Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
25 Giugno: salviamo la Costituzione e la Repubblica che è in noi
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Il 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)?
O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” [Amore - Charitas] e “Mammona” [Caro-Prezzo - Caritas] o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ...e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemblea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore [Charitas] dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
DA RICORDARE:
Alla Costituente, su 556 eletti, 21 erano donne:
9 NEL GRUPPO DC, SU 207 MEMBRI - LAURA BIANCHINI, ELISABETTA CONCI, FILOMENA DELLI CASTELLI, MARIA IERVOLINO, MARIA FEDERICI, ANGELA GOTELLI, ANGELA GUIDI CINGOLANI, MARIA NICOTRA, VITTORIA TITOMANLIO;
9 NEL GRUPPO PCI, SU 104 MEMBRI - ADELE BEI, NADIA GALLICO SPANO, NILDE IOTTI, TERESA MATTEI, ANGIOLA MINELLA, RITA MONTAGNANA TOGLIATTI, TERESA NOCE LONGO, ELETTRA POLLASTRINI, MARIA MADDALENA ROSSI;
2 NEL GRUPPO PSI, SU 115 MEMBRI - BIANCA BIANCHI, ANGELINA MERLIN;
1 NEL GRUPPO DELL’UOMO QUALUNQUE: OTTAVIA PENNA BUSCEMI.
Federico La Sala
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
PIERO CALAMANDREI (Wikipedia)
RELIGIONE E POLITICA: UN’ALLEANZA PLURISECOLARE
di Elio Rindone
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938).
Maestro unico
Possiamo ancora fermarli basta che il decreto legge decada in Parlamento
Il primo giorno di scuola dimostriamo con un segno nero di lutto la nostra indignazione per come questo paese tratta i suoi bambini
La protesta cresce giorno dopo giorno *
Unità, Corriere della Sera, Stampa ed altri giornali riportano la notizia che il movimento, anche da noi sostenuto, “Il primo giorno di scuola dimostriamo con un segno nero di lutto la nostra indignazione per come questo paese tratta i suoi bambini” sta prendendo piede nelle grandi città.
Sono attualmente 325 le scuole che da tutta l’Italia ci hanno inviato una e mail per aderire all’iniziativa, per raccontarci la loro volontà di contrastare il Ministro Gelmini e la loro voglia di difendere l’esperienza dei moduli e del tempo pieno della scuola elementare cancellata dal DL 137/2008.
Raccolte di firme, il “lutto per la tristezza” anche da noi proposto, le sempre più numerose mobilitazioni dei sindacati territoriali, le prese di posizione contro la sciagurata proposta del DL 137/2008 da parte dei sindacati scuola nazionali, dei partiti, dal PD, passando da Rifondazione ad IDV (persino Bossi non è contento!) stanno creando le condizioni per far sì che per il Governo, la trasformazione definitiva in legge del DL del maestro unico, non si riveli proprio una passeggiata.
Un coro di iniziative creative che si fanno forza l’una con l’altra permetteranno insieme di raggiungere il risultato.
da l’Unità del 10/09/2008: 40 istituti con il «lutto» al braccio
ROMA Le scuole di Roma si vestono a lutto contro la riforma Gelmini. Il ritorno al maestro unico, così come i tagli ai fondi per la scuola pubblica, hanno scatenato le proteste dei docenti di quasi quaranta istituti della capitale, la maggior parte elementari, riuniti in coordinamento per organizzare una forma di protesta efficace ed impedire che il decreto venga convertito in legge. Da qui l’idea, fortemente simbolica, di raccogliere l’invito dei sindacati di categoria e presentarsi il 15 settembre, primo giorno di scuola, con un nastro nero legato al braccio e l’esposizione di drappi neri in segno di lutto per «la fine del nostro sistema scolastico», spiegano gli aderenti al coordinamento. A reggere le file della protesta è la scuola elementare "Iqbal Masih", che deve il suo nome al bambino pakistano simbolo della rivolta contro il lavoro minorile.
da Il Corriere della sera del 10/09/2008: Gli anti-Gelmini - La protesta: in classe listati a lutto
ROMA - Quaranta scuole di Roma si vestono a lutto contro la riforma del ministro Mariastella Gelmini. I docenti degli istituti, la maggior parte elementari, hanno raccolto l’invito dei sindacati di categoria a presentarsi il 15 settembre, primo giorno di scuola nella capitale, con un nastro nero legato al braccio e di esporre drappi in segno di lutto per «la fine del nostro sistema scolastico». Il coordinamento genitori-insegnanti in difesa della pluralità docente si è riunito per la prima volta nella scuola elementare "Iqbal Masih". Tra le elementari romane, quelle colpite direttamente dalla decisione di reintrodurre il maestro unico, hanno dato la propria adesione 25 istituti, circa il 13 per cento del totale, tra cui la "Gandhi" e la "Marconi".
Ma la partecipazione non è mancata nemmeno tra le scuole medie, sia inferiori (la "D’Acquisto") che superiori (L’Itis "Hertz" e l’Ipssar "Artusi"), tra gli istituti comprensivi e, da fuori provincia, dagli istituti di Fiumicino e Latina.
da La Stampa del 10/09/2008: Maestre in rivolta a Roma e a Torino con il lutto al braccio
Le maestre raccontano di classi formate per il 60% di bambini di origine non italiana, di piccoli rom e di disabili anche gravi, in carrozzina, alimentati con il sondino. Di famiglie che i figli sono costretti a lasciarli soli una volta usciti da scuola, magari già dopo il tempo pieno, e che un’alternativa al tempo pieno non potranno pagarla. «Nonostante tutto questo, la scuola elementare italiana merita i complimenti dell’Ocse. Sarà un caso? Non sarà un buon modello così com’è?». La battuta è di Anna Cresto, una delle 300 maestre delle scuole di Barriera di Milano (di tutta la città il territorio più disagiato), che ieri hanno partecipato a un convegno di formazione del Cidi sul curricolo e la quotidianità del fare scuola: giovani e «anziane» accomunate da una passione che in questo grande territorio è cresciuta con l’evolvere dei problemi della gente provano rabbia e tristezza di fronte alla prospettiva dello smantellamento di quanto proprio ieri l’Ocse ha ancora premiato. Tanto che lunedì, da Torino a Roma, andranno in classe con il lutto al braccio.
