mi duole nel profondo del cuore, nel midollo della mia fede cristiana. Il Papa Benedetto XVI , alla vigilia del suo primo viaggio in America Latina, ha fatto un gesto che dà un gusto amaro ai saluti di benvenuto: ha condannato il teologo gesuita Jon Sobrino, di El Salvador.
Conosco Sobrino da molto tempo. Insieme siamo stati consulenti dei vescovi latinoamericani a Puebla, nel 1979, in occasione della prima visita di Papa Giovanni Paolo II nel nostro continente. Abbiamo partecipato insieme a molti incontri, preoccupati di alimentare la fede delle comunità ecclesiali di base che, oggi, fanno dell’America Latina la regione con un maggior numero di cattolici del mondo.
Sobrino è accusato del fatto che nelle sue opere teologiche non dà un’enfasi sufficiente alla coscienza divina del Gesù storico. Per questo gli è stato proibito di far lezione di teologia e tutti i suoi scritti futuri dovranno essere sottoposti ad una previa censura vaticana. Il parere di condanna della commissione della Congregazione per la Dottrina della Fede (ex Santo Uffizio) parte, evidentemente , da pregiudizi. La lettura attenta delle opere di Sobrino rivela che egli non nega mai la divinità di Gesù. La nega il docetismo, un’eresia già condannata dalla chiesa nei primi secoli dell’era cristiana, basata sull’idea che Gesù di umano avesse solo l’apparenza, infatti in tutto il resto era divino. La qual cosa farebbe dell’incarnazione un inganno e darebbe ali alla fantasia per cui nella Palestina del I secolo l’uomo Gesù, dotato di onniscienza , potrebbe avere facilmente previsto l’attuale conflitto fra palestinesi ed ebrei.
I vangeli mostrano chiaramente che Gesù aveva coscienza della sua natura divina. Al contrario del suoi contemporanei, trattava Javè in maniera molto intima, affettuosa: Abba, “mio caro papà”, una rara espressione aramea - la lingua parlata da Gesù - , secondo quello che consta nel testo biblico. Tuttavia, quegli stessi vangeli dimostrano che Gesù, come tutti noi, ha sofferto di tentazioni ha avuto paura della morte, ha pianto, ha sentito la solitudine, ha chiesto al padre se fosse possibile allontanare da lui il calice di sangue, è stato uguale a noi in tutto, come afferma Paolo nella lettera ai Filippesi, tranne che nel peccato, infatti amava come solo Dio ama.
Invece, Roma soffre ancora di un platonismo impregnato di teologia liberale a partire da Sant’Agostino. Parla della divinità come se essa fosse contraria all’umanità. Ma la Creazione divina è indicibile. Come dice Paolo: “in lui (Dio) viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti degli apostoli 17,28).
Dice bene Leonardo Boff riferendosi a Gesù: “Per quanto egli era umano, poteva solamente essere anche Dio”. La nostra umanità non è la negazione della divinità, così come non lo era quella di Gesù. La divinità è la pienezza dell’umanità e questa è l’annuncio di quella. “Siamo della razza divina”, afferma Paolo agli ateniesi (Atti 17,28).
Roma, che gioca tanto con i simboli, sembra disprezzare l’America Latina ignorando che Jon Sobrino vive in Salvador, il cui arcivescovo, Oscar A. Romero, è stato assassinato dalle forze della destra mentre diceva messa nella cappella di un ospedale nel 1980. Il prossimo 24 marzo si commemorano i 27 anni del suo martirio. Sobrino vive a San Salvador, nella stessa casa in cui, nel 1989, quattro sacerdoti gesuiti, oltre alla cuoca e a sua figlia di 15 anni, sono stati assassinati da uno squadrone della morte. Come si può rinnovare la Chiesa se le sue teste migliori stanno sotto la ghigliottina di chi vede eresia dove c’è fedeltà allo Spirito Santo?
