Sul referendum brasiliano sulle armi - prima e dopo [2005].
di Federico La Sala *
“Su cosa è stato edificato il nuovo mondo? Genocidi e stermini. Chi ha dato il nome a questo nuovo mondo? Un Vespucci ((in verità non lui direttamente, ma ricordiamoci dei ragni e delle formiche di Bacone). Chi ha chiamato così l’Amazzonia? E, chi così il Brasile? A Napoli, sì sempre a Nea-polis, questo nome ricorda la brace, il braciere, persone intorno a un fuoco che riscalda, un cerchio familiare che si apre e accoglie chi ha freddo - non la devastazione e il deserto di chi cieco e folle si mette a distruggere tutto: Edipo con in mano il lancia-fiamme a volontà - Platone, il Tecno-crate. Di fronte alla Foresta gli uomini ciechi e folli di potenza (ma qui si parla anche delle donne-amazzoni) vedono nulla e fanno e ... faranno il Brasile?” (Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani Editore, Roma 1991, pp. 180-181)
Se vogliamo parlare di identità europea, oggi che dovremmo parlare di identità terrestre (siamo le generazioni che hanno visto e vedono la Terra dalla Luna, e dallo Spazio!!!), parliamone con più ampiezza, profondità, e altezza: reinterroghiamo il mito, antropologicamente!!!
Se ci muoviamo così, non è solo da “Europa” che dobbiamo partire, ma da chi l’ha rapita - da “Zeus” e da chi era “Zeus”. Così ci avvicinamo a Creta, a Minosse, a Pasifae, al Minotauro, al Labirinto, a Dedalo, Icaro, ad Arianna e Teseo, ecc. ecc. e arriviamo a Troia, a Omero, a Ulisse e ad Atena e ... Atene! Il problema è quello delle origini della Polis e del potere, del Potere armato di tecnica e di astuzia (Atena, figlia di Metis) - Zeus! La ‘civiltà’ del Logos armato e astuto: questo è il problema! Allora, forse, capiremo perché “Europa” non è più in Europa... e noi non sappiamo più chi siamo!!!.
La questione è da ‘peccato originale’: Eva è stata ‘rapita’ dal fascino di un serpente, Europa dal fascino di un toro. Tutte e due le ‘storie’ dicono del cadere in tentazione, della madre di tutti i viventi e della madre di tutti gli europei, tra le braccia di un ‘dio’ ingannatore, camuffato da animale - e l’obiettivo di tutti e due è negare e togliere “Dio” dal centro della vita sociale e politica degli esseri umani: così per il ‘serpente’, così per Zeus che, con l’aiuto della madre, aveva spodestato Chronos, che a sua volta aveva evirato e spodestato Urano - il Cielo.
Ora di che c’è da meravigliarsi, se (come figli e figlie di Europa) ci troviamo schiavi e senza parole in questo mondo dove regna l’armonia degli opposti e polemos è il padre di tutte le cose?! Di cosa ci si lamenta?! Che si vuole?! Zeus non abita più da noi, e nemmeno Europa: noi ‘europei’ non abbiamo più il fascino del ‘toro’ e nemmeno del ‘serpente’.... e nemmeno la bellezza di Europa.
Siamo diventati vecchi, e la nostra ‘bella’ Europa, insieme con i nostri “cervelli”, se ne è andata via!!! Europa, oggi, è stata di nuovo ‘rapita’, e vive (almeno per il momento!!!) a Washington.... Dobbiamo prenderne atto: non siamo più né Zeus né Europa!!! Zeus seduce continuamente la ‘nostra’ bella Europa e la ‘nostra’ bella Europa cade continuamente in estasi - rapita dal toro o dal serpente del momento. E “il giogo della Necessità” continua: che ‘bello’!!!
Quando eravamo giovani e forti, qualcuno ci ha detto che “chi di spada ferisce, di spada perisce”, ma nessuno l’ha voluto né ascoltare né capire. Eravamo tutti degli Zeus, a giocare il logos dell’eros e della guerra.... a caccia di ‘Europee’ da rapire. E, ora, di che ci lamentiamo? Cosa vogliamo? Diventare di nuovo Zeus o di nuovo Europa che Zeus viene a rapire? Boh e bah!? Non abbiamo imparato nulla? Che aspettiamo ancora?! Un altro “Zeus”?! Cosa aveva detto e ricordato Leopardi all’inizio della Ginestra? Non l’abbiamo capito e l’abbiamo dimenticato.... non sappiamo più né cosa è luce, né da dove viene la luce. Preferiamo il buio, e così continuiamo a dormire e a sognare sempre gli stessi sogni.
Che fare? Forse resta ancora un po’ di tempo: possiamo ritornare al di là delle origini e ... ri-nascere, in un libero mare e in un cielo puro!!! Solo il lieto-evento può portarci fuori dal tempo della tragedia (e del latinorum dei don Abbondio di tutti i tempi) - e, finalmente, ri-portarci la bella-notizia e nel tempo della Commedia e del parlar volgare di Dante, come di Francesco, come di Gioacchino da Fiore, ... come di tutti gli altri esseri umani di buona volontà del Pianeta Terra: non c’è nessun dio che ci può salvare, se non l’Amore - il Dio dei nostri padri (‘Giuseppe’) e delle nostre madri (‘Maria’). A partire da sé, e con i nostri ‘padri’ e con le nostre ‘madri’, cerchiamo di ri-nascere bene - e di non-morire, per sempre, con l’intera Terra!(Federico La Sala, www.ildialogo.org./editoriali, 22.10.2005)
****
“Lula, dopo la vittoria nelle elezioni presidenziali del 2002, aveva detto che per una volta «la speranza aveva vinto la paura». Domenica, tre anni dopo, è stata ancora una volta la paura a vincere sulla speranza. Non solo sulle armi da fuoco” (cfr. Maurizio Matteuzzi, “La libertà e la speranza. Le armi in Brasile”, il manifesto, 25.10.2005, p. 1). Il risultato è stato: 64% no, 34% sì.
Ma, nonostante questo, si continua a non capire: come Edipo, siamo diventati ciechi, ciechi psichicamente! Intanto peste e devastazione avanzano dappertutto - su tutta la Terra, come avanza la distruzione finale dell’ultima grande foresta, quella amazzonica. Il Brasile non è l’ ‘altro’ mondo, è il nostro stesso mondo allo specchio e non lo vogliamo né lo sappiamo riconoscere. Non abbiamo ancora capito - e continuiamo a non voler capire!
All’inizio, e su tutta la Terra, gli esseri umani sapevano, sapevano che cosa facevano, e che cosa dicevano! La foresta era la foresta, il deserto il deserto, e sia dall’una sia dall’altra, sapevano trarre energie per vivere, vivere - né morire né distruggere tutto. La foresta, come il deserto o la montagna e il mare, era la loro maestra e palestra di vita e di libertà (dopo millenni, J. J. Rousseau - il primo grande maestro del sospetto - aveva cominciato a capire!). Ed Europa non significava quello che si è voluto che significasse: tramonto, notte, occidente ... e morte!!!
In origine il nome “Europa” designò un territorio ristretto, forse la regione a nord dell’Egeo; in seguito i geografi indicarono con questo nome tutte le terre a nord del Mediterraneo. E, se ci fidiamo delle parole greche, significava e indicava un “buon” (gr.: “Eu”) luogo dove si poteva “far fascine”, “far legna” (gr.: “ropeuo”). Lì, i greci impararono a ‘orientarsi’ e a ‘leggere’: a ‘scegliere’, a ‘raccogliere’, a ‘legare’ e a ‘collegare’, cioè a “far legna”, e a “far fasci” ... ma non di tutte le erbe, né di tutta la legna!!!
Impararono, e impararono presto, divennero saggi (sofòi) e, infine, molto, troppo saggi (sofisti) ... e fu l’inizio della fine!. Nietzsche, che ha tentato di chiarire l’enigma, qualcosa aveva capito: se è vero che “la grecità fu la prima grande unificazione e sintesi di tutto il mondo orientale e appunto perciò l’inizio dell’anima europea, la scoperta del nostro ‘mondo nuovo’”, è anche vero che il “nuovo mondo” che abbiamo costruito dimostra quanto presto abbiamo dimenticato la ‘lezione’ delle foreste, dei mari, dei deserti, e dei fiumi e delle montagne!!!
Così Eu-ropa ed Eu-angelo hanno finito per condividere lo stesso ‘destino’ di cecità e di morte, e una sola parola: la volontà di potenza ha finito per accecare l’una e l’altro - e tutti e tutte abbiamo cancellato il “ben” (“eu”) dall’intelletto e dalle nostre Parole!!! E abbiamo esportato solo e sempre e ancora ..... ‘Fascismo’, e ‘Van-gelo’!!! Questo il nostro Logos?! Questo Logos era all’inizio?! Non scherziamo col fuoco: In principio era Eu-ropa.... ed Eu-angelo. Non dimentichiamolo! Sappiamo distinguere e dire quale Logos era in principio?! O no ... o non più?! (Federico La Sala, www.ildialogo.org/editoriali, 30.10.2005).
* www.ildialogo.org/filosofia, Lunedì, 3o ottobre 2005.
![]() MONETA DELL’ANTICA ATENE. La dea Atena con la civetta e il ramoscello di ulivo. |
MONETA DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
FLS
L’EUROPA E LE MITOLOGIE "COSTANTINIANE" (NICEA 325 - 2025): STORIA, ARTE, E STORIOGRAFIA...
IL RINASCIMENTO E LA MITOLOGIA DI "COME NASCONO I BAMBINI": "DOTTA IGNORANZA" (Cusano, 1440), CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453) E "DE PACE FIDEI" (Niccolò Cusano, 1453).
LA BATTAGLIA DI LEPANTO (1572-1573) FU UNA "VITTORIA DI PIRRO":
CON LA MANCATA RISOLUZIONE DELLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA (E CRISTOLOGICA) NON A CASO LA SPAGNA E LA "CATTOLICISSIMA" CHIESA" APRONO ALLA GUERRA CONTRO EBREI E CONTRO MUSULMANI (GRANADA, 1492), CONTRO LUTERO E LA RIFORMA PROTESTANTE (1517) E CONTRO LA RIFORMA ANGLICANA (1534), E PORTERANNO CON L’INVINCIBILE ARMATA L’ATTACCO ALLA GRAN BRETAGNA (1588) DI ELISABETTA I.
L’Europa "cattolica" comincia a portare la "pace" e a fare il "deserto" dappertutto, e a buttare le basi per una "generica" devastazione e una distruzione globale.
HEGELISMO, PLATONISMO, FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA)*
"MENSCHWERDUNG" ("DIVENTARE UN ESSERE UMANO"). "Dio è amore" ("Deus charitas est"), condivido (è una questione di "h": "Charitas", gr. "Xapitas"). Hegel ha messo il dito nella piaga: "La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’#amore ["ein Spielen der Liebe"] con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio ["Arbeit"] del negativo" ("Fenomenologia dello Spirito", §19).
A ben "orientarsi nel pensiero" (Kant) e, al contempo, nel sollecitare una ri-considerazione unitaria della "Prefazione" ("Vorrede") della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel e la figura della profetessa di Mantinea, Diotima, a mio parere, emerge chiaramente il #nodo antropologico di fronte a cui Hegel si è trovato e che ha sciolto in modalità tragica, edipica e paolina, con tutta la "socratica" potenza di un #Napoleone (Alessandro Magno); non con lo spirito del #Logos (di Eraclito e dell’evangelista Giovanni) né della #Giustizia di Parmenide, egli ruba "alla #Platone" l’anima a Diotima ("Simposio") e ripropone una demiurgica e demogorgonica #cosmoteandria t(al)ebana: "[...] che il vero sia effettuale solo come sistema o che la sostanza sia essenzialmente soggetto ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’#assoluto come #spirito - elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua #religione" (Fenom. d. spir., § 22).
A che gioco giochiamo, a che giogo vogliamo continuare a giocare? Non è meglio, forse, riprendere il filo proprio da Diotima e, con Dante Alighieri ("Due Soli") e portarsi fuori dalla tragedia dei "Tempi moderni" (Charlie Chaplin)?
P. S. 1 - «Senza Hegel non sarebbe stato possibile neppure Darwin, afferma Nietzsche, e l’avrebbe potuto dire anche di se stesso; infatti chi si ammali una volta di hegelite - così mordacemente si era espresso un decennio prima - non ne guarirà mai del tutto. E che cosa sarebbe la critica alla religione di Fuerbach e di Marx, o anche quella odierna di Ernst Bloch e Georg Lukács senza Hegel?» (Hans Küng, "Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia", Queriniana, 1972).
P. S. 2 - EUROPA: CRISTIANESIMO CATTOLICESIMO COSTITUZIONE E SPIRITO DI ASSISI (1986). Quando Benedetto Croce pubblicò il suo «Perché non possiamo non dirci "cristiani"» (1942), don Giuseppe De Luca ’confessò’ al Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai: si è "rincristianito per dispetto". Come concordato...!!!
*
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA.
UN PIANETA TERRA DA RIPENSARE E UN IMMAGINARIO DA RISTRUTTURARE: PENSARE L’ EDIPO COMPLETO (S. FREUD). UNA QUESTIONE DI ILLUMINAZIONE (E DI ILLUMINISMO KANTIANO): "NOI ALUNNI DEL SOLE". In memoria di Italo Calvino.
Appunti su un tema del "genere" (il Sole, l’astro del cielo, un dio o una dea?):
A) IL SOLE ("DIE SONNE") DI ZARATHUSTRA (NIETZSCHE):
"Quand’ebbe compiuto il trentesimo anno, Zarathustra lasciò la sua patria e il lago natìo, e si recò su la montagna. Là per dieci anni gioì, senza stancarsene, del suo spirito e della sua solitudine.
Ma al fine il suo cuore si mutò; e un mattino egli si levò con l’aurora, s’avanzò verso il sole e così gli disse:
«Oh grande astro! Che sarebbe della tua felicità, se tu non avessi a chi splendere?
Per dieci anni tu sei venuto alla mia caverna: ti saresti recato a noja la tua luce e il tuo cammino senza di me e del mio serpente.
Ma noi ti attendevamo tutte le mattine, tu ci davi il tuo superfluo e ne avevi ricambio di benedizioni." ("Così parlò #Zarathustra/Parte prima/Prefazione");
B) MITOLOGIA NORRENA ("EDDA DI SNORRI"). LA SIGNORA DEL SOLE ("FRAU SUNNE"):
"Sól era, nella mitologia norrena, la dea del Sole, figlia di Mundilfœri e moglie di Glenr.
Ogni giorno, Sól guida attraverso il cielo il suo carro, tirato da due cavalli, Árvakr e Alsviðr.
Così se ne parla nel Gylfaginning, la prima parte dell’Edda in prosa basso-medievale di Snorri Sturluson (circa 1220 d.C.) [...]
Sól era chiamata anche Sunna e Sunne, e inoltre Frau Sunne (Signora del Sole) [...]" (Sól);
C) AMATERASU ("LA DEA DEL SOLE"):
"Amaterasu-ō-mi-kami (天照大御神 lett. "Grande dea che splende nei cieli"?), generalmente abbreviato in Amaterasu, è la dea del Sole nello shintoismo giapponese. È considerata la mitica antenata diretta della famiglia imperiale giapponese.
Amaterasu è comunemente indicata come di genere femminile, nonostante il Kojiki, il più antico documento scritto della storia nipponica, dia pochi indizi riguardo al suo genere [...]" (Amaterasu);
D) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PSICOANALISI. L’ESISTENZA DEL "COMPLESSO EDIPICO COMPLETO" (S. FREUD, 1923);
"[...] Vedere il caso del Giappone - nella cultura giapponese c’è la Dea in cielo, e l’imperatore sulla terra; ora-oggi!!!, dal momento che alla coppia imperiale è nata una bambina, si parla di cambiare la Costituzione per far sì che Lei possa accedere al trono ... ma il problema è più complesso - come si può ben immaginare - perché ... deve essere cambiata anche la Costituzione celeste dell’Impero del Sol Levante!!! Se no, l’Imperatrice con Chi si ’sposerà’?! Con la Dea?!!
Non è questa forse la ragione nascosta del “disagio della civiltà” dell’Oriente e dell’Occidente ..... e anche della sua fine, se non ci portiamo velocemente fuori da questo orizzonte edipico-capitalistico di peste, di guerra e di morte? [...]" (Costituzione dogmatica della chiesa "cattolica"... e costituzione dell’Impero del Sol Levante).
ANTROPOLOGIA, ARTE, FILOLOGIA, E STORIOGRAFIA.
UNA “SOPRAVVIVENZA” DELLE “DICERIE SACRE” (G. B. MARINO, 1614) IN UN LAVORO IN CRETA DI ANTONO CANOVA (1757-1822). *
RI-LEGGENDO INSIEME LE “DICERIE SACRE” (1614) E IL POEMA “ADONE” (1623) di Giovan Battista Marino E RECUPERANDO (alla luce delle indicazioni date dal “professore con la rosa in mano”) il contesto ideologico del programma umanistico-rinascimentale della “prisca teologia” e della “docta religio”, e, AL CONTEMPO, RIPONENDO ATTENZIONE a un “modello in creta della dea Venere che abbraccia Adone morente”, realizzato da Antonio Canova, forse, non appare ("cum grano salis") ben visibile il filo che lega l’orizzonte storico-culturale di Michelangelo Buonarroti con quello di Giovan Battista Marino, e, infine, gli stessi Carmelitani scalzi di Contursi Terme (Salerno), che affrescano e dedicano (nel 1613) la loro Chiesa della Madonna del Carmine con la figure di 12 Sibille?
Qualche anno più tardi, dopo la morte di ShaKespeare, Cervantes, e Garcilaso El Inca de la Vega nel 1616, prenderà il via la Guerra dei Trentanni e tutti i sogni di una “pace della fede” (Niccolò Cusano, “De pace fidei”, 1453) vanno in fumo.
FILOLOGIA, "STRUMENTI DELLA COMUNICAZIONE" (MARSHALL MCLUHAN), E COSMOTEANDRIA: LOGOS (LINGUA) E CHARITAS (AMORE) ED "ECCE HOMO" (QUESTIONE ANTROPOLOGICA). In memoria di Galileo Galilei e di Ferdinand de Saussure
Una nota* a margine della seguente "biblica" riflessione di Franco Lo Piparo:
*
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ED "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888). Dopo il sussurro "elianico" del CLG ("Corso di Linguistica Generale"), a quanto pare, stentiamo ancora a capire l’alfa e l’omega della parola ("parole") e della lingua ("langue"), e, continuiamo a cadere dalla padella del Vasaio alla brace del Sofista, nella "polifemica" caverna del Mentitore istituzionalizzato (Platone), il "regista" dell’Occidente e dell’intero Pianeta Terra: "Il Dio biblico non è un artigiano (artigiani e artisti erano gli dei creatori del mondo nella mitologia greca) ma un oratore. Crea con la parola."(Franco Lo Piparo).
FISICA, METAFISICA, ED ETICA: NICEA (325 - 2025)?! Dopo la vittoria di Galileo (Keplero: "Vicisti, Galilaee", 1611), il canto alla luna, "alla nuova luna" (Salvatore Quasimodo, 1958 ->Maturità 2023) è, forse, un segnale per cambiare rotta, uscire con Dante dall’inferno, rinascere nell’Infinito (Giacomo Leopardi), e riprendere a comunicare bene, nel giardino terrrestre?!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA: SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO...
Alcune considerazioni a margine di una riflessione sul Simbolo Niceno-costantinopolitano (Nicea, 325) o Credo niceno-costantinopolitano (Symbolum Nicaenum Costantinopolitanum):
UN "COMPROMESSO STORICO" DI LUNGA DURATA: LA TRAGEDIA. La grande instaurazione "olimpica", con le parole di Atena, parla chiara e tondo: «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (Eschilo, Eumenidi).
DIVINA COMMEDIA (DANTE 2021). LA SCOPERTA DEL LAOCOONTE (1506) E LA MEMORIA DI TROIA (VIRGILIO, "ENEIDE"): LA "SACRA FAMIGLIA" ("TONDO DONI"). Michelangelo, con i suoi profeti e le sue sibille, cosa ha indicato a Firenze (1506-1508), come a Roma (nella Volta della Cappella Sistina, 1508-1512)?
RINASCIMENTO, OGGI: "DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE" (1996) ... purtroppo da millenni, si preferisce ’navigare’ nel mare della tragica "dotta ignoranza" (Niccolò Cusano), e seguire ancora la rotta del "sapiente" Bovillus, con la sua "piramide" androcentrica (cfr. Stefano Mancuso - AlessandraViola, "Verde brillante", Giunti 2013, p. 19)!!!
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)?!
COSMOTEANDRIA DEL XXI SECOLO: IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE DELL’UOMO SUPREMO.
PIANETA TERRA:
RIPENSARE COSTANTINO.
DOPO 1700 ANNI DAL PRIMO CONCILIO DI NICEA (325), DI "QUALE" ECUMENISMO, LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E L’INTERA EUROPA (LAICA E RELIGIOSA) VUOLE FARE MEMORIA?
A) - NICEA 325. "Il concilio di Nicea, tenutosi nel 325, è stato il primo concilio ecumenico cristiano. Venne convocato e presieduto dall’imperatore #Costantino I, il quale intendeva ristabilire la pace religiosa e raggiungere l’unità dogmatica, minata da varie dispute, in particolare sull’arianesimo; il suo intento era anche politico, dal momento che i forti contrasti tra i cristiani indebolivano anche la società e, con essa, lo Stato romano. Con queste premesse, il concilio ebbe inizio il 20 maggio del 325. Data la posizione geografica di Nicea, la maggior parte dei vescovi partecipanti proveniva dalla parte orientale dell’Impero. [...]".
B) STORIA #STORIOGRAFIA ED ECUMENISMO: QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E ASSEDIO DI COSTANTINOPOLI (1453). Riprendendo il filo dalla "Dotta Ignoranza" (Niccolò Cusano, 1440), la "Donazione di Costantino" (Lorenzo Valla, 1440), e dalla caduta di Costantinopoli (1453) e il fallimento della proposta "cristologica" del "De pace fidei" (N. Cusano, "La pace della fede", 1453), non è forse tempo di corre ai ripari, di ristrutturare il campo e riequilibrare la bilancia antropologica e teologica?!
C) BILANCIA DELLA COSTITUZIONE, BILANCIA DELL’ETICA, E PACE PERPETUA. Una "foto" per riflettere non solo l’8 marzo 2023, ma anche l’ 8 marzo 2025...
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #InternationalWomensDay #Eleusis2023 #Roma2024
UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA DI "RICAPITOLAZIONE", SECONDO UMANITÀ ("ECCE HOMO"), NON SECONDO VIRILITÀ ("ECCE VIR"), E L’URGENZA DI USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA #COSMOTEANDRIA DELLA TRADIZIONE PLATONICA.
Una nota a margine dell’intervista, di Francesco Antonio Grana, apparsa su "il fatto quotidiano" (12 marzo 2023):
***
MEMORIA E PROFEZIA. Considerando e accogliendo nel suo massimo valore la dichiarazione di Papa Francesco relativa a don Tonino Bello, "Lo si sta riscoprendo oggi. Un profeta!", forse, è cosa buona riconsiderare l’affermazione e mettere l’accento sull’appellativo "un #profeta".
Se non si vuole lasciar cadere il filo, bisogna, a mio parere, tornare, prima, nella Roma del XVI secolo, e poi tornare, nella Città del Vaticano del XXI secolo, nella #CappellaSistina, guardare in alto, e #apriregliocchi alla presenza delle #Sibille e dei #Profeti nella Volta, che camminano insieme nella storia della tradizione ebraica e della tradizione degli altri popoli, e, sulle basi delle indicazioni di #Michelangelo, riprendere il cammino, #oggi.
"LA SACRA FAMIGLIA". Già nel #TondoDoni, senza trascurare la #cornicelignea (con la testa di Cristo in alto, e con ai lati le teste di #due Sibille e due Profeti), è data la chiave di lettura della narrazione nella Volta della Cappella Sistina (sul filo della lezione del #presepe di Francesco d’Assisi e dei "#dueSoli" di #Dante), al di là di ogni #ricapitolazione androcentrica (da "dotta ignoranza" socratico-platonica): Michelangelo, come si sa, è stato anche un grande #anatomista. Che dire? Non è ora di cambiare #paradigma e uscire dall’#infernoepistemologico?! Se non ora, quando?!
#FILOLOGIA E #STORIA. Nella scheda della Galleria degli Uffizi, si scrive che nella cornice lignea sono "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti".
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana" (Federico La Sala, 2008). **
JONATHAN GOTTSCHALL
L’ISTINTO DI NARRARE
COME LE STORIE CI HANNO RESO UMANI
Traduzione di Giuliana Maria Olivero *
L’uomo passa più tempo immerso in un universo di finzione che nel mondo reale. Nessun altro animale dipende dalla narrazione quanto l’essere umano, lo «storytelling animal». Questo strano comportamento, che ci porta a mettere al centro della nostra esistenza cose che non esistono, è innato e antichissimo. -Ma a che scopo? Jonathan Gottschall studia la narrazione da molti punti di vista e si muove tra biologia, psicologia, neuroscienze e letteratura, appoggiandosi alle ricerche più avanzate, ed evoca i tangibili vantaggi del mondo fantastico. Raccontando storie i bambini imparano a gestire i rapporti sociali; con le fantasie a occhi aperti esploriamo mondi alternativi che sarebbe troppo rischioso vivere in prima persona, ma che risulteranno utilissimi nella vita reale; nei romanzi e nei film cementiamo una morale comune che permette alla società di funzionare.
Il potere universale della finzione è probabilmente la nostra caratteristica più distintiva, il segreto del nostro successo evolutivo, ciò che ha reso l’uomo un animale diverso dagli altri, permettendo a lui solo di vivere contemporaneamente molte vite, accumulare esperienze diverse e costruire il proprio mondo con l’incanto dell’invenzione.
* Scheda editoriale: Bollati Boringhieri, 2018 - 13,00 €, 256 PAGINE
JONATHAN GOTTSCHALL
IL LATO OSCURO DELLE STORIE.
COME LO STORYTELLING CEMENTA LE SOCIETÀ E TALVOLTA LE DISTRUGGE
Traduzione di Giuliana Olivero *
L’essere umano è l’animale che racconta storie. Jonathan Gottschall ha usato questa fortunata metafora in L’istinto di narrare, descrivendo magistralmente quell’ecosistema di finzione narrativa nel quale siamo immersi e che caratterizza in maniera così peculiare la nostra specie. Le storie creano la struttura delle nostre società, fanno vivere a ogni persona migliaia di vite, preparano i bambini alla vita adulta e formano i legami che ci consentono di convivere in pace.
Ma tutto questo ha un lato oscuro che non possiamo più ignorare: le storie potrebbero anche essere la causa della nostra distruzione.
Con questo libro Jonathan Gottschall torna sul tema della narrazione con tutto il bagaglio interdisciplinare delle sue conoscenze, attingendo alla psicologia, alla scienza della comunicazione, alle neuroscienze e alla letteratura per raccontarci fino a che punto le storie siano in grado di influenzare il nostro cervello e le nostre vite. E non sempre per il meglio.
La narrazione ha agito nel corso della storia come collante delle società, certo, ma è anche la forza principale che disgrega le comunità: è il metodo più efficace che abbiamo per manipolare il prossimo eludendo il pensiero razionale. Dietro i più grandi mali della civiltà - il disastro ambientale, la demagogia, il rifiuto irrazionale della scienza, le guerre - c’è sempre una storia che confonde le menti. Le nuove tecnologie amplificano gli effetti delle campagne di disinformazione, e le teorie del complotto e le fake news rendono quasi impossibile distinguere i fatti dalla finzione, per cui la domanda che dobbiamo porci urgentemente è: «come potremo salvare il mondo dalle storie?».
* Scheda editoriale: Bollati Boringhieri, 2022 - 24,00 €, 274 PAGINE
**
FILOLOGIA, LETTERATURA E STORIOGRAFIA. OGGI (11 FEBBRAIO 2023).
EUROPA 2023. Nella ricorrenza della giornata della firma dei PATTI LATERANENSI (11 Febbraio 1929), brillante la ripresa da parte del Centro documentazione Piero Delfino Pesce di questo articolo di Luca Mazzocchetti, dedicato a "Quella volta che Leopardi decise di arrabbiarsi ..." ("Terza web", 24 Novembre 2016).
DANTE 2021 E LA #MONARCHIA DEI "DUE SOLI". Al di là della polemica "personale" e "momentanea", nell’epigramma contro Niccolò #Tommaseo dell’agosto del 1836, ("poi però non reso pubblico" e poco conosciuto), nel richiamo al dantesco "Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre...", emerge con forza tutta la tempra eroica di Giacomo Leopardi e la sua consonanza con lo #spirito di #DanteAlighieri critico del potere temporale dei Papi e, anche e ancora, la sua #indignazione contro tutta la sudditanza della intera cultura italiana alla lettura storiografica tradizionale.
Giacomo Leopardi studioso di Dante Alighieri
Tra le pagine dello «Zibaldone» poesia filologica e fraterno incanto
di RITA ITALIANO (La Stampa, 22 Gennaio 2021
In occasione del suo celebrato anniversario si può anche cercare e trovare Dante in uno scrigno tra i più preziosi che il pensiero umano abbia mai offerto, lo «Zibaldone» di Giacomo Leopardi. Basta scorrere le occorrenze del nome di Dante Alighieri in quelle pagine accurate ed emozionanti, per schiudere le porte di un magico regno nel quale il rigore dell’analisi critica viaggia alle altitudini del genio. La lettura data da Giacomo Leopardi si fa poesia filologica, fraterno incanto.
Originalissimo esame che della produzione di Dante registra il carattere, lo stile, la lingua, l’interesse per la filosofia, giungendo sino a cogliere le qualità peculiari de «La Divina Commedia». Scegliendo di soffermarsi attento soprattutto sulla rivoluzione linguistica che in questa è evidente. E illustrando le motivazioni che animarono il suo autore: «ebbe intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si fa manifesto sì dal poema sacro, ch’egli considerava, non come trastullo, ma come impresa di gran momento».
Da tale svolta si avvia la possibilità di definire Dante «quasi il primo scrittore italiano». È infatti proprio il modo del tutto nuovo che egli ha dato al suo operare che ha avuto per conseguenza non dappoco d’essere «propriamente, com’è stato sempre considerato, e per intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana». Inoltre, la disamina di Leopardi giudica che nel lavoro di Dante anche lo stile sia assai meritevole di ammirazione. A questo nodo dedica uno spazio di rilievo.
Con righe illuminanti. Si chiede: «Perché lo stile di Dante è il più forte che mai si possa concepire, e per questa parte il più bello e dilettevole possibile?» La risposta spiega con semplicità: «perché ogni parola presso lui è un’immagine». A Ovidio «bisogna una pagina per farci veder quello che Dante ci fa vedere in una terzina». E se «Ovidio descrive» e «Virgilio dipinge», è solo Dante che «non solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di pennello; non solo dipinge senza descrivere [...] ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le proprie idee, concetti, immagini, sentimenti».
Leopardi si sente forse prossimo a Dante Alighieri, ch’era autore e uomo dal temperamento «grave, passionato, ordinariamente (ai nostri tempi) malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a soffrir grandemente della vita». Una sensibilità difficile e rara, in grado di infondere lo spirito della Storia nel mistero della dottrina. Infatti «il suo poema non è epico, ed è misto di narrativo e di dottrinale, morale». È sapere che diventa sapienza.
Leopardi annota: «Omero e Dante per l’età loro seppero moltissime cose, e più di quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d’oggidì». Ma non basta. È chiaro che per la propria espressione poetica, tessuta alle vette più alte dell’arte compositiva, occorrevano a Dante, combinate e inestricabili, la rivoluzione dello stile e quella della lingua. Di quest’ultima Leopardi attesta l’enorme valore. Perché «Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito nel quasi creare la nostra lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche l’ardire de’ composti» e aveva fatto «espressa professione di non voler restringere la lingua a veruna o città o provincia d’Italia, e per lingua cortigiana l’Alighieri, dichiarandosi di adottarla, intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e governi d’Italia in que’ tempi». La scrittura di Dante è ricca, screziata. La conoscenza che Leopardi ne ha, gli consente di parlarne senza esitazioni. «Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci tolte non solo dal latino, ma dall’altre lingue o dialetti ch’avevano una tal qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione».
Leopardi spazia e approfondisce. Riconosce a Dante meriti che vivono nella letteratura e ne superano i confini, entrando nella Storia. Ricorda «quanto debbano a Dante, non pur la lingua italiana, come si suol predicare, ma la nazione istessa, e l’Europa tutta e lo spirito umano». Da qui l’attribuzione che a Dante spetta del serto d’alloro di un vero primato: «ardì concepire e scrisse un’opera classica e di letteratura in lingua volgare e moderna». Impresa temeraria e suprema che eleva «una lingua moderna al grado di lingua illustre» a dispetto dell’opinione corrente che sino a quel momento aveva ritenuto la lingua latina «unica capace di tal grado».
Leopardi indaga la natura della «Commedia», vera pietra miliare della letteratura, e afferma che «non fu solo poetica, ma come i poemi d’Omero, abbracciò espressamente tutto il sapere di quella età, in teologia, filosofia, politica, storia, mitologia ecc». Classica da subito e per sempre: «non rispetto solamente a quel tempo, ma a tutti i tempi, e tra le primarie; né solo rispetto all’Italia ma a tutte le nazioni e letterature». Il passo di Dante in questo senso è stato dunque quello di un pioniere. La sua è stata la marcia risoluta di un apripista. In sostanza, «Dante diede l’esempio, aprì e spianò la strada, mostrò lo scopo, fece coraggio e col suo ardire e colla sua riuscita agl’italiani: l’Italia alle altre nazioni. Questo è incontrastabile».
Nel prosieguo, lo studio condotto da Leopardi giunge a rimarcare quanta applicazione e quanta ponderazione stessero dietro al rivolgimento dantesco, «né il fatto di Dante fu casuale e non derivato da ragione e riflessione, e profonda riflessione. Egli volle espressamente sostituire una lingua moderna illustre alla lingua latina». Sentiva che i tempi erano ormai maturi, e che anzi esigevano la radicalità di un cambiamento di questa portata. Perciò «volle espressamente bandita la lingua latina dall’uso de’ letterati, de’ dotti, de’ legislatori, notari, ecc., come non più convenevole ai tempi». Un atto di grande perspicacia e ponderazione dal quale venne lo splendido frutto che nelle sue terzine custodisce, tra l’altro, la prova d’eccellenza della risolutezza encomiabile con la quale il poeta Dante Alighieri derivò i propri principi di stile «da proposito e istituto, e mirò ad uno scopo; e il proposito, l’istituto e lo scopo» furono quelli di un «acutissimo, profondissimo e sapientissimo filosofo».
EUROPA, FILOSOFIA, ED ELEUSIS 2023:
METAPHYSICS ANTHROPOLOGY PSYCHOANALYS: APRIRE GLI OCCHI SUL SOCRATICO AMORE "CONVIVIALE" (EROS = CUPIDO), SUL DESIDERIO CIECO E VIOLENTO, E PORTARSI CON FREUD, FUORI DAL DISAGIO NELLA CIVILTA’, OLTRE LO STADIO DELLO SPECCHIO DEL TRAGICO PLATONISMO E PAOLINISMO ...
"SAPERE AUDE!". RICORDANDO, CON IL VENOSINO ORAZIO, LE INDICAZIONI DI KANT sul "coraggio di servirsi della propria intelligenza" e sulla necessità di reinterrogarsi sull’intero sapere, ripartendo dalla antropologia, dalla questione antropologica, forse, è il tempo opportuno uscire dal profondissimo letargo (Dante contava XXV secoli di sonno dogmatico) e re-interrogarsi non solo su "come nascono i sogni" e su "come nascono le idee", ma anche, e innanzitutto, come nascono i bambini, e soprattutto non continuare a ripetere vecchi e tragici ritornelli sull’amore di Platone: è una questione di filologia e di teologia-politica (Lorenzo Valla, "La falsa Donazione di Costantino", 1440).
"IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI" (NIETZSCHE). LA ’RISPOSTA’ DI DIOTIMA A SOCRATE: "Caro Socrate, tu sei come Eros - figlio di Ingegno (a sua voìta figlio di Metis. I’intelligenza astuta) e di Povertà - un perfetto #filosofo, perché non sei sapiente come gli dèi né del tutto ignorante come i comuni mortali: sei solo consapevole della tua ignoranza, ma tu sei cieco, cieco e brutto come un ... ciclope. Tu sai che non sai amare e vai in cerca di chi sa amare. Ma tu, caro Socrate. non capisci proprio nulla, né degli uornini, né delle donne. e neppure degli dei: tu sei solo cupìdo (un cieco saettante, avido e vioÌento). Come la rìsposta della Pizia, così la risposta di Diotima: eglì non capisce e va avanti ... a costringere chi ’solo il dio sa’ deve partorire. [...]" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Roma 1991, p. 184).
CADUTA NELLA CAVERNA PLATONICA E COSMOTEANDRIA. Se non ci si sveglia e si continua a contrabbandare l’andrologia tragica di Socrate e Platone per antropologia e, dall’alto della "dotta ignoranza" (Niccolò Cusano,1440) dell’anatomia e della medicina, si spaccia #Vir per #Homo, dove si pensa di andare, se non all’inferno?!
ANATOMIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA. Se si vuole ricominciare umana-mente e riprendere il cammino della rivoluzione copernicana e scientifica, bisogna ripartire quantomeno dalla sapienza di Michelangelo (riprendere il cammIno dei profeti e delle sibille del #TondoDoni, rilanciato alla grande nella narrazione della Volta della Cappella Sistina) e, poi, proseguire seguendo le lezioni di anatomia e di medicina di Realdo Colombo e, infine, leggendo il capitolo 15 del Libro III dell’ Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli della Donna” (p. 91).
LA FATTORIA DI PLATONE, IL PIFFERAIO ALGORITMICO, E L’ ARCHEOLOGIA FILOSOFICA:
#STORIA E #MEMORIA. Al #tramonto dell’#Occidente e alla #fine della #storia, qualche musicista constata amaramente che oggi la più bella delle arie d’opera viene utilizzata per #pubblicizzare un profumo. Verissimo, ma questo cosa significa? Non è una "bellissima" realizzazione storica dello #Stato sognato dal pitagorico Platone, quello della famosa teoria del #re filosofo (#sofista) e del filosofo (sofista) re?
#FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA. Le #Muse, le #Grazie, le #Sibille, dove sono?! Non sono state rapite come #Persefone da #Plutone e sono tutte rinchiuse nel #Circo (della buon’anima) della #Moira di #Orfeo? Dov’è Diotima, dove Arianna? Non è ora di cambiare musica e uscire dall’Inferno (Dante 2021)?! Se non ora, quando?!
#Eleusis2023 #Earthrise
(*) La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica
FILOLOGIA FILOSOFIA STORIA E DIVINA COMMEDIA (DANTE 2021):
QUANTE "NUVOLE" NEL CIELO DELLA "REPUBBLICA"!
UN LETARGO TEOLOGICO-POLITICO ANTROPOLOGICO E COSTITUZIONALE PROFONDO ha mandato in collasso tutte le istituzioni culturali e politiche di tutte le #Città.
Nelle #Università e nelle #Accademie laiche e devote si insegna ancora a credere che #Aristofane scherzasse su #Socrate! #Nietzsche ("#Crepuscolo degli #idoli") aveva ragione: la #filosofia del suo allievo #Platone contiene il segreto sul come rendere forte il discorso debole e debole il discorso forte, e sul come realizzare il #sogno del #sofista #re: egli ha truccato le "regole del gioco" dell’#Occidente e ha insegnato a una "parte" della intera umanità a come mettersi al di sopra di tutte le "parti", a un "partito" come mettersi al di sopra di tutti i "partiti", e a come imporre le proprie "olimpiche" demiurgiche "#Leggi" su tutta la #Fattoria! Un colpodistato più che millenario - al capolinea... #Giornatadellamemoria, #27gennaio 2023.
ARTE STORIA E STORIOGRAFIA:
NELL’EUROPA DEL XVI SECOLO, DOPO LA RIFORMA PROTESTANTE (1517), IL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563) E LA BATTAGLIA DI LEPANTO (1571), UNA ALLEANZA "CATTOLICISSIMA" TRA ALTARE E TRONO:
a) FILIPPO II, ALLA VIGILIA DELL’ATTACCO ALL’INGHILTERRA, VIENE "IMMORTALATO" NELLA CERIMONIA FUNEBRE DELLA ARTISTICA CELEBRAZIONE DELLA "SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" DA EL GRECO (TOLEDO 1586-1588).
b) QUADRO INGLESE DELLA CELEBRAZIONE DELLA DISFATTA DELLA FLOTTA SPAGNOLA NEL1588. "Il cosiddetto Ritratto dell’Armada, dipinto dopo il 1588 per commemorare la disfatta dell’Invincibile Armata. Elisabetta tiene la mano sul globo, simbolo di autorità, mentre sullo sfondo è raffigurato l’evento."
EUROPA 2023: ARTE, STORIA, ANTROPOLOGIA.
A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE E RI-PENSARE L’OPERA DI "EL GRECO": "LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" (1586-1588)... E ANCHE IL NASCERE (IN TERRA) E IL RINASCERE (IN TERRA E IN CIELO) - OGGI
NELLA SPAGNA DI FILIPPO II, IN UNA EUROPA, SEGNATA GIA’ DALLA RIFORMA PROTESTANTE (WITTENBERG, 1517), DALLA RIVOLUZIONE DEI "CORPI TERRESTRI" IN ANATOMIA (Realdo Colombo, amico di Michelangelo Buonarroti e professore alla Sapienza, 1448; Andrea Vesalio, medico di Carlo V prima e di Filippo II poi, 1553; e Juan Valverde de Hamusco, medico del cardinale Giovanni di Toledo, 1556/1560) E DEI "CORPI CELESTI" IN ASTRONOMIA (Niccolò Copernico, "De revolutionibus orbium coelestium,1543), E, DOPO I LAVORI DEL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563), E DOPO GLI ANNI DELLO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE DI TERESA D’ AVILA (1515-1582), A TOLEDO, NEGLI ANNI 1586-1588, L’ARTISTA DOMENICO THEOTOKOPULOS, DETTO "EL GRECO", PORTA A COMPIMENTO IL SUO CAPOLAVORO.
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO. STORIA E LETTERATURA:
"AMLETO", "BABBO NATALE", E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA.
LA LEZIONE DI SHAKESPEARE AL "PRINCIPE" DELLA "EUROPA" DI OGGI, NATALE 2022.
Appunti sul tema...
RIFORMA PROTESTANTE (1517), SCISMA ANGLICANO (1534), E LA SOVRANITA’ RELIGIOSA E POLITICA (1558-1603) DI ELISABETTA: "HAMLET. "REST, REST, PERTURBED SPIRIT" (I.5). "Calma, calma, spirito perturbato": Se si riflette sulla famosa risposta di Amleto alle rivelazioni dello spirito del Padre e Re, che "Il mondo è fuor di sesto" e che "è una sorte maledetta ch’io sia nato per rimetterlo a posto" (I.5), si potrebbe anche pensare che la vicenda di Amleto sia da Shakespeare messa consapevolmente e strategicamente in parallelo con quella evangelica di Gesù ("Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!": Lc. 22. 42) e che il suo obiettivo metateatrale sia proprio quello di sollecitare l’intera cultura inglese (ed europea) a procedere a un ripensamento generale della intera questione antropologica e teologico-politica: partire da sé e rimeditare la figura del Padre Re - di "Babbo Natale"!
A CHE GIOCO SI GIOCA, NEL PIANETA "DANIMARCA": IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS O IL LOGO?! L’Arca di Noè o la Fattoria degli Animali?! Qual è il problema istituzionale e costituzionale che Shakespeare in "Amleto" pone ad ogni essere umano? Non è una domanda ("question") radicale quella posta sull’essere e sul non essere e, al contempo, non è un invito a svegliarsi dal sonno dogmatico e a "non lasciare che il letto regale / di Danimarca sia un giaciglio per la lussuria/ e il maledetto incesto" (I.5), cioè a non lasciarsi travolgere dallo spirito della menzogna e del tradimento, ad ogni livello?
L’EUROPA E LA CRISI DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO: IL PRESEPE (FRANCESCO D’ASSISI, 1223) LA "MONARCHIA" (DANTE, 1313) E LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453). Alla luce del lavoro di Michelangelo (1475 - 1564) e di Shakespeare (1564-1616), ampliando lo sguardo, forse, oggi è da ammirare e ripensare, la "vertiginosa" consonanza antropologica e teologico-politica che connota l’attività di Teresa d’Avila (1515 - 1582) e di Elisabetta I d’Inghilterra (1533 - 1603): la tradizione costantiniana è decisamente sotto attacco. Tra il Nord e il Sud dell’Europa, alla fine del Cinquecento e agli inizi del Seicento, c’è un’aria di ripresa e rilancio dello spirito dell’ecumenismo francescano e umanistico-rinascimentale (con papa Sisto IV della Rovere, prima, e Giulio II della Rovere, poi) che nella Volta della Cappella Sistina (1512) aveva rivisto profeti e sibille camminare insieme verso una terra e una società di pace e di giustizia: Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568 - 1639), come si sa, sono gli ultimi alfieri di questo "programma".
"Il disagio della civiltà" (S. Freud, 1929) e nella civiltà europea e nell’intero pianeta crescerà sempre di più, e, alla fine, si comincia ad ammettere quanto e "come spesso, nel corso della storia, la legge dell’occidente cristiano non sia stata l’imitazione di Gesù Cristo ma bensì l’imitazione dei suoi carnefici. Il corso della storia non è stato influenzato dai santi. Essi hanno agito sui cuori e sulle anime, ma la storia è rimasta criminale" (F. Mauriac, "Le fil de l’homme", 1958).
SHAKESPEARE, SONETTO 116: "L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO".
RIPENSARE IL "CONCRETO VIVENTE" A PARTIRE DALLA "OPPOSIZIONE POLARE" E DALL’USO DI UNA BILANCIA DELL’ESISTENZA ANTROPOLOGICAMENTE NON TRUCCATA NE’ DALL’ASTUZIA DELLLA RAGIONE HEGELIANA NE’ DALLO SPECCHIO DELLA FEDE PAOLINA.
Una indicazione filosofica di #Romano Guardini per ripensare la storia dell’Europa e del Cristianesimo *
La filosofia della pace di Romano Guardini
di Massimo Borghesi (insula europea, 10 dicembre 2022)
C’è un aspetto del pensiero di Romano Guardini (1885-1968) che torna oggi straordinariamente attuale: la sua filosofia della pace. Esattamente quella che difetta oggi al pensiero cattolico contemporaneo che, in buona misura, appare subordinato al manicheismo teologico-politico tornato in auge in relazione al dramma della guerra tra Russia e Ucraina.
A questa filosofia della pace Guardini ha offerto un contributo fondamentale con il suo volume del 1925, Der Gegensatz, dedicato all’opposizione polare. In esso la vita veniva compresa a partire da una serie di polarità opposte che devono mantenersi in tensione tra di loro senza degenerare in contraddizioni escludenti, manichee appunto. L’idea del cattolicesimo come coincidentia oppositorum veniva trasferita, dall’autore, sul piano antropologico, sociale, politico. Il risultato era un pensiero dialogico, con molte analogie con quello coevo di Martin Buber, per il quale la relazioni tra gli uomini e tra gli Stati obbedivano alla legge della coesistenza e del dialogo tra diversi. I pericoli da evitare erano l’uniformità, da un lato, e la contrapposizione frontale, dall’altro. L’unità nella differenza era il metodo che Guardini suggeriva, nel 1925, all’Europa uscita dalla prima guerra mondiale. Un pensiero della pace che troverà il suo riconoscimento all’indomani della seconda guerra, quella del 1939-1945, quando il pensatore italo-tedesco riceverà nel 1952 il Premio alla Pace da parte dei Librai tedeschi.
In quell’occasione dirà: «Mi consentano di dire che l’attribuzione del Premio per la Pace mi ha dapprima sorpreso perché non ho scritto nulla sul problema della pace, a parte in alcune occasioni. Ma poi ho sentito che con questa onorificenza veniva toccato un motivo determinante per il mio lavoro. Mi ha sempre cioè occupato il problema: come mai possano affermarsi prese di posizioni così diverse degli uomini circa le questioni dell’esistenza e se non sia possibile di acquisire a tale diversità una forza costruttiva. Da queste riflessioni è nato a suo tempo un mio libro sulla “opposizione polare”, ed esse sono divenute importanti anche per i miei scritti di poi». Nel suo discorso Guardini connetteva la filosofia della pace al suo lavoro del 1925. Al centro del suo testo v’era la fondamentale distinzione tra opposizione e contraddizione. Il lavoro di coloro che promuovono la pace sta nel mantenere le opposizioni in sospensione, nell’impedire che si passi dalla diversità alla contraddizione.
Come ribadirà nel ’52: «Ciò che esiste è la diversità dei punti di vista; la dialettica di formulazioni le quali per principio sono rapportate a vicenda e che perciò stanno l’una rispetto all’altra non in contraddizione esclusiva ma in opposizione feconda. Allora io posso dire: “Anche tu vedi qualcosa di giusto”, e si rende possibile una sintesi. Ma non appena appare non l’opposizione ma la contraddizione, non appena l’uno dice sì dove l’altro deve dire no, o l’uno giudica buono ciò che l’altro riconosce cattivo, allora non è più possibile nessuna sintesi, bensì soltanto aut-aut, e questo si chiama lotta».
La distinzione, feconda, sarà ripresa da Papa Francesco il quale non a caso in Fratelli tutti, il suo manifesto per la pace, citerà largamente Guardini utilizzando la sua antropologia polare. Come afferma il Papa in Ritorniamo a sognare, la sua conversazione con Austen Ivereigh: «Quello che vede le contrapposizioni come contraddizioni è un pensiero mediocre che ci allontana dalla realtà. Lo spirito cattivo - lo spirito di conflitto, che compromette il dialogo e la fraternità - cerca sempre di trasformare le contrapposizioni in contraddizioni, pretendendo che scegliamo e riducendo la realtà a semplici coppie di alternative. È questo che fanno le ideologie e i politici senza scrupoli». Il manicheismo teologico-politico è l’ideologia che si oppone alla pace. Ad esso Guardini, e con lui Bergoglio, oppone il suo pensiero dialogico. Lo ribadisce, con una punta di orgoglio, nel 1967, l’anno prima della sua morte.
«Nella “Frankfurter Allgemeine Zeitung” - scrive - c’era un articolo del corrispondente dal Vaticano su un libro appena apparso del Prof. Guitton. Questi riassume il risultato di diversi colloqui con il papa Paolo VI e mostra il carattere spirituale e l’intenzione del Papa: non semplicemente governare, ma instaurare un dialogo con chi ogni volta rappresenta l’“altro”. L’essenza di questo procedimento consiste nel fatto che l’altro non appare come avversario, ma come “opposto”, e i due punti di vista, tesi e antitesi, vengono portati all’unità. Poi l’autore cita i nomi di personalità che sostengono lo stesso metodo, per la Germania cita il mio. Considerando l’importanza che oggi ha l’idea del dialogo, allora vede che è arrivato il momento giusto per il mio libro sull’Opposizione. L’abbiamo già detto anche esplicitamente. La teoria degli opposti è la teoria del confronto, che non avviene come lotta contro un nemico, ma come sintesi di una tensione feconda, cioè come costruzione dell’unità concreta».
Alla fine della sua vita Guardini proponeva il suo modello filosofico in antitesi a quello dialettico di Carl Schmitt fondato sull’antitesi tra amico e nemico. La filosofia della pace è un pensiero della mediazione che unifica i diversi mantenendoli nella loro differenza. Nel suo discorso del 28 aprile 1962, in occasione del Praemium Erasmianum ricevuto a Bruxelles, dal titolo Europa. Wirklichkeit und Aufgabe, Guardini assegnava all’Europa il compito di mediare tra i continenti e le potenze del mondo.
L’Europa veniva indicata come il katechon, il potere che poteva frenare i deliri di onnipotenza che la tecnica moderna rendeva possibili. L’America, l’Asia, l’Africa, non apparivano in grado, per motivi diversi, di rivestire tale ruolo. All’Europa spettava il compito di promuovere la pace. «Essa ha avuto tempo per perdere le illusioni». La sua storia è lunga, nel seno della sua cultura è germinato il sapere tecnico-scientifico, possibilità e rischi del medesimo sono stati da lei verificati in un modo tale che «all’Europa autentica è estraneo l’ottimismo assoluto, la fede nel progresso universale e necessario». Inoltre «i valori del passato sono ancora in essa così viventi che le permettono di capire cosa sta in gioco. Essa ha già visto rovinare tanto di irrecuperabile; è stata colpevole di tante lunghe guerre omicide, da essere capace di sentire le possibilità creatrici, ma anche il rischio, anzi la tragedia dell’umana esistenza. Nella sua coscienza c’è certamente la forma mitica di Prometeo, che porta via il fuoco dall’Olimpo, ma anche quella di Icaro, le cui ali non resistono alla vicinanza del sole e che precipita giù. Conosce le irruzioni della conoscenza e della conquista, ma in fondo non crede né a garanzie per il cammino della storia né a utopie sull’universale felicità del mondo. Essa ne sa troppo».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: TUBINGA, 4 NOVEMBRE 1945. LA ROSA BIANCA: "LA BILANCIA DELL’ESISTENZA". Commemorazione di Romano Guardini)
Federico La Sala
Amitav Ghosh: «Tutto è cominciato con il colonialismo, quando iniziammo a far violenza alla Terra»
di Edoardo Vigna (Corriere della Sera / Pianeta20, 30 nov 2022)
Amitav Ghosh, oggi lo scrittore indiano più importante, ha scritto spesso della devastazione della Terra: il fatto di vivere da tanti anni fra New York e la sua Calcutta gli permette di essere anche un osservatore di facce diverse del fenomeno. Nei suoi romanzi (pubblicati in Italia da Neri Pozza) - tra cui la “trilogia dell’oppio” - ha raccontato l’origine del sacco dell’Occidente nei confronti delle ex colonie fra Asia e Africa. Nel nuovo libro, La maledizione della noce moscata, segue la lunga parabola del colonialismo, considerato con la sua furia devastatrice alla base delle conseguenze irreversibili che vediamo oggi sul pianeta rispetto al clima.
Che cosa è la maledizione della noce moscata, e perché l’ha scelta come punto di partenza?
«Avrei potuto scegliere la storia di mille cose diverse che stavano accadendo nello stesso momento. Ma la peculiare storia della noce moscata davvero presentava un’analogia chiara con ciò che avviene oggi. Gli abitanti dell’isola Banda, tra l’Oceano Indiano e il Pacifico, all’inizio del 1600 avevano questa pianta incredibile che ha portato loro ricchezze e prosperità, fino a quando un giorno ha portato il loro sterminio (ad opera degli olandesi della Compagnia delle Indie orientali, ndr). Allo stesso modo, noi abbiamo questo meraviglioso pianeta, che ci ha anche dato ricchezze di tipi diversi. Ma invece abbiamo seguito un modello economico che ci spinge tutti alla distruzione».
Quando ha scoperto quanto accaduto a Banda?
«Ho letto storie sull’Oceano Indiano per molto tempo, sapevo già ciò che era successo là. Ma andare sulle isole e vedere cosa era avvenuto mi ha fatto riunire le idee in forma narrativa».
Lei cita scrittori e filosofi provenienti da culture diverse, libri più o meno noti di epoche differenti, con cui ha costruito un nuovo modo di vedere lo sviluppo storico.
«Tutto ciò a cui pensavo da anni ha preso forma a causa della pandemia. Mia madre era malata e poi è mancata, e così anche i miei suoceri. New York era simile a Milano e Bergamo. A pochi isolati da casa mia c’era un ospedale con camion frigoriferi per le vittime. Uno sconvolgimento mai visto, che però ci stava dicendo qualcosa sul futuro».
Che cosa?
«Ci ha mostrato che gli impatti sul cambiamento climatico, i loro effetti sulla società, saranno assai diversi da ciò che ci è stato detto. La narrazione consolidata, in Occidente, è che la crisi sarà terribile per i più poveri, “non-bianchi”. Invece sarà sì molto negativo per la povera gente, ma colpirà anche i Paesi ricchi, in modi diversi, con effetti altrettanto devastanti. E penso che se c’è una lezione che dobbiamo imparare da questa esperienza è che le megacrisi richiedono una risposta collettiva. Che non si è manifestata ovunque. L’Italia resta una nazione con una cultura comune, una lingua comune: quando è stato chiesto di fare sacrifici, la gente ha risposto. Non così negli Stati Uniti, che hanno avuto pessimi risultati. E tuttora vivono fra disagio sociale, sfiducia e polarizzazione politica. Idem il Regno Unito. In America la società ha una fede enorme nella tecnologia come fonte di salvezza. Pensavano che il vaccino li avrebbe salvati. Ma dopo che il vaccino è diventato disponibile, la diffidenza sociale ha preso il sopravvento, e ancora oggi la sfiducia è il vettore principale».
Lei retrodata la riflessione sul presente al colonialismo, con l’idea che l’imperialismo, con le sue armi, venga prima del capitalismo come causa della devastazione del pianeta.
«Negli ultimi anni, l’intero discorso sul cambiamento climatico è stato focalizzato sul capitalismo come il principale motore del disastro che stiamo attraversando. Certo, c’è molta verità in questo. Ma allo stesso tempo il nostro capitalismo non è nato da sé, è venuto fuori dal colonialismo che lo ha reso possibile. Le disuguaglianze, specie quelle geopolitiche, sono simili a ciò che esisteva nel XVII secolo. Il dominio globale dell’Europa d’allora corrisponde a quello odierno dell’Occidente».
Quale è stato il momento chiave?
«Quello in cui l’Europa ha conquistato le Americhe. Un evento che ha comportato una violenza su una scala mai vista prima, con la soppressione di 80-90 milioni di persone. Quella violenza ha creato una nuova società. Con l’eliminazione di decine di milioni di persone, ma anche con l’idea di sostituirli con africani schiavi. Un intervento demografico su quella scala non era mai avvenuto, mai».
Una riflessione in tal senso su questo argomento non è ancora avvenuta del tutto.
«Da qui la tentazione di attribuire la realtà d’oggi a sistemi astratti come il capitalismo, compresa la violenza che ha creato quel sistema».
Collegata c’è l’idea che il genocidio dei nativi americani e degli schiavi fosse giustificato dalla convinzione che non fossero completamente umani, e che quindi l’uomo bianco potesse fare di loro ciò che voleva. Proprio come avviene nei confronti della natura. Siamo superiori e padroni: ecco è il pilastro su cui tutto è costruito.
«Se oggi queste idee vivono è grazie all’esperienza coloniale delle Americhe. Poche centinaia di bianchi violentissimi dell’Estremadura scoprirono di poter sterminare centinaia di migliaia di nativi. Così è entrata in testa l’idea di esser simili a Dio, padroni del mondo. Che tutto esista per servirli».
Dove poggia sul piano culturale e filosofico?
«L’Illuminismo è di sicuro legato a questa esperienza. L’idea che gli esseri umani siano al di sopra di tutto. Penso, quindi sono. È da qui che discende quell’incredibile violenza. E infatti diversi pensatori chiave del tempo erano connessi strettamente al colonialismo. Cartesio ha trascorso gran parte della sua vita in Olanda quando questa era il perno del dominio globale. Il filosofo inglese Locke investiva nelle piantagioni e comprava schiavi. Anche Hegel ripeteva che gli africani erano inferiori, senza storia. Mentre parlava di libertà dello spirito».
Nel libro ritroviamo Cristoforo Colombo, che sbarcato nelle Americhe commette atrocità.
«Era un uomo violento e selvaggio, un puro sadico. So che gli italiani non lo ricordano. I nativi delle Americhe invece sì. Il fatto è che gran parte della storia che viene insegnata serve a far sembrare belli l’Europa e gli occidentali».
Lei ricorda anche come dare il nome alle cose, come facevano gli scienziati del ‘700, fosse uno dei modi per dominarle.
«Il sistema con cui Linneo battezzò animali, piante e minerali deriva interamente dal colonialismo. L’idea era avere un sistema che potesse oggettivare le risorse che il mondo offriva. E il sistema linneano ha trionfato non perché fosse il migliore ma perché l’impero spagnolo l’adottò».
A proposito di nessi causali, lei sottolinea come il riscaldamento globale non sia un accidente, ma è la conseguenza centrale del comportamento degli esseri umani.
«Credo sia chiaro come il global warming segua questi modelli. Una delle caratteristiche più marcate del colonialismo è ciò che si potrebbe chiamare “violenza per omissione”. Permettere alle malattie di fare strage. O agli interventi sull’ambiente di provocare disastri contro i popoli nativi».
Noi abbiamo l’idea che i conquistadores non avessero colpa per la diffusione di malattie che hanno sterminato le civiltà americane.
«I nativi-americani sanno da sempre la verità».
Discendiamo dall’Impero Romano, che controllava la Terra conosciuta. Vede un’idea di dominio nella psicologia dell’uomo bianco?
«I romani riconoscevano il potere della natura su di loro. Non se ne consideravano i padroni».
È un problema di potere. Potere politico, rappresentato anche dal potere sull’energia.
«L’energia diventa il perno della geopolitica globale alla fine del XVIII secolo, quando i combustibili fossili che gli inglesi cominciano a usare diventano centrali nelle loro strategie imperiali. E i combustibili fossili sono divenuti importanti perché - a differenza dell’energia dei mulini - potevano essere portati ovunque, quindi controllati».
Cosa le fa pensare che le fonti rinnovabili - a gestione diffusa - possano arrivare a sostituirle? Per le élite significa rinunciare al potere.
«I modelli che ho indicato nel libro, possiamo vederli all’opera oggi. Questa guerra Russia-Ucraina è così centrata sull’energia che l’energia stessa diventa un’arma di guerra da entrambe le parti. Se avessimo rinnovabili su larga scala, il gas russo conterebbe poco, ma questo varrebbe anche per il gas Usa. E non dimentichiamo che esiste il petrodollaro ( il sistema per cui il petrolio è pagato in dollari, ndr): Saddam è stato uno dei primi a iniziare a non commerciare in dollari, e guardi com’è finito. Il Venezuela di Chavez anche, ed è morto per un misterioso tumore. Russia e Cina che si scambiano combustibili fossili non sul dollaro diventano una minaccia per la sua egemonia».
Lei scrive che nei Paesi ricchi si pensa che la crisi climatica sia una preoccupazione tecnica con effetti economici, mentre in quelli poveri è un problema di disuguaglianza e giustizia.
«Se chiede a chiunque in Occidente qual è la posta in gioco con il clima tutti risponderanno che si tratta di ridurre l’impronta di carbonio. Di soluzioni tecniche. Nel Sud globale, se dite a qualcuno cosa pensa di fare al riguardo? La risposta sarà sempre: “Perché dovrei far qualcosa? La nostra impronta pro-capite è ancora piccola rispetto a quella dell’Occidente! Tocca a loro agire. Sono diventati ricchi quando eravamo poveri, a nostre spese. La percezione è di profonda ingiustizia».
Quindi, come se ne esce? Come si può arrivare alla decarbonizzazione necessaria al pianeta?
«C’è solo un modo: che l’Occidente riduca le emissioni cambiando stile di vita. Fino a quando ciò non accadrà qui, non accadrà da nessun’altra parte. È la cruda realtà».
Lo ritiene davvero possibile?
«L’abbiamo visto in Cina, con l’enorme calo della domanda dei consumatori. Lì, come in India, la gente ancora ricorda com’è vivere in modo più frugale. Toccherà agli occidentali imparare a farlo».
Corpo celeste
di Anna Maria Ortese *
"... Ecco, ho finito. Ho finito anche di essere uno scrittore - se mai lo sono stata -, ma sono lieta di averlo tentato. Sono lieta di aver speso la mia vita per questo. Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E dirvi com’è bello pensare strutture di luce, e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra - se vengono a occupare i linguaggi, il respiro, la dignità delle persone. A dirvi come sia buona la Terra, e il primo dei valori, e da difendere in ogni momento. Nei suoi paesi, anche nei suoi boschi, nelle sorgenti, nelle campagne, dovunque siano occhi - anche occhi di uccello o domestico o selvatico animale. Dovunque siano occhi che vi guardano con pace o paura, là vi è qualcosa di celeste, e bisogna onorarlo e difenderlo.
So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata, come l’uomo chiede di continuare a essere, e a essere accettato, anche se non immediatamente capito e soprattutto non utile. Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo. Sono dalla parte della voce increata che si libera in ogni essere - al di là di tutte le barriere - e sono per il rispetto e l’amore che si deve loro.
C’è un mondo vecchio, fondato sullo sfruttamento della natura madre, sul disordine della natura umana, sulla certezza che di sacro non vi sia nulla. Io rispondo che tutto è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo splendore in scatolame e merce, ma deve vivere e essere felice con altri sistemi, d’intelligenza e di pace, accanto a queste forze celesti.
Che queste sono le guerre perdute per pura cupidigia: i paesi senza più boschi e torrenti, e le città senza più bmbini amati e vecchi sereni, e donne al disopra dell’utile. Io auspico un mondo innocente. So che è impossibile, perché una volta, in tempi senza tempo e fuori dalla nostra possibilità di storicizzare e ricordare, l’anima dell’uomo perse una guerra.
Qui mi aiuta Milton, e tutto ciò che ho appreso dalla letteratura della visione e della severità. Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi. Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato; deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate.
Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli - che sono tutte le altre specie -, può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo.
Ecco, come sono venuta vado via; e vi ringrazio di avermi ascoltata; mi scuso se ho detto troppo o confusamente; e se ho detto poco, e se ho potuto dispiacervi. Come dicono i bambini: non l’ho fatto apposta. Vi auguro un buon giorno di pace e di comprensione. La vita è più grande di tutto, ed è in ogni luogo, e da tutte le parti - proprio da tutte le parti - chiede amicizia e aiuto. Non chiede che questo. E il valore di ogni buona risposta è immenso, se anche non dimostrabile. Amate e difendete il libero respiro di ogni paese, e di ogni vita vivente.
Questo invito, alla fine, calma e consola la mia stessa tristezza, e il senso di essere stata uno scrittore inutile. Ma non lo sono stata del tutto se, oltre il mio respiro, ho appreso a desiderare il libero respiro di ogni creatura e di ogni paese. È tutto, il respiro. È Dio stesso; ed è la cultura quando non fine a se stessa; quando, d’un tratto - voi non lo sapevate che era anche questo -, solleva e trasporta i popoli, come fa a volte, con le confuse onde del mare, un gran vento celeste."
19 febbraio 1980
Anna Maria Ortese, "Corpo celeste", Adelphi, Milano 1997, pp. 159, Lire 15.000
FILOLOGIA, STORIA, E INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (E DEI SEGNI):
LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453), IL "DE PACE FIDEI" DI NICCOLO’ CUSANO (1453), E LA "MADONNA SALTING" DI ANTONELLO DA MESSINA (1460).
Un segnavia per "arrivare" a Eleusis nel prossimo 2023.
ARTE E SOCIETÀ: LA MADONNA SALTING. A mio parere, l’influenza maggiore sulla produzione della "Madonna #Salting" di Antonello da Messina appare decisamente essere di scuola fiamminga. Tuttavia, essendo Antonello originario di Messina, forse, è da riguardare con particolare attenzione il senso simbolico della melagrana già aperta in mano al Bambino e, insieme, del cinturino annodato intorno al corpo del Figlio con i due fiocchetti (due piccole "#melagrana"), messi in una zona di chiara evidenza, che rimandano decisamente ai frutti del melograno in via di maturazione e alla fecondità della Madre, tutta vestita e "punteggiata" da infiniti "chicchi".
IPOTESI: QUESTIONE CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA). Dato che il quadro è del 1460 circa, forse, potrebbe essere una "indicazione" di un discorso ancora sul nascere, di un dibattito all’ordine del giorno sul problema del Figlio, cioè sul tema decisivo dell’epoca (la caduta di Costantinopoli è del 1453 e il cardinale Niccolò Cusano cerca la via della pace della fede, nel 1453)": il nodo è proprio quello del Figlio (... e del "Presepe", e del "Natale"), quello dell’interpretazione teologico e antropologica della figura di Cristo (un tema ancora all’ordine del giorno), in un’ottica ecumenica.
CONSIDERATO CHE la "Dotta Ignoranza" di Cusano (1440) è del tutto segnata dalla tradizione filosofica e scientifica aristotelico-platonica (come sarà ancora per gli aristotelici dell’epoca di Galileo Galilei), la figura e il tema del bambino-homunculus è la parola chiave per comprendere non solo la teologia e l’anatomia dell’epoca, ma anche l’arte e l’antropologia, forse, è OPPORTUNO "RIPENSARE COSTANTINO": "IN HOC SIGNO VINCES". Proprio la caduta di Costantinopoli (1453), infatti, porterà l’Europa a svegliarsi dal letargo, a muoversi militarmente, e a prendere sotto la guida della Spagna la strada della riconquista (Granada,1492), della cacciata dei Mori e degli Ebrei (1492), della conquista dell’America (1492), e dell’avvio della prima globalizzazione teologico-politica del Pianeta Terra.
A) ANTONELLO DA MESSINA, "MADONNA SALTING".
B) BOSCH (1453-1516), ALL’ESCORIAL (1593). "Il Giardino delle delizie (o Il Millennio) è un trittico a olio su tavola (220×389 cm) di Hieronymus Bosch, databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid.[...]".
C) ELEUSIS 2023. Una delle capitali europee della cultura del 2023 è Eleusi: una buona opportunità storica per ripensare la figura della Terra-Madre, Demetra, della figlia, Persefone, e del tema dei misteri eleusini, e, al contempo, anche del melograno, e della melagrana, dell’agricoltura, delle stagioni, ecc.
ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA: "NOTE" PER ELEUSI 2023
KOENIGSBERG (1784), KALININGRAD (2022), E MISTERI ELEUSINI:
Dopo interi millenni di labirinto e di platonismo per il popolo (Nietzsche), con Hegel e Holderlin, andare oltre Hegel e Holderlin e prepararsi a ripensare la storia della Terra-Madre (Demetra), M->Arianna, e rendere omaggio a ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2023.
***
STORIA, FILOSOFIA, E MEMORIA. HEGEL,
"A HOLDERLIN" [dalla lettera dell’agosto 1796]:
ELEUSI" *
"[...]
Ah! Se da sole ora le porte del tuo santuario si spezzassero,
o Cerere, tu che in Eleusi avevi il trono!
Ebbro di entusiasmo, io proverei ora
il fremito della tua vicinanza,
comprenderei le tue rivelazioni,
interpreterei l’alto senso delle immagini, udrei
gli inni nei banchetti degli dei,
gli alti detti del loro consiglio -
Pure i tuoi atri sono ammutoliti, o dea!
Il cerchio degli dei è fuggito dall’Olimpo
degli altari consacrati,
fuggito dalla tomba dell’umanità profanata
il genio innocente, che qui li incantava! -
La saggezza dei tuoi sacerdoti tace; non un suono dalle sacre
iniziazioni si è salvato fino a noi [...]"
* Cfr. G. W. F. Hegel, "Eleusis, Carteggio. Il poema filosofico del giovane Hegel e il suo epistolario con Hölderlin", Mimesis edizioni 2014 - ripresa parziale).
***
***
"LETTERATURA EUROPEA" E "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI": DEMETRA (LA TERRA-MADRE) ED ELEUSI 2023...
A) L’ORACOLO DI APOLLO AI TROIANI, A DELO: "[...] la #terra da cui traete origine,/ prima culla dei padri, vi vedrà ritornare/ nel suo seno materno, reduci. Su, cercate/ l’antica #madre! [...]" (Virgilio, Eneide, III, 114-117).
B) GIUNONE (E LA RICERCA DI FREUD): "Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo" (Virgilio, Eneide, VII, 312)
C) L’EDIPO COMPLETO (FREUD) E DEMETRA: ELEUSIS 2023. "[...] Rimane ancora aperta la questione della Madre, di cui oggi parlano in pochi. Non si tratta né di ruolo, né di funzione. Si tratta di codici. Perché la Legge del Padre si stabilisca nel modo giusto, è necessaria, a mio avviso, la fiducia nella persona, incarnata nel codice affettivo materno. Ciò che mantiene sempre il legame sociale, anche quando appare spezzato. Sembra che di ciò, in tutto questo importante discorso sui padri, ci si stia dimenticando." (Pietro Barbetta, "Presenza/Assenza del padre", Doppiozero 7 Gennaio 2014).
LA MALATTIA DELL’EUROPA, FRANCO FORNARI (1981) E... L’EDUCAZIONE ALLA "PACE PERPETUA" *
***
Franco Fornari sviluppò la sua ricerca a partire dalla convinzione che la psicoanalisi potesse aiutare
l’uomo a risolvere non solo i conflitti intrapsichici ma anche quelli interpersonali, istituzionali e
sociali. Il suo progetto di educare alla pace lo in portò ad indagare i meccanismi inconsci che
alimentano la guerra fra i popoli.
A questo dedicò numerosi libri: Psicoanalisi della guerra atomica
(1964), Psicoanalisi della guerra (1966) e La malattia dell’Europa (1981). Il suo pensiero ricevette
una grande attenzione internazionale alla Conferenza dell’ONU sulla pace a New York e il suo
impegno lo portò a diventare membro del Comitato Mondiale di ricerca sulla pace.
“Giunto così in modo un po’ concitato alla fine della mia ricerca sulla malattia dell’Europa, vorrei darle un nome. Poiché i processi patologici che ho individuato sono molteplici e intricati, anziché elencarli in una lunga perifrasi, vorrei condensarli con il mito di Tieste.
Questo mito racconta che tra i due fratelli Atreo e Tieste, correva un’inimicizia mortale.
Il nome di Atreo rimanda agli Atridi: Agamennone e Menelao, appunto, quelli della guerra di Troia. Poiché Agamennone, il capo dei greci, è figlio di Atreo, la sua genealogia rimanda ad una struttura perversa del potere familiare, che sembra dare una luce sinistra alla guerra di Troia, la prima grande guerra.
Dice dunque il mito che i due fratelli Atreo e Tieste si odiavano a morte. Un giorno però Atreo propose al fratello la riconciliazione e la coesistenza pacifica. Venuto il giorno della pace, Atreo offrì al fratello Tieste un banchetto imbandito con la carne dei suoi bambini, sgozzati davanti all’altare. La guerra di Troia ha dunque nella sua genealogia l’odio tra fratelli.
Ricordando Tieste, propongo di chiamare “Tiestopa” la malattia dell’Europa. Come nel mito greco, gli accordi di Yalta dicono di un odio mortale tra americani e russi, i fratelli vincitori della Seconda guerra mondiale. La divisione dell’Europa dice che a Yalta c’è stato un banchetto, nel quale le due grandi potenze, vincitrici, fingendo la pacificazione, si sono costituite come pseudogenitori dell’Europa, e hanno messo in atto un’intesa apparente, dandosi reciprocamente da mangiare i popoli europei, come simulazione di pace. Il mito dice dunque che gli accordi di Yalta sono un signum mali ominis: un segno di cattivo auspicio. Nel mito possono essere letti i presupposti di una nuova guerra di Troia, in era nucleare: dell’ultima grande guerra dell’Occidente.
La malattia dell’Europa è sospesa tra la Seconda e la Terza guerra mondiale. Questo significa che la cura della malattia dell’Europa è essenziale per evitare la Terza guerra mondiale e può essere fatta solo attraverso la liberazione dell’Europa dalla sovversione perversa e crociata degli Usa e dell’Urss in una rivoluzione culturale pacifica che è la condizione necessaria e sufficiente per evitare al mondo la maledizione dei discendenti di Atreo.” (Fornari F., 1981 pag 203-204)
* Fonte: SocieTà Psicoanalitica Italiana
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA. -COMMENTO APOCALYPTICO DI SCUOLA GIOACHIMITA, DANTESCA, KANTIANA, E MARXIANA
fls
ECCO, MANGIA I TUOI FIGLI
di MAURIZIO BETTINI *
Esistono storie così barbare che sembrano nate non solo fuori della cultura, ma addirittura fuori del linguaggio, tanto si stenta a dirne gli orrori. Per cui, quando vengono fatte rivivere su una scena è giusto che questo avvenga in luoghi rocciosi, da cui si contemplano solo distese di terra senza tracce di uomini. Al crepuscolo il vento solleva polvere, polvere vera, attorno alle urla di un personaggio che scopre di essersi macchiato di una colpa inespiabile: mentre il pubblico, attonito sui gradini di pietra, continua a domandarsi "ma cosa può spingere un uomo a uccidere i figli di suo fratello, per poi farglieli divorare in un banchetto mostruoso?".
Stiamo parlando del Tieste di Seneca, rappresentato al teatro greco di Segesta per l’ abituale appuntamento con l’ Istituto Nazionale del Dramma Antico. Una bella traduzione (fatta ex novo da Giusto Picone, latinista dell’ Università di Palermo) e una regia originale (di Walter Pagliaro) hanno fruttato uno spettacolo di grande ricchezza: forse perché in questo caso le invenzioni di regia non erano fondate, come purtroppo può accadere, su bizzarrie o su luoghi comuni, ma sulla collaborazione fra un uomo di teatro e uno studioso della tragedia di Seneca. Ragion per cui, quando un ignaro Tieste porta alle labbra la coppa riempita del sangue dei suoi figli - e il regista intelligentemente lascia che questo gesto indugi, a lungo, nel crepuscolo che nel frattempo ha invaso la scena - anche noi ci siamo chiesti: "ma cosa può spingere un uomo a uccidere i figli di suo fratello, per poi farglieli divorare in un banchetto mostruoso?".
La storia è nota. Atreo e Tieste sono figli di Pelope, a sua volta figlio di Tantalo: una stirpe sciagurata. Tieste ha sedotto la moglie di Atreo, Erope, ed ha in ogni modo insidiato il regno al fratello. Adesso Atreo decide di vendicarsi: chiama Tieste a Micene, finge di restituirlo agli antichi onori ma in realtà, nascosto nelle viscere del Palazzo, uccide i tre figli di Tieste e ne cucina le carni per il padre, che se ne ciba. Una delle storie più orribili che siano mai state immaginate. Una storia mostruosa, selvaggia. Eppure dietro a tanta barbarie c’ è una logica: perversa, fuori da ogni ordine della ragione, ma capace di spiegare lucidamente perché Atreo scelga proprio questa via - far divorare al padre i suoi figli - per vendicarsi dei torti subiti da Tieste.
