"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE...
DEUS CHARITAS EST" (1Gv., 4. 1-16). *
CARISSIMI, NON PRESTATE FEDE A OGNI SPIRITO ...
DIO E’ AMORE (1 Gv., 4. 1-16)
(per leggere gli art. seguenti, cliccare sul rosso)
Il libro s’intitola Gesù di Nazaret, che, precisa il Pontefice, si scrive senza acca.
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
SULLA PEDOFILIA, L’ALLARME DELLA RIVISTA "CONCILIUM" (3/2004) E IL COLPEVOLE SILENZIO DEL VATICANO.
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
Papa: ’Ecco le 15 malattie della Curia’
’Primo sentirsi immortale. Cimiteri pieni di chi si sentiva tale’
di Redazione (ANSA 22 dicembre 2014)
Ecco le malattie che il Papa, nella udienza alla curia per gli auguri di Natale, ha elencato e analizzato invitando alla riflessione, alla penitenza e alla confessione, in questi giorni che separano dal Natale.
La prima é la "malattia del sentirsi immortali, immuni da difetti, trascurando i controlli" un corpo che non fa "autocritica, non aggiorna e non cerca di migliorarsi, è un corpo infermo". Il Papa ha suggerito una "ordinaria visita ai cimiteri, dove vediamo i nomi di tante persone che si consideravano immuni e indispensabili". Questa malattia, ha commentato il Papa, "deriva spesso dalla patologia del potere, dal narcisismo che guarda la propria immagine e non vede il volto di Dio impresso" negli altri, sopratutto "i più deboli". "Antidoto a questa epidemia - ha suggerito il Pontefice - è la grazia di sentirci peccatori, e il dire ’siamo servi inutili’".
La secondo è la "malattia del martalismo, che viene da Marta, la malattia della eccessiva operosità", di coloro che "si immergono nel lavoro trascurando inevitabilmente la parte migliore, il sedersi ai piedi di Gesù". "Trascurare il necessario riposo - ha ammonito - porta allo stress e alla agitazione" un "tempo di riposo da trascorrere con i familiari è necessario", come necessario è "rispettare le ferie come momenti di ricarica spirituale e fisica", ricordando quanto dice il libro del biblico del Quelet, ’c’è un tempo per ogni cosa’".
La terza: "malattia dell’impietrimento mentale e spirituale", "il cuore di pietra e duro collo di coloro che strada facendo perdono serenità interiore audacia e si nascondono sotto le carte diventando macchine di pratiche e non uomini di Dio", "è pericoloso perdere la sensibilità umana, ed è la malattia di coloro che perdono i sentimenti di Gesù, il cuore col tempo si indurisce e diventa incapace di amare incondizionatamente il padre e il prossimo, essere cristiani infatti - ha ricordato il Papa - significa avere gli stessi sentimenti di distacco, donazione e generosità di Gesù".
La quarta è la "malattia della eccessiva pianificazione e funzionalismo, quando l’apostolo - ha osservato papa Bergoglio - pianifica tutto minuziosamente e crede che le cose progrediscono diventando così un contabile e un commercialista: preparare tutto e bene è necessario, ma senza voler mai richiudere e pilotare la libertà dello Spirito che è più generosa di ogni pianificazione". "Si cade in questa malattia - ha denunciato papa Francesco - perché è più comodo adagiarsi nella proprie posizioni immutate", voler "regolare e addomesticare lo Spirito Santo che è freschezza fantasia, novità".
La successiva malattia in agguato per ogni chiesa, curia e gruppo di fedeli elencata dal Papa, la quinta, é la "malattia del mal coordinamento: quando i membri perdono coordinamento tra loro" la curia diventa "un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo Spirito di grazia". Qui il Papa ha esemplificato parlando tra l’altro della "testa che dice al braccio ’comando io’".
La sesta é la "malattia dell’alzheimer spirituale, la dimenticanza della storia della salvezza, della storia personale con il Signore, del primo amore: si tratta - ha spiegato papa Francesco - di un declino progressivo delle facoltà spirituali" che "in un tempo più o meno lungo" rende la persona o il gruppo "incapace di un’attività autonoma, in uno stato di assoluta dipendenza dalle sue vedute spesso immaginarie: lo vediamo - ha rimarcato - in coloro che hanno perso la memoria del loro incontro con il Signore, dipendono dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e manie, che costruiscono intorno a sé dei muri e delle abitudini e diventando sempre di più schiavi degli idoli che hanno scolpito con le loro stesse mani".
La settima é "la malattia della vanità e vanagloria" di chi vede solo "l’apparenza, i colori delle vesti e le insegne di onorificienza come vero obiettivo della vita, dimenticando le parole di san Paolo", e qui il Papa ha citato l’invito paolino a non considerare gli altri secondo il proprio interesse. "Questa malattia - ha denunciato il Pontefice davanti alla curia - ci porta ad essere uomini e donne falsi e a vivere un falso misticismo e un falso pietismo san paolo ’nemici della croce di cristo’ perché si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi".
L’ottava è la "malattia della schizofrenia esistenziale: avere una doppia vita frutto della ipocrisia del mediocre" e "del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare, coloro che abbandonando il servizio pastorale si limitano a pratiche burocratiche, vivono in un loro mondo parallelo dove mettono da parte ciò che insegnano agli altri e iniziano una vita dissoluta". "La conversione per questa gravissima malattia - ha rimarcato il Papa dopo una frazione di silenzio - è urgente indispensabile".