«Se hai un pezzo di sistema che funziona non lo demolisci, semmai lo migliori», dice Nunzia Del Vento, direttrice della «Gabelli», una scuola dove per andare incontro alle famiglie italiane e immigrate si organizzano Natale e Pasqua Ragazzi. «Non cancelli le competenze che gli insegnanti si sono costruite nel corso di 30 anni. Il desiderio di chi crede nella scuola è che questa sia al passo con la società». Daniela Braidotti è una delle sue maestre, una delle tantissime ad esprimersi in maniera totalmente negativa sull’insieme della «riforma Gelmini». «Insegno da 33 anni - racconta - e mi sono sempre occupata dell’area linguistica. Non potrei davvero essere una “maestra unica” e insegnare matematica o scienze».
Anna Cresto della scuola «Cena» rincara: «Abbiamo speso anni per uscire dalla tuttologia all’acqua di rose fatta di violette e cornicette e oggi ci sentiamo specialiste utili». Aggiunge: «La reintroduzione del voto alla scuola elementare è gravissimo. In quella fascia di età si tiene conto della condizione di partenza, bisogna conoscere il bambino... Come si fa ad esprimere tutto questo, con la pluralità di bambini che oggi sono nelle nostre classi, con un voto secco? E la condotta? Il 5 affascina, ma solo se sarà dato ai figli altrui». Anna Maria Barbero, rsu alla «Cena»: «È l’inizio. Butteranno fuori i ragazzini dalla scuola e li ritroveremo a spaccare le panchine, come un tempo. E non meno bulli». Filomena Filippis, scuola "Sabin": «Il ministero pensa che l’orario scolastico si risolva in un parcheggio. Ma chi ha il 60% di bambini stranieri, molti dei quali arrivano non parlanti, non può che lavorare in squadra e in un arco di tempo certo più ampio di 24 ore settimanali».
La collega Rosanna Passanisi: «Reintrodurre il maestro unico, smantellare il tempo pieno, significa togliere gli strumenti utili per alleviare le differenze. Perché?». Domenico Chiesa e Mario Ambel, i pedagogisti che hanno coordinato la giornata, sottolineano che «il risultato positivo che ci assegna l’Ocse deriva dall’impianto culturale originale della nostra scuola elementare, l’unico basato sulla l’età dei bambini. Tutto ciò che viene dopo è banalizzazione del sapere adulto».
Del Ministro Gelmini e del tempo pieno nella scuola elementare
Il Ministro Gelmini, attraverso una massiccia campagna mediatica, “sostiene” che il tempo pieno nella scuola elementare non sarà toccato, perché così “Lascia intendere il decreto”.
Il testo all’art 4 recita: “è .. previsto che le istituzioni scolastiche costituiscano classi affidate ad un unico insegnante e funzionanti con un orario di ventiquattro ore settimanali. Nei regolamenti si tiene comunque conto delle esigenze correlate alle domande delle famiglie, di una più ampia articolazione del tempo scuola”.
Si torna, dunque, al maestro unico, poi, “per regolamento” si vedrà di venire incontro alle richieste delle famiglie!!!
Le leggi “non lasciano intendere” ma “dicono” in modo chiaro ed esplicito. Se il ministro voleva davvero sostenere il tempo pieno avrebbe dovuto scrivere all’art. 4 del DL 137/2008: “sono fatte salve le norme che regolano il tempo pieno per la scuola elementare”. Perché non lo ha fatto? Oggi la "carta" (DL 137) del Consiglio dei Ministri "canta" diversamente dalle dichiarazioni del Ministro.
Roma, 10 settembre 2008
* proteofaresaperenews n. 9 del 10/09/2008
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938).
FLS
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
***
ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
Lidia Menapace: «Dopo la vittoria del NO, abroghiamo il Concordato»
di Donatella Coccoli (Left, 4 novembre 2016)
«Dopo la vittoria del no, voglio raccogliere le firme per abrogare l’articolo 7 della Costituzione, quello del Concordato tra Stato e Chiesa». Con un tono della voce molto deciso, Lidia Menapace, 92 anni, staffetta partigiana, pacifista ed esponente del movimento femminista nonché senatrice nel 2006 per Rifondazione comunista, espone tranquillamente i suoi progetti per il dopo referendum. Rappresentante del No a Bolzano, dove vive, Lidia non esita a rilanciare la posta, per nulla intimorita dal dispiegamento di forze del fronte del Sì, anche se sollecita i vari comitati del No ad estendere la lotta, con una mobilitazione più a tappeto. Una donna forte Lidia Menapace e una incrollabile certezza nella capacità di coinvolgere le “cittadine e i cittadini - nominiamole le donne, dice, se no non esistono” -.
Lidia, quali sono i punti inaccettabili della revisione costituzionale?
In generale è inaccettabile tutta la procedura. Questo è un testo giuridico fondamentale e quindi se ci fosse anche qualcosa di giusto, poiché la procedura è sbagliata, io la respingo. La procedura, ricordo, è garanzia. In questo caso, è confusa. Sono abbastanza vecchia per ricordarmi il dibattito sulla Costituzione, fu partecipatissimo, molto limpido, chiaro. Non è la stessa cosa adesso e la dimostrazione è che nonostante tutti i giochi di equilibrio - in cui è bravo -, Renzi non è riuscito a ottenere i voti che servivano perché la sua proposta diventasse legge immediatamente. Ha dovuto promuovere il referendum che, ricordo, è obbligatorio, non è stata una scelta.
Hai accennato al clima in cui è nata la Costituzione. Com’era, in particolare?
Tutti si immaginano che la Costituzione sia stata costruita da un bel gruppo di giuristi seduti attorno a un tavolo con la massa fuori tranquilla e ignara. Invece no. L’Italia era appena uscita dai bombardamenti, le città erano distrutte e la confusione era tanta. Ma ci fu una specie di passione collettiva, anche se non in nome della patria perché queste cose dopo il fascismo uscivano dalle orecchie. La passione dominante era quella dell’essere liberi, di questo si discuteva ovunque: nelle osterie, nei treni, per strada, nelle scuole. Le persone chiacchieravano, suggerivano che bisognava fare questa o quell’altra cosa. E poi leggevano i giornali e cercavano qualche riscontro con quello che stavano sancendo le madri e i padri costituenti. Mi ricordo che una volta il partito socialista e quello comunista votarono in modo diverso sull’articolo 7 del Concordato.
Te lo ricordi bene...
