Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione
di ADISTA *
Importante iniziativa di Adista che ha tradotto e messo a disposizione gratuitamente il libro "Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione" edito dalla Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo, in risposta alla notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino.
Care lettrici, cari lettori,
segnaliamo un’importante novità sul nostro sito. Si può leggere finalmente anche in italiano, scaricandolo gratuitamente dalla home page di www.adista.it, il libro digitale "Bajar de la cruz a los pobres: cristología de la liberación" ("Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione") della Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo.
La traduzione italiana, curata da Adista, dell’originale spagnolo (che, insieme alla traduzione in inglese, è disponibile agli indirizzi
www.eatwot.org/TheologicalCommission
e
http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales) è presentata dal teologo Carlo Molari e presenta due contributi in più: di Aloysius Pieris e dello stesso Molari (è possibile leggere l’originale )
Il libro della Asett è la risposta di circa 40 teologi della liberazione alla Notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino (autore dell’epilogo del libro), ma non solo: è una difesa, appassionata e potente, della cristologia della liberazione, quella che Leonardo Boff, nel prologo, definisce "una teologia militante che lotta per ’far scendere dalla croce i poveri’".
È questa voce potente quella che è oggi offerta anche al pubblico italiano, attraverso un nuovo metodo che l’Asett ha voluto sperimentare: quello di un libro digitale, libero e gratuito, che, scrive José María Vigil, coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della Asett/Eatwot, "può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento della "stampa digitale", un metodo che permette di stampare su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20...), a un prezzo praticamente uguale a quello di un libro normale".
* IL DIALOGO, Mercoledì, 06 giugno 2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Anniversario.
Cosa ci insegna oggi la Teologia della liberazione?
A cinquant’anni esatti dall’uscita del libro di Gustavo Gutiérrez che lanciò la corrente teologica latino-americana, gli esperti discutono sul suo significato storico e sulla sua eredità
di Roberto Beretta (Avvenire, mercoledì 15 dicembre 2021)
«Credo che la Chiesa stia pagando lo scotto di essersi liberata troppo facilmente della Teologia della liberazione». Lapidario l’intellettuale uruguayano Alberto Methol Ferré, amico e maestro del cardinal Bergoglio, quando anni fa scolpì il giudizio sulla Tdl in un bisticcio di parole. In effetti oggi, a cinquant’anni esatti dall’uscita del libro di Gustavo Gutiérrez che lanciò l’omonima corrente teologica latino-americana, calmate sia le vampate rivoluzionarie dei preti-guerriglieri sia (grazie soprattutto a papa Francesco) le acque dei pregiudiziali sospetti che impedivano un esame più obiettivo delle idee del pensatore peruviano, l’anniversario impone di soppesare un bilancio che non può essere manicheo. Che cosa ci ha lasciato la Teologia della liberazione? È stata un pericolo di marxismo scampato oppure un’occasione perduta per la Chiesa? Anzi, ancor prima: è viva, ha tuttora qualcosa da dire?
Massimo Borghesi, professore di Filosofia morale a Perugia, è uno degli esperti italiani in materia: «Sì, tracciare un bilancio in chiaroscuro è opportuno. Lo ha fatto d’altronde il fondatore stesso della Tdl, che nella seconda edizione della sua opera (1988) ha tracciato un’autocritica molto profonda sulla subordinazione alla metodologia marxista di cui la Teologia della liberazione ha subìto il fascino. Il grande equivoco che ha trascinato migliaia di giovani lontani dalla fede fu l’interpretazione dicotomica della realtà, per esaltare la controviolenza dei poveri e identificare costruzione del socialismo e regno di Dio. L’elemento religioso serviva solo da carburante, ma poi metodo e azione si svolgevano secondo un’idea classista, rifiutando ogni riformismo “borghese”. L’effetto pratico in America Latina furono le dittature militari».
Ma poi sono caduti i muri, il socialismo reale ha dimostrato tutti i suoi fallimenti... «E in quel momento doveva essere favorito un autentico impegno per la liberazione, in cui la presenza cristiana si facesse carico anche del sociale senza perciò rinnegare l’appartenenza ecclesiale. Invece a partire dagli anni Novanta la Chiesa si è trincerata in una cittadella, ha avuto paura ed è prevalsa una rassicurante teologia dell’ordine. Abbiamo perso una grande occasione».
Teologia della liberazione bruciata, dunque? «Sicuramente papa Francesco - che si riconosce nella Scuola del Rio de la Plata, la teologia del pueblo - l’ha riportata in primo piano nella sua forma autentica, e infatti lo accusano di marxismo. È evidente in lui l’attenzione preferenziale per i poveri, la critica a un capitalismo finanziario senza misericordia, la valorizzazione della dimensione popolare. Sa che cosa le dico? Paradossalmente avremmo bisogno di ricostituirla in Occidente, la Tdl...».
Convenirne è immediato per il missionario padre Alex Zanotelli: «La Teologia della liberazione? Mai come oggi è di attualità profonda! Ricordo di aver letto il libro di Gutiérrez quando ero ancora in Sudan, mi ha molto impressionato e sono grato all’autore (che purtroppo ha pagato molto per quell’opera) perché è stato un’ispirazione per molte teologie dell’Africa e dell’Asia. La Tdl in questi 50 anni è diventata ormai un patrimonio ecclesiale, soprattutto ha stimolato le comunità cristiane a capire che la fede - spesso intesa in senso intimistico - dev’essere unita alla vita, cioè alla dimensione politica, economica, ambientale, sociale. Papa Francesco non viene direttamente dalla Tdl, ma ne è stato molto influenzato; quando afferma “Questa economia uccide”, o in vari passaggi dell’enciclica sull’ambiente, riprende di fatto la Teologia della liberazione pur senza usarne il termine - che potrebbe urtare qualcuno. Solo in Europa e negli Stati Uniti c’è più difficoltà ad accettarla, perché siamo troppo legati al sistema che ci sta portando al baratro».
Al contesto internazionale allude pure il professor Andrea Riccardi, ma da storico della Chiesa: «La Teologia della liberazione ha rappresentato anzitutto l’orgoglio dell’America Latina di avere una teologia, nel periodo in cui si discuteva della dipendenza economica e politica del subcontinente. Ratzinger mi confessò che si era mancati nel darne una valutazione positiva, epurandola del marxismo e legandola a un’autentica liberazione dell’uomo; è un giudizio condivisibile. Però la Tdl di ieri è comunque datata a un mondo che non esiste più, a un marxismo che non c’è più... Forse la teologia del popolo, con il fatto di essere legata alla metropoli di Buenos Aires, ha aspetti più durevoli in un contesto culturale di globalizzazione». Mi permetto di tradurre: bisogna andare oltre. «Più ancora, il problema oggi è una mancanza di pensiero teologico: ecco la gravissima questione. La Tdl perlomeno ha mosso una vita della Chiesa, ha avanzato proposte capaci di stimolare un dialogo; ora invece vedo un inaridimento dell’attrazione della teologia accademica e d’altra parte non mi sembra che sorga nemmeno il pensare dal basso. Una teologia che nasca dalla vita ecclesiale è fondamentale; e una Chiesa senza pensiero, senza visione, senza dibattito rischia di essere soltanto amministrazione dei sentimenti. I segni dei tempi, sappiamo ancora leggerli? Abbiamo parlato tanto di secolarizzazione e non abbiamo proposte sulla globalizzazione; basterebbe pensare al fenomeno delle migrazioni».
Ma la Teologia della liberazione ha davvero qualcosa da dire in tale mutato contesto? Suor Antonietta Potente, teologa domenicana che ha vissuto a lungo in America Latina, punta sull’aspetto metodologico: «Questa continua a essere la forza della Tdl: guardare la realtà e cercare il mistero al suo interno. La Teologia della liberazione non ha definizioni a priori, nasce da quanto si constata nella vita e dalla domanda: come parlare di Dio partendo dalla sofferenza degli innocenti? Poi cambiano tempi e contesti, si possono applicare teorie sociali e filosofiche diverse, ma il metodo ha ancora attualità». La critica però è venuta proprio dall’appoggio ricercato nel marxismo. «All’epoca sembrava uno dei sistemi più applicabili alla realtà. Ma la Tdl è stata guardata con sospetto anche per mancanza di conoscenza, un certo tipo di Chiesa si è spaventata perché non ne conosceva la pratica: se avessero considerato la vita e l’impegno gratuito di migliaia di religiosi e di cristiani, il giudizio sarebbe stato diverso e ci sarebbero stati meno sospetti. Comunque tutto questo è passato. La Tdl continua a essere viva, ha generato le teologie contestuali (indigena, femminista, nera...) e soprattutto ha lasciato tante tracce nei cuori e negli stili di tante persone. Quelle che hanno trasformato la loro vita grazie ai suoi stimoli».
#DIVINACOMMEDIA (#DANTE2021)!
IL CARDINALE #CUSANO CERCA DI PENSARE L’#INCARNAZIONE MA FA UN PASSO AVANTI E #TRE INDIETRO, VERSO LA #DIALETTTICA COSMOTEANDRICA DELL’#ASSOLUTO DI #HEGEL *
Le tre eresie di Cusano
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 21 Novembre 2021)
«Quando entra nel campo del potere-che-è, ossia nel campo dove il potere è in atto, l’intelletto va a caccia di un cibo estremamente nutriente». Con questa promessa, Cusano inizia la descrizione del secondo campo nel quale cercare la sapienza. La linea argomentativa è quella per cui ciò che non può essere, non è: quod esse potest non est. Ne discende una scoperta che Cusano definisce non di poco conto: e cioè che il non essere non è una creatura. In termini parmenidei si direbbe che il nulla non è pensabile e che la domanda “perché l’essere e non il nulla” non ha nemmeno senso perché il nulla non può mai essere. Di fatto, come dirà in altre opere, esiste solo ciò che può essere in quanto ciò che è impossibile non si realizza. Come conseguenza, noi vediamo l’attualità assoluta in virtù della quale le cose che sono in atto sono ciò che esse sono: hinc actualitatem conspicimus. Tutte queste affermazioni implicano uno scontro con le posizioni della tradizione filosofica aristotelico-tomistica.
Nel Possest la coincidenza di possibilità e necessità
Aristotele aveva stabilito il principio secondo cui l’atto è anteriore alla potenza. La potenza infatti, in quanto principio del divenire, non è sufficiente a realizzare il divenire in quanto è necessario che ci sia una causa che trasformi la potenza in atto. Ma questa causa, che Aristotele definisce come causa efficiente, deve necessariamente essere già in atto.
Cusano non accoglie lo schema aristotelico dell’anteriorità dell’atto sulla potenza in quanto né l’attualità né la possibilità possono avere una precedenza: se l’attualità precedesse la possibilità, allora essa non sarebbe più attualità (che attualità sarebbe infatti quella che si risolvesse in una non attualità?); se la possibilità precedesse l’attualità si avrebbe invece un regresso all’infinito (perché ogni attualità richiederebbe sempre una possibilità che la porta all’atto e via di seguito).