Quel che c’è dietro la censura a Jon Sobrino è la visione latinoamericana di un Gesù che non è bianco e non ha gli occhi azzurri. Un Gesù indigeno, negro, scuro, emigrante; Gesù donna, emarginato, escluso. Il Gesù descritto nel capitolo XXV di Matteo: affamato, assetato, stracciato, malato, pellegrino. Gesù che si identifica con i dannati della terra e che dirà a tutti che di fronte a tanta miseria devono comportarsi come il buon samaritano : “ciò che farete a uno dei miei piccoli fratelli, lo farete a me” (Matteo 25,40)
Frei Betto
Articolo tratto da:
FORUM (48) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
* IL DIALOGO, Sabato, 17 marzo 2007
«Wojtyla, l’inverno della Chiesa»
intervista di Maurizio Chierici (L’Unità, 04.04.2005)
Da lontano Leonardo Boff vive il dolore di Roma. Comincio il colloquio col teologo francescano disarmato dagli inquisitori vaticani - ultimo censore il cardinale Ratzinger- partendo dal suo libro appena uscito in Brasile. Verrà pubblicato in Italia dalla Cittadella di Assisi: «San Giuseppe e la personificazione del padre». Per vent’anni Boff ha studiato la figura di San Giuseppe affascinato dal suo silenzio e dalle poche righe che le scritture gli hanno dedicato. Solo nel 1960 Giovanni XXIII ne ha inserito il nome nei canoni della messa. Per secoli la sua spiritualità è stata resa invisibile da papi, vescovi e da quei sacerdoti che dominano la scena. Perché Giuseppe non era nessuno. Ha vissuto nell’ombra come vive la maggioranza dei cristiani che oggi prendono sul serio il vangelo. Più che patrono della chiesa universale, è il patrono della chiesa domestica, della gente umile, della gente buona e senza nome sepolta nei giorni grigi di chi si guadagna la vita faticando per onorare la famiglia nel segno dell’onestà. Giuseppe è il loro esempio naturale, loro guida spirituale. Non ha lasciato in eredità una sola parola, non si sa quando è nato e quando è morto, eppure ha indicato la regola fondamentale raccolta da milioni di fedeli dimenticati. Non discutono dio ma si affidano alla sua luce. Sempre in silenzio.
Si ha l’impressione di una sottolineatura della diversità dal Papa che si sta piangendo a Roma. Nella sua speranza il nuovo pontefice quale novità dovrebbe interpretare?
«Spero che il nuovo Papa decentralizzi la chiesa. Giovanni Paolo II aveva raccolto attorno alla sua figura ogni attenzione. Tutto convergeva a Roma o a Cracovia anche se il mondo é più complesso. La folla dei cattolici e dei cristiani contempla enormi diversità. E questo modello non è ormai in grado di interpretarle con l’urgenza necessaria. Perché le realtà non si somigliano, dall’Africa all’America Latina, e per dare un volto umano alla globalizzazione concepita come concorrenza e non cooperazione, la chiesa dovrebbe trasformarsi in una rete di comunità.Il centro non riesce ad interpretare problemi e drammi che si sviluppano lontani dai rituali dalle cattedre che sappiamo».
Leonardo Boff ha 58 anni. Abita poco lontano da Petropolis, specie di Versailles che l’ultimo imperatore Pedro II aveva costruito nelle montagne alle spalle di Rio. Professore di teologia, filosofia ed ecologia ha lavorato più di vent’anni tra il mondo accademico e il mondo dei poveri anche dopo l’abbandono del saio. Assieme a Frei Betto è stata la voce importante della teologia della liberazione, rimproverata come eretismo protestante. L’inquisitore lo accusava di dar retta alla costruzione creata dai sociologi e ideologi delle cellule marxiste, preoccupandosi di una fame e povertà che in Brasile non esistono.
La visione di questa rete quale nuovo Papa può affascinare? «Bisogna utilizzare una certa furbizia politica. Le candidature che escono dalle capitali dell’impero, Nord America ed Europa, dove prevalgono le egemonie mondiali, rischiano di provocare diffidenze diverse: chi vive a Parigi o Berlino è influenzato dalla cultura nella quale è immerso assieme ai propri i fedeli. E i popoli dei continenti infelici potrebbero ascoltarne gli insegnamenti, diffidando. Non deve essere un vescovo di curia: troppo burocratico. La curia ha perseguitato 140 teologi i cui suggerimenti nascevano dalla condivisione dei problemi della gente. Spero che la scelta cada su cardinali pastori, e non dottori. Vivono fra i fedeli, ne conoscono speranza e sofferenza».
Sembra un suggerimento per piegare la scelta tra candidati africani e latini d’America...