Il fatto è che il Tieste è un dramma della paternità, e delle sue ossessioni. C’ è un pensiero che soprattutto tormenta Atreo: egli teme che i suoi figli non siano davvero suoi ma siano stati generati da Tieste, il quale ha commesso adulterio con sua moglie. Lo dice all’ inizio del dramma "niente della mia stirpe è immune dalle insidie di Tieste: la moglie sedotta, incerto il sangue della mia discendenza..."; lo dice trionfante alla fine del dramma, di fronte a un Tieste annientato dalla irrimediabile mostruosità di cui si sente invaso: "sì, ora nascono i miei figli, ora il letto nuziale è di nuovo certo e incontaminato...".
Dunque, nella perversa logica di Atreo, aver fatto divorare al seduttore Tieste i suoi propri figli è un mezzo per ridare "certezza" al suo sangue inquinato: per cancellare il dubbio che attanaglia la sua paternità. Quali possono essere le categorie antropologiche su cui si fonda un simile, mostruoso ragionamento?
Perché proprio l’ atto di far divorare i figli a un padre comporta l’ immediato riscatto di una stirpe inquinata? Per comprendere la struttura profonda di questa (perversa) logica simbolica, bisogna rammentare che la famiglia è concepita come un unico organismo, il cui delicato funzionamento è garantito da un corretto equilibrio del "sangue" e degli altri liquidi vitali che scorrono nelle sue ramificazioni.
Tieste ha alterato questo equilibrio, spargendo il suo seme (il suo "sangue", secondo i modelli della biologia antica) là dove non avrebbe mai dovuto spargerlo: egli si è unito con la cognata, ed ha turbato la discendenza di suo fratello. Adesso, perché l’ equilibrio sia ristabilito, occorre che Tieste riprenda dentro di sé la sua discendenza compensando, con una mostruosa riassimilazione della propria sostanza vitale, l’ eccesso che di questa medesima sostanza egli ha immesso nell’ organismo della parentela. Se il sangue di Atreo è "incerto", misto, inquinato, la sua purezza potrà essere riscattata solo al momento in cui Tieste accosterà alle labbra una coppa piena del suo proprio sangue, il sangue dei suoi figli. La regola invocata è quella di uno spietato contrappasso, che riporta dentro Tieste un liquido che il suo adulterio incestuoso aveva fatto indebitamente circolare fuori.
Il dramma è raccapricciante, così come lo è, notoriamente, il modo in cui Seneca si è compiaciuto di scriverlo. Eppure questa storia insegna moltissime cose non solo sull’ importanza dei vincoli di parentela, ma anche sul modo in cui essi venivano rappresentati. Il mito di Tieste ha una forza e una esemplarità simile a quella del mito di Edipo. Se per capire il significato culturale dell’ incesto bisogna recarsi alla reggia di Tebe, per comprendere il terrore dell’ adulterio e l’ ossessione per la purezza della stirpe è necessario raggiungere quella di Micene: là dove i modelli simbolici della parentela si ribaltano in cannibalismo, e il "sangue" della consanguineità familiare si trasforma in sangue versato e bevuto.
* Fonte: la Repubblica, 04.09.1991
Brasile: Lula vince il ballottaggio. E’ eletto presidente per la terza volta
Sconfitto di un soffio il candidato della destra Bolsonaro
Il leader di sinistra, Luiz Inácio Lula da Silva (Pt) ha vinto il ballottaggio, ed é stato eletto presidente del Brasile per la terza volta.
Lula ha battuto l’attuale capo dello Stato, Jair Bolsonaro (Pl, destra), il primo presidente che ha fallito nel suo tentativo di rielezione.
Il Tribunale superiore elettorale ha ufficializzato la vittoria, col 98, 86% del totale delle sezioni scrutinate, Lula ha ottenuto il 50,83% dei voti (59.596.247), contro il 49,17% di Bolsonaro (57.675.427).
Scoppiano felicità e tristezza in tutto il Brasile al termine degli spogli per il ballottaggio delle presidenziali che ha dato la vittoria a Luiz Inacio Lula da Silva. Caroselli di auto e moto, grida dalle finestre degli appartamenti, suoni di clacson e bandiere al vento riempiono le strade delle principali città. Da una parte i sostenitori dell’ex sindacalista, in lacrime di gioia, dall’altra il silenzio di delusione dei fan di Jair Bolsonaro. In una nazione spaccata a metà, le elezioni più polarizzate della storia del Paese si riflettono negli umori dei suoi cittadini, divisi da opposte tifoserie come in una finale della nazionale di calcio. A Rio de Janeiro, la seconda metropoli più grande del gigante sudamericano, gli elettori in festa si sono riversati sulla spiaggia, inondando con la loro allegria il quartiere di Copacabana. Mentre anche dalle ’favelas’ sui morros (colline) partono fuochi di artificio a illuminare il cielo carioca.
*
Fonte: Ansa, 31 ottobre 2022
FILOLOGIA DENDROLOGIA E STORIA: "PER UN’ ANTROPOLOGIA OLTRE L’ UMANO". *
Come pensano le foreste. Un nuovo approccio all’essere umani
di Dafne Crocella **
«Dormi a faccia in su. Se arriva un giaguaro vedrà che anche tu puoi guardarlo e non ti disturberà». È da questo consiglio, dato all’antropologo Eduardo Kohn da un uomo del villaggio runa di Avila nell’Amazzonia equadoregna, che si apre la riflessione sul modo in cui gli altri generi di esseri viventi ci percepiscono, ci guardano, ed effettivamente e più generalmente pensano. Eduardo Kohn è professore associato di antropologia alla McGill University di Montreal ed ha incentrato buona parte della sua ricerca etnografica sulla popolazione runa dell’Alta Amazzonia. Questo libro nasce da una profonda e prolungata conoscenza del villaggio di Avila, immerso nella Foresta Amazzonica. La prima visita di Kohn risale al 1992, a questa sono seguiti 4 anni, dal 1996 al 2000, di ripetuti ritorni. Il libro How Forests Think nasce dopo una permanenza nel 2010 ed è stato pubblicato per la prima volta nel 2013. L’opera, dopo aver vinto nel 2014 il Gregory Bateson Prize, è stata tradotta in oltre 10 lingue e dal 24 giugno è disponibile anche in Italia con il titolo Come pensano le foreste, edita dalla casa editrice Nottetempo e tradotta da Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri.
Un libro che è una rivoluzione di cui abbiamo effettivo bisogno. Un nuovo approccio copernicano pronto a mettere in discussione la centralità dell’antropos rispetto agli altri abitanti del Pianeta.
Il pensiero non è più appannaggio esclusivo del genere umano, non è il tratto che ci contraddistingue dagli altri esseri viventi, siano essi piante, animali o interi ecosistemi. Per spiegarci tutto questo e mettere in discussione i nostri parametri di approccio logico razionale, Kohn utilizza proprio i principi cardine del pensiero occidentale rifacendosi alla mitologia greca, alla filosofia classica, alla letteratura, all’ambito delle scienze e ovviamente all’antropologia culturale.
Impossibile dunque liquidare questo lavoro come una sorta di decostruzione psico-metafisica più vicina ai testi di carattere spirituale che a quelli scientifici. Ci troviamo di fronte a un pensiero logico razionale occidentale in grado di interrogarsi davanti a una foresta, mettersi in discussione e riscoprirsi. «Questo libro è un tentativo di meditare sull’enigma della Sfinge (quella che nel mito greco Edipo incontra sulla strada per Tebe), attraverso un approccio etnografico a una serie di incontri amazzonici altro-che-umani. Indagare le nostre relazioni con questi esseri che esistono in qualche modo oltre l’umano ci spinge a mettere in discussione le nostre abituali risposte sull’umano. L’obiettivo qui non è né sbarazzarsi dell’umano né conferirgli una nuova posizione, ma aprirlo». Kohn definisce tale approccio “antropologia oltre l’umano”.
Apre il primo capitolo introduttivo l’esergo dantesco a noi italiani particolarmente noto: «Ahi quanto a dir qual’era è cosa dura, esta selva selvaggia e aspra e forte»: ci stiamo inoltrando in un percorso di autoconoscenza che avrà come controparte il mondo selvaggio. E per farlo dobbiamo inevitabilmente, proprio come fece il padre della nostra lingua, tener presente la semiotica, la creazione e l’interpretazione di segni per comunicare. Kohn a questo riguardo chiarisce subito che «Il primo passo per capire come pensano le foreste è abbandonare i nostri preconcetti su cosa significhi avere una rappresentazione di qualcosa». Siamo abituati a considerare le rappresentazioni come linguaggi in quanto la nostra rappresentazione linguistica si basa su segni convenzionali collegati agli oggetti a cui si riferiscono. Ma non tutti i processi semiotici hanno queste proprietà. Dobbiamo superare l’approccio dualistico «in cui gli umani vengono descritti come separati dai mondi che rappresentano, per andare verso un approccio monista, nel quale i modi in cui gli umani si rappresentano i giaguari e i modi in cui i giaguari si rappresentano gli umani possano essere intesi come parti integranti, sebbene non interscambiabili, di un’unica storia senza fine. Date le sfide poste dalla necessità di imparare a vivere con una varietà sempre più grande di forme di vita - siano esse animali domestici, erbe infestanti, parassiti, organismi commensali, nuovi agenti patogeni, animali ‘selvatici’ o ‘mutanti’ tecno-scientifici - non solo è di cruciale importanza, ma è anche urgente sviluppare una precisa maniera di analizzare quanto l’umano sia distinto da, e allo stesso tempo in continuità con, tutto ciò che si trova al di là di esso».
In kichwa, la lingua dei runa, esiste il termine “sumak kawsay” ed esprime un concetto legato all’importanza del vivere in equilibrio con la foresta. Si tratta di un modo di prestare attenzione alle proprietà della vita nelle sue varie forme. È un orientamento etico che proviene dall’osservazione e l’interrelazione con il mondo naturale e prende forma quando l’essere umano riesce a pensare con la foresta. Kohn, attraverso diversi esempi e approfondimenti, giunge alla deduzione che una foresta pensi attraverso immagini che possiedono la qualità ontologica delle totalità semplici, ossia sono autosufficienti e complete, iconiche. Per connettersi a questi pensieri silvestri anche l’essere umano deve pensare attraverso immagini, per questo motivo i runa prestano particolare attenzione alle suggestioni che arrivano dal mondo onirico.
** Fonte: "Sapere Ambiente", 6 Luglio 2021 (ripresa parziale).
Nota
FILOLOGIA #DENDROLOGIA #STORIA:
"COME PENSANO LE FORESTE. PER UN’#ANTROPOLOGIA OLTRE L’UMANO.
Eduardo #Khon: "Se avessi scritto questo libro per i #Runa di #Ávila... non gli avrei dato lo stesso titolo"
Federico La Sala
Brasile: Lula e Bolsonaro al ballottaggio il 30 ottobre
Sondaggi smentiti, il presidente di destra batte le aspettative
di Redazione ANSA*
RIO DE JANEIRO. Il Tribunale supremo elettorale (Tse) del Brasile ha diramato alle 2:15 (le 7:15 italiane) i risultati praticamente definitivi delle elezioni presidenziali da cui emerge la certezza di un ballottaggio il 30 ottobre prossimo fra i due candidati meglio piazzati.
Con lo scrutinio delle schede del 99,99% dei seggi, Luiz Inacio Lula da Silva (Pt, sinistra) ha ricevuto 57.254.672 voti, pari al 48,43%, mentre Jair Bolsonaro (Pl, destra) ne ha ottenuti 51.070.672, equivalenti al 43,20%.
Il terzo posto nella scelta degli elettori è andato a Simone Tebet (Mdb, centro-destra) con 4.915.217 voti (4,16%) e il quarto a Ciro Gomes (Pdt, sinistra) con 3.599.157 suffragi (3,04%).
Il Brasile resta in bilico. Il risultato elettorale non ha restituito una vittoria netta. La festa è rimandata al ballottaggio del 30 ottobre. Luiz Inacio Lula da Silva, 76 anni, icona della sinistra sudamericana, grande favorito ai sondaggi, non ha confermato i pronostici di vittoria della vigilia, che gli attribuivano fino al 51% di consensi già al primo turno. Quasi al termine degli scrutini il leader del Partito dei lavoratori (Pt) aveva totalizzato il 48,43% di voti, mentre il suo avversario, il presidente di destra uscente, Jair Bolsonaro (Pl), 67 anni, il 43,20%, battendo tutte le aspettative, e tallonando in un conteggio sul filo di lana. "La lotta continua fino alla vittoria finale". Il ballottaggio non è che una "proroga", ha commentato Lula al termine dello scrutinio, spronando i delusi. Tornato a San Paolo da San Bernardo do Campo, sua roccaforte elettorale dove in mattinata aveva votato, il leader di sinistra ha atteso il responso al Novotel Jaraguà, con la moglie Janja, il vice designato per il suo futuro governo, Geraldo Alckmin, e l’ex presidente Dilma Roussef. Al termine della serata ha raggiunto l’avenida Paulista, prenotata per il bagno di folla della svolta, e ridotta invece a teatro per un abbraccio con qualche decina di migliaia di sostenitori. "Abbiamo vinto sulle menzogne" dell’istituto di sondaggi "Datafolha". Ora "lavorerò per cambiare il voto della gente" ha promesso Bolsonaro, in giornata bersaglio di un attacco hacker alla pagina web. Anche lui è rientrato dalla trasferta per il voto, da Rio de Janeiro al Palacio da Alvorada, la sua residenza ufficiale a Brasilia, dove la recinzione attorno all’edificio è stata addirittura ampliata, per ospitare i suoi numerosi sostenitori.
Da ora alla fine di ottobre la partita è indubbiamente tutta aperta, e per il colosso verde-oro si annunciano giorni difficili, con una nuova appendice di campagna elettorale ad alta tensione. Il rischio è che Bolsonaro getti benzina sul fuoco, incendiando le piazze ed accelerando nei suoi attacchi senza tregua per screditare il Tribunale superiore elettorale (Tse) ed il suo presidente, il giudice Alexandre de Moraes, cuore delle procedure democratiche. Una deriva pericolosa, con i Paesi occidentali - Europa e Stati Uniti in testa - che nelle ultime settimane avevano inviato appelli richiamando al rispetto dello stato di diritto. E in questo periodo di transizione il presidente uscente potrebbe varare misure provvisorie ad effetto immediato (con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale), per dare nuovo impulso alla liberalizzazione della vendita delle armi, accrescendo così il rischio di violenza politica. Una polarizzazione estrema che nei 46 giorni di campagna elettorale al veleno, dal 16 agosto all’apertura dei seggi elettronici del 2 ottobre, ha già fatto contare tre morti, e vari episodi di intimidazione. Secondo gli analisti, a pesare sul risultato sono stati gli indecisi, il tasso di astensione, e quanti hanno creduto di abbracciare la scelta del cosiddetto ’voto utile’ (quello cioè di chi avrebbe voluto vedere l’elezione chiusa al primo turno). Malgrado infatti il voto per i 156milioni di brasiliani chiamati alle urne sia obbligatorio, il tasso di astensione è salito dal 20,3% del 2018 all’attuale 20,94. E proprio Lula sarebbe stato il più danneggiato da questo incremento di assenze. Il primo turno è stato seguito anche dagli osservatori internazionali dell’Organizzazione degli Stati americani, su invito del Tse. Il gruppo - composto da 55 esperti provenienti da 17 Paesi - è stato dispiegato in 15 dei 26 Stati federativi e nel Distretto di Brasilia., certificando che tutto si è svolto in modo corretto, come ha dichiarato il capo della missione, Ma a sorvegliare sulle urne sono stati anche i militari dell’esercito, in un’iniziativa spinta da Bolsonaro, che come il suo avversario Lula ora medita le sue prossime mosse per la vittoria.
* Fonte: ANSA, 03 ottobre 2022
Cei. Zuppi: «L’Europa è irrilevante e risulta antipatica perché vincono i nazionalismi»
Dal presidente della Cei un richiamo a un’Europa "che conti di più", che sia più unita e solidale soprattutto di fronte alle grandi sfide del nostro tempo
di Luca Mazza, inviato a Firenze (Avvenire, sabato 17 settembre 2022)
È un richiamo a un’Europa "che conti di più", che sia più unita e solidale soprattutto di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, dalla lotta alle diseguaglianze alla necessità di un’ecologia integrale. Dal Festival dell’Economia Civile in corso a Firenze il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, invita l’Unione Europea a incidere maggiormente sulla scena internazionale senza far prevalere gli egoismi: "L’Europa è irrilevante, come hanno dimostrato le ultime crisi, perché vincono i nazionalismi, vince la piccola sovranità rispetto a una sovranità superiore. È irrilevante perché non c’è visione, quella che avevano i padri fondatori e tutti coloro che hanno vissuto la guerra, che avevano visione e consapevolezza che è indispensabile".
Ecco perché secondo Zuppi è urgente lavorare in modo diverso: "C’è bisogno di restituire all’Europa una grande prospettiva, altrimenti risulta antipatica e viene vista come un grande supermercato che non crede più a niente". In quest’opera di “rinnovamento” il presidente della Cei suggerisce di lasciarsi ispirare dai princìpi fondativi e dallo spirito con cui è nata l’Europa: "I nazionalismi - aggiunge Zuppi - sono l’opposto della bellezza dell’Europa che è una cosa straordinaria, è un dovere perché l’Europa nasce dalla sofferenza di milioni di persone che hanno perso la vita e non ci possiamo permettere di giocarci".
Citando più volte l’enciclica Fratelli tutti che "riassume perfettamente" la visione che bisogna avere per rispondere alle emergenze e ai nuovi bisogni, Zuppi sostiene che le disuguaglianze si combattono con "tanta solidarietà e tanta condivisione, e con la consapevolezza che se ne esce insieme, perché se restano perdiamo tutti".
Infine, sollecitato a dare un consiglio ai leader dei partiti italiani impegnati negli ultimi giorni di campagna elettorale, Zuppi evidenzia l’importanza di "evitare la tattica" e di non inseguire a tutti i costi temi e proposte "ad uso e consumo immediato".
Viaggio in Canada. Il Papa è arrivato a Edmonton: la cerimonia di accoglienza / Video
Viaggio del Papa. «In Canada è tempo di riconciliazione, ripartiamo senza dimenticare»
Parla il presidente della Conferenza episcopale canadese, Raymond Poisson, vescovo di Saint Jerome-Mount Laurier
di Elena Molinari, Montreal sabato 23 luglio 2022*
Un passo nel cammino della riconciliazione con le popolazioni autoctone e un conforto per i cattolici canadesi turbati dalle notizie sulle scuole residenziali. Il presidente della Conferenza episcopale canadese, Raymond Poisson, vescovo di Saint Jerome-Mount Laurier, a pochi chilometri da Montreal, ha grandi attese per la visita del Papa che comincerà oggi ad Alberta.
Il Pontefice ha accettato l’invito dei vescovi canadesi di venire nella nostra terra nel contesto della riconciliazione con le popolazioni indigene. Durante il suo incontro con i rappresentanti delle Prime Nazioni autoctone in Vaticano, si è scusato per la partecipazione della Chiesa cattolica nella gestione nelle scuole residenziali. Quando poi gli ho parlato di quanto sant’Anna sia importante per i canadesi, sia autoctoni che non, ha accettato con entusiasmo di venire a celebrare con loro la festa della madre di Maria.
Il programma è stato deciso in collaborazione con i leader delle Prime Nazioni e sono state scelte una tappa nell’Est e una nell’Ovest, due realtà molto diverse. E poi una nel Grande Nord, terra d’origine della popolazione Inuit. Ad Alberta, dove Francesco atterrerà, è stato scelto un luogo di pellegrinaggio, il lago Sant’Anna, a Nord di Edmonton, un bellissimo luogo naturale. Chiamato Wakamne o lago di Dio dalla nazione Alexis Nakota Sioux e Manito Sahkahigan o Lago Spirito dai Cree, da oltre cent’anni è la destinazione di incontri spirituali unici in Nord America. Il Papa visiterà anche una scuola residenziale che è stata aperta dal 1916 al 1975. All’Est è stato scelto il Santuario di Sant’Anna de Beaupré, un’altra antica meta di pellegrinaggio che accoglie persone di ogni appartenenza etnica e sociale da oltre 350 anni. Da allora i Mi’kmaq onorano sant’Anna come un’anziana che guida con saggezza la comunità. Entrambi i siti faranno da sfondo a eventi ad ampia partecipazione di pubblico, che si alterneranno a momenti più privati, in particolare quello nel Nunavut, dove il Papa andrà a salutare gli Inuit a casa loro. Ad ogni tappa c’è stata un’enorme richiesta e i posti sono già tutti esauriti.
Penso che ci permetterà di andare al di là delle scuse per cominciare a fare insieme dei gesti che permettano di avanzare insieme, senza dimenticare. Il primo è la venuta stessa del Papa, soprattutto nell’ottica della sua ridotta mobilità, che rivela il suo grande interesse. Inoltre i vescovi canadesi hanno creato un fondo di 30 milioni di dollari, che per la nostra Chiesa locale è stato difficile raccogliere, per progetti da realizzare in cinque anni insieme ai consigli delle bande e delle riserve, che approfondiscano la mutua conoscenza e costruiscano dei monumenti in memoria dei bambini morti nelle scuole residenziali. Sono già stati creati dei comitati congiunti a questo scopo.
In Quebec, da dove vengo e dove si trova la mia diocesi, siamo passati in relativamente poco tempo da una Chiesa che era un’istituzione sociale, all’interno della quale la pratica religiosa non era sempre vissuta in piena libertà a causa della pressione sociale, a una Chiesa che riunisce persone che decidono di pregare e di implicarsi nella vita comunitaria malgrado la pressione sociale che spinge in direzione contraria. Sono sempre sorpreso di vedere come questa tensione permane fra i fedeli. Il risultato è che la presenza alla Messa domenicale è molto bassa, ma ci sono molti segni che la fede e il bisogno di spiritualità sono forti, come si vedrà in occasione della visita del Santo Padre. Noto ad esempio che i giovani sono molto più interessati dei loro genitori, cresciuti all’indomani della cosiddetta rivoluzione tranquilla. Penso che il Papa saprà portare loro, in questo contesto, la conferma che la Parola di Gesù dà senso alla vita.
Soprattutto dell’Ovest, dove la presenza e l’influenza delle scuole è stata molto più significativa, i cattolici hanno sofferto all’apprendere queste notizie. Io ho 74 anni e non ne avevo sentito parlare fino al 2015, quando è stato presentato il primo rapporto su queste scuole volute dal governo. Nel 2021, alla scoperta dei cimiteri, che sono già citati dal rapporto, l’emozione ha preso il sopravvento anche fra i cattolici. Il Papa porterà loro conforto e conferma della sua volontà di riconciliazione.
Assolutamente. Diffonderemo al massimo ogni tappa sulle reti sociali per toccare più gente possibile. Questi mezzi sono nostri alleati e bisogna saperli utilizzare e relativizzare. E soprattutto collaborare con loro perché il Vangelo incontri l’uomo.
RISALIRE LA CORRENTE. Storia Filosofia, Antropologia, Psicoanalisi, e Costituzione (#2giugno 2022).
Europa e Giubileo di Platino di Elisabetta II d’Inghilterra. Presente storico e storia di lunga durata...
Per riflettere sull’idea di sovranità (e l’individualità dello Stato), oggi, associare (come ha fatto qualcuno) la figura della regina Elisabetta II con il testo della "Filosofia del diritto" (& 279) di Hegel è un ottimo invito a svegliarsi dal sonno dogmatico (Kant) e a riaprire la questione antropologica (e teologico-politica)!
Sollecita a ripensare la storia dell’Europa quanto meno dalla disfatta della Invincibile Armada, da Elisabetta I e da Shakespeare e, ancora, da Trafalgar e da Napoleone e, infine, dal successo di Hegel di proporsi (illuminato da Napoleone a Jena, 1806) come interprete della storia dell’ "anima del mondo", come figura del "Re del mondo"!
EDIPO, TEBE, E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (Freud, 1929). La questione antropologica e politica su cui si arrovella Shakespeare con il suo "Amleto" è ancora l’enigma della sfinge: "Che cos’è mai un uomo se del suo tempo non sa far altr’uso che per mangiare e dormire?" (Amleto, Atto IV, Sc. 4).
Federico La Sala
L’IMPERO E LA CHIESA (BARI, 1936). Storia, storiografia, e sonno dogmatico.
Una nota a margine di una segnalazione ... *
Il 9 maggio 1936, Mussolini celebra "dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui Colli fatali di Roma". Il "5 settembre 1936", nella Basilica di San Nicola di Bari, è murata su una parete una lapide ben illuminata su cui è scritto:
Per capire le ragioni politico-culturali di questo "documento" del Comune di Bari, collocato "nello storico tempio del santo mediterraneo", nella Chiesa di San Nicola di Bari, forse, è bene ampliare lo sguardo intorno alla data del "5-SETT-MCMXXXVI" (5 SETTEMBRE 1936) e quanto meno ricordare gli accordi sottoscritti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede l’11 febbraio 1929 (Patti Lateranensi) e al contempo "riascoltare" e rileggere il "Discorso di proclamazione dell’Impero", tenuto da Mussolini dal balcone di piazza Venezia la sera del 9 maggio 1936:
Il 1° marzo 1924, su "L’Ordine Nuovo", Antonio Gramsci aveva già scritto: "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, RomoloAugustolo". Evidentemente gli ideologi imperiali avevano ignorato la lezione di Dante sulla Monarchia e sui "venticinque secoli" (Par. XXXIII, 95), come quella di Goethe sui "tremila anni" ("Libro del malumore", 1819).
* Una "lapide che lascia perplessi!", si cfr. la segnalazione di Nicola Fanizza.
Federico La Sala
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO vALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 24 MARZO 2022) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
LA RIVOLUZIONE FRANCESE, HITLER, E "LA STRANA DISFATTA". Una storia di lunga durata...
Marc Bloch così concludeva la sua riflessione sulla "strana disfatta": «Hitler diceva, un giorno, a Rausching: "Facciamo bene a speculare più sui #vizi che sulle virtù degli uomini. La Rivoluzione francese si richiamava alla virtù. Sarà meglio per noi fare il contrario". Si perdonerà a un Francese, cioè a un uomo civile - che è la stessa cosa - di preferire, a questo insegnamento, quello della Rivoluzione e di Montesquieu: "In uno Stato popolare è necessaria una forza, che è la virtù"»(Marc Bloch,"La strana disfatta. Testimonianza scritta nel 1940").
Appunti sul tema, nel sito, si cfr.
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
FLS
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E COSTITUZIONE:
RIPENSARE COSTANTINO E LA TEOLOGIA E LA POLITICA DELL’EUROPA.
Un omaggio a Beatrice Maria e Lucia (8 marzo) e a Dante Alighieri (25 marzo - Dantedì)...
USCIRE A RIVEDERE IL CIELO STELLATO. Non avendo sottratto alla teologia e alla logica dell’ Imperatore Costantino l’opera di Dante Alighieri (ridotto dalla Chiesa Cattolica di Giovanni XXII, prima che da Ugo Foscolo, a "ghibellino fuggiasco"), filosofi e storici hanno finito per banalizzare anche il lavoro di Ernst H. Kantorowicz! Si tenga presente, per capire bene e meglio l’uno e l’altro, che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" è intitolato "La regalità antropocentrica: Dante" e, al contempo, che la regalità antropocentrica è da leggersi in senso antropologico (di ogni essere umano, "ecce homo"), non in senso di una andrologia costantiniana (di ogni essere umano-maschio, "ecce vir")!
COSTITUZIONE. La "Monarchia" dei "due Soli" non dice né della dittatura dell’Imperatore né della dittatura del Papa, ma indica che l’uno e l’altro, semplicemente (la cosa più difficile a farsi), dia a "Dio" (l’amor che muove il sole e le altre stelle) ciò che è di "Dio" e ognuno all’altro (entrambi sovrani - memoria di don Milani) ciò che tocca all’uno e all’altro - nel riconoscimento della sovranità di "Dio" stesso, della Legge dei nostri Padri Costituenti e delle nostre Madri Costituenti. Se in principio era la Costituzione (il Logos), "Quis Ut Deus?" ("Chi è come Dio")?!
Il nuovo scontro di civiltà
di Ida Dominijanni (CRS, 4 Marzo 2022)
All’alba del nono giorno di guerra l’attacco delle truppe russe alla centrale nucleare Zaporizhzhia rende meglio di qualunque altro dettaglio quale sia la posta della partita globale, biopolitica prima che geopolitica, che si sta giocando in Ucraina. E il peggio deve ancora venire, ha comunicato Macron cui Putin ha fatto presente che non intende fermarsi finché non avrà conquistato l’intero paese. Le regioni russe dell’est e del sud con gli accessi al mare sono ormai in mano ai russi, a Mariupol mezzo milione di abitanti sono intrappolati senza acqua e senza cibo, a nord-ovest Leopoli è piena di profughi in fuga, più donne e bambini che uomini perché gli uomini restano a combattere una battaglia di resistenza già persa.
L’esile negoziato in corso a Brest ha deciso l’apertura di corridoi umanitari per favorire l’esodo dei civili, mentre la colonna di 60 kilometri di carri russi continua la sua lenta ma inesorabile avanzata su Kiev lungo il corso del Dnepr che in futuro potrebbe dividere l’Ucraina fra un est russo e un ovest occidentale, com’era un tempo la Germania: le stesse cose ritornano sempre, nella storia, come il rimosso nell’inconscio. Dev’essere per questo che tutti definiscono questa in Ucraina “la prima guerra nel cuore dell’Europa dopo più di settant’anni”, dimenticando clamorosamente che in Europa la guerra era già tornata negli anni Novanta, in quella ex Jugoslavia che ha anticipato e prefigurato tutte le guerre successive a base etnico-nazionalista sparse per il mondo. -Forse che la Jugoslavia non era il cuore ma la periferia dell’Europa? O non sarà piuttosto che nell’immaginario europeo, il cuore dell’Europa resta sempre lì, al confine fra l’ex impero sovietico e l’Occidente democratico? Lì, dove secondo gli stessi che nell’89 decretavano “la fine della storia” oggi la storia riprenderebbe in grande, quasi che in mezzo non ci fosse stato niente. Lì, dove si sono convocati tutti i fantasmi che fino a ieri l’altro vagavano per l’est e per l’ovest, e che ora muovono questa terribile resa dei conti di un trentennio cominciato male e finito peggio. Che è la vera posta in gioco, reale e simbolica, della tragedia che si sta consumando.
Hanno suscitato indignazione e scandalo i due discorsi del 21 e del 24 febbraio con cui Putin ha annunciato prima il riconoscimento ufficiale delle repubbliche separatiste del Donbass e poi la sua “operazione militare speciale”, come l’ha chiamata lui, in Ucraina. Ne consiglierei tuttavia la lettura integrale (il testo è facilmente reperibile in rete), ammesso che sia ancora lecito cercare di capire perché accade quello che accade senza essere tacciati di connivenza con il nemico. Liquidati dai più come una litania del risentimento, o come il delirio paranoico da sindrome di accerchiamento di un uomo solo al comando provato dalla fobia del Covid, i due discorsi inanellano alcuni dati di fatto incontrovertibili sull’estensione a est della Nato, sulle guerre di aggressione perpetrate dall’Occidente dagli anni novanta in poi (Kosovo, Iraq, Siria, Libia), e, più in generale, sullo “stato di euforia da superiorità assoluta, una sorta di assolutismo di tipo moderno, per di più sullo sfondo di un basso livello di cultura generale” che si è impossessato del campo dei vincitori della Guerra fredda.
Ma al di là di questo merito, nonché della ricostruzione delle cause di lungo periodo della rinascita dei nazionalismi, a Est dopo la fine dell’Urss, ciò che colpisce nelle parole di Putin è la rivendicazione della dimensione storica come sfondo ineludibile del discorso politico. Precisamente lo sfondo che manca al discorso politico occidentale, che di spessore storico sarebbe supposto essere il più dotato. E che invece risponde all’aggressione di Putin usando - mirabile sintesi di un cinquantennio di ideologia neoliberale - solo il linguaggio dell’economia e della sicurezza: sanzioni e riarmo, nell’oblio - perfino teorizzato, come nel discorso alle camere di Mario Draghi - del passato che ha costruito, mattone dopo mattone, il presente.
Sia chiaro: lo sfondo e l’uso della storia non giustificano in alcun modo la mossa di Putin. L’invasione di uno Stato sovrano e confinante viola le basi del diritto internazionale, resuscita, a proposito di storia lunga, tutti i mostri del passato europeo, e si configura per di più, nelle stesse motivazioni che Putin ne dà, come una sorta di preemptive war, una guerra preventiva contro il pericolo eventuale di un’aggressione alla Russia da parte della Nato (i nemici assoluti sono spesso segretamente gemelli, e Putin evidentemente ha imparato qualcosa da George W. Bush).
Nessuna ragione di lungo periodo esenta di un grammo di responsabilità la decisione con cui il presidente russo ha portato il mondo sull’orlo del precipizio. Ma pare assai improbabile che dal precipizio le democrazie occidentali possano uscire senza aprire al proprio interno tre linee di ripensamento autocritico di un passato prossimo che invece tendono solo a rimuovere o a riconfermare.
La prima linea riguarda l’atroce sequenza di guerre con cui l’Occidente ha insanguinato l’epoca di pace che aveva annunciato alla fine della Guerra fredda, e che rischiano di costituire i precedenti formali, non solo le concause politiche, dello scenario che si va prefigurando in Europa. Dovrebbe balzare agli occhi l’analogia agghiacciante fra le motivazioni addotte da Putin a sostegno della minoranza russa in Ucraina e quelle che mossero il cosiddetto intervento umanitario della Nato a sostegno della minoranza kosovara in Serbia, con relativo bombardamento di Belgrado: e invece non un cenno se ne sente in specie nel Pd, erede del partito che fu il principale regista italiano di quella guerra, oggi abitato da una classe dirigente che sembra del tutto ignara della drammaticità di quella stagione e del tutto conforme alla narrativa trionfale del dopo-’89.
Dovrebbe risuonare come un monito sullo stato delle democrazie occidentali la madre di tutte le fake news e di tutte le post-truth politics, ovvero la gigantesca menzogna sulle presunte armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein che giustificò la “guerra preventiva” in Iraq. Soprattutto, dovrebbe portare un grammo di senno, questo sì preventivo, sullo scenario europeo prossimo venturo la scia di guerre civili, regimi instabili ed esodi migratori biblici lasciata dietro di sé dall’intera sequenza delle guerre post-89, tutte caratterizzate dall’intreccio micidiale di rivendicazioni nazional-sovraniste e rivendicazioni etnico-regionali che si ripropone oggi in Ucraina e rischia di riproporsi in un teatro europeo più vasto di quello ucraino. E invece è proprio nella ripetizione nevrotica di quella dinamica che ci stiamo infilando, con il corredo sinistro di un soccorso armato alla resistenza ucraina fatto di contractors, appalti, privatizzazione dell’uso della forza - un film, anche questo, già visto in Iraq e in Siria, con le conseguenze che sappiamo.
La seconda linea di riflessione autocritica riguarda lo stato delle democrazie occidentali e quello connesso della costruzione europea. Oggi siamo tutti dalla parte dell’Ucraina, vittima di un’aggressione inammissibile, e da questa parte bisogna restare finché i carri armati russi resteranno in campo. Ma nella retorica monotonale occidentale l’Ucraina è diventata in pochi attimi la trincea della difesa della democrazia tout court, anzi, per dirla con le parole di Joe Biden nel suo discorso sullo stato dell’Unione, la trincea del conflitto fondamentale del nostro tempo, che sarebbe quello fra democrazia e autocrazia. Le élite democratiche americane sono impegnate da tempo a costruire questo frame narrativo, opposto e speculare all’attacco alla liberaldemocrazia occidentale portato avanti dalla concezione putiniana della cosiddetta “democrazia sovrana”. E se nella politica interna americana questo frame è servito a sconfiggere Trump, in politica estera è destinato a prendere il posto di quello sullo “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam che ha tenuto banco per tutto il ventennio della war on terror successivo all’11 settembre. Ma dopo Trump, gli americani non possono non sapere che la linea di confine fra democrazie e autocrazie è diventata molto esile, e può essere scavalcata dagli autocrati che crescono all’interno delle democrazie occidentali, non soltanto al di fuori di esse.
E noi europei non possiamo non sapere che le tentazioni autocratiche e sovran-populiste sono cresciute, soprattutto ma non solo nei paesi ex-sovietici dell’est, parallelamente ai processi di crisi e de-democratizzazione dei paesi dell’ovest, e sovente per reazione alla delusione di un allargamento a est dell’Unione rivelatosi più un’annessione alla religione del mercato che un’integrazione del mosaico di culture e tradizioni del vecchio continente. Anche da questa parte dell’oceano, il pericolo autocratico non viene solo dall’esterno, e la democrazia non può essere impugnata come una bandiera senza macchia e senza peccato.
Questo nodo lega il trentennio che abbiamo alle spalle al presente e al futuro dell’Unione europea e della sua collocazione nello scacchiere globale. Il rilancio dell’atlantismo da parte di Joe Biden appariva molto ambivalente già all’indomani della sua elezione: mentre riavvicinava le due sponde dell’Atlantico che Trump aveva allontanato, innalzava un nuovo muro fra l’Europa e le autocrazie orientali, chiamando la Ue a posizionarsi nettamente contro di esse. Già allora le voci più consapevoli spinsero infatti per un’Unione atlantista ma aperta verso Est e capace di porsi come ponte fra gli Stati uniti, la Russia e la Cina. Complice la fine del cancellierato di Angela Merkel, nonché verosimilmente l’insediamento del governo Draghi in Italia, le cose hanno preso purtroppo un’altra piega.
E oggi è più che inquietante il coro mainstream di soddisfazione che si leva per un compattamento europeo che fa propria la parola d’ordine americana del nuovo scontro di civiltà fra Occidente e Oriente, e avviene tutto sotto l’insegna della Nato, di sanzioni durissime che colpiranno Putin ma affosseranno la transizione energetica europea, di una politica di pura potenza, di un riarmo di cui la Germania si fa protagonista e che travolge persino la neutralità storica di paesi come la Finlandia.
Se si rafforza in questo modo, dopo aver clamorosamente mancato tutte le possibilità preventive di disinnescare politicamente la miccia che Putin stava accendendo, l’Unione europea finirà col fare le spese del ridisegno dell’ordine globale che si sta giocando nella guerra fra l’imperialismo russo e il nazionalismo ucraino.
Se in Ucraina non cessa il fuoco e l’Europa non inverte la rotta imboccando la strada della smilitarizzazione, il conflitto si estenderà in modo imprevedibile e i tempi si faranno durissimi per la specie umana. Se le democrazie si compatteranno al loro interno sulla base dell’ennesima proclamazione dello stato d’emergenza, come già sta avvenendo in Italia, la credibilità della democrazia subirà un ennesimo e fatale colpo. Come sempre e mai come oggi, per incidere sullo scacchiere geopolitico il pacifismo deve alimentarsi di un conflitto politico aspro dentro casa, in primo luogo contro la militarizzazione del dibattito pubblico.
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA E FILOLOGIA.
LA SCOMPARSA DELLA "FANCIULLA STRANIERA" (F. Schiller, 1796) E DELL’AMORE (K. Marx, 1844) E IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ (S. Freud, 1929: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità [...]").
Una nota a margine di una memoria dell’antica commedia greca ...
"HOMO HOMINI LUPUS" (Freud, 1929). Formidabile questa riflessione di Andreas Katsouris sulla frase di Menandro! A ben riflettere sulle parole (e, in particolare, sul legame tra la "grazia" ("charis") del χαρίεν ("charien") e "l’anthropos), si dovrebbe tentare di capire su come e quando è stata persa la memoria delle Grazie (greco: Χάριτες - Charites) ed è stata persa anche la traccia di ogni umanità e l’orizzonte culturale dell’Europa (e del Pianeta Terra) è diventato sempre più cosmoteandrico, edipicamente, con la stessa connivenza della filosofia, della filologia, e della psicoanalisi!
CRITICA DELLA VIOLENZA: J.-J. ROUSSEAU, K. MARX, W. BENJAMIN. Una prima traccia della "caduta" è nell’atto logico-storico ("primordiale", che prima di essere materiale è linguistico) della recinzione: "Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della società civile"("Discorso sull’origine della disuguaglianza", 1754"); la seconda è nella denuncia marxiana (nella "Sacra Famiglia") dell’inversione soggetto-predicato (il problema della mele, delle pere, e delle fragole... del Mentitore) e della "fanciulla straniera e la civetta hegeliana" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197)"!
A quando il sorgere della Terra?
DISUGUAGLIANZA, INTOLLERANZA, E PACE PERPETUA...
FINE DELLA STORIA: NON COMPRESA LA LEZIONE DI DANTE ALIGHIERI SUI DUE SOLI E DI GIORDANO BRUNO (17 febbraio1600) SULLE TRE CORONE, DUE CORONE IN TERRA E UNA IN CIELO (“Ultima coelo manet)”, SI VA ANCORA AVANTI CON LE REGOLE DEL GIOCO DELLE TRE CARTE (questa è quella che vince, questa quella che perde, ecc...) e l’espulsione (lo spaccio) dal campo da gioco della BESTIA TRIONFANTE continua ad essere rinviata... USCIRE DAL LETARGO. La Regola, il Logos, non è un "Logo"!
CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA COSMOTEANDRIA. Non sapendo affrontare e non volendo risolvere il problema di Jean Jacques Rousseau (Discorso sull’origine della disuguaglianza: "Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile") come quello di Sigmund Freud (Il disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comuni tà critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori"), non ci resta che lavorare ... "PER LA PACEPERPETUA" (KANT, 1795)!!!
FLS
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, MITO E STORIA.
DANTE 2021: OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE, UN PASSO AL DI LÀ DELL’EDIPO. Solo con Virgilio (e con Ovidio) e, soprattutto, con Beatrice (la madre! - Freud docet), Dante poteva e può rinascere (Par. XXXIII, 106-108: "Omai sarà più corta mia favella, /pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/ che bagni ancor la lingua a la mammella"), uscire dal letargo (Par. XXXIII, 94) e, addirittura, riproporsi - in un’ottica arcadica e messianica (con la sua Divina Commedia) - come "un altro Tifi, un’altra Argo" (Virgilio, Ecl. IV, 34)!
"Ulisse e la sua Odissea... chi non conosce il lungo peregrinare dell’eroe omerico? Ma forse pochi sanno che Ulisse era figlio d’arte: il padre Laerte, infatti, prese parte assieme ai cinquantadue valorosi greci noti col nome di Argonauti, a una mitica impresa che li vedrà solcare i mari fino a Oriente, oltre i confini conosciuti, alla conquista del vello d’oro (la pelle di un ariete dorato che era apparso in soccorso a due giovani Frisso e Elle e li aveva condotti in salvo al di là dei mari, in Colchide).
L’impresa degli Argonauti è una delle più affascinanti del mito greco anche perché il tema del viaggio sulla nave Argo si intreccia non solo con le mille avventure vissute, o la storia d’amore tra Giàsone e Medea, ma anche con temi che in qualche modo hanno a che vedere con la conquista di conoscenze tecnico-scientifiche. Intanto perché Argo è la primissima nave mai costruita, che segna l’inizio della navigazione, per la quale occorrevano conoscenze prima di allora appannaggio esclusivo degli Dei: conoscenze tecniche, geografiche e astronomiche.
La spedizione degli argonauti ai confini orientali del mondo conosciuto si rivela così una spedizione altamente allegorica, in cui si narra di fatto non solo di una missione civilizzatrice ma anche dell’ incontro tra Occidente e Oriente, che aveva già elaborato un sapere astronomico e astrologico; ed è di fatto un’anticipazione di quel che ebbe luogo nella realtà documentata nel III sec. A.C.: il viaggio di Alessandro Magno in India da cui riportò avanzatissime conoscenze matematiche.
Ma ci parla anche di un mito che persiste tutt’oggi: quello del viaggio verso l’ignoto, del desiderio di spingere sempre più avanti le frontiere dello scibile, che tanto caratterizza la ricerca scientifica." (Clara Caverzasio, "La spedizione argonautica, tra mito e scienza", Il Giardino di Albert (ReteDue), 30 maggio 2015)
***
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
VITA "EXTRATERRESTRE" E SGUARDO NUOVO. Tracce per una svolta_antropologica...
IL PRESENTE. Come è possibile "guardare al futuro" se torniamo al passato? Grazie al "passato", siamo arrivati al "presente" ("futuro" del passato). Ma "un ritorno al passato", cosa può dirci di diverso da quanto già sappiamo, se ancora camminiamo e pensiamo come in "passato"?!
IL PASSATO. Un vento fortissimo viene dal passato e questo vento (ricordare Walter Benjamin) a noi, che siamo spinti sempre più avanti e che continuiamo a guardare ipnotizzati il "passato", quale "futuro" mostra? Un crescere oceanico di macerie e rifiuti...
Filosofia, Scienza, e DisagiodellaCiviltà (Freud, 1929). Il problema è proprio quello di liberare l’epistemologia dalla caverna platonica e ripartire da un ulteriore sguardo nel gorgo claustrofilico (Elvio Fachinelli, Claustrofilia, 1983) e soprattutto da un fatto inaudito e impensato: nascere, diventare un essere umano extraterrestre e aprire gli occhi sul ... SorgeredellaTerra.
Federico La Sala
MUSICA, MUSE, PROFETI E SIBILLE, ANTROPOLOGIA, E "MOS-ART" DI SALUTE E LIBERAZIONE:
DISAGIO DELLA CIVILTA’ (FREUD, 1929). Il problema, a mio parere, è che la ricerca e i risultati di Alfred A. Tomatis (Nizza, 1º gennaio1920 - Carcassonne, 25 dicembre2001) sono talmente innervati con la nostra non-volontà di sapere di sé che, pur comprendendo che già il solo "parlare è suonare il proprio corpo" (Alfred Tomatis), alle accademiche platoniche orecchie (cieche e sorde e zoppe, come quelle di Edipo) il messaggio non arriva o arriva assolutamente distorto.
DANTE 2021: MEMORIA DI APOLLO E DELLE MUSE
#COSMOTEANDRIA E #ANTROPOLOGIA.
L’#autodeterminazione, la #libertà
di disporre di sé,
è
dell’#uomo come della #donna,
ma l’#Europa pensa come se vivesse
in una #terra piatta, nel suo #mare nostrum.
Non ha ancora visto il #Sorgere della Terra?!
L’elezione di Roberta Metsola è un segnale
Potrà non complicare il voto sui diritti riproduttivi, ma legittima le posizioni antiabortiste in Europa
di Giulia Blasi (La svolta, 19 gennaio 2022)
Per parlare dell’elezione di Roberta Metsola a Presidente del Parlamento Europeo non voglio partire da facili dicotomie buono/cattivo. Di Metsola si sta parlando molto perché oltre a essere una donna (con nome e cognome, non la solita Una Donna che per settimane sembrava dovesse diventare Presidente della Repubblica e adesso, come da copione, è sparita dal radar) è anche la più giovane presidente nella storia del Parlamento Europeo, e solo la terza a rompere la lunga teoria di volti maschili incorniciati nei corridoi dei palazzi di Bruxelles.
La morte improvvisa di David Sassoli ha solo accelerato un processo che era già in corso da tempo per la ricerca di una figura all’interno delle fila del centrodestra, e Metsola - già presidente a interim e figura che gode di una grande stima fra i colleghi - è stata eletta anche con i voti del gruppo S&D, il gruppo dei socialisti e democratici guidato da Iratxe García Pérez, politica spagnola apertamente femminista. L’elezione di Metsola con i voti dell’S&D è stata frutto di un negoziato, come sempre succede in questi casi: in cambio del loro sostegno, i socialisti hanno chiesto e ottenuto una serie di nomine a cariche importanti.
Tutto regolare, quindi, dal punto di vista della democrazia parlamentare e del suo funzionamento. Il motivo per cui l’elezione di Roberta Metsola sta facendo discutere è un altro: la neopresidente maltese è nota da tempo per le sue posizioni antiabortiste, espresse anche nel corso del suo mandato come europarlamentare, e Malta è l’unico paese dell’Unione europea ad avere reso la procedura abortiva del tutto illegale (l’ultimo intervento sul tema risale al 2005), senza eccezioni. Cosa che - come sempre accade lì dove l’accesso all’aborto è limitato o vietato - spinge le donne ad andare all’estero per poter interrompere una gravidanza. Quelle che non possono farlo cercano di procurarsi un aborto con altri metodi, non sempre sicuri. Il blocco dei voli in ingresso a marzo 2020 ha anche lasciato le donne maltesi sprovviste di contraccettivi, considerati “non essenziali” dal governo.
Non è certo l’elezione di Metsola a ricordarci che opporsi all’autodeterminazione delle donne non è ancora considerato un difetto invalidante per una figura politica di spicco: nel 2013 il rapporto Estrela, che fra le altre cose chiedeva il riconoscimento dell’accesso all’aborto come diritto umano, fu bocciato dal Parlamento Ue anche a causa dell’astensione di alcuni politici di centrosinistra, fra cui spiccano i nomi di Silvia Costa e Patrizia Toia, ma anche del compianto Sassoli. Anche l’ex presidente Antonio Tajani non ha mai fatto mistero delle sue posizioni antiabortiste. Se Metsola viene giudicata con maggiore severità non è perché ha difeso il diritto del governo maltese di ostacolare il diritto delle cittadine di decidere dei loro corpi, e nemmeno perché da una donna ci si aspetta che quel diritto sia disposta a difenderlo anche contro le sue personali convinzioni. Dal canto suo, la nuova presidente ha emanato vaghe rassicurazioni sulla sua intenzione di rispettare la volontà del Parlamento e la missione dell’Europa di proteggere i diritti di tutti, dichiarazioni che la storia ci insegna essere soggette ad ampia interpretazione.
Il problema è più simbolico che pratico, ma sappiamo benissimo quanto i simboli siano determinanti nel definire questioni politicamente delicate come quella dell’aborto. L’ennesima donna bianca, bionda, rassicurante e conservatrice nella stanza dei bottoni ci mostra che la faccia del potere cambia, ma di poco, e non in un modo che possa minacciare l’ordine costituito. Metsola, come tante prima di lei, si presta a fare da scudo con la sua femminilità a un’osservazione ricorrente di chi si batte per i diritti riproduttivi, vale a dire che la sottorappresentazione delle donne in politica rende più difficile il processo di restituire centralità all’esperienza femminile, in tutte le sue varianti. Metsola è una donna: la sua parola sull’aborto conta, perché viene da una persona con un utero, una persona che l’esperienza di vivere in un corpo femminile la fa ogni giorno, e se la sua parola è contro l’aborto, quella parola verrà assunta come finale da chi ritiene che interrompere una gravidanza sia una scelta aberrante, un crimine a cui opporsi con ogni mezzo, e non una decisione che spetta solo a chi quella gravidanza la ospita.
L’elezione di Roberta Metsola potrà non complicare o sbilanciare il voto sulle questioni legate ai diritti riproduttivi, ma è un segnale. Conferisce legittimità all’azione di quei governi che in Europa lavorano per sopprimere le libertà individuali, inclusa quella di scegliere se portare avanti una gravidanza. Perché l’aborto è, e sarà sempre, solo una questione di controllo dei corpi: la vita non c’entra, la natalità non c’entra, c’entra solo la volontà di sottrarre alle donne e alle persone che possono generare la libertà di disporre di sé.
#COSMOTEANDRIA E #ANTROPOLOGIA.
L’#autodeterminazione, la #libertà
di disporre di sé,
è
dell’#uomo come della #donna,
ma l’#Europa pensa come se vivesse
in una #terra piatta, nel suo #mare nostrum.
Non ha ancora visto il #Sorgere della Terra?!
Il reportage.
I «ladri di terre» si mangiano pezzi di Amazzonia brasiliana
Boom delle occupazioni di aree protette e riservate alle comunità rurali negli ultimi anni. E mentre le fazendas si ampliano, crescono violenza e deforestazione
Lucia Capuzzi, inviata a Imperatriz (Brasile) (Avvenire, sabato 15 gennaio 2022)
«L’ultima volta è stata nel marzo 2020: si sono presentati qui sventolando la loro “licenza ambientale”. Peccato che non mostrino mai i titoli di proprietà. Perché non ce li hanno. Tutti i permessi sono falsi». Ci avevano già provato tre anni prima, quando erano arrivati direttamente con le ruspe per abbattere alberi centenari, costruzioni e campi. E far posto al raddoppio della Br-135, l’autostrada che attraversa il Nord-Est brasiliano per oltre 2.500 chilometri, congiungendo gli Stati di Maranhão e Minas Gerais. Anacleta Pires da Silva li aveva visti da lontano. Si era piazzata di fronte alle scavatrici, sbarrando loro il passo con il suo corpo minuto. Altri abitanti del quilombo di Santa Rosa dos Pretos l’avevano seguita. E le autorità, promotrici del progetto di ampliamento, avevano dovuto cedere. Almeno temporaneamente. Sono ormai 38 anni che Anacleta combatte per difendere la propria casa dalla lingua d’asfalto che la lambisce a meno di trenta metri di distanza. Una dimora modesta ma molto curata. Lampade e monili appesi alle pareti rosa acceso rivelano l’abilità artigianale di Anacleta. Anche così questa donna di 54 anni, dalla pelle nerissima e il sorriso facile tramanda la memoria degli antenati strappati all’Africa e incatenati alle piantagioni del Brasile coloniale. Schiavi nel corpo ma non nello spirito, capaci di emanciparsi e creare oasi di libertà ai margini dell’Amazzonia.
A differenza degli altri quilombos - comunità di africani fuggitivi nascoste della foresta tuttora esistenti e tutelate dalla Costituzione - quello di Santa Rosa nasce in modo “legale”. Fu lo stesso proprietario a donare, nel testamento, la fazenda (piantagione) agli ex schiavi alla fine dell’Ottocento.
Nemmeno il regolare lascito ha messo al riparo gli attuali 4mila abitanti dal rischio ciclico di sfratto per far posto a nuove piantagioni o grandi opere. Santa Rosa, nel cuore dello Stato del Maranhão, fa da cerniera tra le due frontiere dell’agrobusiness brasiliano: il Cerrado - savana tropicale fondamentale per la sopravvivenza della foresta limitrofa - e l’Amazzonia.
Terre fertili e “disponibili” grazie alla rete di complicità che lega élite politica e latifondo. E che ha nel grilagem - falsificazione dei certificati di proprietà da parte dei fazendeiros con la complicità diretta o indiretta delle autorità - la sua espressione più drammatica.
Un nodo storico in uno dei Paesi con maggiore concentrazione fondiaria del pianeta. Dal 2018, però, il “furto di terre” amazzoniche e pre-amazzoniche ha avuto un incremento esponenziale: + 56 per cento secondo il recente studio dell’Instituto socioambiental (Isa).
Con la pandemia e l’attenzione concentrata sull’emergenza sanitaria, c’è stata un’escalation di occupazioni e violenze. La Commissione pastorale della terra (Cpt), legata alla Chiesa, ha registrato quasi due invasioni al giorno tra gennaio e agosto 2021, per un totale di 418. Il grilagem è cresciuto del 118 per cento. Una vera e propria corsa all’accaparramento di terra per allevamenti o coltivazioni intensive di prodotti da esportare, innescata dalla progressiva riduzione dei controlli.
Questo spiega la crescita della deforestazione del 63 per cento tra 2018 e 2020. «La situazione potrebbe peggiorare nel prossimo futuro se fosse approvata la proposta di Luiz Antônio Nabhan García, responsabile delle Questioni fondiarie e uomo di fiducia del presidente Jair Bolsonaro, che dà ai grandi proprietari la facoltà di registrare la terra con una semplice autocertificazione», afferma Iriomar Lima, avvocato della rete Forum e cidadania, collegata alla (Cpt).
Il Maranhão, con una legge statale ancora più permissiva di quella nazionale, è - insieme a Pará e Rondônia - al centro del saccheggio come dimostra l’esplosione di violenza record nell’ultimo anno. Nonché l’estendersi di coltivazioni di eucalipto, soja, miglio e riso. «Tra gennaio e novembre scorso, oltre un terzo dei 26 omicidi legati a conflitti agricoli è avvenuto in questo Stato», spiega Lenora Motta, responsabile della Cpt regionale.
E proprio del Maranhão è la prima vittima del 2022: José Francisco Lopes Rodrigues, colpito il 3 gennaio dal proiettile di un anonimo killer che ha ferito anche la nipotina di dieci anni. «È morto cinque giorni dopo in ospedale. È un momento molto triste per tutti», prosegue Lenora. Francisco era uno dei leader della resistenza al grilagem di Ararí, costata la vita ad altri quattro contadini negli ultimi due anni. Il municipio di 40mila abitanti è all’interno della Baixada Maranhense, una pianura amazzonica solcata dai fiumi Mearim, Pindaré e Grajaú che, nella stagione delle piogge, esondano e la allagano, creando una distesa di isolotti multiformi.
Un ecosistema fragile su cui, in vari periodo dell’anno, si possono ammirare uccelli di specie rarissime. Per questo, l’area è protetta a livello internazionale dalla Convenzione di Ramsa: solo l’agricoltura familiare è consentita. Ciò non ha impedito che, nel 2017, fosse occupata da 4 fazendeiros che l’hanno recintata impedendo l’accesso ai contadini.
I pascoli si sono riempiti di bufali, senza che le autorità muovessero un dito nonostante le segnalazioni delle 40 famiglie di Cedro, alla periferia di Ararí. -Esasperate dopo due anni di inerzia, queste ultime hanno iniziato a rimuovere le recinzioni, finendo denunciate a loro volta per «atti vandalici» e portate di fronte ai giudici. Insolitamente sollecite, le forze dell’ordine hanno subito dato il via a una sfilza di arresti.
«Dal 2020 sono iniziati gli assassinii mirati. Prima è toccato a Celino e Wanderson Fernandes, padre e figlio, poi a Antônio Diniz e João de Deus Moreira», sottolinea Iriomar. Vittime senza colpevole. Come il 92 per cento delle quasi 2mila persone massacrate nel corso di conflitti per la terra dal 1985.
Grilagem
Il «grilagem» è il sistema escogitato per falsificare i documenti per legalizzare il possesso di un determinato terreno, in genere pubblico o appartenente alle comunità locali. La parola deriva dal fatto che, in passato, i documenti fasulli venivano messi in una scatola con dei grilli per renderli gialli e rovinati, dunque antichi come si presumeva fossero gli originali. Il «grilagem» nasce con la legge del 1850 che aboliva le terre comuni, utilizzate dai contadini. I latifondisti ne hanno approfittato per incamerarle.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
TORNO PER SALVARE IL BRASILE. L’ex presidente Lula espone a «la Lettura» i suoi programmi per il futuro (di Nuccio Ordine).
Categoria: Il filosofo e la città
Il Discorso del Re
Con l’Enrico V Shakespeare completa il ritratto del nuovo principe machiavellico (non senza sottolineare le sue contraddizioni) e si prepara per i grandi drammi successivi.
di Maurizio Morini *
Enrico V viene annoverato tra i grandi re d’Inghilterra, colui che ha impresso lo slancio decisivo per la nascita dello Stato moderno inglese. Al centro della sua azione la teoria medievale del doppio corpo del re: quello naturale, soggetto alla morte, e quello mistico che non può morire. Una teoria che garantisce la continuità del sovrano riassunta in uno slogan che avrà fortuna: The king is dead, long live the King.
Nel dramma storico, questa retorica è rappresentata dal coro che, ad ogni atto, anticipando in modo solenne gli eventi, proclama le gesta e le virtù del re. Cosa che garantisce popolarità alla sua azione (Enrico è il sovrano che raccoglie i frutti di una piena legittimità) ma non l’autenticità di fronte al tribunale della storia: dopo ogni intervento del coro, Shakespeare colloca delle scene che, facendo da contrappunto a quanto raccontato, finiscono di fatto per rendere meno credibili gli eventi.
Nel primo atto «la Musa di fuoco che si eleva al cielo più fulgido dell’immaginazione», è frustrata dai sotterfugi dei due vescovi che, per interessi economici, spingono il sovrano alla guerra; nel secondo, il racconto che tutta la gioventù d’Inghilterra è a fuoco e che l’ambizione dell’onore regna esclusiva nell’animo di ogni uomo, è contraddetto con un alterco da osteria; nel terzo, le vele spiegate della Marina inglese a Southampton in direzione della Francia, incontrano i desideri di alcune voci dell’equipaggio di tornare piuttosto in un’osteria a Londra; nel quarto, il regale capitano che passa in rassegna le sue truppe per infondere coraggio, le visita in incognito finendo pure per essere contestato; nel quinto, all’immagine di Enrico che torna trionfante in Inghilterra accolto dalle folle assiepate a Dover, si contrappone la realtà di un sovrano che finisce al capezzale di Caterina di Borgogna per chiederle la mano, riunire i regni e chiudere le ostilità.
Una continua giustapposizione, tipica peraltro del filosofo inglese, tesa a marcare la differenza tra retorica e realtà, ideologia e verità effettuale, dover essere ed essere. Sicché, «ciò che è in questione non è la trasformazione del corpo politico bensì una serie di effetti politici, forse una serie di illusioni, operate attraverso mezzi politici mondani, in particolare attraverso la continua manipolazione retorica di Enrico» (Lake, 2016)
L’irresponsabilità del sovrano e il fucile di legno
Al centro di questa manipolazione si colloca il dialogo che il re conduce in incognito con i suoi soldati e il successivo monologo sull’essenza del potere regale. Enrico V è un re che ha qualità che lo rendono particolarmente popolare, come l’abitudine di visitare i suoi soldati chiamandoli fratelli, amici e compatrioti. Ma si tratta di qualcosa di studiato, una parodia dice lo stesso coro, se il re sente il bisogno di visitare i suoi sudditi, mascherato da semplice soldato, per avere conoscenza dei suoi veri umori. Così, nel dialogo notturno che precede la battaglia, Enrico si aggira nel campo militare esibendo la vecchia giustificazione secondo la quale il re non è altro che un uomo, lamentando di non poter vivere una vita tranquilla. Sembra improvvisamente di assistere al dialogo di Senofonte tra il poeta Simonide e il tiranno Gerone sulla natura della tirannia. Ma, evidentemente, quello del re solitario non è argomento adatto per rincuorare dei soldati che, all’addiaccio, rischiano la propria vita mentre il re se ne sta nelle retrovie o nel caldo del suo palazzo.
Ecco allora che il discorso si sposta sulle cause della guerra. Ma anche in questo caso i soldati rispondono picche. A parte il fatto che il problema delle cause è qualcosa che va oltre quello che essi devono sapere, dimostrandosi più realisti del re nell’attenersi (in quanto sudditi) alla dottrina degli arcana imperii; il punto, come afferma uno di loro, è che «se la causa è ingiusta, l’obbedienza che dobbiamo al re cancella in noi la macchia di qualsiasi colpa». Infatti, prosegue un altro, «se la causa non è onesta, il re stesso sarà chiamato a una grave resa dei conti, quando tutte quelle gambe e braccia e teste tagliate in battaglia si riuniranno il giorno del giudizio (...) Ora, se questi uomini non fanno una buona morte, sarà un brutto affare per il re che li ha portati a quel passo, e disobbedire al quale sarebbe contrario a tutti i giusti doveri della sudditanza».
Ma il re respinge gli argomenti in merito alle responsabilità del sovrano: «Il re non è tenuto a rispondere della fine che fanno i suoi singoli soldati, né il padre del figlio, né il padrone del servitore», in quanto «solo la guerra è il suo ufficiale fustigatore, la guerra è l’esecutore della sua vendetta; sicché gli uomini vengono puniti ora, per la causa del re, perché hanno violato anteriormente le leggi del re. (...) Se dunque muoiono impreparati, il re non è colpevole della loro dannazione». Per cui, conclude Enrico, «l’obbedienza d’ogni suddito appartiene al re, ma l’anima appartiene al suddito».
Da un punto di vista teologico si tratta di un principio ineccepibile che segna tuttavia l’assoluta irresponsabilità dei reggitori dello Stato per le proprie azioni. Viene così anticipato il principio di Hobbes secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi (Leviatano, cap.XVIII).
I soldati sono quasi convinti dalle argomentazioni retoriche del re. Uno di loro però insiste con il suo scetticismo e finisce per innervosire il re mascherato il quale, rispondendo in modo goffo e ingenuo, non riesce di meglio che suscitare lo scherno dell’interlocutore. Così, una volta usciti, ecco un monologo del re in cui vi è una vera e propria difesa dei sovrani le cui ansie non sono nemmeno da paragonare alla tranquillità dei cittadini: di fatto, protesta Enrico, la pace che egli acquista per il contadino è pagato a prezzo di dolorose veglie notturne. Torna il Gerone di Senofonte ma questa volta con una differenza: il denaro che Enrico offre, volendo ricompensare il soldato per la coraggiosa franchezza della notte, viene rifiutato con uno sdegnato «non so che farmene». -Shakespeare è filosofo per il quale le esigenze dell’individuo vengono prima di quelle dello Stato; non disconosce quest’ultimo (perché sa che i rimproveri di un individuo contro un monarca sono pericolosi «quanto lo sparo di un fucile di legno») ma lo tiene costantemente sotto il controllo critico.
«We few, happy few, band of brothers» uniti dall’azione criminale
Secondo il giudizio di Churchill (ma non solo), la battaglia di Agincourt dell’ottobre del 1415 contro il ben più numeroso esercito francese, è la più eroica delle battaglie combattute dall’Inghilterra nella storia. Tuttavia, ricorda lo statista, quella vittoria (che pure fece di Enrico V il sovrano più celebre d’Europa) fu seguita da una delle più sanguinose guerre civili che l’Inghilterra abbia mai conosciuto e tale da controbilanciare gli apparenti successi. Il tentativo di trasferire all’estero i conflitti interni è risultato fallimentare, addirittura controproducente.
Shakespeare rappresenta questa verità attraverso la drammatizzazione. Nel quarto atto, il re chiama a raccolta i sudditi nel celebre discorso di San Crispino nel quale incoraggia allo scontro imminente attraverso la classica mozione degli affetti. «Noi pochi, pochi e felici eletti, banda di fratelli...» Ma anche in questo caso i fatti che seguono gettano discredito sulle parole. I soldati, piuttosto che combattere per la gloria, cercano non solo di assicurarsi un riscatto in denaro per i futuri prigionieri, ma pianificano la vita civile successiva al ritorno in Patria al pari di criminali dediti al furto. Il sovrano, piuttosto che dare prova di virtù e generosità, ordina di far sgozzare a freddo tutti i prigionieri francesi contravvenendo ad una consolidata regola morale e di diritto internazionale. È a questo punto che un soldato equipara il re ad Alessandro il grande: peccato però che (con abile stratagemma) la persona in questione ha un difetto di pronuncia (scambia la b con la p) e il re viene ribattezzato Alexander the pig, Alessandro il maiale.
Che cosa voleva comunicare Shakespeare con questa strategia drammaturgica? Prendendo a prestito Strauss, diremmo che la sua opera è impregnata di retorica socratica, strumento indispensabile per fronteggiare, da un parte, la minaccia della società e dei governanti, e, dall’altra, mezzo per condurre chi ne è capace alla filosofia. La retorica politica si combatte con la retorica filosofica: la cautela non è mai troppa. Diventa interessante a questo punto sapere o immaginare che cosa abbia potuto pensare il competente pubblico che assisteva ai drammi di Shakespeare e che ne decretò subito il più grande successo.
Lo specchio deformato dei re cristiani e il passaggio a quelli pagani
Enrico si crede lo specchio dei re cristiani. Prima di ogni sua azione, tanto privatamente quanto pubblicamente, egli invoca l’aiuto e la protezione di Dio come mai nessun re che lo aveva preceduto aveva fatto. Ma dopo la rottura dello specchio del principe, avvenuta con la fine del regno di Riccardo II, lo specchio di Enrico è completamente deformato: si tratta di un’altra contraddizione posta nel cuore di un regno per sua natura machiavellico che sa fare uso della religione per i suoi fini e finanche di addossare la colpa della guerra allo stesso clero se l’arcivescovo risponde al re che essa può ricadere sul suo capo. Agire senza portarne la responsabilità è il capolavoro politico più volte ripetuto da Enrico.
L’astro di Inghilterra (Star of England), come lo chiama il coro alla fine dell’opera, esce però presto di scena a causa della morte prematura. Il novello Cesare, come lo aveva definito Shakespeare, lascia spazio al vero Giulio Cesare la cui opera (siamo ormai nel 1599) comincia ad essere scritta proprio nel momento in cui si chiude quella dedicata al mitico quanto controverso sovrano inglese.
* Fonte: Ritiri Filosofici, 2 Gennaio 2022
*
NOTA: LA TEORIA MEDIEVALE DEL "DOPPIO CORPO DEL RE", LA "MONARCHIA" DI DANTE, E IL PROGETTO INGLESE DI PRENDERE LA FIACCOLA DELL’IMPERO DALLE MANI DELLA SPAGNA. Appunti per un’analisi dei drammi storici di Shakespeare:
a) Enrico V è un dramma storico di William Shakespeare composto tra il 1598 ed il 1599. Il dramma prende spunto dalle vicende di Enrico V d’Inghilterra, re che si distinse per aver conquistato la Francia ed aver vinto la battaglia di Azincourt. È l’opera conclusiva della tetralogia shakespeariana enrieide (o tetralogia maggiore); iniziata con Riccardo II e proseguita con Enrico IV, parte 1 e Enrico IV, parte 2.
b) La battaglia di Azincourt (o di Agincourt per gli inglesi) si svolse vicino l’omonima località nell’odierno dipartimento del Passo di Calais il 25 ottobre 1415 nell’ambito della guerra dei cent’anni, vedendo contrapporsi le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d’Inghilterra di Enrico V.
c) Giarrettiera, ordine della(ingl. Order of the Garter) Supremo ordine cavalleresco inglese, istituito da Edoardo III nel 1349. [...] Come lo stesso nome suggerisce, lo stemma dell’Ordine è una giarrettiera che sormonta il motto Honi soit qui mal y pense (fr.: "Sia vituperato chi ne pensa male"), presente inoltre sul rovescio delle sterline in oro (sovereign) della serie 1817-1820 recanti sul dritto l’effigie di re Giorgio III. La Giarrettiera è indossata dai membri dell’Ordine durante le occasioni formali. Il motto Honi soit qui mal y pense è anche scritto sulla polena della nave ammiraglia HMS Victory, protagonista della battaglia di Trafalgar agli ordini di Horatio Nelson. [...] La più antica attestazione scritta dell’Ordine si trova in Tirant lo Blanch, un romanzo cavalleresco scritto in catalano dal valenciano Joanot Martorell che venne pubblicato nella prima edizione nel 1490. Nel romanzo si trova un intero capitolo dedicato alla leggenda della fondazione dell’Ordine. [...] Il primo straniero a essere insignito della Giarrettiera fu il duca di Urbino Federico da Montefeltro nel 1474 [...].
d)STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO... DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
e) RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI. LA CRISI DELLE SCIENZE: ENZO PACI, "AUT AUT", E L’ENIGMA DEL SOGGETTO. *
Quel gesto fenomenologico che ha fatto cultura
di Pier Aldo Rovatti *
Se mi chiedessero di dire in una battuta che cosa ha prodotto il settantennio di vita della rivista “aut aut”, messa al mondo nel 1951 dal filosofo Enzo Paci e oggi tutt’altro che estinta, risponderei senza esitazione: “il gesto fenomenologico”.
A tale atteggiamento o pratica di pensiero è stato dedicato anche il fascicolo della rivista attualmente in circolazione, in cui si guarda tanto al lunghissimo passato quanto a un futuro ancora da realizzare: sì, perché siamo ancora lontani dall’avere ben compreso questo gesto e dall’essere riusciti a metterlo in atto.
Di cosa si tratta? È un tentativo di dar corpo alla parola “critica”, forse più facile da collegare a quella cultura che voleva prendere distanza dai dogmatismi e dagli ideologismi del ventennio fascista di quanto sia riconoscibile oggi in una situazione nella quale tutti ci riempiamo la bocca di un’idea di democrazia alquanto superficiale e di tanti propositi culturali che spesso risultano vuoti e dai piedi di argilla. Parliamo infatti di pensiero critico, di responsabilità e di etica pubblica, ma non sembra proprio che riusciamo a dare troppo peso a quello che diciamo, come se dalla bocca di molti intellettuali uscisse soltanto un esile vapore, un flatus vocis che si disperde subito nell’aria.
Il gesto fenomenologico avrebbe invece la pretesa di tenere i piedi ben piantati sulla terra e di non consumarsi subito in una vacua cortina fumogena, come capita alla gran parte dei prodotti dell’attuale mondo della comunicazione, frettolosi e dunque superficiali. Questo gesto è invece qualcosa che ci coinvolge integralmente: non un semplice pensiero, qualcosa che ci passa per la testa e che comunque si riduce all’ambito del mentale, al contrario riguarda la nostra intera soggettività. È un atteggiamento “concreto” che concentra l’insieme delle nostre facoltà e ci mette completamente in gioco.
Detto altrimenti, questo gesto ci espone agli altri, non è una postura comprimibile nella privatezza, perciò ha sempre una dimensione pubblica, nel senso appunto dell’esposizione e del confronto. Siamo lontani dall’idea di una filosofia come disciplina a sé, dotata di una sua autorevolezza, piuttosto siamo vicini a un impegno di pensiero che ci chiederebbe di uscire dal bozzolo di un “io” separato, vale a dire di tentare di liberarci dalla presa di qualunque egoismo (egologia, egolatria) e dunque anche di sospettare di ogni pervasiva psicologia.
Perciò il gesto fenomenologico, così difficile da mantenere, così facile da inquinare e infrangere, dunque raro, è innanzi tutto un atteggiamento autocritico: ciascuno di noi, ogni “soggetto”, dovrebbe cominciare con il togliersi di dosso la camicia di forza dell’egoismo, tentare almeno di farlo, se vuole che il suo gesto agisca come un gesto critico. Non è certo lo scenario che vediamo ogni giorno perché, invece, abbiamo costantemente davanti una scena opposta in cui non si scorge quasi nessuna traccia di tale necessaria critica di sé stessi.
Ma cosa significa quel parolone, “fenomenologico”, che accompagna la parola “gesto”? Qui compare la specificità filosofica che caratterizza i settant’anni della rivista. È chiaro che il rimando è a Husserl e soprattutto alla sua ultima opera La crisi delle scienze. Si parte da una diagnosi di perdita di senso, cioè appunto di “crisi”, che non investe soltanto il mondo scientifico e la sua tecnicizzazione, come aveva fatto negli anni Trenta lo stesso Heidegger (peraltro, inizialmente discepolo di Husserl), ma investe per intero la cultura poiché riguarda lo stile di vita di ciascuno. Il titolo preciso di quest’opera di Husserl, che davvero ha fatto testo per comprendere un’epoca, certo non ancora conclusa, è: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (in italiano è stata pubblicata dal Saggiatore, lo stesso editore di “aut aut”).
“Fenomenologia” e in più “trascendentale”? Non è poi così difficile arrivare al nocciolo di una frase che potrebbe giustamente allarmare i non addetti (tra i quali, in questo caso, vorrei potermi collocare a mia volta): quel “trascendentale” è lì per dirci che non dobbiamo confondere fenomenologia con fenomeno (o con qualcosa di semplicemente fenomenico) perché ciò che viene messo in gioco è l’idea di soggetto e di soggettività nella sua concretezza non superficiale.
Per mantenere o ritrovare il suo carattere fenomenologico, questa idea non dovrà essere soltanto la meno idealistica, categoriale, metafisica possibile, perché non basta che la concretezza equivalga a ciò che è empirico, ma dovrebbe riuscire a dar corpo a una soggettività che non è mai fissabile attraverso un’etichetta. Perciò il termine fenomenologia risulta essenziale per mettere in primo piano proprio il problema del soggetto.
Aggiungo, per far capire l’importanza di tale problema, che il soggetto che viene così evocato non è mai traducibile in un concetto chiuso, di cui si possa costruire una scienza comunemente intesa. È piuttosto, come diceva lo stesso Husserl, un “enigma” che non possiamo cessare di sondare e di rilanciare, qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei nostri vissuti e con la nostra stessa vita.
Qualcosa che fa tutt’uno con lo stile di vita di ognuno di noi, come ha mostrato con chiarezza Paci nelle pagine del suo personale Diario fenomenologico (ora riedito da Orthotes). E proprio da qui discende l’intero corredo critico di “aut aut”, cioè - per indicarne solo qualche aspetto - l’importanza della “sospensione del giudizio” (la famosa epoché, rilanciata anche da Franco Basaglia nella sua critica alla psichiatria ufficiale), l’importanza di non isolare mai il sapere dall’etica con il rischio di svuotare il “gesto” facendolo diventare unicamente una tecnica di pensiero, o anche l’importanza di conservare a ogni costo l’apertura del dubbio e la possibilità del “sempre di nuovo”.
Perché questo gesto non può essere mai considerato un atteggiamento esclusivamente individuale? La tonalità “politica” della rivista, presente fin dal suo inizio, può ritrovarsi nella risposta a quest’ultima domanda, nel senso che non si dà soggettività senza intersoggettività, cioè che nel vissuto personale è sempre presente e attiva l’esperienza dell’“altro” ed è quindi comunque decisiva un’esperienza del noi.
Senza il compito dello stare assieme in una comunità possibile e necessaria di soggetti, il gesto fenomenologico perde il suo significato, letteralmente si annulla nel suo senso e nei suoi obiettivi. Siamo ancora lontani da questo telos, dall’impegnarci seriamente nella pratica di una simile finalità, e allora si comprende perché il tragitto che “aut aut” ha iniziato fin dal primo fascicolo non sia affatto esaurito.
[articolo uscito in versione ridotta su “La Stampa” il 20 settembre 2021]
*Fonte: Aut Aut, 23/09/2021
NOTA:
L’ENIGMA DEL SOGGETTO E LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO. Note su un dialoghetto "platonico" diffuso in rete:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (KANT).
COSA PENSANO I due BAMBINI nella pancia della madre "della VITA DOPO IL PARTO"? Ma l’autore "scrittore" di questo "bel" testo (sopra) ha mai sollecitato i "due bambini" a pensare sul come sono ’arrivati’ là dove sono, su come nascono i bambini?, e ha mai visto il Sole? O vive ancora nel pancione della Mamma-Terra, nella caverna di Platone (ama il mondo chiuso e la claustrofilia) e, per il trauma della nascita, si è sempre rifiutato di aprire gli occhi alla luce del Sole e vedere la Terra dalla Luna, dallo spazio?!
"ACHERONTA MOVEBO" (IL "MUOVERE LE ACQUE INFERNALI" DI FREUD) E AFFRONTARE IL TRAUMA DELLA NASCITA (OTTO RANK): SAPERE AUDE! ("IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA" DI KANT) !
Senza la critica di Kant del sogno dell’amore cieco e zoppo della ragion pura (di Socrate/Platone) non si può riconoscere a Diotima piena cittadinanza né nell’Accademia né nella Polis. La logica della tragedia (Edipo) porta davvero la peste!