La conseguenza di questo ragionamento è quella di ammettere la coincidenza di possibilità e necessità. Tale coincidenza ha bisogno di un nome e Cusano inventa il neologismo possest, termine che nasce dalla composizione di due termini, posse-est, traducibile con l’espressione il poter essere che è. Con questo termine egli indica la coincidenza, nell’assoluto, del poter essere con l’essere in atto. Tutte le cose, nella realtà indicata da questo termine, sono complicate, perché tutto ciò che esiste, per esistere, deve poter esistere, e dunque deve esistere in quello che è il potere allo stato puro. Ma in questo potere assoluto, che è un potere che è, nel quale l’essere coincide con il potere e la possibilità con l’attualità, devono essere incluse (cioè complicate nel linguaggio cusaniano) tutte le cose. Nel termine possest il Cardinale conia un termine che esprime la congiunzione della potenza di divenire e della potenza divenuta. Poter essere è dunque poter essere in atto, per cui siccome questo poter essere è considerato in atto, si dice che questo poter essere è un posse. Si tratta di una conclusione talmente forte che, prima di proseguire, Cusano la nasconde dietro tre affermazioni che, con l’apparenza di essere devote, contengono altrettante eresie le quali, ad altri pensatori, in altri tempi e in altri modi, sono costate la libertà e la vita.
Un Dio glorioso che non compie miracoli
Quello che noi consideriamo come Dio nella nostra tradizione, afferma Cusano, non è altro che la coincidenza dell’atto puro e della potenza pura. Nonostante egli chiami questa coincidenza Dio glorioso, l’affermazione si risolve in una vera e propria eresia rispetto al pensiero ortodosso, perché la potenza pura era da sempre stata considerata il prodotto dell’atto: ad esempio, come applicazione di questo schema, la prima cosa che Dio produce è la materia la quale, nella tradizione scolastica, non ha niente a che vedere con Dio, il quale era considerato piuttosto come una sostanza costituita da un’essenza diversa da quella che possiede la sostanza materia. Cusano cancella un simile quadro teorico perché quello che era un effetto, la materia, lo inserisce nella causa, che egli chiama Dio, considerata simultaneamente come un soggetto di contrari.
Il risultato di questo ragionamento produce una seconda eresia consistente nel rifiuto del concetto di eminenza. Con questo termine la tradizione aveva designato un modo di esistenza in cui, ciò che si dà attualmente nel mondo, è presente in modo diverso nell’idea di Dio. Questo significa che la creatura è contenuta nella mente del creatore in modo qualitativamente diverso rispetto a quello della creatura: in Dio (ad esempio) anche il mio gatto esiste, ma non esiste così come esiste in sé o come esiste nella mia mente: esiste in un modo diverso (diversità intesa come perfezione) in quanto la sua vera natura non è attingibile dalla nostra conoscenza.
Come conseguenza di questo approccio teorico della Scolastica, la potenza di Dio poteva essere concepita contemporaneamente in due modi: potenza assoluta e potenza ordinata. In quanto Dio è Dio, la potenza di Dio è assoluta; se invece si considera la potenza di Dio espressa nel mondo, la potenza ordinata, questa potenza non è assoluta, perché si ritiene che il mondo non sia tutto ciò che Dio poteva creare e che esso sia una tra le creature di Dio. Nel caso del gatto, esso esiste ed è stato creato; ma il gatto non solo non poteva non essere stato creato ma esistono nella mente di Dio tutta una serie di gatti che, trattenuti nella sua mente, non sono stati creati. Si ritiene cioè che non tutto ciò che è nell’intelletto di Dio è stato da lui creato: la sua volontà infatti avrebbe fatto da filtro rispetto all’infinità delle idee che sono in Dio, idee che solo in parte si sono tradotte nel mondo.
Anche in questo caso Cusano liquida la tradizione perché il concetto di Dio coincide con la possibilità attuata in cui non vi è più alcun residuo di possibilità da esplicare. Se la creazione deriva dalla natura di Dio (e non dalla volontà), se questa natura è infinita, anche l’effetto è infinito, e quindi dobbiamo dire che nel mondo c’è la piena e totale espressione della potenza di Dio. Dire ciò significa anche abolire il principio dei miracoli, ovvero che Dio non può, a partire dalla sua volontà, porre in essere qualcosa che prima era nella sua mente.
La materia è parte di Dio
La coincidenza di possibilità e necessità provoca un mutamento anche nel concetto di materia e ciò dà luogo alla terza eresia, sicuramente quella più scandalosa. Nella Dotta ignoranza, Cusano aveva già spiegato che il concetto della possibilità coincideva con quello della materia. Il problema è che la tradizione aristotelica era giunta a quel concetto nella modalità del non sapere, pensandola come possibilità eretta come principio assoluto e che coesisteva con lo stesso Dio (il quale era pensato in termini puramente spirituali). I platonici chiamarono la possibilità assoluta mancanza, in quanto essa manca di ogni forma. Gli aristotelici la definivano “quasi niente”, perché la materia aveva soltanto in minimo grado le qualità della sostanza. Di conseguenza, essi sostenevano che le forme sono presenti nella materia solo allo stato di possibilità. concludendo poi con la tesi che nella possibilità è presente la totalità delle cose. Cusano stabilisce invece che è impossibile che vi sia una possibilità assoluta, non congiunta cioè con l’atto, perché altrimenti bisognerebbe ammettere conseguenze assurde, come riconoscere un’infinità che parte dalla mancanza: cosa del tutto contraria a Dio perché semmai, in lui, l’infinità non può che partire da un’abbondanza.
Nasce il modello della causalità immanente
Come osserva un interlocutore del cardinale, si deve dire che Dio è in tutte le cose in modo tale da non poter essere altro quello che è. Questa, dice Cusano, è una dottrina da sostenere nel modo più fermo perché la coincidenza nell’assoluto di potenza ed atto consente di spiegare altrimenti la sua dottrina della complicatio. Dio infatti è tutte le cose in modo tale da non essere una di esse più di quanto non sia un’altra. Dio è sole ma non secondo il modo di essere del sole, il quale non è tutto ciò che può essere. Se questa prospettiva si può definire panteistica, non si deve dimenticare il modo esatto in cui essa si qualifica. Nel potere-che-è sono complicate tutte le cose e nessun grado di conoscenza riesce a coglierlo. Ma, soprattutto, «il potere, considerato in senso assoluto, è ogni potere. Pertanto se io vedessi che ogni potere è in atto non resterebbe più nulla. Se infatti restasse qualcosa, si tratterebbe pur sempre di qualcosa che potrebbe essere, per cui non resterebbe se prima non fosse già stata compresa nel potere». La conseguenza di questo discorso è che qualcosa, per essere qualcosa, deve avere la potenza di essere ciò che è e quindi, se non c’è il poter essere, non esiste nulla. Così come non si porta un’onda fuori del mare, è necessario che tutte le cose che sono, siano esistite da sempre nell’eternità: ciò che è stato creato è sempre esistito nel poter essere. Tutte le cose che sono e che si muovono, sono e si muovono nel possest.
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
Santo del giorno: 21 novembre
Solennità di Cristo Re *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
«Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire. In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo. Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo « ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ». Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: « Il mio regno non è di questo mondo ». L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Fonte: Santo del giorno, 21 novembre 2021 (ripresa parziale).
Note:
Martirologio Romano: Solennità di nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo: a Lui solo il potere, la gloria e la maestà negli infiniti secoli dei secoli:
"[...] Questa festa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica “Quas primas” dell’11 dicembre 1925, a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell’anno.
È poco noto e, forse, un po’ dimenticato. Non appena elevato al soglio pontificio, nel 1922, Pio XI condannò in primo luogo esplicitamente il liberalismo “cattolico” nella sua enciclica “Ubi arcano Dei”. Egli comprese, però, che una disapprovazione in un’enciclica non sarebbe valsa a molto, visto che il popolo cristiano non leggeva i messaggi papali. Quel saggio pontefice pensò allora che il miglior modo di istruirlo fosse quello di utilizzare la liturgia. Di qui l’origine della “Quas primas”, nella quale egli dimostrava che la regalità di Cristo implicava (ed implica) necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico: “Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici”. Dichiarava, quindi, di istituire la festa di Cristo Re, spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l’umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.
Tale festività coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico, con ciò indicandosi che Cristo Redentore è Signore della storia e del tempo, a cui tutti gli uomini e le altre creature sono soggetti. Egli è l’Alfa e l’Omega, come canta l’Apocalisse (Ap 21, 6). Gesù stesso, dinanzi a Pilato, ha affermato categoricamente la sua regalità. Alla domanda di Pilato: “Allora tu sei re?”, il Divino Redentore rispose: “Tu lo dici, io sono re” (Gv 18, 37).
Pio XI insegnava che Cristo è veramente Re. Egli solo, infatti, Dio e uomo - scriveva il successore Pio XII, nell’enciclica “Ad caeli Reginam” dell’11 ottobre 1954 - “in senso pieno, proprio e assoluto, ... è re”. [...]" (cfr. "Santi e beati": Francesco Patruno).
PIO XI, LETTERA ENCICLICA QUAS PRIMAS, 11 dicembre 1925
FLS
Francescano, ma non comunista
di Roberto Toscano (La Stampa, 11.07.2015)
E’ dal momento della sua elezione al pontificato che Papa Bergoglio non lascia praticamente passare un giorno senza ribadire con schietta essenzialità richiami morali che mettono in gioco la natura stessa del nostro mondo globalizzato, il suo potere di esclusione, lo scandalo crescente della disuguaglianza. Messo piede nella sua terra latino-americana, il suo messaggio si è fatto ancora più esplicito e radicale.
La novità non è certo la preoccupazione della Chiesa per i poveri e le vittime dell’ingiustizia, e nemmeno l’autocritica nei confronti delle troppe connivenze con le violenze della colonizzazione dell’America Latina e dei troppi compromessi con poteri oligarchici - un’autocritica che aveva ispirato sia Giovanni Paolo II nel suo forte discorso del 1992 a Santo Domingo sia Benedetto XVI, che nel maggio del 2007 parlò delle «ombre» che accompagnarono l’evangelizzazione dell’America Latina.
Ma il messaggio latino-americano di Papa Francesco va ben oltre, nella misura in cui non si limita a denunciare la malvagità umana e il sordo egoismo che ispira i potenti e i privilegiati, non si limita a riprendere il discorso della Chiesa sui diritti umani, ma attacca esplicitamente le strutture, il sistema. E lo fa sottoponendo l’economia globale a un vaglio morale senza sconti e senza eufemismi.
