Premessa sul tema. Note (cliccare sui titoli, per leggere il testo):
(Federico La Sala)
Ecco le tesi che il filosofo Bodei presenta domani al ciclo "Le Parole della Politica" sul tema del rapporto tra noi e gli altri
La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo di quelle comunità che sono determinate ad essere se stesse
Più il mondo si allarga più si tende a reagire con la paura e l’egoismo con la paradossale rinascita di piccole patrie
di Remo Bodei (la Repubblica, 22.06.2011)
Da termine filosofico e matematico per designare l’eguaglianza di qualcosa con se stessa il termine identità è passato a indicare una forma di appartenenza collettiva ancorata a fattori naturali (il sangue, la razza, il territorio) o simbolici (la nazione, il popolo, la classe sociale). Ci si può meravigliare che esistano persone, per altri versi ragionevoli e sensate, che credano a favole come l’"eredità di sangue" o l’autoctonia di un popolo, che si inventino la discendenza incontaminata da un determinato ceppo etnico o la sacralità dell’acqua di un fiume. Eppure, si tratta di fenomeni da non sottovalutare e da non considerare semplicemente folkloristici e ridicoli.
Si potrebbe obiettare - come hanno notoriamente mostrato eminenti storici - che la maggior parte delle memorie ufficiali e delle tradizioni è non solo inventata, ma molto più recente di quanto voglia far credere. Tuttavia, le invenzioni e i miti, per quanto bizzarri, quando mettono radici, diventano parte integrante delle forme di vita, delle idee e dei sentimenti delle persone. (...) Bisogna capire a quali esigenze obbedisce il bisogno di identità, perché esso sia inaggirabile in tutti i gruppi umani e negli stessi individui, perché abbia tale durata e perché si declini in molteplici forme, più o meno accettabili.
Da epoche immemorabili tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli "altri". La formazione del "noi" esige rigorosi meccanismi di esclusione più o meno conclamati e, generalmente, di attribuzione a se stessi di qualche primato o diritto. La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo ed elementare della compattezza di gruppi e comunità che si sentono o si vogliono diversi dagli altri e che intendono manifestare per suo tramite la propria determinazione ad essere se stesse. Essa è l’espressione di un forte bisogno di identità, spesso non negoziabile.
Sebbene si manifesti attraverso un’ampia gamma di sfumature, nella sua dinamica di inclusione/esclusione, l’identità è sempre intrinsecamente conflittuale. Realmente o simbolicamente, circoscrive chi è dentro una determinata area e respinge gli altri. Eppure, per non soffocare nel proprio isolamento, ciascuna società deve lasciare aperte alcune porte, prevedere dei meccanismi opposti e complementari di inclusione dell’alterità. Lo straniero è così, insieme, ponte verso l’alterità e corruttore della compattezza dei costumi di una determinata comunità.
Per orientarsi e capire, occorre distinguere tre tipi di identità.
La prima si esprime in una specie di formula matematica "A=A": l’italiano è italiano e basta, il rumeno è rumeno è basta. Tale definizione naturalistica, auto-referenziale e immutabile, è la più viscerale ed ottusa, incapace di accettare confronti tra la propria e le altre comunità, di cui non vede letteralmente i pregi, ma che anzi sminuisce e disprezza. Essa fa costantemente appello alle radici, quasi che gli uomini siano piante, legati al suolo in cui nascono o, come credevano gli ateniesi antichi, quasi siano sbucati dal suolo come funghi.
In generale, più una società diventa insicura di se stessa, più vengono meno i supporti laici della politica. In tal modo, più si produce una specie di malattia del ricambio sociale, che si materializza nel rifiuto di assorbire l’alterità, e più si proiettano sullo straniero, che magari proviene da popoli di antica civiltà, le immagini del selvaggio, del nemico pericoloso. Certo i vincoli di appartenenza sono necessari a ogni gruppo umano e a ogni individuo, ma non sono naturali (come potremmo sopravvivere se non sapessimo chi siamo?): sono stati costruiti e sono continuamente da costruire, perché l’identità è un cantiere aperto. Per questo la nostra identità non può più essere quella che auspicava Alessandro Manzoni, nel Marzo 1821, per l’Italia ancora da unire: "Una d’arme, di lingua, d’altare,/ Di memorie, di sangue e di cor". Oggi alcuni di questi fattori non sono più richiesti, tranne la "lingua", anche per motivi pratici, e, possibilmente, il "cor", l’Intimo sentimento di appartenenza. La religione, soprattutto, non rappresenta più un fattore discriminante per ottenere la piena cittadinanza e non caratterizza (o non dovrebbe più caratterizzare) l’intera persona come soltanto "mussulmano" o "cristiano".
Il secondo modello si basa sulla santificazione dell’esistente per cui, quello che si è divenuti attraverso tutta la storia ha valore positivo e merita di essere esaltato. Si pensi al Proletkult sovietico degli anni Venti: il proletario è buono, bravo, bello. Si dimenticano così le ferite, le umiliazioni, le forme di oppressione, le deformazioni che la storia ha prodotto sulle persone. Lo stesso è accaduto nel proto-femminismo: la donna è da santificare così come è divenuta. Anche qui si trascura quanto dicevano, in maniera opposta, Nietzsche e Adorno. Secondo Nietzsche, quando si va da una donna, non bisogna dimenticare la frusta. Al che Adorno, giustamente, osservava che la donna è già il risultato della frusta.
Il terzo tipo di identità, quello che preferisco e propongo, è rappresentato da un’identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l’identità individuale e collettiva si esalta. Bisogna avere accortezza e pazienza politica nell’inserire nel tessuto sociale individui e gruppi finora esclusi, perché al di fuori dell’integrazione non esistono realisticamente altre strade praticabili. Integrazione non vuol dire assimilazione, rendere gli altri simili a noi, ma non vuol dire nemmeno lasciarli in ghetti, in zone prive di ogni nessun contatto con la popolazione locale.
Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l’idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l’esaltazione delle differenze stesse. Il grande paradosso odierno è, appunto, che quanto più il mondo tende ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più sembra che a queste aperture si reagisca con chiusure dettate dalla paura e dall’egoismo, con la rinascita di piccole patrie.
Morto il filosofo Remo Bodei, studioso delle filosofie del Novecento
Si è spento nella sua abitazione di Pisa. Aveva insegnato alla Normale e nelle più importanti università del mondo. Era l’ideatore del Festivalfilosofia
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 8 novembre 2019)
Il filosofo Remo Bodei, scomparso all’età di 81 anni, era un accademico raffinato e di grande prestigio, abituato a confrontarsi con i temi più specialistici e complessi. Ma non disdegnava affatto la divulgazione, rivolta anche ai bambini, che riteneva particolarmente ricettivi verso le tematiche della sua disciplina. A lui si deve in buona parte il grande successo del Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, di cui aveva presieduto il comitato scientifico e per il quale si era molto impegnato. Oltre che nel pensiero speculativo, la sua competenza spaziava in molti altri settori del sapere, tra cui la musica, la poesia e l’estetica: era un appassionato conoscitore e studioso dell’autore romantico tedesco Friedrich Hölderlin e aveva fatto parte dell’advisory board internazionale dell’Istituto europeo di design.
Nato a Cagliari il 3 agosto 1938, Bodei in un primo tempo aveva studiato a Roma, poi aveva vinto il concorso per entrare alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si era laureato e aveva intrapreso la carriera accademica. Interessato non solo alle dottrine filosofiche, ma anche alla vita politica, si era iscritto molto giovane al Partito socialista e aveva subito anche un’aggressione da parte di militanti dell’estrema destra. Ma la contestazione del Sessantotto, che a Pisa era stata particolarmente vivace, lo aveva lasciato piuttosto perplesso. Retrospettivamente Bodei riconosceva il valore della spinta innovativa innescata dalla rivolta giovanile rispetto alle incrostazioni del mondo accademico di allora, ma continuava a rimproverarle il torto di aver prodotto «una gerarchia di capi e capetti», compreso il suo amico Adriano Sofri, nelle organizzazioni extraparlamentari.
Molto importanti, per la formazione di Bodei, erano stati i lunghi periodi di studio trascorsi in Germania, in particolare nelle Università di Tubinga, Friburgo, Heidelberg e Bochum, dove aveva avuto l’opportunità di confrontarsi con maestri di altissimo livello come Ernst Bloch e Karl Löwith. In particolare a Bloch, pensatore utopista che aveva cercato di stabilire un legame tra cristianesimo e marxismo in nome del «principio speranza», aveva dedicato il saggio Multiversum (Bibliopolis, 1979), che approfondiva il significato dei concetti di tempo e storia nell’opera del filosofo tedesco. In precedenza Bodei, curatore e traduttore di molti testi importanti, si era concentrato sulla grande tradizione idealista della Germania ottocentesca.
La sua prima monografia, con cui si era imposto all’attenzione degli specialisti, fu Sistema ed epoca in Hegel, un libro pubblicato dal Mulino nel 1975 e poi riproposto in edizione ampliata dalla stessa casa editrice nel 2014 con il titolo La civetta e la talpa. Anche il suo successivo lavoro Scomposizioni (Einaudi, 1987), riguardante i dilemmi identitari e le contraddizioni dell’individuo moderno, era stato poi rielaborato per il Mulino nel 2016. Accademico dei Lincei, autore riconosciuto a livello internazionale con la traduzione in diverse lingue delle sue opere principali, oltre che a Pisa aveva insegnato alla University of California Los Angeles (Ucla). Ma aveva anche una notevole capacità di parlare al grande pubblico, soprattutto quando affrontava temi come la ricerca della felicità personale e i vincoli che condizionano le aspirazioni dell’individuo: alcuni suoi libri incentrati su questi temi, come Geometria delle passioni (Feltrinelli, 1991) e Destini personali (Feltrinelli, 2002), avevano registrato un significativo successo anche sotto il profilo delle vendite.
Il tema dell’utopia era sempre rimasto al centro delle riflessioni di Bodei. Citando il filosofo ebreo Baruch Spinoza, amava ripetere che l’uomo «è un animale desiderante e non smetterà mai di essere attratto da ciò che gli manca». Ma era attento anche ai temi dell’attualità e riteneva indispensabile, per la filosofia, confrontarsi senza remore con le più sconvolgenti novità del nostro tempo. Due erano le questioni che riteneva cruciali per la società del XXI secolo. Da una parte Bodei era molto interessato all’irruzione tumultuosa delle biotecnologie, con le loro gigantesche implicazioni etiche, riguardanti le origini della vita e la sua manipolazione, la trasformazione dei legami famigliari, la prospettiva affascinante e al tempo stesso inquietante del postumano, con un potenziamento artificiale della nostra specie. Su un altro versante guardava con estrema attenzione agli effetti della riduzione drastica delle distanze tra i popoli, con il conseguente «incontro tra culture separate». Era indispensabile a suo avviso che la filosofia riuscisse a darsi «una dimensione globale», superando quel genere di universalismo che pretendeva d’imporre valori assoluti, ma senza rinunciare a un «razionalismo aperto», capace di difendere le grandi conquiste di libertà raggiunte dalla civiltà occidentale ed espresse nella Dichiarazione dei diritti umani approvata dalle Nazioni Unite nel dicembre del 1948.
Bodei era convinto che la filosofia italiana, dotata da sempre di una «vocazione civile», avesse un ruolo non secondario da svolgere su questi versanti. Pur scettico verso una certa retorica sulla cosiddetta italian theory, che temeva potesse diventare «uno slogan di comodo», riconosceva la pregnante rilevanza dell’elaborazione condotta da colleghi come Emanuele Severino e Gianni Vattimo, che avevano avuto il merito di emancipare il nostro Paese dalla precedente subalternità rispetto a correnti di pensiero provenienti dall’estero. Più in generale Bodei non si stancava di ribadire quanto fosse falso il ricorrente annuncio della «morte della filosofia». Proprio sulla base del suo rapporto con il pubblico, opponeva a questi stereotipi la permanenza indubbia di «una fame di senso nelle persone».