La Sibilla Delfica (dell’oracolo di Apollo) a Socrate disse la verità, ma la storiografia ha preferito credere al sogno della nascita del cigno e alla storia di Platone, figlio di Zeus / Apollo!
Nietzsche perché ha scavato nella nascita della tragedia? Freud cosa cercava a Tebe?! Come Edipo, già a partire dal caso Dora, chiarirsi le idee sulla morte e uccisione del padre ("Interpretazione dei sogni") e sul desiderio incestuoso nei confronti della #madre, fare luce su "L’uomo #Mosè" e sull’esistenza di "Dio"! Con Dante e come Dante ha avuto il coraggio di agitare le acque infernali e uscirne: a Londra, è arrivato!
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO, IL TRAUMA DELLA NASCITA, E LA VITA DOPO IL PARTO.
"OTTO RANK, IL DOPPIO E LA PSICOANALISI" (alcune mie note, in "Psicoterapia e Scienze Umane", 4, 1980, pp. 75-79) ). Se Freud osò agitare e rompere le acque infernali ("Acheronta movebo) e riuscì a portare alla luce la psicoanalisi, è da dire, però, che non fu altrettanto attento a riconoscere il trauma della nascita e a portarsi oltre le colonne d’Ercole dell’Edipo.
Andando in America, nel 1909, Freud era ancora fiducioso e ottimista nella possibilità della psicoanalisi di affrontare il diffondersi della peste; ma nel 1924, con la sua parziale comprensione del complesso di Edipo, non riesce ad accogliere la sollecitazione di Otto Rank a riflettere sul trauma della nascita e l’avvenire della sua stessa creatura comincia a oscurarsi.
Elvio Fachinelli (1928-1989) ha saputo vincere la Claustrofilia (1983), si è portato "Sulla spiaggia" (1985), ma l’ Accademia platonica della Filosofia come della Psicoanalisi ha continuato a chiudere un occhio su come nascono i bambini. E il platonismo continua a oscurare il cielo...
Federico La Sala
Il Papa, l’umanità, la civiltà europea. Richiamo all’essenza
Richiamo all’essenza
di Riccardo Maccioni (Avvenire, martedì 7 dicembre 2021)
È una questione di vocabolario, per chiamare l’orrore con il suo nome. Di braccia, che sollevano chi cade e tirano giù i muri. Di occhi, perché anche il cuore parla con il viso, e solo guardando insieme agli altri si può pensare e disegnare un futuro diverso. Il viaggio del Papa in Grecia e a Cipro è stato un richiamo all’essenza dell’umanità, dell’autentica civiltà europea, e a tutti modi che esistono per difenderla e farla crescere. Non solo l’ennesima denuncia della vergogna delle barriere contro i poveri, che pure c’è stata e forse mai con discorsi altrettanto perentori, ma un itinerario politico, nel senso più nobile del termine, che quando si sposa con il Vangelo esce dal recinto dell’ideologia per diventare servizio pastorale, cioè ricerca del bene comune declinato come carità, come amore.
La visita in fondo ha toccato un fazzoletto di poche centinaia di chilometri però il suo respiro ha abbracciato un continente intero. E un sogno comunitario, quello dell’Unione, sempre più a rischio fallimento. A minarlo sono le scorciatoie per aggirare la complessità dei rapporti tra nazioni e dentro le società. Le ricette facili, rassicuranti dei populismi, l’autoritarismo «sbrigativo», la paura che arma la difesa del privilegio. E, dall’altra parte, la rinuncia a se stessi, l’annacquamento della propria identità, in nome di un politicamente corretto che diventa l’olio su cui far scivolare i conflitti, nell’illusione che evaporino come le polveri sottili dopo un giorno di vento. E invece stanno lì, quasi rafforzati dalla scelta del rinvio, che peraltro sembra non pagare più neanche a livello elettorale. Da Atene Francesco lo ha denunciato con chiarezza, oggi la democrazia è messa in pericolo dalle polarizzazioni esasperate, dal ridurre il pensiero alto a miseri interessi di bottega, dall’accettazione finanche del ridicolo pur di blindare il consenso.
Una deriva cui il Pontefice ha opposto il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal tifo urlato dal balcone allo sporcarsi le mani nel nome del dialogo. In fondo, è la ricetta dei padri dell’Europa, e non a caso il richiamo è andato a De Gasperi e al suo discorso di Milano, del 1949: «Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti» verso «la giustizia sociale». Che alla luce del Vangelo significa molto più della tolleranza, vuol dire solidarietà generosa, «di fatto» come diceva Robert Schuman e, in un crescendo virtuoso, consapevolezza dell’appartenenza a un’unica famiglia umana, fraternità, comunione.
Il sogno dell’Unione non è fallito, sembra suggerire il Pontefice, si tratta di aggiornarlo, di impegnarsi nella costruzione di un nuovo umanesimo che, citando il discorso del 2016 al conferimento del Premio Carlo Magno, si fonda su tre capacità: «capacità di integrare, di dialogare e di generare». La Chiesa, con i suoi figli e figlie, può, in questo. giocare un ruolo fondamentale, cominciando, com’è nel suo Dna, dal basso, dall’andare incontro alle ferite dell’uomo, dal circondare con il suo abbraccio di misericordia e di perdono chi compie un passo falso ma poi sa riconoscere il proprio errore.
Più che sognatori e maestri oggi servono davvero testimoni, oltre all’ardimento c’è bisogno di pazienza, e se un coraggio andiamo cercando è quello che fa rima con chiarezza, capace di chiamare bene il bene e male il male. Come i muri, le barriere, i ’lager’ costruiti sulle coste del Mediterraneo, che sono vernice nera sull’anima delle popolazioni civili, catastrofe del bene comune, «naufragio di civiltà». Ma la denuncia da sola non basta, servono braccia per sollevare chi fa fatica, servono mani unite nella preghiera, servono scarpe solide per incamminarsi sul sentiero, culturale prima e fisico poi, che porta ad abbattere le barriere, recuperando l’insegnamento di Elie Wiesel, il Nobel per la pace richiamato dal Papa a Lesbo: «Quando le vite umane sono in pericolo, quando la dignità umana è in pericolo, i confini nazionali diventano irrilevanti ».
A Cipro e in Grecia, quei fratelli recintati dalla miseria hanno come in ogni geografia della povertà, volti, storie, nomi. Sono le parole e il cuore di un’Europa che non può e non deve smarrire la sua vocazione di democrazia solidale. Sono la paura e la speranza di ogni uomo e ogni donna che chiede aiuto per non perdere la dignità di essere umani.
l diario di Glasgow/ Giorno 6.
La Chiesa amazzonica: affrontate la radice del problema
L’appello di Repam e Ceama che hanno scritto ai leader internazionali per esprimere loro «sconcerto» e il «senso di impotenza» di fronte al caos che scuote la casa comune
Lucia Capuzzi (Avvenire, sabato 6 novembre 2021)
«Vogliamo pronunciarci pubblicamente e non restare in silenzio». La Chiesa dell’Amazzonia ha fatto arrivare la propria voce fino a Glasgow, dove è in corso il summit Onu sul clima (Cop26). La Rete ecclesiale pan amazzonica (Repam) e la Conferenza ecclesiale dell’Amazzonia (Ceama) hanno scritto ai leader internazionali per esprimere loro «sconcerto» e il «senso di impotenza» di fronte al caos che scuote la casa comune.
La regione amazzonica, in particolare, ricca «di biodiversità ecologica e culturale, un luogo strategico per l’umanità e per il pianeta, è colpita drasticamente dal degrado ambientale e dalle conseguenze del cambiamento climatico causato dalle emissioni di gas serra». Il modello estrattivista - basato sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali per soddisfare la domanda dell’economia internazionale - divora la selva e i suoi abitanti. Non a caso, una numerosa delegazione di indigeni amazzonici ha affrontato enormi difficoltà logistiche per portare la propria testimonianza a Glasgow.
La Chiesa si fa eco del loro grido d’aiuto. E lancia un forte appello a lottare per salvare un territorio che, come afferma papa Francesco in Querida Amazónia, «si mostra di fronte al mondo in tutto il suo splendore, il suo dramma, il suo mistero». A tal fine, «non valgono i pannicelli caldi, le promesse incompiute, gli impegni non rispettati né misure che non siano radicali».
Viviamo - aggiungono Repam e Ceama - «in un mondo rotto. E’ necessario imparare ad agire in modo integrale per rispondere a questa realtà infernale, assumendo l’accordo di Parigi e ciò che comporta».
«Speriamo che ascoltiate la nostra supplica unita a quella di molti popoli dell’Amazzonia, custodi millenari della terra», concludono. E affrontiate «in modo deciso e appropriato la radice dei problemi, perché non accada ciò che scriveva il Nobel della letteratura colombiano, Gabriel García Márquez nel capolavoro Cent’anni di solitudine: “Le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non hanno una seconda opportunità sulla terra”».
L’ORDINE SIMBOLICO DI MAMMASANTISSIMA: LA LUNGA MARCIA DI UNA CATASTROFE ANTROPOLOGICA IN CORSO.
Senza riandare indietro nel tempo, cosa che ha già fatto una grande tradizione critica (e da cui poco è stato appreso), ipnotizzati da concetti-specchio come patriarcato e matriarcato, ancora non è stato capito che cosa significa Edipo (Freud), tragedia (Dante, Nietzsche), e rapporto sociale di produzione (Marx). C’è solo da accogliere il film “L’événement” (Audrey Diwan, Leone d’oro, Venezia 2021) come una buona sollecitazione a ripensare questi problemi legati a mammane, mammona, cucchiai d’oro e moloch vari e riprendere il filo da quanto successo (in Europa) almeno (non solo a Granada nel 1492, ma anche) su "quel ramo del lago di Como" nel 1628 in un altro modo e in un’altra direzione. E così, possibilmente, buttare via l’acqua sporca e salvare la memoria di chi ha lottato da sempre per non restare all’inferno e vuole ri-nascere. O no?
DANTE 2021: LA DOMANDA ANTROPOLOGICA DI #KANT (""Che cos’è l’uomo?": "Logica", 1800), IL "FIGLIO DELL’#UOMO": UNA QUESTIONE DI PAROLA (LOGOS, NON LOGO!).
"Ecce #Homo" (gr. «idou ho #anthropos»): "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
MESSAGGIO EVANGELICO E "DUE CRISTIANESIMI": "SEGUITEMI, VI FARO’ #PESCATORI DI UOMINI [piscatores hominun, ἁλιεῖς ἀνθρώπων] come da parola di Gesù (Mt. 4,19) o come da sollecitazione di Paolo di Tarso:"Diventate miei imitatori come io lo sono di Cristo... sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [lat. vir, gr. ἀνήρ]"(1 Cor. 11, 1-3)?!
11 SETTEMBRE 2011/2021, STORIA, E FILOLOGIA: "ECCE HOMO". Sempre a ripetere le famose parole dell’Ulisse di Dante (Inf. XXVI, 118-120: "Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza"), ma ancora oggi (2021), dopo Dante e dopo Kant, tutta l’Europa e l’intero Pianeta è immerso in un letargo profondissimo! Alla questione antropologica ("Che cos’è l’uomo?": Kant,1800), si continua a rispondere truccando la Parola (il Logos) e a scambiarla (e a esportarla) come un Logo di un’azienda, proprietà di quegli uomini "più uguali degli altri" della orwelliana "Fattoria degli Animali"!
PREISTORIA (DI "VIRTUS" E "VIRUS"). La parola uomo (gr. anthropos, homo) vale solo come uomo-maschio (gr. anér/andròs, lat. vir/viri) e l’antropologia si coniuga solo al maschile, come andrologia: a tutti i livelli, immersi nel regno dell’Homo cosmo-te-andricus - nella "realtà" di una teologia ("Dio"), di una cosmologia ("Mondo") e di una antropologia "andrologica" ("Uomo"), la cosmoteandria del Pianeta Terra...
METANOIA: CAMBIARE MENTE! A che gioco giochiamo? Non è meglio uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dall’inferno (Inf. XXXIV, 90) e riprendere la navigazione nell’oceano celeste (Keplero a Galilei, 1611)?! O che?!
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, GEOLOGIA, E FILOLOGIA. L’arca di Noè e il rompicapo dell’antropocene.... *
Siamo tutti sulla stessa barca /
Il rompicapo dell’antropocene
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 09 aprile 2019)
La prua di una grande nave mercantile fende i ghiacci, parzialmente sciolti, di quello che possiamo immaginare essere il mitico passaggio a nord-ovest, che collega Atlantico e Pacifico nei periodi più caldi. Questa immagine, fortemente simbolica, ritorna come un leitmotiv nel film-documentario di Rudy Gnutti In the same boat, in cui diversi esperti - Zygmund Bauman, Tony Atkinson, Serge Latouche, Mariana Mazzucato, Mauro Gallegati, Erik Brynjolffson e l’ex presidente dell’Uruguay Jose Mujica - discutono di globalizzazione e progresso tecnologico. La questione centrale affrontata nel film è la situazione paradossale creata dal sistema attuale in cui, mentre diminuisce la sperequazione economica tra le nazioni, aumenta sempre più quella tra le classi sociali all’interno dei singoli paesi; di conseguenza dappertutto si constata una progressiva riduzione della classe media, da sempre elemento basilare di stabilità politica e giustizia sociale. Ne conseguono ricadute importanti sul lavoro, come la crescita della disoccupazione e, allo stesso tempo, l’insostenibilità dei ritmi lavorativi per chi, invece, ha un’occupazione. Tutto ciò mentre la crescita continua della ricchezza prodotta e della tecnologia utilizzata nella produzione aveva fatto ipotizzare - nel film a tal proposito si cita una previsione dell’economista John Maynard Keynes risalente agli anni ’40 - che oggi ci saremmo trovati a vivere mediamente tutti meglio e anche più liberi dal lavoro costrittivo.
Il problema, spiega il regista in un’intervista, è che «siamo capaci di creare un’enorme ricchezza, ma non abbiamo un sistema economico che consente di ’distribuirla’ al maggior numero possibile di persone; o almeno in una forma meno diseguale». E dunque, che fare? La buona notizia è che si può fare qualcosa. La cattiva notizia è che bisogna fare qualcosa al più presto per non cadere in un caos socio-politico. Nel film gli esperti avanzano alcune proposte, ricordando, a chi le ritenga utopistiche, che molte realtà di oggi, quali per esempio la democrazia, l’abolizione della schiavitù o l’uguaglianza tra i sessi, erano utopie solo pochi secoli fa. D’altra parte, per sapere se le azioni suggerite possono funzionare, non c’è altra via che provare a metterle in pratica.
Il messaggio del film è chiaro già dal titolo: siamo sulla stessa barca significa che siamo in una situazione pericolosa in cui o si agisce tutti insieme per salvarsi oppure si annega tutti insieme. Nessuno può sperare di salvarsi da solo e tutti soffriamo lo stesso mal di mare, aggiungeva Martin Luther King esortando all’empatia reciproca. Comunque, anche se fossimo egoisti e duri di cuore, ci sono circostanze nelle quali agire per il bene comune è l’unica cosa ragionevole da fare, a qualsiasi costo. Il problema per Zygmund Bauman è che non abbiamo né remi, né motori né una bussola per condurre velocemente la barca nella giusta direzione.
Continuando l’allegoria, è di vitale importanza porsi anche un altro obiettivo - in realtà deve essere il primo -, ossia tenere in funzione la barca, evitando falle irreparabili e conservandola in buone condizioni, soprattutto se è sovraccarica. Fuor di metafora, stiamo parlando del nostro pianeta e dei numerosi segnali d’indebolimento strutturale che ci sta dando. La Terra si sta modificando troppo velocemente e così radicalmente da far ritenere, a molti esperti, iniziata una nuova epoca geologica, cui si è dato il nome di Antropocene per sottolineare due fatti significativi. Innanzitutto, che abbiamo abbandonato le spiagge note (e relativamente sicure) dell’Olocene, il periodo interglaciale caldo iniziato circa dodicimila anni fa e in cui abbiamo vissuto finora; in secondo luogo, che questo cambio geologico non è stato determinato, come i precedenti, da fattori naturali, ma dalla presenza e dall’attività umana.
Nel saggio Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene (Einaudi), Simon L. Lewis e Mark A. Maslin, studiosi inglesi esperti di questioni climatiche ed ecologia globale, spiegano come e quando reputano sia avvenuto questo cambio epocale. Alla fine di un esaustivo percorso tra geologia e storia economica le loro considerazioni, del tutto in linea con quelle espresse nel docu-film di Gnutti, si riassumono nel «rompicapo dell’Antropocene»: ci troviamo di fronte al compito, improrogabile e tuttavia molto arduo, di raggiungere un livello di uguaglianza globale tra i paesi del mondo nello sfruttamento delle risorse, e dobbiamo farlo restando entro «limiti ambientali sostenibili». Senza un’azione coordinata in tal senso sarà impossibile evitare il tracollo ambientale, cui inevitabilmente, ce lo insegna la storia, fanno seguito quelli economico e sociale. Oggi dobbiamo prendere atto di qualcosa del tutto inedito: una nuova forza della natura, una «superpotenza geologica» si è affiancata ai meteoriti e ai vulcani nel dare forma all’evoluzione della vita sulla Terra, ed è l’uomo. Ecco perché parliamo di Antropocene.
Nel loro libro Simon Lewis e Mark Maslin delineano quattro ambiti in cui la geologia del pianeta e la storia umana s’intersecano: la questione di se e come le attività umane abbiano causato (e stiano causando) cambiamenti ambientali tanto grandi da determinare «in misura crescente il futuro dell’unico pianeta che per quanto ne sappiamo ospita la vita»; la possibilità di individuare tracce concrete di questi cambiamenti nei sedimenti geologici - le future rocce, dispositivi naturali di registrazione di questa tipologia di dati -; siccome «l’Antropocene è l’intreccio fra la storia umana e la storia della Terra», propongono una reinterpretazione della storia dell’umanità «osservando[la] attraverso la lente della scienza del sistema Terra»; infine, dopo avere individuato quattro transizioni strutturali nella storia umana - due legate alla disponibilità di energia e due all’organizzazione sociale -, ciascuna delle quali ha prodotto effetti crescenti sul sistema Terra, espongono le loro tesi sul tempo attuale e alcune ipotesi sui provvedimenti possibili per il futuro.
La prima delle quattro transizioni da essi individuate è rappresentata dalla nascita dell’agricoltura (circa dodicimila anni fa) che permise agli uomini di utilizzare una maggiore quantità di energia solare attraverso il cibo, modificò i paesaggi e, col tempo, anche la composizione chimica dell’atmosfera, al punto da favorire «in tutto il pianeta condizioni eccezionalmente stabili, dando alle grandi civiltà il tempo di svilupparsi».
La seconda fu invece di carattere organizzativo, e risale al XVI secolo quando gli Europei cominciarono a colonizzare il pianeta, dando inizio alla prima economia globalizzata della storia. «Le nuove rotte commerciali collegarono il mondo come mai prima d’allora. Piante da coltivare e animali da allevare, e molte specie che si trovarono a viaggiare insieme a loro, vennero trasferiti in altri continenti e in altri oceani. Questo scambio transoceanico di specie ... diede inizio a un riordinamento globale della vita sulla Terra che è ancora in atto», una nuova Pangea fatta dall’uomo.
La terza transizione fu provocata dall’utilizzo sempre più massiccio di combustibili fossili (principalmente carbone), motore e conseguenza a un tempo della Rivoluzione industriale settecentesca. La quarta ha portato a un nuovo cambiamento organizzativo su scala mondiale, che gli autori definiscono "capitalismo di consumo" collocandone l’avvio attorno al 1945, con la grande accelerazione.
Il risultato di tutti questi passaggi è che nell’atmosfera di oggi si trova «una quantità di anidride carbonica tale da farle raggiungere il livello più alto in più di 3 milioni di anni», e di conseguenza le condizioni stabili che hanno permesso lo sviluppo delle società umane ci stanno lasciando. È in atto «un esperimento pericoloso con il futuro della civiltà umana», avvertono Lewis e Maslin, perché dopo milioni di anni di alternanza sostanzialmente ciclica di fasi glaciali fredde e fasi interglaciali calde, «nel corso del tempo le azioni umane sono arrivate a produrre ... il differimento di una nuova era glaciale e la creazione di un nuovo stato planetario, uno stato più caldo dei periodi interglaciali - un superinterglaciale.»
In quale di questi quattro momenti cruciali si può collocare la fine, ancora ipotetica, del relativamente tranquillo Olocene? E perché dovremmo nominare Antropocene l’eventuale nuova fase geologica della Terra? La scelta della denominazione può sembrare, a noi profani, una questione di lana caprina, ma Lewis e Maslin dedicano una parte del loro saggio a spiegarci perché, invece, è importante in quanto, spiegano, dai dati che si scelgono per stabilire se, da quando e perché ci sia stata una transizione epocale dipendono «le risposte politiche alla vita nell’Antropocene». È chiaro, infatti, che cambia parecchio il livello di preoccupazione e il genere di soluzioni proposte se si considera fattore determinante l’emissione di gas serra prodotti oggi oppure la rivoluzione agricola del Neolitico.
Per arrivare a stabilire una data d’inizio dell’Antropocene, i due studiosi propongono l’esame dei sedimenti geologici, esattamente come si è fatto per tutte le passate epoche della storia geologica, al fine di individuare un marcatore la cui presenza nei sedimenti indichi un cambio nella stratificazione terrestre. Con questo metodo si è potuto stabilire, ad esempio, quando sono cominciate le condizioni interglaciali calde attuali.
Analizzando una carota di ghiaccio antartico, in corrispondenza degli inizi del XVII secolo è stata rilevata una riduzione breve, ma significativa, dell’anidride carbonica nell’aria. Quell’epoca segna il momento in cui gli effetti della colonizzazione delle Americhe hanno lasciato traccia nei sedimenti geologici:
«Gran parte della diminuzione avvenne perché gli Europei portarono per la prima volta nelle Americhe il vaiolo e altre malattie, causando la morte di piú di 50 milioni di persone in pochi decenni. Il collasso di queste società portò alla riforestazione dei terreni agricoli in un’area tanto estesa che la quantità di anidride carbonica atmosferica assorbita dagli alberi in crescita fu sufficiente a raffreddare temporaneamente il pianeta - l’ultimo momento globalmente freddo prima dell’inizio del caldo durevole dell’Antropocene».
A questo punto l’interrogativo naturale riguarda «il futuro dell’umanità nell’Antropocene. Vi sarà una quinta transizione a una nuova forma di società umana, forse in grado di mitigare i nostri impatti sull’ambiente e di migliorare la vita delle persone?» Oppure, come una colonia di batteri, ci moltiplicheremo fino a esaurire le risorse della Terra e poi moriremo tutti? Speriamo di saperci meritare alla fine il nome sapiens che ci siamo orgogliosamente attribuiti, ricordandoci che sapiens vuol dire ’saggio’ e non ’potente’. Qualcosa nei nostri tempi mi ricorda quelli del biblico Noè, quando, secondo il racconto, gli uomini conducevano la loro solita vita, mangiando, bevendo, commerciando e combinando matrimoni, e nessuno s’accorgeva del diluvio che si andava preparando sulle loro teste. Solo Noè lo aveva capito. Ma quelli erano tempi in cui ancora si sperava nell’aiuto di Dio.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Storia /
Dal Milite Ignoto all’altare della Patria
Centenario della traslazione 4 novembre 1921- 4 novembre 2021 per ricordare tutti i caduti in guerra d’Europa.
di Riccardo Radi (FiloDiritto, 08 Luglio 2021)
Il 4 novembre 1921, anniversario della fine della Prima guerra mondiale, la bara del Milite Ignoto, portata a spalla da 12 decorati di Medaglia d’oro al valor militare ed accompagnata dalle bandiere di guerra dei 355 Reggimenti che avevano partecipato al conflitto, venne deposta nella cripta ai piedi della statua della Dea Roma, situata al monumento del Vittoriano di Roma e al caduto ignoto fu conferita la Medaglia d’oro al valor militare.
Il monumento del Milite Ignoto è dedicato ai 651.000 mila caduti italiani del Primo conflitto mondiale, in particolare a coloro dei quali non è stato possibile pervenire all’identificazione, al fine di dedicare loro una degna sepoltura e il riconoscimento di tutti gli onori.
Dei tantissimi giovani che persero la vita in quel conflitto, in un Paese agricolo come era l’Italia nei primi del Novecento, molti provenivano dalle campagne e dal Mezzogiorno, chiamati dalla coscrizione obbligatoria a combattere nel Nord d’Italia e con commilitoni che condividevano la comune cittadinanza italiana ma sovente lingue e idiomi diversi.
La legge 11 agosto 1921, n. 1075, recante “la sepoltura in Roma, sull’Altare della Patria, della salma di un soldato ignoto caduto in Guerra”, all’articolo 1, disponeva, a cura dello Stato, la solenne tumulazione al Vittoriano della salma di un soldato sconosciuto caduto in combattimento nella guerra 1915-1918.
Un secolo dopo, il senso profondo del Milite Ignoto acquista nuovi contenuti ponendosi a monito per le nuove generazioni secondo l’articolo 11 della Costituzione che recita: “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali [...] promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Pertanto, anche lo stesso sorgere dell’Unione europea che ha unito i popoli che durante la Prima guerra mondiale si combatterono, rappresenta un lascito importante nel ricordo dei caduti nei due conflitti mondiali del nostro Continente.
La Commissione Difesa della Camera dei deputati ha approvato il 31 marzo 2021 la risoluzione n. 7-00604 che impegna il Governo a organizzare un viaggio della memoria con un treno d’epoca, nella composizione più possibile fedele, che compia un identico percorso con le stesse tappe e gli stessi tempi del treno che portò il Milite Ignoto a Roma.
Il ricordo del Milite Ignoto è un momento che accomuna tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Stati che, alla fine dei due conflitti mondiali che hanno segnato profondamente il Novecento, hanno rinunciato a una parte della loro sovranità a favore dell’Unione e hanno conferito a quest’ultima parte dei propri poteri, al fine di creare un contesto stabile e di pace.
La commemorazione del Milite Ignoto è diffusa tra i Paesi membri dell’Unione europea e Alleati. A partire dal 1920-21, la costruzione di tombe e monumenti per la commemorazione della figura del Milite Ignoto si diffuse anche all’estero. Sarebbe auspicabile un ricordo comune per tutti per i caduti del Primo conflitto mondiale unendo i Militi Ignoti d’Europa in un abbraccio corale che ricordi l’unità raggiunta e i valori costituenti della pace e della fratellanza tra i popoli, e tutti i caduti in guerra.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE... *
Tenochtitlan 13 agosto 1521. Conquistadores, la storia di un grande «desencuentro»
Forse quella dell’America non fu né scoperta né conquista, ma incontro mancato. C’è ancora tempo per un’altra modalità di relazione con l’alterità?
di Lucia Capuzzi (Avvenire, giovedì 5 agosto 2021)
«Il sole si alza dal tuo letto di ossa [...]. L’alba lacera la cortina. Città, pila di parole rotte». Cinquecento anni dopo la sconfitta dell’impero azteca con la caduta di Tenochtitlan, la lacerante attualità dei versi di Octavio Paz vibra nel corpo giunonico di Città del Messico. Un organismo vivente più che una città. La spugnosa carne coloniale copre viscere dell’antica capitale precolombiana, per essere a sua volta ricoperta da una sottile pelle ultra-moderna. Gli strati coesistono, a volte confliggono, sempre si alimentano a vicenda. In questo flusso incessante, la megalopoli palpita, respira, sussiste. Impossibile separarli senza ucciderla. Una consapevolezza che, però, la città è incapace di tradurre in parole, come dimostra la polarizzazione delle narrative per l’anniversario. Perché implica fare i conti con l’evento che l’ha generata. E che, in fondo, ha generato l’America Latina.
Più ancora del 12 ottobre 1492, fu l’entrata a Tenochtitlan dei conquistadores al seguito di Hernán Cortés a segnare la nascita del mondo nuovo. E con esso il principio dell’età moderna. Fu “scoperta” o fu “conquista”? Fu incontro o fu scontro? Di sicuro, come afferma Tzvetan Todorov, fu l’esperienza più radicale, estrema, intensa di «scoprimento dell’altro». A differenza degli africani o degli asiatici, gli indo-americani e la loro esistenza erano del tutto ignorati dagli europei. Il confronto, dunque, fu di forza inedita. Mai come allora, gli uni e gli altri dovettero affrontare dei “simili diversi”.
Quel 13 agosto 1521 diviene, dunque, in un certo senso, il “parto” - per parafrasare Amalia Podetti - del globo, inteso come totalità. E del nostro tempo. Con tutte le sue contraddizioni. Non per niente, secondo Todorov, nel XVI secolo si è perpetrato il più grande genocidio della storia umana. Il massacro fu inaudito, questo è incontestabile. La sua definizione aritmetica, invece, è oggetto di dibattito tra gli studiosi ma tutti parlano di decine di milioni di esseri umani ingoiati in un vortice di violenza, schiavitù, epidemie. Magari una simile proporzione non fu voluta e intenzionale. Magari la leggenda nera anglobritannica - non proprio neutrale e benintenzionata - ha esagerato dettagli e crudeltà. Magari numerosi leader politici hanno cavalcato e cavalcano la strage per opportunismo. In questo, l’enfasi posta dal presidente Andrés Manuel López Obrador sul cinquecentesimo come sconfitta dei «veri messicani» è emblematica. Peccato che il Messico è - nel bene e nel male - è figlio di Cortés quanto di Monteczuma. Non sono, tuttavia, gli intenti, più o meno raffinati, di minimizzazione ad accelerare l’uscita dall’impasse.
Oltre che oggetto di studio, la mattanza d’America è soggetto di una storia di dolore, impressa, tuttora, nella carne e nel sangue dei discendenti dei nativi. Per costoro gli abusi antichi non sono che l’eco di quelli presenti, poiché la discriminazione e il rifiuto non sono terminati con la colonizzazione né con l’indipendenza né con le rivoluzioni e controrivoluzioni del secolo scorso. Per questo, gli occhi degli attuali maya si sono velati di lacrime nell’ascoltare papa Francesco affermare, a San Cristóbal de las Casas, il 15 febbraio 2016: «Perdono, fratelli! Il mondo di oggi, spogliato dalla cultura dello scarto, ha bisogno di voi!». Curiosa, dunque, l’ostinata richiesta di López Obrador nel domandare delle “scuse” già fatte senza alcuna sollecitazione. Farsi carico della memoria ferita è la grande occasione offerta dall’anniversario. Non solo per riconciliare il passato. In fondo, cinque secoli dopo, l’essere umano si trova di fronte ancora l’enigma di Cortés. Esiste l’uguaglianza al di fuori dell’identità? C’è spazio per una differenza che non implichi la subordinazione? La distruzione di Tenochtitlan ci ha mostrato le conseguenze di una risposta negativa, come quella del conquistador.
Forse, più che scoperta o conquista, quella d’America fu un grande desencuentro, un incontro mancato. Eppure non è l’unica alternativa. Desencuentro, intraducibile in italiano come unica parola, contiene in se la dimensione dell’encuentro, l’incontro. Anche questo ci ha mostrato la storia del Continente. Dieci anni dopo la devastazione dell’impero azteca, non lontano dalle ceneri ancora fumanti di Tenochtitlan, a Tepeyac, una Madonna dalle fattezze indigene scelse il nativo Juan Diego come proprio testimone. Nello sguardo non assimilativo della Morenita si intuisce un’altra modalità di relazione possibile con l’alterità.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
#QUESTIONE ANTROPOLOGICA
#FILOLOGICA
E
#ARCHEOLOGICA.
#IMPERATIVO CATEGORICO
E
#SONNO DOGMATICO:
E
#GATTUNGSWESEN.
#DIVINA COMMEDIA:
I #TRADITIONIS CUSTODES,
IL #LATINO,
#CARITAS (#KAPITAS)
O DELLA
#CHARITAS (#XAPITAS)?
***
#QUESTIONE ANTROPOLOGICA
#FILOLOGICA
E
#ARCHEOLOGICA:
#EUROPA.
#DIVINA COMMEDIA (#DANTE2021)
E #SONNO DOGMATICO:
IL PROBLEMA DEL #LATINO
E
I #CUSTODI DELLLA #TRADIZIONE CATTOLICO-ROMANA
(#TRADITIONIS CUSTODES),
QUELLA DELLA
#CARITAS (#KAPITAS)
O DELLA
#CHARITAS (#XAPITAS)?
Jenkins e la grande storia perduta del Cristianesimo tra Est e Ovest
di Giancarlo Bosetti (Reset, 14 Luglio 2016)
Nell’Europa percorsa dagli incubi scatenati dalla “guerra mondiale a pezzi”, dai proclami folli e sanguinari dell’Islam radicale, dai massacri prima di Al Qaeda poi dell’Isis, dalle ondate di disperati che cercano riparo nelle nostre società, i lavori di Philip Jenkins giungono come un aiuto prezioso nella tempesta, per guardare con lucidità la vicenda passata e presente della cultura e della religione cristiana. L’invito è di straordinario interesse per tutti, perché per tutti è di fondamentale importanza sottrarsi a quel determinismo coatto che vorrebbe produrre il trionfo di un senso comune della paura. [...]
In questa Storia perduta del Cristianesimo l’esercizio anti deterministico di Jenkins, come accade a volte nelle pagine degli storici di valore, si applica a rompere molte idee correnti sul “centro di gravità” delle nostre visioni del mondo cui apparteniamo e della religione che tendiamo a identificare sbrigativamente con l’identità europea. La guerra, le persecuzioni e la fuga stanno cancellando i cristiani da tanta parte del Medio Oriente, la violenza si accanisce sui monasteri cristiani dalla Siria all’Iraq. I cristiani siriaci o nestoriani hanno alle spalle qui una presenza poderosa e millenaria, con enormi comunità - decine di metropoliti, centinaia di vescovi - che si irradiavano a Est, non meno che a Ovest, a partire dai luoghi dove questa religione “nazarena” è nata, e di cui Jenkins racconta le stagioni più gloriose, ridisegnando la geografia storica e soprattutto quella mentale del Cristianesimo: una volta esisteva un altro e più antico cristianesimo che per la maggior parte della sua storia è stato una religione tricontinentale, con potenti rappresentanze in Europa, Africa e Asia, tale rimanendo fino al XIV secolo inoltrato.
Il carattere globalizzato del Cristianesimo sottolineato dal pontificato, non eurocentrico, di Francesco è la ripresa di una antica realtà. E altrettanto chiaro è, a chi per avventura abbia visitato i monasteri siriani prima della guerra civile del 2011, che una figura umana straordinaria e un martire del cattolicesimo siriano come Padre Paolo Dall’Oglio, non fosse un operatore “della periferia” cristiana, ma un protagonista di luoghi che sono centrali per la storia religiosa del mondo.
Sono luoghi che, ritrovata la pace, centrali potrebbero tornare per un futuro di dialogo tra le fedi e le comunità, quando si potranno riproporre in quelle terre modelli convivenza che hanno avuto un lungo corso in tempi diversi ad Alessandria, a Merv, a Baghdad, la città, quest’ultima, del potente patriarca Timoteo, che tra VIII e IX secolo dialogava con il califfo al Mahdi sulla vera religione, un po’ come Nathan il Saggio di Lessing faceva con il suo Sultano. [...]
Il libro di Jenkins ci costringe non solo a rimuovere assiomi stereotipati, ma anche a questo “spostamento di un centro” che assumevamo come irriflesso e ci costringe a riesaminare certezze che parevano indiscutibili, andando a illuminare aree della storia poco conosciute perché appartenute a comunità sconfitte. E ci propone il problema che forse è per l’autore quello principale di tutto il suo lavoro: come e perché le religioni muoiono? alcune svaniscono, altre si riducono “da grandi religioni mondiali a una manciata di seguaci”. È accaduto al manicheismo, è accaduto al buddismo, per mille anni dominante in India, ora marginale: sistemi di fede di portata mondiale si rivelano vulnerabili quanto le religioni azteca e maya. E come dimenticare gli ebrei, che appena un secolo fa prosperavano in tutto il Medio Oriente e che sono ormai quasi scomparsi con l’eccezione di Israele: dal 1950 a oggi in Egitto da centomila a cinquanta persone.
Jenkins, cristiano episcopale, costringe qui i credenti di ogni fede a una riflessione sulle estinzioni religiose, che è di grande interesse anche per i non credenti, perché apre un varco essenziale per una prospettiva di pluralismo: il varco è di natura teologica, ma presenta evidenti possibili riflessi politici. Le sorti cangianti delle religioni e gli esiti plurali e travagliati della geografia confessionale concentrano l’attenzione, per ciascuna religione, anche sul ruolo delle altre.
Se il destino dei rapporti tra le fedi è così alterno e imprevedibile e può produrre l’esito umano della loro scomparsa su vaste porzioni del mondo e la loro sostituzione con altre a seguito di cambiamenti politici (o anche climatici, come Jenkins sottolinea), e se tutto ciò deve avere un senso “in un disegno divino” quale che sia, allora una possibile “teologia della estinzione” non può che essere una teologia delle religioni, una teologia che ne spieghi la molteplicità, i successi e la caducità, in una parola: una teologia pluralista.
Europa
Il climatologo: «Un evento così estremo non sarebbe avvenuto in condizioni preindustriali»
Intervista. Parla Antonello Pasini, climatologo del Cnr. "Questi eventi saranno la norma". "Il fatto che la fonte del riscaldamento della temperatura globale è umana deve essere considerata una buona notizia, se fosse naturale non ci potremmo fare niente"
di Serena Tarabini (il manifesto, 17 luglio 2021).
Dopo settimane di precipitazioni che avevano già saturato i suoli, circa 150 mm di pioggia in una giornata hanno innescato la piena. Un disastro la cui entità evoca scenari da Sud Est asiatico, quando invece ci troviamo in Germania. Un episodio dovuto alla persistenza per giorni sulla stessa area geografica di una specifica condizione metereologica, coerente con i cambiamenti climatici in corso e l’inadeguatezza dei territori verso fenomeni sempre più estremi. Antonello Pasini fisico climatologo del Cnr, insegna fisica del clima e sostenibilità ambientale.
Dal suo punto di vista di climatologo e studioso dei fenomeni atmosferici che cosa è successo in Germania tale da provocare un’alluvione di simile intensità e durata? Si tratta di qualcosa senza precedenti a quelle latitudini?
Innanzitutto eravamo reduci da un anticiclone che ha invaso il Nord Europa determinando una situazione in cui il mare era molto caldo, una problematica diventata abbastanza tipica con il riscaldamento globale che porta più energia in atmosfera e che ha di fatto esteso verso Nord una circolazione di tipo tropicale, quindi questi anticicloni ora riescono ad arrivare anche a latitudini elevate. In questo caso c’è stata quella che noi chiamiamo “goccia fredda”, una grande quantità di aria più fresca che è calata da Nord per controbilanciare l’aria calda proveniente da Sud, e che si è istallata sulla Germania. Inoltre noi a queste latitudini siamo abituati a vedere la circolazione atmosferica che va da ovest verso est, dei treni di onde in transito che portano a giorni di tempo buono, poi un po’ di variabilità, poi due giorni di tempo meno buono etc. Quanto accaduto in invece è dovuto a delle onde molto più lunghe che si innalzano dai poli verso l’equatore e viceversa; quando sono così lunghe le onde si fermano e fanno permanere sul territorio una situazione come questa anche per giorni. È quella che noi chiamiamo una situazione di “blocco” che può riguardare anche il fenomeno opposto, quello delle ondate di calore che sono molto forti e molto lunghe. Sicuramente al disastro avvenuto in Germania concorrono anche altri tipi di fattori, ma dal punto di vista climatico si è trattato di un fenomeno impressionante.
Il collegamento con il cambiamento climatico è ormai dato per certo, si tratta semmai di stabilire in che misura. Quali sono i segnali inequivocabili, se ci sono, della determinante antropica sulle condizioni del clima e le sue conseguenze?
La scienza del clima lavora in modo particolare. Noi analizziamo i fenomeni attraverso dei modelli metereologici e climatici con cui sostanzialmente ricostruiamo un evento. Una volta fatto ciò, cambiamo delle cose nel modello, per es. se stiamo studiando un evento caratterizzato da un’ondata di calore molto forte in aria o nel mare, riportiamo le temperature dell’acqua e dell’aria alle condizioni della normalità climatica, magari del secolo scorso. Il modello fatto “correre” alle nuove condizioni ci consente di capire se questo evento sarebbe avvenuto ugualmente, in che misura, con qual valori di precipitazione o calore dell’acqua. C’è un gruppo di ricercatori che si occupa di attribuzione degli eventi estremi al cambiamento climatico che ha già studiato l’ondata di calore avvenuta in Canada e con questo metodo hanno visto che è stata eccezionale ma che non sarebbe mai avvenuta in condizioni preindustriali: oggi invece è stata possibile e lo sarà anche in futuro se la temperatura continuerà a salire. Nel passato la frequenza di eventi di questo tipo si calcolava fosse di uno ogni 20.000 anni. Nelle condizioni attuali si calcola potrebbe avvenire ogni 400 anni. Ma se la temperatura aumenta di due o tre gradi, può succedere anche ogni 20 anni.
Quali sono le zone del pianeta più esposte? O che vedono incrementare maggiormente la percentuale di rischi legata ai cambiamenti del clima?
Il nostro bacino Mediterraneo è un luogo sensibile. Una volta era dominato dall’anticiclone delle Azzorre che lasciava passare le perturbazioni a nord e teneva fermo il caldo africano sull’Africa, ora l’arrivo di questi anticicloni africani e flussi di aria fredda che arrivano quando l’anticiclone si ritira, hanno determinato una indubbia estremizzazione del clima. Dopodiché i rischi che un territorio corre sono il risultato di un insieme di fattori. Nel libro L’equazione dei disastri. Cambiamenti climatici su territori fragili utilizzo appunto un’equazione per individuare i fattori che determinano i danni ambientali. C’è un fattore sicuramente climatico, ma poi bisogna guardare alla fragilità del territorio e della società, il livello di esposizione di risorse e persone. Chiaro che nel mondo, a parità di cambiamento climatico, l’impatto di un fenomeno estremo è maggiore laddove le condizioni di sicurezza sono inferiori, o il welfare è meno strutturato.
Della Germania colpisce l’entità del disastro in una zona i cui standard non la fanno ritenere fra le più fragili. Siamo a un punto di svolta? O comunque ci sono delle nuove fragilità da prendere maggiormente in considerazione?
Anche la Germania non è stata esente da errori come l’eccesso di cementificazione e di estrazione e la natura si riprende i suoi spazi. In questo caso si sono rotti degli argini e i fiumi sono esondati, quindi dei manufatti umani sono risultati non adeguati a quelli che sono i cambiamenti del clima e le sue conseguenze. Quando progettiamo e costruiamo un’opera evidentemente i calcoli che facciamo non possono più fare riferimento alle statistiche del passato, bisogna tenere conto degli scenari climatici futuri, legati a una situazione che evolve verso una deriva climatica.
Questi fenomeni eccezionali sono destinati a diventare la norma?
Purtroppo sì se non facciamo nulla per limitare l’aumento della temperatura globale. Quello che dico sempre è che il fatto che la fonte di questo riscaldamento è umana deve essere considerata una buona notizia, se fosse naturale non ci potremmo fare niente. Conosciamo le cause: aumento gas serra, deforestazione, agricoltura e allevamento non sostenibili, possiamo quindi fare qualcosa affinché gli effetti dannosi di queste attività vengano ridotti. Dal punto di vista di principio anche politicamente in Europa ci stiamo muovendo in un modo senza precedenti. L’influenza di determinate lobby è ancora forte e mette dei limiti a quella che deve essere una vera e propria transizione ecologica globale, non solo energetica.
In onore di Francesco e Chiara d’Assisi, dei Francescani (Dante Alighieri, compreso!) ... e di Leonard Boff
IGNOTI A SE’ STESSI ...ED ESPORTATORI DI ’CRISTIANESIMO’ E DI ’DEMOCRAZIA’!!!
La ’lezione’ (di Nietzsche e) di un aborigeno canadese ai ’registi’ della politica ’cattolica’ (e ’laica’).
di Federico La Sala (ildialogo.org, 22 novembre 2005)
Credo che ormai siamo proprio e davvero al capolinea - nella totale ignoranza di sé stessi i componenti della Gerarchia della Chiesa ’cattolica’ si agitano ... alla ’grande’!!! Non hanno proprio più nulla da dire, evidentemente! Sono scesi in campo ... ma contro Chi?!, contro che cosa?! Contro lo spirito francescano!!!
In segno di solidarietà, qui ed ora - 2005 dopo Cristo, con i francescani in carne ed ossa, oggetto di un richiamo, con un Motu Proprio, da parte dell’ex- prefetto ’kantiano’ Ratzinger, il papa Benedetto sedicesimo, forse non è inutile un breve commento a margine... per cercare di stare svegli e di svegliarci, possibilmente - tutti e tutte!
Dennis McPherson, un aborigeno (che ormai ’ci’ conosce bene, evidentemente!) canadese, ecco cosa (sapientemente e sorprendentemente - per noi, occidentali!!!), alla domanda - “qual è l’essenza dell’essere umano? E’ una creatura speciale con una missione speciale?” - di un’antropologa-intervistatrice, ha risposto:
Se teniamo presente le famose parole “De nobis ipsis silemus [...]”(di Francesco Bacone), messe da Kant sopra (come una pietra tombale) e prima di iniziare il suo discorso della e nella Critica della ragion pura, si può dire che il ’nostro’ aborigeno ha capito e visto più che bene - e meglio di tutti i filosofi e teologi dell’Occide[re]nte!!! E ’ce’ lo ha detto in faccia - ’papale’, ’papale’: basta!!!
Noi che non conosciamo ancora noi stessi (Nietzsche) .... e che navighiamo nel più grande “oscurantismo” - quello (più importante!!!) relativo a noi stessi, vogliamo pure dare lezioni ed esportare ’cristianesimo’ e ’democrazia’ in tutto il mondo!? “Mi”!?, e “Mah”!!!?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
FLS
Amazzonia, attacco mortale ad ambiente e indios: l’ecocidio della foresta e il genocidio dei suoi popoli iniziato 500 anni fa
La resistenza dei popoli indigeni per la loro sopravvivenza e contro la propria estinzione ha tutelato parte della foresta sino ad oggi, ma nel 2020 l’Amazzonia ha subito la più grande deforestazione degli ultimi 12 anni. Secondo l’Istituto Socio Ambiental nei primi due anni del governo Bolsonaro la deforestazione è aumentata di quasi il 48% nelle aree protette
di Angelo Bonelli (Il Fatto quotidiano, 27 Giugno 2021)
L’attacco mortale finale alla Foresta Amazzonica si chiama “PL 490”, projecto Lej 490, che cancellerà l’Amazzonia, terminando il genocidio contro gli indios iniziato 500 anni fa. Il 22 giugno, mentre fuori dal parlamento brasiliano la polizia di Jair Bolsonaro reprimeva con la violenza le proteste degli indios provenienti da tutta l’Amazzonia, veniva approvata la PL 490 dalla commissione per la Costituzione, la Giustizia e la Cittadinanza che ora attende di essere definitivamente ratificata dal congresso nazionale del Brasile. Con questa legge la costituzione viene modificata in via ordinaria, questo è un aspetto contestato dai legali che assistono i popoli indios, stabilendo che le terre indigene sono quelle occupate dai popoli tradizionali alla data del 5 ottobre del 1988. In questo modo è chiesta ai popoli indios la prova della presenza in quelle terre e quindi del loro diritto a viverci, il giorno in cui fu promulgata la costituzione brasiliana, la legge inoltre vieta l’espansione delle terre che sono già state delimitate, indipendentemente dai criteri e dalle rivendicazioni delle popolazioni indigene interessate e consente di rendere possibile l’entrata nelle aree abitate da indios isolati per motivi di pubblica utilità: la pubblica utilità è lo sfruttamento della foresta. Questa legge voluta dai parlamentari vicini a Bolsonaro ed in particolare dalla cosiddetta “Bancada ruralista” una lobby molto potente che raccoglie 200 deputati federali su 513 di diversi partiti, apre allo sfruttamento di quelle parti dell’Amazzonia che hanno resistito alla deforestazione perché difese dai popoli indios che vivono nelle terre demarcate. La Bancada ruralista rappresenta i grandi interessi dei grandi produttori agricoli e dei latifondisti, ed è considerata la più influente nella discussione, articolazione e negoziazione della politica pubblica nell’ambito del potere legislativo: nel 2019 è stata determinante per far approvare l’amnistia per chi ha deforestato illegalmente nella foresta amazzonica.
Cosa accadrà se la PL 490 verrà approvata dal congresso nazionale brasiliano? I popoli indios dovranno dimostrare al governo federale brasiliano la prova della loro presenza alla data del 5 ottobre del 1988 nelle terre dove vivono da secoli e secoli. Un’assurdità, criminogena, se pensiamo che fino al 1988 le popolazioni indios non venivano considerate dal governo, persone con capacità giuridica. Nei decenni gli indios sono stati sottoposti a processi di espulsione dalle loro terre e a gravi violenze per le continue invasioni dei cercatori d’oro, dei land grabber, tagliatori di legna e latifondisti: per le popolazioni indigene dimostrare che si trovavano nelle terre da loro rivendicate o provare che sono stati espulsi è molto difficile se non impossibile. Per comprendere la ratio criminale di questa legge contro i diritti umani e l’ambiente, prendo ad esempio una famiglia che coltiva un terreno da secoli, arrivano dei banditi armati e ti cacciano con la violenza dalle terre, viene approvata una legge che dice che siccome nella data fissata tu non c’eri a coltivare le terre hai perso il diritto a stare su quelle terre.
La resistenza dei popoli indigeni per la loro sopravvivenza e contro la propria estinzione ha tutelato parte della foresta sino ad oggi. La demarcazione delle loro terre ancestrali, determinata dalla Costituzione del 1988, era funzionale a garantire la loro sopravvivenza e quella della foresta. In Amazzonia vivono 100 popoli indios isolati, che non hanno mai avuto contatti con i bianchi, sono persone che vogliono solo vivere in pace nelle terre dove vivono da sempre e per questo, preferiscono stare lontano dai bianchi. La PL 490 prevede la modalità per cacciarli e quindi portarli all’estinzione. Dice l’art.29 della PL 490: “nel caso di popolazioni indigene isolate, spetta allo Stato e alla società civile rispettare le loro libertà e modi di vita tradizionali, e il contatto dovrebbe essere evitato il più possibile, salvo prestare assistenza medica o mediare atti statali di pubblica utilità”. E’ bene ricordare che gli indios isolati hanno una difesa immunitaria diversa dalla nostra e l’influenza o una congiuntivite li può sterminare, ma il vero obiettivo è messo nero su bianco dalla legge: realizzare miniere, centrali idroelettriche, strade dentro le aree indigene e per poterlo fare Bolsonaro deve espellere gli indios.
Bolsonaro da presidente del Brasile ha tollerato e coperto le invasioni illegali delle terre indigene, realizzate con violenza e omicidi, da parte di cercatori d’oro, latifondisti e allevatori intensivi. Nelle sole terre indios Yanomami e Munduruku vi sono oltre 30.000 minatori che devastano la foresta minacciando e bruciando le case dei leader indios che si oppongono alle loro violenze. Nel maggio scorso un villaggio indigeno Yanomami che si trova lungo il fiume Uraricoera ha subito un attacco armato da parte di garimperos, cercatori d’oro, arrivati con i motoscafi provocando vittime e feriti, tra i quali due bambini di uno e cinque anni. Nelle terre indios l’estrazione mineraria è illegale, e nessuna autorità governativa li ferma anzi li tollera. Secondo la Cpt, commissione pastorale per la terra brasiliana, nel 2019 si sono registrati 1823 conflitti per le occupazioni delle terre con 32 leader indigeni assassinati. Uno di questi casi di omicidio è quello di Emyra Waiãpi, della terra indigena di Waiãpi, assassinata nel luglio 2019, all’età di 69 anni. È stata pugnalata a morte perché si opponeva all’invasione di cercatori d’oro in una regione dove sono in corso processi minerari illegali per l’estrazione di tantalio e oro. Questi dati e fatti vengono valutati dalla commissione pastorale come una conseguenza delle politiche dell’attuale governo.
Nel 2020, l’Amazzonia ha subito la più grande deforestazione degli ultimi 12 anni: 1.085.100 ettari sono stati distrutti, secondo i dati Inpe, Istituto nazionale per la ricerca spaziale. Un’altra ricerca, quella dell’Istituto Socio Ambiental, evidenzia come nei primi due anni del governo Bolsonaro la deforestazione è aumentata di quasi il 48% nelle aree protette dell’Amazzonia. Lo scienziato Carlos Nobre, premio Nobel per la Pace, ha denunciato che l’Amazzonia si sta avvicinando sempre di più al punto di non ritorno, ovvero a rischio desertificazione. L’aggressione al bioma dell’Amazzonia favorisce una maggiore interazione umana con gli animali selvatici tra chi vive nelle zone rurali e chi lavora nel cuore della foresta per organizzare la deforestazione, aumentando così le possibilità che un virus virulento, un batterio o un fungo salti da una specie all’altra, come ha affermato Adalberto Luís Val, ricercatore presso il National Amazon Research Institute (Inpa), con sede a Manaus. L’Istituto Evandro Chagas, un’organizzazione di ricerca sulla salute pubblica a Belém, capitale dello stato del Parà in Brasile nel cuore dell’Amazzonia, ha identificato circa 220 diversi tipi di virus in Amazzonia, 37 dei quali possono causare malattie negli esseri umani e 15 con il potenziale di causare epidemie. Se l’Amazzonia cesserà di essere un grande “regolatore climatico” sarà molto difficile, se non impossibile, contrastare il cambiamento climatico. La protesta degli indios, che a migliaia in questi giorni si trovano a Brasilia per protestare contro questa legge, sono nostri fratelli e sorelle e la loro battaglia deve diventare la mobilitazione di tutta la comunità internazionale per fermare quello che sta per trasformarsi in un crimine contro l’umanità.
Pinocchio ridotto a lavoratore e consumatore?
Una rilettura del personaggio di Collodi da parte del brasiliano Rubem Alves: un ragazzino si trasforma in burattino. Un duro attacco alle odierne strutture educative, che tendono a fabbricare bambini su misura
di Roberto Carnero (Avvenire, 16.06.2021).
Molti sono convinti di conoscere"Pinocchio" perché hanno visto il cartone animato di Walt Disney o se va bene, da bambini hanno letto una versione scorciata del romanzo in edizione illustrata. Eppure Le avventure di Pinocchio e un grande classico della letteratura italiana, che andrebbe letto ascuola, come si fa con I promessi sposi e la Divina Commedia. Perché a riprova del suo valore - il romanzo di Collodi è una delle opere italiane più tradotte nel mondo ed è un testo dai significati complessi e stratificati. Collodi, infatti, è stato capace, grazie alla sua vena fantastica, di evocare atmosfere diverse, sperimentando soluzioni narrative assai ricche, con molti episodi che ben figurerebbero in un romanzo picaresco, altri in uno d’avventura, altri ancora in una narrazione "nera", e non è cosa da poco per un libro scritto per i ragazzi. Tra le disavventure del burattino, le sue cadute e risalite, Collodi non rinuncia mai alla dimensione irrazionale e magica del racconto e alla perfetta fusione di fiabesco e quotidiano: quello di Pinocchio è una sorta di viaggio dantesco tra umano e soprannaturale, in cui la fantasia e l’immaginazione si compenetrano alla perfezione con la realtà di un’umanità concreta, perfino dolorosa. Non stupisce perciò che fin dal suo primo apparire sul "Giornale per i bambini" (a puntate, dal 1881 al 1883) questo romanzo sia stato oggetto di numerose interpretazioni e anche di "riscritture": il destino, quest’ultimo, tipico dei grandi classici.
L’ultima in ordine di tempo è un Pinocchio alla rovescia (a cura di Paolo Vittoria, Marletti 1820, pp. 56, curo 7,00) di Rubem Alves (1933-2014), uno dei maggiori scrittori brasiliani del Novecento. Filosofo, storico, poeta, pedagogista, psicanalista e autore di racconti per bambini, con il suo saggio Teologia della speranza umana (in Italia pubblicatonel 1971 da Queríniana) era stato uno degli ispiratori della teologia della liberazione.
Nel 2010,invece, ha riscritto il capolavoro di Collodi "al contrario". Il suo Pinocchio non è più un burattino che diventa bambino, bensì un bambino, di nome Felipe, che si trasforma in burattino. In che modo? Adeguandosi ai meccanismi e agli ingranaggi sociali che, sin dalla scuola, richiedono al singolo di uniformarsi e omologarsi.
Attraverso questa vicenda metaforica e simbolica, Alves lancia un duro atto d’accusa nei confronti delle odierne strutture educative, tutte tese alla standardizzazione dei percorsi formativi, alla certificazione di conoscenze, competenze e abilità, e, se serve, persino alla medicalizzazione, di fronte al disagio di quei ragazzi che, per le loro caratteristiche personali, non riescono a integrarsi in itinerari prestabiliti e uguali e per tutti. Ecco la risposta della maestra al piccolo protagonista: «La scuola non serve a imparare quello che vuoi, ma a imparare quello che devi imparare. Quello che devi imparare è ciò che hanno detto gli uomini intelligenti del Governo. Tutto nel giusto ordine. Una cosa alla volta. Tutti i bambini allo stesso tempo e con la stessa velocità...». E l’idolatria dei programmi, ammanniti ogni anno uguali a sé stessi, senza che siano mai suscettibili di una vera disamina critica.
Così Alves definisce il "disturbo dell’attenzione": «Disturbo dell’attenzione è quando l’attenzione sta nel luogo dove il cuore desidera e non nel luogo dove il maestro comanda». Ma una scuola simile sembra esistere solo «per trasformare i bambini che giocano in adulti che lavorano». Questo di Alves è un breve libretto che dovrebbe essere letto dai docenti, dagli educatori, dagli psicologi, dai genitori. Innanzitutto per una riflessione su che cosa dovrebbe essere la scuola: una macchina burocratica da far funzionare alla perfezione oppure un luogo, unico e straordinario, in cui scoprire i talenti e liberare le energie? E in secondo luogo per comprendere che in ogni vicenda educativa al centro deve essere posto sempre il ragazzo: solo così possiamo evitare di trasformarlo in un burattino.
Germania. Il cardinale Marx ha presentato le dimissioni al Papa
Ha spiegato che intende assumere la corresponsabilità per la catastrofe degli abusi sessuali da parte di esponenti della Chiesa. Il testo della lettera al Papa
di A.M.B. (Avvenire, venerdì 4 giugno 2021)
Ha offerto le sue dimissioni al Papa il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, già presidente della Conferenza episcopale tedesca (dal 2014 al 2020). Nel comunicato pubblicato sul sito dell’arcidiocesi si legge come motivazione la “catastrofe” degli abusi sessuali compiuti da uomini di Chiesa nei decenni scorsi.
In una lettera del 21 maggio a papa Francesco - si legge nel comunicato - il cardinale ha spiegato le ragioni di questo passo e che il Papa lo ha informato che la lettera può ora essere pubblicata e che potrà continuare a svolgere il suo servizio episcopale fino a quando non sarà presa una decisione.
La lettera di Marx al Papa
"Indubbiamente la Chiesa in Germania sta attraversando dei momenti di crisi" esordisce Marx nella lettera al Papa. "La crisi viene causata anche dal nostro personale fallimento, per colpa nostra. Questo mi appare sempre più nitidamente rivolgendo lo sguardo sulla Chiesa cattolica in generale e ciò non soltanto oggi, ma anche in riferimento ai decenni passati. Mi pare - e questa è la mia impressione - di essere giunti ad un ’punto morto’ che, però, potrebbe diventare anche un punto di svolta secondo la mia speranza pasquale".
“Sostanzialmente per me si tratta di assumersi la corresponsabilità relativa alla catastrofe dell’abuso sessuale perpetrato dai rappresentanti della Chiesa negli ultimi decenni”, ha scritto Marx al Papa. Le indagini e le perizie degli ultimi dieci anni "mi dimostrano costantemente che ci sono stati sia dei fallimenti a livello personale che errori amministrativi, ma anche un fallimento istituzionale e ’sistematico’". Le polemiche e discussioni più recenti "hanno dimostrato che alcuni rappresentanti della Chiesa non vogliono accettare questa corresponsabilità e pertanto anche la co-colpa dell’Istituzione. Di conseguenza rifiutano qualsiasi tipo di riforma e innovazione per quanto riguarda la crisi legata all’abuso sessuale". Il cardinale Marx ha chiaramente respinto questa posizione. "Due sono gli elementi che non si possono perdere di vista - prosegue -: errori personali e fallimento istituzionale che richiedono cambiamenti e una riforma della Chiesa. Un punto di svolta per uscire da questa crisi può essere, secondo me, unicamente quella della ’via sinodale’".
Con le sue dimissioni dall’ufficio, prosegue, si creerebbe forse spazio per un nuovo inizio, per un nuovo risveglio della Chiesa. “Voglio dimostrare che non è l’incarico ad essere in primo piano, ma la missione del Vangelo. Anche questo fa parte della cura pastorale. Pertanto, La prego vivamente di accettare le mie dimissioni". "Vorrei dedicare gli anni futuri del mio servizio in maniera più intensa alla cura pastorale e impegnarmi per un rinnovamento spirituale della Chiesa, così come Lei instancabilmente ammonisce" conclude.
IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA
"Il Papa mi ha ora comunicato che questa lettera potrà essere pubblicata"
Nella sua dichiarazione personale, il cardinale affermato di aver più volte pensato di dimettersi dall’incarico negli ultimi mesi. “Gli eventi e le polemiche e discussioni delle ultime settimane hanno avuto un ruolo del tutto secondario” precisa. E sugli abusi osserva: "Con preoccupazione vedo che negli ultimi mesi si nota una tendenza ad escludere le cause sistemiche e i rischi oppure, diciamolo pure, quelle che sono le questioni teologiche fondamentali e ridurre l’elaborazione ad un semplice miglioramento dell’amministrazione".
E conclude: "Questo passo non è facile per me. Mi piace essere prete e vescovo e spero di poter continuare a lavorare anche in futuro per la Chiesa. Il mio servizio per questa Chiesa e per le persone non termina qui. Tuttavia, per il bene di un nuovo e necessario inizio voglio assumermi la corresponsabilità per il passato. Credo che il „punto morto“, in cui ci troviamo attualmente, possa diventare un ’punto di svolta’. È questa la mia speranza pasquale e questo è ciò per cui pregherò e lavorerò".
IL TESTO INTEGRALE DELLA DICHIARAZIONE
"Questa società ha bisogno di una Chiesa che si rinnovi"
In conferenza stampa, tenutasi nel primo pomeriggio, il cardinale Marx ha dichiarato: "Non può andar bene che io sia contento personalmente che non mi venga addebitata alcuna colpa". Il punto, ha spiegato, "è la responsabilità istituzionale". "Non sono stanco della carica, e non sono demotivato", ha tenuto a sottolineare. "Sono convinto che questa società abbia bisogno della voce del Vangelo e di una Chiesa che si rinnovi".
I rapporti sugli abusi in Germania
Nel 2018 un rapporto commissionato dalla Chiesa tedesca aveva concluso che almeno 3.677 persone sono state vittime di abusi sessuali da parte di ecclesiastici fra 1946 e 2014. Oltre la metà di quelle persone aveva meno di 13 anni quando fu abusata, mentre quasi un terzo era costituita da chierichetti, secondo il rapporto. Quest’anno un altro studio relativo a Colonia ha rivelato numerosi altri casi di abusi sessuali da parte di sacerdoti. L’arcivescovo di Amburgo, Stefan Heße, già direttore del personale e poi vicario generale dell’arcidiocesi di Colonia, ha presentato nel marzo scorso le sue dimissioni al Papa e ha ricevuto un "congedo" per un tempo non specificato.
DA VERSAILLES ALLA CIBERNETICA.
di Gregory Bateson
Devo parlare di storia recente, come appare a me nella mia generazione e a voi nella vostra, e mentre giungevo in aereo stamane, nella mia mente cominciarono a riecheggiare certe parole. Erano frasi più roboanti di quelle che io sarei mai capace di formulare. Una di queste frasi era: «I padri hanno mangiato il frutto amaro e i denti dei figli si sono allegati». Un’altra era l’asserzione di Joyce che «La storia è quell’incubo da cui non ci si sveglia». Un’altra era: «I peccati dei padri ricadranno sui figli anche fino alla terza o quarta generazione di quelli che mi odiano». E, infine, non così immediatamente pertinente, ma, penso, sempre pertinente al problema del meccanismo sociale: «Colui che vuol far del bene a un altro deve farlo nei Minuti Particolari. Il Bene Generale è la scusa del furfante, dell’ipocrita e dell’adulatore».
Stiamo parlando di cose gravi. Ho intitolato questa conferenza «Da Versailles alla cibernetica», menzionando i due eventi storici più importanti del XX secolo. La parola ’cibernetica’ è familiare, no? Ma quanti di voi sanno quello che accadde a Versailles nel 1919?
Il problema è: che cosa conterà della storia degli ultimi sessant’anni? Io ho sessantadue anni, e quando ho cominciato a pensare alla storia che ho visto nel corso della mia vita, mi è sembrato in realtà di aver visto solo due momenti che definirei veramente importanti dal punto di vista di un antropologo.
Uno concerne gli eventi che hanno condotto al Trattato di Versailles, e l’altro concerne la rivoluzione cibernetica. Forse sarete sorpresi o stupiti che io non abbia ricordato né la bomba atomica nè, addirittura, la seconda guerra mondiale. Non ho ricordato la diffusione dell’automobile o della radio e della televisione o molti altri fatti che sono accaduti negli ultimi sessant’anni.
Vi dirò il mio criterio per l’importanza storica.
I mammiferi in generale, e noi uomini in particolare, si curano moltissimo non degli episodi, ma delle strutture delle loro relazioni. Quando apro lo sportello del frigorifero e il gatto si avvicina emettendo certi suoni, esso non sta parlando del fegato o del latte, anche se so bene che è proprio quello ciò che il gatto vuole. Posso esser capace di indovinare e dargli ciò che desidera (se ce n’è nel frigorifero). Ciò che il gatto dice, in realtà, è qualcosa che riguarda la sua relazione con me. Se esprimessi con parole il suo messaggio, ne risulterebbe qualcosa del tipo: «dipendenza, dipendenza, dipendenza». In effetti il gatto sta parlando di una struttura piuttosto astratta nell’ambito di una relazione. Da quest’asserzione di una struttura, io dovrei passare dal generale al particolare: dedurre «latte» o «fegato».
Questo punto è fondamentale; questo è ciò che interessa i mammiferi. Essi si curano delle strutture di relazione, della posizione in cui si trovano rispetto agli altri in un rapporto di amore, odio, rispetto, dipendenza, fiducia, e astrazioni analoghe. Questo è il punto ove cadere in errore è doloroso. Se noi ci fidiamo di qualcuno e scopriamo che costui non meritava fiducia; o se diffidiamo di qualcuno e scopriamo che in realtà costui meritava fiducia, ci sentiamo male. Il dolore che può derivare agli uomini e a tutti gli altri mammiferi da questo tipo di errore è grandissimo. Se quindi vogliamo davvero sapere quali siano i punti significativi della storia, dobbiamo chiederci quali sono i momenti della storia in cui sono cambiati gli atteggiamenti. Sono questi i momenti in cui la gente soffre a causa dei ’valori’ precedenti.
Pensate al termostato di casa vostra. Il tempo fuori cambia, la temperatura della stanza scende, l’interruttore del termometro in soggiorno fa quello che deve fare e accende la caldaia, e quando la stanza è calda l’interruttore del termometro spegne di nuovo la caldaia. Il sistema è quello che si chiama un circuito omeostatico, o servomeccanismo. Ma c’è anche una scatoletta sulla parete del soggiorno con la quale si regola il termostato. Se nell’ultima settimana la casa è stata troppo fredda, dovete spostare in su il termostato dalla sua posizione attuale per far oscillare il sistema intorno a un altro livello. Il tempo esterno, in nessun modo, nè col freddo nè col caldo nè in altro modo, potrà cambiare questa posizione, che è detta ’polarizzazione’ del sistema. La temperatura della casa oscillerà, sarà più caldo o più freddo secondo varie circostanze, ma la posizione del meccanismo non sarà mutata da questi cambiamenti. Quando invece io vado a variare la polarizzazione, cambierò quello che si può chiamare l’ ’atteggiamento’ del sistema.
Analogamente, la domanda importante relativa alla storia è: la polarizzazione o l’atteggiamento sono stati cambiati? L’episodico accadere degli eventi sotto una polarizzazione stazionaria è cosa veramente trita. È questo che avevo in mente quando ho detto che i due eventi storici più importanti della mia vita sono stati il Trattato di Versailles e la scoperta della cibernetica.
I più, tra voi, probabilmente non sanno come si giunse a stipulare il Trattato di Versailles. La storia è molto semplice: la prima guerra mondiale continuava a trascinarsi; era abbastanza evidente che i tedeschi stavano perdendo. A questo punto George Creel, che si occupava di pubbliche relazioni (e vorrei che non dimenticaste che costui fu uno dei nonni delle moderne pubbliche relazioni) ebbe un’idea: l’idea era che forse i tedeschi si sarebbero arresi se avessimo offerto loro condizioni armistiziali leggere. Egli preparò allora un pacchetto di condizioni leggere, che non contemplavano provvedimenti punitivi. Queste condizioni erano articolate in quattordici punti; ed egli comunicò questi Quattordici Punti al Presidente Wilson. Se avete intenzione di ingannare qualcuno, come latore del messaggio dovete scegliere un uomo onesto; il Presidente Wilson era uomo di onestà quasi patologica e di sentimenti umanitari. Egli sviluppò i punti in un gran numero di discorsi: non dovevano esserci «né annessioni, nè riparazioni di guerra, nè distruzioni punitive...» e così via. E i tedeschi si arresero.
Noi, inglesi e americani (specialmente gli inglesi) continuammo ovviamente a tenere la Germania sotto embargo, perché non volevamo che i tedeschi si ringalluzzissero prima della firma del Trattato; e così, per un altro anno, essi continuarono a patir la fame.
La Conferenza di pace è stata vivacemente descritta da Maynard Keynes in The Economic Consequences of the Peace (1919).
Il Trattato fu finalmente redatto da quattro uomini, Clemenceau, «la Tigre», che voleva schiacciare la Germania, Lloyd George, che riteneva fosse politicamente vantaggioso ottenere dalla Germania molte riparazioni di guerra, e imporle qualche ritorsione; e Wilson, che doveva essere continuamente menato per il naso. Ogni volta che Wilson aveva dei ripensamenti su quei Quattordici Punti, essi lo portavano nei cimiteri di guerra e lo facevano vergognare di non sentirsi in collera coi tedeschi. Chi era l’altro? L’altro era Orlando, un italiano.
Si trattò di una delle più grandi svendite nella storia della nostra civiltà; un evento tra i più straordinari, che portò difilato e inevitabilmente alla seconda guerra mondiale. Portò anche (e questo è forse più interessante che non la prima conseguenza) a uno scadimento morale della politica tedesca. Se voi promettete qualcosa a vostro figlio, e poi vi rimangiate la promessa, inquadrando però tutta la faccenda su un piano etico elevato, la conseguenza sarà non solo che egli sarà in collera con voi, ma che i suoi atteggiamenti morali peggioreranno, in quanto egli sentirà l’ingiustizia della canagliata che gli fate. Non soltanto la seconda guerra mondiale è stata la risposta appropriata di una nazione che era stata trattata proprio in questa maniera; ciò che è più importante è che era lecito aspettarsi, da questo tipo di trattamento, uno scadimento morale di quella nazione. Lo scadimento morale della Germania ha causato anche il nostro scadimento morale. Ecco perché dico che il Trattato di Versailles è stato un giro di boa nell’ambito degli atteggiamenti morali.
Ritengo che sia necessario attendere ancora un paio di generazioni prima che i postumi di quella svendita esauriscano i loro effetti. Siamo, di fatto, come i membri della casa di Atreo nella tragedia greca. Prima ci fu l’adulterio di Tieste, poi Atreo ammazzò i tre figli di Tieste e glieli imbandì nel banchetto della riconciliazione; poi ci fu l’assassinio del figlio di Atreo, Agamennone, da parte di Egisto, figlio di Tieste; e infine Oreste uccise Egisto e Clitennestra.
La cosa continua ad andare avanti. È la tragedia della sfiducia, dell’odio e della distruzione, che vibrano e si propagano attraverso le generazioni.
Provate a immaginare di capitare nel bel mezzo di una tale sequela di tragedie. Come stanno le cose per la generazione intermedia degli Atridi? Essi vivono in un universo pazzesco. Dal punto di vista di quelli che hanno dato inizio al disastro, non è così pazzesco: essi sanno che cosa è accaduto e in che modo vi sono arrivati. Ma i successori, che all’inizio non erano presenti, si trovano a vivere in un universo pazzesco e si ritrovano pazzi proprio perché non sanno come ci sono capitati.
Prendere una dose di LSD va bene: si prova la sensazione di essere più o meno pazzi; ma ciò ha perfettamente senso, perché si sa che si è presa una dose di LSD. Se invece si prende I’LSD per accidente, e poi ci si sente impazzire senza sapere come e perché, questa è un’esperienza terribile e angosciosa; è un’esperienza assai più seria e spaventosa, molto diversa dal ’viaggio’, che potete anche godere se sapete di aver preso l’LSD.
Considerate ora la differenza tra la mia generazione e quelli di voi che hanno meno di venticinque anni. Tutti viviamo nello stesso pazzesco universo, in cui l’odio, la sfiducia e l’ipocrisia (specialmente a livello internazionale) risalgono ai Quattordici Punti e al Trattato di Versailles. Noi più anziani sappiamo come si è arrivati fino a questo punto. Ricordo che mio padre, leggendo a colazione i Quattordici Punti, disse: «Per Giove, vogliono conceder loro un armistizio decente, una pace onesta, o qualcosa del genere». E ricordo anche, ma non tento di ridirla, la cosa che disse quando il Trattato di Versailles fu reso noto: è una cosa che non si può stampare. Quindi io so più o meno come si è giunti a questo punto. Ma dal vostro punto di vista, noi siamo assolutamente pazzi, e voi non sapete quali eventi storici abbiano portato a questa pazzia. «I padri hanno mangiato il frutto amaro e i denti dei figli si sono allegati». Per i padri va bene: essi sanno che cosa hanno mangiato; ma i figli non sanno che cosa è stato mangiato.
DA VERSAILLES ALLA CIBERNETICA.
di Gregory Bateson
Vediamo che cosa è lecito aspettarsi da persone che abbiano appena subito un atroce inganno. Prima della prima guerra mondiale si pensava generalmente che il compromesso e un pizzico d’ipocrisia fossero ingredienti molto importanti per il raggiungimento di un certo comfort nella vita d’ogni giorno. Se leggete, per esempio, Erewhon Revisited, di Samuel Butler, capirete che cosa intendo dire. Tutti i personaggi principali del romanzo si sono cacciati in guai terribili: alcuni debbono essere giustiziati, altri debbono divenire oggetto di pubblica esecrazione; e il sistema religioso della nazione minaccia di crollare. Queste difficoltà e complicazioni sono appianate da Mrs. Ydgrun (o, come diremmo noi, «Mrs. Grundy») custode dei costumi di Erewhon. Ella ricostruisce con cura la storia, come un rompicapo a intarsio, in modo che nessuno stia realmente male e a nessuno capitino disavventure (e specialmente che nessuno sia giustiziato). Questa filosofia era assai comoda. Un po’ d’ipocrisia e un po’ di compromesso lubrificano gl’ingranaggi della vita sociale.
Ma dopo il grande inganno questa filosofia non può reggere. Avete perfettamente ragione, c’è qualcosa di sbagliato, e questo qualcosa ha la natura dell’inganno e dell’ipocrisia. Voi vivete in mezzo alla corruzione.
Ovviamente le vostre reazioni spontanee sono puritane. Non è un puritanesimo sessuale, poiché sullo sfondo non c’è inganno sessuale. Ma un rigoroso puritanesimo contro il compromesso, un puritanesimo contro l’ipocrisia che finisce col ridurre la vita in piccoli pezzi. Sono le grandi strutture integrate della vita che sembrano aver portato alla follia, e così voi cercate di concentrarvi sulle cose più minute. «Colui che vuol far del bene a un altro deve farlo nei Minuti Particolari. Il Bene Generale è la scusa del furfante, dell’ipocrita e dell’adulatore». Il bene generale puzza d’ipocrisia per la nuova generazione.
Non ho dubbi che se voi chiedeste a George Creel di giustificare i Quattordici Punti, egli invocherebbe il bene generale. È possibile che la sua operazioncella abbia salvato la vita di qualche migliaio di americani nel 1918. Non so però quante vite essa sia costata nella seconda guerra mondiale, e, dopo, in Corea e nel Vietnam. Ricordo che Hiroshima e Nagasaki furono giustificate col bene generale e col risparmio di vite americane. Ci fu un gran parlare di ’resa incondizionata’, forse perché non avevamo fiducia nella nostra capacità di osservare un armistizio condizionato. Il destino di Hiroshima fu decretato a Versailles?
Voglio parlare adesso dell’altro evento storico importante accaduto durante la mia vita, nel 1946-47 circa. Si trattò del coagularsi di numerose idee che erano sorte in luoghi diversi durante la seconda guerra mondiale. Possiamo chiamare l’aggregato di queste idee cibernetica, o teoria delle comunicazioni, o teoria dell’informazione, o teoria dei sistemi. Queste idee nacquero in molti luoghi: a Vienna con Bertalanffy, a Harvard con Wiener, a Princeton con von Neumann, nei Laboratori della Bell Telephone con Shannon, a Cambridge con Craik, e così via. Tutti questi sviluppi separati in diversi centri intellettuali avevano a che fare con problemi di comunicazione e specialmente col problema di quale fosse la natura di un sistema organizzato.
Noterete che tutto ciò che ho detto sulla storia e su Versailles è una discussione sui sistemi organizzati e le loro proprietà. Ora voglio dire che stiamo cominciando in una certa misura a comprendere in modo rigorosamente scientifico questi misteriosi sistemi organizzati. Quello che sappiamo oggi è assai più di quanto avrebbe mai potuto dire George Creel. Egli fu scienziato applicato prima che la scienza fosse matura per essere applicata.
Una delle radici della cibernetica risale a Whitehead e Russell e a ciò che si chiama la Teoria dei Tipi logici. In linea di principio, il nome non è la cosa cui il nome si riferisce, e il nome del nome non è il nome, e così via. In termini di questa potente teoria, un messaggio sulla guerra non è parte della guerra.