Addirittura - e immaginiamo lo sconcerto che questo sta producendo negli ambienti del cattolicesimo conservatore - Bergoglio sembra echeggiare il radicalismo francescano quando denuncia il culto al denaro, che definisce, citando la famosa condanna di Basilio di Cesarea, padre della Chiesa, «sterco del diavolo»: «Quando il capitale si converte in un idolo, quando l’avidità per il denaro subordina tutto il sistema socioeconomico, rovina la società, rende l’uomo schiavo, distrugge la fraternità fra gli esseri umani».
Si conferma qui il senso profondo (per i credenti, provvidenziale) dell’elezione al soglio pontificio di un cardinale proveniente dall’America Latina, per la Chiesa serbatoio di fedeli - il 40 per cento dei cattolici nel mondo - fondamentale ma negli ultimi decenni minacciato da una forte offensiva protestante, resa possibile non solo dalle grandi risorse economiche dei missionari evangelici statunitensi, ma anche dalla diffusa percezione di una Chiesa conservatrice e non sufficientemente solidale con i poveri.
Anche per quanto riguarda la rivisitazione critica della conquista ed evangelizzazione cristiana dell’America Latina le parole del Papa si muovono su un terreno d’inequivoca radicalità. Sono parole in cui sembra di sentire un eco del drammatico scontro, rappresentato nel famoso film «Mission», fra la Chiesa del gesuita Padre Gabriel, schierato fino all’estremo sacrificio dalla parte degli indios contro il potere coloniale e gli schiavisti, e quella del Cardinale Altamirano, intelligente e in fin dei conti anche sensibile, ma che finisce per piegarsi alle esigenze della realpolitik, autorizzando la violenza del potere contro la ribellione degli indios. Oggi Bergoglio esalta la Chiesa di Padre Gabriel, quella dei sacerdoti «che si opposero alla logica della spada con la logica della croce».
Il rischio a questo punto è quello di semplificare e appiattire, ripercorrendo i polverosi sentieri delle ideologie del XX secolo, una svolta che è significativa nella misura in cui è nuova, e descrivere il messaggio di Papa Bergoglio come un trionfo tardivo dei movimenti rivoluzionari cui la Chiesa, nella sua maggioranza e soprattutto nelle sue gerarchie, si era sistematicamente opposta a patto di indecenti connivenze con poteri non democratici e antipopolari.
Teologia della Liberazione
No, Papa Francesco non si è convertito alla Teologia della liberazione, ma si rende conto del prezzo pagato dalla Chiesa nel rigetto conservatore delle istanze di cui quei movimenti erano generosi anche se spesso confusi portatori. E senz’altro ricorda come la Chiesa riuscì a riassorbire, non con la condanna ma con la cooptazione, la spinta potenzialmente eversiva del primo francescanesimo.
Quello che è certo è che non siamo di fronte a un «Papa comunista», come alcuni inguaribili nostalgici della Guerra Fredda cominciano anche da noi a mormorare. Il bizzarro dono del crocifisso/falce e martello del Presidente boliviano Morales ha suscitato nel Papa un’evidente perplessità, ma certo non un «vade retro» scandalizzato. Il fatto è che per Bergoglio il comunismo è morto e sepolto, anche se rimangono aperti i grandi quesiti sociali da esso sollevati, ai quali non ha saputo rispondere per le sue contraddizioni, il suo dogmatismo ideologico e la sua deriva autoritaria e violenta. Quesiti che, contrariamente a quanto sostenuto dall’ideologia neoliberale, non si possono ignorare, ma ai quali il messaggio cristiano dovrebbe avere l’ambizione di rispondere in modo diverso, autentico, sostenibile e basato sulla fede. Si tratta di un pontefice, inoltre, che non sembra certo intenzionato a essere indulgente nei confronti di chi «vuole cancellare Cristo dalla società», e che anche in Bolivia ha detto parole forti contro «la persecuzione genocida» dei cristiani in Medio Oriente.
Nel momento in cui il comunismo è davvero morto, e in cui anche la socialdemocrazia non sta molto bene di salute, il disegno di Bergoglio risulta quindi evidente. È quello di rendere il messaggio della Chiesa egemonico sotto il profilo dei valori che dovrebbero ispirare una società più umana. Un disegno ambizioso, che dovrà fare i conti con le infinite contraddizioni esistenti all’interno stesso di una Chiesa certo tutt’altro che compatta, oltre che marcata da secoli dai troppi prezzi pagati al realismo, nonchè con le prevedibili controspinte che, in America Latina ma non solo, verranno messe in atto da chi ritiene che si tratti di un messaggio puramente retorico o addirittura destabilizzante, soprattutto in un momento in cui sempre più inquietante è la sfida di un Islam militante che si colloca agli antipodi dell’umanesimo cristiano di cui Bergoglio è il coraggioso paladino.
Credenti o non credenti, entusiasti o critici - ma in ogni caso tutti disorientati dopo la scomparsa dei solidi, anche se spesso micidiali, riferimenti del XX secolo -, faremmo bene comunque a prendere sul serio la non superficiale sfida di Papa Francesco, il primo Papa del XXI secolo.
CHI HA RUBATO CHE COSA A CHI?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo" (federico la sala)
Lettera aperta a S.S. Papa Francesco.
di RAR *
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Papa Francesco: "I comunisti ci hanno rubato la bandiera".
Si tratta della bandiera spirituale della Chiesa dei poveri, ma una affermazione che, con tutto il rispetto per Papa Francesco, non mi sento di condividere né di sforzarmi a capire.
Nella bandiera comunista, quella che sventola nelle feste dell’Unità, c’è il rosso porpora della battaglia, ma non c’è Cristo, per una scelta laica che in troppi hanno interpretato in senso anticlericale.
Le lotte comuniste, che proponevano maggiore uguaglianza tra le classi, furono inquinate, fin dall’inizio, da una dichiarata “lotta di classe” e non certo di concertazione tra le classi; ciò produsse solo ulteriori danni, spingendo avanti il liberismo in difesa di interessi corporativi, contro i quali le classi più deboli nulla avevano da contrastare per chiedere maggiori diritti. Ebbe il sopravvento la legge del più forte, specialmente dopo il 9 novembre del 1989 con la caduta del muro di Berlino che segnò la vittoria del capitalismo sul materialismo sociale.
Il comunismo ortodosso ha fatto il suo tempo, scandito di occasioni mancate o perdute, diventando socialdemocrazia, tesa a rivalutare la presenza storica delle classi operaie nel teatro della politica nazionale e internazionale, esaltando la centralità sociale dell’uomo e di tutti gli uomini.
Le parole di Papa Francesco non chiariscono nulla, anzi peggiorano la situazione proprio nelle contraddizioni che vediamo annunciarsi dall’altra parte del Tevere.
La bandiera del Cristo dei poveri, Santità, è saldamente in mano a quei sacerdoti che combattono giorno dopo giorno negli angusti anfratti del “mondo dei vinti” e garrisce alta sospinta dal vento della santità di Mons. Oscar Romero, per il quale Ella, Santo Padre, ha sbloccato il processo di beatificazione, dopo che il suo predecessore, oggi emerito, ne aveva bloccato l’iter.
La Teologia della Liberazione rappresenta, oggi, ciò che in tempi passati rappresentarono il monachesimo e i giganti della santità, in quel periodo buio della Chiesa impegnata nelle lotte per le investiture, nella crociate, nel potere temporale e, infine, nell’Inquisizione, paradossalmente chiamata “santa”.
Il suo predecessore confermò la condanna della Teologia della Liberazione, mentre, contestualmente, tornava ad abbracciare i negazionisti di Lefebvre, togliendo la scomunica che era stata comminata da Giovanni Paolo II; quella condanna, che ancora persiste insieme alla generica accusa di “comunismo”, rappresenta un gigantesco passo indietro nella storia, cancellando oltre un secolo del Magistero sociale della Chiesa.
Anche Paolo VI venne accusato di essere un “Papa comunista” dai rappresentanti delle lobby americane dello sfruttamento, delle armi, delle guerre, mentre meriterebbe di essere il primo a ricoprire una nuova onorificenza “Dottore sociale della Chiesa”, avendo sviluppato il Magistero della Chiesa con l’enciclica Populorum Progressio.
Nella bandiera issata dalla TdL, Cristo è presente, anche se si tratta di una immagine di Cristo lontana dalle icone dell’opulenza, mostrando un Cristo povero, mendico, straccione, affamato, assetato, negletto, sfruttato, umiliato nella persona e nell’anima, come sono i fedeli per i quali pregano i sacerdoti dell’America Latina, ispirati dal loro protettore Oscar Romero, ma un Cristo pronto a perdonare, ad amare, forte di quel “manifesto” dell’uguaglianza rappresentato dal Discorso della Montagna con le Beatitudini che rappresentarono la più grande rivoluzione sociale che mai il pianeta Terra abbia visto.
Si tratta di valori che nessuno potrebbe mai rubare, perché messi a disposizione di tutti gli uomini di buona volontà.
*
Rosario Amico Roxas
Il popolo sofferente e Dio
di Jon Sobrino *
In occasione della celebrazione del XXXIV anniversario dell’assassinio-martirio di monsignor Romero, vogliamo offrire queste riflessioni sulle sue ultime omelie.
Il fine è ciò che dà senso al processo, diceva un grande filosofo. Nel caso di Romero è assolutamente vero: le sue due ultime omelie non furono le “ultime” perché non ne seguirono altre. Furono “ultime” perché in esse, e nei giorni in cui sono state pronunciate, emerse ciò che più profondamente aveva caratterizzato gli ultimi tre anni di Monsignore. E furono “ultime” perché le pronunciò in cattedrale insieme al suo popolo e nell’hospitalito insieme ai malati terminali. Non si può andare oltre il “popolo” e i “poveri”.
Mi soffermerò (...) sulle ultime due omelie del 23 e 24 marzo 1980, richiamandomi anche ad altre dei primi mesi del 1980. Citerò alcuni paragrafi per intero, che dicono di più di tante parole.
L’ULTIMA OMELIA NELL’HOSPITALITO
Il 24 marzo del 1980 monsignor Romero pronunciò la sua ultima omelia nella cappella dell’Ospedale della Divina Provvidenza per i malati di cancro. Nell’hospitalito preparava, di sabato, le sue omelie domenicali sulla base di libri di teologia biblica, di rapporti sulle violazioni dei diritti umani e di tutto ciò che avesse a che fare con la povertà del popolo. E nell’hospitalito, come Gesù sulle rive del lago o nell’orto, pregava il Dio che vede nel segreto.
Il Monsignore circondato da moltitudini, che provava una gioia profonda nello stare con il suo popolo in cattedrale e nei villaggi, quando stava nell’hospitalito era solo e senza sicurezza. Di sera, restava e viveva con il suo Dio.
Le persone più vicine - a pochi metri dalla sua camera - erano donne malate terminali di cancro, tutte povere, e in più tutte prese dalla paura di non sapere cosa ne sarebbe stato dei loro figli. Quelle donne erano il simbolo di molte altre madri di figli morti, scomparsi, torturati, e di un intero popolo sofferente.