Certo, lo ricordo benissimo. I socialisti, più laici, votarono contro l’introduzione del Concordato nella Costituzione, mentre Togliatti in particolare pensava che non avrebbe potuto mantenere in Italia un Pci forte se non avesse trovato un accordo con il Vaticano. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di mettere il Concordato nella Costituzione e così ci ritroviamo questo articolo 7.
Tu che ne pensi a proposito dell’articolo 7?
Se mi si chiedesse di voler cambiare qualcosa nella Costituzione, ecco io direi sì, perché la Costituzione non è un dogma. E uno degli articoli che vorrei cambiare è proprio l’articolo 7. Mi piacerebbe cominciare a raccogliere le firme per abrogare l’articolo 7 subito dopo aver vinto con il no. Dei Concordati non c’è più bisogno dopo il Concilio Vaticano II, sono un relitto del passato. Io sono favorevolissima al massimo della libertà religiosa, ma l’idea che per paura che i cattolici non siano perseguitati in Italia li si mettano sotto la protezione di un altro Stato, veramente fa ridere e piangere insieme.
Con l’abrogazione del Concordato verrebbero meno anche molti privilegi fiscali di cui gode la Chiesa...
Sarebbe praticamente un riequilibrio, perché la Chiesa dovrebbe pagare l’affitto di tutti i palazzi che occupa dove ci sono anche i ristoranti e da cui ricava profitti senza pagare nemmeno le tasse perché basta mettere una statuina e farne un luogo di culto. È una vera vergogna. E poi in ogni Paese i cattolici mantengono i loro preti, con le offerte magari detraibili dal fisco però tutto è regolato e limpido invece da noi la Chiesa si prende l’8xmille anche da quelli che pensano di non darglielo: il Concordato è davvero una pecca in una Costituzione peraltro assai bella. Tolto quel cappello dell’articolo 7 che impedisce all’Italia di essere un Paese laico, si potrebbe vedere tutto l’inghippo della Chiesa nella società italiana. Questa è una cosa da correggere assolutamente. E per questo io raccoglierei subito le firme.
Che cosa c’è poi che non va nella revisione costituzionale?
Con questa revisione promossa da Renzi, si vorrebbe uno stato centralistico, che si riprende tutte le competenze delle regioni e questo non lo tollero. Preferisco uno stato fondato sulle autonomie che uno stato centralistico. Si dice che i consiglieri regionali rubano, perché, i governi no? Se mai si deve riuscire a trovare la maniera di tenere sotto controllo l’attività politica pubblica, senza cambiare la Costituzione.
A proposito delle donne, la ministra Boschi ha polemizzato qualche tempo fa sul fatto che ci sono poche donne nel comitato del No. Tu che sei stata femminista che nei pensi?
Io non sono stata femminista, sono femminista!
Perfetto! Ma che cosa rispondi, è vero che le donne non si interessano dei problemi costituzionali?
No, se mai è il comitato che non si interessa delle donne. Non è che il Comitato del Sì brilli per presenza rilevanti di donne, ma siccome è assolutamente dominato da Renzi, sia uomini che donne restano negli angolini bui perché lui occupa tutti gli spazi. Ma il Comitato del No deve essere più attivo nel coinvolgere le donne. Le donne sono più numerose degli uomini e se non sono rappresentate dai comitati resta fuori la maggioranza dell’elettorato.
Bisogna sensibilizzare di più le donne?
No, le donne sono sensibili, bisognerebbe sensibilizzare di più il comitato. Al di là dell’impostazione accademica, la cosa da fare sarebbe una mobilitazione a tappeto con volantini semplici ed efficaci, non con documenti di 20 pagine in stretto linguaggio giuridico. Bisogna fare riunioni di caseggiato e soprattutto ascoltare le donne. Se non si fa così, si perde. Tutti questi illustrissimi personaggi e uomini politici che si sono autonominati comitato nazionale si decidessero a fare un po’ di lavoro pratico.
Come vedi la partecipazione delle forze di sinistra e del M5s? Sono attivi?
Sì, anzì, noto che in un periodo di grande distrazione politica e assenza di interesse, questo referendum riesce a scuotere anche le aree più grigie. Quindi bisognerà, dopo la vittoria del No, non far ricominciare la morta gora. Io intanto ho già cominciato a buttare l’idea di raccogliere le firme per abrogare il concordato...
Unioni Civili: Renzi, per Pd riforma irrinviabile. Oggi famiglie arcobaleno in piazza
Riunione del partito dopo le tensioni sul tema, i verdiniani ma anche l’Ue
di Redazione ANSA 23 gennaio 2016
Mobilitazione in 100 piazze, oggi, a favore dei diritti del mondo lgbt, #SVEGLIATITALIA, lanciata da Arcigay, ArciLesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno e Mit in occasione dell’inizio della discussione al Senato del ddl sulle unioni civili: "scenderemo in piazza accanto a un pezzo importantissimo della società civile: associazioni, istituzioni, partiti, sindacati, liberi cittadini e cittadine hanno aderito in massa all’appello e annunciato la propria presenza ai presidi. Tutti assieme realizzeranno un flashmob, portando con sé sveglie e orologi con suoneria per sincronizzarli e suonare la sveglia al nostro Paese".
"Siamo rimasti l’unico paese dei 28 senza una disciplina sulle unioni civili, è fondamentale che si chiuda cercando il più possibile di ascoltarsi e rispettarsi ma poi si sappia che ad un certo punto si vota e sui temi etici ci sarà libertà di coscienza come doveroso che sia. Il compromesso non è lo strumento per non arrivare a chiudere. Sono giuste tutte le posizioni ma si sappia che per il Pd la riforma è irrinviabile". Matteo Renzi, alla direzione del Pd, ribadisce la determinazione a chiudere sulle unioni civili.
Resta la sfida dei Cattodem sulle Unioni Civili che si traduce anche negli emendamenti al ddl depositati in Senato. Seimilacento, di cui cinquemila della sola lega, una sessantina del Pd e nove dell’ala cattolica Dem. Tra questi restano i due, annunciati nei giorni scorsi, sulla trasformazione della stepchild adoption in "affido rafforzato" e sul "divieto della pratica di surrogazione di maternità" realizzata da un cittadino italiano all’estero introdotto, nella proposta di modifica, all’art.4 del ddl. Rispetto a quanto annunciato non si prevede, né per chi realizza la maternità surrogata né per chi la organizza, alcun inasprimento delle pene.