La nona malattia è quella "di chiacchiere, mormorazioni pettegolezzi, ne ho parlato tante volte - ha ricordato - ma non è mai abbastanza: è grave, inizia magari per fare due chiacchiere, e si impadronisce della persona facendola diventare seminatrice di zizzania come Satana". Questa malattia è "delle persone vigliacche, che non avendo il coraggio di parlare direttamente, parlano dietro le spalle", e anche a questo proposito il Papa ha citato san Paolo con il suo invito a agire senza mormorare, ed essere irreprensibili e puri. "Guardiamoci - ha ancora esortato papa Francesco - dal terrorismo delle chiacchiere".
La decima è "la malattia di divinizzare i capi, di coloro che corteggiano i superiori sperando di ottenere la benevolenza. Sono vittime di carrierismo e opportunismo, onorano le persone e non Dio, sono persone meschine, infelici, ispirate solo dal proprio fatale egoismo. Questa malattia - ha osservato papa Bergoglio - potrebbe anche colpire i superiori quando corteggiano loro collaboratori per averne lealtà e dipendenza. Ma il risultato finale - ha sottolineato con forza - è una vera complicità".
L’undicesima: "la malattia dell’indifferenza verso gli altri, quando ognuno pensa solo a se stesso e perde la sincerità dei rapporti umani, quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di condividerla positivamente con gli atri, quando per gelosia o scaltrezza si prova gioia nel vedere altro cadere invece di incoraggiarlo e rialzarlo".
La dodicesima è "la malattia della faccia funerea, delle persone burbere e arcigne che ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia e trattare gli altri, soprattutto quelli ritenuti inferiori, con rigidezza e arroganza". La "severità teatrale e pessimismo sterile sono spesso sintomo di insicurezza di sé" ha detto il Papa, che ha invitato a "sforzarsi di essere una persona entusiasta e allegra che trasmette gioia: un cuore pieno di Dio è felice e contagia con la gioia attorno a sé; non perdiamo quello spirito gioioso, pieno di humour e persino autoironico che ci rende persone anche nella situazioni difficili. Quanto bene ci fa una buona dose di santo umorismo e ci farà bene recitare spesso la preghiera di Thomas Moore: io la prego tutti i giorni, mi fa bene".
La tredicesima malattia, ha spiegato Bergoglio, è quella "dell’accumulare, di chi cerca di riempire un vuoto esistenziale accumulando beni materiali, non per necessità ma solo per sentirsi sicuro". Il Papa ha ribadito che "il sudario non ha tasche", cioè che morendo non ci si porta dietro niente "e - ha sottolineato - tutti i tesori terreni, anche se sono regali, non riempiranno quel vuoto". "A queste persone - ha aggiunto il pontefice - il Signore ripete ’tu dici sono ricco, non ho bisogno di niente, ma non sai di essere un povero cieco’. L’accumulo appesantisce solamente e rallenta il cammino inesorabilmente". Ha quindi raccontato un aneddoto: "Un tempo - ha ricordato - i gesuiti spagnoli descrivevano la Compagnia di Gesù come la ’cavalleria leggera della Chiesa; ebbene, un giovane gesuita che doveva traslocare e stava sistemando il suo bagaglio, tanti regali, oggetti, si sente dire da un vecchio gesuita saggio, ’questa sarebbe la cavalleria leggera della Chiesa?’ I nostri traslochi".
Quattordicesima malattia quella "dei circoli chiusi, dove la appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al corpo e a Cristo stesso. Anche questa inizia sempre da buone intenzioni, ma con il passare del tempo schiavizza diventando un cancro" che causa tanto male e scandali, specialmente ai nostri fratelli più piccoli. La autodistruzione o il fuoco amico dei commilitoni è il pericolo più subdolo": ’ogni Regno bene diviso in se stesso va in rovina’".
Infine, "l’ultima malattia - ha detto Bergoglio alla curia romana - è quella del profitto mondano, degli esibizionismi, quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani, o per ottenere più potere". E’ la malattia "delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per questo capaci di calunniare, diffamare e screditare gli altri, persino su giornali e riviste, naturalmente per esibirsi e mostrarsi più capaci degli altri. Fa male al corpo - ha sottolineato il Pontefice - perché porta a usare qualsiasi scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza". E a questo punto il Papa ha raccontato del prete che chiamava i giornalisti per spiattellargli i difetti dei confratelli, e lo ha chiamato "poverino".
Un prete pedofilo a Monaco
mentre Ratzinger era vescovo
dal nostro corrispondente ANDREA TARQUINI
BERLINO - Clamorosa svolta nello scandalo dei casi di abusi sessuali nelle istituzioni cattoliche tedesche. L’edizione online dell’autorevole quotidiano liberal di Monaco di Baviera, la Sueddeutsche Zeitung, scrive che negli anni Ottanta un sacerdote pregiudicato per violenze pedofile fu trasferito da Essen (NordReno-Westfalia) in Baviera, nel periodo in cui l’attuale pontefice Benedetto XVI, allora cardinale Joseph Ratzinger, era arcivescovo di Monaco e Freising e quindi teoricamente massimo responsabile di ogni affidamento di missione e trasferimento di sacerdoti. In Baviera, il prete pregiudicato si abbandonò di nuovo a violenze pedofile e attualmente esercita ancora il suo ministero nell’Alta Baviera.