Il 24 marzo, alle cinque del pomeriggio, mons. Romero celebrò una messa di anniversario per donna Sarita, nonostante gli avessero consigliato di non farlo perché la messa era stata annunciata sui giornali e poteva quindi rappresentare un segnale per chi volesse ucciderlo. Monsignore insistette per celebrarla e terminò l’omelia con queste parole: «Che questo corpo immolato e questo sangue versato per gli esseri umani ci alimentino per offrire anche il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo, non per noi stessi, ma per dare segni di giustizia e di pace al nostro popolo. Uniamoci allora intimamente nella fede e nella speranza in questo momento di preghiera per donna Sarita e per noi».
Fu in quel momento che echeggiò lo sparo. Il killer pose un amen pasquale alla sua parola. Si era compiuta la sua identificazione con Cristo, la sua offerta a Dio e la sua offerta al suo popolo.
LE ULTIME OMELIE IN CATTEDRALE
Nell’hospitalito si incontravano le radici di Monsignore. Nelle omelie in cattedrale si mostravano i suoi frutti. E non facevano che aumentare la durezza della denuncia, l’esigenza di conversione e il bisogno di aggrapparsi alla speranza. Mons. Romero fece uso del Magistero della Chiesa e fece un uso ancora maggiore del Vangelo di Gesù, portando sempre più nelle omelie i clamori del popolo, che salivano verso il cielo ogni volta più tumultuosi. Non c’è da sorprendersi che le omelie durassero circa un’ora e mezza o anche di più. Ricordiamo i concetti fondamentali.
Come preparava le omelie. Nella sua ultima omelia in cattedrale, Monsignore riferì come avveniva la preparazione e quale fosse la fonte da cui traeva quello che avrebbe denunciato e annunciato: «Chiedo al Signore durante la settimana, mentre vado raccogliendo il clamore del popolo e il dolore per tanto crimine, l’ignominia di tanta violenza, che mi dia la parola opportuna per consolare, per denunciare, per esortare al pentimento e, per quanto continui ad essere una voce che grida nel deserto, so che la Chiesa sta cercando di compiere la sua missione».
L’accusa di “mettersi in politica”. Nei confronti della maggior parte dei suoi fratelli vescovi, Monsignore visse una forte tensione, per varie ragioni. Un motivo importante era dato dalla loro insistenza sul fatto che la Chiesa non dovesse occuparsi di politica. Monsignore sapeva bene che il problema era un altro: il problema era non seguire una politica di destra. In questo senso, in maniera pubblica e consapevole, monsignor Romero, nelle sue omelie, “si mise in politica”. Lo fece con estrema chiarezza quando analizzò i tre progetti nati dopo il colpo di Stato del 15 ottobre 1979. Condannò il progetto dell’oligarchia, in cui non vedeva nulla di buono. Al progetto della democrazia cristiana richiese il controllo della repressione o l’uscita dal governo. Maggiore speranza ripose nel progetto popolare, soprattutto se le forze popolari si fossero unite e non avessero assolutizzato la loro ideologia. Ma le condannò ogni qualvolta commettevano ingiuste azioni violente.
Nell’omelia del 23 marzo Romero si difese: «Lo so che molti si scandalizzano per questa parola e vogliono accusarmi di aver abbandonato la predicazione del Vangelo per mettermi in politica, ma io non accetto questa accusa, anzi faccio uno sforzo perché tutto ciò che il Concilio Vaticano II e gli incontri di Medellín e di Puebla hanno voluto promuovere non resti solamente sulla carta come oggetto di studio teorico, ma venga vissuto e tradotto in questa realtà conflittuale in maniera da predicare come si deve il Vangelo per il nostro popolo».
La verità senza compromessi: la denuncia. Monsignore disse sempre la verità. Non occultò nulla. Né cadde nella tentazione di dissimularla appellandosi al politicamente corretto. In quella situazione, la verità risuonò con più forza nella denuncia. E con parole piene di onestà, parole tipiche di Monsignore, spiegò che bisognava cominciare da casa propria. «Chiunque denunci deve accettare di venire a sua volta denunciato e, se la Chiesa denuncia le ingiustizie, deve lei stessa essere disposta ad ascoltare le denunce nei suoi confronti e obbligata a convertirsi... I poveri sono il grido costante che denuncia non solo l’ingiustizia sociale, ma anche la scarsa generosità della nostra Chiesa» (Omelia del 17 febbraio 1980).
Ricordiamo alcune denunce di mons. Romero, in forza della credibilità che emerge da queste parole, sulla base di una verità senza compromessi. Le pronunciava con un’immensa tenerezza nei confronti delle vittime, e senza odio - e con un difficile amore - per i loro carnefici.
Monsignore attribuì all’oligarchia la responsabilità ultima dell’oppressione e della repressione nel Paese, come pure della guerra incombente. «Rivolgo un appello all’oligarchia: non idolatrate le vostre ricchezze, non le conservate lasciando che altri muoiano di fame» (Omelia del 6 gennaio 1980).
Denunciò le forze armate, i corpi di sicurezza, gli squadroni della morte e la Giunta di governo come responsabili della repressione: «La Giunta di governo deve ordinare, in maniera efficace, la cessazione immediata di tanta repressione indiscriminata, perché anche la Giunta è responsabile del sangue e del dolore di tanta gente. Le Forze Armate, soprattutto i corpi di sicurezza, devono abbandonare questo accanimento e questo odio nei confronti del popolo; devono dimostrare con i fatti che sono a favore delle maggioranze e che il processo avviato è di carattere popolare. Essendo voi, o molti di voi, di estrazione popolare, l’esercito dovrebbe essere al servizio del popolo. Non distruggete il popolo, non siate voi i promotori di maggiori e più dolorose esplosioni di violenza a cui un popolo represso potrebbe giustamente rispondere» (Omelia del 20 gennaio 1980).
«Come pastore, sento di avere un dovere nei confronti delle organizzazioni politiche popolari», diceva Monsignore. Ma egli le mise ripetutamente in guardia rispetto ai pericoli che correvano e, quando fu necessario, le denunciò. «A queste organizzazioni popolari e, soprattutto, a quelle di carattere militare e guerrigliero, di qualunque segno esse siano, chiedo che cessino anch’esse questi atti di violenza e di terrorismo» (Omelia del 20 gennaio 1980).
«Cari fratelli, le rivendicazioni del popolo sono assolutamente giuste e bisogna continuare a promuovere la giustizia sociale e l’amore per i poveri, ma per questo, se veramente amiamo il popolo e cerchiamo di difenderlo, non possiamo privarlo di ciò che è più prezioso: la sua fede in Dio, il suo amore per Gesù Cristo, i suoi sentimenti cristiani» (Omelia del 10 febbraio 1980).
«È urgente che le organizzazioni popolari maturino per poter compiere la loro missione di arrivare a essere interpreti della volontà del popolo» (Omelia del 24 febbraio 1980). «Non dobbiamo tacere i peccati, neanche quelli della sinistra, ma essi sono sproporzionatamente minori rispetto alla violenza repressiva» (Omelia del 9 marzo 1980).
Una nuova Chiesa di poveri e perseguitati. È questa che costruì mons. Romero. «Per il fatto di difendere il povero, la Chiesa è entrata in un grave conflitto con i potenti delle oligarchie economiche» (Discorso di Lovanio, 2 febbraio 1980). Prima ancora aveva detto con impressionante eloquenza: «Sono contento, fratelli, che la nostra Chiesa sia perseguitata proprio per la sua opzione preferenziale per i poveri» (Omelia del 15 luglio 1979). «Sarebbe triste se, in un Paese in cui si sta uccidendo in maniera tanto orribile, non annoverassimo tra le vittime anche i sacerdoti. Essi sono la testimonianza di una Chiesa incarnata nei problemi del popolo» (Omelia del 24 giugno 1979).
La dignità delle vittime. Praticamente all’inizio del suo ministero, il 19 giugno 1977, monsignor Romero consolò i contadini di Aguilares con queste parole inaudite: «Voi siete il Divino Trafitto», «il Cristo crocifisso». E poco prima di venire lui stesso assassinato, le tornò a ripetere, con ancora più vigore: «Ogni essere umano è figlio di Dio e ogni essere umano ucciso è anche lui un Cristo sacrificato che la Chiesa venera» (Omelia del 2 marzo 1980). E di questo popolo crocifisso, in uno slancio evangelico, Monsignore disse: «Con questo popolo non costa nulla essere un buon pastore» (Omelia del 18 novembre 1979).
Non conosciamo molti vescovi che parlano così. Di certo, non nelle Chiese del mondo del benessere, e pure nel cosiddetto Terzo Mondo sono andati diminuendo. Grazie a Dio, don Pedro Casaldáliga resta imperturbabile. E ancora risuona l’eco di Christophe Munzihirwa, arcivescovo di Bukavu, assassinato nel 1996, che difese centinaia di migliaia di rifugiati e denunciò, in maniera esplicita, le potenze straniere.
LA DENUNCIA FINALE: «CESSI LA REPRESSIONE»
Solo nel gennaio e nel febbraio del 1980, prima ancora che scoppiasse la guerra, c’erano stati più di 600 morti. Il 16 marzo Romero dichiarò: «Nulla m’importa tanto quanto la vita umana». E una settimana dopo, il 23 marzo, in un lungo paragrafo, meditato e ben pensato, pronunciò queste parole memorabili: «Vorrei fare un appello in maniera speciale agli uomini dell’esercito e, concretamente, alla base della Guardia Nazionale, della polizia e delle caserme. Fratelli, siete del nostro stesso popolo, uccidete i vostri stessi fratelli contadini, e di fronte all’ordine di uccidere dato da un essere umano deve prevalere la legge di Dio che dice: “Non uccidere”. Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contro la legge di Dio. Una legge immorale nessuno è tenuto a rispettarla. È ormai tempo che voi recuperiate la vostra coscienza e che obbediate prima alla vostra coscienza che all’ordine del peccato. La Chiesa, impegnata nella difesa dei diritti di Dio, della legge di Dio, della dignità umana, della persona, non può restare in silenzio di fronte a tanto abominio. Vogliamo che il governo prenda sul serio il fatto che a nulla servono le riforme se sono così macchiate di sangue. In nome di Dio, allora, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!».
«In nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente»: sono parole che non si erano mai sentite prima e che non si sarebbero più sentite dopo. Il fragoroso applauso dei fedeli, mai ascoltato prima e mai più ripetuto in seguito, fu l’amen del popolo.
LA SPERANZA FINALE: “SE IL CHICCO DI GRANO NON MUORE...”
Monsignor Romero affrontò consapevolmente l’idea di una morte violenta. Durante il suo ultimo ritiro, iniziato il 25 febbraio, scrisse: «Mi costa accettare una morte violenta, che in queste circostanze è molto probabile». E nella sua ultima omelia all’hospitalito accettò la morte. «Chi vuole allontanare da sé il pericolo, perderà la sua vita; al contrario, chi si offre, per amore di Cristo, al servizio degli altri, vivrà come il chicco di grano che muore, ma solo apparentemente muore. Se non morisse, rimarrebbe solo» (Omelia del 24 marzo 1980).