A suo avviso la filosofia poteva ancora costituire «una sorta di tessuto connettivo rispetto alle nozioni frammentarie che immagazziniamo e un antidoto utile al fast food intellettuale che ci viene propinato». Sul piano civile lo allarmava l’incapacità della politica di misurarsi con le grandi trasformazioni del mondo contemporaneo. Bodei avvertiva dolorosamente il pericolo di una vita pubblica appiattita nel perseguimento affannoso di traguardi immediati, senza alcun disegno complessivo munito di un qualche spessore storico: «Senza la presenza del passato - osservava - non solo non si comprende il presente e non si può progettare il futuro, ma si è sottoposti a qualsiasi manipolazione».
Antonio Carioti
Intorno all’amore. Pietro Del Soldà ne individua una dimensione pubblica contro l’immagine dominante che ne dà invece una lettura privata. L’eros non va inteso solo in senso sentimentale e di coppia, ma soprattutto politico
Una visione plurale di felicità
di Remo Bodei (Il Sole-24 Ore, Domenica, 02.12.2018)
Nell’inflazione di pubblicazioni che trattano della felicità e delle ricette per raggiungerla o tra le numerose applicazioni del pensiero antico all’attualità, la prima cosa da dire è che questo libro riserva una gradita sorpresa: non è banale e, malgrado la perfetta conoscenza dei testi platonici utilizzati, non ha neppure un taglio didascalicamente accademico.
In quanto conduttore della rubrica radiofonica Tutta la città ne parla, Pietro Del Soldà gode, infatti, professionalmente del vantaggio di praticare una sorta di quasi quotidiano dialogo socratico nell’agorà tecnologica di RAI 3, di misurarsi, in maniera garbata ed equilibrata, con le questioni poste dal pubblico, con le sue preoccupazioni e inquietudini. Senza offrire soluzioni prefabbricate, egli utilizza Socrate come un reagente e non come un modello cui adeguarsi.
Il problema della felicità è trattato contropelo, a partire dalle radici dell’infelicità e delle sue cause e dalla domanda che oggi s’impone: perché tanta infelicità, se il mondo, rispetto al passato, è incomparabilmente migliore, se le aspettative di vita, di libertà e di sicurezza sono così aumentate? Contro l’immagine dominante di una felicità esclusivamente privata, Del Soldà ne mostra l’inscindibile con la dimensione pubblica. Sostiene poi la tesi che l’amore (eros) non debba essere inteso in senso sentimentale o di coppia, ma anche, e soprattutto, politico. In tale prospettiva, esso consiste nella ricerca di un legame in grado di dare «armonia alle “voci del coro”, cioè di governare se stesso e la città senza escludere nessuna delle parti che la compongono». Eros è la forza che abbatte il muro di separazione tra l’Io e il Noi.
Notevole è la parte del volume che, ripercorrendo la polemica di Socrate contro i sofisti (in dialoghi come il Protagora, il Gorgia, il Lachete, il Fedro, la Repubblica e le Leggi), Del Soldà indica in essi gli antesignani delle attuali forme d’individualismo narcisistico, caratterizzato dalla mancanza di pudore, dalla «spettacolarizzazione dell’intimità», dall’insofferenza alle regole e dalla ricerca del successo a qualsiasi costo. Nessuno si mette realmente in gioco nel dialogo, ma aggiunge addirittura nuovi mattoni al «muro» che lo divide, oltre che da se stesso, anche dagli altri, con cui intrattiene rapporti unicamente strumentali. Si è perciò soli pur vivendo in mezzo a una pluralità di persone, perché s’intessono con loro relazioni non vincolanti (quelle che il filosofo americano Robert Nozick aveva teorizzato come no binding committments).
L’esistenza è concepita da questi sofisti come una competizione senza quartiere, analoga alla corsa della vita descritta da Hobbes, che parafrasa San Paolo, della: «Guardare gli altri che stanno dietro, è gloria. [...] Esser superato continuamente, è infelicità. / Superare continuamente quelli davanti, è felicità / E abbandonare la pista, è morire».
L’ipertrofia dell’io conduce al paradosso per cui, più ci separiamo da noi stessi e dagli altri, più ci omologhiamo, in quanto egoismo e conformismo sono due facce della stessa medaglia. Come abbattere dunque la barriera che ci divide da noi stessi e dagli altri? La soluzione suggerita è quella che si trova nell’Alcibiade Maggiore, dove il precetto delfico «Conosci te stesso!» non va inteso come un invito a sprofondare nell’asfittica interiorità individuale, bensì a rispecchiare se stesso nella pupilla dell’altro: «Se un occhio vuole vedere se stesso, deve guardare in un altro occhio e in quella parte in cui nasce la forza visiva».
Ciascuno deve perciò uscire da sé proprio per andare verso se stesso, anche perché conoscere se stessi significa conoscere gli altri, ossia anche fare politica. Ma, per rovesciare l’ottica consueta dell’introspezione e ritrovarsi nella pluralità degli altri, per rimettere a posto i frammenti di se stessi in qualcosa di coerente, si richiede coraggio.
Riferendosi più direttamente alle vicende del presente, ciò implica non solo l’abbandono della retorica dell’identità autosufficiente, basata sull’esclusione dell’altro, ma anche - e questo, in tempi di fake news, è un suggerimento
prezioso - il non limitarsi a smontare le falsità evidenti attraverso il fact checking. Occorre, piuttosto, sforzarsi di capire l’eros, l’irrefrenabile bisogno, in chi si è sentito abbandonato e sminuito, di entrare a far parte di una comunità che lo rappresenti e per cui si è disposti ad accettare, come tassa d’inclusione, tutto quanto asserito dall’opinion leader.
Tale adesione ha tanto più valore in una fase in cui si assiste a una enorme crescita delle diseguaglianze o, come direbbe la sociologa Sakia Sassen, a una «secessione dei patrizi», al ritirarsi nelle loro dorate posizioni di quei pochi che posseggono le risorse di metà del genere umano (e che, nella rivendicazione di una eroica ignoranza, vengono spesso accomunati alla detestata casta dei detentori ufficiali del sapere).
Vi è un solo, difficile. rimedio all’attuale ribollire delle «passioni tristi» (odio, invidia, risentimento) e di quelle irruenti (ira, gelosia, aggressività) non sufficientemente orientate dal pensiero cosciente. Nelle Leggi tutte sono paragonate da Platone a rigidi e indeformabili fili di ferro, che muovono l’uomo come una marionetta. A esse bisogna sottrarsi, opponendo resistenza al loro potere, per «farsi guidare sempre da uno solo di questi fili, senza mai lasciarlo [...]. Si tratta del sacro filo d’oro del logos». Occorre, in altri termini, fare affidamento su una «ragione malleabile» come l’oro, capace di condurre a una «felicità plurale» e condivisa, al cui culmine «assaporare la gioia indicibile di un canto comune».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
SPIRITO CRITICO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
IL "DUE" DI SAUSSURE VINCE IL "DUE" DI ROBERTO ESPOSITO. Un commento di Remo Bodei.
"Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero". Si può smontare il meccanismo teologico di sudditanza all’Uno su cui si fondano i rapporti di potere?
FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. IL PARADOSSO DELL’IDENTITA’: IO E GLI ALTRI. REMO BODEI CERCA DI SVEGLIARSI E SI RIATTACCA AL VECCHIO E LOGORO FILO POPPERIANO. Ecco le tesi del suo "manifesto per vivere in una società aperta"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
Intorno all’amore. Pietro Del Soldà ne individua una dimensione pubblica contro l’immagine dominante che ne dà invece una lettura privata. L’eros non va inteso solo in senso sentimentale e di coppia, ma soprattutto politico
Una visione plurale di felicità
di Remo Bodei (Il Sole-24 Ore, Domenica, 02.12.2018)
Nell’inflazione di pubblicazioni che trattano della felicità e delle ricette per raggiungerla o tra le numerose applicazioni del pensiero antico all’attualità, la prima cosa da dire è che questo libro riserva una gradita sorpresa: non è banale e, malgrado la perfetta conoscenza dei testi platonici utilizzati, non ha neppure un taglio didascalicamente accademico.
In quanto conduttore della rubrica radiofonica Tutta la città ne parla, Pietro Del Soldà gode, infatti, professionalmente del vantaggio di praticare una sorta di quasi quotidiano dialogo socratico nell’agorà tecnologica di RAI 3, di misurarsi, in maniera garbata ed equilibrata, con le questioni poste dal pubblico, con le sue preoccupazioni e inquietudini. Senza offrire soluzioni prefabbricate, egli utilizza Socrate come un reagente e non come un modello cui adeguarsi.
Il problema della felicità è trattato contropelo, a partire dalle radici dell’infelicità e delle sue cause e dalla domanda che oggi s’impone: perché tanta infelicità, se il mondo, rispetto al passato, è incomparabilmente migliore, se le aspettative di vita, di libertà e di sicurezza sono così aumentate? Contro l’immagine dominante di una felicità esclusivamente privata, Del Soldà ne mostra l’inscindibile con la dimensione pubblica. Sostiene poi la tesi che l’amore (eros) non debba essere inteso in senso sentimentale o di coppia, ma anche, e soprattutto, politico. In tale prospettiva, esso consiste nella ricerca di un legame in grado di dare «armonia alle “voci del coro”, cioè di governare se stesso e la città senza escludere nessuna delle parti che la compongono». Eros è la forza che abbatte il muro di separazione tra l’Io e il Noi.
Notevole è la parte del volume che, ripercorrendo la polemica di Socrate contro i sofisti (in dialoghi come il Protagora, il Gorgia, il Lachete, il Fedro, la Repubblica e le Leggi), Del Soldà indica in essi gli antesignani delle attuali forme d’individualismo narcisistico, caratterizzato dalla mancanza di pudore, dalla «spettacolarizzazione dell’intimità», dall’insofferenza alle regole e dalla ricerca del successo a qualsiasi costo. Nessuno si mette realmente in gioco nel dialogo, ma aggiunge addirittura nuovi mattoni al «muro» che lo divide, oltre che da se stesso, anche dagli altri, con cui intrattiene rapporti unicamente strumentali. Si è perciò soli pur vivendo in mezzo a una pluralità di persone, perché s’intessono con loro relazioni non vincolanti (quelle che il filosofo americano Robert Nozick aveva teorizzato come no binding committments).
L’esistenza è concepita da questi sofisti come una competizione senza quartiere, analoga alla corsa della vita descritta da Hobbes, che parafrasa San Paolo, della: «Guardare gli altri che stanno dietro, è gloria. [...] Esser superato continuamente, è infelicità. / Superare continuamente quelli davanti, è felicità / E abbandonare la pista, è morire».
L’ipertrofia dell’io conduce al paradosso per cui, più ci separiamo da noi stessi e dagli altri, più ci omologhiamo, in quanto egoismo e conformismo sono due facce della stessa medaglia. Come abbattere dunque la barriera che ci divide da noi stessi e dagli altri? La soluzione suggerita è quella che si trova nell’Alcibiade Maggiore, dove il precetto delfico «Conosci te stesso!» non va inteso come un invito a sprofondare nell’asfittica interiorità individuale, bensì a rispecchiare se stesso nella pupilla dell’altro: «Se un occhio vuole vedere se stesso, deve guardare in un altro occhio e in quella parte in cui nasce la forza visiva».