Diciamo così: il messaggio ’Giochiamo a scacchi’ non è una mossa del gioco degli scacchi; è un messaggio in un linguaggio più astratto di quello del gioco che si svolge sulla scacchiera. Il messaggio ’Facciamo la pace in questi e questi termini’ non è nello stesso sistema etico al quale appartengono gl’inganni e gli stratagemmi della battaglia. Dicono che tutto è lecito in amore e in guerra, e questo può essere vero all’interno dell’amore e della guerra, ma all’esterno e riguardo all’amore e alla guerra, l’etica è un po’ diversa. Per secoli gli uomini hanno giudicato il tradimento durante la tregua o le trattative per la pace peggiore dell’inganno in battaglia. Oggi questo principio etico trova un rigoroso fondamento teorico e scientifico. Ora l’etica può essere esaminata in modo formale, rigoroso, logico, matematico, e così via; e poggia su basi assai diverse dalle prediche e dalle invocazioni. Non è più inevitabile che ciascuno la pensi a suo modo; a volte possiamo distinguere ciò che è giusto da ciò che è errato.
Ho preso la cibernetica come il secondo evento d’importanza storica nella mia vita perché ho almeno una tenue speranza che possiamo indurci a usare queste nuove conoscenze con un po’ di onestà: se comprendiamo un pochino quello che stiamo facendo, forse ciò potrà aiutarci a uscire dal labirinto di allucinazioni che ci siamo orditi intorno.
La cibernetica, a ogni modo, è un contributo al cambiamento: non solo un cambiamento dell’atteggiamento, ma addirittura un cambiamento nella comprensione di ciò che è un atteggiamento.
La posizione che ho assunto nello scegliere ciò che è importante nella storia (quando ho detto che le cose importanti sono gli istanti in cui viene determinato l’atteggiamento, gli istanti in cui viene cambiata la polarizzazione del termostato), questa posizione deriva direttamente dalla cibernetica. Sono pensieri plasmati dagli eventi accaduti dal 1946 in poi.
Non dobbiamo illuderci di aver trovata la soluzione bell’e pronta. Abbiamo ora a nostra disposizione molta cibernetica, molta teoria dei giochi, e cominciamo a conoscere e comprendere i sistemi complessi. Ma ogni conoscenza può essere usata a scopi distruttivi.
Ritengo che la cibernetica rappresenti il boccone più grosso che l’uomo abbia strappato dal frutto dell’Albero della Conoscenza negli ultimi duemila anni. Ma la maggior parte dei bocconi di questa mela si sono dimostrati piuttosto indigesti (di solito per motivi cibernetici).
In se stessa, la cibernetica è integra, e questo può aiutarci a non essere indotti a più grande follia, ma non possiamo confidare che essa ci preservi dal peccato.
Ad esempio i ministeri degli Esteri di parecchie nazioni utilizzano oggi la Teoria dei Giochi, con l’ausilio del calcolatore, come un mezzo per decidere la politica internazionale. Dapprima, identificano quelle che sembrano essere le regole di gioco dell’interazione internazionale; poi considerano la distribuzione geografica di forze, armi, punti strategici, controversie, eccetera, nelle nazioni identificate. Essi poi chiedono al calcolatore di computare quale dovrebbe essere la mossa successiva per minimizzare le possibilità di perdere la partita; il calcolatore ronza e cigola e dà una risposta: e quasi quasi si è tentati di obbedirgli. Dopo tutto, se si dà retta al calcolatore si è un po’ meno responsabili che se si fosse presa una decisione autonoma.
Ma se si fa ciò che il calcolatore consiglia, con quella mossa si dà il proprio appoggio alle regole del gioco che si erano fornite al calcolatore: si confermano le regole del gioco.
Anche le nazioni rivali hanno certamente i calcolatori e fanno giochi simili e confermano le regole del gioco che essere forniscono ai loro calcolatori. Il risultato è un sistema in cui le regole dell’interazione internazionale divengono sempre più rigide.
È mia opinione che il vero problema in campo internazionale è che le regole debbono cambiare. Non è questione di che cosa sia meglio fare con le regole così come esse sono oggi; ma piuttosto di come ci si possa svincolare dalle regole secondo le quali abbiamo agito negli ultimi dieci o venti anni, o fin dal Trattato di Versailles. Il problema è di cambiare le regole, e nella misura in cui permetteremo alle nostre invenzioni cibernetiche (i calcolatori) di trascinarci in situazioni sempre più rigide, non faremo altro che calpestare e offendere la prima promettente scoperta fatta dal 1918.
Naturalmente vi sono altri pericoli latenti nella cibernetica, e molti non sono stati neppure individuati. Non si sa, ad esempio, quali possano essere le conseguenze dell’impiego del calcolatore per la gestione di tutti gli schedari della pubblica amministrazione. Almeno questo tuttavia è certo: che nella cibernetica è anche latente il mezzo per conseguire una nuova e forse più umana filosofia, un mezzo per cambiare la nostra strategia del controllo e un mezzo per vedere le nostre follie in una prospettiva più vasta.
* Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente [tit. orig.: Steps to an Ecology of Mind, 1972], Milano, Adelphi, 1977, pp. 487-496.
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA PSICOANALISI E PSICHIATRIA. UNA QUESTIONE DI DIGNITÀ DI LUNGA DURATA.... *
Oltre il vicolo cieco degli uomini che uccidono le donne
Violenza maschile. Alla povertà di un gesto, opporre visioni diverse. Non c’è mai una un’unica scelta
di Tiziana Plebani (il manifesto, 17.09.2021)
Una donna uccisa quasi ogni giorno. Ma spostiamo la visuale e guardiamo dall’altra parte: quasi ogni giorno un uomo uccide una donna. Viene da pensare che sia divenuto un gesto imitativo, un modello da seguire, orrendamente, assurdamente, forse inconsapevolmente, ma che, tuttavia, si è imposto nell’immaginario, nel ventaglio di comportamenti e reazioni.
Nel momento della fragilità, della crisi, della necessità di riprogrammarsi, bisogna fare la fatica di trovare una soluzione, una via di uscita. Questa scelta costa. C’è bisogno di silenzio, pena, sofferenza. Cosa fare? Quello che hanno fatto tanti, che ogni giorno viene ripetuto dai media, che è visto di continuo in televisione. È un gesto che si insinua nella testa, e nel momento del bisogno emerge automatico, l’hanno fatto altri. È come se ci fosse una strada maestra di risposta che azzera l’infinità di opzioni a disposizione dell’umano per risolvere un dramma personale.
Ricordo che anni fa, durante la crisi economica del 2008, assistemmo a un’altra di queste associazioni a catena, tragicamente automatiche: più di 1600 imprenditori si tolsero la vita. Cominciò uno di loro a suicidarsi e in poco tempo anche questo gesto venne ripetuto di continuo: una risposta cieca che pure in questo caso si era imposta come l’unica percorribile.
Certo, quegli uomini che ammazzano le donne hanno alle spalle una pratica violenta, tengono armi in casa, hanno coltivato una confidenza con il linguaggio dell’offesa che non si inventa da un giorno all’altro. Sono tutte morti annunciate, come sappiamo.
Che fare dunque? Suggerisco due piani di azione, uno nell’ambito comunicativo, l’altro che riguarda le strategie di prevenzione.
I media ripropongono la sequela di omicidi e purtroppo imprimono e sedimentano questa risposta. Non si tratta ovviamente di tacere questi crimini bensì di accompagnare la notizia con commenti e interpretazioni che innanzitutto smentiscano l’idea che si tratti di raptus, di accecamento istintuale, di rabbia (rimando a questo articolo).
Quasi tutti questi delitti, avvengono dopo episodi di minacce e di brutalità. E soprattutto, come ci insegna la storia delle emozioni, esistono stili di comportamento che emergono rispetto ad altri in alcuni momenti storici, e che in questo caso ci parlano di un deserto e non di un eccesso emozionale, di un analfabetismo dei sentimenti (di cui la nostra società attuale è afflitta), e di un appiattimento delle risorse individuali e collettive ai drammi e alle fatiche della vita.
Televisioni, social media, carta stampata dovrebbero insistere piuttosto sul ventaglio di risposte al disagio, proponendo storie finite in altro modo (che poi sono la stragrande maggioranza). Si deve comunicare la possibilità di uscire da quella che appare in maniera distorta come una strada maestra ma che è invece un vicolo cieco e orrendo.
Opporre alla povertà di un gesto la visione di un paesaggio molteplice e vasto, di scelte multiple, di percorsi attraversati da mille sentieri. Non c’è mai un’unica scelta.
L’altro piano riguarda l’azione preventiva. Si tratta a parer mio di riprendere le modalità con cui si è affrontata la protezione dei testimoni di mafia, ma mutando direzione. Invece che far subire alla donna minacciata e che ha denunciato lo stalking o peggio, l’allontanamento dalla sua casa, dal suo ambiente, dal lavoro e dalle sue reti personali, si vada a trasferire l’uomo violento in un’altra città e almeno in un’altra regione, possibilmente molto distante. E che abbia l’obbligo di firma, come i mafiosi, in modo che si possano controllare i suoi spostamenti.
Perché ciò che non dobbiamo permettere è che le conseguenze di un comportamento violento maschile vengano pagate in qualità di libertà personale femminile. Affinché queste donne non siano viste solo come vittime ma come soggetti autonomi che perseguono le loro scelte di vita.
L’autrice è storica e scrittrice
*
NOTA:
QUASI OGNI GIORNO UN #UOMO UCCIDE UNA DONNA (ma chi l’addestrò per la vittoria?). Forse non è ora di svegliarsi dal sonno dogmatico e venir fuori dalla edipica tragedia della cosmoteandria e laica e religiosa?!
ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA. Per uscire dal manicomio di una storia segnata (e raccontata, come Brecht ben illustra)) da una andrologia di lunga durata, dall’inferno della tragedia (Edipo), e vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 92) o, diversamente, la testa di Oloferne tagliata da Giuditta (Botticelli), oggi, è necessario non solo un radicale capovolgimento di ottica, ma soprattutto prendere coscienza della necessità di uscire da dentro un campo antropologico con la bilancia rotta (tutte le relazioni dell’intera società senza più giustizia)) e smetterla di continuare a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata" (come già denunciato da Franca Ongaro Basaglia). O, contro l’evidenza di Dante Alighieri, ogni speranza è ormai solo un’illusione?! E la storia è finita?!
COSTITUZIONE ("BIBBIA CIVILE") ED EPISTEMOLOGIA "BIBLICA"! . Benché sulla questione antropologica (Kant, "Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’idealismo materialistico (o il materialismo idealistico) l’ha "conservata e negata" ("superata") nella grande "Scienza della Logica" dello Spirito Assoluto di Hegel (Napoleone). Recentemente, Gregory Bateson, benché (come egli stesso dice in una conferenza del 1979) abbia "all’enima della Sfinge" dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo", non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della tragedia e dalla città di Edipo ed è ritornato sulla strada del "sacro"!
("DIGNITÀ DELL’UOMO". Non per sminuire nessuno, ma per uscire dalla "preistoria" (K. Marx), è bene ricordare che il "Dio" a cui guarda Gregory Bateson, è ancora il dio dell’antico patto, quello dell’andrologia di Paolo di Tarso: il cap. XIII di "Dove gli angeli esitano" (Adelphi,1989) è titolato "Il dio che non si può beffare" e mette in citazione la frase di san Paolo: "Non vi fate illusioni: Dio non lo si può beffare" (Gal., VI, 7)!!!
DIGNITÀ. Che dire?! l’antropologa Ida Magli non ha solo scritto "La femmina dell’uomo" (Laterza, 1982) ma anche scritto il libro "SULLA DIGNITA’ DELLA DONNA"; il sottotitolo è "La violenza sulle donne, il pensiero di Wojtyla". Che dire?! Continuare nello Spirito di Napoleone, Hegel, Bateson, Costantino?! Dopo Dante2021?!
Federico La Sala
L’organizzazione dei sopravvissuti alla Shoah non sta con Netanyahu
Germania/Israele. Il Vvn denuncia i crimini israeliani contro i palestinesi. Lo scrittore Tomer Dotan Dreyfus e il suo reportage da Tel Aviv: «Perché in Germania i palestinesi contano meno di noi?»
di Sebastiano Canetta (il manifesto, 19.05.2021)
BERLINO. È stata la prima organizzazione fondata dai sopravvissuti ai campi di sterminio, combatte l’antisemitismo da ben 74 anni e non sta per niente dalla parte di “Bibi” Nethanyau. L’Unione dei Perseguitati dal regime nazista (Vvn) è la più antica istituzione antifascista tedesca, con una lista di membri illustri da enciclopedia della Resistenza: da Hannelore Willbrandt, militante della Rosa Bianca insieme ai fratelli Scholl ai tempi di Hitler, alla Pantera Nera Mumia Abul Jamal, prigioniero degli Usa dal 1981. Ieri non sono stati zitti di fronte all’oppressione di ebrei, rom e musulmani; oggi non tacciono di fronte ai crimini commessi in Palestina.
«La comunità ebraica tedesca non è responsabile della politica di Israele, quindi gli attacchi contro le sinagoghe sono atti di antisemitismo da condannare». L’Achtung preventivo campeggia sui social del Vvn insieme alla video-testimonianza dell’indicibile orrore di Abu Suhiab, padre di tre bambini di 5, 8 e 14 anni assassinati sabato scorso dagli F-16 di Tel Aviv.
L’equidistanza per il Vnn è solo questa. Mentre la sua idea di libera informazione su ciò che accade in Medio Oriente coincide con l’analisi a tutto tondo di Tomer Dotan Dreyfus, lo scrittore israeliano-tedesco che fra pochi giorni rappresenterà ufficialmente la Germania alla “Jewish Book Week” di Londra. Di pubblico dominio (sul sito freitag.de) il suo «Avviso agli spettatori»: la corrispondenza da Tel Aviv che a Berlino nessuno sembra volere leggere.
«Abbiamo i cartelli con scritto “ebrei e arabi rifiutano di essere nemici!”. Di fronte a noi la sede del Likud su cui pende ancora lo striscione elettorale: “Molti politici, un solo...”; è sempre difficile tradurre leader in tedesco, ma la foto è di Netanyahu. La polizia è tranquilla: siamo ebrei hipster, mica palestinesi. Alcuni uomini ci gridano: “siete malati” e “le vite di migliaia di palestinesi non superano quella di un singolo ebreo!”. Una ragazza risponde: “Fra tutti i popoli, proprio noi non abbiamo il diritto di dirlo”».
Fin qui la cronaca dei fatti, che pure già restituirebbe la complessità del malessere del popolo che ha subito la banalità del male. Ma Dreyfus continua: «A leggere i media tedeschi viene da pensare che 7 morti israeliani, indubbiamente terribili, valgano più di 100 palestinesi. Ma gli attacchi missilistici su Israele sono riportati più dei raid aerei su Gaza. È inquietante: non che non sia giusto denunciare i razzi - sono dovuto correre al rifugio in piena notte per questo - ma il focus significa che l’idea centrale è sempre la supremazia».
È il punto chiave per capire la logistica dell’odio che Dreyfus spiega esemplarmente. «Sui siti tedeschi dilagano le accuse contro i palestinesi: “Si nascondono dietro i civili”. Come se a Gaza ci fosse altra possibilità, come se la principale base dell’esercito israeliano non fosse nel mezzo di una città molto popolata. Di sicuro, solo che tutti sono disposti a sacrificare i bambini». È l’unico dato certo di questo conflitto dalle mille risposte e troppo poche domande.
«Perché in Germania si vuole considerare che i palestinesi contano meno di noi? Forse, perché ci sono rifugiati anche lì. E se piangiamo i morti di Gaza allora vale anche per chi lasciamo annegare nel Mediterraneo». Sillogismo impeccabile, peraltro all’attenzione di tutti i governi della Fortezza Europa.
A Berlino gli slogan contro gli ebrei scanditi da (pochi) ultras alla manifestazione pro-Palestina di sabato scorso hanno alimentato il timore per il crescente antisemitismo, che per Dreyfus è giustificato ma «c’è in tutte le forme e, secondo la polizia, molto più tra i tedeschi bianchi di estrema destra. Lo Stato sembra sopraffatto di fronte al fenomeno che è incistato nella Bundeswehr come nei parlamenti dei Land».
Due mezzi e due misure, come mai? «Il lutto per i morti ebrei nella percezione collettiva tedesca è legato alla lotta contro l’antisemitismo, quindi è più facile se i morti palestinesi sono anche antisemiti. Eppure se la Germania fosse un vero amico di Israele avrebbe denunciato per tempo le politiche di discriminazione di Netanyahu. La frase “Israele è sotto tiro” induce a credere che siamo un’unica entità politica, invece dopo 12 anni di Netanyahu la società è lacerata, piena di odio e sangue, mentre la destra israeliana è più forte che mai: Itamar Ben Gvir, che minacciò pubblicamente di morte Rabin, oggi dalla Knesset invita i suoi seguaci a picchiare gli arabi».
Quindi Dreyfus riassume la realtà quotidiana dei palestinesi nel Paese che l’Occidente considera l’unica democrazia del Medio Oriente. «Quando sono vittime di un crimine la polizia israeliana se ne frega, soffrono più degli ebrei per la povertà e le loro scuole ricevono meno fondi pubblici. E mentre vengono sfrattati sulla base di contratti di due secoli fa, non sono autorizzati a tornare nelle case da cui sono fuggiti nel 1948».
Andrebbe riletta l’intervista dello scrittore e testimone della Shoah, in cui parlò di «orrore» per una «rappresaglia sbilanciata che assume forme e dimensioni barbariche» di Israele verso la Palestina. E molti altri suoi interventi sul tema
di Giulio Cavalli *
Andrebbe riletto Primo Levi. Andrebbe riletto il libro di Berel Lang in cui Levi dice: «Dal 1935 al 1940, rimasi affascinato dalla propaganda sionista, ammiravo il Paese e il futuro che stava pianificando, di uguaglianza e fratellanza».
Andrebbe riletta la Conversazione con Levi di Ferdinando Camon in cui Levi dice: «Lo Stato d’Israele avrebbe dovuto cambiare la storia del popolo ebraico, avrebbe dovuto essere un zattera di salvataggio, il santuario a cui sarebbero dovuti accorrere gli ebrei minacciati negli altri Paesi. L’idea dei padri fondatori era questa, ed era antecedente alla tragedia nazista: la tragedia nazista l’ha moltiplicata per mille. Non poteva più mancare quel Paese della salvezza. Che ci fossero gli arabi in quel Paese, non ci pensava nessuno. Ed era considerato un fatto trascurabile di fronte a questa gigantesca vis a tergo, che spingeva là gli ebrei da tutta Europa. Secondo me, Israele sta assumendo il carattere e il comportamento dei suoi vicini. Lo dico con dolore, con collera. Non c’è differenza tra Begin e Khomeini».
Andrebbe riletto il testo dell’appello pubblicato il 16 giugno 1982 su Repubblica (altri tempi, eh) che si intitolava “Perché Israele si ritiri” e iniziava con: «Facciamo appello, in quanto democratici ed ebrei, perché il governo israeliano ritiri immediatamente le sue truppe dal Libano». Lo firmarono Franco Belgrado, Edith Bruck, Ugo Caffaz, Miriam Cohen e Natalia Ginzburg, criticava «la soluzione militare» scelta da Israele perché evocava «un linguaggio di triste memoria per ogni ebreo» e i firmatari affermarono di averlo scritto sperando di «combattere i germi potenziali di un nuovo antisemitismo che si verrebbe ad aggiungere alle vecchie e mai scomparse tendenze antiebraiche in seno alla società civile».
Andrebbe riletta la sua intervista al Secolo XIX in cui Levi parlò di «orrore» per una «rappresaglia sbilanciata che assume forme e dimensioni barbariche».
Andrebbe riletto l’articolo di Levi sulla prima pagina de La Stampa il 24 giugno 1982 in cui scrisse: «Israele, sempre meno Terra Santa, sempre più Paese militare, va acquisendo i comportamenti degli altri Paesi del medio oriente, il loro radicalismo, la loro sfiducia nella trattativa». Oppure la sua intervista a Giorgio Calcagno de La Stampa il 12 giugno 1982 in cui raccontava il suo allontanamento da Israele: «Ho giudicato il sionismo una forza e una necessità politica. Questa gente non poteva che seguire un verbo che aveva una forma biblica. Oggi la questione si è complicata, perché la Palestina è in un nodo geografico sotto tensioni spaventose, costretta a una difesa costosissima e logorante, che spinge anche ad azioni temerarie o politicamente sbagliate. Il sionismo di allora pensava a un Paese contadino. Israele, oggi è diventato un Paese militare e industriale».
Altrimenti si rischia davvero di credere a certi articoli, di questi tristi giorni, che raccontano di una guerra iniziata per una “manciata di case” a cui i palestinesi non vorrebbero rinunciare. La realtà è complessa e ognuno si porta dietro i segni sulla pelle della propria storia.
Buon venerdì.
*Fonte: Left, 14.05.2021.
RIPENSARE L’EUROPA:
A CLARA CAMPOAMOR, avvocata e politica spagnola e a SOPHIE SCHOLL, la giovane studentessa della Rosa Bianca ...
Il Parlamento Ue dedica due edifici a eminenti donne europee
A Clara Campoamor e a Sophie Scholl
BRUXELLES - In occasione della giornata internazionale della donna l’Europarlamento ha approvato la proposta di rinominare due dei suoi edifici col nome di due eminenti donne europee.
L’edificio che sorge su rue Montoyer 63 prenderà il nome di Clara Campoamor, avvocata e politica spagnola che ha lottato per i diritti delle donne e contro la discriminazione di genere. Il suo sforzo ha contribuito a portare il diritto di voto per le donne nella costituzione spagnola del 1931.
L’edificio di rue Wiertz 30-50 invece prenderà il nome di Sophie Scholl, studentessa tedesca e militante anti-nazista. Condannata a morte per alto tradimento dopo aver distribuito materiale propagandistico contro il regime, Sophie Scholl militò nella Rosa Bianca, uno dei gruppi della resistenza antinazista tedesca.
La sala riunioni 1G2 dell’edificio dedicato ad Altiero Spinelli invece sarà intitolata a nome di Manolis Glezos, eurodeputato greco morto lo scorso marzo, una delle figure chiave della resistenza antifascista greca.
La scelta di Sophie
Il 9 maggio di cento anni fa nasceva la giovane della Rosa Bianca, simbolo della resistenza al nazismo, uccisa con il fratello Hans Scholl e l’amico Christoph Probst
di Grazia Villa, Avvocata per i diritti delle persone*
In occasione dell’8 marzo 2021 l’Europarlamento ha deciso di dedicare a due donne due dei suoi edifici: a Clara Campoamor, avvocata e politica spagnola e a Sophie Scholl, la giovane studentessa tedesca, che pagò con la vita la sua opposizione al nazismo. Della resistenza dei giovani della Rosa Bianca molto si è scritto e anche il cinema ne ha efficacemente narrata la storia. Le tracce della vita dell’unica ragazza del gruppo sono, però, da scoprire nelle pagine dei suoi diari, nella sua copiosa corrispondenza, nel verbale degli interrogatori della Gestapo, negli atti del suo processo lampo, nelle testimonianze di familiari e delle persone sopravvissute della Weisse Rose.
Seguendo i suoi passi s’incontra una fonte di acqua cristallina e ci s’immerge nel pozzo profondo e luminoso di una coscienza retta e libera, un tesoro prezioso racchiuso tra due battesimi. Il primo regala due nomi alla piccola Sofia Magdalena, il segreto della sua esistenza: la sapienza della “Sofia” e l’amore sconfinato della Magdalena, uniti nel motto in lei incarnato, di Jacques Maritain «bisogna avere un cuore tenero e uno spirito duro».
Il secondo è quello del suo sogno finale la notte prima dell’esecuzione. Sophie sta portando un bambino a battesimo, si sente sprofondare, ma lo mette in salvo, mentre lei cade nel baratro: «Il bambino simboleggia le nostre idee... trionferanno dopo la nostra morte».
Solo guardando al suo spirito e al suo cuore si comprende...la scelta di Sophie.
Nasce in Germania il 9 maggio 1921 a Forchtenberg, cent’anni orsono, muore ghigliottinata a Monaco di Baviera il 22 febbraio 1943, a 22 anni
É la quarta di sei figli, il loro legame forte segnò profondamente la vita di Sophie e anche la sua sorte. Il padre Robert, cristiano liberale, sindaco della cittadina, fu sempre avverso al nazismo, particolarmente alla sua propaganda verso le giovani generazioni, tanto da osteggiare apertamente l’iniziale adesione dei figli Hans e Sophie alle organizzazioni della gioventù nazista. La madre Magdalena Muller, cristiana luterana devota, il Vangelo al centro della sua vita, trasmesso alle figlie e ai figli, come messaggio di liberazione da ogni forma di potere e di male.
La famiglia Scholl vive in una casa aperta all’ospitalità delle persone e delle idee, un luogo ricco di affetto e di allegria, di rispetto delle differenze, di uguaglianza tra maschi e femmine, uno spazio ampio di letture, anche di libri proibiti dal regime, di scambi intellettuali, di appassionata ricerca. È il terreno fertile in cui fiorirono i primi petali di quella che sarà poi la Rosa Bianca, tanto che i biografi definiscono questo laboratorio familiare un vero Scholl-Bund, la Lega Scholl.
Dolce e ironica, timida e sfrontata, piccola e bruna, d’aspetto italiano più che ariano, senza trecce bionde, con frangia scomposta e impenitente, così è descritta Sophie, mentre lei chiarisce ben presto le sue aspirazioni di bambina: «La più brava non sono, la più bella non voglio essere, ma la più intelligente sì!».
L’adesione della giovanissima Sophie alla Lega delle ragazze tedesche, oltre che per le escursioni nella natura e per lo sport, rappresenta un’occasione per attrezzarsi alla lotta e rifiutare un modello edulcorato e sentimentale dell’essere donna. Subisce il fascino della Fuhrerin “Charlo” che aveva modificato per le sue ragazze il saluto dell’Heil Hithler in un gesto affettuoso che consisteva nello sfiorare la fronte della compagna e scompigliarle i capelli!
La libertà femminile e la sua autonomia di pensiero la spingono presto a uscire da tutte le organizzazioni della gioventù hitleriana, a contestarne la pedagogia sperimentata anche nel lavoro obbligatorio, ”trovavo il servizio noioso e sbagliato, quindi brutto e ingiusto perché mortificava l’individualità personale dei bambini e delle bambine”, a ipotizzare un ruolo speciale per le donne come nella sua tesina di maturità: «La mano che muove la culla, muove il mondo».
È poi negli affetti e nelle sue relazioni amicali che lo spirito indomito appare slegato da forme e condizionamenti. Non temeva di dire alle amiche: «non voglio mettermi dalla parte di tutto ciò che è banale» o al fidanzato: «io posso pensare tranquillamente a te. E sono contenta di poter fare così come voglio, senza alcun obbligo».
Il suo amore per la natura, la bellezza e la musica, traboccante nei suoi diari non solo ne manifesta lo slancio vitale, fino all’ultimo respiro, ma diventa una vera forma di contemplazione spirituale, rivelando una fede schietta e forte, anche dentro il buio dell’oppressione, della guerra, della prigione, una fede viva che alimenta la sua coerenza. Il cuore tenero di Sophie si esprime con l’esultanza della giovinezza:
«Come posso non vedere un torrente limpido senza bagnarvi i piedi, così non posso passare davanti a un prato a maggio senza fermarmi».
La musica «ammorbidisce il cuore, mette in ordine la sua confusione, scioglie la sua rigidità ... Sì, silenziosamente e senza violenza, la musica apre le porte dell’anima».
«Non è anche questo un mistero, che tutto sia così bello? Nonostante l’orrore, continua a essere così. (...) Per questo soltanto l’uomo è capace di essere veramente crudele, coprendo questo canto col rumore di cannoni, di maledizioni e di bestemmie. Ma il canto di lode ha il sopravvento... ed io voglio fare tutto quello che è possibile per associarmi alla sua vittoria».
Anche in cella in attesa dell’esecuzione ormai certa sussurrava: «Una giornata di sole così bella ed io me ne devo andare», ma subito con forza aggiungeva: «non importa di morire se le nostre azioni saranno servite a scuotere e risvegliare le coscienze».
La coscienza di Sophie è quella dei giovani della Rosa Bianca, è la stessa cui si appellano nei volantini rivolti a risvegliare il popolo tedesco soggiogato dal Male.
Lo spirito duro li conduce al martirio. La stessa durezza di Sophie davanti ai suoi accusatori, stupiti dalla determinatezza di questa piccola ragazza: «Non rinnego nulla. Sono convinta di aver agito nell’interesse del mio popolo. Non mi pento e ne accetterò tutte le conseguenze (...) non io, ma lei ha una falsa visione del mondo».
Nelle ultime pagine di diario scriveva: «la vita è sempre sul bordo della morte, una piccola candela brucia esattamente come una torcia ardente... Scelgo da me il modo di bruciare». Lo stesso fuoco d’amore che la portò alla ghigliottina per proclamare fino alla fine la sua Libertà: Freiheit, l’ultima parola gridata dal fratello Hans davanti ai suoi carnefici e da loro regalata a noi per sempre.
C’è un quadro ai Musei Vaticani intitolato Annunciazione, in cui Maria e l’angelo tengono in mano rose bianche.
È stato dipinto intorno al 1905 dalla pittrice espressionista Paula Modersohn - Becker molto amata da Sophie Scoll che di lei scrive in una lettera alla sorella Inge, nel 1939.
«Paula Modersohn mi ha entusiasmato tantissimo, l’ammiro veramente. Pensa ha sempre lavorato da sola, e non è mai stata guidata da nessuno nella realizzazione dei suoi quadri. Devi vederli. Dopo i suoi quadri tutti gli altri mi sono passati davanti impercettibili».
Artista ritenuta “degenerata” dal regime nazista, Paula Modersohn-Becker (Dresda 1876 - Worpswede 1907) si forma tra Londra e la Germania, ma sono gli incontri con l’opera di Cézanne, Gauguin e van Gogh, avvenuti durante un soggiorno a Parigi nel 1900, a influenzare la sua arte.
Sul suo immaginario esercita un fascino speciale l’arte africana e in particolare l’iconografia della Dea della fertilità, che contamina molti dei suoi ritratti femminili. «Ne è un esempio questa Annunciazione, in cui la pittrice offre una versione intima del momento in cui l’angelo incontra la Vergine, resa inquietante dalla totale assenza di lineamenti» (museivaticani.va). Morì a soli 31 anni per complicazioni seguite al parto della primogenita, Mathilde.
*Fonte: L’Osservatore Romano, 30 aprile 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
Clara Campoamor *
Clara Campoamor (Madrid, 12 febbraio 1888 - Losanna, 30 aprile 1972) è stata un’avvocata e politica spagnola, promotrice del suffragio femminile in Spagna, ottenuto nel 1931 ed esercitato per la prima volta dalle donne nelle elezioni del 1933.
Nelle elezioni del 1931 viene eletta deputata nel collegio elettorale di Madrid, e prende parte della Commissione incaricata di redigere la nuova Costituzione che approverà il voto femminile, la ricerca della paternità, il divorzio, l’uguaglianza civile nel matrimonio.
Nel 1933 perde il suo seggio parlamentare e presta servizio per breve tempo come ministro del governo, prima di fuggire dal paese durante la guerra civile spagnola. Nel 1972 Campoamor muore in esilio in Svizzera e viene sepolta in Spagna nel cimitero di Polloe a San Sebastián.[...] *
* Fonte: Wikipedia, l’enciclopedia libera (ripresa parziale).
FLS
Von der Leyen, Italia aveva ragione su intervento Ue su Covid
La presidente della Commissione nel discorso sullo Stato dell’Unione 2021
di Redazione ANSA *
"Mi ricordo bene l’inizio della pandemia e l’appello dell’Italia all’Europa. Gli italiani chiesero la solidarietà ed il coordinamento dell’Europa. L’Italia aveva ragione, l’Europa doveva intervenire. E questo è quello che abbiamo fatto". Così la presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, nel discorso sullo Stato dell’Unione 2021.
"La nostra campagna di vaccinazione è un successo. Quello che conta sono le ferme e crescenti consegne di vaccini agli europei e al mondo. Ad oggi 200 milioni di vaccini sono stati distribuiti nell’Ue. Sono abbastanza per vaccinare almeno la metà della popolazione adulta europea almeno una volta. Nè Cina o Russia, si avvicinano minimamente". Così la presidente della Commissione europea nel suo discorso.
"Con Draghi a Roma" il 21 maggio "ospiteremo il vertice sulla Salute. Dobbiamo muoverci da soluzioni ad hoc sulla pandemia ad un sistema che funzioni per tutto" il mondo. "Vogliamo discutere di cooperazione internazionali. Il nostro rinascimento sulla Salute inizia a Roma", ha detto Von der Leyen.
"A pochi chilometri da Firenze c’è un paesino, Barbiana, dove don Lorenzo Milani sul muro della scuola scrisse in inglese ’I care’. Lui disse agli studenti che quelle erano le due parole più importanti da imparare. ’I care’ significa assumere responsabilità. Gli europei hanno dimostrato con le loro azioni cosa significa. Questo deve essere il motto dell’Europa. ’We care’", ha sottolineato Von der Leyen.
"L’Ue è pronta a discutere qualsiasi proposta che affronti la crisi" del Covid "in modo efficace e pragmatico. Questo è il motivo per cui siamo pronti a discutere di come la proposta degli Stati Uniti per una deroga alla protezione della proprietà intellettuale" dei brevetti "per i vaccini Covid potrebbe aiutare a raggiungere tale obiettivo", ha aggiunto la presidente della Commissione Ue.
* ANSA 06 maggio 20210 (ripresa parziale).
Europa.
Von der Leyen: "I care" di don Milani diventi il motto Ue
Nel discorso sullo Stato dell’Unione, la presidente della Commissione apre alla decisione Usa di sospendere i brevetti dei vaccini anti-Covid
Von der Leyen: "I care" di don Milani diventi il motto Ue
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 6 maggio 2021)
"A pochi chilometri da Firenze c’è un villaggio che si chiama Barbiana" dove sorge "una piccola scuola di campagna dove, negli anni Sessanta, un giovane maestro, don Lorenzo Milani, scrisse su un muro due semplici parole in inglese: I care". Lo ha ricordato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel corso su The State of the Union, appuntamento annuale organizzato dall’Istituto universitario europeo. "Durante e oltre la pandemia" queste due parole "devono diventare il motto dell’Europa", ha sottolineato nel suo discorso in videoconferenza.
Don Milani "disse ai suoi studenti che quelle erano le due parole più importanti che dovevano imparare", ha aggiunto la presidente. "’I care’ significa prendersi responsabilità e quest’anno milioni di europei hanno detto ’I care’ con le loro azioni" di "volontariato o semplicemente proteggendo le persone che gli stavano attorno". "I care, we care, questa credo che sia la più importante lezione che possiamo imparare da questa crisi".
Sui brevetti dei vaccini "pronti a discutere sulla proposta Usa"
"La nostra campagna di vaccinazione è un successo. Quello che conta sono le ferme e crescenti consegne di vaccini agli europei e al mondo. A oggi 200 milioni di vaccini sono stati distribuiti nell’Ue. Sono abbastanza per vaccinare almeno la metà della popolazione adulta europea almeno una volta. Né Cina o Russia, si avvicinano minimamente" ha detto la presidente Ue.
"Qualcuno potrebbe dire che Paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito sono stati più veloci all’inizio" sulle vaccinazioni. "Ma io dico: l’Europa ha ottenuto" il suo successo, "rimanendo aperta al mondo. Mentre altri tengono per sé la produzione di vaccini, l’Europa è il principale esportatore di vaccini a livello mondiale. Finora, più di 200 milioni di dosi di vaccini prodotti in Europa sono state spedite nel resto del mondo" ha proseguito.
"L’Europa esporta quasi la stessa quantità di vaccini che fornisce ai propri cittadini - ha detto -. Per essere chiari, l’Europa è l’unica regione democratica al mondo che esporta vaccini su larga scala".
Inoltre sulla decisione degli Stati Uniti di sospendere i brevetti dei vaccini anti-Covid: "L’Ue è pronta a discutere qualsiasi proposta che affronti la crisi" del Covid "in modo efficace e pragmatico. Questo è il motivo per cui siamo pronti a discutere di come la proposta degli Stati Uniti per una deroga alla protezione della proprietà intellettuale" dei brevetti "per i vaccini Covid potrebbe aiutare a raggiungere tale obiettivo". ha spiegato Von der Leyen.
L’impegno europeo di Ursula VdL.
I «care» faro per tutti (una scelta da onorare)
di Francesco Gesualdi (Avvenire, venerdì 7 maggio 2021)
Parto da una doverosa precisazione: don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, il motto ’I care’ (m’importa, ho a cuore) non lo aveva scritto su un muro, ma sulla porta che separava la scuola dalla sua camera. Un particolare non secondario perché essendo il punto di ingresso nell’unico spazio in cui a sera si ritirava in privato, voleva annunciare lo spirito che aleggiava in quello spazio e quindi nella sua persona. Uno spirito di assunzione di responsabilità verso le creature che la vita gli aveva messo davanti tale da fargli dimenticare totalmente se stesso.
E uno spirito di coerenza verso la verità tale da fargli accettare le conseguenze che la difesa della verità spesso comporta. Don Lorenzo non lo ricordava per narcisismo, ma come invito a noi allievi a fare altrettanto, ricordandoci che se la società è ingiusta, violenta, predatrice, la responsabilità non è solo del ’potere’ che impartisce ordini sbagliati e scrive leggi ingiuste, ma anche di tutti coloro che quegli ordini e quelle leggi eseguono. Ha fatto bene Ursula von der Leyen a ricordare il motto ’I care’ proprio oggi che dall’altra parte dell’Atlantico, Joe Biden ha annunciato di voler appoggiare la richiesta avanzata da Sudafrica e India di sospendere le regole internazionali a difesa dei brevetti sui vaccini e ogni altro farmaco utile a sconfiggere la pandemia.
Ha fatto bene perché ciò che in Europa ci è meno noto è che la decisione di Biden non giunge come un fulmine a ciel sereno, ma come conseguenza di una forte pressione popolare organizzata negli Stati Uniti da parte delle organizzazioni umanitarie che hanno fatto arrivare a Biden milioni di messaggi a favore della sospensione.
Per questo la sua decisione è la vittoria di milioni di persone che in cuor loro hanno detto ’I care’ e hanno preso l’iniziativa di agire per manifestare il proprio pensiero e insistere finché il Presidente di tanti di loro, l’uomo più potente del mondo, ha deciso di stare dalla parte delle persone piuttosto che delle multinazionali farmaceutiche. Un’iniziativa ancor più lodevole perché non attuata a favore di se stessi, ma di persone lontane, africani, asiatici, latino americani, che rischiano di non poter essere vaccinati a causa dei costi imposti dai brevetti. Ma il vero spirito dell’I Care è proprio questo: si agisce non perché se ne trae un vantaggio, ma perché non si tollera la sofferenza, l’ingiustizia, l’umiliazione, il sopruso, il latrocinio, a chiunque sia inflitto.
Ursula VdL, allora, deve ricordarsi che avendo preso l’impegno solenne, per giunta a Firenze, di volere assumere lo spirito di ’I Care’ a livello personale e della politica dell’Unione Europea, si è assunta una grande responsabilità. La responsabilità di agire di conseguenza, applicando il suo e nostro ’I Care’ prima di tutto verso i migranti. Verso tutte quelle donne, quegli uomini, quei bambini che dopo essere fuggiti da zone di guerra si trovano respinti, addirittura aggrediti dai cani alla frontiera est della Ue. Verso tutti coloro che cercando di fuggire dai lager libici si mettono in mare per raggiungere la sponda Sud della Ue, ma in caso di avaria vengono lasciati annegare o sono ripescati dalla cosiddetta Guardia costiera libica che li riporta nei lager dai quali hanno cercato di fuggire.
Verso tutti i cittadini meno protetti della Ue che in tempo di austerità sono stati privati di un lavoro, di cure mediche, di scuola, sacrificati di nuovo sull’altare del debito. Un tema, quello del debito pubblico, tutt’altro che superato, perché ora che la Ue ha deciso di indebitarsi per sostenere la transizione ecologica e la ripresa sociale, sarebbe beffardo se domani, dovesse ripristinare l’austerità per ripagare il debito fatto oggi in nome del suo ’I Care’.
Finché siamo in tempo sarebbe meglio proporre di rivedere i Trattati, in particolare quelli che regolano le funzioni e i meccanismi di funzionamento della Banca centrale europea affinché la moneta, al pari dei vaccini, sia gestita come un bene comune al servizio della piena occupazione, della promozione dei servizi pubblici e della tutela della natura.
Grazie dunque alla signora Ursula VdL, per averci ricordato il valore di ’I Care’, ma per favore l’Europa un faro per i tanti cittadini che la guardano affinché di quello spirito sia dato l’esempio migliore.
Immaginare mondi, risignificare spazi
Nel suo libro l’antropologo Andrea Staid redige una mappatura dei diversi modi in cui è possibile abitare la Terra, raccontando come la casa del futuro passi dall’ibridazione e non dagli standard urbani occidentali.
di Beatrice La Tella (Futura-Network, 27.04.2021)
In molti idiomi vivere e abitare sono sinonimi, vicini a livello di campo semantico e di concetto. Questa simmetria non esiste nella lingua italiana, e la sua assenza è forse spia di un atteggiamento schizofrenico, comune al pensiero Occidentale, che ha avuto come conseguenze più disagi (quando non disastri) che benefici.
L’antropologo Andrea Staid pubblica il suo La casa vivente per Add Editore, proprio a partire dalla necessità di un decentramento, prospettico e fisico. Il volume si apre non a caso con una brevissima introduzione all’etnografia: non studio egemonico-quantitativo - lo sguardo di superiorità della civiltà (presunta) evoluta che osserva bonariamente società (presunte) arretrate - ma, al contrario, ricerca di stampo qualitativo fondata sullo scambio e il confronto alla pari. Conversando con le più diverse popolazioni nel corso dei suoi viaggi in Asia, Staid si è trovato spesso innanzi a visioni rovesciate delle nostre certezze (un esempio semplice quanto immediato: la paura di dormire con la porta chiusa piuttosto che con la porta aperta). Da questi raffronti è sorta la necessità impellente di rimettere in questione tanto il concetto quanto il potere stesso di abitare.
Occorre partire dall’idea che “la casa è un processo”: dimorare implica una presa in cura, un’azione sempre relazionale e continuativa. L’abitazione è un nodo e sprigiona contemporaneamente esigenze pratiche e funzioni simboliche che si muovono dallo spazio ristretto al paesaggio più ampio. Il modo in cui si occupa un luogo sottende una visione del mondo, una precisa struttura identitaria che non ha una norma fissa. Dimorare in un posto, infatti, non corrisponde necessariamente a stanziarvisi: “Abitare il mondo non vuol dire soltanto radicarsi, ma anche valicare confini”. L’abitare nomade, dunque, non è meno abitare di quello sedentario, anzi, mostra una diversa relazione tra l’uomo e il suo ambiente, dalla quale, sostiene Staid, si può trarre più di una lezione.
Può sembrare strano che si guardi a tende di pelle continuamente assemblate e smontate in mezzo al deserto in termini di futuribilità, eppure, proprio in queste usanze che a chi vive nei nostri condomini sembrano preistoriche, si possono rintracciare i semi di un modo più armonico di popolare il pianeta.
Per l’autore è fondamentale chiamarsi fuori dalla prospettiva industriale occidentale in favore di un approccio ecologista decoloniale. L’atto stesso della costruzione non deve più essere delegato: riappropriarsi dell’abitare significa, innanzitutto, conoscere i luoghi quanto i materiali che consentono l’edificazione e aprirsi inoltre alla possibilità di scoprirne di nuovi e insospettabili. Costruire, d’altronde, è un “atto immaginativo”, non un accumulo di materia inerte ma un’azione artigiana itinerante, ogni volta diversa, adattiva, che non può avere modelli prestampati cui obbedire ciecamente. La materia stessa è stata erroneamente avvertita nei secoli come passiva: oggi sappiamo invece che ha una propria agentività (agency), le cui ripercussioni si propagano anche nel sociale.
Su questi argomenti, la studiosa di Scienza e Nanotecnologia dei materiali Laura Tripaldi scrive nel suo recente Menti parallele (effequ): “Forse in un futuro potremmo trovarci a vivere in case fluide, capaci di cambiare forma insieme a noi come il guscio di una chiocciola, o in città capaci di disassemblarsi e scomparire per ricostruirsi spontaneamente altrove. Finché queste prospettive fantascientifiche resteranno inaccessibili, possiamo accontentarci di sapere che le nanotecnologie odierne ci forniscono tutti gli strumenti per costruire e studiare sistemi capaci di organizzarsi, riprodursi e modificarsi in autonomia su diverse scale, mostrandoci che è possibile immaginare e progettare attivamente altre forme di vita e nuove menti”. La materia ha un’intelligenza ed è protagonista di importanti e costanti mutamenti: conoscerla è fondamentale per ripensare i nostri rapporti con essa e le infinite possibilità che ci dischiude.
Nel mondo del Capitalocene, termine che Staid ritiene più centrato di Antropocene per indicare gli influssi devastanti e trasformativi dell’uomo sul pianeta, l’unica possibilità che ci è data come specie è vivere - e dunque, abitare - alleggerendo l’impatto umano. Lasciandosi alle spalle l’etnocentrismo, l’antropologo preferisce guardare al dimorare indigeno come possibile maestro di un diverso stare al mondo, fatto di ibridazione e connessioni (non a caso nel testo l’autore cita direttamente Chthulucene di Donna Haraway, che fa del legame - letteralmente kin, “parentela” - il fulcro del suo pensiero). Osservando varie comunità, Staid ha scoperto case che sono spazi sociali potenzialmente illimitati, non individualizzanti, spesso con un proprio ciclo di vita - case che nascono, crescono e muoiono dissipandosi secondo le leggi naturali dello spazio in cui sorgono.
Il libro propone dunque una serie di esempi di “architettura spontanea”: dalla goahti dei sami all’izba russa, dal tulou cinese alla tolek africana, Staid esplora case vive costruite in armonia con l’ambiente circostante, case mobili, orti galleggianti, dimore fatte di scale che finiscono sugli alberi, in una rassegna breve ma allo stesso tempo ricca e suggestiva.
Se la casa è un “dispositivo cognitivo”, che si muove non solo in senso spaziale ma anche culturale, Staid ritiene che questo dispositivo vada espanso, e per farlo è necessario muovere altrove il nostro sguardo. Ciò non significa però soffermarsi solo su realtà distanti: è sufficiente scoprire anche proposte poco note sorte in Italia, come A.R.I.A. Familiare, cantieri di autocostruzione sorti ad Amatrice dopo il sisma.
L’Occidente come sistema di pensiero avversa da sempre queste pratiche di autogoverno, anteponendo l’efficienza (spesso presupposta) ai meccanismi di condivisione e la burocrazia all’immaginazione. Si tende a favorire l’intorpidimento dell’homo comfort a scapito della manualità dell’homo faber. “È importante ricordare che la casa è un bene d’uso, non un bene di consumo”, sottolinea Staid e in questo senso fornisce esempi di progetti, come Pianeta U.M.A.N.A. & C., che sono scuole-cantiere volte proprio a istruire alle pratiche di autocostruzione familiare.
In un’epoca di kit di case da montare proposti da Ikea, in cui la standardizzazione crea lotti malsani identici a se stessi, questo tipo di realtà mostra che altre direzioni sono possibili. Se la rivoluzione urbana, con i suoi condomini iperindividualizzanti, con la sua riduzione di spazi comunitari e la sua omogeneizzazione del paesaggio, genera un disagio abitativo dai volti molteplici, è evidente che urge una controrivoluzione.
In questo senso Staid sottoscrive lo stretto legame che intercorre - o dovrebbe intercorrere - tra ecologia e lotta sociale: non riconoscere che le logiche capitaliste siano la causa principale della crisi ambientale significa mantenere uno sguardo parziale e insufficiente. “L’abitare deve diventare un progetto politico anticapitalista”, afferma in maniera diretta, proponendo poi un abecedario di buone pratiche basilari che passano dalla mobilità sostenibile alla riduzione dei rifiuti. È fondamentale ridimensionare l’umano e lasciare maggiore respiro al paesaggio, riportandoci al di fuori di quel centro in cui ci siamo storicamente auto collocati.
Per comprendere questo scarto è sufficiente considerare che l’uomo rappresenta lo 0,01% della biomassa, contro le piante che corrispondono invece all’80%. È proprio alle altre specie che bisogna guardare per salvaguardare anche la nostra: un esempio è la fabbrica dell’aria realizzata dal botanico Stefano Mancuso, un sistema di filtraggio degli ambienti chiusi che si basa proprio sulla fotosintesi delle piante e la loro capacità di assorbire e degradare gli agenti inquinanti. Bisogna “pensare la fine dell’antropocene senza la fine della vita di noi animali umani sul pianeta”. Il primo passo è allo stesso tempo semplice e arduo: ammettere che il modo in cui abbiamo sempre abitato - infestato - il nostro pianeta possa non essere il migliore e cercare altrove nuovi paradigmi.
L’etnografia è un’esperienza di spaesamento, un approccio per cui ogni viaggio è scambio costante, attività transculturale contro ogni gerarchia e struttura verticale. L’obiettivo è progettare un abitare intraspecie, simile alle parentele auspicate da Haraway, che elimini ogni idea di ‘permesso calato dall’alto’ e riconosca pari dignità a tutto il vivente, concependo ogni specie come entità politica. Una volta superato il mito tossico della crescita e dello sviluppo infiniti sarà forse possibile smettere di infestare la Terra e cominciare ad abitarla e viverla, senza più separare i due concetti.
Risignificare l’abitare è risignificare l’umano: Staid invita a superare la paura che il mettersi in discussione reca sempre con sé e iniziare a concepirci diversamente come specie, agendo di conseguenza. Il suo invito, come la sua scrittura, è chiaro e privo di fronzoli: dobbiamo “immettere futuro nelle cose che si fanno nel presente”, azzardare nuovi immaginari perché la casa smetta di essere soltanto un edificio e ritrovi una più vasta rete di possibilità e significati.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE (2005).
(...) il “nuovo mondo” che abbiamo costruito dimostra quanto presto abbiamo dimenticato la ‘lezione’ delle foreste, dei mari, dei deserti, e dei fiumi e delle montagne!!!
Federico La Sala
UNA LETTERA DI ANNE FRANK (13 GIUGNO 1944) *
Carissima Kitty,
[...] piú volte mi sono posta una di quelle domande che non mi danno pace, e cioè perché un tempo, e spesso anche adesso, la donna nei popoli occupa un posto molto meno importante rispetto all’uomo. Chiunque può dire che è ingiusto, ma a me non basta, vorrei tanto conoscere il motivo di questa grande ingiustizia!
Si può immaginare che l’uomo, fisicamente piú forte, fin dall’inizio abbia avuto una posizione di supremazia rispetto alla donna; l’uorno che guadagna, che genera i figli, l’uomo che può tutto... È già stato abbastartza stupido da parte di tutte quelle donne che fino a poco tempo fa hanno permesso che fosse cosí senza protestare, perché quanti piú secoli questa regola ha resistito, tanto piú ha preso piede. Per fortuna la scuola, il lavoro e il progresso hanno un po’ aperto gli occhi alle donne, In molti paesi le donne hanno ottenuto gli stessi diritti degli uomini; molte persone, soprattutto donne, ma anche uomini, adesso capiscono quanto questa suddivisione fosse sbagliata e le donne moderne vogliono avere il diritto all’indipendenza totale!
Ma non è solo questo, è il rispetto della donna, quello che manca! In tutto il mondo l’uomo viene rispettato, perché non si può dire lo stesso della donna? Soldati ed eroi di guerra vengono onorati e festeggiati, gli scopritori hanno fama immortale, i martiri vengono osannati, ma di tutta l’umanità, quanti considerano la donna anche come un soldato?
Nel libro Guerrieri per la vita c’è scritta una cosa che mi ha molto colpita, e cioè piú o meno che le donne in generale già soltanto per i parti soffrono piú di qualsiasi eroe di guerra. E quale successo spetta alla donna, dopo avere sofferto tanto? Viene spinta in un angolo quando è sformata dalla gravidanza, i figli ben presto non sono piú suoi, la bellezza svanisce. Le donne sono molto piú stoiche, sono soldati piú coraggiosi che lottano e soffrono per la sopravvivenza dell’umanirà molto piú di tanti eroi che non sanno fare altro che vantarsi!
Con questo non voglio affatto dire che le donne debbano rifiurarsi di mettere al mondo bambini, anzi, cosí è per natura, e cosí è giusto che sia. Condanno solo gli uomini e tutto l’ordinamemo del mondo che non ha mai voluto rendersi conto del grande, pesante ma d’altronde anche bel fardello che la donna porta nella società.
Paul de Kruif, lo scrittore del libro sopraccitato, ha tutta la mia approvazione quando dice che gli uomini devono imparare che la nascita ha cessato di essere un fatto narurale e normale in tutte quelle zone del mondo che vengono definite civilizzate. Hanno un bel dire, gli uomini! Non hanno mai sopportato, né mai sopporteranno, le pene che toccano alle donne!
Secondo me il concetto che sia dovere della donna avere figli nel corso del prossimo secolo si modificherà e verrà sostituito da rispetto e ammirazione nei confronti di colei che si prende sulle spalle i pesi senza brontolare né darsi tante arie!
Tua Anne M. Frank
* Fonte: Dialogando con Anne..
* ANNE FRANK, "DIARIO. Edizione integrale", Einaudi, Torino 1993.
Caro Michel, rispetta lo stato di diritto e fai un passo indietro
Il dittatore, Draghi e il sofà. Una bruttissima pagina per l’Europa che però svela una fragilità ancora più grave, quella di un continente vittima degli egoismi nazionali che non fanno cogliere la gravità della situazione geopolitica ai nostri confini
di Massimiliano Smeriglio (il manifesto, 10 aprile 2021).
Draghi ha detto non una, ma due cose impegnative. Con il candore e la freddezza dell’upper-class mondiale, ha usato parole chiarissime definendo Erdogan un dittatore. Aggiungendo che, in ogni caso, con questi signori bisogna collaborare. Probabilmente sarà stato influenzato dal viaggio in Libia, in cui ha speso parole positive per la guardia costiera libica e la sua opera meritoria di salvataggio in mare. Il disastro diplomatico della missione europea ad Ankara è tutto nella esplicita ammissione di una real politik piccola piccola.
Il 20 marzo la Turchia, con decreto presidenziale, è uscita dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Il 17 marzo è stata avviata presso la Corte Costituzionale la causa per chiedere lo scioglimento del Partito democratico dei popoli (Hdp). Nel medesimo arco di tempo Naci Agbal, presidente della banca centrale organismo sulla carta indipendente, è stato sollevato dal suo incarico per aver alzato i tassi d’interesse dal 17% al 19%. L’avvocata Kezban Hatemi continua a denunciare la prossima modifica del codice civile nella parte che equipara gli uomini alle donne, in un Paese in cui i femminicidi sono in costante aumento. Per non parlare della brutale repressione delle mobilitazioni studentesche contro la sottomissione del sistema universitario al potere politico di Erdogan.
Questa è la Turchia a cui hanno fatto visita i massimi vertici europei con l’obiettivo esplicito di avviare il disgelo dopo le tensioni con la Grecia e rilanciare una cooperazione rafforzata. L’Unione si è impegnata ad adempiere all’accordo sui migranti siglato nel 2016 che vale sei miliardi di euro (quattro già versati) con lo sguardo benevolo di Germania, primo Stato in scambi commerciali con la Turchia, e Italia, principale fornitore di armi dopo gli Usa. Obiettivo di fondo la modernizzazione dell’unione doganale in vigore dal 1996. Con 143 miliardi di euro nel 2020 l’Unione europea è il primo partner commerciale di Ankara.
Il contesto in cui ci muoviamo è evidente. L’Europa dello stato di diritto, dei diritti universali della persona è silente di fronte alla violenta svolta autoritaria che sta negando libertà politiche e civili a migliaia di cittadini, che colpisce la stampa libera e nega nei fatti l’autonomia della magistratura. Che altro può accadere?
Può accadere che di fronte al Sultano ultrà del patriarcato, vada in scena un siparietto per misurare i rapporti di forza tra Stati nazionali e istituzioni comunitarie. Il cerimoniale dell’incontro è stato definito con un delegato del gabinetto del Presidente del Consiglio europeo Michel. Ad Erdogan non è parso vero di enfatizzare il rapporto con gli Stati, mettere in difficoltà la Commissione e umiliare una donna. Per questo è giusto chiamare in parlamento Michel per un chiarimento, come ha fatto la capogruppo dei Socialisti e Democratici Iraxte Garcia. Insieme ad altri parlamentari, inoltre, abbiamo scritto sempre a Michel per chiedergli un passo indietro. “Non accettiamo che le nostre istituzioni debbano prostrarsi di fronte a un regime ostile allo stato di diritto”. Così nella interrogazione scritta a più mani.
Una bruttissima pagina per l’Europa che però svela una fragilità ancora più grave, quella di un continente vittima degli egoismi nazionali che non fanno cogliere la gravità della situazione geopolitica ai nostri confini. Una Unione politica debole e ricattabile. La Turchia è proprietaria delle chiavi della rotta balcanica, la sola minaccia della riapertura dei cancelli della Tracia ai profughi siriani ci zittisce. Così come la necessità di garantire l’arrivo per i prossimi anni del gas russo e azero attraverso le infrastrutture di Turkstream e Tanap/tap.
Agitare la leva dello stato di diritto a seconda della forza economica e militare dell’interlocutore trasforma in retorica afona i nostri principi. Ad Ankara è andata in scena la peggiore Europa e le parole di Draghi hanno certificato il livello delle nostre ambizioni e delle cose che abbiamo da dire sullo scenario globale. Qualche affare e poco altro.
Ambiente.
La deforestazione e il Covid si nutrono a vicenda e corrono
La pandemia e l’emergenza climatica due fenomeni in stretto collegamento
di Lucia Capuzzi (Avvenire, giovedì 1 aprile 2021)
Immaginiamo di osservare la mappa dell’Europa. Per scoprire, d’un tratto, che dal profilo del Continente è sparita l’Olanda. Fino a un anno prima era là, incastonata tra Belgio e Germania. E ora niente: Amsterdam con i suoi canali, Rotterdam e l’intero Paese sono stati cancellati. O, meglio, divorati dal «Nulla», come nel celebre romanzo di Micheal Ende. Una simile scomparsa creerebbe stupore, rabbia, quanto meno sconcerto nell’opinione pubblica globale, assuefatta, invece, alla perdita di analoghi “pezzi” di mondo, purché collocati nella periferia geopolitica del pianeta.
Eppure un’area estesa quanto i Paesi Bassi è stata cancellata dal planisfero nel corso del 2020 quando sono stati distrutti 4,2 milioni di ettari di foreste primarie tropicali. Ovvero il “magazzino” naturale di una quantità di CO2 pari alle emissioni di 570 milioni di auto che, non più stoccate dagli alberi, finiscono nell’atmosfera. Con i ben noti effetti in termini di riscaldamento globale e cambiamenti climatici. A dare l’allarme è il nuovo studio elaborato dal World resources institute in base ai dati raccolti dell’Università del Maryland e dal Global forest watch e diffuso in occasione della riunione preparatoria ieri di Cop26, il vertice Onu sull’ambiente in programma a novembre a Glasgow.
Inizialmente previsto nel 2020 e rinviato a causa del Covid, il summit rappresenta un momento cruciale di rilancio dell’accordo di Parigi, messo a dura prova dalla defezione degli Stati Uniti nell’era Trump. Ora il quadro internazionale è mutato. E la Casa Bianca di Joe Biden sembra decisa a rimettere la questione al centro dell’agenda globale, soprattutto in tempi brevi. Retorica a parte, però, non sarà facile convincere i Grandi a rispettare gli impegni presi a Parigi per tagliare le emissioni e mantenere l’aumento della temperatura entro gli 1,5 gradi centigradi. Appelli alla comunità internazionale a «trovare un’intesa efficace» e «di lungo periodo» alla crisi ecologica sono arrivati anche da papa Francesco negli ultimi mesi.
«Non è solo l’essere umano ad essere malato, lo è anche la nostra Terra», ha detto nell’incontro con il corpo diplomatico dello scorso febbraio il Pontefice della Laudato si’, a cui la Santa Sede ha voluto dedicare l’anno in corso, il quinto dalla pubblicazione dell’Enciclica. I media scozzesi hanno anche ventilato un possibile intervento del vescovo di Roma al vertice, eventualità al momento non confermata dalla Sala stampa vaticana. Anche perché non si può escludere che l’appuntamento subisca un nuovo slitta- mento a causa dell’emergenza Covid, pur se fonti del governo britannico lo negano. La pandemia in effetti rischia di aggravare ulteriormente la crisi ambientale. Non è un caso che l’anno appena trascorso - come sottolinea il World resource institute - abbia visto un drastico incremento della deforestazione: +12%, il terzo risultato peggiore in due decenni.
Lockdown e restrizioni alla mobilità hanno ridotto la possibilità di verifiche sul campo. Il peggio, tuttavia, potrebbe verificarsi nel prossimo futuro. Come effetto collaterale della recessione post-virus, i governi - soprattutto i grandi esportatori di materie prime - potrebbero decidere di risparmiare sui meccanismi di controllo e tutela ambientale. E di intensificare lo sfruttamento delle risorse per aumentare il Pil.
È quanto già in atto nel Brasile di Jair Bolsonaro, dove il disboscamento è stato più feroce nel 2020, con la distruzione di 1,5 milioni di ettari di Amazzonia e 200mila ettari di Pantanal, la superficie umida più vasta al mondo: il 25% in più dell’anno precedente.
Il caso brasiliano è particolarmente eloquente perché il Paese era riuscito a conseguire una drastica riduzione della deforestazione agli inizi degli anni Duemila. Le sforbiciate agli enti di tutela, però, hanno favorito l’inversione di tendenza, alimentata dalla “fame” di risorse del Nord del pianeta. Un esempio è la filiera della carne, come dimostrato da nuova indagine di Greenpeace International che ha identificato quindici aziende agricole legate agli incendi dello scorso ottobre nel Pantanal, i cui prodotti - attraverso una complessa rete di transazioni - vengono esportati in tutto il mondo. Inclusa l’Italia, al primo posto nell’Ue e al sesto nel mondo per acquisti di carne, per un valore di 96 milioni di dollari.
Di recente, le associazioni Hutukara e Wanassedume, espressioni degli indigeni Yanomami, con il supporto dell’Instituto socioambiental (Isa), hanno denunciato un incremento del 30% delle miniere illegali sul proprio territorio, al confine tra Brasile e Venezuela. L’invasione di 20mila cercatori d’oro clandestini ha provocato la distruzione di 2.400 ettari di foresta, un’estensione equivalente a 500 campi da calcio. Oltre a diffondere il contagio fra gli indios, incluso il popolo in isolamento volontario dei Moxihatëtëma, che vivono sulle rive del fiume Catrimani e sono particolarmente fragili di fronte ai virus esterni.
La questione è tutt’altro che marginale. Più di 45mila delle 310mila vittime brasiliane del Covid sono concentrate in territorio amazzonico, come confermato dall’ultima rilevazione della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam). E proprio da Manaus proviene la variante responsabile della strage in atto in queste settimane nel Gigante del Sud.
Il legame tra disboscamento e diffusione dei virus è stata sottolineato fin dall’inizio. E ribadito da una recente ricerca del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) in Francia e dell’Università Kasetsart in Thailandia, secondo cui, un’analisi dei dati tra il 1990 e il 2016, ha evidenziato senza alcun dubbio una «forte correlazione tra la devastazione delle foreste e lo sviluppo di focolai infettivi » in territori del Brasile, Perù, Bolivia, Repubblica democratica del Congo, Camerun, Indonesia, Myanmar e Malaysia. Gli stessi Paesi citati dal World resource institute. Il Congo è la seconda nazione più colpita dalla deforestazione con 490mila ettari in meno, seguita da Bolivia, Indonesia, Perù, Colombia, Camerun, Laos, Malaysia, Messico e Cambogia. Nonostante lo scenario allarmante, però, qualcosa si muove. L’Indonesia, ad esempio, è riuscita a diminuire le aggressioni ai suoi boschi negli ultimi sei anni grazie alla massiccia campagna di prevenzione lanciata dal governo dopo i roghi del 2015.
Particolarmente significativo il calo nella provincia di Kalimatan, le cui autorità hanno siglato un accordo con la Banca mondiale per 110 milioni di dollari di investimenti in cambio di un impegno nella lotta alle emissioni. La strategia degli incentivi è quella proposta dagli esperti del World resource institute. Centrale, in tal senso, l’alleanza con le comunità locali, soprattutto indigene definite dall’Onu le più efficienti «sentinelle del pianeta». La terra affidata alla loro gestione è la meglio conservata. Poiché - affermava la Laudato si’ già nel 2015 - per loro «la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori più profondi. Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura».
LA POCA SAGGEZZA DELLA FILOSOFIA, I “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO DI DANTE E LA PRESENTE STORICA CRISI DELLA CULTURA EUROPEA...
CONSIDERATO CHE UN FILOSOFO, "Anche quando sbaglia di grosso, se è un vero filosofo sbaglia con argomenti non banali, fino al punto che, grazie a lui, l’errore brilla della luce convincente della verità" (cf. S. Benvenuto, op. cit.), E VISTO CHE EGLI HA MESSO IL DITO NELLA PIEGA (e nella piaga) della storia della filosofia, nel gioco sofistico di Socrate: «Malgrado lo slogan “so di non sapere”, tutti ci rendiamo conto che Socrate in realtà sapeva tante cose. Ma il suo sapere squisitamente filosofico era proprio quello di non sapere, ovvero, il suo appello all’epistheme come “ricominciare tutto daccapo”» (op.cit. ), VISTO IL PERSISTERE E , AL CONTEMPO, L’ESAURIRSI DELLA "GRANDE INSTAURAZIONE" ANTROPOLOGICA ED EPISTEMOLOGICA apollinea-socratica (su questo, si cfr. la grande analisi di Nietzsche!), forse, è bene e salutare riprendere alla radice (Marx!) la questione e, riaccogliendo l’indicazione di Sofocle, ripensare le «perversioni» di tremila e più anni (come sapeva Dante, meglio di Goethe), rileggere il cap. 15 del manuale di "Anatomia" (Roma, 1560) di Giovani Valverde, e ripensare l’«edipo completo», come voleva Freud e Fachinelli. Altro che continuare a menare la canna per l’aria. O no?!
TRANSIZIONE CULTURALE... *
Internazionale
Brasile, la profezia di Marielle Franco
Tre anni dopo. Resta senza mandanti l’omicidio della consigliera di Rio, avvenuto il 14 marzo 2018 per mano di due sicari. Ma alle ultime elezioni voti a valanga per 13 donne afrobrasiliane
di Glória Paiva (il manifesto, 14.03.2021)
Oggi il brutale omicidio della consigliera comunale brasiliana Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes compie tre anni. Militante, femminista, nera, residente a Favela da Maré e quinta consigliera più votata a Rio de Janeiro nel 2016, Marielle è diventata un simbolo mondiale della lotta antirazzista, per i diritti umani e lgbt+.
NONOSTANTE IL TEMPO trascorso, rimangono ancora domande sulle circostanze della sua morte. Perché le autorità locali e quelle nazionali non cooperano nella conduzione del caso? Qual è la conclusione dell’indagine relativa all’uso delle armi della polizia federale nel crimine? Chi ha spento le telecamere della strada in cui transitavano quella sera Marielle e Anderson? C’è stato un tentativo di depistaggio delle indagini? E la principale: chi ha ordinato l’omicidio di Marielle e perché?
Queste e altre questioni sono oggetto di un documento pubblicato dall’Istituto Marielle Franco, un’organizzazione creata dalla famiglia di Marielle per perpetuare la sua memoria. La famiglia chiede in modo costante risposte alle autorità di Rio de Janeiro che conducono le indagini. Tuttavia, si trovano spesso di fronte al silenzio: nell’ultima settimana, ad esempio, hanno cercato di incontrare il governatore dello stato, Cláudio Castro, e il procuratore generale, Luciano Mattos, ma non hanno avuto alcun riscontro, come ha riferito Anielle Franco, la sorella dell’attivista, in una conferenza stampa che si è tenuta venerdì 11 marzo.
FINORA, È NOTO SOLTANTO che Ronnie Lessa, poliziotto in pensione, e Élcio Queiroz, ex poliziotto, hanno aspettato l’auto di Marielle e Anderson nella Rua dos Inválidos, nel centro di Rio, prima di sparare contro il veicolo. Entrambi sono in un carcere di massima sicurezza e saranno sottoposti a un giudizio popolare, un processo in cui 25 cittadini, insieme al giudice, decideranno sulla colpevolezza o meno dell’imputato. L’ipotesi principale è che l’assassinio abbia avuto una motivazione politica e che vi abbiano partecipato delle milizie.
Secondo Jurema Werneck, direttrice esecutiva di Amnesty International in Brasile, i successivi cambiamenti negli organi responsabili delle indagini e la mancanza di trasparenza hanno ostacolato un’inchiesta rapida e imparziale. «In questi tre anni abbiamo avuto tre governatori, due procuratori generali, tre capi di polizia, tre pubblici ministeri. Nella pubblica sicurezza di Rio ci sono stati cinque cambi. Le autorità brasiliane non possono inviare un messaggio di impunità e di tolleranza rispetto alla violenza politica», dice Werneck. Che avverte: «Finché i mandanti sono liberi e sconosciuti, nessuno può sentirsi al sicuro».
«NON POSSIAMO ASPETTARE altri dieci anni prima che le donne nere vengano elette», aveva detto Marielle poche ore prima di essere uccisa. Il suo discorso è diventato una profezia: due anni dopo, nel 2020, alle ultime elezioni amministrative brasiliane, 13 donne nere sono state tra i candidati più votati nelle più grandi città del Brasile. Tra i consiglieri eletti, più di 70 si sono impegnati nella cosiddetta Agenda Marielle, che riunisce progetti di legge con pratiche e linee guida anti-razziste, femministe, lgbt + e popolari ispirate al lavoro svolto dall’attivista.
I politici sintonizzati su questi ideali, tuttavia, sono spesso a rischio. A Rio de Janeiro, le quattro donne nere elette con il Partito socialismo e libertà (Psol) hanno già registrato minacce di natura politica. «È necessario proteggere queste donne e inviare un messaggio a chi vuole mettere a tacere l’eredità di Marielle. Le persone che lottano per la giustizia, i diritti, la dignità devono essere protette perché sono un bene della società», dice Jurema Werneck.
Per il deputato federale Marcelo Freixo (Psol), amico ed ex compagno di lotta di Marielle, l’assassinio ha rivelato un lato brutale del Brasile. A cui il mondo ha reagito: «Le manifestazioni contro la morte di Marielle - osserva - mostrano la forza di ciò che lei ha rappresentato. Questa società capace di uccidere Marielle Franco non è la società che vogliamo»,
Il messaggio di Marielle Franco ha fatto il giro del mondo e ha raggiunto anche Firenze. Dal 15 marzo l’attivista sarà la prima donna brasiliana nera ad avere il suo nome in uno spazio pubblico in Italia, sulla terrazza della Biblioteca delle Oblate.
L’intitolazione è frutto della collaborazione tra la Cgil di Firenze e la Casa do Brasil a Firenze che hanno fatto specifica richiesta al Comune. «Questa terrazza non è uno spazio qualsiasi. Con vista sulla cupola del Brunelleschi, è un luogo simbolo del Rinascimento italiano. Possa la memoria di Marielle rinascere qui e offrire ai giovani la chance di riflettere su giustizia, diritti umani, diversità, tutto ciò che Marielle incarnava», commenta Ana Luiza Oliveira de Souza della Casa do Brasil a Firenze.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria" del 2004.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FLS
MATEMATICA, ANATOMIA, E BAMBINI E BAMBINE. UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ..
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
Vertici Ue firmano dichiarazione sulla Conferenza sul futuro d’Europa Sassoli, von der Leyen e Costa presenti in aula al Parlamento Ue
di Redazione ANSA - 10 marzo 2021
BRUXELLES - Il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, il primo ministro portoghese Antonio Costa, per il Consiglio Ue e la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen hanno firmato la dichiarazione congiunta sulla Conferenza sul futuro dell’Europa. L’atto segna l’inizio del processo che permette ai cittadini di partecipare alla ridefinizione delle politiche e delle istituzioni dell’Unione europea. I tre leader politici erano presenti in aula al parlamento europeo.
"La giornata di oggi - ha dichiarato Sassoli - segna un nuovo inizio per l’Unione europea e per tutti i suoi cittadini. Con la conferenza sul futuro dell’Europa, tutti i cittadini europei e la nostra società civile avranno l’occasione unica di plasmare il futuro dell’Europa, un progetto comune per una democrazia europea funzionante. Chiediamo a tutti voi di farvi avanti per partecipare, con le vostre opinioni, alla costruzione dell’Europa di domani, la vostra Europa".
"Oggi vogliamo invitare tutti gli europei a esprimersi", ha detto von der Leyen poco prima della firma. "Per spiegare in quale Europa vogliono vivere, per plasmarla e per unire le forze e aiutarci a costruirla", ha aggiunto. Secondo von der Leyen "le aspettative dei cittadini sono chiare: vogliono dire la loro sul futuro dell’Europa, sulle questioni che incidono sulla loro vita. La nostra promessa di oggi è altrettanto chiara: noi li ascolteremo. E poi agiremo".
"La convocazione della Conferenza sul futuro dell’Europa è un messaggio di fiducia e speranza per il futuro che inviamo gli europei". Così il premier portoghese Antonio Costa nella sua dichiarazione in aula al Parlamento europeo. "Fiducia nel fatto che riusciremo a superare la pandemia e la crisi; speranza nel fatto che, insieme, riusciremo a costruire un’Europa equa, verde e digitale", ha aggiunto Costa.
"La conferenza sul futuro dell’Europa si prefigge come obiettivo conferire ai cittadini un ruolo più incisivo nella definizione delle politiche e delle ambizioni dell’Ue, migliorando la resilienza dell’Unione alle crisi, sia economiche che sanitarie. Costituirà un nuovo spazio d’incontro pubblico per un dibattito aperto, inclusivo, trasparente e strutturato con i cittadini europei sulle questioni che li riguardano e che incidono sulla loro vita quotidiana", riferisce una nota.
La dichiarazione comune presenta un elenco non esaustivo di possibili argomenti per la conferenza: la salute, i cambiamenti climatici, l’equità sociale, la trasformazione digitale, il ruolo dell’Ue nel mondo e il rafforzamento dei processi democratici che governano l’Unione europea. Questi temi coincidono con le priorità generali dell’Ue e con le questioni sollevate dai cittadini nei sondaggi d’opinione. In ultima analisi, saranno i partecipanti a decidere quali argomenti trattare nell’ambito della conferenza.
La conferenza fa capo alle tre istituzioni che guidano l’iniziativa, rappresentate dai rispettivi presidenti che fungono da presidenza congiunta. Presto sarà istituito un comitato esecutivo che rappresenterà le tre istituzioni in modo equilibrato, con i parlamenti nazionali nel ruolo di osservatori. Il comitato esecutivo supervisionerà i lavori e preparerà le riunioni plenarie della conferenza, compresi i contributi dei cittadini e il loro follow-up.
Draghi: c’è tanto da fare per parità di genere a livelli Ue
Il videomessaggio del premier. Mattarella alla cerimonia per l’8 marzo: uomini e donne uniti contro violenze e soprusi
di Redazione Internet (Avvenire, lunedì 8 marzo 2021)
Sergio Mattarella ha aperto il suo intervento per l’8 marzo leggendo una lista di nomi di donna, dodici, tutte uccise dall’inizio dell’anno. Un elenco impietoso di dati con il quale il presidente della Repubblica ha voluto ricordare al Paese quale sia ancora la situazione della violenza contro le donne e quanto sia "impressionante": -"Sharon, Victoria, Roberta, Teodora, Sonia, Piera, Luljeta, Lidia, Clara, Deborah, Rossella Sono state uccise undici donne, in Italia, nei primi due mesi del nuovo anno. Ora siamo di fronte a una dodicesima uccisione: quella di Ilenia. L’anno passato - ha precisato Mattarella - le donne assassinate sono state settantatre".
"La diffusione del Covid-19, come sempre accade nei periodi difficili, ha colpito maggiormente le componenti più deboli ed esposte. Le donne tra queste. Dal punto di vista occupazionale anzitutto. Secondo l’Istat abbiamo 440mila lavoratrici in meno rispetto a dicembre 2020. Mentre sono a rischio un milione 300 mila posti di lavoro di donne che lavorano in settori particolarmente colpiti dalla crisi". Lo ha detto il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, da sempre vigile e attento sul tema, che anche quest’anno ha voluto dedicare alle donne e all’8 marzo una cerimonia dalle stanze del Quirinale.
"Va acceso un faro sulle forme - meno brutali, ma non per questo meno insidiose - della cosiddetta violenza economica, che esclude le donne dalla gestione del patrimonio comune o che obbliga la donna ad abbandonare il lavoro in coincidenza di gravidanze. Pensiamo all’odioso ma diffuso fenomeno della firma delle dimissioni in bianco. Questioni gravi, che incidono profondamente sulla vita delle donne. Questioni che richiedono il coinvolgimento attivo di tutti: uomini e donne, uniti, contro ogni forma di sopraffazione e di violenza, anche se larvata", ha proseguito Mattarella, in occasione della Festa della donna.
Il videomessaggio del premier Draghi: moltissimo da fare per la parità genere
"A fronte dell’esempio di molte italiane eccezionali in tutti i campi, anche nella normalità familiare, abbiamo molto, moltissimo da fare per portare il livello e la qualità della parità di genere alle medie europee. La mobilitazione delle energie femminili, un non solo simbolico riconoscimento della funzione e del talento delle donne, sono essenziali per la costruzione del futuro della nostra nazione"
"Oggi, per le vittime dei troppi femminicidi e anche come reazione prodotta dalla pandemia, sembra formarsi una nuova consapevolezza che trova un’opportunità straordinaria nel programma NextGeneration EU per diventare realtà nell’azione di governo, del mio governo. Tra i vari criteri che verranno usati per valutare i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ci sarà anche il loro contributo alla parità di genere. È con questo spirito di fiducia nel nostro, nel vostro, futuro e con l’impegno di questo governo a conquistarsela, che vi auguro buon 8 marzo". Così il premier, Mario Draghi, in un videomessaggio alla Conferenza Verso una Strategia Nazionale sulla parità di genere, promossa dalla Ministra per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti.