Pochi giorni prima, disse a un giornalista queste parole memorabili (alcuni si chiedono se il testo sia di Romero. Non sono in grado di rispondere. Posso solo dire che per le parole, i concetti e il pathos, il testo riflette splendidamente il monsignor Romero degli ultimi giorni): «Sono stato spesso minacciato di morte. Devo dirle che, come cristiano, non credo nella morte senza risurrezione. Se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza nessuna presunzione, con la più grande umiltà. Come pastore sono obbligato per mandato divino a dare la vita per quelli che amo, che sono tutti i salvadoregni, anche per coloro che potrebbero assassinarmi... Lei può dire, se arrivassero a uccidermi, che perdono e benedico coloro che lo faranno» (Intervista a El Diario de Caracas, marzo 1980).
* Adista Documenti n. 15 del 19/04/2014
“Romero martire e beato” l’ultima svolta di Bergoglio
Dopo anni di resistenze e insabbiamenti finalmente salirà agli onori degli altari il “vescovo dei poveri ” ucciso nel 1980
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 04.02.2015)
CITTÀ DEL VATICANO MONSIGNOR Romero diventerà beato. Il vescovo salvadoregno ucciso mentre celebrava messa nel 1980, la cui causa è rimasta frenata per anni in Vaticano perché a torto ritenuto vicino alla Teologia della liberazione, se non considerato socialista o addirittura marxista, salirà presto all’onore degli altari. Ma chi vincerà, adesso, «la guerra tra monsignor Paglia e il cardinale Amato», copyright dello stesso Papa Francesco durante il suo ultimo viaggio all’estero, entrambi in prima fila per questo difensore dei poveri?
Il dettaglio non è di poco conto. Angelo Amato ieri è stato ricevuto dal Pontefice, che ha comunicato ufficialmente al Prefetto della Congregazione per le cause dei Santi la decisione di beatificare il vescovo martire. Ma spetterà oggi a Vincenzo Paglia, Postulatore della causa di monsignor Romero, e consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio da sempre attenta al mondo degli ultimi, presentare nella Sala stampa della Santa Sede come si è giunti infine alla scelta di Romero. Oltre alla data della beatificazione, che alcuni già ipotizzano per il prossimo 24 marzo, 35° anniversario della morte.
Con un decreto firmato il Papa ha riconosciuto di monsignor Oscar Arnulfo Romero «il martirio », perché assassinato a San Salvador il 24 marzo 1980 «in odio alla fede». Un atto aspettato da molti nella Chiesa, mentre nel suo Paese il popolo già da tempo lo considera “San Romero de America”. Ma bisognava attendere l’arrivo di un Pontefice latinoamericano, e anche molto sensibile alle istanze sociali, perché la causa di “monsegnor Romero” conoscesse un’accelerazione e si sbloccasse nonostante le resistenze, gli insabbiamenti e i sabotaggi che hanno caratterizzato il lungo iter processuale.
La vita di Romero fu complessa, dividendosi in due parti. Prima, quella di sacerdote e vescovo poco incline alle lotte verso il suo popolo. Poi, quella da lui stesso definita una “conversione”, con la nomina a primate della Chiesa cattolica del Salvador, e con l’uccisione del gesuita Rutilio Grande ad opera di sicari per il suo impegno verso gli ultimi. Fu la veglia al confratello sacerdote, nel marzo del 1977, a cambiargli la vita.
Nella sua prima lettera pastorale Romero dichiarò apertamente di volersi schierare dalla parte dei più poveri. Progressivamente, le sue omelie diventarono un martello contro il potere, simboleggiato dagli squadroni della morte dell’esercito, ma esercitato con la violenza dal partito nazionalista conservatore capeggiato dal colonnello Roberto D’Aubuisson.
Il giorno in cui venne ucciso, monsignor Romero aveva appena concluso la sua omelia, ribadendo la sua denuncia contro un governo che nei campi minati mandava avanti i bambini. Pochi minuti dopo, al momento dell’elevazione, un sicario entrato nella piccola cappella dell’ospedale della Divina provvidenza, sparò un solo colpo che recise al vescovo la vena giugulare.
La sua beatificazione fu un caso per anni. Nel 1998 la Congregazione per la Dottrina della Fede prese in esame la questione. Nella fase di acquisizione dei dati e delle testimonianze (50 mila le sole carte dell’archivio personale), tuttavia, ci fu chi pose seri dubbi sulla santità di Romero, ritenuto erroneamente vicino ai teologi della liberazione. Difensore dei deboli sì, ma il vescovo di San Salvador anzi dissentiva profondamente del movimento, accusandolo di orizzontalismo, razionalismo, marxismo, e considerandolo piuttosto una deviazione politica della missione della Chiesa.
Lo stesso monsignor Paglia, intervistato da Stefania Falasca su Avvenire , ha così spiegato: «Il suo pensiero teologico era “uguale a quello di Paolo VI definito nell’esortazione Evangelii nuntiandi ”, come rispose egli stesso nel 1978 a chi gli chiedeva se appoggiasse la Teologia della liberazione. E che, in sostanza, in un contesto storico caratterizzato da estrema polarizzazione e da cruenta lotta politica, si scambiò per connivenza con l’ideologia marxista la difesa concreta dei poveri, che Romero sosteneva non per vicinanza alle idee socialiste ma per fedeltà alla Tradizione ».
Alla Radio Vaticana ieri Paglia si è detto «davvero commosso, perché dopo tanti anni, finalmente, giunge la conclusione di questo lungo processo, e la gioia è doppia». E parla di un «quid provvidenziale»: il fatto cioè che Romero venga dichiarato beato dal primo Papa sudamericano della storia. Oggi toccherà a Paglia. Il cardinale Amato, come Prefetto dei santi, presiederà ovviamente la causa di beatificazione.
Papa Francesco, Romero martire due volte: "Dopo la sua morte per mano dei vescovi"
Il Pontefice aggiunge passi a braccio al discorso in spagnolo ai pellegrini del Salvador, in Vaticano per ringraziarlo della beatificazione dell’arcivescovo ucciso dagli squadroni della morte nel 1980: "Dio conosce la persona, e vede se la stanno lapidando con la pietra più dura che esiste, la lingua" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Il martirio di monsignor Romero non fu solo nel momento della sua morte: iniziò prima, ma iniziò con le sofferenze per le persecuzioni precedenti alla sua morte e continuò anche posteriormente, perché non bastava che fosse morto: fu diffamato, calunniato, infangato. Il suo martirio continuò anche per mano dei suoi fratelli nel sacredozio e nell’episcopato". Lo ha affermato Papa Francesco in spagnolo concludendo, a braccio, il discorso ai partecipanti al pellegrinaggio da El Salvador, in Vaticano in segno di ringraziamento per la beatificazione del grande arcivescovo di San Salvador avvenuta il 23 maggio scorso.
Romero, "una volta morto - ero giovane sacerdote e ne fui testimone - fu diffamato, calunniato, infangato. Non parlo per aver sentito dire. Ho ascoltato queste cose", ha detto il Papa.
"Solo Dio - ha aggiunto il Papa - conosce la storia della persona. E vede se la stanno lapidando con la pietra più dura che esiste nel mondo: la lingua".
Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, fu ucciso sull’altare il 24 marzo del 1980 dagli squadroni della morte mandati dal regime che il monsignore denunciava senza compromessi. Ma dopo la sua morte in Vaticano arrivarono "una montagna di lettere anonime e firmate contro di lui", ha ammesso il postulatore della causa, arcivescovo Vincenzo Paglia, che da solo non sarebbe mai riuscito ad abbattere quel cumulo di infamie.
"Il primo Papa latinoamericano della storia - ricostruisce il vaticanista Iacopo Scaramuzzi nel pamphlet ’Tango vaticano’ pubblicato nei giorni scorsi dalle edizioni dell’Asino - ha fatto chiaramente intendere, fin dai primi giorni, che voleva Romero, martire latino-americano, beato. Lo ha confidato, tra gli altri, al premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel". Così l’anno scorso, "il martedì che i cardinali votano, chi convintamente, chi obtorto collo, per l’avvio del processo che porterà Romero all’onore degli altari", anche se la prassi della Santa Sede vuole che passino due giorni prima che il prefetto della Congregazione porti, di giovedì, i dossier al romano pontefice per la firma definitiva.
Jorge Mario Bergoglio stravolge la tradizione, convoca immediatamente il cardinale Angelo Amato nel palazzo apostolico, e, bruciando i tempi, firma seduta stante il decreto che riconosce che Romero, ucciso in odium fidei: è martire, e sarà dunque beato. Si sono già persi più di trent’anni, meglio non perdere neanche un giorno di più, non si sa mai...".
Secondo Scaramuzzi, "negli anni successivi alla nascita della teologia della liberazione; il Vaticano guarda con aperto fastidio alle convergenze tra cattolicesimo e marxismo in Sud America. "Il cardinale Lopez Trujillo lottò contro il riconoscimento del martirio di Romero", ha raccontato il fondatore della comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, spiegando che il porporato colombiano "riteneva il prelato troppo ’marxisteggiante’, e temeva che la sua beatificazione si sarebbe trasformata nella canonizzazione della teologia della liberazione, cui il cardinale si opponeva".
Benedetto XVI disse di ritenere, mentre volava in Brasile nel 2007, che la persona di Romero fosse "degna di beatificazione", parole - lo ha ricostruito Gianni Valente sul sito Vatican Insider - che furono depennate nel testo ufficiale dell’intervista. Jorge Mario Bergoglio, all’epoca arcivescovo di Buenos Aires, all’Assemblea del Celam di Aparecida in quello stesso 2007 - l’episodio è stato raccontato dall’ex segretario di Romero, monsignor Jesus Delgado - affermò: "Se io fossi diventato Papa, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata inviare Lopez Trujillo a San Salvador a beatificare Romero".
Papa Francesco si è pronunciato più volte pubblicamente in merito al sacrificio di questo grande vescovo latino-americano. Il Pontefice "chiamato quasi dalla fine del mondo", ha citato Romero anche durante l’ultima udienza generale: l’arcivescovo di San Salvador, ha ricordato Bergoglio, "diceva che le mamme vivono un ’martirio materno’. Nell’omelia per il funerale di un prete assassinato dagli squadroni della morte, egli disse, riecheggiando il Concilio Vaticano II: ’Tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore... Dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio, è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco? Sì, come la dà una madre, che senza timore, con la semplicitá del martirio materno, concepisce nel suo seno un figlio, lo dà alla luce, lo allatta, lo fa crescere e accudisce con affetto. E’ dare la vita. E’ martirio’".
Rutilio Grande Garc.