Ciascuno deve perciò uscire da sé proprio per andare verso se stesso, anche perché conoscere se stessi significa conoscere gli altri, ossia anche fare politica. Ma, per rovesciare l’ottica consueta dell’introspezione e ritrovarsi nella pluralità degli altri, per rimettere a posto i frammenti di se stessi in qualcosa di coerente, si richiede coraggio.
Riferendosi più direttamente alle vicende del presente, ciò implica non solo l’abbandono della retorica dell’identità autosufficiente, basata sull’esclusione dell’altro, ma anche - e questo, in tempi di fake news, è un suggerimento
prezioso - il non limitarsi a smontare le falsità evidenti attraverso il fact checking. Occorre, piuttosto, sforzarsi di capire l’eros, l’irrefrenabile bisogno, in chi si è sentito abbandonato e sminuito, di entrare a far parte di una comunità che lo rappresenti e per cui si è disposti ad accettare, come tassa d’inclusione, tutto quanto asserito dall’opinion leader.
Tale adesione ha tanto più valore in una fase in cui si assiste a una enorme crescita delle diseguaglianze o, come direbbe la sociologa Sakia Sassen, a una «secessione dei patrizi», al ritirarsi nelle loro dorate posizioni di quei pochi che posseggono le risorse di metà del genere umano (e che, nella rivendicazione di una eroica ignoranza, vengono spesso accomunati alla detestata casta dei detentori ufficiali del sapere).
Vi è un solo, difficile. rimedio all’attuale ribollire delle «passioni tristi» (odio, invidia, risentimento) e di quelle irruenti (ira, gelosia, aggressività) non sufficientemente orientate dal pensiero cosciente. Nelle Leggi tutte sono paragonate da Platone a rigidi e indeformabili fili di ferro, che muovono l’uomo come una marionetta. A esse bisogna sottrarsi, opponendo resistenza al loro potere, per «farsi guidare sempre da uno solo di questi fili, senza mai lasciarlo [...]. Si tratta del sacro filo d’oro del logos». Occorre, in altri termini, fare affidamento su una «ragione malleabile» come l’oro, capace di condurre a una «felicità plurale» e condivisa, al cui culmine «assaporare la gioia indicibile di un canto comune».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. IL PARADOSSO DELL’IDENTITA’: IO E GLI ALTRI. REMO BODEI CERCA DI SVEGLIARSI E SI RIATTACCA AL VECCHIO E LOGORO FILO POPPERIANO. Ecco le tesi del suo "manifesto per vivere in una società aperta"
Federico La Sala
“Stiamo cambiando pelle”. Intervista a Remo Bodei
di Emanuele Lepore *
Professore Bodei, vorremmo iniziare da una suggestione che arriva dal suo ultimo libro Limite (Mulino, Bologna 2016), in cui riferisce che la filosofia moderna, da Locke fino a Kant, si interroga incessantemente sui limiti dell’intelletto umano, cercando di stabilire quali siano i limiti tra il conoscibile e l’inconoscibile. Secondo lei la filosofia contemporanea attorno a quali limiti si interroga?
I limiti variano col tempo: da Locke a Kant erano quelli dell’intelletto umano, si ricercava fin dove l’uomo potesse conoscere, avendo come base l’esperienza e la scienza. Fin dove la metafisica o la fede potessero estendersi. Oggi i problemi sono diversi e sono costituiti dall’incontro tra le varie culture e civiltà del mondo, in quanto si è rinunciato ad un’idea che valga per tutti, che poteva essere rappresentata dalla stessa forma di conoscenza.
Un altro limite è segnato dalle biotecnologie: com’è che l’uomo si trasforma? Come si possono scoprire degli aspetti della natura umana che prima non c’erano? È la questione dell’artificialità e del post-umano. Un altro limite è segnato dalla comunicazione e dalle tecnlogie dell’informazione e di come queste possano trasformare persone e culture.
Per certi aspetti si cerca il superamento dei limiti, per altri si cerca invece di stabilire dei confini che sono stati incautamente violati e che bisogna ricostruire: non siamo sicuri di avere una morale saldamente condivisa e per questo si cerca, ad esempio, di evitare che tutto sia permesso: da attraverso la spesso fraintesa espressione della morte di Dio, Nietzsche s’è accorto che non possono più sussistere regole insindacabili perché espresse da Dio: sono gli uomini che devono darsi regole credibili e solide, e di
questo - Nietzsche lo capiva - non siamo stati capaci. Viviamo in una morale provvisoria permanente, che non è di per sé un male ma ci pone in una situazione difficile.
Un’altra posizione indubbiamente difficile e complessa è quella da lei evocata durante la sua lectio magistralis di Modena: la lotta contro se stessi pare essere un confronto drammatico per ritagliarsi un proprio spazio nel mondo. Secondo lei tra le sfide che l’uomo contemporaneo deve affrontare c’è anche quella che lo vede in cerca del suo posto nel mondo? Se sì, a che prezzo?
Trovare il proprio posto nel mondo è sempre stata un’impresa che ha riguardato gli uomini sin dall’età della preistoria: semplicemente cambiano questioni e limiti. Orientarsi oggi in un mondo così complesso e cangiante rispetto a quello della tradizione è più difficile o - per meglio dire - diversamente difficile: bisogna muoversi su d’un piano globale interconnesso e, d’altro canto, in un mondo che cambia continuamente e pone un problema di adattamento.
A proposito della complessità del nostro mondo: uno dei suoi tratti generalmente più riconosciuti è la liquidità, la quale - più di ogni altro - sembra dare un’illusione di libertà. In che modo la fluidità delle relazioni sociali e personali può aver compromesso la stabilità del tessuto sociale contemporaneo?
Questa caratteristica di liquidità egregiamente messa in luce da Bauman, per cui dall’inizio degli anni ’80 ad oggi sembra che non vi sia nulla di solido è una proposizione enunciata da Marx e Engels nel Manifesto del Partito Comunista: tutto ciò che è solido si squaglia. In questa situazione, con le difficoltà del terrorismo e della crisi finanziaria, stiamo scoprendo che il mondo è molto più duro e molto meno liquido di quanto pensavamo. Anzitutto abbiamo la necessità di trovare i limiti, di riconoscerli e comprendere come far fronte alla nuova rigidità della nostra esistenza.
In questo contesto sociale e politico così complesso, che ruolo crede abbiano le passioni umane, calate in un’epoca dominata da una tecnica che, sempre più a fondo, modifica i contesti e i soggetti che vi abitano?
Le passioni hanno sempre costituito un valore per il vivere comune: bisogna tuttavia distinguere tra le varie forme di passione. Noi viviamo in un’epoca in cui le passioni sono state sostituite dai desideri: questi non sono altro che passioni declinate al futuro, quindi passioni che non sono legate a qualcosa che, tradizionalmente, ha dei limiti. Abbiamo delle passioni che, in quanto proiettate verso il futuro, sono elastiche e procedono avanti. C’è poi una dimensione legata alle passioni private come l’amore (messe in risalto dalla modernità e dal Romanticismo) a cui fa da contraltare un declino della dimensione pubblica: in parte ci si richiude in se stessi davanti alla durezza dell’esistenza, in parte c’è una crisi delle passioni democratiche legate agli ideali di uguaglianza tra gli individui.
Secondo lei l’assenza di una bussola per l’agire comune piò dipendere dalla perdita di senso della nozione di bene comune? Se sì, crede che sia oggi possibile ricostruire tale nozione?
La nozione di bene comune è sempre stata da un lato un’aspirazione ideale e dall’altro una sorta di ingannevole prospettiva con cui si sono mascherate tutte le forme di soppressione: i totalitarismi del ‘900 hanno predicato un bene comune che, in realtà, si è rivelato un bene per certi tipi di classi, di individui. L’esistenza di un orizzonte che superi l’individuo segna il problema di trovare la strada per cui esso diventi effettivo e non diventi una maschera che serve a legittimare dei comportamenti che perseguono beni non comuni ma parziali.
Questo è un problema che sembra ripercuotersi anche nella dimensione individuale; nel suo libro Immaginare altre vite: realtà, progetti, desideri (Feltrinelli, Milano 2013) ricostruisce il ruolo fondamnetale che ideali e modelli hanno giocato nelle dinamiche di costruzione di sé. Secondo lei a quali ideali, modelli si può ricorrere? Ve ne sono?
In generale questi modelli sono cambiati abbastanza recentemente perché in precedenza il nostro mondo (limitato, occidentale, europeo) questi ideali erano legati alla realizzazione di se stessi, alla possibilità di avere una soddisfazione in un mondo che, per certi versi, ha rinunciato all’al di là e richiede dunque che si possa trovare godimento nell’arco dell’esistenza fisica degli individui.
Dopo il fallimento di certi regimi completamente laici, i quali ritenevano che l’uomo potesse, nell’arco dell’esistenza storica, trovare il proprio compimento, questi modelli si sono indeboliti ed è tronato il bisogno di trascendente e anche delle religioni: talvolta è tornato in forme piuttosto violente, come nel caso degli islamisti. Stiamo cambiando pelle: c’è un tentativo di ritrovare una soddisfazione che non è solo di questo mondo, non solo secondo una matrice religiosa ma anche estetica, secondo la maniera di Foucault per cui si fa di se stessi un’opera d’arte e si ha un’estetica dell’etica, si diventa come statue, si cerca di far vivere la bellezza nell’etica.
Lei da anni conduce parallelamente un’opera di ricerca filosofica e un’azione di divulgazione molto importante. Crede che il rinnovato e generalizzato interesse per le questioni della filosofia sia connesso con i bisogni del senso comune a cui si riferiva prima?
Penso che nell’esistenza delle persone, da quando ciascuno di noi è un bambino, ci si pone delle domande sul perché si esiste. Sono domande alle quali, a un certo punto, ci si rifiuta di rispondere: talvolta le domande diventano tarli fastidiosi. In forza di ciò ci si costruisce una visione del mondo fatta in casa, non suffragata da riflessioni profonde e perciò in genere non viene poi sviluppata dalla scuola, dalgi studi che guardano ad un sapere tecnico-professionale. Il bisogno di filosifa è una fame di senso che procura una sorta di esame di riparazione in età adulta di messa a fuoco di cose che non si sono osservate lungo la propria esistenza.
Quanto ha appena detto si sposa con la missione ideale de La Chiave di Sophia, che si propone di stimolare la comprensione di quanto la filosofia sia presente nella vita dell’umano, nella sua quotidianità, contrariamente a chi ritiene che essa sia - e, in certa misura, - debba rimanere una disciplina di nicchia, ristretta quanto a temi e pubblico cui si rivolge.
Fare filosofia significa cercare di capire il tessuto connettivo e orizzonte di senso entro cui noi ci situiamo, che non è appunto qualcosa di specifico. Rispetto alla frantumazione dei saperi e delle pratiche la filosofia è un tentativo continuamente rinnovato di trovare un orizzonte entro cui muoverci e situarci, perché essa non è un sapere specialistico. Si potrebbe dire che la filosofia è uno specialismo dell’universale: la filosofia ci riguarda tutti ma è molto difficile orientarsi filosoficamente perché si rischia di creare delle generalizzazioni astratte. Per questo si innesta in un sapere che riguarda un’acquisizione: per esempio, 2500 anni in cui nel nostro occidente si è pensato. Noi siamo debitori nei confronti di queste forme di ricerca che rappresentano una sorta di palestra mentale. Essa serve a tutti: senza di essa saremmo come automi. Essa è una forma di vivere in maniera consapevole. Se facessimo un esperimento mentale in cui la filosofia non avesse fecondato la nostra cultura, noi ci ritroveremmo certamente più creduloni, più stupidi e manipolabili e quindi meno liberi. È un valore per la democrazia, in quanto ci permette di vivere più consapevolmente e in maniera meno dogmatica.