Se ogni anno l’8 marzo è la Giornata internazionale della Donna, in tempo di Covid dovrebbero esserlo ancora di più. La pandemia infatti ha peggiorato la vita delle donne che si sono trovate a gestire le difficoltà quotidiane, spesso perdendo il lavoro e che hanno subìto - se possibile - ancora più violenze, costrette tra le mura di casa.
Anche il ministero dell’Economia e delle Finanze partecipa alle iniziative della campagna #ChooseToChallenge ("Scegli di sfidare", promossa dal network di cooperazione e sensibilizzazione sui valori di parità di genere IWD (International Women’s Day), illuminando di viola (scelto quest’anno come simbolo cromatico di giustizia e dignità) la facciata del Palazzo delle Finanze in via XX Settembre per una settimana.
Anche le istituzioni europee celebreranno la giornata con due ospiti d’eccezione: la vice presidente Usa Kamala Harris e la premier della Nuova Zelanda Jacinda Ardern interverranno alla plenaria del Parlamento Ue tramite video-messaggi, come annunciato dal presidente del Parlamento europeo, David Sassoli.
Le parole però si infrangono davanti ai fatti e ai numeri, come quelli evidenziati dal report della Polizia criminale che vede in aumento al 41,1% l’incidenza delle donne uccise nel 2020. "La violenza contro le donne è espressione di una cultura di potere e di subordinazione che deve essere estirpata dalle radici; una cultura che deve essere intercettata dalle prime, apparentemente piccole, manifestazioni per prevenirne tempestivamente le conseguenze più gravi", dice la ministra della Giustizia, Marta Cartabia.
A lanciare l’allarme è anche la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese che chiede alle donne vittime di violenza di denunciare subito perché "discriminazioni e violenze", prosegue la responsabile del Viminale "hanno conseguenze per l’intera società. Fino a minare le fondamenta della convivenza civile".
Difficile denunciare però per chi non ha neppure autonomia economica, situazione in cui le donne si trovano da troppo tempo e che la pandemia ha peggiorato. Secondo l’analisi dell’Unione europea delle cooperative (Uecoop), nell’anno del Covid il 70% di tutti i posti di lavoro persi nel 2020 sono di lavoratrici e la situazione rischia di aggravarsi quando finirà il blocco dei licenziamenti previsto dal governo.
"Nella pandemia proprio le donne, lo dicono i dati, hanno pagato un prezzo più alto", conferma la psicologa Maddalena Cialdella. "Aumento drammatico dei femminicidi nel nostro Paese; posti di lavoro persi che al 99 per cento sono quelli della componente femminile della forza produttiva. E una condizione femminile generale ancora lontana da un orizzonte di diritti pienamente riconosciuti. Credo - conclude - sia arrivato il momento, non più procrastinabile di un cambio di passo".
Quale sovranità?
C’è chi chiede più sovranità, intendendo più autonomia di decisione, ma anche chi vorrebbe più iniziativa collettiva
di Andrea Ruggeri (Il Mulino, 04 marzo 2021)
E se fossimo tutti sovranisti? C’è chi inarcherebbe il sopracciglio al solo pensiero di essere paragonato ai sovranisti nazionalisti. Ma c’è confusione su cosa si intende per sovranità. Sia chiaro, quest’ambiguità non è né strettamente un fenomeno italiano, né di sviluppo recentissimo.
Queste note esplorano due domande, una analitica - cosa intendiamo per sovranità? - e una critica - possiamo illuderci che una sovranità condivisa, anziché solitaria, non abbia rischi?
Boris Johnson e Donald Trump - ma anche Matteo Salvini con il suo «prima gli italiani» - sono sovranisti che sostengono che «riprendersi il controllo» del processo decisionale sia sufficiente per tornare a essere pienamente sovrani e dare forma in maniera autonoma al futuro del proprio Paese. Sovranità intesa, dunque, come mantenimento delle decisioni dentro i confini nazionali: si è sovrani, se si è indipendenti nel decidere. E poi c’è chi crede che la sovranità si debba declinare come controllo delle politiche e degli effetti delle stesse. Per loro non è centrale il luogo ove si decide, ma essere sovrani è governare la politica o almeno influenzarla. Dunque, per (ri)prendere il controllo si deve non solo partecipare, ma anche pesare, nelle organizzazioni sovranazionali e multilaterali. Macron e Draghi potrebbero dunque rappresentare coloro che interpretano la sovranità anche come condivisone della stessa.
Ma, dunque, cosa intendiamo per sovranità? Nello studio della politica internazionale il concetto di sovranità è centrale, ma la sua ambiguità è palese, non solo poiché spesso si usa il termine per descrivere azioni sia di politica interna sia di politica estera, ma anche perché alcuni pensano che la sovranità si possa unicamente delegare, mentre altri che la si possa anche condividere. Alcuni si illudono che il concetto di sovranità sia chiaro e netto, per via del «mito fondativo» della sovranità legato alla pace di Vestfalia (1648). La sovranità vestfaliana, forse all’insaputa di molti oratori, è quella più utilizzata nei discorsi pubblici e che tendiamo a etichettare frettolosamente come sovranismo. Stephen Krasner definiva questa forma di sovranità come «un assetto istituzionale per l’organizzazione della vita politica che si basa sulla territorialità e sull’autonomia. Gli Stati esistono in territori specifici. All’interno di questi territori, le autorità politiche nazionali sono gli unici arbitri del comportamento legittimo». Altre caratteristiche chiave, spesso riportate, configurano la sovranità come eguaglianza formale fra Stati e indivisibilità della stessa.
Tuttavia, tantissimi autori hanno evidenziato come eguaglianza e indivisibilità della sovranità sono sfidati quotidianamente nel campo delle relazioni internazionali. David Lake, infatti, scrive che «la sovranità è divisibile e dividerla in passato non ha portato a un’erosione inesorabile del principio». Però, Krasner ha notato come oltre al concetto vestfaliano di sovranità, vi siano almeno altri tre concetti di sovranità, prossimi ma diversi. Primo, il grado di controllo esercitato dagli enti pubblici e dall’organizzazione dell’autorità entro i confini territoriali. Se l’autorità statale non riesce a proiettare il potere centrale, non c’è sovranità. Secondo, il grado di controllo esercitato dall’autorità interna sui movimenti transfrontalieri. L’incapacità di regolare il flusso di merci, persone e idee attraverso i confini territoriali è stata descritta come una perdita di sovranità. Terzo, la sovranità intesa come diritto di alcuni attori a concludere accordi internazionali, concetto sviluppato e utilizzato principalmente dagli studiosi di diritto internazionale. Gli Stati sovrani possono stipulare trattati. Ecco un’ambiguità analitica: la sovranità può essere intesa come controllo della politica interna, ma anche come relazione esterna fra entità sovrane. Tuttavia, John Agnew, coniando il termine «la trappola territoriale», faceva giustamente notare che la politica interna, e dunque la sovranità interna, non è indipendente dalla politica esterna ed estera: ci illudiamo che i confini possano difenderci da scelte esterne e cadiamo nella fallacia di dividere nettamente tra politica interna ed estera.
Kenneth Waltz, acuto analiticamente ma con un punto di vista parziale e profondamente americano, scriveva che fra Stati sovrani «nessuno ha il diritto di comandare; nessuno deve per forza obbedire». Ma quest’eguaglianza è chiaramente solo formale. Un fatto è dirsi sovrano perché si hanno personalità giuridica e organi decisionali, un altro è essere liberi dalle scelte e dalle politiche adottate da altri Paesi. Infatti, sebbene l’istituzione della sovranità affermi il principio di non intervento negli affari di altri Stati, l’intervento è sempre stato una caratteristica degli affari internazionali. Dunque, Krasner definì la sovranità vestfaliana come un’«ipocrisia organizzata», una pratica contraddittoria dove si afferma l’inviolabilità dei confini territoriali, ma si continua a intervenire negli affari altrui. Questa sovranità ipocrita, in un mondo meno globalizzato e con alleanze internazionali ben salde, era meno problematica per Paesi come l’Italia. Oggi, invece, l’influenza e gli effetti di soggetti esteri sono più forti, soprattutto se si rimane ancorati solamente a una visione della sovranità vestfaliana.
David Lake sottolinea un’ulteriore differenza analitica importante: si può delegare sovranità a un’organizzazione internazionale, ma vi può anche essere il raggruppamento della sovranità in sede internazionale. Nel delegare sovranità alle organizzazioni internazionali, gli Stati concedono loro porzioni di sovranità per eseguire determinati compiti limitati. Mettendo in comune l’autorità - raggruppamento della sovranità - all’interno delle organizzazioni internazionali, gli Stati trasferiscono l’autorità di prendere decisioni vincolanti da se stessi a un corpo collettivo di Stati all’interno del quale possono esercitare più o meno influenza. Oggi, secondo Lake, gran parte delle preoccupazioni riguarda la messa in comune di sovranità, piuttosto che la sua delega. E aggiunge che quando si parla di Unione europea più che cedere sovranità, si raggruppa sovranità.
A scopo esplicativo, per elaborare quanto scritto sopra sul concetto di sovranità, riprendo alcuni interventi recenti nel dibattito pubblico da parte di due presidenti del consiglio: Giuseppe Conte e Mario Draghi. Nel suo discorso alla Camera per la fiducia nel giugno del 2018, Conte dichiarava: «Le forze politiche che integrano la maggioranza di governo sono state accusate di essere populiste e antisistema. Se populismo è attitudine ad ascoltare i bisogni della gente, allora lo rivendichiamo». Per Conte il nodo centrale della sovranità è dove essa risiede, nel popolo. Nel suo discorso di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York nel settembre 2018, Conte, per respingere alcune accuse contro il governo giallo-verde, ribadiva l’importanza di chi detiene la sovranità: «quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo amo sempre ricordare che sovranità e popolo sono richiamati dall’articolo 1 della Costituzione italiana, ed è in quella previsione che interpreto il concetto di sovranità e il suo esercizio da parte del popolo». Dimenticava, Conte, la seconda parte dell’articolo 1, «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Dove i membri della costituente chiaramente intesero, dopo un tragico conflitto mondiale, la possibilità e necessità di poter delegare sovranità per guadagnarne in cooperazione. Conte espresse allora un sostegno al concetto di sovranità come indipendenza decisionale, focalizzandosi sull’aspetto procedurale - chi decide e dove - ma recentissimamente ha condiviso l’idea che vi sono situazione e circostanze in cui si può cedere sovranità a organizzazioni sovranazionali.
Conte, nella sua lectio all’ateneo fiorentino del 26 febbraio 2021, sembra dunque parzialmente rivedere cosa si debba fare con la sovranità: «Abbiamo sempre più integrato i nostri sistemi economici, i nostri modelli educativi, le nostre legislazioni sociali, cedendo spazi di sovranità e trasferendo competenze via via sempre più importanti dagli Stati all’Unione». La sovranità rimane nazionale, ma parziali deleghe possono avvenire per poter affrontate sfide contemporanee. Non è dunque esplicitata una necessità di sovranità collettiva, ma un’esigenza -dato il contesto - semmai di delega.
Draghi, invece, è tetragono sul valore di una sovranità condivisa, o, come Lake direbbe, di «raggruppamento della sovranità», che si concentra di più sul risultato delle politiche, anziché sul processo decisionale. Draghi, nel suo discorso a Bologna nel 2019 per il conferimento di una laurea ad honorem, così definiva chiaramente la sua idea di sovranità: «La vera sovranità si riflette non nel potere di fare leggi - come vorrebbe una definizione giuridica - ma nella capacità di controllare i risultati e rispondere ai bisogni fondamentali delle persone. [...] La capacità di prendere decisioni indipendenti non garantisce ai Paesi tale controllo. In altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità».
Ed ecco che il passaggio succinto sulla sovranità nel suo discorso per la fiducia del suo esecutivo, forse in questo contesto può guadagnare ulteriore chiarezza: «Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa [...] Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere».
Sembra chiaro che il vulnus stia nel credere che «riprendere il controllo» e poter decidere indipendentemente si traducano nel poter plasmare il proprio futuro. In questo caso la sovranità viene declinata essenzialmente come processo decisionale, interno ai confini nazionali, anziché come effetto delle decisioni stesse. Ci si illude che potendo dire quel che si vorrebbe fare od ottenere - senza confrontarsi con altri - porti a fare e ottenere ciò che si vuole. Oggi, un’Italia che mirasse a una sovranità solitaria, in realtà non sarebbe sovrana perché sarebbe alla mercé della potenza egemone di turno. Oggi gli Stati Uniti, domani forse la Cina.
Se un sovranismo vestfaliano, di stampo indipendentista o nazionalista, è solamente frutto di un’ambiguità analitica o di un malinteso storico - o al massimo di una miopia retorica e strumentale- possiamo illuderci che una sovranità condivisa, anziché solitaria, non abbia rischi? L’interdipendenza economica di oggi è una realtà consolidata e le sfide globali, dal terrorismo transnazionale alle pandemie globali, fino al cambiamento climatico, non possono essere risolte dai singoli Paesi. Dunque, si può puntare al rafforzamento della sovranità - intesa come capacità di controllare i risultati - raggruppando autorità e risorse in organizzazioni sovranazionali, in primis, come l’Unione europea.
Tuttavia, anche in questo caso si rischia di cadere in una fallacia sovranista, ma di delega. La politica e dunque l’importanza della sovranità, è decidere «chi ottiene cosa, quando e come», come sosteneva Harold Lasswell. E dunque mettere insieme risorse per affrontare un’arena internazionale sempre più complessa e attori sempre più competitivi non può giustificare una delega in bianco, senza sviluppare al contempo e ulteriormente istituzioni e strumenti di controllo e partecipazione da parte della cittadinanza. Ma devono essere chiari ai cittadini quali benefici e politiche si potranno guadagnare e perseguire attraverso questa sovranità condivisa. E i benefici ottenuti dovranno essere diffusi e condivisi. La questione centrale non è dunque essere per il sovranismo o essere contro di esso, ma quale sovranità si vuole ottenere e come gestirla collettivamente, non solo in Europa, ma anche in qualità di cittadini.
Amazzonia.
Il Covid ha ucciso il popolo Juma
di Lucia Capuzzi (Avvenire, sabato 20 febbraio 2021)
Morto in Brasile Aruká, l’ultimo rappresentante maschio, sopravvissuto alle invasioni dei signori del caucciù. Appello di Repam per le vaccinazioni nella regione
Ha combattuto la sua ultima battaglia in un letto del reparto di terapia intensiva di Porto Velho. Per settimane ha resistito agli attacchi del virus. Poi, mercoledì, i suoi polmoni hanno ceduto. E Aruká Juma, tra gli 86 e i 90 anni, s’è aggiunto alla tragica lista delle quasi 245mila vittime brasiliane. Di queste, 970 sono indigeni amazzonici. Come Aruká.
Un numero piccolo, per quando i nativi siamo un milione su una popolazione totale di 210 milioni. Almeno in apparenza. In realtà, è proprio la scomparsa di Aruká a svelarci l’enormità della tragedia che si abbatte sugli indios dell’Amazzonia. Insieme a lui potrebbe morire la cultura, storia, tradizione del popolo Juma, di cui era l’ultimo rappresentante maschio. Le tre figlie, in teoria, non possono trasmettere la memoria ancestrale perché la cultura Juma è patrilineare. La primogenita, Borehá, però, è intenzionata a provarci. -Così pure le sorelle. Fedeli al sogno di Aruká che i loro figli fossero un ponte tra la cultura Juma e quella Uru-eu-wau-wau dei loro padri. In tal senso, l’insegnamento del nonno - riconosciuto come amoé, saggio - era fondamentale.
Il Covid, dunque, ha potrebbe aver ucciso un popolo. Una "nazione ribelle" capace di resistere alle brutali invasioni dei "signori del caucciù" che catturavano e schiavizzavano gli indios nella raccolta della gomma naturale. I Juma hanno pagato cara la loro resistenza: nel XVIII secolo erano tra i 12mila e i 15mila. Duecento anni dopo ne rimanevano poche decine.
L’incursione più recente risale agli anni Sessanta del Novecento: Aruká l’ha sperimentata sulla propria pelle: ha visto morire una sessantina tra amici e familiari, cacciati come scimmie. Alla fine degli anni Novanta restavano sei superstiti: Aruká, le tre figlie, una coppia di parenti. Le autorità li hanno obbligati a trasferirsi, contro la loro volontà, nel territorio uru-eu-wau-wau. Sono potuti tornare nel 2004 quando, come previsto dalla Costituzione, il governo ha riconosciuto ai Juma il diritto ai 38mila ettari di terra che abitano da tempo immemorabile.
Aruká, insieme alle figlie, ai loro mariti e ai nipoti, ha cercato di ricostruire la comunità.
Fino a quando il Covid non l’ha stroncato. «La sua tragica scomparsa, come quella di migliaia di altri indigeni vittime della pandemia, non è semplicemente frutto di negligenza: è parte delle politiche genocide di Bolsonaro verso i primi popoli del Brasile», ha commentato su Twitter, Survival International Italia, in prima linea nella difesa dei nativi.
Di fronte all’allarmante diffusione della pandemia tra i nativi amazzonici, la Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) ha rivolto un appello urgente a una vaccinazione in massa degli abitanti della regione. «Ancora una volta, le carenze del sistema sanitario sono apparse in tutta la loro evidenza, aggravando la pandemia: mancanza di letti negli ospedali, povertà e diseguaglianza», si legge nell’appello di Repam che ha registrato oltre 2 milioni di casi e più di 50mila morti (tra indigeni e non indigeni). Un quinto dei contagi e un quarto dei decessi sono avvenuti negli ultimi due mesi.
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DI "PERICLE IL POPULISTA" E DI PLATONE...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI "PERICLE", E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL PROGETTO POLITICO DI ATENE, forse, è opportuno - ricordando la messa al bando di Omero e dei "poeti" dalla "Repubblica" di Platone - riprendere e rivedere (non solo i lavori di Eric A. Havelock, ma anche) la brillante analisi del cosiddetto "Elogio di Atene" da parte di Umberto Eco nella sua nota sul "Pericle il populista" di ieri e di oggi (la Repubblica, 14 gennaio 2012):
e, al contempo, volendo, rimeditare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e riflettere sulla sua proposta di una "Scienza Nuova", al di là dell’imbalsamazione crociana.
Federico La Sala
Intervista
“La sovranità oltre lo Stato” di Enzo Cannizzaro *
Prof. Enzo Cannizzaro, Lei è autore del libro La sovranità oltre lo Stato edito dal Mulino: quali forme assume il dibattito contemporaneo sul concetto di «sovranità»?
Il dibattito sulla sovranità è polarizzato fra la prospettiva del ritorno allo Stato sovrano e le tendenze utopiche di uno Stato mondiale.
La prima tendenza si nutre dell’idea che la comunità nazionale, il popolo, debba riprendere in mano il proprio destino, sottrattogli da procedure decisionali tecnocratiche, prese in luoghi remoti e inaccessibili all’uomo della strada, prive di legittimazione democratica. Pur se, talvolta animate dal genuino intento di ripristinare i processi democratici, tali tendenze appaiono però antistoriche, alla luce dei processi di internazionalizzazione sul piano economico e sociale.
La seconda tendenza, che prospetta la necessità di un governo sovranazionale, se non addirittura mondiale, pecca di astrattismo e di elitismo, e non considera la forte coesione delle comunità nazionali, che condividono valori, tradizioni e modelli di vita.
Quali trasformazioni ha subito la sovranità?
Dalle sue origini, la sovranità è mutata radicalmente nel corso della storia. Sorta inizialmente per fornire legittimazione all’assolutismo regio, essa si è via via adeguata all’evoluzione del costume sociale e delle forme della politica.
La sovranità ha prestato una dottrina politica alle forme di Stato e ai regimi più diversi: alle monarchie costituzionali e ai rivoluzionali borghesi e poi socialisti, ai regimi liberali ai moderni regimi costituzionali, dai regimi democratici a quelli totalitari del Novecento. A questa trasformazione “politica” ha corrisposto una sorta di rarefazione della sovranità. Inizialmente identificata con la persona del sovrano, la sovranità è stata via via identificata nel popolo, nell’ordinamento giuridico, nel potere costituente, fino ad essere identificata come la forma di garanzia esterna all’ordinamento giuridico e politico della comunità.
Eppure, paradossalmente, la sovranità è rimasta eguale a sé stessa. Ancora oggi, la sovranità si esprime, come ai tempi di Hobbes, nel potere assoluto di una comunità di darsi un ordinamento giuridico e politico. Questa assolutezza affascina e atterrisce al tempo stesso. Può esservi, nelle nostre società democratiche, un potere assoluto, non legittimato e non regolamentato che da sé stesso?
Qual è l’impatto dei processi di internazionalizzazione sullo Stato sovrano?
Dire che i processi di internalizzazione premono sullo Stato ed evidenziano l’insufficienza del potere di governo dello Stato sovrano appare un luogo comune. Tuttavia, i luoghi comuni corrispondono spesso alla realtà. Oggi appare illusorio pensare di poter governare i fenomeni economici e sociali attraverso i meccanismi dello Stato sovrano. Nessun Stato, per quanto potente, può agire da solo nel disordine del mondo.
Occorre tuttavia identificare più precisamente cosa si intenda per “processi di internazionalizzazione”. Questa formula è sovente intesa in senso deteriore, come i processi economici e finanziari che, attraverso le libertà di circolazione, sfuggono agli Stati, creando forme di ricchezza sottratte ai sistemi fiscali e redistributivi nazionali. A propria volta, tali processi creano una comunità di individui che se ne avvalgono e costituiscono una sorta di comunità transnazionale ed elitaria che gode di separata da quelle nazionali e privilegiata.
Questa descrizione risponde a verità. Accanto ad essa, tuttavia, ve ne è un’altra, di segno molto diverso. Essa è data proprio dalla esistenza di masse di individui spinte fuori dalla concentrazione di potere e di ricchezza degli Stati nazionali, che si muovono per sfuggire a guerre, carestie, devastazione degli ambienti tradizionali di vita.
Or bene, l’una e l’altra di queste forme di internazionalizzazione premono contro i confini, fisici e giuridici, dello Stato nazionale; l’una e l’altra esprimono il bisogno di un governo dei fenomeni sociali che vada ben oltre lo Stato sovrano; l’una e l’altra - o, per meglio dire, le une e le altre - costituiscono comunità embrionali, in cerca di forme di organizzazione politiche oltre la sovranità.
Come si esprime la sovranità fuori dallo Stato?
La sovranità fuori dallo Stato si è espressa, finora, in forme di organizzazioni internazionali la quali hanno stabilito forme parziali di governo, a livello globale o a livello continentale. L’esempio migliore su base mondiale è dato dalle Nazioni Unite; quello su base continentale è dato dall’Unione europea.
Si tratta di modelli ben diversi. Le Nazioni Unite sono state istituite per sottrarre l’uso della forza agli Stati e per stabilire una forma di amministrazione centralizzata della forza. Con le debite proporzionali, si tratta di quel che ha fatto, con successo, lo Stato sovrano il quale si è gradualmente affermato come il monopolista dell’uso della forza entro i propri confini. Le Nazioni Unite, quindi, si sono proposte un obiettivo ambizioso: quello di sottrarre agli Stati la prerogativa principale della sovranità. In una espressione colorita, hanno teso ad abolire la guerra.
Di converso, l’Unione europea si è posta l’obiettivo esattamente opposto: quello di governare i fenomeni economici e sociali, lasciando, per lo meno formalmente, le prerogative della sovranità in capo agli Stati, nella convinzione che, una volta attuata l’integrazione dei popoli europei, le prerogative sovrane sarebbero spontaneamente venute meno.
Ambedue questi progetti di “esternalizzazione” sono sostanzialmente falliti. Il motivo di questo fallimento appare, paradossalmente, analogo. Esso risiede nel fatto che gli Stati si sono impadroniti delle procedure decisionali delle due organizzazioni, piegandole alle proprie logiche di potere. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Ambedue le organizzazioni sono incapaci di affermare un indirizzo politico se non su impulso degli Stati. Ambedue sollevano aspettative di una forma di governo di una comunità transnazionale, le quali sovente, rimangono irrealizzate.
Che rapporti hanno i diversi modelli di organizzazione politica «oltre lo Stato» con il principio di democrazia?
Il rapporto fra sovranità e democrazia e ambivalente. Nonostante il nobile tentativo di “idealizzare” la sovranità come garante della democrazia e dei diritti dell’uomo, la sovranità non ha bisogno della democrazia. Essa, anzi, ha prosperato - ed esprime le sue potenzialità più perverse - proprio in assenza di democrazia. D’altronde, la storia dimostra che i valori più nobili dell’età moderna, la democrazia e il costituzionalismo, non sono, di per sé, un antidoto alle derive illiberali del potere sovrano.
Tuttavia, oggi possiamo percepire, pur fra molte difficoltà, l’esistenza di una democrazia “oltre lo Stato”. Ciò è possibile proprio in virtù del tramonto dell’idea di comunità quale insieme di individui legati da vincoli etnici, religiosi o culturali, che distinguono una comunità da tutte le altre. Oggi sappiamo che esistono comunità parziali, legate da valori, interessi e da modelli di vita che non hanno la valenza totalizzante ed escludente che caratterizza la comunità chiusa, come immaginavano i primi teorici della sovranità. E queste comunità parziali hanno sviluppato, se pur ancora solo embrionalmente, forme di democrazia transnazionali, che filtrano la legittimazione democratica della propria comunità di riferimento al di là dello Stato sovrano.
Ma gli Stati - monopolisti della democrazia come lo erano dell’uso della forza - guardano a queste nuove forme di organizzazione con grande diffidenza. Lo Stato, sovrano democratico verso l’interno, tende a porsi come l’unico garante della democrazia e della legittimazione politica nell’ambito delle forme transnazionali di governo. In altri termini, la sovranità statale si esternalizza nell’ambito delle dinamiche politiche al di fuori di esso.
La sfida per la democrazia, quindi, è la sfida per l’affermazione di forme di legittimazione e di democrazia fuori dallo Stato. È una sfida difficile, dato che ancora oggi gli Stati sono gli attori “forti” nel panorama delle relazioni internazionali. Ma questa è la sfida che la storia ci propone: Le forme di governo fuori dallo Stato potranno rappresentare una alternativa alla sovranità solo a condizione che esse si dota di una dottrina della democrazia e della legittimazione politica transnazionale.
Quale futuro per la sovranità?
La sovranità non è destinata a sparire. Non vi sono le condizioni affinché ciò avvenga. Non, certamente, in un arco prevedibile di tempo. Se un mondo senza sovranità è difficilmente immaginabile, è però altrettanto difficile immaginare che la sovranità possa per sempre occupare l’orizzonte politico dell’umanità.
La pretesa di governare attraverso la sovranità un mondo sempre più complesso, sempre più interdipendente e sempre più ingiusto, appare illusoria. Piuttosto che inseguire l’impossibile restaurazione dello Stato sovrano conviene quindi volgere l’attenzione verso la costruzione di nuovi modelli di legittimazione e democrazia nelle comunità transnazionali, capaci di governare i fenomeni che sfuggono alla capacità dello Stato sovrano e di incanalare le esigenze di giustizia sociale che emergono a livello globale.
Se le tendenze storiche non ingannano, tuttavia, si può pensare che la sovranità sia destinata a perdere le prerogative di esclusività e di assolutezza che l’hanno caratterizzata fino ad ora. E, con esse, lo Stato sovrano sarà privato della pretesa di esaurire al proprio interno le dinamiche politiche di una comunità composita ed eterogenea. Esso non sarà più il monopolista delle istanze di legittimazione e di democrazia. Né esso sarà l’unico garante degli equilibri sociali. Allo Stato sovrano si dovranno affiancare, in una sorta di poliarchia globale, forme di organizzazione rappresentative di valori e di interessi di una comunità transnazionale e dotate delle competenze parziali necessarie a soddisfarli.
Enzo Cannizzaro è professore ordinario di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea presso l’Università Sapienza di Roma. Ha insegnato in qualità di visiting professor in varie Università europee e negli Stati Uniti. Dirige la rivista European Papers. A Journal on Law and Integration; è membro dei Comitati direttivi delle riviste European Journal of International Law, Rivista di diritto internazionale, Il diritto dell’Unione europea. Collabora frequentemente con la stampa periodica su questioni giuridiche e di politica internazionale.
* Fonte: Letture. org
Una guerra contro la vita
di Paolo Cacciari *
Tutti si sono ipocriticamente indignati di quel poveretto Domenico Guzzini, industriale da Macerata, che considera “qualche morto in più” un prezzo da pagare per fare andare avanti l’economia. Come se non si sapesse che è proprio il rischio (Ulrich Beck, La società del rischio, 1986) le regola aurea del meccanismo della crescita economica. In suo nome mettiamo in pericolo sistematicamente e quotidianamente le vite nostre e altrui, al lavoro, nelle strade, in casa nell’alimentazione. Il rischio è quotato in borsa attraverso le società di assicurazione e di riassicurazione. Anche le catastrofi hanno un prezzo e un costo.
Razmig Keucheyan (La natura è un campo di battaglia, 2014, Ombre corte) ci faceva notare che “le recenti pandemie influenzali, suina (2009) e aviaria (dal 2003), hanno portato all’emissione di obbligazioni catastrofiche, che coprono gli assicuratori in casi di forte mortalità”. Pagare i premi conviene piuttosto che prevenire ed evitare i danni. Predisporre piani pandemici - ci hanno spiegato - costava troppo. Così la ricerca sui vaccini Sars.
Ma nessuno si indigna se a giocare sulla nostra pelle sono Goldman Sachs, Credit Suisse, Axa Investment. I Cat (catastrophe) Bond sono regolarmente valutati da agenzie di rating come la Standard and Poor’s, Fich e Mody’s. Titoli che probabilmente sono stati infilati nel portafoglio del nostro fondo pensionistico integrativo o in qualche altro prodotto finanziario confezionato dalla nostra banca. E allora perché prendersela col minus sapiens Guzzini se dice quello che nell’anonimato del capitalismo della “mano invisibile” è una prassi generale del sistema? È solo una questione di “percezione”, non scomodiamo i principi etici. L’accettazione psicologica della soglia di rischio, come si sa, è molto elastica, manipolabile dalle circostanze e dalle compensazioni. Lasciamo quindi perdere, per piacere, la morale. Chiediamoci piuttosto da dove viene il suo adombramento.
Mario Pezzella, in un recente seminario nella sua università a Pisa, ci invita a riscoprire Ernesto De Martino (La fine del mondo, 1977). Non ci accorgiamo della catastrofe ecologica, perché viviamo una “apocalisse culturale”. Abbiamo perduto la percezione del reale perché si è sgretolato attorno a noi l’ordine simbolico abituale. Abbiamo perso i punti di riferimento etici, oltre che le relazioni solidali interpersonali. L’umano si è perduto nel tecnico e nell’economico. Siamo convinti che la soluzione dei nostri guai non potrà venire che dalla tecnoscienza. In attesa dei prossimi mirabolanti risultati (il vaccino, l’energia pulita, l’economia circolare, la quarta rivoluzione digitale...) dobbiamo alimentare la ricerca e depositare tanti più brevetti possibili, lavorare e produrre sempre di più. Con qualche danno collaterale “inevitabile”. L’esempio, del resto, lo dà il governo nostrano emettendo il bonus accreditato automaticamente sullo smatphone per chi spenderà di più allo shopping natalizio. Non basta, ci sarà anche l’estrazione a premi. Ludopatia di stato.
Non ci sono altre spiegazioni. È da una vita, da Primavera silenziosa di Rachel Carson (1962), almeno, che una schiera di scienziati di ogni campo - come Cassandre - ci mostrano i segni della catastrofe ecologica. È stato scritto un Calendario della fine del mondo (un volume di Pacilli, Pizzo, Sullo, Intra Moenia, 2011) che scandisce il biocidio in corso. Ma ci eravamo sbagliati. Pensavamo che il pericolo principalmente venisse dall’alto, dal Sole che surriscalda una atmosfera intossicata dai gas sprigionati dalla combustione di carburanti fossili. Invece la nostra morte è venuta dall’interno del corpo vivo della Terra e nostro.
Virus e batteri sono i precursori e i supporti di ogni forma di vita. Il virologo Guido Silvestri (Il virus buono, Rizzoli, 2019) ci spiega che “viviamo tutti, letteralmente, dentro un mare di virus”. Gianfranco Bologna (Il grande insegnamento della natura indica cosa fare dopo la pandemia) ricorda i risultati delle ultime ricerche: in un corpo umano di 70 chilogrammi vi sono 38 mila miliardi di cellule batteriche e 30 mila miliardi di cellule umane. Nei mari la massa dei virus è dieci volte quella dei batteri. Ogni forma di vita è in simbiosi con i cicli biogeofisici della Terra.
Ha scritto Vandana Shiva (Il programma mondiale di Bill Gates e come possiamo resistere alla sua guerra contro la vita, mondalisation.org):
Le attività umane hanno trasformato il 75% degli ambienti naturali terrestri e il 66% degli ecosistemi marini. L’impatto antropico (estrazione di risorse non rinnovabili ed immissione di scarti non metabolizzabili) supera la carring capacity del sistema Terra. Scrisse Barry Commoner (Il cerchio da chiudere, 1972): “La prima legge dell’ecologia: ogni cosa è connessa con qualsiasi altra”.
Un programma del 2019 della agenzia ambientale delle Nazioni Unite è titolato Healthy planet, healthy people (2019). Da ultimo papa Bergoglio, a Pasqua nella Piazza San Pietro deserta, ha detto: “Non illudiamoci di poter vivere in salute in un pianeta malato”. Scienziati e profeti parlano la stessa lingua.
Dovrebbe quindi essere tutto chiaro su come l’umanità che ha un’impronta ecologica superiore alla media dovrebbe comportarsi: ritrarsi in buon ordine quel tanto che basta a lasciare campo libero alla natura affinché possa rigenerarsi, e noi con lei; riconoscere umilmente la nostra dipendenza dai sistemi naturali e rispettare le soglie insuperabili dei confini planetari (Planetary Boundaries, Johan Rockström); vivere con ciò che si ha a disposizione, senza sottrarlo ad altri e senza negarlo a chi verrà dopo di noi. Questo dovrebbe essere l’insegnamento che viene dalla sindemia da Covid-SARS-2. Chi ce lo impedisce?
Una volta il presidente ultraliberista George Bush senior (1989) affermò che “il tenore di vita degli americani non è negoziabile”. Aveva ragione lui. In molti preferiscono vivere con la mascherina piuttosto che rinunciare allo shopping di Natale. Del resto non saprebbero come occupare altrimenti il loro tempo.
* Fonte: Comune-info, 18 Dicembre 2020 (ripresa parziale).
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
*
Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
UNA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" ITALICO-ROMANO. L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma: *
A) Mussolini, Discorso dell’anno IX - Roma, 27 ottobre 1930: "Oggi io affermo che il Fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, è universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti. -Lo spirito è universale per la sua stessa natura. Si può quindi prevedere una Europa fascista, unì Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo.
Il Fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati. Per questo noi sorridiamo quando dei profeti funerei contano i nostri giorni. Di questi profeti non si troverà più non solo la polvere, ma nemmeno il ricordo, e il Fascismo sarà vivo ancora. Del resto ci occorre del tempo, moltissimo tempo, per compiere l’opera nostra. Non parlo di quella materiale, ma di quella morale. Noi dobbiamo scrostare e polverizzare, nel carattere e nella mentalità degli italiani, i sedimenti depostivi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare, morale, che vanno dal 1600 al sorgere di Napoleone. È una fatica grandiosa.
Il Risorgimento non è stato che l’inizio, poiché fu opera di troppo esigue minoranze; la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare, giorno per giorno, in questa opera di rifacimento del carattere degli italiani [...]"(Messaggio per l’Anno Nono - Roma, 27 ottobre 1930, in B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXIV, p. 283).
B) Mussolini - Milano, Piazza Duomo, 25 ottobre 1932: "Oggi, con piena tranquillità di coscienza, dico a voi, moltitudine immensa, che questo secolo decimoventesimo darà il secolo del Fascismo. Sarà il secolo della potenza italiana. Sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere direttrice della civiltà umana. Perché fuori dai nostri principi, e soprattutto in tempi di crisi, non c’è salvezza né per gli individui e tanto meno per i popoli.
Fra dieci anni - lo si può dire. Senza fare i profeti - l’Europa sarà cambiata. Non da ora si sono commesse delle ingiustizie, anche contro di noi, soprattutto contro di noi. E niente di più triste il compito che vi spetta di dover difendere quello che è stato il sacrificio magnifico di sangue di tutto il popolo italiano. [...] Tra un decennio l’Europa sarà fascista o fascistizzata!
L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma [...]" (B. Mussolini, Opera Omnia, XXV, pp. 147-148).
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAFIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924). IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO : MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
DANTE 2021: DUE SOLI. "Sogno un’Europa sanamente laica" (papa Francesco, Lettera all’Europa) *
Laicismo.
Crocifisso nelle aule scolastiche senza pace, questa volta va in Cassazione
Rimessa alla decisione delle Sezioni unite la questione sollevata dalla battaglia legale di un insegnante di lettere toscano che chiede di rimuovere il simbolo cristiano durante le sue lezioni
di Marcello Palmieri (Avvenire, sabato 31 ottobre 2020)
Crocifisso sì o crocifisso no? Il simbolo cristiano divenuto nei secoli anche immagine di "laicissimi" e condivisi valori universali, torna di nuovo nelle aule giudiziarie. Ma non sul muro: sul banco degli imputati.
A portarcelo, stavolta, è un insegnante di lettere toscano, che ha ingaggiato da anni una battaglia legale contro il proprio dirigente scolastico - e pure contro l’assemblea dei suoi studenti - per vedersi riconoscere il diritto di staccare dal muro delle aule il crocifisso durante le ore delle proprie lezioni.
La vicenda, ora, è arrivata in Cassazione. Dove la Sezione lavoro, ritenendo la causa di particolare importanza, ha deciso di rimetterla al primo presidente della Corte, perché la devolva alle Sezioni unite. Così facendo, la pronuncia avrà un grande valore: difficilmente, infatti, i giudici territoriali potranno decidere in modo difforme eventuali casi analoghi che dovessero presentarsi successivamente in Italia.
Ma, già ora, sorge una perplessità di fondo: solitamente la Cassazione decide a Sezioni unite le questioni sulle quali si era formato un contrasto giurisprudenziale. Spesso, infatti, situazioni quasi uguali vengono risolte dai giudici in modo diverso, e lo stesso accade anche tra le diverse sezioni della medesima Cassazione.
Sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, però, sembrava non esserci più alcun dubbio. Il Consiglio di Stato nel 2006 aveva stabilito che «è un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento di valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, etc...)», che hanno sì un’origine religiosa, ma che pure «delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato». Da qui, dunque, l’idea che «il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte laico, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica, altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni».
E che il crocifisso potesse rimanere nelle scuole l’ha detto più di recente, nel 2011, anche la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, massima istanza della Cedu: «È un simbolo essenzialmente passivo - hanno scritto i giudici di Strasburgo, decidendo la causa intentata da Soile Lautsi, un’italiana di origini finlandesi, contro il nostro Pese - che non contrasta né con il diritto dei genitori alla libera educazione dei figli né con la libertà di pensiero, coscienza e religione. E se è vero che questa icona «dà alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico», è pur sempre una discrezionalità dello Stato - insindacabile dalla Corte europea - quello di decidere dove esporlo.
Ma ecco che l’ordinanza di remissione alle Sezioni unite della Cassazione mette in dubbio proprio questa "passività" riconosciuta dalla Cedu: «Si potrebbe dubitare dell’asserito ruolo passivo - hanno scritto i giudici della Sezione lavoro - qualora all’esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata e i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama».
Ma per Angelo Salvi, giurista del Centro Studi Livatino, questa perplessità «non sembra valorizzare l’eredità più importante del causo Lautsi, che consiste nell’individuazione del perimetro nel quale va delimitato il concetto di neutralità religiosa».
In parole povere: secondo la Cedu, lo Stato non deve astenersi da qualsiasi richiamo religioso. Semplicemente, gli viene chiesto di non offendere i diritti di ognuno in relazione al proprio credo. Cosa che, ovviamente, un crocifisso appeso al muro non può fare. Ma attenzione: diversamente - è sempre Salvi a notarlo - si rischierebbe di «virare verso un modello di laicità "rigida" alla francese, che si declina in termini di incompatibilità con la religione».
L’Italia e il crocifisso, una controversia infinita
Dall’Europa l’ultimo sì, ’la sua esposizione non lede la libertà religiosa’
di Redazione ANSA 01 ottobre 2019
ROMA L’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici - in particolare nelle scuole, nelle aule di giustizia e nei seggi elettorali - è legittima o è in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini, di libertà di religione e di laicità dello Stato? La controversa questione - che contrappone da decenni cattolici e laici - si ripropone periodicamente e torna ora di nuovo di attualità alla luce delle ultime affermazioni del ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti, il quale ha detto di ritenere l’esposizione della croce nelle aule scolastiche "una questione divisiva" e di preferire una "scuola laica", suscitando reazioni di disapprovazione da parte del mondo cattolico, favorevoli da parte degli atei e degli agnostici.
Sull’argomento, l’ultima pronuncia giurisdizionale di rilievo si è avuta nel 2011 ed è stata della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo, che, accogliendo un ricorso dell’Italia, ha definitivamente ritenuto legittima l’esposizione del crocifisso, ribaltando una sentenza di segno opposto della stessa Corte europea.
La vicenda giudiziaria, durata quasi nove anni, ebbe origine in una scuola di Abano Terme e seguì un iter complesso: IL FATTO - Il 27 maggio 2002 il Consiglio di Istituto della scuola Vittorino da Feltre di Abano Terme (Padova) respinge il ricorso della famiglia di due alunne e decide che possono essere lasciati esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi, ed in particolare il crocifisso, unico simbolo esposto.
IL RICORSO - La decisione del Consiglio di Istituto viene impugnata dalla madre delle due alunne davanti al Tar del Veneto. Nel ricorso si sostiene che la decisione del Consiglio di Istituto sarebbe in violazione del principio supremo di laicità dello Stato, che impedirebbe l’esposizione del crocifisso e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, perche’ violerebbe la "parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche a-religiose".
LA POSIZIONE DEL MINISTERO - Il Ministero dell’Istruzione, costituitosi nel giudizio, sottolinea che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è prevista da disposizioni regolamentari contenute in due regi decreti: uno del 1924, n. 965; l’altro del 1928, n. 1297 Tali norme, per quanto lontane nel tempo, sarebbero tuttora in vigore, come confermato dal parere reso dal Consiglio di Stato n.63 del 1988.
LA PRIMA DECISIONE DEL TAR, ATTI ALLA CONSULTA - Il Tar compie un esame delle norme regolamentari sull’esposizione del crocifisso a scuola e conclude che esse sono tuttora in vigore. Rimette, tuttavia, gli atti alla Corte costituzionale. La norma che prescrive l’obbligo di esposizione del crocifisso - scrivono i giudici - sembra delineare "una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre confessioni, attribuendole una posizione di privilegio", che apparirebbe in contrasto con il principio di laicità dello Stato.
LA CORTE COSTITUZIONALE, RICORSO INAMMISSIBILE - La Consulta dichiara inammissibile il ricorso: le norme sull’esposizione del crocifisso a scuola sono "norme regolamentari", prive "di forza di legge" e su di esse "non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale". Gli atti tornano al Tar.
SECONDA DECISIONE TAR, CROCE NON CONTRASTA CON LAICITA’ - Il crocifisso, "inteso come simbolo di una particolare storia, cultura ed identità nazionale (...), oltre che espressione di alcuni principi laici della comunità (...), può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato". Si conclude con queste parole la sentenza del 2005 con la quale il Tar rigetta il ricorso della madre della due alunne di Abano.
IL CONSIGLIO DI STATO, CROCIFISSO HA FUNZIONE EDUCATIVA - Il Consiglio di Stato chiude la parte italiana della vicenda, con il rigetto definitivo del ricorso della madre delle due alunne.
Il crocifisso - scrivono i giudici - non va rimosso dalle aule scolastiche perché ha "una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni"; non è né solo "un oggetto di culto", ma un simbolo "idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili" - tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, riguardo alla sua liberta’, solidarietà umana, rifiuto di ogni discriminazione - che hanno un’origine religiosa, ma "che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato".
CORTE EUROPEA BOCCIA ITALIA, POI RIMETTE A GRANDE CAMERA - Il 3 novembre 2009 la Corte europea per i diritti dell’uomo boccia l’Italia: il crocifisso appeso nelle aule scolastiche - rileva la Corte - è violazione della liberta’ dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni. Il governo italiano ricorre e la Corte europea decide di affidare la soluzione del caso alla Grande Camera.
GRANDE CAMERA STRASBURGO ASSOLVE L’ITALIA. Con la sentenza del 18 marzo 2011 la Grande Camera ribalta il verdetto della Corte e dice definitivamente sì all’Italia, ritenendo che l’ esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e negli altri luoghi pubblici non possa essere considerato un elemento di "indottrinamento" e dunque non comporta una violazione dei diritti umani. "Le autorità - dice la Grande Camera - hanno agito nei limiti della discrezionalità di cui dispone l’Italia nel quadro dei suoi obblighi di rispettare, nell’esercizio delle funzioni che assume nell’ambito dell’educazione e dell’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire l’istruzione conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche".
FLS
Lettera all’Europa.
Il Papa: ruolo dell’Europa ancor più rilevante al tempo del Covid
Nella lettera al cardinale Parolin sulla Unione Europea: “Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti”
di Redazione Internet (Avvenire, martedì 27 ottobre 2020)
L’Europa ha avuto e deve ancora avere "un ruolo centrale": lo sottolinea papa Francesco in una lettera al cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in occasione di alcuni anniversari: il 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea, il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’Unione Europea e il 50° anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d’Europa.
"Tale ruolo - sottolinea il Pontefice parlando dell’Europa - diventa ancor più rilevante nel contesto di pandemia che stiamo attraversando. Il progetto europeo sorge, infatti, come volontà di porre fine alle divisioni del passato. Nasce dalla consapevolezza che insieme ed uniti si è più forti, che l’unità è superiore al conflitto e che la solidarietà può essere uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita".
"Nel nostro tempo che sta dando segno di ritorno indietro, in cui sempre più prevale l’idea di fare da sé, la pandemia - dice il Papa - costituisce come uno spartiacque che costringe a operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella strada della fraternità, che ha indubbiamente ispirato e animato i Padri fondatori dell’Europa moderna, a partire proprio da Robert Schuman".
Il Papa lancia, quindi, un appello all’Europa affinché ritrovi sé stessa. "All’Europa allora vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti - scrive il Papa nel messaggio al Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, per condividere con lui delle riflessioni in occasione delle celebrazioni di alcuni anniversari - a guardare al tuo passato come ad un album dei ricordi. Nel tempo, anche le memorie più belle si sbiadiscono e si finisce per non ricordare più. Presto o tardi ci si accorge che i contorni del proprio volto sfumano, ci si ritrova stanchi e affaticati nel vivere il tempo presente e con poca speranza nel guardare al futuro. Senza slancio ideale ci si riscopre poi fragili e divisi e più inclini a dare sfogo al lamento e lasciarsi attrarre da chi fa del lamento e della divisione uno stile di vita personale, sociale e politico".
"Europa, ritrova te stessa! Ritrova dunque i tuoi ideali - prosegue il Papa - che hanno radici profonde. Sii te stessa!"
"Non avere paura della tua storia millenaria che è una finestra sul futuro più che sul passato. Non avere paura del tuo bisogno di verità che dall’antica Grecia ha abbracciato la terra, mettendo in luce gli interrogativi più profondi di ogni essere umano; del tuo bisogno di giustizia che si è sviluppato dal diritto romano ed è divenuto nel tempo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti; del tuo bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana, che si rispecchia nel tuo patrimonio di fede, di arte e di cultura".
"Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società" scrive ancora papa Francesco nella Lettera al cardinale Parolin.
"Sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma - si spera - anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana. I cristiani hanno oggi una grande responsabilità: come il lievito nella pasta, sono chiamati a ridestare la coscienza dell’Europa, per animare processi che generino nuovi dinamismi nella società. Li esorto dunque ad impegnarsi con coraggio e determinazione a offrire il loro contributo in ogni ambito in cui vivono e operano".
L’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile *
Un piano d’azione per le persone, il Pianeta e la prosperità. È l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, sottoscritta il 25 settembre 2015 da 193 Paesi delle Nazioni unite, tra cui l’Italia, per condividere l’impegno a garantire un presente e un futuro migliore al nostro Pianeta e alle persone che lo abitano.
L’Agenda globale definisce 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals - SDGs nell’acronimo inglese) da raggiungere entro il 2030, articolati in 169 Target, che rappresentano una bussola per porre l’Italia e il mondo su un sentiero sostenibile. Il processo di cambiamento del modello di sviluppo viene monitorato attraverso i Goal, i Target e oltre 240 indicatori: rispetto a tali parametri, ciascun Paese viene valutato periodicamente in sede Onu e dalle opinioni pubbliche nazionali e internazionali.
L’Agenda 2030 porta con sé una grande novità: per la prima volta viene espresso un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale, superando in questo modo definitivamente l’idea che la sostenibilità sia unicamente una questione ambientale e affermando una visione integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo.
Le cinque "P" dello sviluppo sostenibile
L’Agenda 2030 è basata su cinque concetti chiave:
Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile sono tutti collegati tra loro
Garantire un’istruzione di qualità, equa e inclusiva (Goal 4) vuol dire anche offrire pari opportunità a donne e uomini (Goal 5); per assicurare salute e benessere (Goal 3), occorre vivere in un Pianeta sano (Goal 6, 13, 14 e 15); un lavoro dignitoso per tutti (Goal 8) richiede l’eliminazione delle disuguaglianze (Goal 10). Gli SDGs sono fortemente interconnessi.
L’Agenda 2030 lancia una sfida della complessità: poiché le tre dimensioni dello sviluppo (economica, ambientale e sociale) sono strettamente correlate tra loro, ciascun Obiettivo non può essere considerato in maniera indipendente ma deve essere perseguito sulla base di un approccio sistemico, che tenga in considerazione le reciproche interrelazioni e non si ripercuota con effetti negativi su altre sfere dello sviluppo. Solo la crescita integrata di tutte e tre le componenti consentirà il raggiungimento dello sviluppo sostenibile.
Tutti sono chiamati a contribuire
Gli SDGs sono universali, rimandano cioè alla presenza di problemi che accomunano tutte le nazioni. Per questo motivo, tutti i Paesi sono chiamati a contribuire alla sfida per portare il mondo su un sentiero sostenibile, senza più distinzione tra Paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo. Ciò vuol dire che ogni Paese deve impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli SDGs e a rendicontare i propri risultati all’Onu.
Non solo. All’interno dei Paesi serve un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese al settore pubblico, dalla società civile alle istituzioni filantropiche, dalle università e centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura: per abbracciare lo sviluppo in ogni sua parte è fondamentale l’impegno di tutti.
E tu, come puoi contribuire al cambiamento?
Tutti siamo parte del cambiamento per un domani migliore, tutti ne siamo responsabili. E sono le nostre azioni che influenzeranno il futuro dei nostri figli e delle prossime generazioni. Stili di vita corretti e azioni individuali fanno la differenza. Informati sui 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile e interrogati su quel che puoi fare per contribuire al loro raggiungimento, condividi buone pratiche, partecipa alle campagne, racconta il tuo contributo alla realizzazione dell’Agenda 2030 sui social. Consulta i materiali di educazione allo sviluppo sostenibile, scopri come collaborare, chiunque può fare la sua parte!
Consulta i materiali per informarti e contribuire all’attuazione dell’Agenda 2030 [...]
* Fonte: ASviS (ripresa parziale).
Enciclica.
«Fratelli tutti»: la chiave di volta della fraternità universale
La nuova enciclica sociale di papa Francesco, firmata ad Assisi, per superare i mali e le ombre del mondo. Ecco i contenuti
di Stefania Falasca (Avvenire, domenica 4 ottobre 2020)
Un manifesto per i nostri tempi. Con l’intento di «far rinascere un’aspirazione mondiale alla fraternità». La nuova lettera enciclica di papa Francesco che si rivolge «a tutti i fratelli e le sorelle», «a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose» è «uno spazio di riflessione sulla fraternità universale». Necessaria, nel solco della dottrina sociale della Chiesa, per un futuro «modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana». Per «agire insieme e guarire dalla chiusura del consumismo, l’individualismo radicale e l’auto-protezione egoistica». Per superare «le ombre di un mondo chiuso» e conflittuale e «rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale che viva l’amicizia sociale». Per la crescita di società eque e senza frontiere. Perché l’economia e la politica siano poste «al servizio del vero bene comune e non siano ostacolo al cammino verso un mondo diverso». Perché quanto stiamo attraversando con la pandemia «non sia l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare». Perché le religioni possono offrire «un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società».
La fonte d’ispirazione per questa nuova pagina di dottrina sociale della Chiesa viene ancora una volta dal Santo dell’amore fraterno, il Povero d’Assisi «che - afferma il Papa - mi ha ispirato a scrivere l’enciclica Laudato si’, e nuovamente mi motiva a dedicare questa nuova enciclica alla fraternità e all’amicizia sociale».
Sulla scia dell’adagio terenziano ripreso da Paolo VI nella sua enciclica programmatica Ecclesiam Suam, papa Francesco ricorda nell’incipit stesso della sua lettera enciclica quanto «tutto ciò che è umano ci riguardi» e che «dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro». La Chiesa del resto, affermava Paolo VI, «chiamata a incarnarsi in ogni situazione e ad essere presente attraverso i secoli in ogni luogo della terra - questo significa “cattolica” -, può comprendere, a partire dalla propria esperienza di grazia e di peccato, la bellezza dell’invito all’amore universale».
Francesco spiega poi che le questioni legate alla fraternità e all’amicizia sociale sono sempre state tra le sue preoccupazioni e che negli ultimi anni ha fatto riferimento ad esse più volte. L’enciclica raccoglie molti di questi interventi collocandoli in un contesto più ampio di riflessione. E se la redazione della Laudato si’ ha avuto una fonte di ispirazione dal suo fratello ortodosso Bartolomeo, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli che ha proposto con molta forza la cura del creato, in questo caso si è sentito stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, con il quale il Papa si è incontrato nel febbraio del 2019 ad Abu Dhabi per ricordare che Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro».
Papa Francesco ricorda che quello non è stato «un mero atto diplomatico, bensì il frutto di una riflessione compiuta nel dialogo e di un impegno congiunto». E che questa enciclica, pertanto, raccoglie e sviluppa i grandi temi esposti in quel Documento firmato insieme e recepisce, nel suo linguaggio, «numerosi documenti e lettere ricevute da tante persone e gruppi di tutto il mondo».
La genesi della lettera tuttavia è stata accelerata da un’emergenza: l’irruzione inattesa della pandemia del Covid-19, «che - come scrive Francesco - ha messo in luce le nostre false sicurezze, e al di là delle varie risposte che hanno dato i diversi Paesi, è apparsa evidente l’incapacità di agire insieme». Perché «malgrado si sia iper-connessi - spiega ancora il Papa - si è verificata una frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che ci toccano tutti». E adesso «se qualcuno pensa che si tratti solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà».
Il Papa afferma inoltre che se ancora una volta si è sentito motivato specialmente da san Francesco d’Assisi, anche altri fratelli non cattolici sono stati ispiratori: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi. In particolare cita però il beato Charles de Foucauld. E prendendo a prestito la sue parole così chiosa la sua conclusione agli otto capitoli e 287 punti di Fratelli tutti: «“Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di tutte le anime di questo paese”. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”. Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti. Che Dio ispiri questo ideale in ognuno di noi. Amen».
Le ombre di un mondo chiuso
Nel primo capitolo vengono passate in rassegna le tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale. Tra queste i diritti umani non sufficientemente universali, le nuove forme di colonizzazione culturale, lo scarto mondiale dove «certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti». «Mentre, infatti, una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati. «La storia - afferma il Papa - sta dando segni di un ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. Nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali». «Abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci. Spesso le voci che si levano a difesa dell’ambiente sono messe a tacere o ridicolizzate, ammantando di razionalità quelli che sono solo interessi particolari. In questa cultura che stiamo producendo, vuota, protesa all’immediato e priva di un progetto comune, «è prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni». E non manca un’attenzione anche verso la condizione delle donne: «L’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici diritti degli uomini. A parole si affermano certe cose, ma le decisioni e la realtà gridano un altro messaggio». È un fatto che «doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti».
L’esempio del Buon Samaritano
Per il superamento delle ombre il Papa indica la strada d’uscita nella figura del Buon Samaritano a cui dedica il secondo capitolo, sottolineando come in una società malata che volta le spalle al dolore e che è “analfabeta” nella cura dei deboli e dei fragili, tutti siamo chiamati - proprio come il Buon Samaritano - a farci prossimi all’altro, superando pregiudizi, interessi personali, barriere storiche o culturali. «È un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto come legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il perseguimento del bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano». Dunque, afferma Francesco, «non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri». E spiega che «in quelli che passano a distanza c’è un particolare che non possiamo ignorare: erano persone religiose. Questo indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace». «Una persona di fede - spiega - può non essere fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia può sentirsi vicina a Dio e ritenersi più degna degli altri. Ci sono invece dei modi di vivere la fede che favoriscono l’apertura del cuore ai fratelli, e quella sarà la garanzia di un’autentica apertura a Dio».
Società aperte che integrano tutti
«L’individualismo radicale - afferma Francesco nel terzo capitolo “Pensare e generare un mondo aperto” - è il virus più difficile da sconfiggere». «Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune. Quando questo principio elementare non è salvaguardato, non c’è futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza dell’umanità. Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica». Francesco indica la necessità di promuovere il bene morale e il valore della solidarietà: «È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, si tratta di un’altra logica - spiega - Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne». Il diritto a vivere con dignità non può essere negato a nessuno, afferma ancora il Papa, e poiché i diritti sono senza frontiere, nessuno può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato. In quest’ottica, il Papa richiama anche a pensare ad «un’etica delle relazioni internazionali», perché ogni Paese è anche dello straniero ed i beni del territorio non si possono negare a chi ha bisogno e proviene da un altro luogo. Il diritto naturale alla proprietà privata sarà, quindi, secondario al principio della destinazione universale dei beni creati. Una sottolineatura specifica viene fatta anche per la questione del debito estero: fermo restando il principio che esso va saldato, si auspica tuttavia che ciò non comprometta la crescita e la sussistenza dei Paesi più poveri.
Interscambio e governance globale per i migranti
L’aiuto reciproco tra Paesi in definitiva va a beneficio di tutti e al tema delle migrazioni l’enciclica dedica l’intero quarto capitolo: “Un cuore aperto al mondo intero”. L’altro diverso da noi è un dono ed un arricchimento per tutti - scrive Francesco - perché le differenze rappresentano una possibilità di crescita. Nello specifico, il Papa indica alcune risposte soprattutto per chi fugge da «gravi crisi umanitarie»: -incrementare e semplificare la concessione di visti; aprire corridoi umanitari; assicurare alloggi, sicurezza e servizi essenziali; offrire possibilità di lavoro e formazione; favorire i ricongiungimenti familiari; tutelare i minori; garantire la libertà religiosa e promuovere l’inserimento sociale. Dal Papa anche l’invito a stabilire, nella società, il concetto di «piena cittadinanza», rinunciando all’uso discriminatorio del termine “minoranze”. «Quello che occorre soprattutto - si legge nel documento - è una governance globale, una collaborazione internazionale per le migrazioni che avvii progetti a lungo termine, andando oltre le singole emergenze, in nome di uno sviluppo solidale di tutti i popoli che sia basato sul principio della gratuità. In tal modo, i Paesi potranno pensare come una famiglia umana».
La politica di cui c’è bisogno e la riforma dell’ONU
“La migliore politica” è al centro del quinto capitolo. «Per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale - scrive Francesco - capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso». «Mi permetto di ribadire - afferma - che la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia». «Non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale». Al contrario, «abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi». «Penso - afferma - a una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose». Non si può chiedere ciò all’economia, né si può accettare che questa assuma il potere reale dello Stato. «Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. I politici sono chiamati a prendersi «cura della fragilità, della fragilità dei popoli e delle persone. Prendersi cura della fragilità e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduce inesorabilmente alla “cultura dello scarto”.
Davanti a tante forme di politica meschine e tese all’interesse immediato, ricorda che «la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Compito della politica, inoltre, è trovare una soluzione a tutto ciò che attenta contro i diritti umani fondamentali, come l’esclusione sociale; il traffico di organi, tessuti, armi e droga; lo sfruttamento sessuale; il lavoro schiavo; il terrorismo ed il crimine organizzato.
L’appello del Papa si volge a eliminare definitivamente la tratta, «vergogna per l’umanità», e la fame, in quanto è «criminale». Un altro auspicio riguarda la riforma dell’Onu: di fronte al predominio della dimensione economica che annulla il potere del singolo Stato, infatti, il compito delle Nazioni Unite sarà quello di dare concretezza al concetto di «famiglia di nazioni» lavorando per il bene comune, lo sradicamento dell’indigenza e la tutela dei diritti umani. Ricorrendo «al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato» - afferma il documento pontificio - l’Onu deve promuovere la forza del diritto sul diritto della forza, favorendo accordi multilaterali che tutelino al meglio anche gli Stati più deboli.
Dialogo e amicizia sociale
Il vero dialogo - si afferma nel sesto capitolo - è quello che permette di rispettare la verità della dignità umana. Quanti pretendono di portare la pace in una società non devono dimenticare che l’inequità e la mancanza di sviluppo umano integrale non permettono che si generi pace. Che «senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società - locale, nazionale o mondiale - abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità». Per il Papa «se si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi».
L’artigianato della pace
Il settimo capitolo si sofferma sul valore e la promozione della pace. «La Shoah non va dimenticata - afferma - è il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando, fomentata da false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona, la quale merita rispetto assoluto qualunque sia il popolo a cui appartiene e la religione che professa». Non vanno neppure dimenticati i bombardamenti atomici a Hiroshima e Nagasaki. E nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri etnici che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti storici che ci fanno vergognare di essere umani. «Vanno ricordati sempre, sempre nuovamente. Per questo, non mi riferisco solo alla memoria degli orrori, ma anche al ricordo di quanti, in mezzo a un contesto avvelenato e corrotto, sono stati capaci di recuperare la dignità e con piccoli o grandi gesti hanno scelto la solidarietà, il perdono, la fraternità. Fa molto bene fare memoria del bene». E considerando che viviamo «una terza guerra mondiale a pezzi», perché tutti i conflitti sono connessi tra loro, l’eliminazione totale delle armi nucleari è «un imperativo morale ed umanitario». Piuttosto - suggerisce il Papa - con il denaro che si investe negli armamenti, si costituisca un Fondo mondiale per eliminare la fame. Non manca anche il riferimento alla pena di morte: «È inammissibile. È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone».
Le religioni al servizio della fraternità
Le diverse religioni, a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società. Il dialogo tra persone di religioni differenti non si fa solamente per diplomazia, cortesia o tolleranza. «Il comandamento della pace - spiega il Papa - è inscritto nel profondo delle tradizioni religiose che rappresentiamo. Come leader religiosi siamo chiamati ad essere veri “dialoganti”, ad agire nella costruzione della pace non come intermediari, ma come autentici mediatori. Come credenti ci vediamo provocati a tornare alle nostre fonti per concentrarci sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo, in modo tale che alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal loro contesto, non finiscano per alimentare forme di disprezzo, di odio, di xenofobia, di negazione dell’altro. La verità è che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni». Infine, richiamando i leader religiosi al loro ruolo di «mediatori autentici» che si spendono per costruire la pace, Francesco cita il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza”, firmato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi, insieme al Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib. Dalla pietra miliare del dialogo interreligioso, il Papa riprende l’appello affinché, in nome della fratellanza umana, si adotti il dialogo come via, la collaborazione comune come condotta e la conoscenza reciproca come metodo e criterio. La conclusione dell’enciclica è affidata a due preghiere: una «al Creatore» e l’altra «cristiana ecumenica» per infondere «uno spirito di fratelli».
La Convezione di Faro sul patrimonio culturale
Il FAI auspica che il Parlamento ratifichi presto la Convenzione di Faro - sottoscritta dall’Italia nel 2013 - perché è un testo davvero rivoluzionario sulla tutela del patrimonio culturale, e in linea con lo spirito dell’articolo 9 della nostra Costituzione.
di Redazione (FAI, 25 novembre 2019)
Nell’ormai lontano 27 ottobre 2005 nella città portoghese di Faro fu presentata la “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società”. Dopo otto anni, l’Italia l’ha sottoscritta nel 2013. Ora il Parlamento italiano sta finalmente per ratificarla, al termine di un percorso alquanto accidentato anche in questa legislatura, dopo i tentativi fatti già nella precedente.
Il testo è stato approvato di recente a larga maggioranza nell’Aula di Palazzo Madama con 147 voti favorevoli, 46 contrari e 42 astenuti (a favore M5S, Pd, Iv, Leu, contraria la Lega, astenuta Forza Italia).
Il testo, pertanto, è stato trasmesso alla Camera per la seconda lettura.
Nel frattempo la Convenzione è stata sottoscritta da 24 paesi membri del Consiglio d’Europa ed è stata ratificata da 18 Paesi: Armenia, Austria, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Finlandia, Georgia, Lettonia, Lussemburgo, Montenegro, Norvegia, Portogallo, Moldova, Serbia, Slovacchia, Slovenia, ex Repubblica Jugoslavia di Macedonia, Ucraina e Ungheria. Si attende ancora la ratifica di Albania, Belgio, Spagna, Bulgaria e San Marino, oltre all’Italia. Tra i paesi che non hanno né firmato né ratificato ci sono, fra gli altri, alcuni paesi importanti come la Francia, la Germania, il Regno Unito e la Federazione Russa.
La Convenzione di Faro presenta notevoli caratteri di novità, a partire dalla stessa concezione del patrimonio culturale, che nella legislazione italiana, erede delle norme definite nel corso del Novecento e in particolare nella Legge 1089 del 1939, è ancora oggi legata alla centralità delle “cose”. Si introduce, infatti, una visione estremamente più ampia di patrimonio culturale, inteso come «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione» e soprattutto affida uno specifico ruolo, una grande responsabilità e un protagonismo prima impensabile alle “comunità patrimonio”, cioè a
È un testo davvero rivoluzionario perché ribalta il punto di vista tradizionale: dell’autorità, spostata dal vertice alla base; dell’oggetto, dall’eccezionale al tutto; del valore, dal valore in sé al valore d’uso e, dunque, dei fini, dalla museificazione alla valorizzazione, come ha efficacemente sottolineato un grande economista della cultura recentemente scomparso, Massimo Montella.
Si segna, in tal modo, il passaggio dal “diritto del patrimonio culturale” (nel quale il nostro Paese ha una lunga e gloriosa tradizione) al “diritto al patrimonio culturale” (nel nostro Paese ancora tutto da affermare). Non sono più, cioè, solo gli specialisti, i professori e i funzionari della tutela a doversi ritenere gli esclusivi responsabili (a volte addirittura proprietari) del patrimonio culturale, ma sono tutti i cittadini, le comunità locali, i visitatori ad assumere un nuovo ruolo nelle attività di conoscenza, tutela, valorizzazione e fruizione. Non si escludono - sia ben chiaro - gli specialisti e i professionisti, come affermano alcuni oppositori. Ma si affida loro un nuovo e più impegnativo ruolo nella società contemporanea, nel rapporto con le “comunità di patrimonio”, con l’associazionismo, con la cittadinanza attiva. Si sottolinea, infatti, che
Si ribadisce in più modi la necessità della partecipazione democratica dei cittadini «al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione del patrimonio culturale», si attribuisce a tutti un ruolo attivo, riconoscendo il diritto (e il dovere) di partecipare alla conoscenza, alla tutela, alla valorizzazione e alla gestione del patrimonio. Si invitano i Paesi sottoscrittori a
Si afferma il diritto, individuale e collettivo, «a trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento» (art. 4) ed evidenzia la necessità che il patrimonio culturale sia finalizzato all’arricchimento dei «processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio, ...» (art. 8).
La Convenzione di Faro allarga il concetto di patrimonio culturale anche a «tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi» e impone che il patrimonio culturale vada tutelato e protetto non tanto per il suo valore intrinseco ma in quanto risorsa per la crescita culturale e socio-economica.
Purtroppo la Convenzione di Faro arriva tardi alla ratifica in Italia, come anche in altri paesi europei. Eppure, i principi illustrati a Faro quindici anni fa sono oggi ancor più attuali ed è ancor più urgente che essi ispirino le politiche di tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale, che necessitano di una maggiore partecipazione attiva dal basso.
Per questi motivi, il FAI, che fin dalla sua fondazione considera la partecipazione attiva della cittadinanza un elemento caratterizzante del suo DNA, auspica che il Parlamento ratifichi presto questa Convenzione e soprattutto che essa non corra il rischio di essere poi riposta in un cassetto ma che ispiri una profonda revisione delle nostre norme e delle procedure e soprattutto delle mentalità nel campo della tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale, capaci di affrontare i problemi e le sfide del terzo Millennio.
Un’ultima considerazione: la Convenzione di Faro appare perfettamente in linea con lo spirito e la lettera dell’articolo 9 della nostra Costituzione, con la sua innovativa, lungimirante e ampia concezione di tutela del “paesaggio e patrimonio storico e artistico della Nazione” affidata alla Repubblica (cioè, non solo allo Stato, ma a tutte le istituzioni pubbliche, Regioni, Città metropolitane, Province Comuni, e soprattutto all’intera comunità dei cittadini che formano la res publica) e lo stretto legame tra tutela e promozione dello “sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica”.
NOTA BENE:
Camera, l’Italia ratifica la Convenzione di Faro sul patrimonio culturale
237 voti favorevoli, 119 contrari e 57 astenuti ("Ag/Cult", 23.09.2020).
FLS
Eu-ropa!!! Che cosa è oggi l’Europa?
RIFLESSIONI AUTOCRITICHE SULL’EUROPA. Rossana Rossanda presenta il lavoro di Luciana Castellina, "Cinquant’anni d’Europa. Una lettura antiretorica" (il manifesto, 14 marzo 2007).
Chi pensa che l’Europa ha da essere diversa e costituire nella globalizzazione un modello di controtendenza per metodi e fini, ha davanti a sé non molto più di un paio di anni per promuovere una campagna d’opinione che dovrebbe essere non meno vasta di quella che fece per un momento vacillare l’Italia alla scoperta di Tangentopoli [...].
E’ morta Rossana Rossanda, ’la ragazza del secolo scorso’
La fondatrice del Manifesto aveva 96 anni, è stata tra le intellettuali più autorevoli del Paese
di Redazione (ANSA, 20 settembre 2020)
E’ stata tra le intellettuali più autorevoli del Paese, memoria storica dell’Italia del Dopoguerra, ’la ragazza del secolo scorso’, Rossana Rossanda aveva 96 anni e si è spenta nella notte nella sua casa di Roma. Giornalista, intellettuale, comunista, scrittrice, fondatrice del Manifesto. La notizia è stata data dal sito del Manifesto che ha annunciato un’edizione speciale del giornale per martedì per ricordare la giornalista.
Amica di Jean Paul Sartre, aveva vissuto a lungo a Parigi, da dove era tornata due anni fa, stabilendosi a Roma, in una casa nel quartiere Parioli. Una delle sue ultime uscite pubbliche fu l’anno scorso, a maggio, per sostenere alla Casa delle donne alcune candidate della sinistra alle elezioni Europee.
Nata a Pola nel 1924, allieva di Antonio Banfi, antifascista, ha partecipato alla Resistenza. E’ stata dirigente del Partito Comunista Italiano negli anni Cinquanta e Sessanta, fino ad essere nominata da Palmiro Togliatti responsabile della politica culturale del Pci. L’esigenza di elaborare la crisi del socialismo reale, sull’onda dei movimenti studentesco e operaio, la conduce a fondare nel 1969 il gruppo politico e la rivista ’il Manifesto, quotidiano dal ’71, insieme a Luigi Pintor, Valentino Parlato, Lucio Magri e Luciana Castellina.
Le posizioni assunte dal giornale in contrasto con la linea maggioritaria del Partito, in particolare sull’invasione sovietica della Cecoslovacchia, nel 1969 determinano la radiazione della Rossanda e di altri del gruppo dal Pci. L’unica ad aver convinto il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, a parlare in un’intervista del caso Moro. De "il manifesto", un giornale, un collettivo, dal quale si è separata con grande amarezza nel 2012: "Prendo atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione. Smetto di collaborare". Divergenze di linea politica e di approccio editoriale, incomprensione forse sanabile, il gap anagrafico: "Mi hanno sempre visto come una madre castratrice anche se io non mi sono mai sentita tale. Ma forse è una legge generazionale. I figli per crescere hanno bisogno di uccidere i padri e le madri. Ora è toccato a me".
Lucida, laica, politicamente razionale. Del Pci degli Anni 50 e Sessanta ricorda, nella sua autobiografia, pubblicata nel 2005 per Einaudi La ragazza del secolo scorso, tra storia e memoria lo straordinario contributo "al processo di democratizzazione della società italiana". (Una curiosità il libro arrivò nella cinquina dello Strega e fu in testa con Veronesi che quell’anno vince il la prima volta con Caos Calmo).
Il fallimento politico di Magri era anche quello di Rossanda, che lei avvertiva. Dopo essere stata direttrice del ’Manifesto’, continua la riflessione e il dialogo sui movimenti operai e femministi, e si dedica soprattutto alla letteratura e al giornalismo attraverso varie pubblicazioni tra cui, nel 1979, Le altre. Conversazioni sulle parole della politica (Feltrinelli); nel 1981 Un viaggio inutile (Einaudi); nel 1987 Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986 (Feltrinelli); nel 1996 La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita’. Nel 2005 esce per Einaudi La ragazza del secolo scorso, autobiografia tra storia e memoria.
Disurbanizzare le nostre vite. Esperienze di cooperazione territoriale
La fusione tra città e campagna non solo è possibile, ma addirittura necessaria, oltre a essere un anelito profondissimo di chi vive agonizzando il contesto urbano e di chi interpreta come solitudine quello rurale. Una testimonianza dalla Terra dei Fuochi
di Miriam Corongiu e Riccardo Festa *
Parlare di “terra” vuol dire più comunemente discutere di un ideale luogo del vivere (urbano o rurale) e non di un reale modello spirituale, politico, produttivo ed ecologico o di una concreta possibilità occupazionale. Il vero e proprio genocidio culturale perpetrato a danno dei contadini, una strage che ha eradicato dalla memoria e dalla pratica un’intera civiltà, ha reso le campagne periferie non solo geografiche, ma soprattutto mentali, eclissando quella dimensione che Pasolini definiva paleocontadina e con la quale è svanita di certo l’estrema durezza del vivere che le era connaturata, ma anche un paradigma di resilienza e di comunità.
La narrazione (e la realtà) della pandemia di Covid-19, il disastro dei cambiamenti climatici e le devastazioni ambientali di ogni latitudine ci mostrano, come in una vetrofania, che abbiamo sbagliato tutto: il pianeta, le persone, hanno bisogno di una vita radicalmente diversa che non può esaurirsi negli spazi cubicolari delle metropoli, nel grigiore del travettismo spirituale o nell’idea di una natura altra e selvaggia l’accesso alla quale è appannaggio dei parchi o, peggio, degli zoo. Sono ormai decenni che numerose esperienze europee e d’oltreoceano ci raccontano di un’aspirazione differente, di un costante tentativo di volo verso forme del vivere più leggere e ricche. L’introduzione di usi agricoli nei contesti urbani come gli orti, il superamento della dicotomia tra città e campagna attraverso le transition town, pratiche come ecobox e re-urban ci parlano di centinaia di cittadini impegnati e condensati intorno all’agroecologia, l’apicoltura, il compostaggio di quartiere.
La fusione tra città e campagna non solo è possibile, ma addirittura necessaria, oltre a essere un anelito profondissimo di chi vive agonizzando il contesto urbano e di chi interpreta come solitudine quello rurale. Alla luce del coronavirus e dell’innaturale quanto ineluttabile caldo estivo - entrambi figli dell’antropocene - potremmo aggiungere che solo così sarà possibile imprimere l’indispensabile svolta in tema di emissioni climalteranti e perfino favorire l’accesso a condizioni migliori di vivibilità in periodi di contagi e quarantene. La fine della dicotomia tra città e campagna, teorizzata da Engels già alla fine del 1800, è rimasta per lo più uno slogan. Nonostante il sogno degli architetti disurbanisti russi che teorizzavano la dispersione (dedensificazione) dell’habitat, della distribuzione dell’energia, della decentralizzazione della politica e nonostante la terribile evidenza dei ghetti di stato nei quartieri malfamati o delle periferie deruralizzate in cui si producono fenomeni come quello della Terra dei Fuochi, siamo rimasti dentro l’incubo del capitalismo senza mettere in discussione nulla della città classica. La cancellazione pianificata a tavolino dei contadini ha completato il processo di urbanizzazione delle menti che, però, deve e può essere invertito con proposte politiche serie e attuabili sul piano nazionale/locale.
I nostri comuni avrebbero mille modi per sostenere questo modello mettendo al centro dell’amministrazione ordinaria le aree agricole periurbane e marginali, in un’ottica di rivalutazione non solo dell’agricoltura locale, ma anche di miglioramento della qualità di vita nell’urbs strettamente intesa: l’elevata domanda di beni alimentari sani e naturali, di servizi ricreativi, di ristorazione e ospitalità rurale e - come ci ha duramente insegnato la Covid- 19 - di attività didattiche in spazi a misura di bimbo, impongono che ci si occupi di accrescere le relazioni tra contadini e tra contadini e cittadini, di stimolarne la partecipazione dal basso, di rendere accessibili le terre incolte ricadenti nelle proprietà comunali, di organizzare momenti formativi utili alla transizione ecologica e sportelli informativi indispensabili a orientarsi nella giungla tecnico/normativa. La Consulta Agricola Comunale, ad esempio, potrebbe essere lo strumento amministrativo attraverso il quale contadini, associazioni, cooperative e cittadini esprimono la loro opinione ed essere protagonisti della loro storia. Uno “sportello agricoltura” potrebbe fornire informazioni sulla finanza ordinaria, sulle attività dell’amministrazione locale e regionale, sui mercati locali e sulle scuole contadine.
In Terra dei Fuochi, cioè proprio dove le campagne sono il fulcro di una devastazione senza precedenti, le politiche per il governo del territorio non hanno assunto ancora questa visione. Risultano episodiche e malmesse le esperienze di pianificazione dei sistemi ambientali del territorio agricolo e forestale finalizzate a riqualificare colture, a salvaguardare ed estendere aree produttive di pregio, a tutelare gli assetti idrogeologici, a riqualificare naturalisticamente i bacini fluviali, ad aumentare la fertilità dei suoli, a regolamentare i microclimi, a valorizzare il paesaggio storico, a sviluppare economie locali attraverso la trasformazione dei prodotti tipici, l’artigianato, l’agriturismo.