Immediata la reazione di Padre Lombardi, portavoce della Santa Sede: in un suo comunicato sul suo sito, egli ha detto, la diocesi bavarese ha già chiarito il caso. L’allora vicario generale Gerhard Gruber, oggi 81enne, si è assunto la piena ed esclusiva responsabilità della scelta di aver affidato il servizio pastorale al sacerdote pregiudicato. E si è duramente autocriticato parlando di grave errore.
Il sacerdote, di cui la Sueddeutsche Zeitung non fa il nome, è stato in servizio quasi ininterrottamente in Baviera dal 1980. In precedenza, a Essen, cioè nel centro-ovest della Germania, il prete era stato scoperto e denunciato perché aveva costretto un bimbo allora undicenne a praticargli un atto sessuale orale. Trasferito in Baviera, il sacerdote commise di nuovo abusi pedofili su minorenni. La Chiesa a quanto risulta alloa Sueddeutsche non ha mai denunciato il presule alla giustizia. La notizia arriva come una bomba nello stesso giorno in cui il pontefice ha esaminato in un teso consulto in Vaticano i casi di pedofilia nella Chiesa catotlica tedesca insieme con il presidente della Conferenza episcopale tedesca, monsignor Robert Zollitsch. Papa Benedetto si è detto sconvolto degli abusi promettendo linea dura e piena chiarezza.
* la Repubblica, 12 marzo 2010
È san Giovanni il «pesce» fritto in padella da Giovenale?
di Ilaria Ramelli (Avvenire, 09.03.2010)
La IV satira di Giovenale, che ho studiato su Gerión nel 2000, è una critica a Domiziano per un fatto apparentemente ridicolo: una convocazione del Senato per decidere che fare di un enorme pesce recato all’imperatore. La satira è generalmente interpretata come una denuncia dell’oltraggioso trattamento spesso riservato al Senato da Domiziano e delle numerose condanne a morte di illustri membri della nobiltà romana.
Ciò è corretto; tuttavia si è sottovalutato il valore specifico dell’episodio del pesce. Hanno attirato l’attenzione su questo e l’hanno interpretato in senso religioso Deroux e Luisi, il quale ha colto nella satira il riferimento a un episodio storicamente accaduto: Giovenale alluderebbe alla condanna della Vestalis Maxima Cornelia da parte di Domiziano ad essere sepolta viva.
La profonda padella ( testa alta , v. 131) destinata al pesce rappresenterebbe la fossa che accolse Cornelia. Colpisce il ruolo di Pontefice Massimo attribuito a Domiziano e non giustificato dalla decisione sulla modalità di cottura di un pesce.
Tuttavia, la padella per la cottura del pesce non assomiglia alla fossa terragna in cui fu calata Cornelia e il tenui muro del v. 132, proprio perché sottile, non corrisponde alla fossa; non si adattano a Cornelia né il carattere di «straniero» attribuito al pesce ( peregrina est belua, v. 127) né la denuncia al fisco ( res fisci est, v. 55; cfr. vv. 47-56).
Tertulliano sembra illuminare meglio l’episodio riferito da Giovenale. L’apologista nel De praescriptione haereticorum, in un passo in cui ricorda il primato della Chiesa di Roma fra le Chiese cristiane e associa ad essa Pietro, Paolo e Giovanni (36,2-3), offre una breve notizia ignota alla tradizione precedente: Giovanni fu a Roma e vi subì un terribile supplizio, l’immersione nell’olio bollente ( in oleum igneum demersus), dal quale uscì illeso, dopo di che fu relegato in un’isola.
Gerolamo, riferendosi poi allo stesso episodio, attesta che il contenitore dell’olio bollente in cui Giovanni fu calato era una giara di terracotta ( dolium ). La modalità del supplizio, inusitato nel mondo romano, è identica a quella della cottura del «pesce» di Domiziano in un’enorme e profonda padella di terracotta ( patina, v. 133; testa alta, v. 131): così fu l’immersione di Giovanni nell’enorme giara di terracotta piena d’olio bollente.
L’esame della satira evidenzia anche altri elementi che fanno supporre la volontà di Giovenale di riferirsi al supplizio di Giovanni. La vittima è un pesce (un rombo di straordinarie dimensioni: spatium admirabile rhombi, IV 39), e il simbolismo cristiano del pesce, per l’acrostico del suo nome greco, era invalso nel II secolo, quando Giovenale era ancora in vita. Questo pesce viene da lontano, per mare, è «straniero, forestiero» come Giovanni, e approda in Italia presso Ancona (ibidem, v. 40), il che fa pensare a una provenienza dall’Oriente. Non offre resistenza alla cattura (v. 69). A causa degli innumerevoli delatori (vv. 47-48: plena et litora multo delatore), viene recato dal pescatore da Ancona ad Alba (v. 61), dove si trova Domiziano. In questa sezione è massima l’insistenza sui delatori, secondo i quali tutti i «pesci» dell’impero appartengono al fisco.
Supponendo il valore cristoforo del pesce, la delazione poteva riguardare il fiscus Iudaicus, che Domiziano inasprì secondo Svetonio e che pretese di riscuotere anche dagli improfessi qui Iudaicam viverent vitam, i cristiani, che furono così costretti a venire allo scoperto e che vennero accusati di «ateismo» e di «costumi giudaizzanti» secondo Dione Cassio.