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Emanuele Lepore
I valori penultimi delle democrazie
di Remo Bodei (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)
Nella maggior parte delle cosiddette lingue indoeuropee (a partire dal sanscrito dva o dvi, che significa «due» e in analogia con il latino dubium o il tedesco Zweifel) il dubbio indica incertezza dinanzi ad alternative pratiche o teoriche, il trovarsi davanti a un dilemma o, come nel simbolo pitagorico Y, davanti a un bivio, graficamente rappresentato, quale simbolo della difficoltà di prendere decisioni.
Soppesare le scelte, non farsi trascinare dalle circostanze o dagli impulsi spontanei è stata - e continua a essere - una conquista che spetta a ogni persona e a ogni civiltà nel corso della propria evoluzione. Governare le passioni, non significa ancora, tuttavia, porsi dei dubbi di natura teorica. Ma il primo passo, quello dell’astrarsi dal contesto, del fermarsi a riflettere, è stato compiuto e lo spazio di perplessità creato e aperto.
Il ragionare prima di decidere la propria linea di condotta o di articolare il proseguimento dei propri pensieri è segno di raggiunta maturità. Certo, tutto ciò ancora non basta. Occorre evitare il pericolo più ovvio: che il dubbio si trasformi in paralisi, in alibi o in fatalistica pigrizia che lascia andare alla deriva i comportamenti, le idee, le fantasie. Per questo, quasi avesse bisogno di un’àncora, il dubbio è stato spesso diametralmente contrapposto non tanto alla verità logica o empirica (quella sottomessa al «tribunale della ragione» e capace di rettificare i suoi eventuali errori), quanto alla verità rivelata o imposta con la violenza.
I totalitarismi del secolo scorso hanno preteso che i loro capi (il Duce, il Führer, il Caudillo, il Conducator, il Piccolo Padre, il Grande Timoniere) incarnassero l’indiscutibile verità e l’esemplare moralità: «Il Duce ha sempre ragione» o «Agisci in modo che, se il Führer ti vedesse, approverebbe la tua azione». Ogni pensiero autonomo e ogni dubbio sono considerati sovversivi perché minano l’autorità del Capo o del Partito. Devono essere stroncati. Per fortuna, come disse Mussolini al giornalista tedesco Emil Ludwig, la disposizione dell’uomo moderno a credere ha dell’incredibile. Proprio per questo viene sollecitato il comportamento gregario, condensato nel motto delle SS («Il mio onore si chiama fedeltà») e, nell’ambito del fascismo italiano, nello slogan «Credere, obbedire e combattere» (dove, si noti, il «credere» occupa il primo posto).
Che le masse si lascino facilmente guidare, è convinzione profonda anche di Hitler: «È una bella fortuna per gli uomini di governo che le masse non pensino! Si pensa soltanto quando si tratta di impartire un ordine o di assicurarne l’esecuzione. Se fosse diversamente la società umana non potrebbe sussistere». Non potendo impartire ordini, ma soltanto riceverli, le folle non corrono il rischio del dubbio. Da qui l’invito - o, meglio, il comando - a praticare una «entusiastica intolleranza» non solo contro quanti dubitano, ma anche contro coloro che dimostrano troppa volontà di sapere, raffigurati come soggetti a ipertrofia intellettualistica. Il dubbio si trasforma in una malattia.
Giovanni Paolo II ha parlato, con espressione paradossale, di «dittatura del relativismo», per dire che, specie dopo la fine del comunismo, la democrazia occidentale, avrebbe esaurito le sue energie: marcet sine adversario virtus . Sarebbe cioè diventata più evidente la sua propensione a lasciare ai cittadini un’eccessiva libertà dai valori della tradizione, che sconfina nella licenza e nell’anarchia.
La democrazia però non è soltanto relativistica. È vero che le democrazie moderne nascono dall’onda lunga delle guerre di religione che hanno insanguinato il Cinquecento e il Seicento, facendo scorrere tanto sangue - secondo un contemporaneo - da far girare le ruote dei mulini e da mostrare un grado d’intolleranza che oggi noi attribuiamo ad altre culture e religioni. La stanchezza per il sangue versato ha, tuttavia, provocato un salutare passo indietro dai valori ultimi - assoluti, non negoziabili e, se è il caso, da imporre con la forza - ai valori penultimi, su cui fondare gli Stati. La democrazia relativistica perché ammette più fedi e più verità e ha proprio il dubbio come sua specifica virtù, ma vi è in essa qualcosa che non è relativistico: è la compatibilità interna tra i valori, garanzia di convivenza di tutti in uno spazio pubblico e neutro, sempre minacciato da ritorni di fiamma di intolleranza e prepotenza.
In questo senso, il richiamo che, negli anni della Guerra fredda, Norberto Bobbio rivolgeva agli intellettuali («seminare dubbi» piuttosto che «raccogliere certezze») costituisce l’antidoto a ogni schieramento ideologico a priori, perché, come lo stesso filosofo ha insistito più tardi, lo scopo di ogni persona ragionevole, e, in particolare, di chi sceglie l’intelligenza quale strumento di lavoro, dovrebbe essere «l’inquietudine per la ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose».
La filosofia del “limite” nel secolo del nichilismo. Intervista a Remo Bodei
di FRANCESCO POSTORINO *
Remo Bodei ha recentemente pubblicato "Limite" (il Mulino), una importante riflessione filosofica sull’idea di limite nell’epoca della globalizzazione. In questa intervista, si ricapitolano di questa riflessione i tratti principali.
Il concetto del «limite» come è stato interpretato nelle diverse epoche e, in particolare, nella modernità?
Diversamente dal mondo antico, dove l’andare oltre i confini stabiliti dalla divinità è hybris che viene punita, la modernità è un andare al di là dei limiti, un plus ultra, un navigare verso l’ignoto. Nelle sue avventure spirituali e nello slancio verso la scoperta di terre incognite, il pensiero moderno ha infranto i divieti di indagare sui misteri della natura, del potere e di Dio, rivalutando così la curiosità prima condannata come “concupiscenza degli occhi”. Sebbene non si debba avere una concezione trionfalistica della modernità, come innovazione pura, completa rottura dei ponti con il passato, essa certamente ha sfidato molti tabù imposti dalla tradizione, specie quelli segnati dalla religione cristiana.
Il lungo, ma oggi accelerato processo della cosiddetta globalizzazione ha ovviamente portato mutamenti radicali all’idea di limite. I confini degli Stati sono diventati “porosi”, civiltà prima lontane o indifferenti si intersecano, si incontrano e si scontrano. I mezzi di comunicazione di massa e le migrazioni mutano il panorama. Ma le principali civiltà contemporanee hanno davvero cancellato tutti i limiti? O non è meglio sostenere che alcuni li hanno addirittura riproposti e perfino violentemente rafforzati mediante la restaurazione dogmatica di fedi, mentalità e comportamenti del passato (come nel caso dell’applicazione letterale della sharia, che significa, appunto, ritorno alla “strada battuta”)? Ci sono limiti da rifiutare e limiti da conservare. Per distinguerli occorre coltivare l’arte del distinguere, lasciandosi guidare, nello stesso tempo, da un’adeguata conoscenza delle specifiche situazioni, da un ponderato giudizio critico e da un vigile senso di responsabilità.
Se guardiamo specificamente alla filosofia, nel periodo da Locke a Kant, la filosofia moderna si è interrogata a lungo sui limiti dell’intelletto umano. Fin dove può giungere una solida conoscenza basata sull’esperienza o sul sapere matematico prima di lasciare spazio alla fede o alla metafisica, ossia a questioni indecidibili e a convinzioni non razionalmente argomentabili? Se per Locke ogni idea trae il suo materiale unicamente dall’esperienza dei sensi, è chiaro che non si può attribuire valore di verità a quanto si pone al di fuori di essa. Kant, a sua volta, delimita la sfera di validità dell’esperienza paragonando l’intelletto a un’isola dai confini ben precisi, circondata da un mare di apparenze, verso il quale gli uomini si sentono però irresistibilmente attratti.
La tentazione da evitare è quella di lasciarsi attirare dalle Sirene della metafisica, che invitano allo scriteriato viaggio nell’oceano dell’apparenza, di lasciarsi sedurre da ciò che è inverificabile e contrario all’unica verità alla nostra portata, quella dettata dall’esperienza. Non bisogna quindi abbandonare il solido terreno di quest’isola dai “confini immutabili” per affrontare un’impresa che è, comunque, destinata al naufragio. Sul terreno della dialettica, ossia dell’illusione di poter risolvere problemi insolubili (ad esempio, se l’anima è mortale o immortale o se l’universo è finito o meno), non ci sono altro che “antinomie”, soluzioni in contraddizione tra loro.
Lei traccia una linea continua che parte da Machiavelli, Hobbes e giunge fino a Nietzsche, Bataille e Simone Weil. Il nichilismo contemporaneo si rivela l’esito coerente del processo moderno di secolarizzazione? Non vi è rottura cioè tra moderno e post-moderno?
Il nichilismo, nel suo volto meno drammatico, implica l’impossibilità di giungere a norme e a forme di conoscenza di natura assoluta. L’aforisma 125 della Gaia scienza di Nietzsche, una volta stabilito che l’espressione “Dio è morto” è pronunciata dall’“uomo folle”, un pazzo che non si è reso conto di avere compiuto un’azione più grande di lui, è in grado di scatenare conseguenze imprevedibili. Ammazzando Dio - unità di misura fissa e dispotica di tutti i valori, guida morale, oltre che religiosa - egli ha, infatti, essiccato la sorgente di tutti i comandamenti e di tutti i limiti, ma, nello stesso tempo, ha anche creato uno spazio di libertà, che rischia di trasformarsi in un vuoto che gli uomini, privati di una fede che dava senso alle loro vite, non sono ancora capaci di colmare (lo stesso uomo folle dice anche di essere venuto “troppo presto”, in quanto la notizia di un simile misfatto non è ancora arrivata “alle orecchie degli uomini”). L’esclamazione “Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso” non è quindi un grido di giubilo, perché scarica sugli uomini la terribile responsabilità di vivere in un mondo privo di stabili punti di riferimento e tendenzialmente votato al nichilismo.
Come ho appena detto, la modernità ha cercato da Kant a Locke e oltre di porre dei limiti al relativismo, di stabilire delle frontiere tra il conoscibile e l’inconoscibile, di mettere in mora la metafisica. Il cosiddetto pensiero post-moderno ha generalmente tratto le conclusioni e sostenuto l’assenza di ogni verità assoluta, ripetendo la nozione del primo Nietzsche che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Si è però avvitato su se stesso ed è diventato pura retorica, dimenticando, inoltre, che Nietzsche stesso ha poi considerato “vile” chi non cerca la verità. Il postmoderno (termine che mette insieme troppe cose eterogenee fra di loro) ha comunque portato alle estreme conseguenze aspetti già presenti nella modernità (si pensi soltanto a Hume, a Schopenhauer o a Nietzsche stesso).
Rimaniamo sul pensiero moderno. Galileo e Newton cercano di cogliere, con metodi matematici, il significato ultimo della natura. La filosofia di Hegel, con la peculiare esaltazione del Concetto, sembra tradursi in una sorta di panlogismo. Come si conciliano questi e altri residui metafisici con la direzione immanentistica e «senza limiti» inaugurata dalla stessa modernità?