La riduzione al minimo di qualsiasi rimando alle sezioni del codice civile che disciplinano il matrimonio. E’ quanto si prevede in tre emendamenti Pd, a prima firma Lumia, agli articoli 2 e 3 del ddl unioni civili nei quali i diritti e i doveri connessi all’unione civile vengono esplicitati per esteso. Gli emendamenti intervengono, in particolare, sulle cause impeditive dell’unioni civile ex comma 4 dell’articolo 2 del testo, sulle cause di annullamento ex comma 3 articolo 3 e sul regime patrimoniale.
Renzi nella direzione ha parlato anche delle amministrative: "Dopo quello che è successo a Roma è difficile, ma credo che si possa vincere facendo una sfida vera sui problemi concreti della città. Chiunque vincerà le primarie, otterrà un sostegno forte del nostro partito".
"Non ci fa velo sostenere candidati sostenuti per cinque anni perché a differenza di altri non vogliamo politicizzare il voto: lo stanno facendo altri amici e compagni della sinistra fuori da qui, che a Torino hanno avviato una campagna nazionale. Ma noi sosteniamo Massimo Zedda a Cagliari come abbiamo fatto per i cinque anni del primo mandato".
A tenere banco è però anche lo scontro con l’Ue. "Va recuperato - ha detto Renzi prendendo la parola - l’ideale europeo che nel dibattito in corso è totalmente dimenticato. Se qualche leader si offende per mezza parola detta o non detta, stiamo perdendo di vista il vero obiettivo, che è quell’ideale".
"Chi abbraccia derive populiste e demagogiche lo fa per la mancanza di prospettive di sviluppo e di crescita. Serve un’ Ue più sociale e meno legata all’ austerity, in cui la parola crescita diventa vocabolario comune. Se facciamo battaglia nei prossimi tre anni la legislatura europea ha un significato profondo o avrà perso la carica di innovazione su cui abbiamo scommesso votando Juncker".
"Tutti i Paesi - ha aggiunto Renzi - che hanno condiviso la linea politica in modo completamente aderente alle richieste di Bruxelles hanno visto sconfitto il governo uscente".
Il peso della piazza
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 08.02.2016)
LO SCONTRO sulla questione di come introdurre nella legislazione italiana il riconoscimento delle unioni tra omosessuali e il loro diritto ad adottare figli riguarda sempre più chiaramente non solo lo stato dei diritti civili nel nostro Paese ma prima ancora la verifica dei rapporti di forza tra Stato e Chiesa. C’è un dato importante da tenere presente: il peso politico esercitato dalla Chiesa come gerarchia ecclesiastica. Fu riflettendo su questo aspetto che Antonio Gramsci creò il concetto di egemonia.
Di fatto ogni volta che il Parlamento della Repubblica italiana si è trovato davanti a una scelta che sfiorava questioni di interesse della Chiesa abbiamo assistito a mobilitazioni politiche forti e diffuse. Questa volta la scelta cade in pieno Giubileo cattolico della misericordia e perfino un Papa che ci ha abituato a prese di posizione inattese e sconcertanti si è attestato sulla più tradizionale dottrina della Chiesa in materia di matrimonio. Di fatto, se ci può essere misericordia per gli omosessuali e si può consentire il riconoscimento civile dei loro legami affettivi, deve essere esclusa l’adozione di figli del partner.
E qui riconosciamo il volto attuale di un tabù antico: è il controllo del corpo delle donne che occupa da sempre un posto di primo piano nella gerarchia maschile della Chiesa. Da qui l’imperversare di progetti per prevenire e bloccare il pericolo di donne che quel loro potere di far figli lo mettano liberamente e generosamente a disposizione di coppie omosessuali.
C’è una presunzione di maggioranza esibita da coloro che si attestano sul rifiuto davanti all’ipotesi dell’adozione del figlio del partner. Angelino Alfano lo ha detto: «La maggioranza degli italiani è contro le adozioni gay». Una stessa presunzione si affaccia da tante voci, come quella di Gaetano Quagliarello: «Noi siamo minoranza in Parlamento, ma siamo convinti di essere maggioranza nel Paese ».
Da dove viene tanta sicurezza? È un fatto che questa convinzione si è fatta strada in seguito alla manifestazione del “Family Day”. Quello che ne ha gonfiato le bandiere è il vento che spira dal mondo ecclesiastico, le voci di un corpo che ha trovato finalmente nella questione del matrimonio legale tra omosessuali l’occasione buona per ricompattarsi, nella speranza di far dimenticare all’opinione pubblica scandali e durissimi scontri interni.
Da qui la grandinata continua di ammonimenti, di opinioni autorevoli sugli effetti negativi del crescere con due genitori dello stesso sesso; e quanta commozione si è spesa sulla disgrazia dei poveri bambini e sui danni immensi quanto sconosciuti del crescere deprivati di una coppia “naturale”. Tutta la furia spesa nella battaglia contro la “teoria del gender” trova oggi la sua spiegazione. Curiosamente nessuno parla più di quello che è accaduto nell’esperimento più antico e più noto di bambini affidati alle cure di sostituti genitoriali monosesso - preti, frati, monache.
Eppure in un’Irlanda più cattolica dell’Italia la storia delle violenze sessuali di gente di Chiesa su minori ha portato al risultato referendario del tutto inatteso di una larga maggioranza favorevole al matrimonio gay.
E gli italiani? Qui il mondo tradizionalmente laico, delle minoranze culturali e dei partiti di sinistra, sembra muoversi in ordine sparso, balbettando davanti alle certezze dei combattenti per la famiglia “naturale”, come Dio comanda. Affiorano argomenti dove al posto della ragione ragionante e della concreta valutazione dei fatti si incontra spesso un insolito afflato religioso, come di chi sente di toccare finalmente il fondo ultimo delle cose, di potersi riposare sul cuore della natura e della tradizione. E tanta commozione per i bambini: non quelli che muoiono nelle traversate del mare, non quelli che aspettano in Africa o negli istituti per orfani qualcuno che si prenda cura di loro. No, quelli futuri, ipotetici, condannati a crescere senza l’immagine “naturale” della famiglia - un’entità mutevole quanto le storie, i popoli e le culture del mondo.
Ora, sul voto del Paese è lecito scommettere per spaventare l’altra parte. Ma non è chiaro fino a che punto vogliano spingersi le minoranze parlamentari e la Chiesa che le sostiene. Se il gioco dovesse passare davvero nelle mani degli elettori, allora bisognerà ricordare che non è la prima volta che il Paese si trova davanti a scelte importanti sui diritti civili.