Il dibattito sul «pesce» avviene ad Alba: là fu convocato il Senato (vv. 72-73) e si decise la sorte del «pesce». La Porta Latina, ove ebbe luogo secondo la tradizione l’immersione di Giovanni in olio bollente e ove furono eretti la basilica di S. Giovanni in Porta Latina e l’oratorio di S. Giovanni in Oleo, era quella da cui entrava a Roma chi proveniva da Alba. Il Senato dovette decidere del «pesce»; mancava una padella delle dimensioni giuste: sed derat pisci patinae mensura (v. 71); analogamente, il contenitore dell’olio bollente per Giovanni era di dimensioni inusuali. Poiché non si volle tagliare il pesce (v. 130-131), si decise di costruire una padella apposita d’argilla, enorme e profonda (vv. 131-135), identica alla giara dello stesso materiale (il dolium ) colma di olio bollente per Giovanni.
Giovenale: una satira «dalla parte dei cristiani»
Lo scrittore si scaglia contro il persecutore Domiziano, segno che gli intellettuali latini stimavano la nuova fede
di Ilaria Ramelli (Avvenire, 16.03.2010)
Nella Satira IV, che probabilmente allude al supplizio di san Giovanni a Roma (come dicevamo la scorsa settimana), Domiziano è designato da Giovenale come Pontefice massimo ( «pontifici summo», v. 45). Questa caratterizzazione come supremo custode della religione pagana si adatta perfettamente alla condanna di Giovanni, responsabile di una colpa religiosa in quanto esponente di una superstitio illicita.
Che Giovenale alluda al supplizio di Giovanni in questa satira è suggerito anche dal fatto che tutto il contesto della satira in cui è inserita la condanna del «pesce» sembra ricco di riferimenti alla persecuzione domizianea contro i cristiani. Giovenale designa Domiziano anche come «calvo Nerone» (v. 38), collegando Domiziano all’altro precedente persecutore dei cristiani, Nerone appunto, come farà Tertulliano chiamando Domiziano dimidius Nero («mezzo Nerone» ).
Domiziano è aspramente criticato da Giovenale per la sua empia pretesa di avere una dis aequa potestas («un potere pari agli dei», vv. 70-71) e, soprattutto, l’accusa all’imperatore è motivata dalla condanna a morte di Acilio Glabrione, il quale era con ogni probabilità un cristiano ( vv. 94- 102).
Inoltre, un altro passo importante rivela che l’intero contesto della satira evoca in vari punti Domiziano anche come persecutore dei cristiani: è l’osservazione conclusiva di Giovenale che aiuta a comprendere ancor meglio la chiave di lettura dell’intera satira: Domiziano cadde solo quando spaventò la plebe, i cerdones del v. 153, dietro a cui è stata intravista un’allusione ai cristiani.
In effetti alla congiura di Sigerio e Partenio, che fu fatale a Domiziano, secondo Svetonio prese parte anche uno schiavo della famiglia di Clemente, Stefano, procuratore di Domitilla. Dice Filostrato che egli volle vendicare in tal modo l’uccisione di Clemente, decisa da Domiziano suo parente: anche se non risulta che Stefano fosse cristiano, nondimeno si seppe - e lo seppe anche Giovenale - che un membro della familia del cristiano Clemente aveva partecipato all’assassinio del persecutore Domiziano, con l’espresso intento di vendicare il suo padrone, che era stato messo a morte da Domiziano proprio perché cristiano.
L’interesse di Giovenale per il supplizio di Giovanni, dunque, si inscriverebbe perfettamente in una satira che mira a denunciare la politica, soprattutto religiosa, di un imperatore che si era fatto pari agli dèi ( con una « dis aequa potestas » ) e nella quale il tema di Domiziano persecutore dei cristiani sembra costituire un motivo portante. Tale interesse si situa in un contesto storico in cui il fatto cristiano, in età neroniana e in età domizianea, sembra aver destato l’attenzione degli intellettuali pagani più di quanto comunemente non si supponga.
Certo, l’atteggiamento di Giovenale verso i cristiani quale emerge dalla satira IV non è di indistinta simpatia: egli ammira certamente Acilio Glabrione e coloro che sanno opporsi al tiranno professando ad alta voce le loro convinzioni e dando la vita per la verità («verba animi proferre et vitam inpendere vero», v. 91), ma rivela una sfumatura di disprezzo verso i cerdones del v. 153: come Tacito, che ha rispetto per Pomponia Grecina (Annales, XII 32) e che mostra pietà verso i cristiani condannati ingiustamente nel 64, ma che li disprezza ricordandone i presunti flagitia (Annales, XV 44), Giovenale sembra nutrire stima per gli aristocratici cristiani che si erano opposti al tiranno, ma pare anche mostrare uno sdegnoso distacco verso la massa dei cristiani, appunto i cerdones.
Il Papa il potere e il veleno dei cardinali
di Vito Mancuso (la Repubblica, 4 febbraio 2010)
Sarà vero che il documento calunnioso sul direttore di Avvenire è stato consegnato al direttore del Giornale niente di meno che da Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, dietro esplicito mandato del Segretario di Stato vaticano cardinale Bertone, numero due della gerarchia cattolica a livello mondiale? E che l’insigne porporato si è servito di Vian e di Feltri per colpire il direttore di Avvenire in quanto espressione di una Conferenza Episcopale Italiana a suo avviso troppo indipendente e troppo politicamente equidistante? E che quindi il vero bersaglio del cardinal Bertone era il collega e confratello cardinal Bagnasco? Sarà vera la notizia di questo complotto intraecclesiale degno di papa Borgia e di sua figlia Lucrezia?