Il martire "non è qualcuno relegato nel passato, una bella immagine che adorna le nostre chiese e ricordiamo con nostalgia", ha detto il Papa nel discorso preparato per oggi. "No, il martire è un fratello, una sorella, che continua ad accompagnarci nel mistero della comunione dei santi, e che, uniti a Cristo, non ignora il nostro pellegrinaggio terreno, le nostre sofferenze, le nostre agonie. Nella recente storia di questo amato paese, la testimonianza di mons. Romero, si è unito agli altri fratelli e sorelle, come padre Rutilio Grande, che, non avendo paura di perdere la vita, l’hanno guadagnata e sono stati intercettori del loro popolo davanti al vivente, che vive per secoli e secoli e ha nelle sue mani le chiavi della morte e della vita".
Gesuita, collaboratore di romero, Rutilio Grande Garcia fu ammazzato anch’egli dagli squadroni della morte nel 1977. La sua causa di beatificazione è stata aperta nei mesi scorsi in Salvador.
* la Repubblica, 30 ottobre 2015 (ripresa parziale),
L’alternativa si chiama Gesù
di Vittorio Cristelli (vita trentina, 13 febbraio 2011)
È in atto in questi giorni a Dakar, capitale del Senegal, il Forum Sociale Mondiale e dentro lo stesso (non più collaterale come in passato) il Forum Mondiale di Teologia e Liberazione, animato da ben novanta teologi (uomini e donne) di tutto il mondo. Siamo in un momento cruciale perché la crisi non è solo quella economica ma è pure culturale e religiosa. Si tratta di individuare un’alternativa all’egemonia neoliberista che si sta rivelando fallimentare e tanti disastri ha provocato e provoca. In crisi sono anche le religioni, specie di fronte al multiculturalismo di fatto che le interpella.
E si impone grande, epocale la domanda: di quale anima ha bisogno il mondo per vivere in maniera più degna e con maggiore speranza? In tutti i campi si è in affannosa ricerca di sistemi diversi, di vie nuove per uscire dall’impasse in cui è piombato il mondo occidentale. Anche le religioni si trovano in difficoltà sia perché non più ascoltate come maestre di vita, sia per la varietà culturale, etnica e di visioni del mondo che le interpellano.
Il teologo Josè Antonio Pagola presenta come risposta la figura di Gesù, ma non quello accaparrato dalle religioni cristiane, bensì il Gesù considerato "patrimonio dell’umanità". Dice Pagola che oggi ci sono persone che non sono neppure credenti, ma che affermano: "Gesù non appartiene solo ai cristiani". Altre dicono: "Gesù è senza dubbio il meglio che la storia ha offerto e sarebbe una tragedia se un giorno l’umanità lo dimenticasse". E ancora: "Gesù ha inaugurato non solo una nuova religione, ma una nuova era’. E qual è il progetto di Gesù? Si chiama "’Regno di Dio".
A questo punto mi urge un ricordo personale. Eravamo nell’"Anno dello Spirito Santo", proclamato da Papa Wojtyla in preparazione al Giubileo del 2000. In una conferenza ai consigli pastorali di Trento mi son permesso di dire che la Chiesa è penultima rispetto al Regno di Dio da realizzare già su questa terra. Ci fu una reazione vivacissima e qualcuno chiamò in causa La stessa Curia perché intervenisse a precisare e confutare l’eresia". Io consegnai la mia conferenza scritta ed ebbi la soddisfazione di sentirmi dire dal teologo e biblista incaricato di verificare, che non solo la Chiesa è penultima, ma anche Gesù Cristo è penultimo rispetto al Regno di Dio. Lui stesso infatti è venuto per portare e realizzare sulla terra il Regno di Dio.
Il teologo Pagola argomenta che oggi tutti i ricercatori pensano che il Regno di Dio sia stato "la vera passione di Gesù, il nucleo e il cuore del suo messaggio”. E soggiunge che fu pure la ragione per cui è stato condannato a morte. Tornando all’oggi, sentenzia: "Il Regno di Dio è l’alternativa di Gesù".
Ma quali sono le caratteristiche costitutive di questo Regno? La prima è la compassione come principio di azione e l’unico modo per somigliare a Dio. La seconda è la dignità degli ultimi da prendere come meta dell’agire. La terza è l’azione terapeutica come programma. E applica Pagola: "Quando si lotta contro la sofferenza, quando si allevia il dolore, quando si offre una vita più sana, lì sta operando il Regno di Dio".
E infine il perdono come orizzonte. Cioè l’amicizia, l’accoglienza verso tutti, anche quelli che ignorano Dio o lo rifiutano. Il teologo conclude rilevando che le religioni sono in crisi, ma Gesù no, anzi, interessa più che mai. E ammonisce i cristiani dicendo: "Siamo distratti da molte cose, squalificandoci e condannandoci gli uni gli altri all’interno della stessa Chiesa senza ascoltare Gesù’. Che ci suggerisce l’alternativa a questo mondo in crisi.
Sarà un nuovo cristocentrismo, ma che si traduce in cosmocentrismo, quello che il summit teologico di Dakar si propone per rispondere alla globalizzazione.
Addio a Ruitz, il “Cristo” del Chiapas evangelizzato dagli indigeni
di Maurizio Chierici (il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2011)
È morto Samuel Ruitz, vescovo del Chiapas negli anni inquieti. Non è stato ucciso sull’altare, come Romero, ma hanno provato tante volte mentre il Vaticano guardava. E dall’ Italia Comunione e Liberazione promuoveva nella sua San Cristobal de Las Casas, convegni di ragazzi ai quali si illustrava non benevolmente gli adattamenti teologici di Ruitz alla cultura indiana. Aveva 85 anni, ‘in esilio’ attorno a Città del Messico con l’impegno di ‘non disturbare’ i vescovi che ne avevano preso il posto.
Era arrivato nel Chiapas nel 1960, conservatore di famiglia agiata. L’insegnamento del Concilio gli aveva insegnato l’umiltà indispensabile a penetrare il mondo indigeno. Missione complicata dalla necessità di “difendere i contadini dall’egoismo di chi continuava a sfruttarne terre e lavoro”. Per un momento si confonde tra i potenti. 12 mila militari presidiano il Chiapas per tutelare gli espropri decisi a Città del Messico in favore di funzionari che l’età o le disavventure politiche costringono a farsi da parte. Lo Stato federale li sistema riunendo piccole proprietà di piccoli contadini costretti ad impoverire tacendo. “Nei primi viaggi pastorali - racconta in un incontro Ruitz - dormivo in belle case, letti morbidi: i latifondisti sapevano essere gentili. E organizzavano feste dove incontravo notabili e mandarini di stato. Poi ho scoperto che le vivande venivano comprate coi soldi dei contadini obbligati a pagare per onorare il pastore. E ho deciso di passare la notte nelle loro baracche. Quante cose si imparano. A fare domande anziché distribuire risposte. Capire prima di spiegare. A poco a poco la mia cultura è penetrata nella cultura Maya ed anche il mio modo di essere vescovo si è aggiornato. I principi della dottrina restano saldi, ma il modo di leggere assieme le scritture ha trovato intonazioni diverse. Ero venuto per evangelizzare l’indifferenza indigena e dagli indigeni sono stato evangelizzato”. Diversità che il Concilio aveva suggerito eppure scandalizzava i custodi della tradizione.
Quando arriva nel Chiapas, Ruitz è un principe della chiesa nel firmamento dei potenti. Quando se ne va è diventato Tatic Samuel, onore indios che non piace al nunzio monsignor Prigione. Non piace ai grandi proprietari che assediano armati la cattedrale accusandolo di difendere “oltre ogni limite i contadini”. Spari e violenze: la polizia guarda con pigrizia mentre a Città del Messico i giornalisti vanno a trovare l’ambasciatore del Papa. “Perché il governo non difende questo vescovo? Perché lei non protesta?”. “È un problema interno messicano. Non posso far niente”. “L’Osservatore Romano, giornale del Vaticano, scrive che sfida il martirio come il vescovo Romero”. “L’Osservatore Romano non è la voce del Papa, solo un foglio cattolico”.
Nel 1999 compie 75 anni e presenta le dimissioni dovute aggiungendo il desiderio di restare nel Chiapas per non abbandonare “l’esperienza straordinaria che ha rallegrato il mio spirito ed aperto la mia carità”. Non vorrebbe lasciare gli 8 mila gruppi catechisti nei quali ha modulato la dottrina della Chiesa nella cultura indigena. Ottomila, un esercito, proprio la parola che spaventa le autorità infastidite dall’ombra del subcomandante Marcos il quale pacificamente si mescola a loro. Ruitz lascia un Chiapas cambiato: “La gente ha imparato a confrontare, villaggio per villaggio, lo spirito del vangelo e i dolori della vita”. Una domenica, alla fine dell’omelia, legge la rinuncia spedita al Vaticano. Si illude venga respinta ma sa che i consigli del nunzio Prigione non gli sono favorevoli: “Non cambierà nulla anche se non sarò in mezzo a voi. Raul Vera prenderà il mio posto ed è una fortuna perché da vent’anni condivide questa esperienza”. E Raul Vera diventa vescovo di San Bartolomeo.
Una beffa: dopo 8 mesi lo trasferiscono in una provincia lontana, lungo il confine con gli Stati Uniti. Il nuovo pastore scioglie gli 8 mila gruppi di catechisti, normalizzazione che fa respirare militari e proprietari. Adesso, il cordoglio di Calderon, presidente del Messico: “Se ne è andato ungrand’uomo. Merito della sua mediazione se il Chiapas è stato pacificato”. Tardi. Ma meglio tardi che mai.
In ginocchio da Tatic. Un ricordo di Ruiz
di Gianluca Carmosino (Comune Info, 16 febbraio 2016)
Acteal, 22 dicembre 1997. Un commando paramilitare fa irruzione nella comunità indigena Tzotziles, durante un incontro di preghiera. Quarantacinque persone, in maggioranza donne e bambini, sono massacrate a colpi di fucile. La notizia fa il giro del mondo, riproponendo all’attenzione internazionale la questione dei diritti umani in Chiapas (Messico). Il vescovo di questa regione, situata al confine con il Guatemala, all’epoca era ancora Samuel Garcìa Ruiz. Dal 3 novembre 1999, quando ha compiuto settantacinque anni (l’articolo è stato scritto nel marzo 2001, ndr), si è dimesso per raggiunti limiti d’età. “I miei fedeli mi hanno avvisato, non credere che adesso che sei in pensione lavorerai di meno - mi dice sorridendo - Noi ti affidiamo la bandiera della nostra dignità. Tu continua a difenderla”.
Al suo posto, stranamente, oggi non c’è Raùl Vera Lòpez, il successore designato dalla Santa Sede nel 1995. È stato sostituito dopo pochi mesi dalle dimissioni di Ruiz. Ufficialmente per “errori in campo teologico, visione riduttiva della pastorale”. Più probabilmente perché, in quel breve periodo in cui è stato vescovo, Vera Lòpez ha confermato l’impegno pastorale e sociale portato aventi in quarant’anni dal suo predecessore.