La ragione non costituisce in Hegel un pinnacolo gotico, un vertice del pensiero astratto che si innalza e domina sovranamente la realtà effettuale (Wirklichkeit), espungendone il negativo, unificandone le parti forzatamente e senza residui e cancellandone gli aspetti empirici. Malgrado alcuni clamorosi errori, egli non ha l’improntitudine di voler piegare i saperi scientifici adattandoli al letto di Procuste della sua filosofia. Queste accuse, che avevano un senso polemico quando furono formulate da Schelling, da Feuerbach o dal giovane Marx, si sono poi inflazionate e banalizzate. Il pensiero hegeliano non è monolitico, non è prevaricazione dell’idea sulla realtà effettuale, non è sintesi conciliatoria degli opposti o «panlogismo». Hegel ha una straordinaria fedeltà alle contraddizioni, al dolore, al negativo, che per lui (contro ogni tentazione utopistica) non scompariranno mai, sono ineliminabili dalla vita.
Hegel aveva inoltre una profonda conoscenza delle scienze, specie dell’analisi infinitesimale, da cui traeva il concetto stesso di infinito e di rapporto. Si è reso conto di qualcosa che solo con Cantor e poi con Gödel verrà alla luce, vale a dire contraddizioni interne a ogni forma di conoscenza (per Cantor, ad esempio, ciò accade attraverso quei numeri transfiniti che hanno mostrato il paradosso secondo cui la parte - poniamo l’insieme dei numeri interi dispari - è «equipotente», ossia ugualmente infinita, come l’insieme dei numeri naturali interi, pari e dispari); in termini hegeliani, nessun sistema dunque può giustificare se stesso. In questo senso, si potrebbe dire che Hegel lega ogni filosofia alla sua epoca, al “proprio tempo appreso con il pensiero”. In più, non bisogna guardare solo alla logica, ma all’insieme appunto del sistema, come in una lingua non si guarda solo alla grammatica.
In contrasto con la kantiana “isola dai confini immutabili”, Hegel è contro ogni limite, se non altro per il fatto che l’idea di limite implica che la limitazione medesima sia già stata implicitamente trascesa. Egli ha perciò voluto abbandonare il terreno solido dell’esperienza ristretta, la verità come assenza di movimento, per arrischiare il “viaggio di scoperta” della sua Fenomenologia dello spirito. In essa la verità non consiste più nel poggiare sul fondamento immediato di qualcosa (l’intelletto kantiano o l’Essere della metafisica tradizionale), ma nel continuo oltrepassare se stessa, nel ‘fare il punto’ ad ogni tappa per poi proseguire. La dialettica moderna nasce sotto il segno di questa metafora dell’Oceano nordico. Tra apparenza e verità, tra fenomeno e noumeno non vi è più opposizione assoluta: nei fenomeni si mostra anzi il progressivo apparire della verità.
La narrazione liberale, laica e occidentale riassume meglio di altre civiltà il senso autentico del «limite»?
Contro ogni forma di razzismo e di sciovinismo, è giusto rifiutare la gerarchia tra le culture, sostenere il concetto di métissage di tutti gli uomini, di impollinazione culturale reciproca, di rivalutazione delle “differenze”, di rifiuto della boria dell’Occidente che si autoproclama portatore dell’unica civiltà degna di questo nome. Ma quando ci si ricollega alla propria cultura quale fonte primaria di espressione e come orizzonte simbolico immediato e la si equipara idealmente alle altre, occorre - credo - stare anche attenti a non obbedire a radicati pregiudizi ideologici ponendole tutte meccanicamente sullo stesso piano. Capisco che forse a qualcuno queste posizioni potranno dispiacere o sembrare apologetiche e so bene che l’“Occidente” ha tremende responsabilità storiche nelle tragedie verificatesi nel pianeta durante l’ultimo mezzo millennio. Eppure, alcune conquiste del cosiddetto “razionalismo occidentale” sono preziose. E non soltanto nel campo delle scienze, ma anche in quello delle forme politiche, come il liberalismo (che ha il suo centro nell’idea di libertà) e la democrazia (che ha il suo centro nell’idea di eguaglianza). A meno che non si creda di rispettare realmente una cultura oppressa rivalutando direttamente l’opera dello stregone, il rogo delle vedove, le pratiche di infibulazione.
Anche oggi, nell’epoca della globalizzazione, diversi tempi storici coesistono nel nostro pianeta per effetto di culture che vivono in diverse fasi di sviluppo o in diverse condizioni: dinanzi a quello dell’accelerazione e dei riferimenti globali introdotto dalle potenze coloniali, resta spesso in molti paesi il tempo più lento delle società tradizionali, che come ha mostrato Jared Diamond in Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali, ha anche i suoi vantaggi. Ricorrendo a una terminologia weberiana, si può dire che dovunque lo “spirito del capitalismo” è stato esportato, ha dovuto necessariamente abbandonare il suo humus etico, che lo sosteneva e lo rendeva accettabile, in quanto sorretto da delicati servo-meccanismi di promozione e di autorettificazione di un sistema messo a punto attraverso lotte e compromessi durati a lungo e non immediatamente riproducibili. Il suo impatto su società relativamente stazionarie o a sviluppo più lento (caratterizzate dalla "storia fredda") è stato spesso devastante. I “tentacoli del progresso” che l’Occidente ha lanciato sul resto del mondo hanno trasferito i processi di industrializzazione o la tecnologia applicata alle comunicazioni, all’igiene pubblica, ma non hanno esportato e plasmato in loco una cultura adeguata, né altri popoli colonizzati o influenzati dall’Occidente sono stati generalmente in grado di sviluppare degli anticorpi o degli ’ammortizzatori’ a questo impatto. Il senso di colpa dell’Occidente o di altri popoli, anche rispetto al passato, è certo un sentimento nobile, che implica anche la necessità di una riparazione per le devastazioni che sono state compiute in interi continenti. Gli europei si sono senz’altro presentati in vesti di evangelizzatori e di missionari della civiltà e hanno distrutto innumerevoli culture.
In questa prospettiva, i moderni processi di globalizzazione hanno avuto il pregio di mettere in rapporto civiltà per secoli o millenni isolate o relativamente isolate, di promuovere le conoscenze reciproche, i viaggi e i commerci, ma hanno anche preteso di portare ogni popolo e gruppo allo stesso livello della cultura dominante. Il risultato è che le gerarchie tra culture si sono accentuate.
Lei scrive che l’insediamento della democrazia sostituisce il potere divino e il carattere rigido di ogni possibile autorità. Eppure Alexis de Tocqueville e J. S. Mill, solo per fare gli esempi più noti, ci mettevano in guardia di fronte ai pericoli della «tirannia della maggioranza» e del conformismo di massa.
È vero che la democrazia attuale subisce una deriva verso la tirannia della maggioranza e il conformismo di massa (aggiungerei verso il populismo). Alla politica si affianca e si intreccia, infatti, con sempre maggiore intensità, il pettegolezzo. Già Heidegger aveva denunciato la “chiacchiera” come segno del conformismo che esonera il singolo dalla responsabilità delle sue affermazioni, ma si riferiva ancora a quei discorsi spontanei, frivoli o banali, che ci sono sempre stati. Oggi la comunità di vicinato, con le sue comari e le sue lingue lunghe, è quasi scomparsa, sostituita da una fiorente industria del gossip. E, come è accaduto anche nel passato, per motivi di convenienza e di consenso, la politica preferisce bypassare il pensiero critico e mettersi in sintonia con il senso comune dominante. La differenza consiste nella sostituzione dei consiglieri del principe con specialisti raccolti in “serbatoi di pensiero” governativi o di partito.
Ciò dipende anche dal fatto che essa è sempre più minacciata dalla scarsità di risorse da ridistribuire, sia materiali che simboliche. Il loro prosciugarsi − entro un orizzonte d’aspettative sociali decrescenti − viene surrogato da un pathos ipercompensativo di partecipazione mimetica alla vita pubblica, da un’inflazione di sceneggiature, psicodrammi e messaggi politici sopra le righe. Azzarderei pertanto l’ipotesi secondo cui gli elementi spettacolari tendono, in questo caso, a crescere in proporzione diretta all’aumento delle difficoltà da superare. Si possono cioè considerare gli ingredienti di teatralità fine a se stessi, puramente emotivi, in parte come sostituti di azioni efficaci e, in parte, come pubblici cerimoniali propiziatori. Certo, nessuna politica si riduce a teatralità, per quanto non si riesca a farne a meno. Il populismo è nefasto proprio perché la politica a “uso esterno” prevale sulla soluzione coraggiosa dei problemi. Ma quale politico è disposto a fare a meno di un consenso più facilmente acquisibile?
Non è agevole contrapporre a questa passività, che è alla base del conformismo di massa, il modello di democrazia partecipativa. Come già osservava Bobbio, per diverse ragioni esso ha oggi poche possibilità di essere accolto: perché in società complesse come le nostre, i cittadini sono giudici poco informati sui loro stessi interessi; perché la politica ha costi altissimi e può essere esercitata efficacemente solo da chi possiede o è in grado di procurarsi ingenti mezzi finanziari e di godere di estese reti di influenza; perché i poteri occulti condizionano le scelte palesi; perché il pluralismo confina con il corporativismo o, addirittura, con una moderna versione del feudalesimo; perché, infine, dove prevale l’individualismo di massa la visione dell’interesse generale è sempre più lontana dall’essere perspicua. Sarebbe già molto, come sostiene un allievo di Bobbio, Michelangelo Bovero, se essa non degenerasse nel “governo dei peggiori”, la “cachistocrazia” o se le oligarchie venissero, almeno in parte, erose e messe allo scoperto (senza confondere élites e oligarchie). Per evitare che la democrazia diventi un involucro vuoto o appaia come una conquista scontata dimenticando le aspre lotte per la sua conquista e il suo mantenimento, occorre prendere sul serio i motivi della disaffezione nei suoi riguardi, scoprendo tuttavia al loro interno anche il simultaneo, silenzioso appello al compimento di alcune delle promesse inevase.
Eventuali vie d’uscita dalle sue difficoltà devono dunque passare attraverso gli interstizi delle aspirazioni dei cittadini (come il bisogno di identità e di speranza che il populismo a suo modo soddisfa, o di eguaglianza come correttivo degli effetti perversi della lotteria naturale e sociale e come articolazione con il merito all’interno dell’economia di mercato) e la messa in opera di contrappesi alla concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo (dovuta anche all’accresciuta necessità di decisioni rapide nel contesto della globalizzazione). Solo così si potranno contrastare la fuga dalla politica, l’attrazione del populismo e il conformismo di massa.
Sostiene che il mondo è sempre più diviso tra la retorica del giovanilismo e una miope gerontocrazia. Da dove bisogna iniziare al fine di reintrodurre l’età di mezzo, quale espressione, a suo parere, di responsabilità generazionale?
Riformulerei così la domanda: Come rendere i giovani e i vecchi più responsabili anche in modo da trasmettere alle generazioni future una società più giusta? Non sarà certo sufficiente armarci di valori etici più coerenti e tenaci per far fronte ai rischi che il futuro ha in serbo. Il senso di responsabilità, la fermezza, il coraggio, la propensione al rischio ponderato, l’attribuzione di dignità e diritti a ogni essere umano, potranno, tuttavia, non solo fornire strumenti per muoverci in uno scenario mondiale sempre più coinvolgente, per selezionare in modo adeguato i desideri e i piani di vita individuali, ma anche per predisporre gli anticorpi necessari a resistere al richiamo di nuove violente o seducenti mitologie. Ma, senza il loro radicamento e la trasformazione dei principi morali in istituzioni politiche giuridiche, la loro efficacia sarà lasciata alla buona volontà dei singoli. Questo accade sempre meno nel rapporto di solidarietà intergenerazionali, dove la presenza pubblica dello Stato sociale o del Welfare sta diminuendo e lascia sempre più spazio alla famiglia in cui nonni e padri sostengono con i loro salari (e pensioni) giovani senza lavoro che stanno a casa fino a oltre i trenta’anni.