Come cattolico spero di no, ma come conoscitore di un po’ di storia e di cronaca della Chiesa temo di sì. Del resto fu l’allora cardinal Ratzinger, poco prima di essere eletto papa, a parlare di "sporcizia" all’interno della Chiesa (25 marzo 2005). Qualcuno in questi cinque anni l’ha visto fare pulizia? Direi di no, e forse non a caso proprio ieri egli ha parlato di «tentazione della carriera, del potere, da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di governo nella Chiesa». Quindi è lecito pensare che la sporcizia denunciata dal Papa abbia potuto produrre l’abbondante dose di spazzatura morale di cui ora forse veniamo a conoscenza.
Naturalmente come siano andate davvero le cose è dovere morale dei diretti interessati chiarirlo. Con una precisa consapevolezza: che gli storici un giorno indagheranno e ricostruiranno la verità, la quale alla fine emerge sempre, chiara e splendente, perché non c’è nulla di più forte della verità. Le bugie hanno le gambe corte, dice il proverbio, e questo per fortuna vale anche per il foro ecclesiastico. Siamo in un mondo che è preda di una devastante crisi morale. Le anime dei giovani sono aggredite dalla nebbia del nichilismo. Parole come bene, verità, giustizia, amore, fedeltà, appaiono a un numero crescente di persone solo ingenue illusioni.
La missione morale e spirituale della Chiesa è più urgente che mai. E invece che cosa succede? Succede che la gerarchia della Chiesa pensa solo a se stessa come una qualunque altra lobby di potere, e come una qualunque altra lobby è dilaniata da lotte fratricide all’interno. Certo, nulla di nuovo alla luce dei duemila anni di storia e di certo nessun cattolico sta svenendo disilluso. Rimane però il problema principale, e cioè che oggi, molto più di ieri, il criterio decisivo per fare carriera all’interno della Chiesa non è la spiritualità e la nobiltà d’animo ma il servilismo, e che la dote principale richiesta al futuro dirigente ecclesiastico non è lo spirito di profezia e l’ardore della carità, ma l’obbedienza all’autorità sempre e comunque.
Eccoci dunque al tipo umano che emerge dalle cronache di questi giorni: il cosiddetto "uomo di Chiesa". È la presenza sempre più massiccia di persone così ai vertici della Chiesa che mi rende propenso a credere che le accuse alla coppia Bertone-Vian siano fondate. Impossibile però non vedere che nella storia ecclesiastica misfatti di questo genere contro gli elementari principi della morale ne sono avvenuti in quantità. Anzi, che cosa sarà mai un foglietto calunnioso passato al direttore di un giornale laico per far fuori il direttore del giornale cattolico, rispetto alle torture e ai morti dell’Inquisizione? È noto che il potere temporale dei papi si è basato per secoli su un documento falso quale la Donazione di Costantino, attribuito all’imperatore romano e invece redatto qualche secolo dopo dalla cancelleria papale.
Che cosa concludere allora? Che è tutto un imbroglio? No, il messaggio dell’amore universale per il quale Gesù ha dato la vita non è un imbroglio. L’imbroglio e gli imbroglioni sono coloro che lo sfruttano per la loro sete di potere, per la quale hanno costruito una teologia secondo cui credere in Gesù significa obbedire sempre e comunque alla Chiesa. Secondo l’impostazione cattolico-romana venutasi a creare soprattutto a partire dal concilio di Trento la mediazione della struttura ecclesiastica è il criterio decisivo del credere. Lo esemplificano al meglio queste parole di Ignazio di Loyola rivolte a chi «vuole essere un buon figlio della Chiesa»: «Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica». Ne viene che il baricentro spirituale dell’uomo di Chiesa non è nella propria coscienza, ma fuori di sé, nella gerarchia. I "principi non negoziabili" non sono dentro di lui ma nel volere dei superiori, e se gli si ordina di scrivere la falsa donazione di Costantino egli lo fa, e se gli si ordina di torturare gli eretici egli lo fa, e se gli si ordina di appiccare il fuoco alle fascine per il rogo egli lo fa, e se gli si ordina di passare un documento falso egli lo fa. Ecco l’uomo di Chiesa voluto e utilizzato da una certa gerarchia.
È questa la sporcizia a cui si riferiva il cardinal Ratzinger nel venerdì santo del 2005? È questo il carrierismo denunciato ieri da Benedetto XVI? Il messaggio di Gesù però è troppo importante per farselo rovinare da qualche personaggio assetato di potere della nomenklatura vaticana. Una fede matura sa distaccarsi dall’obbedienza incondizionata alla gerarchia e se vede bianco dirà sempre che è bianco, anche se è stato stabilito che è nero. Né si presterà mai a intrighi di sorta "per il bene della Chiesa". La vera Chiesa infatti è molto più grande del Vaticano e dei suoi dirigenti, è l’Ecclesia ab Abel, cioè esistente a partire da Abele in quanto comunità dei giusti. In questa Chiesa quello che conta è la purezza del cuore, mentre non serve a nulla portare sulla testa curiosi copricapo tondeggianti, viola, rossi o bianchi che siano.