L’amicizia con Romero
Ma che vescovo è stato in realtà Samuel Ruiz? Per capirlo, può essere utile sapere perché in questi giorni di fine marzo è a Roma. “Sono qui per celebrare il ventunesimo anniversario della morte di Oscar Arnulfo Romero“, mi dice quando ci incontriamo nel convento di Santa Sabina, sull’Aventino, in una splendida giornata primaverile. Romero è stato ucciso dal regime militare perché difendeva gli ultimi. In realtà, la prima vera celebrazione di Ruiz per la morte del vescovo salvadoregno è stata quella del 1980, quando don Samuel decise di partecipare al funerale di Romero pur sapendo di rischiare la vita.
I suoi fedeli, eredi della civiltà maya, lo chiamano tatic, che vuol dire “padre nello spirito”. Eppure, l’uomo che ho di fronte tutto sembrerebbe, tranne che un “grande padre della chiesa”. Un uomo minuto, dal passo lento e con una strana borsa colorata al collo (un regalo dei suoi fedeli indigeni), ben lontano dall’immagine stereotipata di vescovo.
L’autorevolezza e l’affetto di cui monsignor Ruiz gode tra le comunità indigene, ma anche tra migliaia di persone in tutto il mondo, sono il frutto di un cammino iniziato negli anni del Concilio Vaticano II e dell’Assemblea dell’episcopato latinoamericano di Medellín (1968). Da allora “l’opzione preferenziale per i poveri” è diventata la chiave della sua pastorale e di quella di altri vescovi, come Romero.
L’opzione per i poveri
Nel Chiapas, Ruiz ha sempre scelto la difesa dei diritti dei più deboli, degli emarginati. Per questo è stato più volte attaccato dal governo, dall’aristocrazia terriera e anche da alcuni ambienti ecclesiastici.
Nel 1970, in qualità di presidente del Centro episcopale nazionale di pastorale indigena (Cenapi), promosse un incontro atipico, il cui obiettivo dichiarato era ascoltare gli indigeni, e non insegnare loro qualcosa. Titolo del seminario: “Indigeni in polemica con la chiesa”.
Nel ’74, il 150° anniversario dell’incorporazione del Chiapas nel Messico coincise con il 500° presunto anniversario della nascita del primo vero difensore dei diritti dei popoli indigeni, il domenicano spagnolo Bartolomé de Las Casas. A lui, nel 1989, Ruiz ha intestato il Centro per i diritti umani (nel cui sito è possibile trovare il lungo elenco delle stragi impunite compiute nel suo paese), costituendo una rete tra i gruppi di contadini che vivono nella sua diocesi. Per festeggiare i due anniversari, il governatore del Chiapas organizzò un congresso convocando storici di fama mondiale. Don Samuel, interpellato in quanto successore di Bartolomé de Las Casas, impose al governo non solo di estendere l’invito agli indigeni, ma anche di sostituire lo spagnolo, lingua ufficiale del congresso, con le lingue di quattro etnie indigene. Non contento, fissò anche i temi principali del congresso: terra, commercio, educazione e salute. “Se dovessi organizzare oggi un evento analogo a quello del ’74 - mi dice - il tema centrale sarebbe ancora quello della terra. I popoli indigeni sono privati, in tutta l’America Latina, del loro habitat, dello spazio necessario per vivere secondo le proprie credenze, che sono fortemente comunitarie. Pochi mesi fa, in seguito a una delle numerose carneficine compiute in Chiapas, in cui morirono decine di indigeni, i rappresentanti della loro comunità mi hanno chiesto di seppellirli insieme, in una tomba comune. Per affermare l’identità comunitaria anche dopo la morte. Lo scontro attuale, infatti, è tra lo spirito comunitario indigeno, che chiede la terra per realizzarsi, e il capitalismo individualista degli sfruttatori, che toglie la terra e, di fronte alle differenze culturali, si dimostra solo capace di omologare e opprimere”.
Mediatore tra Stato e Ezln
Negli anni Ottanta si schiera sempre apertamente in difesa delle popolazioni indigene. Sono gli anni in cui in Messico (che, nel 1982, fu il primo paese a dichiarare che non avrebbe potuto onorare i suoi debiti esteri) si consolida il dominio delle aziende statunitensi nello sfruttamento delle risorse, e uno sfacciato processo di privatizzazione secondo i dettami del Fondo monetario internazionale. Sono anche gli anni che vedono nascere il North american free trade agreement (Nafta), l’accordo di libero scambio commerciale deciso dagli Stati Uniti, sotto la spinta delle grandi imprese multinazionali.
Contemporaneamente, cresce la repressione nei confronti dell’Esercito di liberazione nazionale zapatista (Ezln) da parte del governo. Ruiz accetta di presiedere la Commissione nazionale di intermediazione (Conai). Nel ’95 riesce a ottenere un accordo di pace tra le parti, ma non la smilitarizzazione dei territori. Il ’97 è l’anno della strage di Acteal. L’anno successivo, quando il governo si oppone all’apertura dei negoziati di pace alla società civile, la Conai si ritira dalla mediazione. Appare chiaro che il silenzio delle autorità su molte stragi e la repressione della resistenza zapatista sottendono una strategia, quella di allontanare alcune comunità dalle proprie terre, per dare il via libero allo sfruttamento delle ingenti ricchezze della regione.
La rivolta indigena
Ma il seme gettato da Ruiz sembra ora portare i primi frutti. Quello che ha sempre caratterizzato lo zapatismo difeso dal vescovo è, infatti, l’essere “una rivoluzione pacifica che non aspira al potere ma al dialogo e al riconoscimento dell’identità indigena da parte dei governi. Oggi, in tutto il continente, i popoli indigeni stanno prendendo coscienza del loro essere soggetti della propria storia. Esprimono, con una forza mai vista in passato, la volontà di essere riconosciuti nella propria identità culturale, di dialogare con i governi in qualità di interlocutori per creare una vera democrazia, plurietnica, rispettosa delle leggi comunitarie e dei costumi delle loro tradizioni”.
Che cosa ha condotto a questo risveglio dell’America Latina? “Quando il dolore raggiunge una certa soglia, non puoi che reagire. Questi popoli sono oppressi dai tempi della ‘conquista’, e hanno oggi la volontà e la possibilità di cambiare finalmente la propria storia. Le conseguenze di queste mobilitazioni non sono al momento prevedibili, ma saranno comunque rilevanti anche per i paesi industrializzati”. Quando gli chiedono se è rimasto contento della ventata di cambiamento giunta con il nuovo presidente messicano Vincente Fox, l’espressione del suo volto e il tono della voce cambiano. Dietro gli occhiali spessi, lo sguardo si fa più intenso. “L’elezione di Fox, cioè di un ex dirigente della Coca Cola, rappresenta un cambiamento solo in quanto ha posto fine al potere del Partito rivoluzionario istituzionale dopo settant’anni di corruzione e ingiustizie. Non sarà mai solo la politica a trasformare radicalmente una società. La vera novità oggi consiste nel risveglio della società civile e dei popoli indigeni. Che hanno l’opportunità di svolgere direttamente un ruolo attivo nell’ingresso del paese in una democrazia autentica. Sfatando il luogo comune che il Chiapas sia solo Marcos - il leader dell’Ezln, che proprio nei in giorni in cui incontriamo Ruiz ha aperto una nuova trattativa con il governo, per far approvare una legge di tutela delle popolazioni indigene - e Ruiz. Non ho la sfera di cristallo, ma le notizie di questi giorni sono un segnale positivo per l’approvazione in parlamento di una legge in favore di tutte le comunità indigene. La mia speranza è che, pur con qualche modifica, non vada incontro a un rifiuto. Sarebbe antistorico”.
Riflessione
Lettera aperta a Ratzinger
di Fausto Marinetti
Date: 05 Jun 2007 *
20.5.2007
Caro Papa,
sono uno di quei milioni di senza tetto, senza terra, senza dignità, senza lavoro, senza salute, senza riso e fagioli, che sovrabbondano nel “paese della speranza”. Ma tu lo sai che l’America Latina non è “Alice nel paese delle meraviglie”? Ci andavamo un po’ stretti nei 12 discorsi scritti di tuo pugno, in occasione della V Conferenza dei nostri vescovi ad Aparecida. Non averne a male, noi non li leggeremo mai! Tu parli per i colti, i teologi, i professionisti del pensiero. Noi siamo “professionisti della sopravvivenza”, dell’arte di “ingannare la morte ingiusta e prematura”. Sei venuto come capo di Stato, tu, seguace di Uno che non aveva neppure dove posare il capo.
Capo di Stato? Ma non siamo noi, vittime, derelitti, aidetici, ubriaconi, meninos de rua, il tuo “Stato”, l’unico che ti spetta, l’unico possibile per chi si fa chiamare “padre di tutti”? Sì, certo, hai parlato anche “di noi”, non “con noi”. Per compatirci, per farci l’elemosina, per dire ai “buoni” di usarci per accumulare beni per il cielo... Basta! Non ne vogliamo più sapere di briciole umilianti, non siamo della stessa “pasta” di quel Cristo tu adori nell’ostensorio? Trattaci, allora, come se fossimo il Suo ostensorio, almeno.
Non sei venuto “per noi”, ma per i pastori. Va bene. Invece di tante chiacchiere, perché non gli hai dato un esempio concreto, come faceva quel pastore, che è venuto per cercare i malati, i perduti, gli smarriti, i disperati, i non-esistenti, perché nulla-tenenti? Chi cercava il Cristo? Forse i sommi sacerdoti, gli impresari, i capi di Stato, i benefattori?
Sei venuto, come sempre, a portare, a dare, a distribuire: dottrina, tanta dottrina; precetti morali, tanti precetti morali; teologia, tanta teologia. Che ce ne facciamo di questo ben di Dio, tutto asettico, tutto astratto, quando a noi basta un piatto di riso e fagioli? Se Dio è il tuo “tutto”, sappi che, per noi, il “tutto” è un piattino di cibo! Se non riusciamo neppure ad essere uomini, come faremo ad essere cristiani? Ce lo saprà dire chi si presenta alla storia con il “carisma dell’infallibilità”? Tu sei preoccupato per la perdita dei fedeli, che disertano i tuoi templi troppo seri, troppo ingessati, troppo ingombrati di catechismi, teologie euro-centriche, canonizzazioni, spiritualità disincarnata, ecc. Non te ne avvedi che non c’è più spazio per noi? Noi, latino-americani, nasciamo nella culla della musica e della danza. Vai in una favela: non trovi un’aspirina, ma ad ogni angolo c’è un bar con musica a tutto volume. Da noi, musica e danza sovrabbondano, perché non costano nulla. Sai, è il nostro modo di pregare, di ringraziare il cielo. Ma è Lui, il Cielo che ti manda a dire di essere triste quando qualcuno prega, cantando e ballando, a pancia vuota. Lo sai? Musica e danza sono i nostri anestetici. Me l’ha confidato un poveraccio: “Per me, cantare e ballare è uno stratagemma per ingannare la fame”. O è il miracolo della musica, che tu tanto ami?