Un peso determinante ha avuto, specie sulla disoccupazione giovanile, la recente crisi finanziaria del 2007-2008, che sembra più strutturale che congiunturale e che ha mostrato, nello stesso tempo, i limiti e la capacità adattativi del capitalismo. Al di là della sua resilienza attraverso cicli di “distruzione creativa”, al capitalismo, proprio secondo Schumpeter, i pericoli potrebbero paradossalmente derivare non tanto dai suoi fallimenti, quanto dai suoi successi. Minando le istituzioni sociali che lo sorreggono, incrinando i vincoli di solidarietà che caratterizzano i rapporti tra Stato e cittadino, tali buoni risultati sono “inevitabilmente” destinati a creare le condizioni secondo il criterio della lunga durata, che mette in rilievo differenze macroscopiche, condizioni in cui esso non sarà più in grado di sopravvivere.
Una filosofia del «limite» che strumenti ermeneutici e teorico-politici deve impiegare in un contesto multiculturale oramai in alta tensione?
Quando, per un eccesso di multiculturalismo, è stato permesso alle donne indiane ciò che nella stessa India non è stato mai permesso, ossia di abortire in ritardo, dopo che si è visto attraverso l’ecografia il sesso del nascituro, su ottomila casi, settemilanovecentonovantasei sono aborti di femmine e quattro, aggiungo, sono un errore. Questo esempio mostra come si debbano porre dei limiti a chi giunge da noi con altre culture, consentendo loro la libertà di culto e di pensiero, ma negando loro, oltre che, ovviamente, la propagazione violenta del proprio credo, l’asservimento della donna o la poligamia. La sfida della convivenza è, anche qui, seria e bisognerebbe avere un doppio coraggio: da un lato, non lasciarsi intimidire dall’aggressività e dalla chiusura in se stesse di molte culture con cui si viene a contatto (a carattere ‘adolescenziale’, caratterizzate spesso da un negativismo e da un eccesso di legittima difesa, tipico di identità ancora fragili), le quali, proprio perché posseggono identità deboli, sono le meno disposte a negoziarle; dall’altro, guardare al lato oscuro del nostro universalismo, ascoltando le voci altrui e domandandoci dove potrebbe aver torto. I particolarismi e i ‘fondamentalismi’ nascono infatti soprattutto all’interno dei popoli e dei gruppi che sono stati esclusi dal “banchetto dell’universalismo” e che perciò rifiutano o diffidano di un gioco in cui sono abituati a perdere sempre. E ciò avviene non solo nelle periferie del pianeta, ma nel suo centro politico, come si evince dal progressivo fallimento delle politiche di integrazione, del melting pot in una società multiculturale per eccellenza, come quella degli Stati Uniti. Sull’universalismo a senso unico e sulle complementari reazioni di rigetto che esso provoca occorrerebbe interrogarsi a fondo. Si rischia altrimenti di rinfocolare i bigottismi e i parrocchialismi dei cosiddetti movimenti particolaristici, fondamentalisti o separatisti (sino a giungere alle ridicolaggini linguistiche di certe frange del femminismo estremista americano, secondo il quale bisognerebbe dire non solo, His-tory, ma anche Her-story).
La convivenza è tuttavia possibile, ma in forme nuove che devono essere trovate e applicate. Altre fedi o altre morali − come quella stoica − hanno diffuso l’dea dell’unità del genere umano, per cui nessun uomo è in realtà uno straniero, da escludere dalla comunità. Molti imperi e molti Stati hanno avuto natura multinazionale: da quello romano a quello austro-ungarico, da Bisanzio all’Unione Sovietica. Ciò li ha resi più tolleranti verso l’alterità, ma non ha potuto cancellare i confini tra inclusione ed esclusione. Li ha solo spostati, distinguendo tra lealtà o slealtà verso l’imperatore o verso lo Stato, fedeltà o infedeltà, devozione o meno alla causa. Oggi la convivenza, soprattutto sul piano delle tradizioni e della religione, dovrebbe essere impostata sul criterio fondamentale della pluralità delle posizioni e delle fedi che nessuno deve imporre con la forza o, in certi casi, a semplici colpi di maggioranze parlamentari.
Soprattutto, per evitare i conflitti a base religiosa (reale o apparente) occorre capire che le fedi non si riducono a meri apparati dottrinali o rituali: nel corso dei millenni s’intrecciano con tradizioni e forme di vita da cui è arduo scorporarle. Uno dei motivi più forti dell’ostilità mostrata in diversi paesi nei confronti dell’Occidente non dipende tanto dalla sua professione del Credo cristiano, quanto dal fatto che la diffusione dei suoi stili di vita (anche attraverso il cinema e a televisione) minaccia consolidate gerarchie sociali, mettendo, ad esempio, in discussione il ruolo subordinato della donna. Bisogna, con amarezza, riconoscere che a livello planetario non si è ancora presa piena coscienza di quanto − già nel Cinquecento, ai tempi delle guerre di religione in Francia − sosteneva Michel de l’Hôpital: “non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme”.
Hegel e lo spirito del (nostro) tempo
Il filosofo Remo Bodei interroga le radici profonde del pensiero del grande tedesco. E spiega come ha agito. La «civetta» non basta più
di Remo Bodei (Il Sole Domenica, 02.11.2014)
Per comprendere il pensiero di Hegel nel suo sviluppo sistematico sono partito dalla forza di suggestione ancor oggi esercitata da alcune metafore e dalla cascata di luoghi comuni, pregiudizi ed errori che sono derivati dalla loro interpretazione. Mi sono soffermato, in particolare, sulla più famosa, quella della «civetta di Minerva», intesa come emblema della filosofia al suo crepuscolo, quando il processo di formazione della realtà appare ormai concluso.
La civetta ha, tuttavia, un antagonista-collaboratore nella «talpa», che testimonia come la storia non finisca con il tramonto di un’epoca e come la filosofia non concluda affatto il suo cammino. L’immagine dominante di un sistema chiuso o di un atteggiamento politico sostanzialmente rinunciatario nello Hegel della maturità, poggia, appunto, anche sul fascino di queste fortunate metafore.
Ma quale è il rapporto fra la "civetta" della filosofia, che interpreta in maniera vigile e cosciente le modificazioni prodotte dall’epoca, e la "talpa" dello "spirito", che trasforma inconsciamente l’epoca stessa mediante un lavorio cieco ma rivolto a un fine sconosciuto ai contemporanei? Fra la filosofia, che sembra vedere e non fare, e il movimento storico, che sembra fare e non vedere?
Hegel sarebbe stato davvero un folle se avesse creduto di essere l’ultimo filosofo o che si fosse di fronte alla «fine della storia». Riteneva, invece, di essere un ordinatore sistematico di concetti ed esperienze, un filosofo che non inventa niente, ma che è chiamato a dare forma intelligibile a un’intera fase storica ormai al tramonto, agli anni «più ricchi che la storia universale abbia avuto».
In questo senso si paragonava implicitamente ad Aristotele, che presentò la sua summa alla fine dell’Atene classica. A sua volta, la storia del mondo per lui ovviamente continuerà, ma - soprattutto quella europea - dovrà superare una fase critica i cui esiti imprevedibili sono provocati dal sotterraneo scavare della "talpa".
Lo mostrano con abbondanza di documentazione i corsi di Heidelberg e di Berlino che continuano a essere pubblicati da alcuni decenni. In essi si descrive, ad esempio, la mutata funzione dello Stato e della società civile in un periodo storico in cui i processi di globalizzazione non avevano ancora raggiunto le proporzioni attuali, ma in cui le crisi economiche avevano già mostrato un altro volto nei loro contraccolpi sulla precarizzazione dell’esistenza di individui e popoli. Interessato fin dalla gioventù all’economia politica, lettore di giornali e riviste inglesi, scozzesi e francesi, legato alle discussioni sui sansimoniani, egli analizza le idee di lavoro, disoccupazione e miseria in una civiltà dominata dalle macchine e dal Kapital, un «animale selvaggio» che si sottrae a qualsiasi tentativo di addomesticamento.
Osserva come la ricchezza si concentri sempre più in poche mani, con la conseguente creazione di una enorme massa di «lavoratori disoccupati», di esseri umani sospinti nella miseria più spaventosa e umiliante che li abbrutisce e alla quale si cerca inutilmente di porre rimedio con dei "palliativi", come l’emigrazione nelle colonie. Giunge a dire che tale estrema miseria rende lecito a chi la subisce anche il furto per la propria sopravvivenza: «tale azione è illegale, ma sarebbe ingiusto considerarla come un furto comune. Sì, l’uomo ha diritto a tale azione illegale». Il tramonto di un’epoca è per lui sostanzialmente legato all’insolubilità di conflitti come questi.
Ho posto inoltre una serie di domande cruciali e ineludibili, a partire dalla definizione hegeliana della filosofia come «il proprio tempo appreso col pensiero»: Cosa significa pensare il proprio tempo? Come si configura la concretezza del presente attraverso la sua trascrizione in concetti, mediati da una approfondita conoscenza dell’analisi infinitesimale e delle scienze naturali (fisiologia, zoologia, chimica, geologia), frutto del serrato confronto con gli scienziati del tempo, da Lagrange a Bichat, da Lamarck a Cuvier o da Wener a Hutton? Qual è il senso dell’isomorfismo fra la struttura sistematica della sua filosofia e il campo dei mutamenti storici? Perché, in polemica con i romantici, Hegel disprezza il mondo della natura a favore di un patriottismo dell’umanità e della civiltà, fino al punto da definire il cielo stellato una «eruzione cutanea luminosa» e «il pensiero criminale di un malfattore è più grandioso e sublime delle meraviglie del cielo»? Perché il sistema pretende ora di essere la forma suprema della filosofia come scienza rigorosa?
Se Hegel si fosse limitato ad attribuire alla filosofia la natura di filia temporis, o se anche (per citare Ruge e Marx) avesse osato «metterne in piazza il segreto» e farla retrocedere da messo celeste a Zeitungskorrespondent, a inviato speciale di un’epoca, in fondo non avrebbe compiuto alcuna mossa teorica particolarmente scandalosa. Perfino un filosofo relativamente modesto come Karl Leonhard Reinhold aveva scritto nel 1801 un’opera intitolata Lo spirito dell’epoca come spirito della filosofia.
Fichte, poi, era giunto nei Tratti fondamentali dell’epoca presente a caratterizzare la propria età come un fronte che avanza dall’oscuro dominio dell’«istinto della ragione» al trasparente autogoverno della «scienza della ragione», come un momento storico «in cui si scontrano e si combattono mondi fra loro assolutamente ostili» e in cui, nel medesimo «tempo cronologico», possono «incrociarsi e scorrere l’una accanto all’altra, in diversi individui, epoche differenti»; soltanto il «tempo del concetto» era per lui in grado di correlare e di esprimere questi dislivelli nella storia dei singoli e dei popoli.
Nessuno, prima di Hegel, aveva, tuttavia, osato tradurre integralmente e consapevolmente lo svolgimento del proprio tempo sul piano di un organico sviluppo di forme del pensiero, di un sistema che avesse l’ardire di raffigurare, nel «semplice fuoco» del concetto, l’immagine virtuale dell’epoca.