Un prete di 30 anni muore solo in Vaticano
Se ne accorgono dopo tre giorni per la puzza
Riprendiamo questo articolo dal quotidiano "il giornale". Nel leggere la notizia siamo rimasti sconcertati. Anche in Vaticano si può morire soli, senza che nessuno se ne accorga per giorni e giorni. E’ un segno dei tempi, è l’indice di una crisi globale di quel "cristianesimo imperiale" che da qualche anno è ritornato di moda in Vaticano dopo la parentesi del Vaticano II e delle speranze da esso suscitate. Il quadro che viene fuori è terribile: nessuna vita comunitaria, nessuna attenzione gli uni per gli altri, nessuna cura delle persone lasciate solo con se stesse e i propri problemi. Come in una qualsiasi struttura di potere. Il fatto che si sia lasciato filtrare la scoperta di una bottiglia di alcool accanto al cadavere di questo giovane prete la dice lunga sul tipo di istituzione che è il Vaticano. *
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=313112
Solitudine. Muore nel collegio dei preti. E nessuno se ne accorge
di Andrea Tornielli
È una di quelle storie che siamo abituati ad ascoltare in tv. È una di quelle morti avvenute in solitudine, magari ambientate negli anonimi quartieri dormitorio delle periferie metropolitane, dove spesso non si conosce nemmeno la faccia del vicino di casa. Tante, troppe volte abbiamo sentito di anziani che si sono spenti nelle loro abitazioni e che per giorni e giorni sono rimasti lì, senza che nessuno li cercasse, senza che nessuno ne denunciasse la scomparsa.
Ieri dai sacri palazzi vaticani, dove è stata accolta con prevedibile dolore, è filtrata la storia di don Albert (il nome è fittizio), prete africano di trent’anni, morto nella sua stanza presso un collegio della Congregazione di Propaganda Fide e ritrovato soltanto alcuni giorni dopo a causa del cattivo odore che si avvertiva nel corridoio.
Teatro di questa triste vicenda è il Collegio internazionale missionario San Paolo Apostolo, che si trova in via di Torre Rossa, a Roma. Collegio che accoglie circa 150 sacerdoti di Africa e Asia che studiano presso le università pontificie prima di far ritorno nella loro terra. Dal 1977 a oggi un paio di alunni del San Paolo sono diventati cardinali e più di un centinaio sono stati consacrati vescovi. Don Albert, originario dello Zimbabwe, stava seguendo i corsi dell’ultimo anno di dottorato. La scorsa settimana è scomparso. I responsabili del collegio, diretto da padre Jozef Kuc, missionario degli Oblati di Maria Immacolata, hanno provato a cercarlo telefonandogli in camera, ma il sacerdote ormai non poteva rispondere. Così hanno pensato che se ne fosse andato, magari per celebrare una messa o tenere una conferenza, dimenticandosi di avvisare la portineria della sua temporanea assenza. Nessuno si è preoccupato più di tanto.
Sono passati i giorni, secondo una prima ricostruzione almeno tre, ma forse anche qualcuno di più. Del prete nessuna traccia. Soltanto un inspiegabile e fastidioso cattivo odore, che si avvertiva sempre più insistente nei corridoio del collegio, senza che nessuno riuscisse a individuarne l’origine. Poi, finalmente, la macabra scoperta. Il sacerdote è stato trovato morto e già in stato di decomposizione sul suo letto. Ora c’è chi sussurra che accanto al corpo di don Albert sarebbe stata ritrovata una bottiglia vuota, lasciando intendere che talvolta esagerasse con l’alcol, anche se in realtà nel referto si parla di infarto.
In ogni caso, a colpire in questa vicenda, non sono tanto i risvolti medico-legali, quanto piuttosto quelli umani. Il collegio San Paolo, dipendente dalla Congregazione vaticana guidata dal cardinale Ivan Dias, non è un condominio anonimo né un dormitorio, ma un luogo di vita comunitaria, che prevede momenti di preghiera e di ritrovo, ad esempio per i pasti. Quale solitudine viveva il trentenne sacerdote dello Zimbabwe nella Roma tutta addobbata di festoni natalizi nonostante la crisi e il calo dei consumi? Non aveva compagni o amici ai quali riferire i suoi spostamenti, qualcuno che non vedendolo la mattina a colazione, la sera a messa o a cena, si preoccupasse, chiedesse notizie.
Ovviamente nessuno intende scaricare colpe sulle spalle degli ospiti del San Paolo né sui suoi superiori. Ma, anche se casi come questo possono accadere - talvolta per una serie di sfortunate circostanze, per una verifica non fatta, per le troppe occupazioni quotidiane - sarebbe un errore archiviare in fretta la morte di don Albert, senza lasciarsi interrogare da quell’abisso di solitudine vissuta da un prete africano nella Città Eterna.
All’udienza generale Benedetto XVI parla della teologia dei sacramenti secondo san Paolo
La Chiesa è un corpo non un’organizzazione
Alla teologia paolina dei sacramenti è stata dedicata la catechesi del Papa all’udienza generale di mercoledì 10 dicembre, nell’Aula Paolo VI. Seguendo san Paolo - ha esordito Benedetto XVI - abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due realtà. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall’abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla volontà divina. E così non trova la vera libertà ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l’uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde su tutto il suo tessuto e che questo difetto ereditato è in permanenza aumentato e visibile dappertutto. Questa era la prima cosa - ha sottolineato il Papa - mentre la seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo. Con Lui, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, formata non dalla superbia di una falsa emancipazione, ma dall’amore e dalla verità.