A disegnare il filo tra città e campagna sono rimaste, perciò, le iniziative dal basso. Che sono tante. E convincenti. La facoltà di architettura della Federico II di Napoli, corso di Urban Planning, lavora a una mappatura degli orti sociali, delle aziende gestite da cooperative sociali e di quelle private caratterizzate da un’etica ambientale il cui approccio di comunità è il seme necessario alla disurbanizzazione delle nostre menti. Tra queste L’Orto Conviviale, alla periferia di un grande centro urbano alle falde del Somma-Vesuvio, tenta di colmare il vuoto culturale praticato tra contadini e cittadini anche attraverso pratiche di tipo spaziale: una casa aperta a tutti, al centro di un giardino, mette a disposizione di una comunità intera gli spazi di famiglia, la frescura dell’erba il cui conforto è sempre meno conosciuto, la possibilità di respirare in libertà e un patrimonio culturale che, ancora in tanti, si ostinano a coltivare reinterpretando quegli spazi incompiuti, indecisi, che non posseggono una funzione, ma che sono ambiti di opportunità per l’accoglienza della diversità respinta dagli spazi funzionali attivi possessori di una propria identità.
Un esperimento di successo sul piano della sostenibilità economico-ambientale e di trasformazione di un territorio come quello campano che soprattutto in ambito urbano produce “avanzi” corrispondenti ad aree in attesa di modificazione, sospese tra ciò che sono state e ciò che diverranno, una sorta di limbo durante il quale, di frequente, avvengono processi spontanei di rinaturalizzazione. L’agricoltura, considerata settore residuale dalle politiche economiche dominanti, deve dunque tornare a essere il centro di un’ampia rete di attività articolate attraverso la connessione di produzioni, servizi e opportunità.
Lo spazio astratto dell’economia si materializza, infatti, attraverso la sepoltura della complessità territoriale e ambientale. Il luogo scompare e con esso l’articolazione integrata dell’ambiente fisico, costruito, abitato; scompaiono le identità locali, i valori stratificati nel tempo e reinterpretabili nella fase di transizione dall’economia moderna a una sostenibile; il suolo viene considerato come semplice supporto della costruzione mentre il piano e il progetto si sottraggono al confronto con le questioni poste dalla necessità di una transizione ecologica. Le aree residuali, “gli avanzi“, acquistano un valore rilevante per la sperimentazione di proposte trasformative in ogni direzione: la questione di fondo è utilizzare questi luoghi per il necessario passaggio a un’economia non più dipendente dall’energia fossile con modelli insediati funzionalmente e morfologicamente nuovi. L’esigenza di ridurre le emissioni di gas serra è l’occasione per queste aree di promuovere ricadute positive per l’intero sistema urbano attraverso la realizzazione di reti pedonali e ciclabili, implementazione della dotazione di verde, conservazione del patrimonio naturale, risparmio energetico, riqualificazione, mixité funzionale e sociale, riduzione del consumo di suolo, densificazione, dove possibile, e connettività.
Oggi serve molta innovazione nell’affrontare le questioni territoriali.
Abbiamo bisogno di mettere a punto una strategia di lunga durata che faccia della cooperazione tra aree contigue il punto di forza per ispirare, indirizzare e consolidare una nuova governance, efficace e resistente, dando vita a una nuova centralità diffusa con la potenzialità di essere insieme individuale e comunitaria. Individuale nella connessione all’innovazione gestionale e alla produzione cooperativa e comunitaria nella consapevole condivisione di risorse locali e di senso comune.
In breve, presuppone la capacità di avere una visione concreta che preveda anche maggiore investimento in ricerca, in formazione ed educazione all’uso delle risorse. Significa fare città più resistenti nelle quali il consumo non si manifesti in montagne di rifiuti nei territori contigui e una cultura che non guardi a un prato come un tappeto sotto il quale seppellire rifiuti tossici. Significa creare territori consapevoli che cooperano, nei quali riuso, riciclo e infine smaltimento in piena sicurezza possano trovare forma chiare e condivise.
Per cambiare direzione è necessario mettere in campo azioni alle diverse scale che allo stesso tempo coinvolgano tutti. Non è solo “economia circolare”, è molto di più: è ripensare la dimensione economica della nostra esistenza creando spazi adatti a una vita piena e soddisfacente.
L’unica alla quale dovremmo ambire.
*
Miriam Corongiu è contadina e attivista ecologista
Riccardo Festa è architetto territorialista
Foto di copertina di Diego Delso da commons.wikimedia
Il discorso di inaugurazione
Meeting 2020, l’intervento integrale
di Mario Draghi (Corriere della Sera/Economia, 18 ago 2020)
Dodici anni fa la crisi finanziaria provocò la più grande distruzione economica mai vista in periodo di pace. Abbiamo poi avuto in Europa una seconda recessione e un’ulteriore perdita di posti di lavoro. Si sono succedute la crisi dell’euro e la pesante minaccia della depressione e della deflazione. Superammo tutto ciò. Quando la fiducia tornava a consolidarsi e con essa la ripresa economica, siamo stati colpiti ancor più duramente dall’esplosione della pandemia: essa minaccia non solo l’economia, ma anche il tessuto della nostra società, così come l’abbiamo finora conosciuta; diffonde incertezza, penalizza l’occupazione, paralizza i consumi e gli investimenti. In questo susseguirsi di crisi i sussidi che vengono ovunque distribuiti sono una prima forma di vicinanza della società a coloro che sono più colpiti, specialmente a coloro che hanno tante volte provato a reagire. I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri. La società nel suo complesso non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione.
Nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario. Non sappiamo quando sarà scoperto un vaccino, né tantomeno come sarà la realtà allora. Le opinioni sono divise: alcuni ritengono che tutto tornerà come prima, altri vedono l’inizio di un profondo cambiamento. Probabilmente la realtà starà nel mezzo: in alcuni settori i cambiamenti non saranno sostanziali; in altri le tecnologie esistenti potranno essere rapidamente adattate. Altri ancora si espanderanno e cresceranno adattandosi alla nuova domanda e ai nuovi comportamenti imposti dalla pandemia. Ma per altri, un ritorno agli stessi livelli operativi che avevano nel periodo prima della pandemia, è improbabile. Dobbiamo accettare l’inevitabilità del cambiamento con realismo e, almeno finché non sarà trovato un rimedio, dobbiamo adattare i nostri comportamenti e le nostre politiche. Ma non dobbiamo rinnegare i nostri principii. Dalla politica economica ci si aspetta che non aggiunga incertezza a quella provocata dalla pandemia e dal cambiamento. Altrimenti finiremo per essere controllati dall’incertezza invece di esser noi a controllarla. Perderemmo la strada. Vengono in mente le parole della ‘preghiera per la serenità’ di Reinhold Niebuhr che chiede al Signore: Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare, / Il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, / E la saggezza di capire la differenza.
Non voglio fare oggi una lezione di politica economica ma darvi un messaggio più di natura etica per affrontare insieme le sfide che ci pone la ricostruzione e insieme affermare i valori e gli obiettivi su cui vogliamo ricostruire le nostre società, le nostre economie in Italia e in Europa. Nel secondo trimestre del 2020 l’economia si è contratta a un tasso paragonabile a quello registrato dai maggiori Paesi durante la seconda guerra mondiale. La nostra libertà di circolazione, la nostra stessa interazione umana fisica e psicologica sono state sacrificate, interi settori delle nostre economie sono stati chiusi o messi in condizione di non operare. L’aumento drammatico nel numero delle persone private del lavoro che, secondo le prime stime, sarà difficile riassorbire velocemente, la chiusura delle scuole e di altri luoghi di apprendimento hanno interrotto percorsi professionali ed educativi, hanno approfondito le diseguaglianze.
Alla distruzione del capitale fisico che caratterizzò l’evento bellico molti accostano oggi il timore di una distruzione del capitale umano di proporzioni senza precedenti dagli anni del conflitto mondiale. I governi sono intervenuti con misure straordinarie a sostegno dell’occupazione e del reddito. Il pagamento delle imposte è stato sospeso o differito. Il settore bancario è stato mobilizzato affinché continuasse a fornire il credito a imprese e famiglie. Il deficit e il debito pubblico sono cresciuti a livelli mai visti prima in tempo di pace. Aldilà delle singole agende nazionali, la direzione della risposta è stata corretta. Molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie fino all’inizio della pandemia sono state sospese per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni. Una citazione attribuita a John Maynard Keynes, l’economista più influente del XX secolo ci ricorda “When facts change, I change my mind. What do you do sir?’’ Tutte le risorse disponibili sono state mobilizzate per proteggere i lavoratori e le imprese che costituiscono il tessuto delle nostre economie. Si è evitato che la recessione si trasformasse in una prolungata depressione. Ma l’emergenza e i provvedimenti da essa giustificati non dureranno per sempre.
Ora è il momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire. Il fatto che occorra flessibilità e pragmatismo nel governare oggi non può farci dimenticare l’importanza dei principii che ci hanno sin qui accompagnato. Il subitaneo abbandono di ogni schema di riferimento sia nazionale, sia internazionale è fonte di disorientamento. L’erosione di alcuni principii considerati fino ad allora fondamentali, era già iniziata con la grande crisi finanziaria; la giurisdizione del WTO, e con essa l’impianto del multilateralismo che aveva disciplinato le relazioni internazionali fin dalla fine della seconda guerra mondiale venivano messi in discussione dagli stessi Paesi che li avevano disegnati, gli Stati Uniti, o che ne avevano maggiormente beneficiato, la Cina; mai dall’Europa, che attraverso il proprio ordinamento di protezione sociale aveva attenuato alcune delle conseguenze più severe e più ingiuste della globalizzazione; l’impossibilità di giungere a un accordo mondiale sul clima, con le conseguenze che ciò ha sul riscaldamento globale; e in Europa, alle voci critiche della stessa costruzione europea, si accompagnava un crescente scetticismo, soprattutto dopo la crisi del debito sovrano e dell’euro, nei confronti di alcune regole, ritenute essenziali per il suo funzionamento, concernenti: il patto di stabilità, la disciplina del mercato unico, della concorrenza e degli aiuti di stato; regole successivamente sospese o attenuate, a seguito dell’emergenza causata dall’esplosione della pandemia. L’inadeguatezza di alcuni di questi assetti era da tempo evidente. Ma, piuttosto che procedere celermente a una loro correzione, cosa che fu fatta, parzialmente, solo per il settore finanziario, si lasciò, per inerzia, timidezza e interesse, che questa critica precisa e giustificata divenisse, nel messaggio populista, una protesta contro tutto l’ordine esistente. Questa incertezza, caratteristica dei percorsi verso nuovi ordinamenti, è stata poi amplificata dalla pandemia.
Il distanziamento sociale è una necessità e una responsabilità collettiva. Ma è fondamentalmente innaturale per le nostre società che vivono sullo scambio, sulla comunicazione interpersonale e sulla condivisione. È ancora incerto quando un vaccino sarà disponibile, quando potremo recuperare la normalità delle nostre relazioni. Tutto ciò è profondamente destabilizzante. Dobbiamo ora pensare a riformare l’esistente senza abbandonare i principi generali che ci hanno guidato in questi anni: l’adesione all’Europa con le sue regole di responsabilità, ma anche di interdipendenza comune e di solidarietà; il multilateralismo con l’adesione a un ordine giuridico mondiale. Il futuro non è in una realtà senza più punti di riferimento, che porterebbe, come è successo in passato, si pensi agli anni 70 del secolo scorso, a politiche erratiche e certamente meno efficaci, a minor sicurezza interna ed esterna, a maggiore disoccupazione, ma il futuro è nelle riforme anche profonde dell’esistente. Occorre pensarci subito.
Ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale, si pensi a De Gasperi, che nel 1943 scriveva la sua visione della futura democrazia italiana e a tanti altri che in Italia, in Europa, nel mondo immaginavano e preparavano il dopoguerra. La loro riflessione sul futuro iniziò ben prima che la guerra finisse, e produsse nei suoi principi fondamentali l’ordinamento mondiale ed europeo che abbiamo conosciuto. È probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e certamente non lo saranno nella loro forma attuale. La ricerca di un senso di direzione richiede che una riflessione sul loro futuro inizi subito. Proprio perché oggi la politica economica è più pragmatica e i leader che la dirigono possono usare maggiore discrezionalità, occorre essere molto chiari sugli obiettivi che ci poniamo. La ricostruzione di questo quadro in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè “debito buono”. La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato “debito cattivo”. I bassi tassi di interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante. Quanto più questa percezione si deteriora tanto più incerto diviene il quadro di riferimento con effetti sull’occupazione, l’investimento e i consumi. Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto: perché le politiche economiche oggi perseguite siano sostenibili, per dare sicurezza di reddito specialmente ai più poveri, per rafforzare una coesione sociale resa fragile dall’esperienza della pandemia e dalle difficoltà che l’uscita dalla recessione comporterà nei mesi a venire, per costruire un futuro di cui le nostre società oggi intravedono i contorni.
L’obiettivo è impegnativo ma non irraggiungibile se riusciremo a disperdere l’incertezza che oggi aleggia sui nostri Paesi. Stiamo ora assistendo a un rimbalzo nell’attività economica con la riapertura delle nostre economie. Vi sarà un recupero dal crollo del commercio internazionale e dei consumi interni, si pensi che il risparmio delle famiglie nell’area dell’euro è arrivato al 17% dal 13% dello scorso anno. Potrà esservi una ripresa degli investimenti privati e del prodotto interno lordo che nel secondo trimestre del 2020 in qualche Paese era tornato a livelli di metà anni 90. Ma una vera ripresa dei consumi e degli investimenti si avrà solo col dissolversi dell’incertezza che oggi osserviamo e con politiche economiche che siano allo stesso tempo efficaci nell’assicurare il sostegno delle famiglie e delle imprese e credibili, perché sostenibili nel tempo. Il ritorno alla crescita e la sostenibilità delle politiche economiche sono essenziali per rispondere al cambiamento nei desideri delle nostre società; a cominciare da un sistema sanitario dove l’efficienza si misuri anche nella preparazione alle catastrofi di massa. La protezione dell’ambiente, con la riconversione delle nostre industrie e dei nostri stili di vita, è considerata dal 75% delle persone nei 16 maggiori Paesi al primo posto nella risposta dei governi a quello che può essere considerato il più grande disastro sanitario dei nostri tempi. La digitalizzazione, imposta dal cambiamento delle nostre abitudini di lavoro, accelerata dalla pandemia, è destinata a rimanere una caratteristica permanente delle nostre società. È divenuta necessità: negli Stati Uniti la stima di uno spostamento permanente del lavoro dagli uffici alle abitazioni è oggi del 20% del totale dei giorni lavorati.
Vi è però un settore, essenziale per la crescita e quindi per tutte le trasformazioni che ho appena elencato, dove la visione di lungo periodo deve sposarsi con l’azione immediata: l’istruzione e, più in generale, l’investimento nei giovani. Questo è stato sempre vero ma la situazione presente rende imperativo e urgente un massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie in questo settore. La partecipazione alla società del futuro richiederà ai giovani di oggi ancor più grandi capacità di discernimento e di adattamento. Se guardiamo alle culture e alle nazioni che meglio hanno gestito l’incertezza e la necessità del cambiamento, hanno tutte assegnato all’educazione il ruolo fondamentale nel preparare i giovani a gestire il cambiamento e l’incertezza nei loro percorsi di vita, con saggezza e indipendenza di giudizio. Ma c’è anche una ragione morale che deve spingerci a questa scelta e a farlo bene: il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani. È nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo pur vivendo in società migliori delle nostre. Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza. Alcuni giorni prima di lasciare la presidenza della Banca centrale europea lo scorso anno, ho avuto il privilegio di rivolgermi agli studenti e ai professori dell’Università Cattolica a Milano.
Lo scopo della mia esposizione in quell’occasione era cercar di descrivere quelle che considero le tre qualità indispensabili a coloro che sono in posizioni di potere: la conoscenza per cui le decisioni sono basate sui fatti, non soltanto sulle convinzioni; il coraggio che richiedono le decisioni specialmente quando non si conoscono con certezza tutte le loro conseguenze, poiché l’inazione ha essa stessa conseguenze e non esonera dalla responsabilità; l’umiltà di capire che il potere che hanno è stato affidato loro non per un uso arbitrario, ma per raggiungere gli obiettivi che il legislatore ha loro assegnato nell’ambito di un preciso mandato. Riflettevo allora sulle lezioni apprese nel corso della mia carriera: non avrei certo potuto immaginare quanto velocemente e quanto tragicamente i nostri leader sarebbero stati chiamati a mostrare di possedere queste qualità. La situazione di oggi richiede però un impegno speciale: come già osservato, l’emergenza ha richiesto maggiore discrezionalità nella risposta dei governi, che non nei tempi ordinari: maggiore del solito dovrà allora essere la trasparenza delle loro azioni, la spiegazione della loro coerenza con il mandato che hanno ricevuto e con i principi che lo hanno ispirato. La costruzione del futuro, perché le sue fondazioni non poggino sulla sabbia, non può che vedere coinvolta tutta la società che deve riconoscersi nelle scelte fatte perché non siano in futuro facilmente reversibili. Trasparenza e condivisione sono sempre state essenziali per la credibilità dell’azione di governo; lo sono specialmente oggi quando la discrezionalità che spesso caratterizza l’emergenza si accompagna a scelte destinate a proiettare i loro effetti negli anni a venire. Questa affermazione collettiva dei valori che ci tengono insieme, questa visione comune del futuro che vogliamo costruire si deve ritrovare sia a livello nazionale, sia a livello europeo. La pandemia ha severamente provato la coesione sociale a livello globale e resuscitato tensioni anche tra i Paesi europei.
Da questa crisi l’Europa può uscire rafforzata. L’azione dei governi poggia su un terreno reso solido dalla politica monetaria. Il fondo per la generazione futura (Next Generation EU) arricchisce gli strumenti della politica europea. Il riconoscimento del ruolo che un bilancio europeo può avere nello stabilizzare le nostre economie, l’inizio di emissioni di debito comune, sono importanti e possono diventare il principio di un disegno che porterà a un Ministero del Tesoro comunitario la cui funzione nel conferire stabilità all’area dell’euro è stata affermata da tempo. Dopo decenni che hanno visto nelle decisioni europee il prevalere della volontà dei governi, il cosiddetto metodo intergovernativo, la Commissione è ritornata al centro dell’azione. In futuro speriamo che il processo decisionale torni così a essere meno difficile, che rifletta la convinzione, sentita dai più, della necessità di un’Europa forte e stabile, in un mondo che sembra dubitare del sistema di relazioni internazionali che ci ha dato il più lungo periodo di pace della nostra storia. Ma non dobbiamo dimenticare le circostanze che sono state all’origine di questo passo avanti per l’Europa: la solidarietà che sarebbe dovuta essere spontanea, è stata il frutto di negoziati. Né dobbiamo dimenticare che nell’Europa forte e stabile che tutti vogliamo, la responsabilità si accompagna e dà legittimità alla solidarietà. Perciò questo passo avanti dovrà essere cementato dalla credibilità delle politiche economiche a livello europeo e nazionale. Allora non si potrà più, come sostenuto da taluni, dire che i mutamenti avvenuti a causa della pandemia sono temporanei. Potremo bensì considerare la ricostruzione delle economie europee veramente come un’impresa condivisa da tutti gli europei, un’occasione per disegnare un futuro comune, come abbiamo fatto tante volte in passato. È nella natura del progetto europeo evolversi gradualmente e prevedibilmente, con la creazione di nuove regole e di nuove istituzioni: l’introduzione dell’euro seguì logicamente la creazione del mercato unico; la condivisione europea di una disciplina dei bilanci nazionali, prima, l’unione bancaria, dopo, furono conseguenze necessarie della moneta unica. La creazione di un bilancio europeo, anch’essa prevedibile nell’evoluzione della nostra architettura istituzionale, un giorno correggerà questo difetto che ancora permane. Questo è tempo di incertezza, di ansia, ma anche di riflessione, di azione comune. La strada si ritrova certamente e non siamo soli nella sua ricerca. Dobbiamo essere vicini ai giovani investendo nella loro preparazione. Solo allora, con la buona coscienza di chi assolve al proprio compito, potremo ricordare ai più giovani che il miglior modo per ritrovare la direzione del presente è disegnare il tuo futuro.
Rimini.
Draghi apre il Meeting: no a un mondo senza speranza, è l’ora della saggezza
Alle 11 si è aperta la 41esima edizione del Meeting dei Popoli, quest’anno in versione "light" in parte in presenza e per il resto trasmesso via social e tv
di Paolo Viana, inviato a Rimini *
Incertezza e responsabilità. E’ il titolo della relazione di Mario Draghi che ha inaugurato il 41° Meeting di Rimini ed è la chiave di lettura del mondo post-Covid che ci offre l’ex presidente della Bce. «Nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario - ha detto oggi al Meeting -. Dobbiamo accettare l’inevitabilità del cambiamento con realismo e, almeno finché non sarà trovato un rimedio al virus, dobbiamo adattare i nostri comportamenti e le nostre politiche. Ma non dobbiamo rinnegare i nostri principii. Dalla politica economica ci si aspetta che non aggiunga incertezza a quella provocata dalla pandemia e dal cambiamento. Altrimenti finiremo per essere controllati dall’incertezza invece di esser noi a controllarla. Perderemmo la strada».
Citando la preghiera per la serenità di Reinhold Niebuhr (Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare/ Il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare/ E la saggezza di capire la differenza), l’ex governatore di Bankitalia ha parlato tra l’altro dei sussidi erogati in questi mesi: «I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri. La società nel suo complesso non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione».
L’intervento ha dedicato ampio spazio al tema dell’istruzione: «La situazione presente rende imperativo e urgente un massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie in questo settore. La partecipazione alla società del futuro richiederà ai giovani di oggi ancor più grandi capacità di discernimento e di adattamento».
Draghi ha sottolineato quindi che nel secondo trimestre del 2020 l’economia si è contratta a un tasso paragonabile a quello registrato dai maggiori Paesi durante la seconda guerra mondiale: «Alla distruzione del capitale fisico che caratterizzò l’evento bellico molti accostano oggi il timore di una distruzione del capitale umano di proporzioni senza precedenti dagli anni del conflitto mondiale.I governi sono intervenuti con misure straordinarie a sostegno dell’occupazione e del reddito. Il pagamento delle imposte è stato sospeso o differito. Il settore bancario è stato mobilizzato affinché continuasse a fornire il credito a imprese e famiglie. Il deficit e il debito pubblico sono cresciuti a livelli mai visti prima in tempo di pace. Aldilà delle singole agende nazionali, la direzione della risposta è stata corretta» ha commentato. Ma, ha aggiunto, «l’emergenza e i provvedimenti da essa giustificati non dureranno per sempre. Ora è il momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire».
Concludendo che «dobbiamo riformare l’esistente senza abbandonare i principi generali che ci hanno guidato in questi anni: l’adesione all’Europa con le sue regole di responsabilità, ma anche di interdipendenza comune e di solidarietà; il multilateralismo con l’adesione a un ordine giuridico mondiale».
Infine, ha parlato del debito pubblico e della ripresa. «La ricostruzione di questo quadro in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè "debito buono”. La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato "debito cattivo". I bassi tassi di interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante. Quanto più questa percezione si deteriora tanto più incerto diviene il quadro di riferimento con effetti sull’occupazione, l’investimento e i consumi».
E ha parlato anche della crescita. «Stiamo ora assistendo a un rimbalzo nell’attività economica con la riapertura delle nostre economie. Vi sarà un recupero dal crollo del commercio internazionale e dei consumi interni, si pensi che il risparmio delle famiglie nell’area dell’euro è arrivato al 17% dal 13% dello scorso anno. Potrà esservi una ripresa degli investimenti privati e del prodotto interno lordo che nel secondo trimestre del 2020 in qualche Paese era tornato a livelli di metà anni 90. Ma una vera ripresa dei consumi e degli investimenti si avrà solo col dissolversi dell’incertezza che oggi osserviamo e con politiche economiche che siano allo stesso tempo efficaci nell’assicurare il sostegno delle famiglie e delle imprese e credibili, perché sostenibili nel tempo».
TUTTI GLI ARTICOLI SUL MEETING DI RIMINI
*Avvenire, martedì 18 agosto 2020 (ripresa parziale, senza immagini).
La non-centralità alle origini dell’Europa
di Marco Marino (Treccani, Atlante, 26 luglio 2020)
«Miei cari: ditemi, dove sorge Atene, in quale terra?». Sembra una domanda innocente quella che la regina persiana Atossa, vedova del re Dario e madre di Serse, rivolge ai suoi fedeli sudditi nella tragedia di Eschilo, i Persiani. Dove sorge Atene, la città che in quel momento sta combattendo senza alcuna speranza contro l’esercito del figlio? L’armata di Serse, infatti, è di gran lunga più numerosa, più forte e più spietata, non c’è motivo di temere l’esito finale della guerra. Eppure, qualcosa la inquieta, un presagio che non riesce a decifrare. Si chiede dov’è quella città, in quale terra può sorgere un popolo tanto incosciente da tenere testa al regno che sta al centro del mondo.
Ecco, quell’interrogativo, che suona come un’incrinatura nella voce della regina, implica l’innocente certezza che la Persia sia il centro del mondo. Non c’è bisogno che lo attesti una mappa o un esploratore, la centralità del suo regno è stata la fissa e stabile sicurezza della sua vita e la ragione della forza del suo popolo. Ma nello stesso momento in cui pone quella domanda, qualcosa fuori e dentro di lei sta cambiando. Come se avesse avvertito un terremoto arrivare, come se si fosse accorta che la geografia che aveva sempre abitato, da un momento all’altro, stava per essere stravolta. O forse sarebbe meglio dire, scentrata.
In verità, è una storia di cui già conosciamo la fine: nella battaglia navale di Salamina del 480 a.C., Atene sconfigge la minaccia persiana. In che modo ci riesce, però? Cos’è andato storto? Senza soffermarci sulle mere strategie militari, e per provare a comprendere cosa effettivamente sbaraglia la flotta rivale, bisogna considerare una circostanza: a Salamina non ci troviamo di fronte all’ultimo duello tra Persia e Grecia, ma al primo scontro tra l’antica idea di Oriente e la nuova idea di Occidente. Tra l’idea di un impero centralizzato e piramidale e l’idea di una democrazia egualitaria e periferica. Due idee, due continenti: l’Asia, da una parte, e l’Europa appena nata, dall’altra.
Lo storico Franco Cardini ne scrive in maniera efficace nei capitoli preliminari del suo saggio Lawrence d’Arabia (Sellerio, 2019): «I greci hanno inventato l’Occidente. Primi al mondo, per quanto noi ne sappiamo, hanno creato un modo di sentirsi non al centro dell’universo, bensì in una sua area periferica addirittura prossima all’estremità (quella dove il sole “va a morire”: beninteso, per chi lo guardi da una sponda mediterranea). Tutte le culture in generale si sentono al centro dell’universo: non quella occidentale. È un caso forse unico nelle millenarie vicende delle culture umane. L’Occidente nasce dalla consapevolezza di una non-centralità: d’altronde la Grecia era tributaria dell’impero persiano. Questa novità avrebbe segnato per sempre la “nostra coscienza identitaria occidentale”».
Secondo Cardini, allora, è necessario attribuire ai Greci questa ennesima, rilevante scoperta: la coscienza della non-centralità del loro continente, la consapevolezza dell’essere periferici rispetto a qualcosa. Sono stati questi gli impareggiabili punti di forza che hanno permesso loro di vincere. D’altronde, il sentimento della non-centralità era già rintracciabile nella mitologia legata alle origini dell’Europa: a Sidone, lungo un fiume, insieme ad altre ragazze, la figlia del re Agenore e della regina Telefassa, chiamata Europa, sta raccogliendo dei fiori. Mentre gioca con le sue compagne, vengono tutte accerchiate da un branco di tori, tra questi uno di colore bianco si avvicina a Europa: lei lo accarezza e gli sale in groppa. Il toro bianco è Zeus, che ha cambiato le sue sembianze per rapire la principessa fenicia e portarla con sé in un continente sconosciuto. Che da quel momento da lei prenderà il nome.
Quindi il nome Europa non sorge da una inamovibile cultura millenaria, non descrive la fissità di un’idea di stato, ma racconta la storia di un rapimento, di un transito, di una dislocazione da una parte all’altra del Mediterraneo, da una periferia all’altra dell’universo conosciuto, senza centro, senza punti fissi: è un nome che custodisce la scoperta di un mondo nuovo e serba le tradizioni del mondo antico che ha dovuto abbandonare.
Europa alcuni dicono significhi “dal vasto sguardo”, dividendo il sostantivo in due parti, eurys (“vasto”) e ops (“sguardo”). Altri, invece, pensano che sia connessa alla radice della parola Erebo, “la zona oscura”, dal momento che l’Europa è l’Occidente ovvero il luogo in cui tramonta il sole.
Nessuna etimologia è certa e fondata ed è per questo che vorremmo azzardare una terza ipotesi. E se il nome di Europa avesse a che fare con il verbo greco che indica “lo scoprire”, “il trovare”, “l’inventare”? Nella lingua di Eschilo si dice heurisko. A questo punto Europa non sarebbe più una zona d’ombra e nemmeno la capacità di una vista smisurata. Diventerebbe la fanciulla dallo sguardo adatto a scoprire, la donna destinata a trovare una terra inesplorata e a inventare dal nulla una civiltà diversa dalle precedenti. Una comunità senza centro, senza punti fissi.
Pax Christi.
«Abolire subito le armi nucleari, anche l’Italia firmi il trattato»
di Giacomo Gambassi (Avvenire, mercoledì 5 agosto 2020)
«Immorali». Non aveva usato mezzi termini papa Francesco in Giappone lo scorso novembre per condannare gli armamenti nucleari e il loro potere distruttivo che hanno lasciato un segno indelebile ad Hiroshima e Nagasaki dove il 6 e il 9 agosto 1945 vennero sganciate le bombe atomiche americane.
Le parole del Pontefice, la sua «condanna» della minaccia nucleare, la denuncia dell’«affronto mortale» che mina non solo il benessere della terra ma anche il rapporto con Dio tornano nella lettera aperta che Pax Christi invia alla Cei in occasione del 75° anniversario dei bombardamenti atomici in Giappone dove sollecita i vescovi italiani a chiedere al Governo di firmare il trattato sul bando totale delle armi atomiche approvato dall’Onu nel 2017.
Il testo «ha un sempre più crescente sostegno mondiale», scrivono il vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, Giovanni Ricchiuti, e don Renato Sacco, rispettivamente presidente nazionale e coordinatore nazionale di Pax Christi. Tuttavia, aggiungono, «per diventare effettivo c’è bisogno di altre firme per superare la soglia necessaria di cinquanta Stati. Il Vaticano lo ha da tempo ratificato e le Conferenze dei vescovi cattolici di Giappone e Canada hanno chiesto ai loro esecutivi di fare altrettanto».
In Italia, invece, il tema sta passando sotto silenzio. «Nel nostro Paese - racconta don Sacco ad Avvenire - esistono due siti che ospitano ordigni nucleari: Aviano, in provincia di Pordenone, e Ghedi, nel Bresciano. Non sappiamo quanti siano ma il loro potenziale è di gran lunga più elevato di quello impiegato nel 1945. E, come dice il Papa, non va censurato solo l’uso ma anche il possesso».
Don Sacco ricorda il cartoncino fatto distribuire da Bergoglio a fine 2017 con la foto di un bambino di 10 anni che trasportava sulle spalle il cadavere del fratellino ucciso dalla bomba a Nagasaki. «Il Papa aveva scritto: “Il frutto della guerra...”. La tragedia avvenuta in Giappone è un monito per l’oggi, un grido sempre più attuale».
La lettera del Movimento cattolico per la pace prende spunto dall’emergenza Covid per riflettere sulla piaga atomica. «Le conseguenze dannose della pandemia impallidiscono rispetto a quelle che sarebbero capitate alla famiglia umana, e alla terra stessa, in caso di guerra nucleare», affermano Ricchiuti e Sacco. E spiegano che, mentre si cerca un vaccino al virus, «stiamo sperimentando come investire centinaia di miliardi di dollari per lo sviluppo, la fabbricazione, i test e lo spiegamento di armi nucleari non solo non è riuscito a renderci sicuri, ma ha privato la comunità umana delle risorse necessarie per il raggiungimento della vera sicurezza umana: sufficienza alimentare, alloggio, lavoro, formazione scolastica, accesso all’assistenza sanitaria».
Ancora. «Di fronte al coronavirus le speranze di sopravvivenza nelle nostre comunità si sono fondate sul sacrificio in prima linea dei soccorritori. Eppure, ammonisce la Croce Rossa internazionale, tali soccorritori non ci sarebbero in caso di un attacco nucleare: i medici, gli infermieri e le infrastrutture sanitarie sarebbero essi stessi cancellati».
Ecco il richiamo. «La cosiddetta “sicurezza” offerta dalle armi nucleari si basa sulla nostra volontà di annientare i nostri nemici e la loro volontà di annientarci. A 75 anni dagli avvenimenti di Hiroshima e Nagasaki è giunto il tempo per rifiutare questa logica di reciproca distruzione e costruire una vera sicurezza».
Pax Christi chiarisce che in caso di una guerra nucleare, «anche se limitata», la vita sul pianeta «sarebbe messa in grave pericolo». Serve allora eliminare gli armamenti atomici. «Ma - conclude il movimento - la finestra temporale che ci resta potrebbe essere troppo breve. Se non riusciamo ad agire adesso e con decisione, giochiamo pericolosamente non solo con la pandemia ma anche con l’estinzione totale».
Al via in Brasile la Campagna "Amazzonizza te stesso!"
Il lancio è previsto per domani. L’intento dei vescovi è di porre l’attenzione sulla violenza contro i popoli amazzonici, messi in pericolo anche dal coronavirus. Si tratta di un appello per partecipare attivamente alla salvaguardia dell’Amazzonia dove si sono intensificati, in tempo di pandemia, le attività estrattive, i roghi e la deforestazione
di Isabella Piro - Città del Vaticano *
“Amazzonizza te stesso!” è il titolo della campagna in favore dell’Amazzonia che la Conferenza episcopale del Brasile (Cnbb) lancerà lunedì 27 alle ore 16.00 locali. La presentazione avverrà in diretta streaming sul web e vedrà la collaborazione di diversi organismi ecclesiali e civili. La
campagna - si legge sul sito della Cnbb - “vuole essere attenta al contesto attuale, in cui la violenza contro i popoli tradizionali amazzonici è aggravata dalla pandemia di Covid-19” e in cui si registrano “la deforestazione, gli incendi, l’intensificazione delle attività estrattive”, che rappresentano ulteriori fattori di contagio del coronavirus “tra le comunità indigene”. “L’appello ad ‘amazzonizzare’ se stessi - continua la nota - propone la partecipazione attiva di tutti i popoli in difesa dell’Amazzonia, del suo bioma e dei suoi abitanti minacciati nei propri territori”.
La Cnbb ricorda, infatti, “una realtà di tante vite offese, espulse dalle loro terre, torturate e uccise in conflitti agrari e socio-ambientali, vittime di una politica guidata dagli affari e da grandi progetti di sviluppo economico che non rispettano i limiti della natura e della sua salvaguardia”. Proseguendo il cammino intrapreso dal Sinodo speciale per l’Amazzonia, svoltosi in Vaticano nell’ottobre 2019, dunque, la campagna vuole porre al centro della riflessione la questione amazzonica e i rischi che essa corre, incluso quello della “distruzione dell’identità culturale”.
Le azioni per "amazzonizzarsi"
Nello specifico, il lancio della campagna vedrà la presentazione di una raccolta di studi sulla realtà amazzonica, oltre a una serie di video con testimonianze delle popolazioni indigene e di personalità nazionali e internazionali. Prevista anche la diffusione di un elenco di azioni concrete da intraprendere, da soli o in gruppo, per “amazzonizzarsi”. Per questo, l’iniziativa si articolerà nella lotta a tre grandi questioni: “Vulnerabilità delle popolazioni indigene e delle comunità tradizionali al contagio da coronavirus, con particolare attenzione alle carenze delle strutture sanitarie pubbliche nella regione; accelerazione della distruzione del bioma amazzonico a causa dell’aumento incontrollato della deforestazione, degli incendi, dell’invasione dei territori indigeni e delle comunità tradizionali da parte delle multinazionali e degli effetti delle dighe idroelettriche sulle popolazioni fluviali; violazione sistematica della legislazione sulla protezione dell’ambiente e smantellamento delle agenzie governative” per espandere illegalmente le attività minerarie, la deforestazione e l’allevamento intensivo.
Da ricordare che il neologismo “amazzonizzarsi” è stato usato per la prima volta nel 1986, in una lettera pastorale dell’allora vescovo di Rio Branco, monsignor Moacyr Grechi che invitò i fedeli ad abbracciare la causa dell’Amazzonia e la difesa dei suoi popoli.
Ora, la campagna lanciata dalla Cnbb non solo vuole riprendere quel neologismo, ma anche lanciare un appello affinché “tutti ne facciano un’espressione personale per diventare, a loro volta, amazzonizzatori”.
* Fonte: Vatican News, 26 luglio 2020
Internazionale
La politica necrofila di Bolsonaro sta compiendo un genocidio
La lettera. Il teologo, scrittore e politico Frei Betto lancia un grido d’allarme. Bolsonaro sta intenzionalmente lasciando diffondere l’epidemia per sbarazzarsi di anziani e poveri. È in corso un disastro umanitario
di Frei Betto (il manifesto, 19.07.2020)
Cari amici e amiche
In Brasile sta avvenendo un genocidio!
In questo momento che sto scrivendo, 16 luglio, il Covid, presente da febbraio, ha già ucciso 76 mila persone. Vi sono quasi 2 milioni di contagiati. Questa domenica 19/07 arriveremo a 80.0000 vittime. Ed è possibile che quando leggerai questo appello si sia arrivati a 100.000 mila vittime.
Quando ricordo che nella guerra del Vietnam, nel corso di 20 anni di storia, 58.000 militari americani furono scarificati, ho la consapevolezza della gravità della situazione nel mio Paese. E questo orrore causa indignazione e rivolta. E noi sappiamo che le misure di precauzione e restrizione, adottate in tanti altri Paesi, avrebbe potuto evitare un numero così alto di morti.
Questo genocidio è figlio dell’indifferenza del governo Bolsonaro. Si tratta di un genocidio intenzionale. Bolsonaro si compiace dell’altrui morte. Quando era un deputato federale in un’intervista del 1999 aveva dichiarato: “Tramite il voto non vai cambiare questo Paese, assolutamente in niente! Cambierà il Paese se ci sarà una guerra civile e se faremo ciò che la dittatura militare non ha fatto: uccidere 30 milioni di persone!”. Votando per l’impeachment della Presidente Dilma, Bolsonaro offrì il suo voto in memoria del più noto torturatore dell’Esercito, il Colonnello Brilhante Ustra.
Ed è talmente ossessionato dalla morte, che una delle principali politiche del governo è la liberazione del commercio delle armi. Intervistato all’ingresso del Palazzo presidenziale, se non gli importava di tutte le vittime della pandemia, Bolsonaro ha risposto: “Non credo a questi numeri “(7 marzo, 92 morti); “Tutti moriremo un giorno” (29 marzo, 136 morti); “E cosa posso farci?” (28 aprile, 5071 morti).
Perché questa politica “necrofila”? Sin dall’inizio Bolsonaro ha affermato che l’importante era salvare l’economia, non le vite umane. E così ha rifiutato di dichiarare il lockdown, di far proprie le linee guida dell’OMS e non ha importato respiratori e tute di protezione individuale. È stato necessario un pronunciamento del Supremo Tribunale che ha delegato questa responsabilità in materia di sanità ai governatori e ai sindaci. Bolsonaro non ha neppure rispettato l’autorità dei suoi ministri della Salute.
Da febbraio due ministri della Salute sono stati licenziati perché discordavano dalla linea del Presidente. Adesso vi è come ministro della Salute il generale Pazuello che non capisce nulla di sanità. Bolsonaro, inoltre, ha cercato di nascondere il dato delle morti; ha impiegato 38 militari in funzioni importanti ministeriali, senza la necessaria qualifica e ha cancellato tutte le interviste diarie attraverso le quali la popolazione riceveva orientamento.
Sarebbe esaustivo dire che tutte le misure per l’aiuto alle famiglie di reddito basso (cioè più di 100 milioni di brasiliani) non sono mai state eseguite.
Le intenzioni criminose del governo sono chiare. Lasciare morire gli anziani per risparmiare sulla Previdenza. Lasciare morire i portatori di malattie croniche per economizzare sulla spesa mutualistica. Lasciare morire i poveri per risparmiare i soldi del programma di assistenza “Bolsa Familia” e di altri programmi sociali destinati ai 52, 5 milioni di poveri che vivono in povertà e ai 13, 5 milioni che si trovano nella povertà assoluta (secondo i dati dello stesso governo federale).
Non soddisfatto con queste misure, il Presidente ha abrogato con il progetto di legge deliberato il 3 luglio scorso la norma di legge che obbligava all’uso di mascherine nei negozi aperti al pubblico, nelle scuole e nei templi di culto.. Ha vietato le multe previste per chi non ottempera a queste indicazioni e ha liberato il governo dall’obbligo di distribuire mascherine ai più poveri, che sono le principali vittime del Covid e alla popolazione carceraria. In ogni caso questi veti non annullano altre disposizioni di legislazioni locali che impongono l’uso delle mascherine.
L’8 luglio Bolsonaro ha eliminato le norme di legge, approvate dal Senato, che obbligavano il governo a fornire acqua potabile e materiale di igiene e pulizia, istallazione Internet, ceste alimentari, sementi e ferramenta agricole ai villaggi indigeni e ai quilombos (comunità nere, di discendenti africani).
Ha anche “bloccato” i fondi di emergenza destinati alla salute indigena, così pure le facilitazioni previste per gli abitanti dei villaggi indigeni e quilombos per incassare un assegno di 600 reais (100, 120 dollari) per tre mesi. Così pure ha eliminato l’obbligo del governo di fornire più letti ospedalieri e equipaggiamenti sanitari (maschere di ossigeno, ecc) a indios e abitanti dei quilombos.
Indios e quilombos sono stati decimati per la crescente devastazione socio ambientale, specialmente in Amazzonia.
Per favore divulgate questi crimini contro l’umanità! È assolutamente necessario che le denunce di ciò che sta avvenendo in Brasile arrivino ai Vostri governi, alle reti digitali, al Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU e al Tribunale dell’Aia, così come a Banche e imprese che fanno affari con il Brasile.
Ancor prima del giornale “The Economist”, nelle reti digitali parlo di Bolsonaro come un nuovo “Nerone”. In quanto Roma brucia, egli suona la lira e fa propaganda per la clorochina, che non ha nessuna efficacia scientifica contro il coronavirus... I suoi produttori sono però alleati del Presidente Bolsonaro!
Ringrazio per la divulgazione di questa lettera. Solo la pressione internazionale potrà fermare il genocidio che devasta il nostro caro e meraviglioso Paese.
CULTURA
A Troia fu guerra civile: Godart riscrive leggenda omerica
(di Paolo Martini) *
Dagli ultimi scavi sulla collina di Hissarlik, in Turchia, un’ipotesi diventa certezza: a Troia non furono due popolazioni diverse a scontrarsi, molto più semplicemente fu una ’guerra civile’. Gli Achei venuti dalla Grecia combatterono contro gli Achei che si erano già insediati in città. Lo sostiene uno dei massimi studiosi delle civiltà egee, il professore Louis Godart, in un articolo che esce sul nuovo numero della rivista "Archeologia Viva" (Giunti Editore).
"Greci e Troiani parlavano la stessa lingua, avevano le stesse credenze, stessi usi e costumi, stesso tipo di armamento. Omero lo dice chiaramente nella sua Iliade. Oggi la conferma arriva dall’archeologia che aiuta a riscrivere un’intera pagina di storia, decisamente la più nota e popolare": così sintetizza la scoperta lo storico e archeologo Louis Godart, che ha insegnato Civiltà egee all’Università ’Federico II’ di Napoli ed è stato consigliere per la conservazione del patrimonio artistico presso la Presidenza della Repubblica italiana ed è membro dell’Accademia dei Lincei, dell’Institut de France e dell’Accademia di Atene.
"Le ricerche condotte a Troia dalla missione archeologica dell’Università tedesca di Tubinga abbinate a una riflessione sullo studio dei testi delle tavolette in lineare B scritte nel dialetto acheo dei Greci micenei - dichiara Godart - cambiano radicalmente le nostre prospettive sulla storia dell’Anatolia nord-occidentale e dell’Egeo alla fine del II millennio, in particolare tra il 1200 e il 1180 a.C.".
È a questo periodo che risale la cosiddetta Troia VIi (secondo le numerazione che gli archeologi hanno dato ai vari strati della lunga vita della città), in quel momento la città più importante dell’Anatolia e del Vicino Oriente, dove la gente si rifugiò all’interno delle mura sistemando nel suolo grandi vasi per lo stoccaggio di derrate alimentari (rinvenute dagli archeologi) per poter sostenere il lungo assedio che poi si concluse con la caduta della città, come lasciano intendere i resti umani e le tracce dei combattimenti rinvenuti nello strato di distruzione dell’insediamento.
Achei e Troiani, due facce dello stesso popolo. In Omero Achei e Troiani non sono mai differenziati in modo netto. Secondo l’Iliade, i due popoli pregavano gli stessi dèi, ai quali tributavano gli stessi sacrifici. Parlavano la stessa lingua e i troiani avevano nomi greci. Non vi sono mai problemi di comunicazione tra Achei e Troiani e anche il nome Ettore non era un nome barbaro per i greci, spiega sempre Godart. Vi era un culto di Ettore a Tebe; a Taso, isola vicina alla costa della Tracia, una divisione della città portava il nome di Priamides. In una serie di tavolette in lineare B (la scrittura dei Micenei) di Pilo, è stato identificato l’antroponimo ’e-ko-to’ che corrisponde al greco ’Hector’, mentre in un altro testo rinvenuto sempre nel palazzo di Nestore, c’era il patronimico ’e-ko-to-ri-jo’, ’Hectorio’s, ’figlio di Ettore’.
"Il nome Ettore è quindi un nome acheo, anche se nell’Iliade indica il grande campione troiano - illustra sempre Godart - Poiché i nomi degli eroi troiani sono greci, Omero, facendo parlare una stessa lingua agli Achei e ai Troiani, non fa altro che rispecchiare la situazione che vigeva sull’acropoli di Troia alla fine del XIII secolo a.C.".
"Sarei assolutamente propenso, come sostengo nel mio articolo su ’Archeologia Viva’ e nel mio libro ’Da Minosse a Omero’ (Einaudi) - spiega Godart - a ritenere che sia stata un’aristocrazia micenea a comandare a Troia nella fase VII che ispirò Omero. L’abbondante ceramica micenea rinvenuta sul sito di Troia negli strati del XIII secolo a.C. conforta indubbiamente una simile ipotesi. Se è davvero così e se Priamo era un re acheo, dovremmo ritenere che la guerra di Troia cantata da Omero sia stata una guerra civile in cui implacabilmente si opposero gli Achei del continente, delle isole e di Creta a altri Achei".
Louis Godart è autore di importanti pubblicazioni presso Einaudi: "Il disco di Festo. L’enigma della scrittura", "L’invenzione della scrittura", "L’oro di Troia. La vera storia del tesoro scoperto da Schliemann" (con Gianni Cervetti), e il recente "Da Minosse a Omero. Genesi della prima civiltà europea".
Arcivescovo Canterbury: "Via statue razziste dalle chiese" *
Le statue legate al periodo del colonialismo e della schiavitù potrebbero essere rimosse dalle più importanti chiese britanniche. Lo ha detto alla Bbc l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, intervenendo nel dibattito avviato negli Stati Uniti, dove da giorni i manifestanti prendono di mira i monumenti dedicati a personalità che vengono legate ad un passato razzista. "Alcune dovranno essere rimosse - ha detto il capo della Chiesa anglicana - Alcuni nomi dovranno cambiare. Esamineremo molto attentamente la questione e vedremo se devono restare lì".
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. LA SAGGIA INDICAZIONE DEL SUDAFRICA DI MANDELA, DI TUTU, E DI DECLERCK
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FLS
MONACI “BRASILIANI” NELLA TERRA DELLA “TRECCANI” (MA NON NELLA TERRA D’OTRANTO)! Filologia e civiltà...
di Federico La Sala *
ALLA LUCE DELLA PRESENTE STORICA SITUAZIONE, ricordando il recente intervento del prof. Armando Polito dal titolo “Quando l’Amazzonia era vicina a noi, ma c’è speranza...” e della mia nota su L’EUROPA E LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE (Fondazione Terra d’Otranto, 28/29 maggio 2020), sottoscrivo la sua “Lettera aperta a Massimo Bray,titolare del Mibac1″(Fondazione Terra d’Otranto, 26 maggio 2013) e rinnovo la sua costituzionale sollecitazione a non alimentare la già iperbolica diffusione di “fake news” e a correggere l’involontario refuso tecnologico.
PER LA STORIA E LA MEMORIA DELLA TERRA D’OTRANTO, non è più sopportabile che nella scheda relativa a Cesare Maccari ("Dizionario Biografico degli Italiani" - Treccani ) si legga e si continui a leggere che “Nel 1895 [...] fu incaricato da monsignor G. Ricciardi, vescovo di Nardò, di affrescare la cattedrale di S. Maria de Nerito [...] Il programma iconografico, dettato dal committente, era dedicato alla storia della salvezza dell’uomo e agli episodi locali del Trasporto delle reliquie di s. Gregorio Armeno, protettore della città, da parte dei monaci *BRASILIANI* e del Miracolo del crocifisso nero”! O no?!
*
Statue abbattute e revisione storica.
Tutti quei crimini che oggi incominciamo a vedere
L’iconoclastia è una costante. E senza revisione (che non è revisionismo) la storia è nulla
di Franco Cardini (Avvenire, giovedì 11 giugno 2020)
Nella complessa geografia politica dell’Africa le aree centrali del grande continente sono fra le più difficili da decifrare perché emergono - a poco a poco e solo da poco - dalla grande nebulosa che chiamiamo, collettivamente, Congo, e che ha dato vita a diversi Stati venuti fuori dai domini coloniali all’indomani della seconda guerra mondiale. Fra questi l’antico Congo belga oggi Repubblica Democratica del Congo, rimasta sotto il dominio di Bruxelles dal 1908 al 1960: ma prima di allora, tuttavia, la corona belga con il sovrano Leopoldo II aveva già giocato un ruolo importante nell’area.
Torniamo a parlarne oggi perché ad Anversa una statua del sovrano è stata rimossa da una piazza a seguito del movimento che, tra Stati Uniti e Europa, sta abbattendo o imbrattando le statue di personaggi che sono venerati come simboli della nazione, ma che allo stesso tempo si sono macchiati di crimini coloniali e schiavisti.
In Belgio il movimento Réparons l’Histoire ha lanciato una petizione chiedendo di rimuovere tutte le statue di Leopoldo II. Intendiamoci: è chiaro che la storia non si ’ripara’ e non è compito degli storici giudicare il passato; il loro ruolo è studiarlo, comprenderlo e insegnarlo. Tuttavia, non bisogna neppur credere ingenuamente che la realtà politica e il pensiero etico si esprimano e si esauriscano tutti e solo all’interno delle aule universitarie e dei seminari accademici: l’iconoclastia, cioè l’abbattimento dei simboli di potere o la cancellazione delle immagini, sono una costante della nostra storia; e la dimensione simbolica di tale azione non può nemmeno essere posta alla stregua di una qualche conferenza erudita.
A Londra una statua di Winston Churchill è stata imbrattata con uno scritta che accusa lo statista inglese di essere stato un razzista, il che è noto è comprovato: Churchill definiva ’bestie’ gli indiani e diceva che gli espropri dei Nativi americani e degli aborigeni australiani erano giustificati dalla necessità del trionfo della razza bianca; e fece anche di peggio, come quando durante la Seconda guerra mondale non permise alle derrate alimentari di raggiungere il Bengala, sotto il controllo britannico, affetto da una grave carestia, preferendo stornarle verso i suoi compatrioti: un’azione che portò alla morte di quattro milioni di persone.
Eppure per gli inglesi Winston Churchill significa la vittoria contro il nazifascismo: ecco che, dinanzi all’assenza di una memoria condivisa e al fenomeno per cui l’eroe secondo alcuni è un aguzzino secondo altri, la rabbia iconoclasta si propone come una risposta antropologicamente pregnante.
L’ha benissimo spiegato, a proposito di altre iconoclastie, David Freedberg nel suo apprezzatissimo Il potere delle immagini. Nel caso di Leopoldo II la storia è forse meno nota. Nel 1876, il re belga organizzò l’Associazione Internazionale Africana con la collaborazione dei principali esploratori sul continente e il sostegno di diversi governi europei per la promozione dell’esplorazione e della colonizzazione dell’Africa. Dopo che Henry Morton Stanley aveva esplorato la regione in un viaggio che si concluse nel 1878, Leopoldo corteggiò l’esploratore e lo assunse per sostenere i suoi interessi nella regione e, dal momento che il governo belga mostrava scarso interesse per l’impresa, il sovrano decise di portare avanti la questione per conto proprio.
La rivalità europea in Africa centrale condusse presto però a tensioni diplomatiche, in particolare per quanto riguardava il bacino del fiume Congo che nessuna potenza europea aveva ancora rivendicato. Nel novembre 1884 Otto von Bismarck convocò a Berlino una conferenza di 14 nazioni per trovare una soluzione pacifica alla crisi congolese. Nel corso di essa, pur senza formale approvazione delle rivendicazioni territoriali delle potenze europee in Africa centrale, ci si accordò su una serie di regole per garantire una pacifica spartizione dell’area. Esse riconoscevano il bacino del Congo come ’zona di libero scambio’ (un eufemismo splendido!). Leopoldo II uscì dai lavori della dalla Conferenza con una grande quota di territorio a lui assegnata come ’Stato libero del Congo, organizzato come un’impresa corporativa privata gestita direttamente da lui attraverso un ’libero sodalizio’, l’Association Internationale Africaine, appunto.
L’entità definita ’Stato libero’, comprendente l’intera area dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, sussisté dal 1885 al 1908: solo allora, alla morte di Leopoldo, il governo belga procedette senza entusiasmo a un’annessione (molti i voti contrari in Parlamento). Sotto l’amministrazione di Leopoldo II, lo ’Stato libero del Congo’ era stato un disastro umanitario, un’autentica infame sciagura.
La mancanza di dati precisi rende difficile quantificare il numero di morti causate dallo spietato sfruttamento e dalla mancanza di immunità a nuove malattie introdotte dal contatto con i coloni europei: come la pandemia influenzale del 1889-90, che causò milioni di morti anche nel continente europeo tra cui il principe Baldovino del Belgio. La Force Publique, esercito privato sotto il comando di Leopoldo, terrorizzava gli indigeni per farli lavorare come manodopera forzata per l’estrazione delle risorse. Il mancato rispetto delle quote di raccolta della gomma era punibile con la morte. Le punizioni corporali, comprese crudeli mutilazioni, erano ordinarie.
I miliziani della Force Publique erano tenuti a fornire una mano delle loro vittime come prova che ’giustizia era stata fatta’. Intere ceste di mani mozzate erano poste ai piedi dei comandanti; a volte i soldati ne tagliavano a prescindere dalle quote di gomma, per poter accelerare il congedo dal servizio militare. Nei raid punitivi contro i villaggi uomini, donne e bambini venivano impiccati e appesi alle palizzate.
Il trattamento riservato agli indigeni, insieme alle epidemie, causò nel Congo di Leopoldo II una crisi demografica gravissima; anche se, come detto, le stime di morti variano, si parla di cifre che vanno tra i dieci e i venti milioni. Se tutti i regimi coloniali hanno accumulato una quota notevole di quelli che ormai definiamo ’crimini contro l’umanità’, e che nella pratica significano massacri impuniti di popolazioni locali, il caso di Leopoldo II è particolarmente efferato perché il Congo, prima del 1908, era una sua proprietà personale e le leggi provenivano direttamente da lui: da un sovrano costituzionale, cattolico e liberale.
Abbattere le statue dei responsabili di tali infamie non cambia certo il passato né risarcisce le vittime: semmai, chissà, forme più pesanti di damnatio memoriae sarebbero opportune soprattutto nei confronti di figuri che sino ad ieri venivano onorati come eroi civilizzatori. Il vero problema non è comunque l’iconoclastia quanto semmai il fatto che di questi crimini non si legga sui libri di scuola, che si continui a considerarli ’minori’ rispetto ad altri.
Forse gli iconoclasti di oggi segnalano che finalmente è arrivato il momento di parlarne. San Giovanni Paolo II aveva fatto in merito un gesto esemplare e decisivo, quando aveva chiesto al genere umano perdono per i delitti dei cattolici nella storia. Ma quella scelta implicava anche un severo mònito: s’invitava con essa altre Chiese e religioni, altre associazioni, altri sistemi sociali a fare altrettanto. Molti risposero riduttivamente, quasi insoddisfatti: ’era ora’ che la Chiesa di Roma riconoscesse i suoi crimini. Il fatto era però che altri non erano stati da meno e molti erano stati da più: e non bastava certo l’alibi dell’unanime condanna dei delitti di Hitler e di Stalin. Papa Francesco, come gesuita argentino, sa bene che la Compagnia, nel Settecento, venne disciolta soprattutto in quanto alcuni governi europei protestarono contro la sua azione in favore degli indios dell’America latina contro le razzìe e i lavori forzati loro imposti dagli schiavisti.
E non parliamo del genocidio dei native Americans che fa parte integrante della storia della costruzione della ’nazione americana’ statunitense. Troppo comodo sarebbe, anche nelle scuole, continuar a condannare genericamente il colonialismo senza conoscerlo e senza studiarlo, fingendo di non sapere che esso fu parte della marcia verso il ’progresso’ e l’arricchimento dell’Europa liberista. Finché non faremo radicalmente e sistematicamente tutto ciò, il lavoro di ’purificazione della memoria’ indirizzato a stigmatizzare i crimini nazisti e stalinisti sarà un esercizio ipocritamente lasciato a metà strada. Non esistono crimini ’condannabili’ e crimini ’giustificabili’: i crimini sono crimini e basta.
Ed è fino dalla scuola che bisogna imparare a riconoscerli, anche con una diversa lettura del passato. E ciò, attenzione, non è ’revisionismo’. È puramente e semplicemente revisione alla luce di criteri di approfondimento e di lucidità. Perché se la storia non è revisione - vale a dire esame e verifica continua del passato alla, luce del presente e in funzione del futuro -, allora non è nulla.
Giornata dell’Ambiente.
Il Papa: non possiamo fingerci sani in un mondo malato
La lettera di Francesco al presidente della Colombia, che ospita "virtualmente" la Giornata dell’Ambiente 2020: la casa comune va tutelata insieme
di Redazione Internet (Avvenire, venerdì 5 giugno 2020)
"Invertire la rotta", per un mondo "più vivibile" e una "società più umana". "Tutto dipende da noi, se lo vogliamo davvero". Lo scrive papa Francesco in una lettera, in spagnolo, al presidente della Repubblica di Colombia, Ivan Duque Marquez, in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente che ricorre oggi e che quest’anno è ospitata virtualmente dalla Colombia sul tema della biodiversità.
IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA
"Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo malato. Le ferite causate alla nostra madre terra sono ferite che sanguinano anche in noi", denuncia il Papa. La cura degli ecosistemi, avverte, "ha bisogno di una visione del futuro. Il nostro atteggiamento verso il presente del pianeta dovrebbe impegnarci e renderci testimoni della gravità della situazione. Non possiamo tacere davanti al clamore quando verifichiamo i costi molto elevati della distruzione e dello sfruttamento dell’ecosistema".
Da qui il monito di Francesco: "Non è tempo di continuare a guardare dall’altra parte indifferenti ai segni di un pianeta che viene saccheggiato e violato, per l’avidità di profitto e in nome, molte volte, del progresso. È dentro di noi la possibilità di invertire la marcia e scommettere su un mondo migliore e più sano, per lasciarlo in eredità alle generazioni future. Tutto dipende da noi se lo vogliamo davvero".
Bergoglio ricorda il quinto anniversario dell’enciclica Laudato si’ appena celebrato e invita "a partecipare all’anno speciale" per il Creato. "E così, tutti insieme, per diventare più consapevoli delle cure e della protezione della nostra casa comune, così come dei nostri fratelli e sorelle più fragili e scartati nella società".
Infine Francesco incoraggia il presidente colombiano Marquez a deliberare "sempre a favore della costruzione di un mondo più vivibile e di una società più umana, in cui tutti abbiamo un posto e in cui nessuno sia lasciato indietro".
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI COLOMBIA IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELL’AMBIENTE
A Sua Eccellenza Signor Iván Duque Márquez,
Presidente della Repubblica di Colombia
Signore Presidente,
Sono lieto di rivolgermi a lei, a tutti i membri organizzatori e ai partecipanti della Giornata Mondiale dell’Ambiente, che quest’anno si sarebbe dovuta celebrare in modo presenziale a Bogotá, ma che a causa della pandemia covid-19 si terrà in forma virtuale. È una sfida che ci ricorda che dinanzi all’avversità si aprono sempre nuovi cammini per stare uniti come grande famiglia umana.
La protezione dell’ambiente e il rispetto della “biodiversità” del pianeta sono temi che ci riguardano tutti. Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo che è malato. Le ferite provocate alla nostra madre terra sono ferite che sanguinano anche in noi. La cura degli ecosistemi ha bisogno di uno sguardo di futuro, che non si limiti solo all’immediato, cercando un guadagno rapido e facile; uno sguardo che sia carico di vita e che cerchi la preservazione a beneficio di tutti.
Il nostro atteggiamento dinanzi al presente del pianeta dovrebbe impegnarci e renderci testimoni della gravità della situazione. Non possiamo rimanere muti di fronte al clamore quando comproviamo gli altissimi costi della distruzione e dello sfruttamento dell’ecosistema. Non è tempo di continuare a guardare dall’altra parte indifferenti dinanzi ai segni di un pianeta che si vede saccheggiato e violentato, per la brama di guadagno e in nome - molto spesso - del progresso. Abbiamo la possibilità d’invertire la marcia e puntare su un mondo migliore, più sano, per lasciarlo in eredità alle generazioni future. Tutto dipende da noi; se lo vogliamo veramente.
Abbiamo da poco celebrato il quinto anniversario della Lettera enciclica Laudato si’, che richiama l’attenzione sul grido che ci lancia la madre terra. Invito anche voi a essere partecipi dell’anno speciale che ho annunciato per riflettere alla luce di quel documento. E così, tutti insieme, prendere maggiormente coscienza della cura e della protezione della nostra Casa comune, come pure dei nostri fratelli e sorelle più fragili e scartati dalla società.
Infine, vi incoraggio in questo compito che avete intrapreso, affinché le vostre decisioni e conclusioni siano sempre a favore della costruzione di un mondo sempre più abitabile e di una società più umana, dove ci sia posto per tutti e dove nessuno sia di troppo.
E, per favore, vi chiedo di pregare per me. Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa si prenda cura di voi.
Cordialmente,
Francesco
Vaticano, 5 giugno 2020
*L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLX, n. 128, 06/06/2020
L’evento.
Artisti e scienziati rispondono al grido di aiuto dei popoli dell’Amazzonia
Sono oltre 133mila i casi nella regione e quasi 7mila le vittime, tra loro già cinquecento nativi. Una maratona virtuale per aiutare gli indigeni, indifesi di fronte all’avanzare del Covid
di Lucia Capuzzi (Avvenire, giovedì 28 maggio 2020)
L’uragano Covid si abbatte sull’America Latina. E l’Amazzonia è nell’occhio del ciclone. Il Continente è il nuovo epicentro della pandemia, come ha affermato l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), con oltre 833mila contagiati e quasi 45mila vittime. Nella regione amazzonica - che abbraccia nove Paesi e un terzo della superficie regionale -, i casi sono oltre più di 133mila e i morti quasi 7mila, secondo i dati della Rete ecclesiale panamazzonica. Tra questi, oltre duemila positivi sono indigeni, come ha sottolineato il Coordinamento delle organizzazioni indie del bacino amazzonico (Coica). Le vittime fra i nativi sono più di cinquecento. Di fronte a questo scenario drammatico, i popoli della foresta, spesso dimenticati dai rispettivi governi, chiedono aiuto al mondo. Al loro fianco, si sono schierati artisti, scienziati, intellettuali che alle due di notte italiane - le 21 ora di Brasilia - realizzeranno “Artistas unidos pela Amazonia: progegendo os protetores”, per promuovere il Fondo Amazzonia, creato per soccorrere gli indios, indifesi di fronte al coronavirus (https://www.amazonemergencyfund.org/).
L’evento virtuale, con musica e interviste - a cui partecipano tra gli altri le star di Hollywood Barbara Streisand, Jane Fonda e Morgan Freeman, lo studioso Nobel Carlos Nobre, nonché vari leader nativi - sarà trasmesso sul sito www.artistsforamazonia.org. «Rischiamo l’estinzione, la pandemia potrebbe portare a un nuovo genocidio», afferma José Gregorio Diaz Mirabel, coordinatore della Coica. Gli scarsi mezzi per la prevenzione, la precarietà delle strutture sanitarie e la corta memoria immunologica dei nativi, li rendono una “preda perfetta” per il virus. «Alla crisi sanitaria si somma l’incremento della violenza sui nostri territori - ribadisce Angela Kaxuyana, del Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana (Coiab) -. I cacciatori di risorse approfittano del momento in cui c’è minore attenzione per colpire. Non lasciateci soli».
Amazzonia. Il Covid fa strage di indios: già 33 i popoli colpiti
Repam e Coica presentano il primo bilancio sull’impatto del virus nelle comunità native: 526 positivi e 113 morti. Lasciati soli dai governi, gli indigeni chiedono aiuto al mondo
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 15 maggio 2020)
Un triplice virus infetta l’Amazzonia. Allo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali e allo smantellamento del sistema sanitario, ora si somma il Covid. Le conseguenze sono devastanti. Nella regione - che si estende per nove Paesi dell’America Latina e rappresenta quasi un terzo della superficie continentale - si contano ormai oltre 58mila malati di coronavirus e 3.554 vittime, secondo la Rete ecclesiale pan amazzonica (Repam) che monitora quotidianamente l’evolversi della pandemia. I dati finora non facevano distinzione tra nativi e il resto degli abitanti amazzonici. Ora, però, grazie alla collaborazione con la Coordinadora de las organizaciones indígenas de la cuenca amazónica (Coica), Repam ha realizzato una mappa precisa del contagio nelle comunità indie, troppo spesso dimenticate nei registri ufficiali come dalle politiche governative. In base allo studio, presentato ieri da Repam e Coica, il Covid ha colpito 526 nativi di 33 differenti popoli e ne ha ucciso 113.
Numeri piccoli in termini assoluti ma drammatici rapportato allo scenario amazzonico dove numerose comunità hanno qualche decina di abitanti. Oltretutto, le principali vittime sono gli anziani, custodi della memoria ancestrale e pilastro dei villaggi. Nel bilancio, inoltre, non compaiono gli indios che abitano nelle metropoli della regione, come Manaus o Iquitos, che non vengono più considerati tali.
La metà dei casi è concentrata in Amazzonia brasiliana, dove si riportano 70 decessi. Le uniche nazioni della regione a non aver segnalato vittime fra gli indios sono Suriname e Venezuela. Paese quest’ultimo i cui dati - 13 positivi e nessun morto - destano forti dubbi.
Di fronte all’abbandono dei differenti governi, la Coica ha lanciato una raccolta globale per un Fondo di emergenza per il Covid in Amazzonia. L’obiettivo è quello di raccogliere tre milioni di dollari per assistere i tre milioni di nativi, divisi in 420 diversi popoli. «La situazione è grave», spiega José Gregorio Díaz Mirabal, presidente della Coica e esponente dell’etnia venezuelana Wakuenai Kurripaco. «Gli Stati ci hanno lasciati soli, per questo abbiamo deciso di unirci e chiedere aiuto al mondo. Già in passato, i virus hanno sterminato interi popoli, privi di anticorpi. Il Covid può provocare un nuovo genocidio. Intere culture rischiano di scomparire. E senza gli indios, i suoi guardiani, anche l’Amazzonia è in pericolo»
L’impero romano tra cambiamenti climatici e pestilenze
In un libro dello storico statunitense Kyle Harper
di Gabriele Nicolò (L’Osservatore Romano, 15 aprile 2020)
Si racconta che uno storico tedesco abbia addotto duecentodieci motivi per spiegare il crollo dell’impero romano. Molto più parco è lo storico statunitense Kyle Harper che nel libro Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero (Torino, Einaudi, 2019, pagine 520, euro 34) di cause - a parte quelle “istituzionali” legate sia alle farraginose dinamiche della ormai fatiscente struttura governativa che al logorio dell’esercito e delle forze di combattimento in generale - ne individua due: i cambiamenti climatici e le pestilenze. Vale a dire, due cause che rivestono, evidentemente, un valore di attualità sorprendente e disarmante.
È vero che Giulio Cesare si vantava che i suoi soldati erano così vigorosi nel fisico che potevano resistere sia ai rigori dell’inverno che ai torridi raggi del sole d’estate, ma è altrettanto vero - rileva lo storico statunitense in un’intervista al settimanale francese «Nouvelle Observateur» - che i bruschi cambiamenti del clima, attestati tra l’altro da numerosi documenti d’epoca, con graduale e non arginata pressione finirono per incidere profondamente sulla popolazione dell’impero, e in particolare sulla psiche dei soldati, resi più vulnerabili dalle continue privazioni, inevitabile prezzo da pagare in una vita spesa sui campi di battaglia. E a dare il colpo di grazia al già fatiscente impero - sottolinea Harper - furono le pestilenze, la cui propagazione fu alimentata dalla vertiginosa crescita del numero della popolazione, non solo a Roma, ma anche nelle zone limitrofe, ovvero nelle campagne che, col declinare dell’impero, non vennero più adeguatamente bonificate come invece accadeva nei giorni di gloria.
In particolare - sostiene lo storico - a sbaragliare ogni forma di resistenza fu lo Yersinia pestis, che corrisponde alla moderna accezione di peste bubbonica. Un inquietante intreccio di morbi e di germi invase vaste regioni dell’impero mietendo, senza pietà, lutti e devastazione. I romani - ricorda Kyle Harper - avevano saputo come sconfiggere i nemici, anche perché aveva saputo imparare dalle lezioni derivanti dalle sconfitte subite. Ma non avevano le conoscenze e i mezzi adeguati per fronteggiare le ricorrenti pestilenze che certo potevano “approfittare”, per attecchire e poi infuriare, anche della mancanza di social distancing, misura certo non praticabile visto che i romani solevano vivere in ambienti molto ristretti e in accampamenti sovraffollati.
NOTA:
L’Impero romano e la ragione nascosta della sua caduta: una questione "filologica", epocale! L’ "In principio era il logos" (e sulla testa di tutti e di tutte, c’era la corona-virtus) diventa piano-piano l’ "In principio era il Logo" (e sul capo c’era il coronavirus)!!!
Federico La Sala
LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, LA FEDELTA’ ALL’ AMORE DI HEIDEGGER ED HANNAH ARENDT, LA FINE DI UN MONOTEISMO CIECO E ZOPPO E LA COMUNITA’ CHE VIENE ... *
A) - UNA CASA DI CURA, UN OSPEDALE DA CAMPO: [...] Proprio un totalitarismo apolitico ed economico - fondato su una idea di soggetto come arbitrario e indefinito dispiegamento delle proprie potenzialità - ha impedito sinora di far fronte a tali questioni. Come la pandemia, si tratta di sfide che minano la sopravvivenza. Il virus ha scoperchiato il tetto e ci ha rigettato nella storia. Si può dunque iniziare da qui: dalla condizione storica in cui ci troviamo, che non è regredibile, e che è quella che la biopolitica analizza con acume. Se è vero che il potere sovrano si rivolge sempre più ai corpi, trovando un paradigma nell’oikos o nel campo, allora la “comunità che viene”, costituita da libertà non pure e astratte, ma malate e inchiodate a questi corpi, non potrà che iniziare a costituirsi nella forma di una casa di cura, o di un “ospedale da campo.” ( Francesco Valerio Tommasi, “Curarsi di. Una libertà inchiodata al corpo e alla storia”, Le parole e le cose, 14 aprile 2020);
B) - “UN NUOVO INIZIO”: “[...] Ma rimane altresì vero che ogni fine della storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico «messaggio» che la fine possa presentare. L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. «Initium ut esset, creatus est homo», dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo” (Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, Edizioni di Comunità, Milano 1996);
C) - ANTROPOLOGIA: KANT E LA RISCOPERTA DEL CORPO, LA RICERCA DI ENZO PACI SULLA NASCITA e la “fedeltà all’amore” di HEIDEGGER e ARENDT;
D) - CORONAVIRUS O SOVRANITA’ ( “CORONA VIRTUS”) ?! FILOLOGIA: ECCE HOMO! Ad evitare problemi di un cieco e zoppo monoteismo teologico-politico e biologico e uscire dal letargo e dalla caverna, ricordare che Ponzio Pilato disse: “«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)”;
E) - LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
*
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ...
Chi è il mostro oggi? Il coronavirus, la Merkel, l’Europa o forse noi stessi?
di Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà *
In attesa di un picco che non arriva, chiusi nelle nostre case, attraversiamo giorni claustrofobici e interminabili. Perduti in noi stessi, ci aggiriamo nelle nostre abitazioni-prigioni come se queste fossero labirinti. Dalla mitologia greca riusciamo ad attingere, quasi sempre, un appiglio significativo al fine di evitare un panico illimitato, che può condurci ad azioni del tutto irragionevoli, quale quella ad esempio di spendere le giornate inseguendo il roboante susseguirsi di notizie e numeri (per dolo o colpa) poco chiari riguardo lo sviluppo della pandemia di Coronavirus. Cerchiamo perciò di conferire un senso alla claustrofobia, pure oggettiva, ragionando sull’accezione di mostro. Chi è il mostro oggi?
IL MINOTAURO CORONAVIRUS
Recependoci smarriti e intrappolati nel labirinto della nostra psiche, ci sovviene in mente il mito del labirinto di Cnosso, abitato dal Minotauro. Frutto della gelosia e punizione divina, il Minotauro è feroce, impietoso, mostruoso, pure sul piano figurativo: il suo corpo ricalca quello di un maschio/uomo, mentre la sua testa quella di un toro. Teseo si offre di uccidere il Mostro e vi riesce. Rimane il problema di uscire dal labirinto, problema che viene risolto grazie all’ingegnosità e intelligenza di Arianna, con il suo noto e semplice filo rosso. Molti possono ritenere che il Minotauro sia il Coronavirus, mentre le ricerche scientifiche somiglino al il filo d’Arianna: troveranno il vaccino e ci consentiranno di sopravvivere piuttosto bene anche al post-virus? In ogni caso, al cospetto del Coronavirus, il Minotauro pare mostruoso, in una misura decisamente inferiore. Il Minotauro, alla fin fine, esige da Atene solo sette ragazzini e altrettante ragazzine all’anno, mentre sulla strage causata dal Coronavirus, quando e se verrà sconfitto, il numero di persone morte si ipotizza assai alto a livello mondiale. Ed economicamente come ci ritroveremo? Cosa prevarrà nei sopravvissuti? Egoismo? Altruismo? Narcisismo? Individualismo? E che dire della possibile crescita esponenziale di populismi e nazionalismi?
LA MEDUSA GERMANIA-EUROPA
Sempre alla mitologia greca dobbiamo Medusa, mostro che a differenza di altri/e, è mortale e con un tratto specifico, ovvero una testa cinta soprattutto di serpenti. Siamo portati a credere che la “nostra” Medusa sia la Germania, in quanto pietrifica ogni generosità europea e che l’Europa ci salvERà. Invece, da qualche giorno, stiamo osservando il problema in modo diverso, dato che quest’Europa pare non risultare affatto Gli Stati Uniti d’Europa, ovvero una Repubblica Federale, composta da più membri (Stati), tra loro uniti. Occultare l’attuale realtà non serve a nulla, se non a precipitare in un pericoloso auto-inganno: un aspetto innegabile della realtà è il fatto che l’Unione Europea si è trasformata (grazie anche a una certa recente politica del nostro paese) in un coacervo di avidità nazionali, con in testa la Germania e i pochi Paesi “ricchi” e virtuosi Paesi, che mal tollerano gli “scapigliati” e “spreconi” cugini poveri e “meridionali”.
LA CICLOPICA MERKEL
Riflettiamo infine sulla narrazione politica di questi giorni che descrive una fredda nonché calcolatrice Merkel in quarantena dopo l’incontro con un medico, risultato positivo, mentre adotta rigide misure nei confronti dei tedeschi. E che lo stesso stiano facendo i suoi colleghi di mezzo Mondo (Gran Bretagna, USA, Olanda in ordine sparso). Occorre chiedersi perché, fino a poco fa, si siano tutti percepiti immuni dal virus. Siamo alle solite, o no? Merkel: un “mostro” che cavalca i “conformisti cervelli” tedeschi? Anche, ma forse ci dimentichiamo come negli anni la Germania abbia destinato più risorse del proprio PIL alla sanità rispetto ad altri Paesi (che hanno magari preferito “investire” in pensioni insostenibili) e come sia un Paese che non ha bisogno di impiegare esercito o forze dell’ordine per far rispettare regole e leggi anti pandemia.
“Questo Mostro - sempre così latente - dovrebbe renderci più umili. Invece la nostra debolezza ci conduce spesso ad affondare nella palude della paura e della tuttologia, per abbracciare una colpevole strategia comunicativa, di matrice politica, che ammicca tanto a una legittime angosce, tanto nell’antico amor di sé, da cui non ricaviamo alcun aiuto, né sostegno. Avendo perso il nostro filo rosso, aiutiamoci a volare più in alto per vedere insieme non il mostro, ma quale sia la via d’uscita dal labirinto.“. Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà
CHI E’ ALLORA IL MOSTRO?
Sarebbe preferibile ammettere che non riusciamo a conferire un nome al Mostro. Non solo la realtà è così complessa e non c’è un unico mostro/nemico, ma dobbiamo ammettere che il “colossale”, nonché più che ragionevole, consiste nel nostro palese coinvolgimento in una situazione di cui risulta difficile una “veduta a volo d’uccello”, più alta e serena, basilare al fine di discernere tra miti e realtà. Oggi è meglio sospendere giudizi univoci, mantenere la lucidità e nutrire dubbi piuttosto che sentenze.