Nessuno aveva dato tanta importanza alla storia e costruito una «rete adamantina» di categorie volta a rappresentare l’orizzonte massimo di intellegibilità di un’epoca che pretende di includere in sé, telescopicamente, i principi delle epoche antecedenti; nessuno, tranne - a suo modo - Montaigne, aveva svuotato il preconcetto che attribuiva alla «natura umana» un’essenza metastorica, mostrando come «la natura vivente è eternamente altro che il suo concetto, per cui quello che per il concetto era semplice modificazione, pura accidentalità, qualcosa di superfluo, diviene necessario, vivente, forse ciò che unicamente è naturale e bello».
In un appunto che aveva preparato poco prima di morire per l’introduzione al corso di filosofia del diritto del 1831-1832, al posto tenuto dalla civetta nella Prefazione del 1820, compare ora la «talpa», quasi a significare che l’avvenire è segnato dalle oscure forze dell’istinto e che l’unica cosa che gli occhi della civetta sembrano ora cogliere è proprio l’incertezza del futuro. Il mondo ha di nuovo accelerato il suo movimento inconscio, costringendo la filosofia a portare i propri "lumi" in un crepuscolo su cui incombe lo «spirito nascosto, che batte alle porte del presente». Il lavoro di decifrazione della realtà effettuale attraverso il pensiero non può, dunque, giungere a compimento.
IDEE
Filosofi al top, è solo una moda?
di Enrico Berti (Avvenire, 22 giugno 2011)
La Francia è, insieme con l’Italia, il paese nel quale si insegna più filosofia nelle scuole, ma la si insegna in modo diverso che in Italia. Da noi si insegna soprattutto storia della filosofia - per l’identificazione della filosofia con la sua storia, risalente a Giovanni Gentile, autore della riforma della scuola italiana in gran parte ancora in vigore -, mentre in Francia si insegna quella che noi chiameremmo filosofia teoretica o morale, cioè una discussione sui problemi filosofici, che trova espressione nella redazione di una dissertazione scritta, dove lo studente espone il suo punto di vista, la sua «filosofia».
Questa concezione si ispira, come è noto, al detto di Kant, secondo cui insegnare filosofia significa insegnare a «pensare con la propria testa». Si tratta della tipica concezione dell’illuminismo, del quale Kant è stato l’espressione più alta, la quale presuppone - come è già stato scritto - due condizioni fondamentali: 1) che si abbia una testa e 2) che questa sia davvero propria. La prima condizione, apparentemente facile da accettarsi, è in realtà difficile da realizzarsi, perché, con tutto quello che è stato detto dai filosofi, è difficile essere capaci di dire qualche cosa di veramente nuovo, o originale. La seconda è divenuta difficile oggi, a causa di una diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (soprattutto televisione, cioè pubblicità, e Internet) senza precedenti nella storia, per la quale siamo tutti terribilmente condizionati dalle teste altrui senza che nemmeno ce ne accorgiamo.
Più realista, e meno illuminista, di Kant è stato Hegel, il quale ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei che volevano insegnare a «pensare con la propria testa», a inventarsi ciascuno una propria filosofia, come se la filosofia non fosse mai esistita prima e quindi non esistesse già. Per filosofia Hegel intendeva la verità, iscritta nella mente di Dio (l’Idea) e realizzata nel processo della natura e nello spirito. Più modestamente la filosofia si può intendere come il pensiero dei grandi filosofi, che è bene conoscere e col quale è bene confrontarsi, cioè dialogare. Quindi va bene l’insegnamento italiano della storia della filosofia, purché questa non sia fine a sé stessa, ma insegni, appunto, a conoscere i classici e a «confilosofare» con loro sui loro e sui nostri problemi.
La ragione per cui questo invito non vuole invitare tutti a diventare filosofi è che di filosofi, nella società di oggi, ce ne sono anche troppi. Ciò è provato da un lato dalla straordinaria abbondanza, per non parlare di eccesso, di pubblicazioni cosiddette filosofiche, di interventi di filosofi nei giornali sia quotidiani che periodici, di partecipazione di filosofi ai talk-show televisivi, di convegni, incontri, corsi, festival, vacanze filosofiche (tutti peccati da cui anche chi scrive non è esente), insomma da una vera e propria «moda» della filosofia. Ma ciò che è provato, dall’altro lato, anche dalla terribile difficoltà, da parte dei laureati in discipline filosofiche, di trovare sbocchi professionali. Quello più tradizionale, cioè l’insegnamento, nella scuola secondaria e nell’università, è venuto sempre più restringendosi e sta quasi scomparendo. Altri sbocchi, come consulenze editoriali, gestioni di personale di aziende, progettazioni culturali di enti pubblici, e simili - tutte attività in cui i laureati in filosofia riescono in modo eccellente, a causa della loro apertura mentale -, pur essendo reali, sono tuttavia circoscritti a pochi casi. La conferma di queste difficoltà è la nascita di una nuova professione come la consulenza filosofica, che però difficilmente risolverà il problema della sovrabbondanza di laureati.
Pertanto il mio invito è non a diventare tutti filosofi, ma a fare tutti esperienza, almeno una volta nella vita, di che cosa significa affrontare un problema di verità, o un problema di senso, in modo filosofico, ovvero contando non su una fede religiosa, su un’ideologia, su un’autorità, ma sulle proprie risorse esclusivamente umane, che sono la ragione e l’esperienza. Esso può trovare qualche accoglienza non nei corsi di laurea universitari in discipline filosofiche, ma nella scuola secondaria, dove non si studia per diventare tutti filosofi, e nei corsi di laurea universitari di discipline non filosofiche (sia umanistiche che scientifiche, e giuridiche e mediche). Quando, una decina di anni fa, un ministro dell’istruzione italiano prese in considerazione la possibilità di introdurre elementi di filosofia anche nel primo biennio della scuola secondaria, quello uguale per tutti la Società Filosofica Italiano votò una mozione in cui, approvando l’iniziativa, affermava solennemente il diritto di tutti i giovani italiani a fare esperienza, almeno una volta nella propria vita, di che cosa significa affrontare un problema di verità o di senso in modo filosofico.
Io sono convinto che questo sia veramente un diritto, e che quindi qualche elemento di filosofia, con programmi diversi, con orari diversi, con metodi diversi, debba essere insegnato in tutte le scuole italiane, sia liceali che professionali, in modo che tutti i giovani sappiano che cosa vuol dire «filosofia». E poiché, lo ripeto, non credo che tutti debbano «fare della filosofia», il modo migliore in cui possono fare questa esperienza è «confilosofare» con i classici. Del resto, non si ritiene importante far conoscere ai giovani la letteratura, la poesia, la musica, l’arte in genere? E come lo si fa? Non certo facendo in modo che tutti diventino romanzieri o poeti o musicisti, ma facendo loro leggere i classici della letteratura e della poesia, ascoltare la musica classica, visitare i musei o i monumenti dell’arte classica. Perché non si deve poter fare la stessa cosa con la filosofia?
Enrico Berti
COMA DOGMATICO PROFONDO!!!
PAROLA DI ENRICO BERTI: Più realista, e meno illuminista, di Kant è stato Hegel, il quale ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei che volevano insegnare a «pensare con la propria testa».
SAPERE AUDE! E’ talmente vero quello che pensa Berti (e, con lui, la maggioranza dei suoi colleghi di filosofia e storia della filosofia) che qualsiasi studente e ogni studentessa per educarsi all’uso della sua propria intelligenza e alla sua "facoltà di giudizio" deve ricorre non alle sue (e loro) letture di Kant, ma a qualche perito o a qualche manuale di estimo: l’estimo è la disciplina che ha la finalità di fornire gli strumenti metodologici per la valutazione dei beni per i quali non sussiste un apprezzamento univoco!!!
Gioacchino - da Fiore!!!
ESAME DI MATURITA’ 2011 - SECONDA PROVA SCRITTA: LATINO, AL CLASSICO:
L’UNICO BENE E’ LA VIRTU’ *
Se uno vuole essere felice, si convinca che l’unico bene è la virtù; se pensa che ce ne sia qualche altro, prima di tutto giudica male la provvidenza, perché agli uomini onesti capitano molte disgrazie e perché tutti i beni che essa ci ha concesso sono insignificanti e di breve durata, se paragonati all’età dell’universo. 11 Conseguenza di questi lamenti è che non manifestiamo gratitudine per i benefici divini: deploriamo che non ci capitino sempre, che siano scarsi, incerti e caduchi. Ne deriva che non vogliamo vivere, né morire: odiamo la vita, temiamo la morte. Ogni nostro disegno è incerto e non siamo mai pienamente felici. Il motivo? Non siamo arrivati a quel bene immenso e insuperabile dove la nostra volontà necessariamente si arresta: oltre la vetta non c’è niente. 12 Chiedi perché la virtù non provi nessun bisogno? Gode di quello che ha, non desidera quello che le manca; per essa è grande quanto le basta. Abbandona questo criterio e verranno a cadere il sentimento religioso, la lealtà: chi vuole mantenere l’uno e l’altra deve sopportare molti dei cosiddetti mali, rinunciare a molte cose di cui si compiace come se fossero beni. 13 Scompare la forza d’animo, che deve mettere se stessa alla prova; scompare la magnanimità, che non può emergere se non disprezza come cose di poco conto tutti quei beni che la massa desidera e tiene nella massima considerazione; scompaiono la gratitudine e i rapporti di gratitudine, se temiamo la fatica, se pensiamo che ci sia qualcosa di più prezioso della lealtà, se non miriamo al meglio
*
LUCIO ANNEO SENECA,
Lettere a Lucilio
Traduzione da
Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanas
http://www.ousia.it/SitoOusia/SitoOusia/TestiDiFilosofia/TestiPDF/Seneca/LETTERE.PDF
Tecnologie e sapere
Il ruolo degli intellettuali all’epoca di web e tv
Strumenti. La filosofia ci aiuta a svelare le complessità del mondo e a evidenziarne le carenze
Gli ostacoli. L’egocentrismo e il narcisismo di molti individui offuscano questa comprensione
di Nicla Vassallo (l’Unità, 21.06.2011)
L’intellettualità, la filosofia in particolare, ci aiuta a svelare le complessità del nostro mondo, ma pure a evidenziarne, addirittura a denunciarne le carenze. C’è tutta una parte di umanità contemporanea che nutre fiducia in chi non dovrebbe, che viene indotta a credere in valori che tali non sono, che vede bellezze dove si situano invece bruttezze, che coltiva l’ignoranza in luogo della conoscenza. La filosofia chiarisce i concetti necessari, oltre che per pensare e ragionare bene, per condurre esistenze degne di venire vissute. Tra questi concetti, non a caso domina quello di conoscenza. Perché senza aspirare alla conoscenza non saremmo esseri umani: questa è una lezione che, nata con la filosofia antica, non ha mai cessato di caratterizzare l’intera intellettualità occidentale. Senza conoscenza, ci troveremmo, se va bene, in uno stato vegetativo.
Quanti nemici, però. I vari egocentrismi, personalismi, narcisismi di molti individui hanno a lungo offuscato la possibilità di comprendere il mondo. Occorre tempo per scusare il loro oscurantismo in «fase terminale». Per la maggior parte, tali individui non condividono, con altri, valori importanti, quali la verità, ovvero la ricerca della verità, insieme al dire la verità. Individui che mentono a se stessi e si auto-ingannano finiscono col mentire agli altri e con l’ingannarli. Eccoci: viviamo in una sorta di Torre di Babele, non tanto per i linguaggi diversi che utilizziamo nel discorrere, quanto perché c’è chi abusa di questi linguaggi, li impiega non per trasmettere conoscenza, ma piuttosto per prevaricare l’altro-da-sé, per asservirlo alle più bieche ambizioni. In altri termini, circola troppa superbia, il che non ci aiuta a comprendere il mondo, né le relazioni umane che tessiamo.