Ma adesso - ha continuato Benedetto XVI - si pone la questione: come possiamo entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza teologica, appartenendo noi tutti all’unico corpo dell’umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita, la nuova umanità, come si realizzano? Come Gesù arriva nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: tramite lo Spirito Santo. Se la prima storia arriva - ha continuato il Papa - con la teologia, la seconda arriva nello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l’inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo.
Però dobbiamo essere ancora più concreti: questo Spirito di Cristo, lo Spirito Santo, come può diventare Spirito mio? La risposta - ha sottolineato Benedetto XVI - è con tre modi intimamente connessi l’uno con l’altro. Il primo è questo: lo Spirito di Cristo bussa alle porte del mio cuore, mi tocca interiormente. Ma perché la nuova umanità sia un vero corpo, perché lo Spirito ci riunisca e realmente crei una comunità - ha detto il Papa - questo Spirito di Cristo si serve visibilmente di due elementi: della parola dell’annuncio e dei sacramenti, particolarmente il Battesimo e l’Eucaristia. Nella lettera ai Romani dice san Paolo: "Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (10, 9). Poi san Paolo continua: "Come potranno invocarlo senza aver prima creduto in Lui; e come potranno credere senza averne sentito parlare; e come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunci; e come lo annunceranno senza essere prima inviati?" (10, 14-15). In un altro testo dice brevemente: la fede viene dall’ascolto. Se la fede non è prodotto del nostro pensiero, della nostra riflessione, è qualcosa di nuovo che possiamo solo ricevere come un dono, come una novità da Dio. E la fede non viene dalla lettura ma dall’ascolto. Non è una confessione interiore ma una relazione. E infine l’annuncio non parla da sé ma è inviato. Sta in una struttura di missione che comincia con Gesù inviato dal Padre, va agli apostoli - la parola apostoli significa "inviati" - e continua nel ministero, nelle missioni tramandate dagli apostoli. Il nuovo tessuto della storia - ha continuato il Papa - appare in questa struttura delle missioni, nella quale sentiamo parlare Dio stesso: il Figlio parla con noi, arriva fino a noi. La parola si è fatta carne, Gesù, per creare realmente una nuova umanità. Perciò la parola dell’annuncio diventa sacramento nel Battesimo, rinascita dall’acqua e dallo spirito come dirà san Giovanni. Nel sesto capitolo della lettera ai Romani san Paolo parla in modo molto profondo del Battesimo: "Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova" (6, 3-4).
Il Pontefice ha poi fatto notare tre cose. La prima: il verbo battezzare è al passivo. Nessuno può battezzare se stesso, ha bisogno dell’altro. Nessuno può farsi cristiano da se stesso. Divenire cristiani è un passivo. Solo dall’altro possiamo essere fatti cristiani. E questo altro che ci fa cristiani, ci dà il dono della fede, è in prima istanza la comunità dei credenti, la Chiesa. Dalla Chiesa riceviamo la fede, il Battesimo. E senza lasciarci formare da questa comunità non diventiamo cristiani. Un cristianesimo autonomo - ha sottolineato Benedetto XVI - è una contraddizione in sé. In prima istanza questo altro è la comunità dei credenti, la Chiesa, ma in seconda istanza anche questa comunità non agisce da sé, secondo le proprie idee e desideri: solo Cristo può costituire la Chiesa.
Il secondo punto rilevato dal Papa è questo: il Battesimo è morte e risurrezione. Paolo stesso descrive nella lettera ai Galati la svolta della sua vita realizzatasi nell’incontro con Cristo risorto. Comincia in quel momento realmente una nuova vita. Divenire cristiani è più che una operazione cosmetica che aggiungerebbe qualche cosa di bello a una esistenza già più o meno completa. È un nuovo inizio e rinascita: morte e risurrezione.
Il terzo punto evidenziato da Benedetto XVI è: la materia fa parte del sacramento. Il cristianesimo non è puramente spirituale. Implica il corpo. Implica il cosmo. Si estende verso la nuova terra e i nuovi cieli.
Riferendosi poi al sacramento dell’Eucaristia il Papa ha detto di aver già mostrato in altre catechesi con quale profondo rispetto san Paolo trasmette verbalmente la tradizione sull’Eucaristia che ha ricevuto dagli stessi testimoni dell’ultima notte. Trasmette queste parole come un prezioso tesoro affidato alla sua fedeltà. E così sentiamo in queste parole realmente i testimoni dell’ultima notte: "Io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso. Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese del pane e dopo aver reso grazie lo spezzò e disse: questo è il mio Corpo che è per voi, fate questo in memoria di me. Allo stesso modo dopo aver cenato prese anche il calice dicendo: questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me" (1 Corinzi, 11, 23-25).