Possiamo così affermare che il Mostro non è un virus, né un singolo Stato né un evento. Il Mostro risiede in noi e si alimenta dalle e nelle difficoltà e condizioni avverse. Cerchiamo di guardare ai Mostri finora elencati con uno sguardo a volo d’uccello: il coronavirus è probabilmente determinato da uno sviluppo umano non sostenibile e dal conseguente cambiamento climatico. L’egotismo tedesco rintraccia un terreno fertile in quella politica italiana che ha fatto schizzare la spesa pubblica e il debito per fini meramente populistici, non affatto ai fini della crescita sul medio-lungo termine del Paese. Dopo la clamorosa bocciatura della Costituzione, l’Europa ha perduto la propria generosità perché di fatto l’Europa sognata dai Padri fondatori oggi non esiste e non esiste a causa del prevalere di troppi sovranismi (anche nostrani) oggi recriminanti.
COME CURIAMO I NOSTRI MOSTRI?
Come ci insegnano i Miti greci, all’intelligenza, alla razionalità e a una qualche astuzia dobbiamo la salvezza dai nuovi e illimitati Mostri, che accompagnano le nostre esistenze dall’inizio dei tempi.
Nel presente momento di difficoltà ci si appella profusamente all’empatia, anche se sarebbe forse meglio richiamare il bisogno di compassione e sostegno reciproco. La differenza non è poca: si corre infatti il rischio di limitare il nostro potere di reazione a bandierine, canzoncine e disegni, ovvero alla tentazione di crogiolarsi nella sofferenza. Abbiamo invece bisogno di saper condividere tale sofferenza, il che, pur non rinnegando i limiti e le difficoltà dell’oggi, si situa all’opposto di azioni e linguaggi che generano panico nell’altro-da-sé. Il Coronavirus è sì il Mostro (o uno dei mostri) di turno, al pari di altre pandemie che ci hanno afflitto in passato, ma pure al pari dell’atomica, impiegata a fini militari, dell’11 settembre, dell’Isis, e via dicendo, il che dovrebbe farci riflettere con sulla nostra “universale” condizione errante, sulla finitezza umana, sull’impossibilità dell’onniscienza.
Questo Mostro - sempre così latente - dovrebbe renderci più umili. Invece la nostra debolezza ci conduce spesso ad affondare nella palude della paura e della tuttologia, per abbracciare una colpevole strategia comunicativa, di matrice politica, che ammicca tanto a legittime angosce, quanto all’antico amor di sé, da cui non ricaviamo alcun aiuto, né sostegno. Avendo perso il nostro filo rosso, aiutiamoci a volare più in alto per vedere insieme non il mostro, ma quale sia la via d’uscita dal labirinto.
Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà, 1° aprile 2020 - dalla Quarantena ("amanutricresci").
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Un immaginario diverso
di Franco Lorenzoni *
Trovo profondamente errato e fuorviante il continuo riferimento alla guerra che si fa in queste settimane. Contrastare una pandemia e combattere una guerra sono due azioni che non hanno nulla a che vedere. La guerra, qualsiasi guerra, si fonda sull’assassinio e la soppressione del nemico, il contrasto a un virus letale può contare solo sulla cura, la ricerca scientifica, comportamenti coerenti che fermino il contagio. Inoltre, come ha giustamente notato un ragazzo, “ai nostri nonni e bisnonni, un secolo fa, veniva imposto di partire per il fronte e finire carne da macello in trincea, a noi si chiede solo di stare chiusi in casa su un divano: c’è una bella differenza”.
Di comune c’è solo la presenza di donne e uomini che rischiano la vita, anche se in guerra affrontano il pericolo per uccidere nemici e bombardare innocenti, mentre in ospedale o visitando pazienti, infermieri e medici rischiano prendendosi cura e cercando di salvare più vite possibili.
Questa metafora, sbagliata e abusata, non la dobbiamo tuttavia dimenticare. Quando si dovrà decidere come e cosa ricostruire per uscire da una crisi economica che si annuncia devastante, dovremo ricordare con lucidità che per difenderci da possibili e probabili nuove pandemie, per affrontare le gravissime conseguenze del surriscaldamento globale che provoca già oggi milioni di profughi e vittime per siccità, inondazioni e fame, sarà necessario mettere al centro di ogni rinascita futura la necessità e il valore della cura reciproca, della ricerca scientifica, dell’arte e della cultura intese nel senso più ampio. Dovremo ricordare che le spese militari e i soldi per acquistare armi sono del tutto inutili per affrontare le enormi sfide che abbiamo di fronte, perché delle forze armate abbiamo constatato che le uniche armi utili sono gli ospedali da campo montati dagli alpini e da altri reparti militari.
Ancora una volta è parso evidente che dell’esercito può essere utile solo ciò che non è esercito: infermieri e medici militari che, invece di addestrarsi a usare armi per ferire, si sono formati per curare ferite.
È tempo di ripensare con radicalità a ciò che davvero ci può difendere, riprendendo le intuizioni di Alexander Langer riguardo alla formazione in Europa di corpi civili di pace. Un solo sommergibile costa più di 5.000 posti letto di terapia intensiva, ha giustamente ricordato Gino Strada, che di guerre e ospedali ne sa qualcosa.
Abbiamo sicuramente bisogno di più posti letto e ospedali migliori in ogni regione del nostro paese, dunque non potremo più tollerare tagli alla sanità pubblica. Abbiamo bisogno di più scienza e ricerca, quindi migliori università e ricercatori pagati degnamente, abolendo ogni numero chiuso per l’accesso alle facoltà. Abbiamo bisogno di una scuola più ricca, aperta e di qualità, con insegnanti in continua ricerca e formazione per riuscire finalmente a dare a tutte le ragazze e ragazzi la possibilità di terminare con successo i loro studi. Dovremo cercare di aumentare considerevolmente il numero dei laureati, che ha percentuali ridicole nel nostro paese, e affrontare di petto la ferita sociale della dispersione scolastica perché la povertà educativa, che è drammatica fonte di discriminazione sociale, va contrastata con politiche coerenti e l’impegno di ciascuno in ogni campo - dall’educazione alla formazione, all’arte e alla cultura diffusa nel territorio - perché la scuola da sola non ce la può fare (leggi anche il Manifesto dell’educazione diffusa, ndr)..
Lo sconcerto planetario di fronte a una tragedia della pandemia, che sta coinvolgendo miliardi di esseri umani, offre una straordinaria lezione a tutti noi e ci ricorda che l’alternativa è, davvero, tra istruzione e distruzione, tra scienza, conoscenza lungimirante, capacità di cura reciproca e passiva rassegnazione a modi di produrre, accumulare ricchezze, costruire e abitare che portano alla distruzione del territorio e dei fragili equilibri del pianeta che abitiamo. Naomi Klein sostiene che
E allora è alle idee che circolano che dobbiamo prestare tanta attenzione quanta ne stiamo prestando al virus letale che attenta alle nostre vite. Ciascuno di noi - in particolare chi insegna - dovrebbe fare ogni sforzo per mantenere viva l’attenzione al linguaggio. Possedere un linguaggio per narrare questo tempo straordinario, tanti linguaggi per ragionare e provare a capire ciò che sta accadendo, è il più grande dono che la scuola deve tentare di offrire (anche a distanza) a bambine e bambini, a ragazze e ragazzi che stanno vivendo momenti che ricorderanno tutta la vita. Questo tempo straordinario non sarà dimenticato, ma non lo si può comprendere davvero senza matematica e statistica, senza intendere qualcosa di biologia e di chimica.
Stiamo assistendo a eventi inimmaginabili e spaventosi e, come tutto ciò che è spaventoso, porta in sé elementi sconcertanti ed eccitanti. Chi ha mai visto le strade di New York deserte? Chi ha mai visto la propria città vuota e silenziosa? E allora cercare e affinare linguaggi che ci permettano di vivere con intensità e pensare con coscienza e profondità questo tempo che stiamo vivendo è più che mai necessario per nutrire la nostra memoria. E la memoria è tutto. Noi siamo la nostra memoria.
Guardarci dalle metafore che informano il nostro sentire ci aiuta non solo a fare esperienza con maggiore consapevolezza, ma anche a provare a immaginare una società capace di contrastare le malattie e catastrofi che ci attendono.
Nessuno avrebbe immaginato, solo due anni fa, che la cocciuta coerenza di una ragazza quindicenne avrebbe potuto scatenare una protesta giovanile mondiale per il clima, che non ha ancora prodotto risultati ma ha scosso le coscienze, ricordandoci quanto sia necessario rivedere la categoria dell’impossibile.
Solo allargando il nostro immaginario e cimentandoci in un cambio radicale di paradigma possiamo ritrovare le radici della speranza.
* Comune-info, 05 Aprile 2020 (ripresa parziale).
UN SONNAMBULISMO DI LUNGA DURATA: VIVERE NELLA CAVERNA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS....
Nota a margine di "Il virus e l’inconscio. Diario di una quarantena" (di Sergio Benvenuto) *
FINALMENTE, E PIANO PIANO, EMERGE LA RADICALE CONSAPEVOLEZZA CHE “NOI” VIVAMO all’interno della “caverna”, dopo la “caduta”, e che uscire dal “letargo” (cf. Dante) è sempre più urgente. L’immaginario platonico-hegeliano ha esaurito ogni sua risorsa. L’orizzonte “andrologico” adamitico (e “ginecologico” eva-itico!) si va a chiudere, definitivamente:
«Attualmente politici, filosofi, moralisti, giornalisti, ripetono in Italia la stessa cosa: “Questa sarà un’occasione per renderci migliori!” Ricorrente idea consolatoria: pensare che se si attraversano catastrofi, tragedie, guerre, flagelli, poi si sarà migliori. Le traversie temperano il carattere, si diceva un tempo. [...] Attribuire agli umani tutti i mali è l’altra faccia di quella divinizzazione dell’Uomo (che risale a Pascal) che la filosofia più moderna ha denunciato: se si pensa che l’essere umano sia nel fondo potente come Dio, si penserà anche che possa avere la malvagia onnipotenza di Satana. Ma gli uomini non sono né Dio né Satana. »(SERGIO BENVENUTO - "Il virus e l’inconscio", cit., sopra)
SE CONSIDERIAMO CHE LA “SCIENTIFICA” TEO-LOGIA CATTOLICA COSTANTINIANA condivide ancora la “verità rivelata” dal cardinale Dario Castrillon Hoyos: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” (dichiarazione alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio , “la Repubblica” del 17 novembre 2000, p. 35), -E CHE LEGGIAMO E INTERPRETIAMO l’ antropologico “Ecce Homo” di Ponzio Pilato ancora in temini “andrologici” e” viro-logici” (cf. il saggio “Ecce” di C. Ginzburg, in “Occhiacci di legno”; e il recente lavoro di S. Natoli su “L’uomo dei dolori”), ALLORA è più evidente che viviamo ancora NEL PASSATO, NELLA PREISTORIA, e che LA RISATA DI KANT ha ancora un carico di energia per svegliarci dal letargo, far crollare le pareti della caverna, e portarci fuori da millenni di labirinto (Nietzsche). Ricordiamo, su questo tema, anche la lezione di Elvio Fachinelli. O no?! Boh e bah?!
*
Europa
David Quammen: «Questo virus è più pericoloso di Ebola e Sars»
L’intervista. L’autore di «Spillover» (Adelphi, 2014) spiega il nesso tra uomini e pipistrelli. E perché la pandemia dipende soprattutto da noi
di Stella Levantesi (il manifesto, 25.03.2020)
Otto anni fa, nel 2012, il divulgatore scientifico e autore David Quammen ha scritto nel suo libro Spillover (Adelphi, 2014), una storia dell’evoluzione delle epidemie, che la futura grande pandemia («the Next Big One») sarebbe stata causata da un virus zoonotico trasmesso da un animale selvatico, verosimilmente un pipistrello, e sarebbe venuto a contatto con l’uomo attraverso un «wet market» in Cina.
Ma non si tratta di una profezia, Quammen è arrivato a queste conclusioni attraverso ricerche, inchieste e interviste accompagnate dai dati scientifici degli esperti.
Dalla sua casa in Montana, Quammen ci aiuta a comprendere meglio la pandemia di coronavirus, la sua genesi e il suo sviluppo.
Come avviene lo «spillover»?
Spillover è il termine che indica quel momento in cui un virus passa dal suo «ospite» non umano (un animale) al primo «ospite» umano. Questo è lo spillover. Il primo ospite umano è il paziente zero. Le malattie infettive che seguono questo processo le chiamiamo zoonosi.
Una delle sezioni del suo libro si chiama «Tutto ha un’origine», in che modo la distruzione della biodiversità da parte dell’uomo e l’interferenza dell’uomo nell’ambiente creano le condizioni per la comparsa di nuovi virus come il coronavirus?
Nei nostri ecosistemi si trovano molti tipi diversi di specie animali, piante, funghi, batteri e altre forme di diversità biologica, tutte creature cellulari. Un virus non è una creatura cellulare, è un tratto di materiale genetico all’interno di una capsula proteica e può riprodursi solo entrando all’interno di una creatura cellulare.
Molte specie animali sono portatrici di forme di virus uniche. Ed eccoci qui come potenziale nuovo ospite. Così i virus ci infettano. Così, quando noi umani interferiamo con i diversi ecosistemi, quando abbattiamo gli alberi e deforestiamo, scaviamo pozzi e miniere, catturiamo animali, li uccidiamo o li catturiamo vivi per venderli in un mercato, disturbiamo questi ecosistemi e scateniamo nuovi virus.
Poi siamo così tanti - 7,7 miliardi di esseri umani sul pianeta che volano in aereo in ogni direzione, trasportano cibo e altri materiali - e se questi virus si evolvono in modo da potersi trasmettere da un essere umano all’altro, allora hanno vinto la lotteria. Questa è la causa alla radice dello spillover, del problema delle zoonosi che diventano pandemie globali.
La distinzione tra zoonosi e non zoonosi aiuta in qualche modo a spiegare perché l’uomo ha sconfitto certe malattie e non altre? In altre parole, è più difficile “curare” le zoonosi? E se sì, perché?
Sì, è così. Il 60% delle malattie infettive umane sono zoonosi, cioè il virus è stato trasmesso da un animale in tempi relativamente recenti. L’altro 40% delle malattie infettive proviene da altro, da virus o altri agenti patogeni che si sono lentamente evoluti nel tempo insieme all’uomo.
Quindi possiamo sradicare le non zoonosi, il cui virus si è adattato solo a noi e non vive in altri animali. Il caso più famoso è il vaiolo, che abbiamo sradicato e ora esiste solo nei laboratori e non circola nella popolazione umana. Siamo riusciti a farlo perché non vive anche negli animali.
Se il vaiolo vivesse in un pipistrello o in una specie di scimmia, allora non potremmo liberarcene nella popolazione umana se non ce ne liberassimo anche in quell’animale, dovremmo uccidere tutti quei pipistrelli o curare anche loro dal vaiolo.
Ecco perché possiamo sradicare una malattia come il vaiolo ed è per questo che alla fine non potremo mai sradicare una zoonosi, a meno che non uccidiamo gli animali in cui vive.
Quindi, se un virus ci arriva dai pipistrelli, qual è la soluzione? Dovremmo uccidere tutti i pipistrelli?
No, la soluzione è lasciare i pipistrelli in pace, perché i nostri ecosistemi hanno bisogno dei pipistrelli.
Riguardo ai pipistrelli, il fatto che siano mammiferi come gli esseri umani rende più facile la trasmissione del virus da loro a noi? È proprio perché siamo entrambi mammiferi che lo «spillover» è più probabile?
Sì, è così. Molti dei virus che hanno causato le zoonosi negli ultimi 60 anni hanno trovato il loro ospite nei pipistrelli. Sono mammiferi come noi e i virus che si adattano a loro hanno più probabilità di adattarsi a noi rispetto a un virus che è in un rettile o in una pianta, per esempio.
La seconda ragione è che i pipistrelli rappresentano un quarto di tutte le specie di mammiferi sul pianeta, il 25%. È naturale, quindi, che sembrino sovra rappresentati come fonti di virus per l’uomo.
Ci sono un altro paio di cose oltre a questo che rendono i pipistrelli ospiti più probabili, vivono a lungo e tendono a rintanarsi in enormi aggregazioni. In una grotta, potrebbero esserci anche 60.000 pipistrelli e questa è una circostanza favorevole per far circolare i virus.
C’è un’altra cosa che gli scienziati hanno scoperto da poco: il sistema immunitario dei pipistrelli è più tollerante ad «estraneità» presenti nel loro organismo rispetto ad altri sistemi immunitari.
Da quanto ho capito le epidemie della storia non sono indipendenti l’una dall’altra ma, in qualche modo, sono collegate e ricorrenti per i motivi di cui abbiamo parlato prima, quindi dove vanno a finire i virus quando non presentano una minaccia diretta agli esseri umani?
Questa epidemia è talmente diffusa che potrebbe non scomparire del tutto, ma provo a fare un esempio diverso: l’Ebola nel 2014 in Africa occidentale. Non conosciamo ancora l’ospite con certezza ma sospettiamo che si tratti di pipistrelli. Si scatena un’epidemia che uccide migliaia di persone, medici e scienziati rispondono alla minaccia e finalmente rallentano l’epidemia che poi sparisce. Dove va a finire il virus? Se ne va? No, è ancora nell’ospite.
I virus non tornano dall’essere umano all’ospite ma il virus continua a risiedere nell’ospite. E questo è ciò che accade con la maggior parte di queste epidemie. Arrivano, colpiscono gli esseri umani, le persone soffrono, muoiono, gli esperti sanitari rispondono, l’epidemia viene messa sotto controllo, l’epidemia scompare e poi passano diversi anni prima che si ripeta. Dov’è il virus nel frattempo? È nell’ospite.
C’è una correlazione tra l’aumento del tasso di inquinamento in alcune zone e un impatto più forte del virus sulla popolazione di quella zona?
Sì, penso che ci possa essere una correlazione tra l’inquinamento dell’aria e i danni ai polmoni e alle vie respiratorie delle persone e quindi la loro suscettibilità a questo particolare virus. Credo che questa sia una domanda importante. Non abbiamo ancora risposte certe ma è una domanda che merita ricerca e attenzione.
È del tutto possibile che il danno ai polmoni delle persone, anche quando non si nota in circostanze normali, possa essere presente e sufficiente a renderle più vulnerabili a questo virus.
Un altro aspetto è che i sintomi arrivano più tardi del contagio. Quindi non c’è nessun allarme da parte dell’organismo che dice: «Sei infetto». Questo può rendere il Covid-19 più pericolosa di altre malattie che mostrano i sintomi prima?
Sì, la rende più pericolosa. Credo di aver scritto in Spillover che siamo stati fortunati con la Sars perché era un virus molto pericoloso: si diffondeva facilmente da un essere umano all’altro e aveva un alto tasso di mortalità, quasi il 10%, eppure, sarebbe stato peggio se le persone fossero state contagiose ancor prima di manifestare i sintomi. E ho scritto: «Dio non voglia che avremo a che fare con un virus grave come la Sars che si diffonde dalle persone prima che si vedano i sintomi». In questo momento abbiamo esattamente questo caso di virus.
Dicono che quando un proiettile ti colpisce non senti mai il colpo, perché il proiettile arriva prima e poi il suono arriva dopo. Questo virus funziona così.
Ho notato che la disinformazione scientifica che riguarda il coronavirus ha molti punti di contatto con le dinamiche della disinformazione climatica. Qual è la sua opinione al riguardo? E quanto è importante affrontare la disinformazione scientifica?
È estremamente importante affrontare la disinformazione scientifica. C’è sicuramente una sovrapposizione rispetto al cambiamento climatico. Ci sono persone che sono impazienti, arrabbiate e poco informate. Ricevono notizie da fonti inaffidabili e hanno appetito per una forma negativa di eccitazione. Hanno più interesse per le cospirazioni che per la scienza. La disinformazione si diffonde facilmente.
Dov’è la soglia limite tra l’offerta di notizie accurate, credibili, trasparenti e accessibili a tutti e il bombardamento continuo di “notizie” sul virus?
Esiste un limite e di informazione può essercene troppa. Viviamo in un mondo dove i media sono attivi 24 ore su 24 e vogliono aggiornamenti e occhi. Vogliono che la gente consulti la loro piattaforma perché hanno qualcosa un minuto prima di un’altra. È un tipo di competizione che non fa bene a nessuno - a parte agli azionisti della piattaforma stessa. Quindi penso che noi, come consumatori di notizie, dobbiamo resistere all’ossessione di sapere quale sia l’ultimo dato, l’ultimo caso, l’ultima notizia dell’ultima ora.
Dobbiamo seguire l’informazione sul virus, prestare attenzione al problema ma abbiamo bisogno anche di altre cose. Abbiamo bisogno di una copertura sul coronavirus che approfondisca le cause e gli effetti, ma anche di storie che non riguardino il coronavirus. Abbiamo bisogno di musica, di comicità, di arte, di persone che parlano di libri - e non solo del mio.
Che ruolo ha il sentimento di paura nelle dinamiche di comportamento collettivo durante una pandemia?
La paura è umana ed è naturale. Ma non è utile. Dobbiamo imparare di più su questo virus e prendere misure adeguate per controllarlo. Dobbiamo stare attenti, poi, che l’allontanamento sociale e l’autoisolamento non portino all’allontanamento emotivo e non cominciamo a vedere l’altro come una minaccia o un nemico. Quindi distanza sociale sì, ma con una connessione emotiva.
Cosa possiamo imparare da questa pandemia?
Prima di tutto possiamo imparare che le zoonosi possono essere molto pericolose e costose e dobbiamo essere preparati nell’affrontarle. Dobbiamo spendere molte risorse e molta attenzione nella preparazione.
Più posti letto in ospedale, più unità di terapia intensiva, più ventilatori, più mascherine, più formazione del personale sanitario, più formazione degli scienziati. Studiare piani di emergenza a livello locale, regionale, nazionale e tutto questo costa denaro.
L’altra cosa che dobbiamo imparare è che il modo in cui viviamo su questo pianeta ha delle conseguenze, delle conseguenze negative. Noi dominiamo questo pianeta come nessun’altra specie ha mai fatto. Ma ci sono conseguenze e alcune prendono la forma di una pandemia da coronavirus. Non è una cosa che ci è capitata. È il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo. Tutti ne siamo responsabili.
Ovviamente nessuno conosce davvero la risposta a questa domanda, ma come vede il mondo dopo il coronavirus? Cosa pensa che cambierà per le società e per la vita delle persone?
Spero che alla fine anche persone come Donald Trump imparino a prendere sul serio queste cose. Dobbiamo fare degli aggiustamenti. Potrebbe essere che inizieremo a ridurre il nostro impatto in termini di clima, di tutti i combustibili fossili che bruciamo, in termini di distruzione della diversità biologica, di invasione dei diversi ecosistemi. Forse cominceremo ad avere un passo più attento e più leggero su questo pianeta. Questo è quello che spero, ed è l’unico bene che può venire da questa esperienza.
Il sito dell’autrice è stellalevantesi.com. Sul manifesto in edicola il 25 marzo 2020 è stata pubblicata una versione ridotta di questa intervista. La versione in inglese è sul manifesto global.
Il riscaldamento globale al tempo del coronavirus
di GIUSEPPE DI CAPUA e SILVIA PEPPOLONI*
Il coronavirus (Covid19) ha eclissato la comunicazione e il dibattito nei media sul riscaldamento globale, i cambiamenti climatici, l’economia verde, le minacce antropiche agli ecosistemi, l’inquinamento da plastiche negli oceani, ed altro ancora.
Il dato aggiornato al 16 gennaio 2020 del livello di CO2 atmosferica, misurato al Mauna Loa Observatory nelle Hawaii, segna un nuovo incremento, raggiungendo il valore di 413 parti per milione.
Il mondo è giustamente spaventato dal coronavirus e dalle conseguenze sanitarie di una pandemia rapida e ancora parzialmente ignota. L’economia globale è entrata in una fase di crisi che potrebbe addirittura avere conseguenze superiori alla grande crisi del 2007-2009. Le catene di approvvigionamento mondiali in grado di spostare rapidamente enormi flussi di energia e materia da una parte all’altra del pianeta si sono bruscamente interrotte o hanno ridotto la loro capacità operativa. Crolla il prezzo del petrolio per ragioni legate anche a strategie economiche e geopolitiche guidate dal alcune nazioni produttrici: questo renderà il greggio una fonte energetica ancora più appetibile per far ripartire l’economia nel breve futuro, ricordandoci ancora una volta che la storia energetica dell’umanità non è fatta di transizioni, ma di addizioni energetiche (Bonneuil e Fressoz, 2019) e che nei prossimi anni occorrerà aspettarsi una modifica del mix energetico utilizzato dalle società umane (con un incremento delle fonti rinnovabili di energia), piuttosto che un completo abbandono delle fonti fossili.
L’unica notizia di rilievo, ripresa ampiamente dai social media e dai media tradizionali in tema ambientale, è la riduzione dell’inquinamento in Cina da biossido di azoto (NO2), un gas prodotto dalla combustione ad alta temperatura che provoca forte irritazione polmonare. La riduzione sembrerebbe essere dovuta in larga parte al blocco delle attività industriali e alla drastica riduzione del trasporto veicolare per effetto delle misure di contenimento della diffusione del Covid19. Anche nella Pianura Padana, area tra le più inquinate d’Europa, la riduzione dell’inquinamento da NO2 per il rallentamento dell’economia mostra una chiara evoluzione.
Il riscaldamento globale e tutti gli effetti associati sono quasi scomparsi dai media. Eppure non c’è da essere meno preoccupati della pandemia in corso, come fa notare il meteorologo Luca Mercalli in una recente intervista. Mario Tozzi su La Stampa collega l’epidemia in atto ai danni ambientali antropogenici. Allo stesso modo fa Simona Re sulla rivista Micron per la quale “clima e salute viaggiano in tandem” rifacendosi a quanto afferma il direttore dell’Istituto di Genetica molecolare del CNR-IGM di Pavia per spiegare la maggiore frequenza delle epidemie negli ultimi decenni. Del resto sempre Simona Re fa notare che “la sovrappopolazione e la crescente frequenza e rapidità dei nostri spostamenti sono fattori di rischio per lo scatenarsi di un’epidemia”.
Una cosa è certa: nella comune percezione il riscaldamento globale in questo momento non è un problema. D’altro canto, su La Stampa Jacopo Pasotti riflette sulle differenze nella risposta umana alla crisi ambientale e a quella sanitaria per pandemia, affermando che “dopo decenni di indifferenza”, l’emergenza climatica “sta forse cominciando a generare una comunque tiepida preoccupazione”.
In ogni caso, l’odierno atteggiamento generale delle persone verso l’emergenza climatica è del tutto comprensibile, viste anche le differenti scale temporali su cui gli effetti del coronavirus (da pochi giorni a qualche mese) e del riscaldamento globale (da qualche anno ad alcuni decenni) si sviluppano.
Ma come scrive Francesca Mancuso su greenMe, richiamandosi alle affermazioni di Antonio Guterres, Segretario Generale dell’ONU, e di Petteri Taalas (segretario generale dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale) per i quali i cambiamenti climatici sono mortali, più del coronavirus, “Sembra incredibile agli occhi di un italiano, costretto a casa per paura del contagio, eppure il riscaldamento globale ci riguarda da vicino e può mettere a repentaglio la nostra vita e quella delle generazioni future”.
Di certo l’emergenza del Covid19 insegna, o meglio conferma, alcune riflessioni già emerse da alcuni anni nell’ambito della geoetica (etica per la gestione dell’interazione tra gli esseri umani ed il sistema Terra) (Peppoloni e Di Capua, 2020), utili proprio per affrontare la crisi ambientale in corso:
1) I comportamenti individuali fanno la differenza nell’affrontare anche le crisi globali. Alla base della catena di azioni che una società deve mettere in atto per risolvere i suoi problemi, c’è sempre il singolo individuo, chiamato a confrontarsi con il senso di responsabilità verso se stesso, gli esseri umani più prossimi, la società come comunità ampia delle relazioni umane.
2) Le responsabilità personali, inter-personali e verso la società sono fondamentali per vivere in salute e sicurezza in una società globalizzata, fortemente interconnessa.
3) La responsabilità di ciascuno verso il sistema Terra, implica il rispetto dei sistemi socio-ecologici (Berkes e Folke, 1998; Ostrom, 2009). La disattenzione e l’azione umana violenta nei confronti degli ecosistemi hanno l’effetto di accrescere l’esposizione e quindi il rischio di tutte le comunità umane a fenomeni imprevedibili che possono mettere a repentaglio l’attuale strutturazione della società globalizzata, portandola ad un collasso sistemico.
Da queste riflessioni, derivano alcune considerazioni etiche e sociali generali:
a) L’individuo non può sottrarsi dal confrontarsi con il proprio senso di responsabilità articolabile nei quattro domini etici dell’esperienza umana: il sé, la relazione prossimale con gli altri nelle comunità sociali di riferimento, la società per esteso, il sistema Terra da intendersi come aggregato complesso di sistemi socio-ecologici. Il comportamento irresponsabile anche di un solo individuo può generare nel tempo una crisi sistemica planetaria.
b) Le catene di approvvigionamento globale devono essere riprogettate per aumentare la resilienza in caso di shock. Una loro ridefinizione non può prescindere dall’intervento di “progettisti”/operatori capaci di pensare in modo sistemico e provvisti di una cultura del rischio non solo di tipo economico. La vulnerabilità dei sistemi integrati non è questione affrontabile semplicemente in termini ingegneristici, poiché si alimenta di fattori imprevedibili che sono noti, studiati e valutati da numerose discipline, tra cui la medicina e le geoscienze (o scienze della Terra). Una pandemia o un disastro innescato da un fenomeno naturale non sono imponderabili fenomeni della natura, ma eventi di cui è possibile quantificare incertezza e probabilità di accadimento e di impatto. L’approccio multidisciplinare alle questioni globali è una prassi da attuare con urgenza.
c) La creazione di una governance internazionale, chiara e strutturata preventivamente in campo sanitario e ambientale, non è più procrastinabile, ma impone scelte politiche all’interno degli stati nazionali e tra essi per favorire l’integrazione delle decisioni che impattano un sistema umano ormai globalizzato, a dispetto di azioni che si riferiscano solo a localismi e particolarismi. La diversità va tutelata, ma non totemizzata. Non si può continuare a posticipare una governance necessaria per affrontare una possibile grande crisi sistemica globale che in un non lontano futuro potrà interessare tutto il pianeta, se le attuali generazioni umane non saranno state in grado di prendere decisioni drastiche ed efficaci per ridurre gli impatti globali antropogenici.
d) Per la prima volta nella storia, l’umanità è chiamata a realizzare un quadro di riferimento di principi e di valori comuni che sappiano andare oltre la Carta dei Diritti dell’Uomo per diventare una Carta per lo Sviluppo Umano Responsabile, in grado di integrare in uno stesso orizzonte ideale la dimensione individuale e sociale della responsabilità umana e farsi prassi attraverso un sentimento di comune appartenenza di specie.
e) La modifica dei paradigmi economici, sociali e politici richiesti per dare una concreta ed efficace risposta ai problemi antropogenici globali ha bisogno di un cambiamento anche culturale nella società. Non è solo con leggi e provvedimenti che verrà impostato il cambiamento necessario. Occorre rendere i cittadini consapevoli e responsabili con un’azione sul piano educativo. Questo significa che nei prossimi anni gli investimenti nei sistemi scolastici, oltre che nella ricerca, dovranno costituire un obiettivo prioritario dell’azione dei governi. Il diritto non può sostituirsi all’educazione in una civiltà avanzata, specie se democratica.
f) Merito e competenza sono valori che devono essere messi al centro di un nuovo patto sociale tra i cittadini. Mai come in questo momento di emergenza sanitaria, chiunque esige risposte affidabili ed autorevoli da coloro che conoscono i problemi da un punto di vista scientifico, pur con incertezza e lacune, e da coloro che devono prendere di conseguenza delle decisioni difficili per la collettività. Allo stesso modo, affrontare il riscaldamento globale e tutti i problemi ecologici planetari esige competenza, studio, aggiornamento professionale, cooperazione onesta, confronto leale, apertura al dialogo, e decisioni politiche che siano scientificamente fondate e attentamente soppesate attraverso il parere di scienziati e tecnici.
Il tempo dell’improvvisazione e del pressappochismo sta per finire.
*Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia
Riferimenti
Berkes F. and Folke C. (Eds.) (1998). Linking Social and Ecological Systems. Cambridge University Press, Cambridge.
Bonneuil C. e Fressoz J-B. (2019). La Terra, la storia e noi - L’evento Antropocene. Trad.: A. Accattoli e A. Grechi. Istituto della Enciclopedia Italiana, pag. XVII-367. ISBN: 978-8812007363.
Ostrom E. (2009). A General Framework for Analyzing Sustainability of Social-Ecological Systems. Science, vol. 325, pp. 419-422. doi:10.1126/science.1172133.
Peppoloni S. e Di Capua G. (2020). Geoetica e impatti globali antropogenici. In: Matione G. e Romanelli E. (a cura di): Il Corpo della Terra: La Relazione Negata. Castelvecchi Editore, Roma. ISBN 8832828715.
CORONAVIRUS E CIVILTA’: ENEA, SAN CRISTOFORO, E DANTE - OGGI:
La civiltà è Enea che porta Anchise sulle spalle
di Laura Marchetti (il manifesto, 24.03.2020)
«L’Italia vede decimata la generazione anziana, punto di riferimento per i giovani e per gli affetti». Le parole dette ieri dal presidente della Repubblica italiana, in maniera solenne e commovente, sembrano così voler far scudo contro quell’aberrante e diffusa convinzione, espressa in maniera più o meno sotterranea, che le morti così numerose non siano state poi così importanti perché riguardavano i vecchi, per di più già malati. Mattarella al contrario ci ricorda quale patrimonio siano i vecchi, come siano indispensabili per i bambini, proprio in quanto “rimbambiti”, ovvero anche loro bambini, disposti a giocare, a divagare, a trasgredire.
E come siano importanti per i giovani, per la possibilità che hanno di trasmettere loro antichi saperi, valori vissuti, comunitarie tradizioni, forme diverse di presa dello spazio e di percezione dei tempi. E come, in definitiva, siano importanti per ognuno di noi, perché nel tempo dell’effimero e dell’oblio, di fronte agli spettacoli e ai consumi, mostrano il valore degli affetti teneri, dei ricordi, della memoria e del compianto.
Le parole del presidente sono dunque dense di significato educativo ed esistenziale ma hanno anche un impatto politico radicale perché, per la prima volta, interrompono la filosofia eugenetica che è la pratica e lo spirito di questi insani tempi. Dal documento degli anestesisti spagnoli alla teorizzazione dell’immunità di gregge degli inglesi, fino alla sottrazione forzata dell’assistenza sanitaria accaduta in certi ospedali italiani, si teorizza la necessità, per la “medicina delle catastrofi”, di scegliere fra i vecchi e i giovani, come fra i deboli e i forti. Una scelta dovuta allo stato di eccezione e alla situazione estrema, tesa a sottrarre responsabilità alla coscienza personale, che porta però con sé la traccia indelebile di un giudizio di qualità dato alla vita, come se una vita - la più forte, la più abile - fosse solo per questo degna di essere mantenuta, mentre un’altra con più facilità dovrebbe essere rottamata.
In tale scelta gerarchica - che, perdurando lo stato di eccezione, potrebbe essere estesa anche a tutti i disabili e a tutti i fragili - si conserva il segreto del potere totalitario e della società “tanatologica”, la società di massa del ‘900 che si fonda su un continuo commercio con la morte.
Lo dice Elia Canetti in un libro magnifico e terribile scritto in anni bui e insani quasi come questi (Masse e Potere). In questa società tanatologica, potente diviene sia il capo, che acquisisce potere di morte, sia chi si distingue dalla morte sopravvivendo. La sopravvivenza è di per se stessa acquisizione di potere.
Chi è morto giace, sta per terra; chi sopravvive sta in piedi. Già solo questa collocazione spaziale rende “l’istante del sopravvivere, l’istante della potenza”, anche perché inconsciamente insorge la convinzione di una vera e propria “elezione”, una emozione comparativa che non risparmia nessun rapporto, nemmeno quello più affettivo, nemmeno quello con i figli o i genitori o i fratelli. Su questo senso di elezione si fonda dunque il totalitarismo, secondo Canetti. Ma, potremmo aggiungere, anche il capitalismo in quanto tale trasforma in Pil la sopravvivenza, poiché miglior produttori sono i vivi, cioè gli abili, i giovani, i forti.
C’è nel potere contemporaneo quindi, il persistere di una barbarie di fondo, una inciviltà. La civiltà si fonda invece al contrario e nasce quando Enea in fuga dall’incendio, porta con se il vecchio padre sulle spalle e, per mano, il giovane figlio. La pietà, che è la sua qualità esistenziale e la sua qualità sociale, lo spinge nell’aiutare, includere tutti, curare tutti, anche a scapito della propria sopravvivenza, del proprio potere.
Quella pietà è anche l’intelligenza della specie, in quanto la specie sopravvive, sottolineano i biologi della complessità, non nella lotta ma perché la madre continua ad allattare il figlio e perché gli uomini, anche quando vivono rintanati, non sono topi che si distruggono ma anzi si prestano soccorso.
Noi, nell’agenda delle cose che dobbiamo mettere in campo quando finirà la guerra e vorremmo fare il mondo nuovo, dovremmo mettere in campo la pietà. Fin da ora, in quanto già ora abbiamo due problemi. Il primo è quello di non morire, ma il secondo è quello di vivere civili.
UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo, sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini): oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE,OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS *, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino" ! O no?! -- *Federico La Sala
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Giornata mondiale delle Foreste, persa metà della superficie
Sos Wwf,ecosistemi antivirus del Pianeta, urgenti misure Ue 2021
di Redazione ANSA
(ANSA) - ROMA, 21 MAR - Oggi quasi la metà della superficie forestale che abbracciava e proteggeva il nostro Pianeta, non esiste più: si stima, infatti, che rispetto ai 6.000 miliardi di alberi che abbracciavano la terra all’inizio della rivoluzione agricola, oggi ne restino circa la metà, 3.000 miliardi. Solo la deforestazione produce dal 12% al 20% delle emissioni di gas serra e questo la rende una delle cause principali del riscaldamento globale.
Questo l’allarme lanciato dal Wwf nella Giornata mondiale delle Foreste. In un Rapporto appena pubblicato dal titolo ’Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi’, il Wwf evidenzia in particolare che "i cambiamenti di uso del suolo e la distruzione di habitat naturali come le foreste sono infatti responsabili dell’insorgenza di almeno la metà delle zoonosi emergenti".
"La deforestazione, spesso legata a pratiche illegali, agricoltura intensiva, zootecnia e cambiamenti climatici, sfocia nell’aumento esponenziale degli incendi", sottolinea l’associazione ambientalista nel rapporto Foreste. Dopo un 2019 di fuoco per Amazzonia, Bacino del Congo, Artico e Indonesia, l’inizio del 2020 ha visto l’Australia fronteggiare i roghi più catastrofici di sempre.
"Qui si stima che oltre un miliardo di animali siano morti nelle fiamme e più di 12 milioni di ettari siano andati in fumo. Non è più confortante la situazione dell’Amazzonia, dove abbiamo ormai perso più del 17% della superficie forestale e stiamo drammaticamente raggiungendo un punto di non ritorno (tipping point), che diversi autorevoli scienziati indicano intorno al 25% del complessivo ecosistema amazzonico distrutto: oltre questo punto le foreste non saranno più in grado di svolgere le loro funzioni ecologiche e potrebbero arrivare al collasso, lasciando dietro di séerosione, siccità e aride savane".
Il Wwf cita poi lo studio pubblicato sulla rivista Nature, illustrato da Wannes Hubau, ricercatore al Museo Reale dell’Africa centrale di Bruxelles, secondo il quale entro il 2040, "quello che attualmente rappresenta il polmone verde del nostro Pianeta potrebbe produrre più Co2 di quanta sia in grado di immagazzinare". E all’Europa il Wwf chiede "una nuova forte proposta di legge entro il 2021". (ANSA).
Leadership morale anglosassone in crisi.
Quell’aspra abdicazione
di Marco Tarquinio (Avvenire, martedì 17 marzo 2020)
Siamo tutti parte di una generazione di italiani e di europei cresciuta nel cono di luce dei miti anglo-americani. Stati Uniti d’America e Regno Unito di Gran Bretagna, Usa e Uk, nazioni plurali e sistemi politico-sociali “speciali” in grado di esprimere leadership eroiche ed efficaci nella vittoriosa resistenza ai totalitarismi del Novecento, di vegliare sul consolidamento e la piena riconquista di libertà e democrazia nell’Europa continentale e di seminare con senso politico e filantropico (questo più gli americani dei britannici) semi di solidarietà (magari un po’ ogm) e idee e modelli coinvolgenti. Regni di nome e di fatto - come nella favole e in natura - e percepiti, a torto o a ragione, come moralmente superiori rispetto a quelli del Vecchio Continente, anche quando prendevano letteralmente a sberle certa morale e politica latina e mitteleuropea. Ebbene, ecco il punto, non so quanti di noi, in piena crisi mondiale da coronavirus, oggi affiderebbero salute, vita dei più fragili, destino comune del mondo - o anche solo di quel pezzo di mondo che abbiamo imparato a chiamare Occidente - ai grandi capi di Londra e di Washington.
La realtà è che con incresciosaa determinazione e quasi all’unisono, facendo anche baruffa tra loro, i “titolari” della grandi democrazie anglosassoni hanno abdicato al ruolo ereditato. Hanno abdicato alla leadership morale. Una primazìa con conseguenze, interessi e responsabilità che sinora talvolta qualche leader pro-tempore aveva tradito o mal indirizzato, ma che nessuno mai era arrivato a fare pubblicamente a pezzi come è invece accaduto in questi giorni esigenti e tesi. Boris Johnson, premier britannico e ultimo (e improbabile) discendente della genìa di leader conservatori che ha in Winston Churchill il capostipite, ha impostato la battaglia d’Inghilterra contro il coronavirus con malthusiana, algida sufficienza: qualche centinaio di migliaia di cittadini - soprattutto anziani, disabili, già malati - che moriranno, non valgono per lui la scelta di tenere il più possibile al riparo un popolo-gregge che solo pagando il prezzo della “scrematura” si farà immune. -Donald J. Trump dopo aver fatto a lungo finta di nulla, forse illudendosi di aver avuto dal virus un assist decisivo nella guerra commerciale con la Cina, ha lasciato che il suo nome finisse impigliato in un’altra di quelle storie, storielle e storiacce affaristico-politiche che non ne hanno intaccato più di tanto la popolarità in patria, ma ne costellano sempre più la presidenza agli occhi dell’opinione pubblica mondiale.
La storia stavolta è quella di un presunto tentativo di deviare dalla Germania verso gli Usa, accaparrandosela, una delle più promettenti linee di ricerca del vaccino per Covid-19. Di certo c’è l’imbarazzante accusa e un subitaneo cambio al vertice della società coinvolta, imbarazzate smentite e l’approdo della questione sul tavolo di un redivivo G7 con un formale impegno a “globalizzare” la potenziale arma anti-coronavirus. Nessuno può far solo per sé e pensare solo a sé. Ovvio. Ma i cavalieri bianchi d’America e di Britannia stavolta non hanno galoppato in testa al gruppo, bandiere al vento, e neppure in mezzo. Ma ai lati, sovranamente concentrati su se stessi, e poco più.
Rieccoci al punto. Nei giorni della pandemia preconizzata da tempo eppure arrivata come tempesta improvvisa e devastante, proprio in questi giorni di disciplina e di timore, di generosità e di abnegazione da parte di sanitari e di semplici cittadini, di preti e di artisti, di uomini in divisa e di politici chi vorrebbe avere BoJo e “The Donald” come “capitani” nella battaglia? Chi sente un fremito di emozione alle parole e ai gesti del primo ministro di Sua Maestà britannica e del capo della Casa Bianca? Noi no. E che bene o male oggi, «nell’ora più buia», Churchill abiti più la mediterranea preoccupazione e responsabilità di Giuseppe Conte e dei suoi ministri e dei suoi interlocutori istituzionali di ogni colore, che quella del suo pro-pro-pronipote politico è segno del tempo. Dice che il mondo sta cambiando, e cambierà di più. Nessuno abdica mai per caso.
L’ “8 SETTEMBRE”, LA “CORONA-VIRUS”, E UNA “PACE PERPETUA”. Ora il “capro espiatorio” siamo noi, l’intero genere umano ...
ALLA LUCE DEL FATTO che i “vescovi fiorentini hanno vietato di scambiarsi il segno della pace durante il rito della messa”, che a “Lourdes hanno chiuso l’accesso alle acque miracolose”, “per CARITA’, UN LAICO ILLUMINISTA” (cfr. Mario Pezzella, “Sarà un 8 settembre?, "Le parole e le cose”, 11 marzo 2020) può pure compiacersi di “quanto la fede religiosa sia diventata un gadget turistico, che non regge di fronte a uno stato di necessità”, MA NON PUO’ CONTINUARE A “DORMIRE”, A PENSARE COME SE FOSSE TUTTO COME “PRIMA” E RIPROPORRE LA STESSA “MINESTRA”:
SE NON SAPPIAMO ANCORA che cosa significa “pensare dentro l’emergenza”, forse, è bene CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO”, E CERCARE DI CAPIRE COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA SUA LEZIONE.
A DISTANZA DI SECOLI, e dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Freud, e dopo Lacan e dopo Foucault (il Foucault di “Che cosa è l’Illuminismo?”, 1983/1984), continuiamo a non capire che il “capro espiatorio” non è un caprone (cfr. “La crisi dell’Europa. Note per una riflessione storiografica”), ma un montone, un ariete, venuto a portarci in salvo (cfr.: “Guarire la nostra Terra. Necessità di “pensare un altro Abramo”), non a “sacrificarsi” per noi!!! Al contrario, oggi, l’intero genere umano, “noi stessi” ci apprestiamo a fare da “capro espiatorio” - e, pronti per la “pace perpetua” (cfr. Fine della Storia o della “Preistoria”?), abbiamo già messo sulla “nostra” testa la “corona” del sacrificio! O no?!
Federico La Sala
Il capro espiatorio
di Pier Aldo Rovatti (*)
La nostra storia ha prodotto ininterrottamente capri espiatori. Minoranze, intere popolazioni, gruppi sociali e comportamenti sono stati stigmatizzati. La storia recente e contemporanea conosce vicende quasi impensabili come la persecuzione e l’eliminazione di milioni di ebrei durante il regime nazista, ma poi c’è un intero tessuto che continua a innervare il presente, anche là dove l’evoluzione sociale e il progresso materiale avrebbero dovuto cancellarlo, dallo stigma che ancora pesa sui folli o che non ha cessato di discriminare gli omosessuali e perfino le donne.
Oggi l’esempio più clamoroso è costituito dai migranti, sui quali riversiamo le nostre ansie considerandoli spesso alla stregua di orde barbariche che invadono la civile società in cui crediamo di vivere. Ma gli esempi possono moltiplicarsi, dalla paura che ormai ovunque possa celarsi un terrorista al semplice disagio con cui sperimentiamo la prossimità di chi ci appare diverso da noi e dunque capace di disturbare la nostra presunta identità.
Capri espiatori possono dunque essere intere popolazioni o anche singoli atteggiamenti, drammatici fenomeni sociali che si esprimono con un clamore generale oppure insidiosi fenomeni individuali che possiamo verificare nell’ambito ristretto e quotidiano delle nostre vite. Parlo di “capri espiatori” perché questa espressione, che ci arriva dalla notte dei tempi, non solo mantiene un senso fruibile nella sua esplicita chiarezza, ma anche perché, se ci fermiamo un momento a riflettere sulla sua provenienza e le sue implicazioni, ci può aiutare a orientarci dentro i nostri stessi problemi. La festività pasquale ci ha appena ricordato un indizio collegato al mondo cristiano e precisamente alla figura di Gesù Cristo che si sacrifica perché attraverso di lui i credenti rimettano le loro colpe. Al posto di un ispido caprone abbiamo in questo caso un grazioso ma altrettanto innocente agnellino a esercitare la funzione di animale simbolico.
L’ispido caprone o capro appare molto prima nelle parole della Bibbia intitolate al “Levitico”, cioè nel fondo della cultura ebraica e della sua mitologia. Se andiamo a leggere queste parole, scopriamo che in origine i capri sono due, uno il cui sacrificio ha una funzione espiatoria e un altro che svolge il ruolo di “emissario” e viene mandato a perdersi nel deserto, come se non bastasse la cerimonia dell’espiazione dei peccati o delle colpe degli uomini e occorressero quindi un supplemento e uno sdoppiamento, un prolungamento dell’espiazione affidata appunto a un emissario che porti con sé e disperda nello spazio e nel tempo queste colpe.
Ricordando l’origine dell’espressione, balza agli occhi che il significato che oggi le attribuiamo è molto distante, quasi antitetico. È sparita ogni pratica positiva di espiazione attraverso un tramite simbolico e al suo posto troviamo invece l’attribuzione della colpa a un altro soggetto che automaticamente diventa il colpevole. Costui viene caricato di ogni colpa grazie a un’identificazione abnorme. Il capro non era un soggetto o un insieme di soggetti da degradare, era invece un animale simbolico completamente innocente dotato di un formidabile potere espiatorio: esso era supposto possedere un’efficacia reale sullo sviluppo della presa di coscienza di se stessi. Oggi, il cosiddetto capro espiatorio è la vittima prescelta, il colpevole che sta al posto nostro, il nemico sul quale possiamo proiettare ogni male.
Rimando chi volesse entrare nella complessità della questione a un saggio che è ormai diventato un “classico” in proposito, Il capro espiatorio (titolo originale Le bouc émissaire) di René Girard, pubblicato nel 1982 (e tradotto da Adelphi nel 1999). A questo libro si è anche ispirato lo scrittore Daniel Pennac: “Malaussène”, il personaggio da lui inventato per costruirci attorno una serie di romanzi, comici e al tempo stesso seri, ambientati in un quartiere popolare di Parigi, è un capro espiatorio di professione. Pennac arriva anche a immaginare che in un ipermercato vi sia un ufficio dove la clientela possa liberamente esternare le sue lamentele a un funzionario (appunto Malaussène) che è lì proprio per dar ragione a tutti e assumersi ogni colpa. È un contrappasso letterario e sorridente di quanto accade nella dura realtà dei giorni nostri. Tra l’altro, dopo un lungo silenzio, Pennac riprende la sua saga con Il caso Malaussène, annunciato ora da Feltrinelli.
*
AUT AUT - IL SAGGIATORE (uscito su "Il Piccolo", 21 aprile 2017 - ripresa parziale).
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
***
ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
Greta Thunberg a Bruxelles: ’Con questa legge l’Ue ammette la resa’
Decisione zero emissioni nel 2050. Greenpeace e l’attivista bocciano la Commissione
di Redazione ANSA *
"Se la tua casa brucia, non aspetti qualche altro anno prima" di spegnere l’incendio, mentre è proprio "questo quello che la Commissione sta proponendo oggi. Nel momento in cui l’Ue presenta questa legge sul clima, con le emissioni zero entro 2050, indirettamente ammettete la resa: rinunciate agli accordi di Parigi, alle vostre promesse e alla possibilità di fare tutto il possibile per dare un futuro sicuro per i vostri figli". Così l’attivista svedese Greta Thunberg, intervenendo di fronte alla commissione Ambiente (Envi) del Parlamento Ue. Quando con le proteste sul clima "i vostri figli hanno fatto scattare ’l’allarme anti-incendio’, voi siete usciti, avete annusato l’aria e vi siete resi conto che era tutto vero: la casa stava bruciando, non era un falso allarme", ha detto Thunberg. "Poi però siete rientrati, avete finito la vostra cena e siete andati a dormire senza neanche chiamare i vigili del fuoco. Mi dispiace, ma questo non ha alcun senso", ha aggiunto. Secondo Greta, il testo presentato dalla Commissione Ue sul clima "manda il forte segnale che un’azione reale è in atto, quando in realtà non è così. La dura verità è che non ci sono né le politiche né la consapevolezza necessaria. Siamo nel pieno di una crisi che non viene trattata come tale. Avremmo moltissime soluzioni eccellenti", ha continuato Thunberg sottolineando che ci sono anche "tante persone pronte a fare il possibile per aiutare. Quello che manca - ha concluso - sono la consapevolezza, la leadership e soprattutto il tempo".
La Commissione europea ha proposto la "legge sul clima" che prevede emissioni nette azzerate entro il 2050, entro settembre una proposta per aumentare il taglio della CO2 al 2030, ampi poteri alla Commissione per aggiustare la ’traiettoria’ di riduzione delle emissioni ogni 5 anni (come richiesto dal trattato di Parigi), con il 2021 come orizzonte per proporre modifiche ai regolamenti europei sul clima, dal mercato Ets all’efficienza energetica, dalle rinnovabili alle emissioni in agricoltura e trasporti.
La Commissione europea ha anche avviato una consultazione pubblica per un ’patto sul clima’ per coinvolgere regioni, comunità locali, società civile, scuole, imprese e cittadini nell’impresa di tagliare le emissioni. La legge sul clima dovrà essere esaminata dal Consiglio e dall’Europarlamento prima di diventare legalmente vincolante. L’Italia e altri undici Paesi hanno scritto alla Commissione per accelerare i tempi sull’aumento del taglio delle emissioni al 2030, mentre il presidente della commissione ambiente dell’Eurocamera, Pascal Canfin, ha già indicato che si batterà per ottenere vincoli a livello nazionale.
"I cambiamenti climatici li abbiamo creati noi quindi sta a noi agire, la legge climatica guiderà ogni nostra azione per i prossimi 30 anni, ci dà gli strumenti per misurare i progressi verso l’obiettivo" di un’Europa a zero emissioni entro il 2050, ha detto la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen presentando la prima legge climatica europea. "Il testo della legge climatica è corto e semplice ma ci impegna verso azioni fondamentali: obbliga la Ue a inserire gli obiettivi ambientali in tutte le future legislazioni, è vincolante, offre prevedibilità e certezza a investitori, autorità pubbliche, è quello che ci chiedono", ha aggiunto. La presidente ha anche assicurato che la Ue è "pronta a proteggere le imprese", mettendole al riparo dalla concorrenza di chi non ha gli stessi standard ambientali. "Dobbiamo assicurare un terreno di gioco equo per le nostre imprese", ha detto.
Sull’ambiente "l’Unione europea deve essere capofila: avete l’obbligo morale di farlo, oltre all’opportunità" di essere "il vero leader sul clima" ha aggiunto Greta Thunberg. "La natura non scende a patti", ha sottolineato l’attivista svedese. "Non potete fare compromessi con la fisica" e "noi non vi consentiremo di rinunciare al vostro futuro". Al termine del suo intervento Greta è stata salutata da una standing ovation di circa un minuto dalla maggior parte dell’aula.
"L’analisi di Greta sulla nostra proposta è basata sull’approccio del bilancio di carbonio, secondo cui gli obiettivi di riduzione dovrebbero essere più alti. Io ho provato a spiegarle che noi usiamo un altro approccio e siamo più ottimisti di lei sulle tecnologie emergenti. Ma se non ci fosse stata lei e il modo in cui ha mobilitato due generazioni di giovani probabilmente oggi non staremmo neanche discutendo una legge sul clima". Così il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans. L’impegno a ridurre le emissioni e ad adattarsi ai cambiamenti climatici, ha aggiunto Timmermans, "non serve a salvare il pianeta, che si salva da solo, ma a salvare l’umanità".
L’attivista svedese era stata accolta in mattinata dalla presidente Ursula von der Leyen, e dal vicepresidente esecutivo Frans Timmermans, al suo arrivo alla Commissione europea, dove partecipa al collegio dei commissari Ue. Durante la riunione è prevista l’adozione di una nuova proposta di legge sul Clima.
La Commissione europea ha avviato i lavori sul futuro meccanismo di adeguamento del prezzo del carbonio alle frontiere e la revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia, come strumenti del Green Deal europeo. "La tassazione avrà un ruolo chiave perché può incoraggiare comportamenti responsabili e compensare i costi della transizione", ha detto il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni. "Dobbiamo salvaguardare le aziende che spostano la produzione in parti del mondo in cui gli standard sul clima sono meno rigorosi, è qui che entra in gioco il meccanismo di adeguamento delle frontiere del carbonio. Tuttavia, prima di presentare qualsiasi proposta, le varie opzioni devono essere attentamente valutate, in particolare per quanto riguarda le norme Wto e altri impegni internazionali", ha aggiunto.
"Senza obiettivi al 2030 basati sulla scienza, né misure per porre fine ai sussidi ai combustibili fossili, ci stiamo preparando al fallimento. Il momento di agire è ora, non tra 10 anni". Così il responsabile delle politiche per il clima di Greenpeace Europa Sebastian Mang si unisce al coro di critiche piovute addosso alla ’legge sul clima’ Ue ancora prima della sua presentazione.
Oltre a Greenpeace, il Climate Action Network, Friends of the Earth Europa e, in una lettera aperta, Greta Thunberg e altri 34 attivisti per il clima hanno mosso rilievi sostanziali alla proposta che fissa per legge un obiettivo Ue di azzeramento delle emissioni nette al 2050, perché non in linea con le raccomandazioni del panel intergovernativo dell’Onu sui cambiamenti climatici.
Coronavirus, il fatto «sociale totale» nel quale specchiarsi
di Filippo Barbera (il manifesto, 04.03.2020)
Un fatto sociale totale - nella definizione del grande antropologo Marcel Mauss - è qualcosa in grado di influenzare e determinare un insieme di fenomeni coinvolgendo la gran parte dei meccanismi di funzionamento della comunità di riferimento. Per Mauss il fatto sociale totale per antonomasia era il dono, in quanto capace di unire le pratiche e le cornici di senso riferibili ad aspetti mitopoietici, economici, politici, espressivi e religiosi. Il fatto sociale totale permetterebbe così di interpretare «pezzi» apparentemente lontani e diversi della stessa società.
Mani pulite, in questo senso, è stato un fatto sociale totale: ha scosso le diverse fondamenta della società italiana e ne ha messo in luce i tratti e le dinamiche politiche, culturali, economiche e simboliche. Oggi, il coronavirus svolge la stessa funzione. Ogni misura sanitaria e di igiene pubblica è intimamente politica, tanto nelle sue cause che nelle sue conseguenze, si intende. Ma le misure decise in occasione della comparsa del coronavirus rivelano - come un reagente chimico - qualcosa di profondo e «totale» sulla società e politica italiane, nonché sulle sue credenze diffuse, modelli culturali e struttura economica. Il coronavirus mostra con ogni possibile forza come la vita politica italiana sia intrappolata - non da oggi - in un’arena hobbesiana, dove la divisione fra amici e nemici si sovrappone ai confini fra gruppi in competizione per il potere e l’influenza. Dove è assente un contesto condiviso (la Costituzione, la Nazione, la Patria, la Repubblica, etc.) che permette a questi gruppi di competere correndo dei rischi politici.
Nelle arene hobbesiane il rischio politico è accuratamente evitato dai gruppi in competizione che utilizzano la logica amico/nemico. La strategia razionale in un contesto come questo è - di fronte a un evento improvviso e in assenza di esperienza pregressa - quella di minimizzare il rischio politico delle decisioni prese. Non poter essere accusati di non «aver fatto tutto il possibile» per le persone contagiate o per bloccare il contagio (a prescindere dalle sue conseguenze), non dover essere obbligati a rifiutare ricoveri in terapia intensiva ad anziani con febbre e polmonite, non diventare oggetto di attacchi e accuse stigmatizzanti.
Consideriamo le misure sanitarie. Quelle previste dal ministero con le tre classi di rischio e misure proporzionate sono intese a contenere i focolai in modo che si esauriscano all’interno e non si allarghino alle aree ancora indenni. Il tutto basato sull’assunzione che il danno di una epidemia diffusa o addirittura di una pandemia sia più alto dei danni sociali ed economici attesi. Questa assunzione sembra eccessiva, dato che per quanto se ne sa finora, la severità delle conseguenze di questa influenza un po’ più grave non sarebbe così alta, soprattutto in una stagione invernale con una influenza vera molto mite.
Ciò che giustifica le assunzioni alla base delle misure prese è la minimizzazione del rischio politico, il non volersi esporre alle accuse che certamente pioverebbero da nemici e falsi ex amici, anche in assenza di una giustificazione basata sul calcolo costi-benefici. La minimizzazione del rischio politico è una metrica ipertrofica che si «mangia» tutte le altre, riducendole a semplici giustificazioni ex post. Dall’assalto ai supermercati, alla speculazione sui prezzi delle mascherine, alle dichiarazioni dei politici, alla crisi dell’export, del polo della logistica e del turismo, il coronavirus è il nostro miglior specchio. Dovremmo avere il coraggio di guardarlo senza abbassare lo sguardo.
LA RINASCENZA MEDITERRANEA, L’EUROPA, E IL “MARE NOSTRUM”: IL MEDITERRANEO AL DI LA’ DI OGNI PRETESA “IMPERIALISTICA” DI ORDINE LAICO O RELIGIOSO!!! UN OMAGGIO A PIERO DELFINO PESCE *
RICORDANDO CHE IL FIUME “SELE” è “Un fiume che sfocia in tre mari: nel Tirreno attraverso il suo corso naturale, e nei mari Adriatico e Ionio,attraverso quello artificiale, forzato dall’uomo per mezzo dell’Acquedotto Pugliese che lo ha deviato fino a S. Maria di Leuca e che con il suo tratto terminale diventa fontana monumento (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5205#forum2233028) e, al contempo , RICORDANDO QUANTO IL MEDITERRANEO sia stato (ed è ancora!) un “eterno” campo di battaglie tra “opposti estremismi” ateo-devoti, laici e religiosi (cfr. “Due parole. Un segno rivelativo dei tempi. Una ‘memoria’ del 2004”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=899), CONTRO I SOGNI DI OGNI “PRIVATIZZAZIONE” DELL’ACQUA DEI FIUMI come DELL’INTERO MEDITERRANEO, solleciterei (e sollecito!) L’EUROPA a programmare una immediata ricognizione di TUTTI I FIUMI dell’EUROPA, DELL’ASIA E DELL’AFRICA, che sfociano nel MEDITERRANEO.
P. S. In tempi di “coronavirus” e “cavernicole” illusioni politico-religiose, mi sia consentito richiamare alla memoria la figura di Giovanni Boccaccio e, con il suo lavoro, le origini stesse del Rinascimento italiano ed europeo (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5421).
Politica
«Costituente Terra», la scuola che vuole salvare la specie umana
Diritto. Un progetto per immaginare gli strumenti politico-giuridici necessari ad affrontare i problemi del nostro tempo nella giusta scala
di Giansandro Merli *
«Per la prima volta nella storia esiste un interesse pubblico e generale assai più ampio e vitale di tutti i diversi interessi pubblici del passato: la sopravvivenza dell’umanità e l’abitabilità del pianeta». Luigi Ferrajoli, giurista e filosofo del diritto, pronuncia queste parole in piedi, circondato dai tomi antichi della splendida Biblioteca Vallicelliana, al centro di Roma.
L’occasione è la presentazione della scuola «Costituente Terra», che si è tenuta ieri. Poco prima avevano parlato Paola Paesano, direttrice dell’istituzione ospitante che in un raffinato intervento ha sottolineato le tensioni universalistiche che nel corso della storia hanno attraversato le biblioteche pubbliche, e un altro importante promotore del progetto, Raniero La Valle, giornalista, intellettuale ed ex senatore.
Sostenere l’esigenza di un costituzionalismo globale ai tempi dei rigurgiti sovranisti potrebbe sembrare un’azione fuori fuoco. E invece, sostengono i promotori, sono proprio quelle dinamiche a validare un simile sforzo. Le parole che La Valle e Ferrajoli mettono in fila sono come uno spillo che infrange la bolla di conoscenze acquisite e strumenti interpretativi che trasformano alcune contingenze nella forma del realismo. Lo sguardo è oltre la cronaca, così l’unico realismo diventa la consapevolezza che la politica ancorata agli Stati nazionali è impotente e inadeguata ad affrontare le sfide del nostro tempo.
L’alternativa possibile alle catastrofi cui essa va incontro e anzi produce, però, esiste. Sarà forse politicamente improbabile, almeno per ora, ma si può pensare. A ciò ambisce «Costituente Terra», al fine di revisionare il pensiero che ha portato l’umanità sull’orlo del baratro. Per farlo vuole espandere il costituzionalismo lungo tre direttrici: sovrastatualità; diritto privato; beni fondamentali. A esse corrispondono tre questioni cui occorre trovare risposte su scala planetaria: catastrofe ecologica; guerre; povertà e disuguaglianze. La loro soluzione passa per l’immaginazione politico-giuridica di istituti di garanzia dei diritti fondamentali a livello globale. È questo uno degli obiettivi della scuola, che però sarà anche anti-scuola. «Una scuola trasmette i saperi da una generazione all’altra per riprodurre la società come l’abbiamo ricevuta - dice La Valle - Invece noi dovremmo trasmettere un sapere che ancora non c’è, perché col sapere che c’è la società ricevuta non solo non va bene, ma nemmeno può continuare».
* Fonte: il manifesto, 22.02.2020 (ripresa parziale).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Mediterranea-mente ... *
Anticipazione
«Mediterraneo messaggero di pace per il mondo».
Il sogno di La Pira
Culla della famiglia di Abramo deve essere esempio di riconciliazione fra i popoli. Partendo dal "sindaco santo" l’introduzione del presidente Cei al libro suile idee che ispirano l’incontro pugliese
Gualtiero Bassetti (Avvenire, martedì 18 febbraio 2020)
Sono vissuto in un paese di orfani e di poveri. Tra i banchi della scuola elementare di Fantino, una minuscola frazione del Comune di Marradi sull’Appennino tosco-romagnolo, molti alunni erano orfani. I padri di quei bambini, infatti, erano stati uccisi il 17 luglio 1944 da una crudele rappresaglia tedesca nella vicina località di Crespino sul Lamone: ben 45 persone erano state fucilate senza alcuna pietà. Tra di loro anche il parroco, don Fortunato Trioschi, che era stato preso dai soldati mentre stava recitando il vespro in chiesa con le donne. «Strappato a viva forza dal suo pietoso ufficio - si legge nel Bollettino mensile di Crespino del marzo 1946 - egli recitava per i moribondi la preghiera della speranza cristiana». «Un colpo di mitra gli mozzò le parole sul labbro» e cadde riverso sulla fossa che aveva precedentemente scavato insieme ai suoi parrocchiani. All’indomani della fine del conflitto eravamo tutti poveri, ma di una povertà dignitosa. Siamo sopravvissuti alla miseria tipica degli anni del dopoguerra perché avevamo capito che il condividere è moltiplicare. Se mia madre faceva il pane, quel pane era anche per i vicini. Se un contadino aveva munto una mucca, quel latte era anche per i bambini. Se qualcuno comprava il sale, che era un alimento preziosissimo, ne dava un po’ anche agli altri. Si condivideva tutto. E condividendo tutto siamo cresciuti insieme, uomini, donne e bambini, in una comunità coesa in cui la Chiesa svolgeva una funzione importantissima. L’anticlericalismo era ben presente anche nell’Italia degli anni Cinquanta ma, nella vita quotidiana, non metteva in discussione la figura del sacerdote. Il prete, soprattutto nelle campagne, era il segno di una presenza religiosa, culturale e sociale. Le persone andavano dal sacerdote per consigli di tutti i tipi, perché era l’unica persona che aveva una cultura e che, al tempo stesso, si prendeva cura concretamente della «povera gente». Quella «povera gente» a cui anche Giorgio La Pira (terziario domenicano e francescano, professore universitario di diritto romano, membro dell’Assemblea costituente, deputato alla Camera per tre legislature e, soprattutto, sindaco di Firenze per molti anni) dedicò gran parte della sua esistenza.
Nell’aprile del 1950, su "Cronache Sociali", La Pira pubblicò un saggio molto importante dal titolo L’attesa della povera gente. Sebbene svolgesse un’analisi che partiva dall’esame del reddito pro capite mondiale, quello scritto non era solo un testo che si inseriva nel dibattito economico, ma era soprattutto la traduzione concreta del messaggio evangelico di giustizia sociale e amore verso gli ultimi.
Quando entrai in seminario nel 1956 a Firenze, La Pira era un personaggio straordinariamente amato dalla popolazione. Non era solo il sindaco, era molto di più. Era una testimonianza di fede autentica riconosciuta da tutti. Il nostro rettore, uomo di grande cultura biblica, lo invitava spesso in semi- nario. Lui ci incantava ad ascoltarlo, si fidava di noi piccoli e ci parlava dei suoi grandi progetti. I fiorentini, sin da vivo, lo consideravano un santo.
Ogni incontro con La Pira, anche fugace, lungo la strada, rappresentava per i cittadini un momento di arricchimento personale. Egli annunciava con gioia il Vangelo in ogni momento e tutto, per lui, era motivo di contemplazione: dal campanile di Giotto ai pescatori sotto il ponte Vespucci. È stato, senza dubbio, un mistico prestato alla politica. Nella sua visione del mondo, carità e politica si fondevano in un legame indivisibile. E al centro della sua azione si collocava il cosiddetto «pilotaggio della speranza».
La sua missione terrena, collocata in un’epoca storica dominata dalle ideologie, non si esauriva nella gestione della cosa pubblica ma era una «missione essenzialmente religiosa» che rispondeva a una «specifica chiamata» divina. Egli è stato un «ambasciatore di Cristo», cioè un uomo di Dio o, meglio, un « nabì (bocca di Dio)», un profeta dei tempi odierni. Il profeta è un chiamato dal Signore e colui che parla per conto del Creatore. È colui che sa mettersi in ascolto della parola di Dio e perciò riesce a leggere in profondità il mondo che gli sta attorno. Il profeta è una «sentinella per la casa d’Israele» ed esprime con passione e generosità, fino a sembrare stolto e ingenuo, questa sua missione divina.
Giorgio La Pira è stato un profeta del dialogo, della speranza e della pace. La fede era il motore della sua azione, che si innestava in un contesto internazionale caratterizzato da un «crinale apocalittico» dominato dallo scontro tra le due superpotenze e dall’incubo nucleare. Alla logica del conflitto, La Pira opponeva la supremazia del dialogo. Un dialogo cercato con tutte le forze nei Paesi dell’Europa dell’Est, in Asia, in America Latina e in Africa.
In questo sforzo incessante il sindaco di Firenze traccia una strada; è il «sentiero di Isaia» che si basava sull’antica profezia messianica: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci». Il sentiero di Isaia tracciato da La Pira si proponeva di arrivare al disarmo generale trasformando le «armi distruttive in strumenti edificatori della pace e della civiltà». Secondo la sua visione escatologica, tutta la storia convergeva verso «il porto finale» della pace.
Per raggiungere la pace, La Pira incontra molti capi di Stato. In uno di questi incontri, conia una delle sue espressioni più note: «Abbattere i muri e costruire i ponti». Un’immagine che mutuò da quello che vide al Cairo nel 1967 dopo aver incontrato il presidente egiziano Nasser. In quell’occasione notò «una squadra di operai abbattere i muri che erano stati costruiti davanti alle porte dell’albergo, come strumenti di difesa antiaerea». In quel gesto vide il simbolo di una grande azione politica e culturale. Bisognava abbattere «il muro della diffidenza» tra i popoli e costruire ponti di dialogo tra le genti. Occorreva unire e non dividere.
Dopo la crisi di Suez del 1956, matura il progetto di convocare a Firenze un grande incontro internazionale dedicato al Mediterraneo. Nel maggio del 1958, all’interno di una corrispondenza fittissima col pontefice, invia una lettera a Pio XII in cui presenta il suo progetto di Colloqui mediterranei.
«Vi dico subito, Beatissimo Padre, quale è la ’intuizione’ che da qualche tempo fiorisce sempre più chiaramente nella mia anima. Questa: il Mediterraneo è il lago di Tiberiade del nuovo universo delle nazioni: le nazioni che sono nelle rive di questo lago sono nazioni adoratrici del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; del Dio vero e vivo. Queste nazioni, col lago che esse circondano, costituiscono l’asse religioso e civile attorno a cui deve gravitare questo nuovo Cosmo delle nazioni: da Oriente e da Occidente si viene qui: questo è il Giordano misterioso nel quale il re siro (e tutti i ’re’ della terra) devono lavarsi per mondarsi della loro lebbra (4 Re V, 10)».
Secondo La Pira, dunque, il Mediterraneo, culla delle civiltà monoteiste che egli chiamava «la triplice famiglia di Abramo», è chiamato a riprendere il suo posto nella storia in un mondo sempre più minacciato da guerre e distruzione. Una costruzione della pace che passava anche dalla preghiera e dalla contemplazione. Dal 1951 al 1974, divenuto presidente delle Conferenze di San Vincenzo della Toscana, La Pira aveva introdotto nel programma dell’associazione una novità: l’assistenza economica da offrire ai monasteri di clausura in difficoltà, in cambio di preghiere. In questo modo, veniva inviato alle claustrali un foglietto stampato come «lettera circolare» in cui riportava le motivazioni e le iniziative «politiche» per cui chiedeva di pregare. Centinaia di monache risposero a questi appelli. In una di queste lettere alle claustrali, La Pira allega anche un lungo telegramma che, il 26 ottobre 1961, aveva scritto all’ambasciatore sovietico a Roma, Semen Kozirev, pregandolo di trasmettere il suo messaggio a Nikita Krusciov. In quel telegramma, La Pira prega il leader dell’Urss di impegnarsi concretamente verso il disarmo nucleare. Se questo avverrà, scrive, «ve ne sarà grato il Padre celeste che saprà considerare con cuore di padre il vostro atto di buona volontà».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO". NATHAN IL SAGGIO: CHE ILLUSIONE AFFIDARSI ALLA CHIESA ’CATTOLICA’!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Incontro Mediterraneo. A Bari il G20 dei vescovi, per la riconciliazione fra i popoli
Sono in arrivo 58 pastori da 20 nazioni. I primi ad arrivare i due provenienti dalla Siria. Il programma. Mediterraneo, a Bari l’incontro di pace
di Giacomo Gambassi, inviato a Bari *
Il primo soffio di Mediterraneo che Bari ha sentito due giorni fa è stato quello giunto da un Paese ancora segnato dalla guerra: la Siria. Perché da lì sono arrivati lunedì notte i primi due vescovi dei cinquantotto attesi, che porteranno l’intero bacino in Puglia: Youhanna Jihad Battah, arcivescovo di Damasco dei siri, e Nicolas Antiba, dell’arcieparchia di Damasco dei greco-melchiti. Strano scherzo della Provvidenza quello che fin da subito fa irrompere gli echi della guerra fra i pastori del Mediterraneo che per la prima volta si ritrovano insieme per cercare nuove vie di riconciliazione fra i popoli.
È l’incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” che si apre oggi mercoledì a Bari e che fa abbracciare venti nazioni affacciate sul grande mare. Ecco perché sembra quasi un “G20” ecclesiale l’evento promosso dalla Cei che vuole chiamare tutti, a cominciare dai cristiani in comunione con Roma, a essere artigiani di pace. E come cornice ha il Castello svevo che nel 2017 ha già ospitato un G7. Da una delle torri scende l’enorme striscione con il logo azzurro del «laboratorio d’impegno», come viene definito, e quelle mani che si uniscono, auspicio di una nuova “civiltà dell’amicizia” per la regione.
Da questo pomeriggio le sale della fortezza diventeranno come aule sinodali per accogliere il confronto fra i vescovi: in assemblea e poi nei “circoli minori”.
Due i grandi temi: la trasmissione della fede, che farà da filo conduttore domani, giovedì; e il rapporto fra Chiese e società, al centro della giornata di venerdì.
Poi sabato verrà elaborato e approvato il testo finale.
«Non è un convegno accademico ma uno spazio di comunione tra vescovi che riflettono e, sotto la guida dello Spirito, provano a discernere i segni dei tempi - spiega il segretario generale della Cei, Stefano Russo -. I pastori che si incontrano hanno a cuore un Mediterraneo concreto con le genti che lo abitano. E il nostro progetto ambizioso ma necessario è di costruire ponti con una storia, una geografia e un’umanità che hanno fondazioni comuni».
«Pace, fede, fraternità, speranza» si legge nei quattro cartelloni appesi ai davanzali del Palazzo della città. Di fronte si sta già allestendo il palco per la Messa che papa Francesco presiederà domenica mattina e che concluderà l’evento Cei.
Almeno 40mila i fedeli previsti, anche se il numero potrebbe crescere in questi giorni.
Fra loro il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e il premier Giuseppe Conte.
È come un suggello la presenza di papa Francesco che prima della celebrazione si vedrà consegnare il documento finale, sintesi delle giornate di lavoro, e dialogherà con i vescovi dell’area. Ovunque è affisso il suo volto accompagnato dal simbolo del “forum”: sulle vetrine dei bar, alle porte delle case, all’ingresso della Basilica di San Nicola, emblema della città e richiamo alla sua vocazione a essere terra di incontro oltre il mare che la bagna.
Resta di cinquantotto il numero complessivo dei pastori che partecipano. C’è stata una defezione dell’ultimo minuto: Jesús Esteban Catalá Ibáñez, vescovo di Malaga, uno dei delegati della Conferenza episcopale spagnola, assente per un’improvvisa malattia. Invece interverrà - e non era inizialmente nella lista - l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i rapporti con gli Stati. È uno dei tre rappresentanti della Santa Sede con il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, e il cardinale Michael Czerny, sottosegretario della sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale.
Nove le porpore a Bari: oltre alle due di Oltretevere, è già in città il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo, mentre stamani arrivano Cristóbal López Romer, arcivescovo di Rabat in Marocco, Louis Raphaël Sako, patriarca di Babilonia dei caldei, Juan José Omella, arcivescovo di Barcellona, Angelo Bagnasco, presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, Jean-Claude Hollerich, presidente della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione Europea.
E a fare gli onori di casa il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, che ha ideato l’appuntamento e che questo pomeriggio alle 16 lo aprirà con una relazione introduttiva. L’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve è nel capoluogo pugliese da ieri sera con il “gruppo” della Conferenza episcopale italiana che comprende anche i tre vice-presidenti Franco Giulio Brambilla, Mario Meini e Antonino Raspanti, quest’ultimo coordinatore del Comitato organizzatore che sempre oggi presenterà ai vescovi delegati lo stile e lo svolgimento delle giornate baresi.
* Avvemire, mercoledì 19 febbraio 2020 (ripresa parziale, senza immagini).