«È un desiderio. L’America Latina ha due cardinali che rispondono a questo desiderio. Claudio Hummes, di San Paolo. Il suo profilo ecclesiale ricorda Giovanni Paolo II nella sicurezza della dottrina. Ma l’apertura è diversa. È disposto a confrontarsi su tutto, morale e manipolazione genetica comprese. È stato il vescovo del Lula sindacalista a San Bernardo do Campo, città operaia attorno a San Paolo. Si conoscono, si frequentano da sempre. Ha studiato a Lovanio e la sua freddezza ne offusca il carisma anche se l’esperienza pastorale lo ha mescolato e continua a legarlo alla realtà della gente qualsiasi. Più sciolto e con la stessa abitudine ad ascoltare i fedeli nei quali ama immergersi, l’altro cardinale, Oscar André Rodriguez Madriaga, ha difeso la teologia della liberazione con cautela pur ribadendo senza esitazioni che l’assenza della giustizia sociale è all’origine di inquietudini da non condannare a scatola chiusa. Quando era presidente della Conferenza Episcopale Latino America è riuscito a rimarginare le divisioni che avvelenavano i cattolici di latitudini diverse. Un diplomatico convincente. Parla cinque lingue. Suona, canta, guida l’aereo ed ha una conoscenza non banale dell’economia mondiale. La interpreta come un pastore dei poveri deve interpretare.
Le comunità di base non hanno avuto vita facile nel pontificato appena concluso: come lo spiega?
«È incomprensibile. In America Latina e in Brasile mancano i sacerdoti. Dovrebbero essere 120 mila. Ne abbiamo 17 mila. Ogni parroco copre cinque o sei parrocchie lontane. Un vuoto nelle istituzioni. Le comunità servivano a colmare questo deficit. Roma non le amava. Sono laici e corrono troppo avanti, è il timore della chiesa centralizzata
Un vuoto o occupato dalle sette pentecostali...
Non è una tragedia. Contribuiscono a tener vivo lo spiritualismo della gente. Ormai bisogna dialogare con tutte le chiese. I problemi sono drammatici: un Brasile con 40 milioni di poveri deve riunire ogni forza morale alla ricerca della giustizia possibile. Le chiese possono affrontare assieme la sfida. Proprio in questi giorni, cattolici, protestanti, sincretici stanno discutendo assieme alle sette quale strategia comune adottare per risolvere i problemi dell’acqua e della fame».
Di quale Papa ha nostalgia?
«Di Papa Giovanni, come tutti. Ma è Paolo VI che affascinava. Un intellettuale sottile. Lasciava ai teologi la libertà di cercare e sperimentare. Ma è venuto l’inverno di Giovanni Paolo II: ha normalizzato la teologia ed imposto il pensiero unico alzando un bastione per difendere la chiesa ormai trasformata in una realtà occidentale. Solo occidentale mentre il cristianesimo è generoso e si apre ad ogni dialogo».
Eppure è stato un Papa di incredibile successo...
«Perché l’umanità è orfana di leader. Bush arrogante e violento. Europei tecnocratici senza fascino. Nel panorama grigio, Giovanni Paolo II ha offerto ai giovani il suo carisma dilatato nei media per riscattare la religione con una comunicazione che diventa valore. Il valore che ha contribuito a distruggere il comunismo. Solo il comunismo, perché è difficile intaccare il liberismo costruito su basi economiche e militari».
Giovanni Paolo e Benedetto. Con stili diversi, sulla stessa strada
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 03.04.2007)*
«Santo subito!» gridava la gente due anni fa, di fronte alla salma di Giovanni Paolo II, in piazza San Pietro. Oggi è logico chiederci se si leverebbe lo stesso grido o se, invece, il biennio trascorso ha fatto diminuire quell’entusiasmo. E anche - seconda parte dell’interrogativo - ci chiediamo se il nuovo papa ha suscitato - meritato - lo stesso entusiasmo . Il confronto, d’altronde, è inevitabile.
E’ anche facile , almeno a livello superficiale. Vengono subito in mente alcuni aggettivi: significativi ma insufficienti. Più popolare papa Wojtyla, più aristocratico papa Ratzinger. Anche se non si può non osservare che Benedetto XVI, inevitabilmente, ha cercato di seguire la traccia lasciatagli dal predecessore e da quello strepitoso successo. Ha cercato anche lui di stringere le mani e di dare baci ai bambini. Meno viaggi, almeno per ora, ma non meno significativi, come si è visto in Turchia.
L’impressione più diffusa parla di un Benedetto non soltanto più «aristocratico» ma anche più rigido dal punto di vista dottrinale, meno ecumenico. E, ovviamente, si cita la polemica sui «Dico», evidentemente non soltanto italiana. E si pensa che dietro alle recenti polemiche non soltanto italiane ci sia oltre ai cardinali Ruini e Bagnasco anche lo stesso pontefice. Del quale si cita anche qualche frase che ha irritato il mondo islamico.