Anche quando si trattò dell’introduzione del divorzio e della legalizzazione dell’aborto la sensazione di stare sfidando il fondo più arcaico e immutabile dell’economia morale degli italiani rese timidi e riluttanti i partiti della sinistra. Ma la iattanza delle destre e dell’allora partito dei cattolici - oggi da rimpiangere nella sua funzione di argine all’ingerenza della Chiesa - durò solo fino al giorno del voto referendario. Poi lo spoglio dei dati elettorali sgombrò di colpo tutte le nebbie dal cielo della politica.
Il trucco del voto libero
NON è un altissimo valore ma un bassissimo trucco la libertà di coscienza, improvvisamente invocata da Beppe Grillo “contro” la sacrosanta legge sulle unioni civili.
di Francesco Merlo (la Repubblica, 08.02.2016)
È FURBISSIMA dissimulazione e non purissima moralità. Si sa infatti che la coscienza, soprattutto con il voto segreto, nella politica italiana è il nascondiglio dei traffici più illeciti, il modo per lasciarsi le mani libere o meglio la libertà del gioco di mano, con destrezza e secondo convenienza. Persino noi ci schierammo con Beppe Grillo nel settembre del 2013 quando, a proposito della decadenza di Berlusconi, il comico del malumore tuonò contro il voto segreto che, pur previsto dal regolamento, a quel tempo giustamente gli pareva «un abominio». Il «nascondiglio della coscienza - diceva allora - non protegge la moralità ma l’immoralità» e alimenta quel clima grottesco di sospetti in cui si impastano le ribalderie.
Aveva ragione. E infatti l’altisonante libertà di coscienza porta oggi il rivoluzionario Movimento 5 stelle nella piazza reazionaria del Family day. Alfano applaude Casaleggio che «ha riaperto la partita» e “Grillo contro Grillo” non è più il titolo dello spettacolo di teatro, ma è anche l’adesione alla scienza politica come gioco delle tre tavolette. È soprattutto il completamento dello sporcarsi in società dopo il comparaggio con i briganti di Quarto e i loro codici mafiosi.
Il trucco della libertà di coscienza disarma dunque il vaffanculo. E viene fuori il grillino teocon, Sergio Puglia, che come Giovanardi si batte contro «l’ignoto delle adozioni» in nome della «normalità ». La deputata Tiziana Ciprini come Eugenia Roccella rivela all’Avvenire che la legge «mette i brividi, come l’utero in affitto». Di Maio annuncia: «Abbiamo delle remore». Di Battista non vuole più il sabotaggio del sistema ma la grazia di Dio e, come ha raccontato Jacopo Iacoboni sulla Stampa, con il pio Nicola Morra viene ricevuto in Vaticano dal sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, arcivescovo Giovanni Angelo Becciu. Intanto Roberta Lombardi, nell’ombra della cappella della Camera, sceglie come padre spirituale l’elegante ed erudito monsignor Fisichella.
E fregare Renzi alleandosi con Quagliariello in nomine Dei diventa più importante delle profezie delfiche e del governo planetario della Rete. Se una volta sul blog tra tamburi, triangoli isosceli e materia cerebrale, si annunziava «la fine delle religioni, delle ideologie, dei partiti» oggi Mattia Fantinati, nunzio apostolico del Movimento 5 stelle, dialoga con quelli di Cl per conto di Di Maio così come Acquaviva pregava Dio in nome di Craxi.
Ovviamente Grillo non ha mai concesso né mai concederà libertà di coscienza ai suoi parlamentari. Con la solita logica militare i soldati dell’indignazione etica contro la casta, contro i giornalisti che disinformano, contro i ladri di Stato e contro i colpevoli di ogni genere, insomma i giustizieri che dovevano «annegare i partiti nello sputo popolare» stanno diventando truppa dorotea.
Per esempio due settimane fa, proprio mentre denunziavano (giustamente) il traffico tra il faccendiere Verdini e il Pd di Renzi, i grillini, pur di impallinare il candidato renziano, eleggevano gioiosamente presidente della commissione Lavori pubblici del Senato l’ex ministro di Forza Italia, ex finiano, ex fascista Altero Matteoli, quel dolente signore che è giudiziariamente più inguaiato di Verdini e tuttavia sostiene: «Noi politici siamo migliori della società civile».
E però maneggiare la libertà di coscienza è molto più complesso che maneggiare il vaffanculo. Grillo non si illuda e vada a studiare la storia della Dc: la libertà di coscienza, una volta invocata, «nasconde più verità di quanta lana copre una pecora» ha scritto Ceronetti. È infatti impossibile che il presidente Pietro Grasso non conceda il voto segreto per gli articoli della legge Cirinnà eticamente più sensibili, non solo quello sulle adozioni.
Ma il voto segreto - vedremo chi lo chiederà - non libera le coscienze ma i franchi tiratori, i fucilatori protetti dall’ombra, quei cecchini che impallinarono Prodi, gli amici del nemico e i nemici dell’amico che per oltre sessanta anni furono l’incubo di tutti i governi italiani, a nessuno dei quali consentivano di governare.
La politica della ripicca di coscienza produce anche paradossi straordinari. Grillo potrebbe per esempio scoprire che, nella guerriglia di palazzo, nel tradimento programmato, nell’agguato all’alleato e nell’impallinamento di se stessi, persino un ultrà cattolico potrebbe segretamente preferire Renzi e il rafforzamento della legislatura ai propri “principi non negoziabili”. Capita, trafficando con i valori.
La giravolta di Beppe Grillo nei tortuosi corridoi politici degli atti indecenti e nell’Italia delle sacrestie e dei campanili, non è dunque lo scatto virtuoso e probo del pensiero liberale, da Croce a Raymond Aron. Grillo, che pure aveva annunziato il suo definitivo ritiro dal Movimento, la sua psicoanalisi liberatoria sul palcoscenico, e anche la sua totale adesione alla civiltà europea della faticosa ma necessaria legge Cirinnà sulle unioni civili, sta in realtà procedendo nella sbrindellata omologazione del movimento più scarruffato della nostra storia all’eternità della politica italiana dove “a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”. Grillo traffica infatti con il valore della libertà di coscienza non solo per mettere in imbarazzo Renzi, ma per far saltare la legge più moderna, non di destra né di sinistra, ma la più radicale che il Parlamento italiano possa approvare in materia di diritti civili, la sola che ci possa agganciare all’Europa.