La superbia (benché non solo) avvantaggia una cultura pop italiana, per lo più televisiva, di basso livello. Chi oggi viene considerato dalla maggioranza un intellettuale corrisponde in genere a un onnipresente televisivo, e la gran parte della televisione italiana contemporanea proferisce banalità, se non spesso falsità, o insulsaggini, infarcite di buona retorica, banalità che un tempo, per pudore, non si osavano pronunciare neanche tra sé e sé. C’è una spaccatura, ormai evidente, tra l’intellettuale vero e proprio, e chi applica, invece, gli ordini ricevuti dall’alto.
La differenziazione linguistico-culturale tra il vero intellettuale e quello che si atteggia a tale sta creando una sorta di classe privilegiata, una classe colta, consapevole, dotata degli strumenti per operare le scelte migliori, rispetto a una massa che di questi strumenti viene privata. Fanno gioco i complessi rapporti tra intellettuali atteggiati, schiavi del tiranno, masse e potere. Ma su ciò Elias Canetti ci aveva già messo in guardia in quel capolavoro che rimane Masse und Macht. Mentre gli intellettuali veri e propri? Non stanno a guardare; il loro margine di manovra rimane nondimeno decisamente ridotto, rispetto a un tempo. Farsi un nome, acquisire una fama immeritata, mirare a denari e successi, soggiogare la massa, testimoniare il falso o l’irragionevole non appartiene all’intellettualità degna di definirsi tale.
Possiamo confidare nella speranza che l’intellettualità vera e propria non sia una specie in via di estinzione. Alcuni intellettuali hanno rinunciato all’onnipresenza televisiva per dedicarsi alla scrittura: libri, carta stampata, ma pure blog - senza tralasciare i video su internet, dove l’intellettuale carica le riprese e i le riflessioni che desidera, senza dover badare a censure e ad ascolti.
Non dimentichiamo però che parecchi e cosiddetti grandi, vecchi intellettuali italiani detestano la tecnologia, sostanzialmente qualsiasi tecnologia. In effetti, il discorso sulla tecnologia rimane tra i più complessi, ed è sempre un dispiacere accorgersi che in troppi si esprimono contro la tecnologia senza alcuna cognizione di causa, senza distinguere tra ricerca scientifico-conoscitiva e le sue applicazioni tecnologiche, senza riconoscere le tante differenti tecnologie. Limitando l’attenzione alle tecnologie legate al trasferimento di conoscenza, in cui vengono coinvolti più modi e mezzi comunicativi, dobbiamo ammettere senza esitazioni che viviamo nella cosiddetta società dell’informazione.
Se un tempo contavano maggiormente gli scambi conversazionali, diretti, individuali, quotidiani, oggi telefoni, cellulari, sms, e-mail, blog, social network, piattaforme varie consentono inusitate potenzialità. Se un tempo ci si incontrava al caffè, in piazza, nei salotti culturali, oggi è internet a «unirci», apparentemente offrendo possibilità singolari alla vita comunitaria. Ma conosciamo sempre con chi stiamo interloquendo quando navighiamo su internet? Quali sono le informazioni false e quali quelle vere? Quali i testimoni inaffidabili e quali quelli affidabili? Chi e che cosa ci stanno trasferendo conoscenza, e chi e che cosa invece ci sta ingannando, manipolando, controllando, tradendo? La storia del mondo, quella antecedente all’avvento di internet, ci ha regalato molti «Grandi Fratelli». Occorre fare sì che il web non si trasformi nel «Grande Fratello» di orwelliana memoria.
Il pensiero va rivolto ora ai tanti giovani che, alle prese con l’esame di maturità, stanno considerando di iscriversi all’università. Ciò che verrà loro riferito si trasformerà in conoscenza? Non sono in pochi i ricercatori, professori, rettori che faticano con cellulari, sms, e-mail, blog, social network, piattaforme varie, ma pure con volumi, enciclopedie, giornali, riviste, radio, televisione. Proviamo a eliminare tutto ciò, cosa rimane? Ai giovani poco. E a tutti? Non sapremmo neanche il nostro nome (nome che ci viene riferito da altri, per esempio dal registro degli uffici municipali), mentre il nostro status conoscitivo, nonché pratico ne risulterebbe spogliato, depauperato. In quale epoca ci troveremmo? Probabilmente, ancora all’età della pietra.
Di cosa soffriremmo? Senz’altro di carenze cognitivo-affettive, incoerenze, ignoranze, paranoie. Anche le stesse scienze non avrebbero compiuto i progressi cui siamo ormai abituati: specie nella nostra epoca, gli scienziati sono difatti incapaci di scoperte, se non si basano sulle conoscenze di altri scienziati. Di più: capire la conoscenza ci aiuta a inquadrare con consapevolezza astrologi, complotti, credulità, dittature, gaffe, giornalismi, guerre, inganni, inquisizioni, internet, poteri, pubblicità.
Garantire ai giovani conoscenza è un nostro obbligo. Perché? Stando, per esempio, a David Hume, «un uomo delirante, o noto per la sua falsità e furfanteria non ha autorità alcuna su di noi». Per anni, tuttavia, non è stato così: a falsi e furfanti è stata attribuita grande autorità. Il suggerimento di Hume deve valore per i giovani, soprattutto per loro, benché non solo. Come accade che uomini deliranti e furfanti, noti per le loro falsità, continuino a esercitare autorità su gran parte del popolo? Come abbiamo potuto credere, almeno inizialmente, a Hitler quando giurava di non aver intenzioni belligeranti? Perché ci siamo fidati di un George Bush che sosteneva la presenza di armi di distruzioni di massa in Iraq, e non degli ispettori dell’Onu che la negavano?
Perché leggiamo un giornalista fazioso? Per ingenuità conoscitiva! Viviamo in un momento di vera e propria patologia epistemica, in cui le deviazioni dell’ignoranza e degli ignoranti ci affascinano.
Purtroppo, non capiamo che queste deviazioni conducono a devastazioni: per l’appunto alla Seconda Guerra Mondiale, alla Guerra in Iraq, o, più semplicemente, al giornalista che conduce una trasmissione come «Qui Radio Londra», sottintendendo di svolgere le essenziali funzioni informative che ha svolto la Bbc a partire dal 1938, quando invece si tratta di tutt’altro. Difendiamo la scuola e l’università pubbliche, finanziamole, facendo sì che in esse siano messi in panchina corrotti e ignoranti. Non solo i giovani devono poter aver un futuro, ma devono poter essere in grado di scegliere il futuro migliore, grazie a ottimi maestri che offrano tutti gli strumenti per condurre un’esistenza da esseri umani.
di Carlo Galli (la Repubblica, 23.o6.2011)
Gli italiani hanno scoperto di esser stati governati per anni da un esecutivo Berlusconi-Bisignani. Ci eravamo abituati a criticare con estrema durezza il potere pseudo-carismatico, mediatico, affabulatorio del premier. A criticare la sua prassi extra-istituzionale di rappresentare i cittadini - trasformati in popolo adorante che si identifica in una icona, in un corpo mistico virtuale -, il suo indirizzarsi contro gli avversari come contro dei ‘nemici’, il suo saper produrre prevalentemente immagini (sogni o incubi) a uso e consumo degli italiani, e il suo interessarsi solo a sé e ai suoi amici per quanto riguarda gli interessi concreti da salvaguardare. A opporci alla sua pretesa di essere sopra la legge, oltre la Costituzione, ai limiti della democrazia (e estraneo alla democrazia liberale parlamentare e alle sue garanzie).
Sembrava, tutto sommato, di avere a che fare con un potere eccezionale, con un concentrato di potenza difficilmente riconducibile alla misura costituzionale, con un’enormità e con un’anomalia che sovrasta (o cerca di farlo) l’ordinamento. Ora, si scopre che tutto ciò è certamente ancora vero, ma che c’è dell’altro: che questo potere - come le scatole cinesi - è a sua volta una maschera, che cela in sé un vuoto; e non solo perché è vuoto di ogni istanza pubblica ed è pieno di una sola istanza privata - quella di Berlusconi - ma perché è abitato da altri, da occulti manovratori, da tessitori di trame economiche, politiche, mediatiche, giudiziarie, dai soliti noti che costruiscono ignote reti di potere, più efficaci del potere ufficiale, dalle quali questo viene distorto, piegato, corrotto. Non soltanto, insomma, abbiamo a che fare col potere gigantesco e iper-visibile del premier, ma anche con il potere oscuro della P4 (e chissà di quante altre P, ancora, ci toccherà apprendere l’esistenza); non solo con un potere che sta (o pretende di stare) sopra la Costituzione, ma con uno, ramificato e pervasivo, che sta dietro e sotto le istituzioni, non visibile ma coperto.
Nel 1941 un esule tedesco, Ernst Fraenkel, scrisse in America un libro intitolato Il doppio Stato, in cui spiegava il funzionamento del potere nazista: secondo lui, allo "Stato normativo", lo Stato delle istituzioni legali, la Germania di Hitler affiancava un secondo Stato, lo "Stato discrezionale", che funzionava con l’arbitrio e la violenza, al di là di ogni norma e di ogni garanzia. La differenza rispetto alla nostra situazione - al di là, naturalmente, del fatto che nel nostro Paese non vi è nulla di neppure lontanamente paragonabile al delirio di violenza criminale che caratterizzò il regime nazista - è che oggi, in Italia, i sistemi di potere politico, compresenti, non sono due, ma tre: quello legale-costituzionale, quello carismatico-populistico, e quello occulto delle trame oscure e delle cricche d’affari. Il primo, l’unico che una democrazia liberale può e deve conoscere, ovvero l’unico legittimo, è sotto stress, logorato e minacciato; il secondo, che al primo ha voluto sovrapporsi, ha funzionato per almeno dieci anni come portatore di una legittimità alternativa alla costituzione - formalmente intatta, nonostante i numerosi progetti di manomissione, ma bypassata da un’altra immagine della politica, dallo splendore del carisma populistico -; e infine, ormai logorato anche questo secondo sistema di potere, emerge ora il terzo, un potere indiretto e manipolatorio che ha scavato, come un esercito di termiti o di tarli, all’interno delle strutture pubbliche, penetrandole, corrodendole, piegandole a fini di parte.
Questo terzo potere è l’antitesi del primo, come l’illegalità lo è della legalità, l’opacità della trasparenza; ma è anche la verità del secondo, la logica conseguenza dello svuotamento idolatrico della democrazia che questo ha operato. L’idolo luccicante con cui troppi italiani hanno voluto sostituire la prosa e la serietà dell’impegno civile, e anche la semplice legalità, è stato l’incuatrice - li ha allevati in sé, e li ha coperti - dei robusti, tenaci e voraci animaletti, che all’insaputa dei cittadini hanno scavato cunicoli e gallerie nelle istituzioni, e hanno così minato l’essenza della vita democratica. L’idolo che oggi si rivela pullulante di vite parassitarie, infatti, ha privato gli italiani del diritto di essere liberi cittadini, in grado di decifrare razionalmente la vita pubblica, e ne ha fatto degli ignari spettatori di innumerevoli arcana imperii, orditi da pochi, che li hanno avvolti nelle trame insidiose dei poteri distorti. A ulteriore e tardiva dimostrazione che è soprattutto l’assenza di potere autenticamente democratico a generare mostri e mostriciattoli.