Tutto vero, ma non vorrei che queste critiche facessero dimenticare gli aspetti discutibili se non proprio negativi del pontificato precedente. Nonostante il «Santo subito!» non si può non pensare, ad esempio, alla stroncatura della teologia della liberazione e quindi ad un certo accantonamento delle novità rappresentate dal Concilio Vaticano II. Citato spesso, ma sostanzialmente dimenticato.
A questo punto si incontrano i percorsi dei due pontefici. Un incontro sulla stessa strada, quella che esalta proprio la figura del pontefice romano. Una esaltazione che , da una parte, rischia di mettere in secondo piano tutte le altre voci nel mondo cattolico, soprattutto quelle più libere (vescovi, preti, ecc.) e, dall’altra, di ostacolare tutti i tentativi di dialogo ecumenico con gli altri cristiani (soprattutto con i protestanti).
Queste tendenze centralizzatrici le abbiamo riscontrate in Giovanni Paolo II e anche nel primo biennio di Benedetto XVI. In questo senso tutti e due i papi «moderni» esaltano il loro pontificato e lo appoggiano sulla potenza della voce dei mass media, anche se si tratta di una voce ambigua, legata come è al grande capitale. In questo senso fra l’uno e l’altro piena continuità e nessuna rottura. Li unisce la pretesa che piazza San Pietro sia il centro del mondo.
Giovanni Paolo e Benedetto. Con stili diversi, sulla stessa strada
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 03.04.2007)*
«Santo subito!» gridava la gente due anni fa, di fronte alla salma di Giovanni Paolo II, in piazza San Pietro. Oggi è logico chiederci se si leverebbe lo stesso grido o se, invece, il biennio trascorso ha fatto diminuire quell’entusiasmo. E anche - seconda parte dell’interrogativo - ci chiediamo se il nuovo papa ha suscitato - meritato - lo stesso entusiasmo . Il confronto, d’altronde, è inevitabile.
E’ anche facile , almeno a livello superficiale. Vengono subito in mente alcuni aggettivi: significativi ma insufficienti. Più popolare papa Wojtyla, più aristocratico papa Ratzinger. Anche se non si può non osservare che Benedetto XVI, inevitabilmente, ha cercato di seguire la traccia lasciatagli dal predecessore e da quello strepitoso successo. Ha cercato anche lui di stringere le mani e di dare baci ai bambini. Meno viaggi, almeno per ora, ma non meno significativi, come si è visto in Turchia.
L’impressione più diffusa parla di un Benedetto non soltanto più «aristocratico» ma anche più rigido dal punto di vista dottrinale, meno ecumenico. E, ovviamente, si cita la polemica sui «Dico», evidentemente non soltanto italiana. E si pensa che dietro alle recenti polemiche non soltanto italiane ci sia oltre ai cardinali Ruini e Bagnasco anche lo stesso pontefice. Del quale si cita anche qualche frase che ha irritato il mondo islamico.
Tutto vero, ma non vorrei che queste critiche facessero dimenticare gli aspetti discutibili se non proprio negativi del pontificato precedente. Nonostante il «Santo subito!» non si può non pensare, ad esempio, alla stroncatura della teologia della liberazione e quindi ad un certo accantonamento delle novità rappresentate dal Concilio Vaticano II. Citato spesso, ma sostanzialmente dimenticato.
A questo punto si incontrano i percorsi dei due pontefici. Un incontro sulla stessa strada, quella che esalta proprio la figura del pontefice romano. Una esaltazione che , da una parte, rischia di mettere in secondo piano tutte le altre voci nel mondo cattolico, soprattutto quelle più libere (vescovi, preti, ecc.) e, dall’altra, di ostacolare tutti i tentativi di dialogo ecumenico con gli altri cristiani (soprattutto con i protestanti).
Queste tendenze centralizzatrici le abbiamo riscontrate in Giovanni Paolo II e anche nel primo biennio di Benedetto XVI. In questo senso tutti e due i papi «moderni» esaltano il loro pontificato e lo appoggiano sulla potenza della voce dei mass media, anche se si tratta di una voce ambigua, legata come è al grande capitale. In questo senso fra l’uno e l’altro piena continuità e nessuna rottura. Li unisce la pretesa che piazza San Pietro sia il centro del mondo.