Su questo testo inesauribile il Papa ha fatto due osservazioni. Paolo trasmette le parole del Signore sul calice: questo calice è "la nuova alleanza nel mio sangue". In queste parole si nasconde un accenno a due testi fondamentali dell’Antico Testamento. Il primo accenno è alla promessa di una nuova alleanza nel libro del profeta Geremia (cfr. 31, 31-34). Gesù dice ai discepoli e dice a noi: adesso, in questa ora, con me e la mia morte si realizza la nuova alleanza, dal mio sangue nel mondo comincia questa nuova storia dell’umanità. Ma è presente anche un accenno, in queste parole, al momento dell’alleanza del Sinai, dove Mosè aveva detto: ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di queste parole. Qui si trattava - ha spiegato Benedetto XVI - di sangue di animali. Il sangue degli animali poteva essere solo attesa del vero sacrificio, del vero culto. Col dono del calice il Signore ci dona il vero sacrificio. L’unico vero sacrificio è l’amore del Figlio. Col dono di questo amore, amore eterno, il mondo entra nella nuova alleanza. Celebrare l’Eucaristia significa che Cristo ci dà se stesso, il suo amore, per conformarci a se stesso e per creare così il mondo nuovo.
Il secondo importante aspetto della dottrina sull’Eucaristia - ha proseguito Benedetto XVI - appare nella stessa prima lettera di san Paolo ai Corinzi dove dice: "Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo; tutti infatti partecipiamo dell’unico pane" (10, 16-17). In queste parole appare ugualmente il carattere personale e quello sociale del sacramento dell’Eucaristia. Cristo si unisce personalmente con ognuno di noi ma lo stesso Cristo si unisce anche con l’uomo e con la donna accanto a me. E il pane è per me e per l’altro. Così ci unisce tutti a sé e tutti noi uno con l’altro. Riceviamo nella comunione Cristo. Ma Cristo si unisce ugualmente con il mio prossimo. Cristo e il prossimo sono inseparabili nell’Eucaristia. Un pane, un corpo siamo noi tutti. Eucaristia senza solidarietà con gli altri - ha sottolineato il Papa - è Eucaristia abusata. E qui siamo anche alla radice e nello stesso tempo al centro della dottrina sulla Chiesa come corpo di Cristo, del Cristo risorto. Vediamo anche tutto il realismo di questa dottrina. Cristo ci dà nell’Eucaristia il suo corpo, dà se stesso nel suo corpo e così ci fa suo corpo, ci unisce al suo corpo risorto. Se l’uomo mangia pane normale, questo pane diventa parte del suo corpo, trasformato in sostanza di vita umana.
Ma nella Comunione - ha detto Benedetto XVI - si realizza il processo inverso. Cristo, il Signore, ci assimila a sé, ci introduce nel suo corpo glorioso e così noi tutti insieme diventiamo corpo suo. Chi legge solo il capitolo dodicesimo della prima lettera ai Corinzi e il capitolo dodicesimo di quella ai Romani potrebbe pensare che l’immagine del corpo di Cristo sia solo una specie di parabola sociologico-teologica. Realmente nella politologia romana questa parabola del corpo con diverse membra che formano una unità era usata per lo Stato stesso, per dire che lo Stato è un organismo nel quale ognuno ha la sua funzione: la molteplicità e diversità delle funzioni formano un corpo e ognuno ha il suo posto. Leggendo solo il capitolo dodicesimo della prima lettera ai Corinzi si potrebbe pensare che Paolo applichi questo soltanto alla Chiesa e qui sarebbe solo una sociologia della Chiesa.
Ma tenendo presente il testo paolino - ha spiegato il Pontefice - vediamo che il realismo della Chiesa è tutt’altro, molto più profondo e vero di quello di uno Stato-organismo. Perché realmente Cristo dà il suo corpo e ci fa suo corpo. Diventiamo realmente uniti col corpo risuscitato di Cristo, e così uniti l’uno con l’altro. La Chiesa non è solo una corporazione come lo Stato, è un corpo. Non è una organizzazione ma è un organismo.
Quindi il Papa ha fatto riferimento al sacramento del matrimonio. Nella prima lettera ai Corinzi - ha detto - si trovano solo alcuni accenni, mentre la lettera agli Efesini ha realmente sviluppato una profonda teologia del matrimonio. Paolo definisce qui il matrimonio "mistero grande" (6, 32). Lo dice in riferimento a Cristo e alla sua Chiesa. Va rilevata in questo passo una reciprocità che si configura in una dimensione verticale. La sottomissione vicendevole deve adottare il linguaggio dell’amore che ha il suo modello nell’amore di Cristo verso la Chiesa. Questo rapporto tra Cristo e la Chiesa rende primario l’aspetto teologale dell’amore matrimoniale, esalta la relazione affettiva tra gli sposi. Un autentico matrimonio sarà ben vissuto se nella costante crescita umana e affettiva resterà sempre legato all’efficacia della Parola e al significato del Battesimo. Cristo ha santificato la Chiesa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla Parola. La partecipazione al corpo e sangue del Signore non fa altro che cementare, oltre che rendere visibile una unione resa per grazia indissolubile.
Infine Benedetto XVI ha riproposto la parola di san Paolo ai Filippesi: "Il Signore è vicino" (4, 5). Tramite la Parola e tramite i sacramenti, in tutta la nostra vita il Signore è vicino. E preghiamolo - ha esortato in conclusione - affinché possiamo sempre più essere toccati nell’intimo del nostro essere da questa sua vicinanza e affinché nasca la gioia, che deve nascere dove realmente Gesù è vicino.
(©L’Osservatore Romano - 11 dicembre 2008)