IL PIANETA TERRA, IL "PADRE NOSTRO", E IL SINODO DEI VESCOVI SUL MEDITERRANEO ...*
Mediterraneo, frontiera di pace. Le cose da sapere sull’incontro di Bari
Dal 19 al 23 febbraio l’evento per la pace. Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati
di Giacomo Gambassi, inviato a Bari (Avvenire, mercoledì 12 febbraio 2020)
Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati. Tre i continenti che idealmente si abbracceranno: Europa, Asia e Africa. Ecco in numeri l’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace”, il grande forum ecclesiale voluto dalla Cei che per la prima volta riunisce i vescovi degli Stati affacciati sul grande mare e che sarà concluso da papa Francesco. -Le cifre non dicono tutto, ma raccontano la scommessa di un’iniziativa che si terrà dal 19 al 23 febbraio e che avrà come cornice Bari, la città “ponte” fra Oriente e Occidente come testimonia «la venerazione senza confini del suo patrono san Nicola» o la scelta del Pontefice di tenere nel luglio 2018 all’ombra del Castello svevo l’incontro per la pace in Medio Oriente con i capi delle comunità cristiane della regione, spiega l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Carucci.
Adesso lo sguardo si allarga all’intero Mediterraneo chiamando a un supplemento d’anima le Chiese. È l’urgenza della pace l’orizzonte di un evento che invita a una nuova responsabilità il mondo cattolico. Non un convegno o un seminario accademico ma un «incontro di fraternità dallo stile sinodale che vuole aiutare le comunità ecclesiali a camminare sempre più insieme», spiega il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, durante la conferenza stampa di presentazione a Roma moderata dal direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, Vincenzo Corrado.
Nel 2018 era stato proprio Bassetti a lanciare l’idea dell’evento «rileggendo i Colloqui mediterranei promossi da Giorgio La Pira circa sessant’anni fa», racconta il cardinale le cui radici affondano nella Firenze del sindaco “santo”.
«Se La Pira aveva coinvolto l’ambito politico - dice Bassetti - io mi sono chiesto: perché anche i vescovi non possono mobilitarsi di fronte ai drammi delle proprie genti? Del resto la Chiesa non ha altro scopo che servire l’uomo. E ciò implica anche affrontare i problemi che le nostre comunità vivono». Tutto l’episcopato italiano ha sposato il percorso: ecco perché i pastori della Penisola saranno a Bari nelle ultime due giornate.
Due i temi di cui discuteranno i vescovi del bacino: l’annuncio del Vangelo, a cominciare dai giovani; e il dialogo fra Chiese e società. «Di fatto come pastori ci siamo posti una domanda: che cosa Dio vuole oggi dal Mediterraneo? E l’incontro sarà un’occasione di discernimento», chiarisce il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, vice-presidente della Cei e coordinatore del comitato organizzatore.
A fare da sfondo al confronto le guerre che ancora insanguinano l’area (dal conflitto israelo-palestinese a quelli in Siria, Iraq o Libia); le nuove tensioni che scuotono la regione; le ferite ancora aperte delle guerre che dai Balcani al Libano hanno segnato gli ultimi decenni; la povertà; le disuguaglianze fra la sponda nord e quella sud; le politiche di sfruttamento da parte dei grandi del pianeta; la complessa convivenza fra le fedi; le persecuzioni delle minoranze religiose, soprattutto cristiane; il dramma delle migrazioni.
«La questione della pace - dice Raspanti - non è disgiunta dagli squilibri sociali che qui si registrano. E anche lo stesso tema delle migrazioni sarà visto secondo prospettive diverse. Penso al grido che alcuni vescovi delegati hanno già lanciato chiedendo di aiutare i loro Paesi a non lasciare fuggire i cristiani».
Lo stile dell’incontro è mutuato dal Sinodo dei vescovi. Non solo nei due anni di preparazione sono stati coinvolti gli episcopati del Mediterraneo che hanno contribuito a elaborare una bozza di lavoro, ma soprattutto le giornate di Bari saranno nel segno dell’ascolto e del dialogo fra i vescovi.
«Ore e ore di discussione», annuncia Raspanti. Dal confronto scaturirà il documento che sarà approvato dai presuli e che domenica mattina verrà consegnato al Pontefice durante il suo incontro con i vescovi nella Basilica di San Nicola.
«Il Papa che condivide a pieno il nostro incontro - dice Bassetti - ci ha chiesto proposte concrete che vadano oltre le lamentele».
Il dialogo fra il Pontefice e i pastori della regione rappresenterà l’appuntamento centrale di Bari, che verrà aperto dal saluto di Bassetti e dalle testimonianze del cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo e presidente della Conferenza episcopale di Bosnia ed Erzegovina, e dell’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme, e che si chiuderà con l’intervento dell’arcivescovo di Algeri, il gesuita Paul Desfarges, presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa. Momento concluso dell’evento sarà la Messa presieduta da Francesco alle 10.45 nel cuore di Bari.
L’incontro dei vescovi si porterà dietro anche un segno concreto di attenzione a tutto il Mediterraneo.
«Si tratterà di borse di studio per giovani delle diverse sponde con lo scopo di formare una nuova classe dirigente», annuncia Bassetti. Il progetto avrà come guida la Caritas italiana e vedrà il coinvolgimento di Rondine-Cittadella della pace, il laboratorio della riconciliazione alle porte di Arezzo che fa studiare i giovani provenienti dai Paesi in guerra fianco a fianco con il loro "nemico".
I lavori “sinodali” dei vescovi saranno a porte chiuse ma ogni giorno è previsto un briefing con la stampa. Guai comunque a pensare che le giornate siano blindate.
Sono previste infatti Messe e momenti di preghiera aperti a tutti; venerdì sera ogni pastore delegato sarà ospite di una parrocchia; poi sabato pomeriggio, a partire dalle 15.30, al teatro Petruzzelli si terrà l’incontro di testimonianze con voci e volti da tutto il Mediterraneo e gli interventi dei vescovi e di esperti di geopolitica.
Intanto si immagina già il “dopo Bari”. «Non ritengo che tutto si possa concludere in Puglia - avverte il presidente della
Cei -. È possibile che si creino tavoli di lavoro tematici che permetteranno ai vescovi di incontrarsi di nuovo. Del resto la sfida è far riscoprire la vocazione propria del nostro grande mare: una vocazione alla pace e all’incontro».
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
RINASCIMENTO, OGGI (2020): PER "LA PACE DELLA FEDE" (1453) E IL CONCICLIO DI NICEA(2025). Note... *
Verso Bari 2020.
«Bari, ponte di pace per il Mediterraneo. Sui passi di san Nicola»
Parla l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Cacucci, padrone di casa all’Incontro dei vescovi del Mediterraneo sulla pace. Tutto pronto per la visita del Papa il 23 febbraio. «La nostra è terra di dialogo»
di Giacomo Gambassi (Avvenire, sabato 8 febbraio 2020)
C’è una frase che l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Cacucci, ama ripetere per descrivere la vocazione della sua terra. È quella che gli aveva affidato papa Wojtyla durante una visita ad limina dei vescovi della regione. «Giovanni Paolo II si rivolge a me dicendo: “Dovete guardare al Mediterraneo e all’Africa”. Ecco, in un’espressione dal sapore profetico il Pontefice santo ha condensato ciò a cui siamo chiamati. Bari è tenuta a essere ponte fra le sponde del grande mare: in particolare fra Oriente e Occidente, come lo è stato e lo è ancora il nostro patrono san Nicola». Una pausa. «In quest’ottica va letto l’incontro per la pace in Medio Oriente voluto il 7 luglio 2018 da papa Francesco con i capi delle Chiese e delle comunità cristiane della regione - afferma l’arcivescovo -. E adesso l’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei».
Mancano dieci giorni all’inizio di quello che il cardinale Gualtiero Bassetti ha definito “una sorta di Sinodo sul Mediterraneo” che dal 19 al 23 febbraio porterà nel capoluogo pugliese cinquantotto vescovi in rappresentanza di venti Paesi affacciati sul grande mare e di tre continenti (Europa, Asia e Africa). «Non ho proposto io Bari per questo evento - confida Cacucci -. È stato il cardinale Bassetti con il Consiglio permanente della Cei a indicare la nostra città. E come Chiesa locale abbiamo accolto con gioia la richiesta, ben sapendo che sono parte del nostro dna l’accoglienza, il dialogo, la cultura dell’incontro». L’arcidiocesi è in prima linea nell’organizzazione dell’iniziativa internazionale.
Il Castello svevo accoglierà le tre giornate “sinodali” di confronto (a porte chiuse) fra i vescovi. La Basilica di San Nicola e la Cattedrale faranno da cornice alle Messe quotidiane. Le parrocchie ospiteranno venerdì sera i singoli pastori. Il teatro Petruzzelli sarà lo sfondo dell’evento pubblico di sabato pomeriggio. Poi domenica arriverà papa Francesco che sarà a Bari per la seconda volta in due anni e che nella Basilica di San Nicola dialogherà con i vescovi, prima di presiedere la Messa in corso Vittorio Emanuele.
Eccellenza, l’Incontro giunge mentre il Mediterraneo torna a infiammarsi.
È vero, siamo di fronte a un disordine mondiale in cui gruppi etnici e formazioni militari scatenano conflitti sempre nuovi. Tutto ciò ha ripercussioni intorno al grande mare. Per questo l’iniziativa Cei si colloca in un momento dolorosamente provvidenziale per ciò che si sta verificando nel Mediterraneo. Se il bacino può essere considerato un «grande lago di Tiberiade», come lo definiva Giorgio La Pira, resta ancora oggi un luogo di morte. Pertanto dai vescovi che prenderanno parte alle giornate baresi non potrà che levarsi un’invocazione alla pace. Come del resto aveva fatto da qui, dal sagrato della Basilica di San Nicola, papa Francesco il 7 luglio 2018 quando aveva spiegato che la pace «va coltivata anche nei terreni aridi delle contrapposizioni perché oggi, malgrado tutto, non c’è alternativa possibile alla pace». Un’indicazione che troverà il suo sviluppo nell’imminente evento ecclesiale.
Bari si conferma sede privilegiata di dialogo.
Certo, a partire da san Nicola, uno dei santi più venerati nel mondo che collega Oriente e Occidente. Prima dell’incontro del 2018, il Papa aveva deciso che una reliquia del santo fosse traslata a Mosca e a San Pietroburgo. Un avvenimento straordinario, come ha sottolineato il patriarca Kirill, dal grande impatto ecumenico. Poi l’appuntamento per la pace nel Medio Oriente con il Pontefice. E adesso l’Incontro dei vescovi del Mediterraneo. In questo caso i protagonisti saranno i pastori cattolici che si ascolteranno a vicenda e poi consegneranno le loro osservazioni al Papa alla presenza dei vescovi italiani, invitati alle ultime due giornate.
Quale contributo alla pace dalle Chiese del bacino?
È proprio della nostra fede l’impegno per la pace. Di fronte agli odierni conflitti che costituiscono una «terza guerra mondiale a pezzi» secondo quanto detto dal Papa, come cristiani siamo chiamati ad annunciare al mondo che ogni uomo e ogni donna fa parte dell’unica famiglia umana. È questo il fondamento della fraternità. Il che significa prendere atto che esista un destino comune fra i popoli. Una visione rifluita nel Concilio come testimonia la Gaudium et spes la quale ci ricorda che la pace «non è mai qualcosa di stabilmente raggiunto ma un edificio da costruirsi continuamente».
Comunque già Giovanni XXIII, nell’enciclica Pacem in terris, evidenziava che l’urgenza di avere artigiani di pace. Ecco, nell’Incontro sul Mediterraneo entrerà tutto questo, consapevoli che i vescovi non giocano un ruolo politico ma intendono farsi apostoli di riconciliazione. Da Bari, quindi, non dobbiamo attendersi risultati politici. Va aggiunto che il cammino verso la pace richiede anche un cambio di mentalità. Ad esempio, la globalizzazione non va vista come pretesto per fomentare le paure ma come occasione per essere fratelli nella diversità.
L’Occidente e le grandi potenze agiscono ancora nel Mediterraneo per interesse particolare?
Negli ultimi due secoli è stato il Mediterraneo “coloniale” al centro delle preoccupazioni mondiali. Paradossalmente la creazione della Comunità europea ha spostato l’asse distante da questo mare. E ciò ha avuto l’effetto di allontanare le sponde, contribuendo ad alimentare il demone della paura. Di fatto l’Occidente non ha favorito il protagonismo del Medio Oriente o del Nord Africa. Così la riflessione dei vescovi intende aiutare anche l’Europa a ritrovare le sue radici che sono di per sé mediterranee.
A Bari papa Francesco aveva lanciato l’allarme sul rischio della scomparsa della presenza cristiana in alcuni angoli dell’area.
Tutti constatiamo che le persecuzioni verso i cristiani si sono intensificate. Non dimentichiamo che, anche solo guardando agli ultimi decenni, sono moltissimi i cristiani che hanno dato la vita per promuovere nel nome del Vangelo la convivenza pacifica fra i popoli in contesti segnati dalle guerre e dagli odi. Vorrei citare per tutti don Andrea Santoro ucciso in Turchia nel 2006. Ma siamo davvero consci che questa presenza abbia un ruolo profetico? O, come ammonisce il Papa, non c’è una congiura del silenzio?
Anche il tema dei migranti entrerà nell’agenda dei vescovi?
I processi di mobilità hanno accresciuto l’osmosi fra i popoli. Però da alcuni decenni il fenomeno migratorio ha subìto un’accelerazione a causa delle violenze e delle guerre ma anche della povertà generata da gravi ingiustizie e prevaricazioni. Tali processi hanno un inevitabile impatto sul dialogo fra le religioni e fra le confessioni cristiane ma anche sulla nostra identità di credenti. Se è vero che le migrazioni sono la conseguenza di un’assenza di pace, allora la questione non può non interrogare i vescovi. E anche tutti noi che siamo invitati a un’autentica testimonianza evangelica in grado di superare ogni sorta di egoismo.
Cacucci, dal 1999 arcivescovo di Bari-Bitonto
Ha 76 anni Francesco Cacucci, arcivescovo di Bari-Bitonto e delegato pontificio per la Basilica di San Nicola a Bari. Nato nel capoluogo pugliese, è sacerdote dal 1966. È laureato in teologia alla Pontificia Università Gregoriana e in scienze politiche all’Università di Bari. Nel 1987 viene nominato ausiliare di Bari-Bitonto e ordinato vescovo. Nel 1993 il Papa lo trasferisce alla sede arcivescovile di Otranto fino al 1999 quando torna come pastore nella sua Chiesa d’origine.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SULL’INCONTRO DI RATZINGER - BENEDETTO XVI E BUSH. LA CRISI DEL CATTOLICESIMO ROMANO E DELLA DEMOCRAZIA AMERICANA NON SI RISOLVE... RILANCIANDO UNA POLITICA OCCIDENTALE DA SACRO ROMANO IMPERO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Australia, una cultura che brucia
di Giulia Tabacco (Il Mulino, 05 febbraio 2020])
Ben di mestiere appicca incendi. È nato nel bush, quella boscaglia talvolta fitta di alberi talaltra composta da arbusti gialli, bassi e puntuti che contorna l’Australia; è cresciuto in una giungla in cui i pitoni fanno compagnia agli ananas e ai bufali e ha una solida consapevolezza del territorio. Conosce le piante, le impronte e i versi degli animali, parla la lingua degli aborigeni, sa regolarsi con l’alternarsi delle stagioni e con un clima che pare funzionare per estremi: estremamente umido o estremamente caldo, a tratti secco come terracotta altre volte travolto dalle spirali violette dei cicloni.
Ben lavora per un’agenzia governativa nel Northern Territory, lo Stato con la minore densità abitativa d’Australia, un rettangolone che va dal Mare di Timor, tropicale e verdissimo, fino ai deserti centrali ventosi, pietrosi e sciapi. Lo Stato che custodisce il cuore dell’isola, che batte rosso nella mitica Uluru, la grande roccia, il luogo dove per millenni le famiglie aborigene trovarono riparo e acqua, dove storie e tradizioni venivano narrate e condivise, dove ai ragazzini si insegnavano le regole della vita.
Gli incendi in Australia ci sono sempre stati. La natura del suolo e della vegetazione, il clima nella parte centrale da milioni di anni in prevalenza arido, sono tra le cause principali. Da quarantamila anni gli incendi fanno parte dell’ambiente, come sanno e dicono coloro che vi abitano da sempre e per i quali il fuoco ha un valore concreto e, contemporaneamente, simbolico e spirituale. Non un nemico di cui avere paura ma, al contrario, uno strumento.
Il fuoco è parte della vita, è un elemento da osservare, da capire e con il quale confrontarsi. Intorno a esso gli aborigeni costruirono e trasmisero conoscenze che avevano una doppia finalità: la prima, più evidente, era evitare che fiamme incontrollate e incontrollabili mangiassero ettari ed ettari di terreno e che mettessero a repentaglio la vita di esseri umani, fauna e piante; la seconda era contribuire al mantenimento del suolo e al suo stato di salute.
Per fare questo, praticavano una tecnica di incendi di natura preventiva: incendi bassi, delimitati e controllati che permettevano la sopravvivenza e il rinnovamento del terreno. Affinché fossero sicuri ed efficaci era necessario saper leggere in profondità l’ambiente, avere una grande dimestichezza con le condizioni climatiche e naturali: aspetti, questi, che erano parte fondante della loro quotidianità. Perché queste genti per millenni abitarono spazi enormi e spesso difficili, per millenni tramandarono cantandole le storie e le caratteristiche della terra, degli animali e degli esseri mitologici: questo ne fa dei poeti e dei saggi conoscitori.
I fuochi volontari dovevano essere appiccati al momento giusto e servivano a delimitare il propagarsi, nei mesi più caldi e asciutti, di quelli provocati dai fulmini o dal vento. Allo stesso tempo, contribuivano a rigenerare l’ecosistema, alla sua biodiversità. Agivano cioè in sintonia con i ritmi della terra: attiravano animali che venivano cacciati, arricchivano il suolo di cenere, che agiva come fertilizzante, rendevano il terreno più ricco di minerali e di fonti di sostentamento e “pulivano” il suolo, bruciando foglie secche e cortecce, entrambe altamente infiammabili.
Gli aborigeni hanno una bella definizione per queste tecniche: le chiamano “fuoco culturale” (cultural burning). “Culturale”, sì, perché basato su una somma di saperi preziosa, fatta di consapevolezza, rispetto e volontà di preservare l’ambiente. Ben di lavoro fa quello che le genti originarie hanno sempre fatto. Studia tempi e spazi, analizza il terreno, percorre chilometri e chilometri, interpella e avvisa le persone, controlla i venti, delimita e monitora le aree di intervento.
Lo fa nello Stato con la più alta percentuale di popolazione aborigena, che sfiora il 30% (negli altri Stati la media supera di poco il 3%). Nel Northern Territory il governo opera congiuntamente con le popolazioni indigene e integra le tecniche degli “incendi tradizionali” con altre strategie, assolutamente necessarie in un Paese che ha vissuto rilevanti cambiamenti antropici e di sfruttamento del suolo negli ultimi 230 anni, cioè con l’arrivo e la colonizzazione britannica.
Va specificato che questi metodi sono utilizzati anche in altri Stati australiani: sinora, però, in maniera circoscritta e locale. La tecnica del fuoco prescritto, d’altra parte, è stata usata a partire dalla prima metà del Novecento anche in diversi ambienti forestali, arbustivi, di savana e prateria del Nord America, dell’Asia e dell’Africa nonché, dagli anni Ottanta, in alcune regioni italiane.
Ben mi racconta che per dare fuoco al bush bisogna avere una profonda esperienza del quando e del come. È fondamentale appiccare il fuoco al momento opportuno, in modo che non arrechi danni. Il periodo in cui si concentra questo lavoro è l’inizio della stagione secca, a partire dal mese di aprile. Allora abitualmente le piogge dei mesi precedenti lasciano il posto a giornate umide, ma con cieli perlopiù limpidi. Il bush è verde ma non ancora arso. Se l’incendio volontario viene appiccato troppo presto, c’è il rischio che gli arbusti abbiano tempo a sufficienza per crescere e svilupparsi nuovamente, diventando un potenziale combustibile. Se, al contrario, si arriva tardi, la vegetazione sarà assai più secca e, quindi, più incline a bruciare.
In questo periodo capita, percorrendo le lunghissime strade del Paese, di filare di fianco a terra nera che alita calore, sotto un cielo spesso e acre di fumo. Capita anche di vedere un camioncino bianco con il simbolo del Northern Territory fermo in prossimità di un cartellone a forma di mezza luna: un uomo con pantaloni cachi e scarponi sta regolando una lancetta gialla. La mezza luna ha spicchi di colori differenti che aggiornano sul livello di pericolo incendi: verde vuol dire moderato, azzurro sta per alto, giallo molto alto, rosso è estremo. L’ultimo spicchio, rosso acceso, indica uno stato catastrofico.
Ben dà fuoco alla boscaglia utilizzando una fiamma bassa per far sì che non brucino gli alberi, prezioso elemento ambientale oltre che dimora di uccelli, marsupiali e altri animali. La terra bruciata crea una barriera che impedirà agli incendi che dovessero sorgere spontanei di diramarsi. Il “fuoco freddo” va appiccato di notte o di mattina presto, quando di norma il vento è più lieve e non è ancora sorto il sole, che incoraggia le fiamme. L’incendio si propaga con lentezza, non bruciano i semi delle piante e non si distruggono né le radici né le chiome degli alberi.
Nell’isola abbondano gli alberi resinosi: i più diffusi sono gli eucalipti, dalle foglie molto oleose. Quando prendono fuoco, queste foglie crepitano e scoppiettano come fuochi d’artificio in miniatura, le fiamme salgono rapide e le chiome diventano palle di fuoco: se c’è vento, queste palle si diramano di cresta in cresta a grande velocità (anche dieci chilometri orari), espandendosi e allargandosi per giorni. Li chiamano cacatua fire perché in qualche modo fanno venire in mente i cacatua, grossi pappagalli bianchi con una folta cresta gialla.
“I cambiamenti climatici e la siccità degli ultimi anni hanno un peso rilevante nel fenomeno degli incendi”, dice Ben, l’uomo del fuoco. Sono le cinque di pomeriggio a Katherine e la sua giornata è terminata: ci troviamo a fare il bagno nelle pozze termali appena fuori dalla cittadina. “Di fronte a quello che sta accadendo le tecniche tradizionali, anche se fossero applicate in maniera diffusa, non sarebbero sufficienti né risolutive. Per questo attuiamo i cultural burning in concomitanza con altre politiche di riduzione del pericolo di incendi e con interventi adattati alla vita contemporanea. Tuttavia, sono convinto che diffondere queste conoscenze e metterle in pratica in maniera ampia ci aiuterebbe a preservare e conservare l’ambiente”.
Un ambiente, quello australiano, di una ricchezza grande come i suoi cieli che pare non finiscano mai. Affascinante, potente e unico.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
TERRA!!! TERRA!!! PIANETA TERRA: FILOLOGIA E ’DENDROLOGIA’ (gr.: "déndron" - albero e "lògos" - studio/scienza). L’ALBERO DELLA VITA ...
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
Federico La Sala
Il sogno.
Un Giubileo ecumenico per salvare il Pianeta
di Alex Zanotelli (Avvenire, venerdì 31 gennaio 2020)
Caro direttore,
la situazione ambientale Cdel Pianeta è sempre più grave (gli orrendi fuochi in Australia e altrove ne sono una riprova) e i governi del mondo sempre più incapaci a trovare soluzioni.
Il fallimento della Cop25 di Madrid, che ha visto coinvolti tutti i governi del mondo per oltre due settimane dello scorso dicembre, è un brutto segnale per l’umanità. Ha vinto il petrolio, ha vinto il carbone! Ha perso la Politica: i governi sono prigionieri dei poteri economico- finanziari. La colpa è soprattutto degli Usa di Trump, del Brasile di Bolsonaro, dell’Australia di Morrison: è la vittoria del sovranismo ambientale.
Da Madrid ne escono invece sconfitti i Paesi impoveriti che subiranno il maggior danno del surriscaldamento, causato al 90% dai Paesi ricchi. Purtroppo questi ultimi si sono rifiutati di aumentare il Fondo per aiutare i Paesi impoveriti ad affrontare i disastri climatici. È il trionfo dell’eco-razzismo. Tutto questo è uno schiaffo ai movimenti ambientalisti di Fridays for Future, ai Sunrisers Usa, agli Extinction Rebellion, ai milioni di persone scese in piazza, a papa Francesco, così impegnato in questo campo con la Laudato si’ e il Sinodo per l’Amazzonia. Per questo, vista la gravità della situazione ambientale e l’arroganza dei Paesi sovranisti, noi chiediamo a papa Francesco un altro regalo: un Giubileo per salvare il Pianeta. È quanto chiede la nota economista inglese, Ann Pettifor, che ha diretto la vittoriosa campagna del Giubileo 2000 per la remissione dei debiti ai Paesi del sud del mondo. Lei fa notare nel suo recente libro The case for the Green New Deal che, se vogliamo guarire questo nostro eco-sistema malato, dobbiamo riordinare la finanza mondiale.
E allora un Giubileo potrebbe essere provvidenziale, in un momento così critico. Il Giubileo nasce dal concetto biblico del settimo giorno: il sabato, che significa riposare. È il principio sabbatico di riposo per gli uomini, per gli animali, per la terra, ma anche per i sistemi economicofinanziari.
Il principio sabbatico è basato sul concetto del limite: non siamo Dio, siamo esseri limitati. Ed ecco il Giubileo biblico dei sette anni di sabati e poi di sette per sette anni di sabati, il grande Giubileo, che prevedeva la remissione dei debiti, la restituzione della terra, la liberazione degli schiavi e il riposo della terra. Gesù ha iniziato il suo ministero nella Galilea dei disperati, annunciando l’«anno di grazia», il Giubileo.
Quello del 2000 ha finalmente ripreso questa dimensione sociale, affermando che ci sono limiti allo sfruttamento dei debitori da parte dei creditori. Così abbiamo ottenuto la remissione di tanti debiti dei Paesi impoveriti. Oggi abbiamo bisogno di un altro Giubileo che sappia coniugare la dimensione finanziaria con quella ecologica: il riposo della terra. «Non possiamo infatti affrontare la crisi del nostro eco-sistema - afferma sempre Pettifor - senza riformare il sistema economico-finanziario. Una linea diretta collega il credito emesso dalle banche, che aprono il rubinetto della liquidità, senza preoccuparsi dell’utilizzo che viene fatto di quel denaro, e la spinta verso un sistema basato sull’iperconsumo e sull’iperproduzione e quindi sulle emissioni di gas serra».
Perché questo possa avvenire - sostiene ancora Pettifor - il sistema finanziario globale deve di nuovo essere controllato dall’autorità pubblica, mentre oggi la finanza è controllata da autorità private ( Wall Street, City di Londra...). «Fintanto che la finanza non regolata - scrive il gesuita ed economista francese Gaël Giraud nel suo libro ’Transizione ecologica’ - prometterà un rendimento del 15% l’anno, il risparmio non potrà essere investito in un programma di industrializzazione verde, che potrà essere redditizia solo nel lungo periodo. Spetta dunque a noi, in seno alla società civile, nelle nostre Chiese, esigere dalla politica che adotti le misure che si impongono per regolare i mercati finanziari ». Il Sogno giubilare, che dovremo inseguire, secondo Giraud, è quello che «denaro e credito diventino beni comuni ».
Ecco perché in questo momento storico sarebbe importante un Giubileo che aiuti le comunità cristiane a ritrovare il ’Gran sogno di Dio’ espresso nelle tradizioni giubilari e radicalizzato da Gesù. Sarebbe straordinario se le Chiese cristiane, riunite nel Consiglio Mondiale delle Chiese-Wcc, dimenticando le polemiche passate sui Giubilei, si accordassero per proclamare un Giubileo ecumenico! Il Giubileo dovrebbe portare le Chiese a «una conversione ecologica - come afferma papa Francesco nella Laudato si’ - che comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo che li circonda. Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana».
Sacerdote, missionario comboniano e direttore di ’Mosaico di Pace’
Editoriale
PER LA CRITICA DELLA RAGIONE "OLIMPICA" .... *
Il discorso di Greta Thunberg alle Nazioni unite
di Greta Thunberg (il manifesto, 27.9.2019)
New York. E’ tutto sbagliato. Io non dovrei essere qui di fronte a voi. Dovrei essere a scuola dall’altra parte dell’oceano. Eppure venite tutti da me per avere speranza? Ma come osate! Voi avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre vuote parole. Eppure io sono una persona fortunata.
Le persone soffrono. Le persone stanno morendo. Interi ecosistemi stanno crollando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto ciò di cui riuscite a parlare sono i soldi e le favole della crescita economica infinita. Come osate!
Per più di 30 anni la scienza è stata di una chiarezza cristallina. Con che coraggio osate continuare a girarvi dall’altra parte e venire qui assicurando che state facendo abbastanza, quando la politica e le soluzioni necessarie non sono ancora nemmeno all’orizzonte.
Dite che “ci ascoltate” e che comprendete l’urgenza. Ma non importa quanto io sia triste e arrabbiata, non voglio crederci. Perché se comprendeste davvero la situazione e continuaste a non agire, allora sareste malvagi. E mi rifiuto di crederci.
L’idea più diffusa sul dimezzare le nostre emissioni in 10 anni ci dà solo il 50% di probabilità di rimanere al di sotto di 1,5 ° C e disinnescare così reazioni a catena irreversibili al di fuori del controllo umano.
Forse il 50% di probabilità è accettabile per voi. Ma questi numeri non includono i punti di non ritorno, la maggior parte dei circuiti di feedback, il riscaldamento aggiuntivo nascosto dall’inquinamento atmosferico tossico o gli aspetti di giustizia e di equità. Fanno anche affidamento sull’ipotesi che la mia generazione e quella dei miei figli riuscirà a risucchiare centinaia di miliardi di tonnellate di CO2 dall’atmosfera con tecnologie che oggi esistono a malapena.
Quindi un rischio del 50% non è semplicemente accettabile per noi - noi che dobbiamo convivere con le conseguenze.
Per avere una probabilità del 67% di rimanere al di sotto di un aumento della temperatura globale di 1,5 ° C - le migliori probabilità stimate dal Pannello intergovernativo sui cambiamenti climatici - il 1 ° gennaio 2018 il mondo aveva solo 420 gigatonnellate di anidride carbonica da poter rilasciare nell’atmosfera.
Oggi questa cifra è già sotto le 350 gigatonnellate. Come osate far finta che questo problema possa essere risolto con le solite soluzioni economiche e tecniche. Con i livelli di emissione odierni, la quantità di CO2 a disposizione sarà completamente sparita in meno di otto anni e mezzo.
Non ci saranno soluzioni o piani presentati secondo i dati di oggi. Perché questi numeri sono troppo scomodi. E voi non siete ancora abbastanza maturi per dire le cose come stanno.
Ci state deludendo e tradendo. Ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento. Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi. E se sceglierete di fallire, vi dico che non vi perdoneremo mai.
Non vi lasceremo andare via come se nulla fosse. Proprio qui, proprio adesso, è dove tracciamo la linea. Il mondo si sta svegliando. E il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no.
* Testo del discorso all’Assemblea generale delle Nazioni unite di New York del 23 settembre 2019 (traduzione dall’inglese a cura di Matteo Bartocci).
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE (LA LEZIONE DI NELSON MANDELA).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI. Al di là del "paradosso della ripetizione" ... *
TROVO MOLTO INTERESSANTE l’indicazione di FRANCESCA (vedi - sopra) di mettere i piedi a Terra e guardare la Luna. Al di là dei limiti del percorso di Fachinelli, mia opinione, di ciò che resta fondamentale del suo lavoro è la decisiva messa in evidenza di quanto - antropologicamente - sta al fondamento della rivoluzione (e pratica!) psicoanalitica: "La mente estatica" (1989)! Si possono chiudere porte e finestre all’infinito, ma ora non solo dalla caverna platonica ma anche dall’isola di Creta ("Sulla spiaggia", 1985) si può uscire (cfr. Fachinelli e Freud nella "nave" di Galilei), riprendere la navigazione e guardare dall’Oceano, terrestre e celeste, la Terra ...
IL "GIARDINO" DEVASTATO E LE PIANTE. "Lo sciovinismo antropologico/antropocentrico (e più generalmente zoo-logico/zoo-centrico) che impera su gran parte della filosofia morale e politica dall’antichità ai giorni nostri non ammette un valore delle piante in quanto tali. Per gli esseri umani è molto più facile identificarsi con gli animali che con le piante, la cui fisiologia risulta difficile da comprendere (l’antropomorfismo e lo zoomorfismo vanno facilmente insieme). L’apparente immobilità delle piante, la loro apparente mancanza di differenziazione, il loro essere apparentemente inermi e inette, rendono le piante poco salienti per i sensi degli esseri umani - facilitando così anche la scomparsa della vita vegetale dall’orizzonte dell’etica e della politica.
Quest’oblio è ingiustificato in sé e costituisce anche un problema urgente per l’etica dell’ambiente. Se non si dà valore alle piante, perché le si ritiene prive delle caratteristiche necessarie a generare valore (come l’autocoscienza, l’intelligenza, la capacità di provare sensazioni ed emozioni, di agire, di esercitare la volontà), allora non si potrà dare valore alla natura inanimata, cioè agli ecosistemi e al mondo naturale nel suo complesso, dichiarando così il fallimento di ogni tipo di etica dell’ambiente non fondamentalmente antropo- o zoo-centrica.
Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore. Una buona quota della attuale crisi ecologica, possibilmente la più subdola e insidiosa, potrebbe risultare riconducibile a questa incapacità o rifiuto, e spiegabile attraverso il prisma delle nostre relazioni irrisolte con le piante.
Se si dà valore alle piante si è sulla buona strada per dare valore alla natura tutta, inclusa tutta quella inanimata; e non solo come un insieme indistinto, ma come un ricettacolo di diversità e di specificità e particolarità inesauribile. Una visione del genere terrà conto, per esempio, del fatto che gran parte della natura è roccia, acqua, e piante: la vita animale si attesta, in proporzione, solo al quarto posto - la “nazione delle piante”, come la battezza Stefano Mancuso, è di gran lunga la più popolosa [...]"(dal volume "Etica e politica delle piante", di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, e con contributi di Simone Pollo e Alessandra Viola).
*
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
«Perché la storia continui». Appello per una Costituzione della Terra
Proposte. Appello per un nuovo costituzionalismo globale, una bussola etica e politica per salvare il mondo e i suoi abitanti dalla distruzione.
di Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, Raffaele Nogaro, Paolo Maddalena, Mariarosaria Guglielmi, Riccardo Petrella (il manifesto, 26.12.2019)
Nel pieno della crisi globale, nel 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana, Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, il vescovo Nogaro, Riccardo Petrella e molti altri lanciano il progetto politico di una Costituzione per la Terra e promuovono una Scuola, «Costituente Terra», che ne elabori il pensiero e prefiguri una nuova soggettività politica del popolo della Terra, «perché la storia continui». Pubblichiamo le parti essenziali del documento che esce domani, in data 27 dicembre 2019.
L’Amazzonia brucia e anche l’Africa, e non solo di fuoco, la democrazia è a pezzi, le armi crescono, il diritto è rotto in tutto il mondo. «Terra! Terra!» è il grido dei naufraghi all’avvistare la sponda, ma spesso la terra li respinge, dice loro: «i porti sono chiusi, avete voluto prendere il mare, fatene la vostra tomba, oppure tornate ai vostri inferni». Ma «Terra» è anche la parola oggi più amata e perduta dai popoli che ne sono scacciati in forza di un possesso non condiviso; dai profughi in fuga per la temperatura che aumenta e il deserto che avanza; dalle città e dalle isole destinate ad essere sommerse al rompersi del chiavistello delle acque, quando la Groenlandia si scioglie, i mari son previsti salire di sette metri sull’asciutto, e a Venezia già lo fanno di un metro e ottantasette. «Che si salvi la Terra» dicono le donne e gli uomini tutti che assistono spaventati e impotenti alla morte annunciata dell’ambiente che da millenni ne ospita la vita.
Ci sono per fortuna pensieri e azioni alternative, si diffonde una coscienza ambientale, il venerdì si manifesta per il futuro, donne coraggiose da Greta Thunberg a Carola Rackete fanno risuonare milioni di voci, anche le sardine prendono la parola, ma questo non basta. Se nei prossimi anni non ci sarà un’iniziativa politica di massa per cambiare il corso delle cose, se le si lascerà in balia del mercato della tecnologia o del destino, se in Italia, in Europa e nelle Case Bianche di tutti i continenti il fascismo occulto che vi serpeggia verrà alla luce e al potere, perderemo il controllo del clima e della società e si affacceranno scenari da fine del mondo, non quella raccontata nelle Apocalissi, ma quella prevista e monitorata dagli scienziati.
Il cambiamento è possibile
L’inversione del corso delle cose è possibile. Essa ha un nome: Costituzione della terra. Il costituzionalismo statuale che ha dato una regola al potere, ha garantito i diritti, affermato l’eguaglianza e assicurato la vita degli Stati non basta più, occorre passare a un costituzionalismo mondiale della stessa autorità ed estensione dei poteri e del denaro che dominano la Terra.
La Costituzione del mondo non è il governo del mondo, ma la regola d’ingaggio e la bussola di ogni governo per il buongoverno del mondo. Nasce dalla storia, ma deve essere prodotta dalla politica, ad opera di un soggetto politico che si faccia potere costituente. Il soggetto costituente di una Costituzione della Terra è il popolo della Terra, non un nuovo Leviatano, ma l’unità umana che giunga ad esistenza politica, stabilisca le forme e i limiti della sua sovranità e la eserciti ai fini di far continuare la storia e salvare la Terra.
Salvare la Terra non vuol dire solo mantenere in vita «questa bella d’erbe famiglia e d’animali», cantata dai nostri poeti, ma anche rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno sviluppo di tutte le persone umane.
Il diritto internazionale è già dotato di una Costituzione embrionale del mondo, prodotta in quella straordinaria stagione costituente che fece seguito alla notte della seconda guerra mondiale e alla liberazione dal fascismo e dal nazismo: la Carta dell’Onu del 1945, la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, i due Patti internazionali del 1966 e le tante Carte regionali dei diritti, che promettono pace, sicurezza, garanzia delle libertà fondamentali e dei diritti sociali per tutti gli esseri umani. Ma non sono mai state introdotte le norme di attuazione di queste Carte, cioè le garanzie internazionali dei diritti proclamati. Non è stato affatto costituito il nuovo ordine mondiale da esse disegnato. È come se un ordinamento statale fosse dotato della sola Costituzione e non anche di leggi attuative, cioè di codici penali, di tribunali, di scuole e di ospedali che «di fatto la realizzino».
È chiaro che in queste condizioni i diritti proclamati sono rimasti sulla carta, come promesse non mantenute. Riprendere oggi il processo politico per una Costituzione della Terra vuol dire tornare a prendere sul serio il progetto costituzionale formulato settant’anni fa e i diritti in esso stabiliti. E poiché quei diritti appartengono al diritto internazionale vigente, la loro tutela e attuazione non è soltanto un’urgente opzione politica, ma anche un obbligo giuridico in capo alla comunità internazionale e a tutti noi che ne facciamo parte.
Qui c’è un’obiezione formulata a partire dalla tesi di vecchi giuristi secondo la quale una Costituzione è l’espressione dell’«unità politica di un popolo»; niente popolo, niente Costituzione. E giustamente si dice che un popolo della Terra non c’è; infatti non c’era ieri e fino ad ora non c’è.
La novità è che adesso può esserci, può essere istituito; lo reclama la scena del mondo, dove lo stato di natura delle sovranità in lotta tra loro non solo toglie la «buona vita», ma non permette più neanche la nuda vita; lo reclama l’oceano di sofferenza in cui tutti siamo immersi; lo rende possibile oggi la vetta ermeneutica raggiunta da papa Francesco e da altre religioni con lui, grazie alla quale non può esserci più un dio a pretesto della divisione tra i popoli: «Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno» - hanno detto ad Abu Dhabi - non vuole essere causa di terrore per nessuno, mentre lo stesso «pluralismo e le diversità di religione sono una sapiente volontà divina con cui Dio ha creato gli esseri umani»; non c’è più un Dio geloso e la Terra stessa non è una sfera, ma un poliedro di differenze armoniose.
Per molti motivi perciò è realistico oggi porsi l’obiettivo di mettere in campo una Costituente della Terra, prima ideale e poi anche reale, di cui tutte le persone del pianeta siano i Padri e le Madri costituenti.
Una politica dalla parte della Terra
Di per sé l’istanza di una Costituzione della Terra dovrebbe essere perseguita da quello strumento privilegiato dell’azione politica che, almeno nelle democrazie, è il partito - nazionale o transnazionale che sia - ossia un artefice collettivo che, pur sotto nomi diversi, agisca nella forma partito. Oggi questo nome è in agonia perché evoca non sempre felici ricordi, ma soprattutto perché i grandi poteri che si arrogano il dominio del mondo non vogliono essere intralciati dal controllo e dalla critica dei popoli, e quindi cercano di disarmarli spingendoli a estirpare le radici della politica e dei partiti fin nel loro cuore. È infatti per la disaffezione nei confronti della politica a cui l’intera società è stata persuasa che si scende in piazza senza colori; ma la politica non si sospende, e ciò a cui comunque oggi siamo chiamati è a prendere partito, a prendere partito non per una Nazione, non per una classe, non “prima per noi”, ma a prendere partito per la Terra, dalla parte della Terra.
Ma ancor più che la riluttanza all’uso di strumenti già noti, ciò che impedisce l’avvio di questo processo costituente, è la mancanza di un pensiero politico comune che ne faccia emergere l’esigenza e ne ispiri modalità e contenuti.
Non manca certamente l’elaborazione teorica di un costituzionalismo globale che vada oltre il modello dello Stato nazionale, il solo nel quale finora è stata concepita e attuata la democrazia, né mancano grandi maestri che lo propugnino; ma non è diventato patrimonio comune, non è entrato nelle vene del popolo un pensiero che pensi e promuova una Costituzione della Terra, una unità politica dell’intera comunità umana, il passaggio a una nuova e rassicurante fase della storia degli esseri umani sulla Terra.
Eppure le cose vanno così: il pensiero dà forma alla realtà, ma è la sfida della realtà che causa il pensiero. Una “politica interna del mondo” non può nascere senza una scuola di pensiero che la elabori, e un pensiero non può attivare una politica per il mondo senza che dei soggetti politici ne facciano oggetto della loro lotta. Però la cosa è tale che non può darsi prima la politica e poi la scuola, né prima la scuola e poi la politica. Devono nascere insieme, perciò quello che proponiamo è di dar vita a una Scuola che produca un nuovo pensiero della Terra e fermenti causando nuove soggettività politiche per un costituzionalismo della Terra. Perciò questa Scuola si chiamerà «Costituente Terra».
«Costituente Terra»: una Scuola per un nuovo pensiero
Certamente questa Scuola non può essere pensata al modo delle Accademie o dei consueti Istituti scolastici, ma come una Scuola disseminata e diffusa, telematica e stanziale, una rete di scuole con aule reali e virtuali. Se il suo scopo è di indurre a una mentalità nuova e a un nuovo senso comune, ogni casa dovrebbe diventare una scuola e ognuno in essa sarebbe docente e discente. Il suo fine potrebbe perfino spingersi oltre il traguardo indicato dai profeti che volevano cambiare le lance in falci e le spade in aratri e si aspettavano che i popoli non avrebbero più imparato l’arte della guerra. Ciò voleva dire che la guerra non era in natura: per farla, bisognava prima impararla. Senonché noi l’abbiamo imparata così bene che per prima cosa dovremmo disimpararla, e a questo la scuola dovrebbe addestrarci, a disimparare l’arte della guerra, per imparare invece l’arte di custodire il mondo e fare la pace.
Molte sarebbero in tale scuola le aree tematiche da perlustrare:
1) le nuove frontiere del diritto, il nuovo costituzionalismo e la rifondazione del potere;
2) il neo-liberismo e la crescente minaccia dell’anomia;
3) la critica delle culture ricevute e i nuovi nomi da dare a eventi e fasi della storia passata;
4) il lavoro e il Sabato, un lavoro non ridotto a merce, non oggetto di dominio e alienato dal tempo della vita;
5) la «Laudato sì» e l’ecologia integrale;
6) il principio femminile, come categoria rigeneratrice del diritto, dal mito di Antigone alla coesistenza dei volti di Levinas, al legame tra donna e natura fino alla metafora della madre-terra;
7) l’Intelligenza artificiale (il Führer artificiale?) e l’ultimo uomo;
8) come passare dalle culture di dominio e di guerra alle culture della liberazione e della pace;
9) come uscire dalla dialettica degli opposti, dalla contraddizione servo-signore e amico-nemico per assumere invece la logica dell’ et-et, della condivisione, dell’armonia delle differenze, dell’ «essere per l’altro», dell’ «essere l’altro»;
10) il congedo del cristianesimo dal regime costantiniano, nel suo arco «da Costantino ad Hitler», e la riapertura nella modernità della questione di Dio;
11) il «caso Bergoglio», preannuncio di una nuova fase della storia religiosa e secolare del mondo.
Naturalmente molti altri temi potranno essere affrontati, nell’ottica di una cultura per la Terra alla quale nulla è estraneo d’umano. Tutto ciò però come ricerca non impassibile e fuori del tempo, ma situata tra due kairòs, tra New Delhi ed Abu Dhabi, due opportunità, una non trattenuta e non colta, la proposta di Gorbaciov e Rajiv Gandhi del novembre 1986 per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento, e l’altra che ora si presenta di una nuova fraternità umana per la convivenza comune e la salvezza della Terra, preconizzata nel documento islamo-cristiano del 4 febbraio 2019 e nel successivo Comitato di attuazione integrato anche dagli Ebrei, entrato ora in rapporto con l’ONU per organizzare un Summit mondiale della Fratellanza umana e fare del 4 febbraio la Giornata mondiale che la celebri.
Partecipare al processo costituente iscriversi al Comitato promotore
Pertanto i firmatari di questo appello propongono di istituire una Scuola denominata «Costituente Terra» che prenda partito per la Terra, e a questo scopo hanno costituito un’associazione denominata «Comitato promotore partito della Terra». Si chiama così perché in via di principio non era stata esclusa all’inizio l’idea di un partito, e in futuro chissà. Il compito è oggi di dare inizio a una Scuola, «dalla parte della Terra», alle sue attività e ai suoi siti web, e insieme con la Scuola ad ogni azione utile al fine «che la storia continui»; e ciò senza dimenticare gli obiettivi più urgenti, il risanamento del territorio, la rifondazione del lavoro, l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, la firma anche da parte dell’Italia del Trattato dell’ONU per l’interdizione delle armi nucleari e così via.
I firmatari propongono che persone di buona volontà e di non perdute speranze, che esponenti di associazioni, aggregazioni o istituzioni già impegnate per l’ecologia e i diritti, si uniscano a questa impresa e, se ne condividono in linea generale l’ispirazione, si iscrivano al Comitato promotore di tale iniziativa all’indirizzo progettopartitodellaterra@gmail.com versando la relativa quota sul conto BNL intestato a “Comitato promotore del partito della Terra”, IBAN IT94X0100503206000000002788 (dall’estero BIC BNLIITRR).
La quota annua di iscrizione, al Comitato e alla Scuola stessa, è libera, e sarà comunque gradita. Per i meno poveri, per quanti convengano di essere tra i promotori che contribuiscono a finanziare la Scuola, eventuali borse di studio e il processo costituente, la quota è stata fissata dal Comitato stesso nella misura significativa di 100 euro, con l’intenzione di sottolineare che la politica, sia a pensarla che a farla, è cosa tanto degna da meritare da chi vi si impegna che ne sostenga i costi, contro ogni tornaconto e corruzione, ciò che per molti del resto è giunto fino all’offerta della vita. Naturalmente però si è inteso che ognuno, a cominciare dai giovani, sia libero di pagare la quota che crede, minore o maggiore che sia, con modalità diverse, secondo le possibilità e le decisioni di ciascuno.
Nel caso che l’iniziativa non riuscisse, le risorse finanziarie mancassero e il processo avviato non andasse a buon fine, l’associazione sarà sciolta e i fondi eventualmente residui saranno devoluti alle ONG che si occupano dei salvataggi dei fuggiaschi e dei naufraghi nel Mediterraneo.
Un’assemblea degli iscritti al Comitato sarà convocata non appena sarà raggiunto un congruo numero di soci, per l’approvazione dello Statuto dell’associazione, la formazione ed elezione degli organi statutari e l’impostazione dei programmi e dell’attività della Scuola.
Roma, 27 dicembre 2019, 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana.
PROPONENTI E PRIMI ISCRITTI. Raniero La Valle, giornalista (Roma), Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto (Roma), Valerio Onida, già presidente della Corte Costituzionale, Raffaele Nogaro, ex vescovo di Caserta, Paolo Maddalena, già vicepresidente della Corte Costituzionale, Mariarosaria Guglielmi, Segretaria generale di Magistratura Democratica, Riccardo Petrella, ecologo, promotore del Manifesto dell’acqua e dell’identità di “Abitante della Terra”, Domenico Gallo, magistrato, Francesco Carchedi, sociologo (Roma), Francesco Di Matteo, Comitati Dossetti per la Costituzione, Anna Falcone. avvocata, Roma, Pippo Civati, Politico, Piero Basso (Milano), Gianpietro Losapio, cooperatore sociale, direttore del Consorzio NOVA, Giacomo Pollastri, studente in Legge (Roma), Francesco Comina, giornalista (Bolzano), Roberto Mancini, filosofo (Macerata), Francesca Landini, informatica (Roma), Giancarlo Piccinni e la Fondazione don Tonino Bello (Alessano), Grazia Tuzi, antropologa, autrice di “Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della comunità del porcellino” (Roma), Guido Innocenzo Gargano osb cam., monaco (Roma), Felice Scalia, s. J, (Messina), Marina Graziosi, docente (Roma), Agata Cancelliere, insegnante, (Roma), Raul Mordenti, storico della critica letteraria, Politico (Roma), Salvatore Maira, scrittore (Roma), Marco Malagola, francescano, missionario, (Torino), Norma Lupi (Roma), Andrea Cantaluppi, sindacalista (Roma), Enrico Peyretti (Torino), Nino Mantineo, università di Catanzaro, Giacoma Cannizzo, già sindaca di Partinico, Filippo Grillo, artista (Palermo), Nicola Colaianni, già magistrato e docente all’Università di Bari, Stefania Limiti, giornalista (Roma), Domenico Basile (Merate, Lecco), Maria Chiara Zoffoli (Merate), Luigi Gallo (Bolzano), Antonio Vermigli, giornalista (Quarrata, Pistoia), Renata Finocchiaro, ingegnere (Catania), Liana D’Alessio (Roma), Lia Fava, ordinaria di letteratura (Roma), Paolo Pollastri, musicista (Roma), Fiorella Coppola, sociologa (Napoli), Dario Cimaglia, editore, (Roma), Luigi Spina, insegnante, ricercatore (Biella), Marco Campedelli, Boris Ulianich, storico, Università Federico II, Napoli, Gustavo Gagliardi, Roma, Paolo Scandaletti, scrittore di storia, Roma, Pierluigi Sorti, economista, Roma, Vittorio Bellavite, coordinatore di “Noi siamo Chiesa”, Agnés Deshormes, cooperatrice internazionale, Parigi, Anna Sabatini Scalmati, psicoterapeuta, Roma, Francesco Piva, Roma, Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo, Tina Palmisano, Il Giardino Terapeutico sullo Stretto, Messina, Luisa Marchini, segretaria di “Salviamo la Costituzione”, Bologna, Maurizio Chierici, giornalista. Angelo Cifatte, formatore, Genova, Marco Tiberi, sceneggiatore, Roma, Achille Rossi e l’altrapagina, Città di Castello, Antonio Pileggi, ex Provveditore agli studi e dir. gen. INVALSI, Giovanni Palombarini, magistrato, Vezio Ruggieri, psicofisiologo (Roma) Bernardetta Forcella (insegnante (Roma), Luigi Narducci (Roma), Laura Nanni (Albano), Giuseppe Salmè, magistrato, Giovanni Bianco, giurista, Roma.
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il "principle of charity", il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "The Nature of Rationality", 1993) *
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W.
V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia
del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni
fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non
di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si
tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni
o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti
“mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o,
ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente
da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione
nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a
un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con
la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori
sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione
a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object
(1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione
più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali»
del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come
una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al
nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto
il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in
fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word
and Object3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i
nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung)
del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento
sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica
di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio
schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una
necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe
soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche
correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili
traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati
andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni,
quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui
base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di
«catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici
» (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione
del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative
bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili
sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa
a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i
nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare
i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PIANETA TERRA. LO SPIRITO DELL’EUROPA .... *
Elezioni Gb, Johnson trionfa: ’Ora realizzeremo la Brexit’. Vola la sterlina
Ai Tory la maggioranza assoluta. Shock LibDem, la leader Jo Swinson non rieletta
di Redazione ANSA*
Le elezioni britanniche consegnano a Boris Johnson e ai Tory un’ampia maggioranza assoluta a Westminster, le chiavi di Downing Street per i prossimi 5 anni e il lasciapassare per una Brexit che, a 3 anni e mezzo dal referendum del 2016, diventa irreversibile. La sterlina vola sui mercati valutari nel cambio con il dollaro e l’euro dopo: la valuta inglese passa di mano a 1,3446 sul dollaro (+2,1%) e a 0,8303 sull’euro (+1,8%). La moneta unica è scambiata invece in avvio di giornata senza sensibili variazioni sul dollaro.
"Mi congratulo con Boris Johnson e mi aspetto che il Parlamento britannico ratifichi il prima possibile l’accordo" negoziato sulla Brexit, ha detto il presidente del Consiglio Ue Charles Michel.
La Ue "è pronta a discutere gli aspetti operativi" delle relazioni future, ha aggiunto, spiegando che i leader avranno una discussione sulla Brexit oggi.
Il partito conservatore ha incassato oltre 360 seggi su 650, mentre al Labour di Jeremy Corbyn ne vengono attribuiti circa 200. "Una decisione inconfutabile dei britannici", commenta Johnson che aggiunge: "Con questo mandato realizzaremo la Brexit".
Un risultato che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher e segna invece la disfatta peggiore da decenni per il Labour.
Ed è guerra all’interno del partito, ma Jeremy Corbyn rimanda le dimissioni. Non guiderà il partito "in un’altra elezione", ma per ora resta in Parlamento e "guiderà il Labour in una fase di riflessione".
Il verdetto è chiarissimo. Il messaggio di BoJo, sintetizzato nella promessa-tormentone ’Get Brexit done’, è passato. E il controllo Tory sulla Camera nega ogni credibile spazio di manovra al fronte dei partiti che s’erano impegnati a convocare un secondo referendum sull’Europa per offrire agli isolani una chance di ripensamento.
Shock anche per i liberaldemocratici: la 39enne neo-leader del partito più radicalmente anti-Brexit del lotto, Jo Swinson, che aveva cercato di proporsi addirittura come una rivale diretta di Boris Johnson e di Jeremy Corbyn, non solo non è riuscita a far avanzare la sua formazione, ma è stata bocciata anche a livello personale nel collegio di Dumbartonshire East: scalzata per 149 voti da Amy Callaghan, indipendentista scozzese dell’Snp. Swinson non però annunciato le dimissioni da leader.
Nigel Farage non considera una sconfitta il risultato negativo - peraltro previsto dai sondaggi - del suo Brexit Party alle elezioni politiche britanniche. Il partito è rimasto al palo, con zero seggi secondo l’exit poll, di fatto riassorbito dal partito conservatore di Boris Johnson dopo il trionfo nel voto (proporzionale) delle Europee di maggio. Ma secondo Farage, intervistato a caldo dalla Bbc, ha comunque contribuito a favorire il successo Tory e a evitare lo spettro di un Parlamento senza maggioranza (hung Parliament): sia non presentando candidati in oltre 300 collegi già controllati dai conservatori, sia togliendo voti ai laburisti di Jeremy Corbyn in diverse circoscrizioni del cosiddetto ’muro rosso’ dell’Inghilterra centro-settentrionale e del Galles, tradizionalmente di sinistra, ma in maggioranza pro Brexit e contrarie a un secondo referendum.
Il partito laburista britannico tiene a Londra dove ha conquistato 49 su 73 seggi. Sia Boris Johnson che Jeremy Corbyn hanno vinto nelle loro circoscrizioni. I Tory hanno perso Putney ma hanno guadagnato Kensington ottenendo in totale 21 seggi. Fuori invece Chuka Umunna, ex astro nascente del Labour passato in queste elezioni ai LibDem.
* ANSA 13 dicembre 2019 (ripresa parziale).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ROMA BRUCIA. GRAZIE AL "TIMES" PER L’ALLARME, MA LONDRA NON RIDA (E ABBIA MIGLIOR CURA DI FREUD). L’incendio è generale. Un omaggio alla Sapienza di Oxford
LO SPIRITO DELL’ EUROPA. "BUOI AL GUADO" AD OXFORD, "CERVI ALLA FONTE" DELLA "SAPIENZA" DI ROMA. TRACCE PER UNA SOLA GRANDE FESTA: "LA LUCE SPLENDE NELLE TENEBRE" DELL’INVERNO. E per proseguire il comune cammino "eu-ropeuo"
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini**
Federico La Sala
VERSO "BARI 2020", "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
Antichi Ritorni
Cenis/Ceneo, quando uno stupro cancella l’identità
Oltraggiata dal dio Poseidone la fanciulla chiede di diventare uomo
di Alba Subrizio (il Mattino di Puglia e Basilicata, 10/09/2017)
La prima trasformazione female-to-male ma soprattutto il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita. Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Per cancellare quel dolore, Cenis ha bisogno di ripudiare se stessa, divenendo altro...
Lungi da me l’idea di fare politica, non posso tacere in merito agli stupri perpetrati nelle ultime settimane in tutta Italia e allo scempio mediatico a cui le vittime sono state sottoposte. In una società come la nostra, quasi assuefatta ai crimini della peggior specie (sic!), sembra che il ‘delitto’ commesso passi in secondo piano, il dolore, la vergogna subita, sono cose che non vogliamo vedere o che forse non ci interessano; ciò che invece interessa è sapere chi ha compiuto il misfatto: l’immigrato, l’italiano, il carabiniere finanche...
Soprattutto sui social network - ormai divenuti sempre più luogo di sfogo di personali frustrazioni da parte di individui che diversamente non saprebbero come esistere - leggo commenti insulsi, a dir poco da far accapponare la pelle: dopo i fatti di Firenze c’è chi inneggiava che a commettere l’abominio fossero stati esponenti dell’Arma (inneggiare sì, come se fosse una bella cosa, l’importante è che non fossero ancora una volta accusati cittadini extracomunitari); d’altra parte in seguito ai fatti di Rimini leggo gente “tutta contenta” utilizzare gli avvenimenti a sostegno delle loro teorie xenofobe... e poi numeri e numeri. Come se tutto ciò fosse un gioco: un gioco a calcolare quale ‘parte’ in gara ha compiuto più stupri.
Da questo quadro emerge solo un dato di fatto: il popolo italiano, di qualunque colore politico, ha perso ormai il senno. Ahinoi, non possiamo dire che i nostri antenati latini fossero poi così diversi; basti rileggere i miti antichi per accorgersi da quanti stupri e violenze sono disseminate queste storie: piccoli particolari senza valore all’interno di Storie ben più grandi, ben più importanti.
A convalida di ciò, si pensi solo a Zeus ed Apollo (i campioni dello stupro) per non parlare di altre divinità. Eh già, perché nell’antica Grecia i maggiori artefici di violenze erano gli dèi, proprio quelli che avrebbero dovuto proteggere gli uomini. Tra i tanti miti me ne viene in mente uno che, sebbene sconosciuto ai più, mi ha attratto per la forza delle immagini.
C’era una volta Cenis, una delle donne più belle di tutta la Tessaglia; nonostante decine e decine fossero i suoi pretendenti, lei non voleva concedersi e preferiva godere spensierata della sua fanciullezza. Ma un giorno, mentre passeggiava sulle rive del mare, il dio Poseidone, desiderandola, le usò violenza.
Dopo aver goduto di lei - così narra il poeta latino Ovidio nelle sue “Metamorfosi” - le disse che avrebbe realizzato per Cenis ogni suo desiderio. Così ella rispose: «L’ingiuria che ho patito provoca in me un desiderio grande: quello di non dover subire mai più alcunché di simile. Se farai in modo che io non sia più donna, mi avrai completamente accontentato». Fu così che il dio del mare trasformò Cenis in Ceneo.
Il mito non è una semplice metamorfosi come le altre: innanzitutto è la prima volta nella letteratura mondiale che leggiamo di una donna che diventa uomo (la prima trasformazione female-to-male), ma soprattutto è il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita.
Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Scioccamente (da buon maschione) il dio crede di rimediare offrendo un dono, ma nulla può cancellare ciò che è stato. Lo sa bene Cenis, che pertanto, per cancellare quel dolore, ha bisogno di cancellare e ripudiare se stessa, divenendo altro.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Brasile. I giudici aprono le porte del carcere all’ex presidente Lula
La Corte Suprema ha dichiarato l’incostituzionalità del provvedimento che prevede la carcerazione dopo il secondo grado di giudizio. Una legge ad hoc per impedire la candidatura contro Bolsonaro
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 8 novembre 2019)
Le porte della cella di Luiz Inácio Lula da Silva sembrano sul punto di dischiudersi. Per volontà della Corte Suprema. Il voto decisivo è arrivato nella tarda serata di ieri, per bocca del presidente dell’alto tribunale, il giudice Antonio Dias Toffoli. Fino ad allora, la Corte era stata spaccata a metà: cinque contro cinque. Toffoli ha fatto pendere l’ago della bilancia a favore dei sostenitori dell’incostituzionalità del provvedimento che prevede la carcerazione del condannato dopo il secondo grado di giudizio. La norma, in vigore dal 2016, è stata approvata sull’onda dell’indignazione collettiva contro le tangenti suscitata dalla maxi inchiesta Lava Jato. Da allora, essa ha portato dietro le sbarre 4.894 persone, trentotto delle quali coinvolte in Lava Jato. Tra loro, l’ex presidente Silva recluso, dall’aprile 2018, a Curitiba per scontare una sentenza a otto anni e dieci mesi per corruzione passiva e riciclaggio.
Ora, buona parte - tutti quelli che non rappresentano un pericolo per la società - dovranno essere rilasciati. Incluso Lula che non smette di dichiararsi innocente. Il processo e il verdetto contro quest’ultimo non sono stati abrogati. La liberazione avviene per una questione tecnica.
E’ indubbio, però, che sugli alti togati abbia pesato il mutato clima sociale nei confronti di Lava Jato. A differenza di tre anni fa, l’indagine e il suo protagonista, Sergio Moro, non godono più di consenso unanime. L’ex giudice e ora ministro della Giustizia del governo di Jair Bolsonaro, è stato screditato da un’inchiesta di The Intercept che ha pubblicato, a giugno, una serie di messaggi scambiati via Telegram fra gli inquirenti di Lava Jato.
In alcuni di essi, Moro - che aveva funzione giudicante - sembrava "imbeccare" i pm per "incastrare" gli imputati. Da allora, la Corte Suprema è stata investita di ricorsi. Oltre a quello sulla costituzionalità della carcerazione dopo la seconda istanza, altri due rischiano di distruggere la macchina accusatoria creata da Lava Jato. Nelle prossime settimane, gli alti togati dovranno pronunciarsi sulle modalità di impiego dei collaboratori di giustizia. E sulla legittimità delle azioni dello stesso Moro.
PIANETA TERRA: LA NAVE D’ARGO, IL LETARGO DI "VENTICINQUE SECOLI" DI DANTE, E NOI, OGGI .... *
La nave dei folli
di Pietro Barbetta *
Una gita a Clusone e una a Pinzolo non guastano. La danza macabra di Borlone de Buschis di Clusone (1485) e quella di Simone Baschenis di Pinzolo (1539) segnano forse l’inizio e la fine di un periodo di comunità inconfessabile (Blanchot, 1983). Inconfessabile perché composta di trapassati, che, in quanto tali, già sono passati in giudicato, ingiudicabili. In molti accomunano questa comunità a un’altra, che potrebbe essere anche la medesima, chissà. Si tratta della Stultifera Navis. -Cos’hanno in comune gli stolti e i morti? Il semplice fatto di non essere confessabili. Gli uni per il regno dei cieli, gli altri per la terra, sono inguaribili. Bosch e le illustrazioni a Brant di Dürer ne danno rappresentazione figurativa. Ecco una figura chiave, il centro del primo capitolo, della prima parte della Storia della follia di Foucault: Sebastian Brant (1458-1521). Vissuto tra l’opera del de Buschis e quella del Baschenis. Nel giugno 1984 Francesco Saba Sardi (1922-2012) ci regalò, in versi endecasillabi, la traduzione di Das Narrenschiff.
Narrenschiff uscì per la prima volta nel 1494, due anni dopo la scoperta dell’America. Prima di Brant abbiamo alcune opere importanti sull’argomento a partire dal 1360. Si immagina una sorta di confraternita delle persone strambe - le sole che possano esservi ammesse. Corporazione non chiusa per via di censo, particolari privilegi o saperi occulti. Bisognava essere, per esempio, un vescovo che aveva ipotecato il reddito per comprare il titolo religioso, un alchimista che aveva sciolto nel crogiolo le sue ricchezze.
La follia è ingiudicabile altrettanto quanto la morte, inguaribile. Questa caratteristica segna una linea di confine comunitaria, la nave è uno dei suoi contenitori. A quel tempo - successivo alla lebbra e alla peste, coevo di una nuova malattia giunta dalle Americhe, la sifilide - i folli venivano allontanati dalle città, imbarcati su navi per essere abbandonati altrove, ma il navigatore spesso le gettava a mare o le sbarcava in qualche landa desolata, dove morivano. Molti annegavano. Non è difficile immaginarlo oggi che abbiamo sotto gli occhi le immagini di uomini e donne morti alla deriva delle coste italiane. Unica differenza: allora giungevano dove nessuno stava, oggi invece si torce il collo altrove.
Gran satira grottesca o poema moralista? L’opera di Sabstian Brant ci lascia ancora nel dubbio. Quando Foucault ci parla della Stultifera Navis, qualunque opera scritta o figurativa ci venga in mente, dà un senso a quell’insieme indistinto di uomini e donne che ci entravano. Foucault distingue questo ammasso indifferenziato dalla follia così come viene identificata a partire dal secolo XVIII. Dal Settecento la follia diventerà regno del dominio medico, verrà diagnosticata e sistematicamente curata.
La nave dei folli non è che l’inizio di un processo che vedrà successive partizioni, da Erasmo fino a Pinel; è un crogiolo umano, un pleroma. Per alcuni Brant si confronta con l’avvento del Nuovo Mondo. La nave dei folli richiama le navi che iniziano a salpare verso le Americhe, fino al Seicento con la Mayflower, carica di puritani. Nave che navigò la luna, secondo i versi di Paul Simon. Anche loro inconfessabili, in quanto protestanti, spirito del capitalismo.
Brant sarebbe il primo progressista dell’epoca moderna, sguardo disincantato verso il futuro imminente e immanente, fiducia nella città come luogo dell’innovazione e, per via dei commerci, luogo d’incontro multiculturale. La città è il centro dove ogni superstizione, credenza, invidia, odio saranno eliminati. Brant progressista. Invero sulla nave - destinata a Narragonia, che si dirige verso Cuccagna - non ci sono solo i folli contemporanei, bensì usurai, giocatori d’azzardo, adulteri, viziosi, prodighi, invidiosi, voluttuosi, ingrati, spergiuri, bestemmiatori. Tutta la follia premoderna raccolta dentro questa nave autorganizzata, autosufficiente, autopoietica. Brant moralista.
A voler ben guardare, la maggioranza del testo elenca, tra l’altro, la cupidigia, le nuove mode, il retto Catechismo, gli istigatori di discordia, le male costumanze, il dispregio delle Scritture, i galanti, la crapula e la gozzoviglia, le ciarle, i desideri superflui, gli studi inutili, le procrastinazioni, l’adulterio, la presunzione, la voluttà, l’ingratitudine, la bestemmia, l’usura.
Come scritto, Albrecht Dürer illustra l’opera di Brant e Bosch crea una sua opera, sempre nel 1494. Nel frattempo altre comunità inconfessabili si muovono per via terrena, gli Ebrei, cacciati da Spagna e Portogallo, i Valdesi perseguitati ed erranti tra le valli montane fino alla Riforma.
Quanto l’opera si adatti all’ultimo ventennio, quanto sia attuale, quanto si stia trasformando nella Nemesi, lo vediamo dal momento in cui l’Europa è essa stessa, oggi, una nave di folli. Ci si aspetta solo un grande evento naturale, il distacco dagli Urali.
* Doppiozero, 27.02.2013 - ripresa parziale, senza immagini.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE .... *
Occidente in ritiro, compito della Chiesa.
Per dare più voce al futuro
di Agostino Giovagnoli (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Mentre i turchi cacciano i curdi dal Nord della Siria, la Gran Bretagna è agitata dalle convulsioni della Brexit e Hong Kong è attraversata da una protesta sempre più radicale. Tre vicende molto diverse tra loro. Ma tutt’e tre rimandano a una progressiva smobilitazione dell’Occidente.
Con la decisione di far cessare una presenza militare americana in Siria settentrionale - strategica anzitutto sotto il profilo simbolico - Trump ha abbandonato alleati verso cui gli occidentali hanno molti debiti: l’impegno dei curdi contro il Daesh è stato infatti decisivo. Le sorti di questi dipendono oggi interamente da altri attori: oltre alla Turchia, la Russia di Putin e il governo di Assad. Per la prima volta, intanto, la Camera dei Comuni ha approvato una mozione a favore della Brexit, pur imponendone un ulteriore rinvio: un altro passo verso l’uscita di Londra dall’Unione Europea. L’anima anglosassone-marittima dell’Europa e quella continentale-terrestre sembrano destinate a separarsi radicalmente: è una frattura grave all’interno del grande edificio che chiamiamo Occidente. Infine a Hong Kong è sempre più in difficoltà il modello "un Paese, due Sistemi" che aveva l’ambizione di conciliare cultura cinese e metodi occidentali. Anche qui l’influenza dell’Occidente si sta riducendo.
L’ex colonia britannica, collocata in una posizione strategica rispetto a tutta l’Asia, è stata per molto tempo uno dei primi porti del mondo e un mercato finanziario di importanza globale. Al momento del passaggio sotto la sovranità cinese nel 1997, era la seconda area del mondo per reddito pro capite, settima per quantità di riserve valutarie straniere e terza per esportazione di indumenti. La formula "un Paese due Sistemi", creata da Deng Xiaoping, sembrava fotografare una situazione destinata a permanere a lungo: se Hong Kong fosse rimasta uno spazio di incontro tra crescita cinese e sistemi occidentali, non sarebbe convenuto a nessuno mettere in crisi questa simbiosi così originale. Ma con lo sviluppo di aree economiche speciali nella regione limitrofa e il declino degli interessi occidentali per il "Porto dei profumi" questa funzione si è gradualmente ridotta.
Intanto, i sistemi politici occidentali - in discussione anche in tradizionali patrie della democrazia come Stati Uniti e Gran Bretagna - hanno perso progressivamente appeal in tutto il mondo, man mano che altri sistemi politici - in primo luogo quello cinese - si rivelavano compatibili con ritmi di sviluppo economico-sociale molto intensi. Infine, il crescente protezionismo occidentale - di cui la guerra dei dazi dichiarata da Trump è l’espressione più emblematica - ha rovesciato le posizioni: ora è la Cina il principale sostenitore della globalizzazione.
Nell’immaginario collettivo, l’iniziativa cinese della One Belt One Road (o Nuova Via della Seta) dall’Asia centrale all’Europa orientale passando per l’Africa, ha preso il posto di quell’iniziativa occidentale in Asia che per quasi due secoli ha avuto in Hong Kong il suo luogo più emblematico.
Nella storia tutto è opera dell’uomo, anche le nazioni e gli Stati non sono nati per caso ma sono stati immaginati, voluti, costruiti. Vale anche per l’Occidente, uno straordinario progetto storico immaginato, voluto, costruito per secoli dagli europei, cui si sono poi aggiunti i nordamericani. Oggi però gli uni e gli altri non sembrano più credere a tale progetto come in passato. Lo mostrano le lacerazioni tra le varie aree dell’Occidente e l’assenza degli occidentali da tanti scenari importanti del mondo contemporaneo. Quando qualcosa tramonta ne vediamo meglio meriti e grandezza e oggi siamo in grado di capire che quello occidentale è stato uno dei più grandi progetti della storia capace di unire ispirazione religiosa, valori morali, sistemi economici, modelli politici ecc.
Ma che fare se oggi gli occidentali sembrano credere sempre di meno al progetto Occidente? Tutto questo lascia la Chiesa più sola e accresce la sua responsabilità di portatrice di un messaggio universale e di annunciatrice di salvezza ai popoli.
A Hong Kong, come la maggioranza dei suoi abitanti, anche molti cattolici hanno partecipato a manifestazioni che esprimono nostalgia del passato e paura del futuro. Ma le proteste non possono rimuovere le cause profonde per cui è in crisi la formula ’un Paese, due Sistemi’. Il loro sbocco appare oggi molto incerto. È probabile che nelle prossime settimane aumentino da un lato l’estremismo e dall’altro la repressione, contrapposti in una spirale che alimenta entrambe. C’è chi vorrebbe che la Santa Sede prendesse posizione su quanto sta avvenendo nell’ex colonia britannica, ma non è nelle sue possibilità fermare un ritiro dell’Occidente, da questa come da altre aree del mondo, che rende poco sincere tante dichiarazioni di principio su libertà e diritti.
È proprio questo ritiro che ha spinto negli ultimi anni la Santa Sede a cercare un dialogo diretto e senza protezioni con il governo di Pechino. Molte voci critiche si sono levate, non a caso, da Hong Kong per criticare tale tentativo, ma quanto sta avvenendo ora nella ex colonia britannica ne conferma la necessità.
A Roma, c’è comunque viva partecipazione alle sofferenze del popolo hongkonghese e nella grande città asiatica la saggia voce del cardinal John Tong si è espressa fin dall’inizio in modo pacato e fermo chiedendo giustizia, ma condannando la violenza. Un legame profondo, infatti, lega spesso violenza e disperazione ed entrambe finiscono sempre per alimentare la rassegnazione. L’anziano amministratore apostolico ha ricordato che la violenza «provoca solo ferite sempre più profonde» e ha richiamato la lezione pacifica di Gandhi e di Mandela. Ha espresso inoltre «profondo dolore nel vedere i giovani ansiosi e preoccupati a causa dell’attuale situazione sociale» ed esortato a una speranza che non è facile avere oggi ad Hong Kong, ma di cui c’è molto bisogno. È inutile continuare a credersi parte di un mondo che non c’è più, decisiva appare invece la capacità di guardare al futuro: solo la speranza, infatti, è in grado di sostenere gli animi quando la realtà delle cose mostra un volto sgradito e il cammino si prospetta lungo. Se all’inizio la voce di Tong è apparsa isolata, man mano si sono uniti alla sua altre voci, tra gli stessi cattolici, nel mondo protestante, in quello musulmano e in tutta la città.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. FILANTROPIA... E AMORE di "DIO" ("AGAPE", "CHARITAS") *
La teologia corrente del Mediterraneo
Dall’esperienza di san Paolo alle riflessioni in musica di Cohen e Dalla: un viaggio per riscoprire l’essenza di un luogo di incontro e di mediazione
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, martedì 22 ottobre 2019)
Perseguo qui il tentativo di mostrare come il Mediterraneo, questo (non nuovo, ma antico e per questo sempre attuale) “luogo teologico”, possa e debba innestarsi nel nostro teologare. Muovo dal Nuovo Testamento e in particolare dall’esperienza di Paolo e dei suoi compagni nell’approdo a Malta. Essi qui sperimentano innanzitutto una «rara umanità». «Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo» (At 28,1-2).
Il testo greco la dice lunga e parla di «filantropia», rara e quindi eccezionale, senza la quale forse Paolo non avrebbe potuto raggiungere Roma. Sappiamo bene quanto sia “merce rara” l’umanità, che, in quanto filantropia apparterrebbe ai barbari, ma al tempo stesso dovrebbe essere inclusa nella forma agapica propria del cristianesimo, che deve esprimersi come «amore sconfinato » (R. Penna) e incondizionato, ossia senza e oltre le frontiere, o che comunque pensa la frontiera come luogo di incontro e non di scontro.
A proposito dell’agàpe, un’annotazione esegetica interessante riguarda la novità semantica che registriamo nei testi neotestamentari, dove il sostantivo ricorre solo diciassette volte (diciannove nella Settanta), mentre per ben centoquarantaquattro (centosessantatré nella Settanta) volte rinveniamo il verbo agapào. E se il verbo esprime - come afferma san Tommaso - una determinazione temporale, allora abbiamo a che fare non con qualcosa di atemporale (ad esempio la mediterraneità), ma con un sostantivo che (attraverso il verbo) deve penetrare nel tempo, nel nostro tempo, e sollecitare non solo la nostra mente, ma anche le nostre passioni. E a tal proposito possiamo leggere metaforicamente l’esperienza maltese/mediterranea di Paolo e dei suoi compagni, davvero carica di “umanità”.
Se trasferiamo quest’esperienza umana all’esperienza religiosa e credente, il calore di questo fuoco nella pietà popolare (ma anche individuale) degli uomini e delle donne mediterranee si esprime nella forma della “devozione” (il nocciolo duro che ha consentito al “ritorno del sacro” di archiviare la secolarizzazione). In questa prospettiva, mi piace leggere un’indicazione, suscitatami dalla lettura del bellissimo, prezioso e piccolo libro di Fabio Fiori, L’odore del mare. Piccole camminate lungo le rive mediterranee, (Ediciclo editore).
Karl Barth invitava infatti a leggere la letteratura profana e i giornali per comprendere la Scrittura del Nuovo Testamento: «Nel Mediterraneo - scrive Fiori - non c’è spiaggia che non sia stata teatro di approdi o naufragi, non c’è cala dove non sia stata calata ancora di pietra o di ferro. Lungo la riva il viandante ad ogni passo può incontrare il mito». La religiosità mediterranea assume in primo luogo una forma mitologica, piuttosto che logica.
Del resto, come più volte affermato da papa Francesco, quella del “popolo” è una «categoria mitica»: «La parola popolo non è una categoria logica, è una categoria mitica», ha detto di ritorno dal Messico. In seguito, intervistato dal suo confratello gesuita Antonio Spadaro, ha voluto precisare: più che “mistica”, ha detto, «nel senso che tutto ciò che fa il popolo sia buono», è meglio dire «mitica»: «Ci vuole un mito per capire il popolo». Attingendo dal già citato Fabio Fi