E infatti già si parla di “stralcio”, “emendamento”, di un altro “super canguro”, che è il lessico del rinvio, la più crudele pena inflitta all’Italia, condannata all’eternità dell’indolenza, al mai prendere di petto le grandi questioni nazionali. Chi l’avrebbe detto che proprio Grillo sarebbe approdato alla morbidezza del peggio, al capriccio perverso dell’andreottismo, al rinvio come via italiana al vaffanculo?
Superare il Concordato: una battaglia di laicità contro l’ingerenza del Vaticano La Chiesa viola sempre più palesemente il Concordato del 1984. E i benefici economici che le sono concessi dallo Stato sono eccessivi e ingiustificati. È dovere dunque delle forze laiche porre di nuovo all’ordine del giorno il tema dei rapporti fra Stato e Chiesa, per riaffermare la laicità come principio supremo dello Stato.
di Carlo Troilo *
Mussolini e il Concordato
L’11 febbraio del 1029, con i Patti Lateranensi - di cui il documento principale è il Concordato - Mussolini pensò di chiudere “la questione romana” e di conquistare definitivamente la fiducia e l’appoggio della Chiesa. Le concessioni essenziali alla Chiesa furono tre: 1) il riconoscimento della religione cattolica come unica religione di Stato; 2) l’obbligatorietà del suo insegnamento nelle scuole; 3) il pagamento della “congrua” ai preti da parte dello Stato.
La Costituzione del 1948 e la Chiesa
La Costituzione del 1948 affermò principi del tutto diversi, partendo dal concetto che “lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” (articolo 7), ponendo “sullo stesso piano tutte le fedi religiose” (articolo 8) e prevedendo quanto segue sulla scuola: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato” (articolo 33).
Le norme del Concordato che contenevano le principali concessioni alla Chiesa sarebbero dunque divenute difficilmente compatibili con la Costituzione se l’articolo 7, per volontà della Democrazia Cristiana e di altre forze moderate e con il determinante appoggio del PCI, non avesse incorporato il Concordato nella stessa Costituzione.
Una operazione che risolveva sul momento la contraddizione, senza però eliminarla. Craxi e la revisione del Concordato.
Tanto che quando al potere arrivò il socialista Craxi (per inciso, grande ammiratore di Garibaldi), egli si pose il problema di una revisione del Concordato, che avvenne nel marzo del 1985.
La revisione pensata da Bettino Craxi - e dal suo consigliere Gennaro Acquaviva, un politico colto e credente - fu tutt’altro che una operazione di cosmesi istituzionale. Caddero infatti, nel nuovo testo, i tre punti essenziali del Concordato di Mussolini: quella cattolica smise di essere la “religione di Stato”; il suo insegnamento nelle scuole divenne facoltativo; fu abolita la congrua.
Le scelte politiche degli anni e dei governi successivi - compreso quello dello stesso Craxi - si mossero però in direzione opposta a quella che ci si poteva attendere dopo la revisione del Concordato, riportando in essere, sia pure senza dirlo e sotto mentite spoglie, i privilegi accordati nel 1929 e revocati nel 1984.
La Religione di Stato
La religione cattolica rimase infatti “religione di Stato” nel sentire e nei comportamenti non tanto del “popolo” quanto della nostra classe politica. Basti pensare alla annuale visita dei nostri vertici istituzionali al “legato pontificio” in Roma, l’11 febbraio di ogni anno: i presidenti della Repubblica, della Camera e del Senato, il presidente del Consiglio, i presidenti della Regione Lazio e della Provincia di Roma, il sindaco della Capitale, tutti in processione a rendere inspiegabilmente omaggio ai potenti della Chiesa (il sindaco Veltroni, nel 2008, arrivò perfino a prendersi una pubblica lavata di capo da Papa Ratzinger per le cattive condizioni della Capitale e a sentirsi chiedere dal Pontefice, sempre in pubblico e senza pudore, più soldi per gli ospedali e le scuole cattoliche). Del resto, un trattamento da religione di Stato è assicurato alla Chiesa Cattolica, anche dal servizio pubblico radiotelevisivo, che spesso appare come una brutta copia della Radio Vaticana.
L’insegnamento della religione
L’insegnamento della religione cattolica (in sigla, IRC), nei fatti, è tuttora obbligatorio, a causa del comportamento della Pubblica Istruzione. Infatti, per gli allievi che chiedono l’esonero non sono previste quasi mai, nell’ora di religione (due ore nelle elementari) attività alternative, per cui spesso essi trascorrono l’ora nel corridoio, affidati al bidello, come fossero stati puniti con l’espulsione dalla classe. Non si può pretendere da questi allievi, considerando la loro età, che tengano il punto ed accettino di sopportare per coerenza questa situazione di isolamento; né che siano i loro genitori ad imporre loro questo “castigo”. Il dato di fatto è che l’ora di religione è frequentata da circa il 90% degli studenti, in un paese in cui i cattolici praticanti, come vedremo più avanti, non raggiungono la metà della popolazione. Del resto, il favore con cui lo Stato guarda all’ora di religione è dimostrato da una serie di norme, emanate in particolare fra il 2004 e il 2007 dai ministri della P. I. del centro destra, in base alle quali la scelta degli insegnanti - che entrano direttamente in ruolo scavalcando le decine di migliaia di precari - spetta alle gerarchie ecclesiastiche. Non solo, ma per i circa 26.000 insegnanti di religione è assicurata, laddove non vi siano classi sufficienti, l’assegnazione di un’altra materia di insegnamento. Questa serie di privilegi appare ancor più ingiustificata se si tengono presenti i segnali che vengono, su questo tema, dalla società civile. E’ significativo, ad esempio, il fatto che in alcune delle maggiori città italiane, come Milano, il dato della partecipazione all’IRC crolli, nelle scuole superiori, sotto il 50%. Sempre a Milano, circa 200 classi sono addirittura prive di IRC perché nessuno studente se ne è avvalso.
Dalla congrua all’otto per mille. Il costo della Chiesa per lo Stato italiano: oltre 4 miliardi di euro
Infine, l’abolizione della congrua è stata più che compensata dal meccanismo dell’otto per mille - già previsto dalla revisione del 1984 e normato da una legge dello stesso governo Craxi del maggio 1985 - e da una serie di altri benefici economici e fiscali. Ne ha fatto una documentata sintesi Curzio Maltese, in uno studio pubblicato nel settembre 2007 da “Repubblica”.