Lo sai? Un giornalista brasiliano ha osato fare il parallelo tra te e Hitler, in quanto tutti e due puntate su un “popolo guida”: lui sulla razza ariana, tu su quella cristiana, tutta doc! (Nella tua parrocchia italiana andrebbe in galera di filato per vilipendio al Capo dello Stato Vaticano). Ma se per caso ci fosse un briciolo di verità nell’intuizione di quello sfrontato? Non chiami a raccolta i fedelissimi (Opus Dei, CL, Legionari di Cristo, neo-catecumenali, carismatici) per lanciare tutti i giorni la tua crociata contro relativisti, materialisti, edonisti? Non recluti simpatizzanti, lefevriani, integralisti, per “militare” contro abortisti, omosessuali, fautori dell’eutanasia? Non vuoi formare il tuo “popolo-guida”, la cui missione è di salvare il mondo dal male? Ma non l’ha già salvato Cristo? Fondamentalismo, dogmatismo, assolutismo sono così contagiosi che quasi non ce ne accorgiamo di essere infettati.
Ti sei presentato al soglio pontificio con il “Deus caritas est”. Troppo lusso, per noi, sotto-uomini. Scusa tanto, noi siamo ancora in attesa del “Deus justitia est”. Ci basterebbe un Dio che sa fare i conti, che ci insegni a distribuire la torta dei beni del pianeta secondo il numero dei suoi abitanti. Parlare di amore a chi muore di fame non ti pare un po’ troppo amaro, contraddittorio, sarcastico? Perché non hai chiesto conto agli impresari che ti hanno pagato il conto (vitto, alloggio, la casula con 15 km. di filo d’oro, ecc.) quale salario pagano ai loro dipendenti, quale pensione, quali cure mediche? Insomma: se tu stai con loro, come fai a stare con noi? Se benedici loro, come fai a benedire le nostre lacrime, le nostre stigmate, i nostri figli, veri professionisti nell’arte del patire? Si può forse stare con i crocifissi e con i loro crocefissori!
Vedi, noi, “res nullius”, schiavi dei bisogni primari abbiamo un’altra maniera di vedere le cose. Ci rivolgiamo a te, perché a chi si devono rivolgere i “figli” se non al “padre”? Chi li può capire, cioè accogliere, al di là dei relativismi, dei materialismi, che li possono indurre in tentazione di disperazione?
Vedi per noi l’unica cosa “relativa” è proprio la dottrina che, per te, a volte, pare quasi un assoluto. Noi, “figli dell’uomo”, non veniamo prima di ogni dottrina, prima di ogni lotta teologica, prima delle conversioni del riso, prima delle concorrenze tra le varie chiese, perché ci hanno messo su quella croce dalla quale continuiamo a gridare: “Fratelli, dove siete? Non vediamo, non sentiamo il padre, perché non abbiamo fratelli...”.
La nostra fame e la nostra sete (di lavoro, giustizia, pace, salute, ecc.) viene prima di ogni teoria. Sulla dottrina ci potremo scannare, ma dopo, non prima di aver risolto, soddisfatto i diritti umani di tutti. E’ questa la carta d’identità senza della quale non si passa l’esame in umanità (vedi Mt 25). Un dogma dichiarato perfino dai pagani: “Primum vivere, deinde philosophari” e anche teologizzare. Certo, la verità è importante; la dottrina è la sua custode; filosofia e teologia sono le braccia di qualunque “Dio”; Gesù Cristo è l’Uomo che porta a compimento l’uomo e la chiesa è il suo cuore. Su questo non ci piove. Piove invece a dirotto sul fine di tutto questo, noi, uomini, ai quali non è permesso essere uomini. Non siamo eccezioni, ma regola: 840 milioni nel mondo, 205 milioni in America Latina. Ogni due persone che hai incontrato in Brasile, una fa la fame. Perché non lanciare un’alleanza con tutte le religioni, con tutte le ideologie, una specie di patto sull’uomo? Non sarebbe la fine di ogni terrorismo, specie quello più subdolo, quello delle leggi economiche che ci condannano alla fame “legalmente”, come sempre, “secundum legem”?
Famiglia, sessualità, difesa della vita, bioetica, ecc. ecc. tutto è importante, ma se ti preme proprio la “vita dalla concezione al suo esito finale”, non puoi ignorarci, o trattarci come “poverini” che meritano briciole di compassione. Vogliamo dignità, giustizia, ciò che ci spetta per diritto, non per degnazione.
Noi, i crocifissi, vogliamo farti un piccolo regalo, alla portata delle nostre tasche (o della nostra pancia?): ti dedichiamo l’ultimo libro digitale scritto dai nostri difensori (i teologi del terzo mondo): “Bajar de la cruz a los pobres”. Sai ti basta leggere la copertina con un’immagine così significativa che la capiscono anche gli analfabeti, gli indios, i contadini, tutti... Un “uomo qualunque”, tira giù, strappa dalla croce un contadino crocefisso. Perché non l’appendiamo in tutte le chiese, in tutte le banche, in tutti i seminari, su tutti i libri di preghiera, in tutte le case, sul libretto degli assegni dei prelati, preti, religiosi, suore, cristiani del mondo?
Prima di discutere il contenuto, discutiamo sul ritratto: è la fotografia dell’umanità del secolo del consumismo, del lusso, dello sperpero, tutte bestemmie contro l’uomo, prima che contro Dio.
Togliere, staccare, tirar giù dalla croce i popoli del sud del mondo, significa che qualcuno ce li ha messi sulla croce, vero? A noi non interessa “dire la messa” in latino, in ebraico, in cinese... ci interessa che si coniughi le parole più semplici del mondo per celebrare la vita di ognuno di noi: Io mangio, tu mangi, egli, noi, voi, essi mangiano. Non siamo noi la “vostra messa”, noi immolati sull’altare dell’economia globale?
Ti facciamo notare un dettaglio: quei teologi con questa operazione ti lanciano un messaggio: il loro testo è gratuito, “dato” per tutti. Non ti pare che è come la manna in questo deserto della lussuria del lucro ad ogni costo? Non è un esempio eloquente ad un Vaticano, che ha messo il copy right su tutte le tue parole, discorsi, punti e virgole? Una sfida fraterna, una provocazione buona? Qualcosa di più: un esempio da seguire, da proporre a tutti coloro che operano nel campo culturale. Il sudore umano non è riducibile ad un prezzo, non è commerciabile. In attesa di proclamarlo “urbi et orbi” con il timbro dell’ONU, cominciamo con la produzione del pensiero, cioè dell’anima. Che esempio, che schiaffo morale a tutte le dottrine economiche, alle ideologie e alle religioni che hanno tradito l’uomo!
Caro papa, noi ti vogliamo bene, perché anche tu sei un “uomo”, soltanto un uomo come noi. La sera, quando ti togli i paramenti, i paludamenti, la mitria; quando deponi titoli e riconoscimenti; quando si spengono le voci adulatorie e servili che ti chiamano “Sua Santità”, “Santo Padre”, “Servo dei Servi di Dio”, ecc. guardati allo specchio: vedrai, in te, tutti noi. E ci sentirai nel tuo cuore. Sarà il momento della mistica più intensa della tua giornata e noi saremo tutti lì, con te, a fare il tifo per l’uomo, cioè per Cristo, “figlio dell’uomo”, per la sua-nostra fame, sua-nostra sete di umanità.
Grazie.
Dal sito http://www.chiesaincammino.org/
* IL DIALOGO, Giovedì, 07 giugno 2007
IL TEOLOGO JOSÉ CASTILLO LASCIA LA COMPAGNIA DI GESÙ.
PER "IGIENE MENTALE" *
33930. GRANADA-ADISTA. “Mi sento felice, sono in pace, e ho ora più speranze che mai. Continuerò a lavorare al mio compito, il compito del Vangelo. Per questo sono uscito dai gesuiti. Perché vedo che, così come sta oggi la Chiesa, se si è intrappolati, controllati, censurati in una istituzione dominata dalla Curia Vaticana, non si può godere della libertà indispensabile per far conoscere Gesù. In una simile ‘Chiesa’ non c’è salvezza”.
Così si è espresso il teologo spagnolo José María Castillo, 78 anni, dopo la pubblicazione della notizia del suo abbandono della Compagnia di Gesù, in una lettera ai membri del Comitato Oscar Romero del Cile (pubblicata sul sito della rivista cilena “Reflexión y Liberación”), in risposta a un loro messaggio “di solidarietà, di umanità, di fusione in uno stesso progetto e in una stessa vita”. Era stato il portale Periodista digital, in un articolo apparso il 19 maggio, a rendere nota la decisione del teologo - già raggiunto in passato dai provvedimenti del Vaticano (che, nel 1988, gli revocò l’idoneità all’insegnamento) - di lasciare la Compagnia di Gesù (ma non il sacerdozio), “stanco delle pressioni e degli attacchi del settore più conservatore della gerarchia”. “Castillo - affermava nell’articolo il suo amico e teologo Luis Alemán - vuole recuperare la sua libertà per poter respirare, perché stava soffocando. Non tanto nella Compagnia quanto nel clima attuale della Chiesa spagnola, in cui si sente perseguitato dai vescovi e dai gruppi più conservatori”.
Secondo Alemán, “tre gocce hanno fatto traboccare il vaso”: “la recente ammonizione vaticana a Jon Sobrino, la proibizione della gerarchia alla pubblicazione del libro Espiritualidad para insatisfechos da parte della casa editrice Sal Terrae dei gesuiti, e i continui attacchi che riceveva dal programma di informazione religiosa della emittente radiofonica Cope La linterna de la Iglesia”. “Non se ne va - concludeva - irritato contro la Compagnia. Se ne va per igiene mentale. È un nuovo caso Boff. Come lui, Castillo ha subito talmente tante pressioni da decidere di rompere con tutto per salvaguardare la sua libertà”.
All’interno della Compagnia di Gesù, la voce di Castillo è stata sempre una delle più coraggiose e profetiche. Fino a mettere in discussione la credibilità stessa della Compagnia, la sua fedeltà alla missione di difendere la giustizia nel mondo. Come si può vivere - si interrogava nel 2006 sulle pagine di Promotio Iustitiae (la pubblicazione del Segretariato per la Giustizia Sociale della Curia Generalizia dei gesuiti; v. Adista n. 80/06) - ben integrati nel sistema economico dominante e pretendere di essere credibili nell’impegno di “denunciare, mettere in discussione e modificare questo sistema”? “Se i poteri di questo mondo - sottolineava - ci apprezzano e ci valorizzano, ciò vuol dire che tali poteri non si sentono scomodati, né tanto meno messi in discussione da noi”. (claudia fanti)