“La Chiesa cattolica - scrive Maltese - costa ai contribuenti italiani oltre quattro miliardi di euro all’anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale. La prima voce comprende il miliardo di euro dell’otto per mille, i 650 milioni per gli stipendi dei 22 mila insegnanti dell’ora di religione, altri 700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità. Poi c’è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi Eventi, dal Giubileo del Duemila(3.500 miliardi di lire) al più recente raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per una media annua, nell’ultimo decennio, di 250 milioni. A questi due miliardi 600 milioni di contributi diretti alla Chiesa occorre aggiungere il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano, oggi al centro di un’inchiesta dell’Unione Europea per "aiuti di Stato". L’elenco è immenso, nazionale e locale. Sempre con prudenza si può valutare in una forbice fra 400 e 700 milioni il mancato incasso per l’ICI (stime dell’associazione dei Comuni), in 500 milioni le esenzioni da Irap, Ires e altre imposte, in altri 600 milioni l’elusione fiscale legalizzata del mondo del turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l’Italia un flusso di quaranta milioni di visitatori e pellegrini. “Il totale - conclude Maltese - supera i quattro miliardi all’anno, dunque una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto o un Mose all’anno, più qualche decina di milioni”. (Nota 1)
Per avere un’idea di cosa rappresentino quattro miliardi, basta ricordare che nell’anno esaminato da Maltese, il 2007, il bilancio totale dei Beni Culturali italiani (il patrimonio più vasto e ricco del mondo) era di 1 miliardo e 400 milioni di euro e che per evitare la continua riduzione di questo stanziamento (un terzo di quello medio dei paesi europei comparabili) devono scendere in campo con plateali proteste i più bei nomi della nostra cultura. Con quel che ci costa la Chiesa, si potrebbero quasi triplicare gli stanziamenti per i Beni Culturali, finalizzando queste risorse aggiuntive alla creazione di posti di lavoro di alto livello (storici dell’arte, archeologi, antropologi, restauratori e via dicendo).
La secolarizzazione della società italiana, sempre più multiculturale e multireligiosa
Questo comportamento generosissimo e ossequioso dello Stato italiano è in controtendenza rispetto a due importanti fenomeni:
Il fatto che dall’epoca del Concordato ad oggi si è verificato un rapido e intenso processo di secolarizzazione della società. Tutti i dati concordano nel dire che oggi i cattolici “veri” (quelli credenti, praticanti e osservanti) sono meno della metà degli italiani (nota 2).
Il fatto che l’Italia, a causa del fenomeno della immigrazione (4 milioni solo i “regolari”) sta diventando un paese multiculturale, con una non marginale presenza di altre religioni.
Eppure, la Chiesa non dimostra certo gratitudine rispetto a questo Stato benevolo.
Il Tevere più stretto per l’ingerenza del Vaticano: superare il Concordato
L’ingerenza del Vaticano e in genere delle gerarchie ecclesiastiche negli affari interni dell’Italia si fa sempre più pesante. Fa sorridere leggere questo passaggio del Concordato del 1929: “Per tutto quanto si riferisce al ministero pastorale, tanto la Santa Sede quanto i Vescovi possono pubblicare liberamente ed anche affiggere nell’interno ed alle porte esterne degli edifici destinati al culto o ad uffici del loro ministero le istruzioni, ordinanze, lettere pastorali ed altri atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli, che crederanno di emanare nell’ambito della loro competenza”.
Si può ben dire che la Chiesa, rispetto a questi “permessi” dello Stato del 1929 - fascista ma ancora intriso della laicità ottocentesca - si è ampiamente “allargata”. Basti citare, un po’ in disordine, alcuni esempi degli ultimi anni :
le manovre di Ruini - una vera e propria campagna mediatica - per far mancare il quorum per il referendum sulla fecondazione assistita;
le pesanti pressioni perché fosse approvata la legge del centro destra, inumana e palesemente incostituzionale, sul testamento biologico;
l’aggressione di numerosi alti prelati ai familiari di Welby ed Eluana Englaro ed a tutti quanti si battono per la libertà nelle scelte di fine vita (definiti senza mezzi termini assassini);
le continue “campagne” contro le leggi dello Stato relative al divorzio e all’aborto;
il veto tassativo a norme in favore delle coppie di fatto;
i frequenti atteggiamenti omofobici, condannati dalla Comunità Europea (nota 3)
la incredibile affermazione di papa Ratzinger secondo cui molto spesso sono i ginecologi che inducono le donne ad abortire;
le palesi pressioni di Bagnasco - “L’Espresso”, ripreso da tutti i giornali e mai smentito - per ottenere un DG della RAI, indicato con nome e cognome, gradito al Vaticano: un atteggiamento senza pudore e senza precedenti nella storia della RAI, pur ricca di vicende di pressioni e lottizzazioni
Il siluro di Papa Bergoglio, di ritorno da Filadelfia (il famoso “Io non l’ho invitato. Chiaro?”), al Sindaco Marino, colpevole di aver favorito a Roma i testamenti biologici e le unioni civili, anche omosessuali
L’invito del Cardinale Vallini, Vicario di Roma, a cercare per la Capitale una nuova classe dirigente, “ ripartendo dalle molte risorse religiose e civili (ndr: in questo ordine) presenti a Roma».
Eppure la separazione degli ambiti è iscritta nell’art. 1 del Concordato del 1984: “La Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti e alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”. Questo - ha scritto ripetutamente Sergio Romano - “significa che nessuno dei due ha il diritto d’interferire nei meccanismi istituzionali dell’altro. Può affermare e argomentare pubblicamente i propri principi e valori, ma non può entrare nella stanza dei bottoni e scegliere il manovratore che più gli conviene” (4)
Siamo dunque di fronte a due realtà inconfutabili. La prima è che la Chiesa, con i suoi comportamenti, viola palesemente e ripetutamente l’articolo 1 del Concordato del 1984. La seconda è che i benefici economici che le sono concessi dallo Stato sono eccessivi, ingiustificati e spesso contrari ai principi generali della fiscalità, come nel caso della esenzione dall’ICI, o addirittura alla Costituzione: è il caso dei finanziamenti alla scuola privata, concessi malgrado le disposizioni tassative del già citato articolo 33 (la famosa dicitura “senza oneri per lo Stato”).
[...] continua nel post successivo
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I tempi e i modi per il superamento del Concordato
L’occasione in cui affrontare questi problemi e proporre delle soluzioni ragionevoli ma coraggiose poteva essere il XX settembre del 2015 del 2011, ricorrenza del 150° anniversario dell’unità d’Italia.
Persa quella occasione, è però necessario, per le ragioni sopra esposte e per l’aggravarsi delle violazioni da parte della Chiesa, chiedere oggi il superamento del Concordato.
Naturalmente, qualunque proposta deve tener conto della realtà italiana, e in particolare del fatto che nella quasi totalità dei partiti esiste una componente di cattolici integralisti molto agguerrita e capace di condizionare ogni scelta politica.
Ma è comunque possibile - e doveroso - chiedersi come si può porre rimedio, almeno in parte, a queste situazioni che fanno dell’Italia una realtà lontana e diversa da quella degli altri grandi paesi cattolici d’Europa: il solo che non ha norme moderne sulle scelte di fine vita; che non riconosce alcun diritto alle unioni di fatto (discriminando e danneggiando così soprattutto le coppie gay); in cui, in attesa che la Magistratura finisca di demolirla, una legge incostituzionale sulla procreazione assistita continua a creare difficoltà alle coppie desiderose di avere un figlio; dove anche la nostra valida e sperimentata legge sull’aborto viene sabotata da una stragrande maggioranza di ginecologi “obiettori di coscienza”, per convinzione o per opportunismo; dove si vuole imporre il “sondino di stato” ma non si trovano mai i fondi per assicurare a decine di migliaia di malati terminali le necessarie cure palliative.
Le soluzioni possibili e il dovere delle forze laiche
Le strade da seguire sono diverse e le soluzioni possono andare da un massimo (l’abolizione del Concordato) ad un minimo (la riduzione di parte dei privilegi economici concessi alla Chiesa). Naturalmente, io qui mi fermo. Alle forze politiche il compito di definire gli obiettivi, ai giuristi quello di trovare le soluzioni.
Penso comunque, per le ragioni che ho cercato d illustrare, che sia dovere delle forze laiche - soprattutto dei Socialisti e dei Radicali Italiani, protagonisti della “primavera dei diritti civili” degli anni Settanta - porre di nuovo all’ordine del giorno il tema dei rapporti fra Stato e Chiesa, per ottenere comunque e da subito due obiettivi politici:
Dare un forte segnale di insofferenza verso il Vaticano (“aprire una vertenza”) per la sua politica aggressiva nei confronti dell’Italia - Riaffermare la laicità come principio supremo dello Stato, più volte ribadito dalla Corte costituzionale.
Per i nuovi capi dei Radicali Italiani - il segretario Magi e il presidente Cappato - sarebbe un bel modo per uscire dalla rigida gabbia tematica degli ultimi anni (giustizia e carceri), per i Socialisti, reduci da una bella conferenza programmatica, per tornare con grinta sui vecchi campi di battaglia della laicità.
L’8 dicembre si aprirà il Giubileo straordinario voluto da Papa Bergoglio: una manifestazione di cui francamente non si capiscono le motivazioni (a parte quella, che dovrebbe essere la stessa base permanente dell’agire della Chiesa, della “Misericordia”) e che piomba come uno tsumani su di una Capitale prostrata dalla crisi politica e morale e dalle mille difficoltà del vivere quotidiano, oltre che minacciata esplicitamente dai terroristi dell’ISIS.
Una tentazione anticlericale - sana, ma in questo caso, lo ammetto, poco costruttiva- ci indicherebbe proprio quello come il giorno adatto per aprire la “vertenza Concordato”. Ma vi è una alternativa più “istituzionale”, anch’essa non lontana nel tempo. L’11 febbraio del 2016, anniversario del Concordato, la processione delle autorità nazionali potrebbe portare nella sfarzosa sede dell’Ambasciata un dono diverso dal solito: la richiesta del popolo italiano e dei suoi rappresentanti elettivi di tornare ad essere “indipendente e sovrano”.
NOTE
1) Sull’otto per mille vanno fatte due osservazioni. La prima, di carattere economico, riguarda il meccanismo perverso per cui la massa degli otto per mille non destinati (oltre la metà sul totale dei contribuenti) non va, come sarebbe normale, allo Stato, ma viene ridiviso in base alle stesse percentuali degli otto per mille destinati. E poiché quasi il 90% di questi va alla Chiesa Cattolica, ecco che questa vede quasi raddoppiarsi - indebitamente - il totale delle sue entrate a questo titolo, giungendo a circa un miliardo di euro l’anno. La seconda osservazione, di carattere politico/morale, riguarda l’uso che la Chiesa fa dei proventi dell’otto per mille. Riprendo i dati da una fonte insospettabile, il bilancio annuale della CEI. Su cinque euro versati dai contribuenti, la conferenza dei vescovi dichiara di spenderne uno per interventi di carità in Italia e all’estero (rispettivamente 12 e 8 per cento del totale). Gli altri quattro euro servono all’autofinanziamento. Prelevato il 35 per cento del totale per pagare gli stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di euro che il vertice Cei distribuisce all’interno della Chiesa a suo insindacabile parere sotto voci generiche come "esigenze di culto", "spese di catechesi", attività finanziarie e immobiliari (banale ma non inutile richiamare la recente vicenda del Cardinale Bertone). La Chiesa valdese, per fare un confronto, destina l’intero ammontare del suo otto per mille a finalità di beneficenza o di studio. -E’ giusto aggiungere che nella cultura cattolica è in corso da anni un coraggioso, doloroso e censuratissimo dibattito sul "come" le gerarchie vaticane usano il danaro dell’otto per mille "per troncare e sopire il dissenso nella Chiesa". Una delle testimonianze migliori è il pamphlet "Chiesa padrona" di Roberto Beretta, scrittore e giornalista dell’Avvenire. Al capitolo "L’altra faccia dell’otto per mille", Beretta osserva: "Chi gestisce i danari dell’otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici". Continua: "Quale vescovo per esempio - sapendo che poi dovrà ricorrere alla CEI per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale - alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza?"
2) La fonte più ricca di dati e più attendibile è il rapporto annuale sulla secolarizzazione curato da Critica Liberale, una Fondazione diretta da Enzo Marzo che ebbe come primo presidente Norberto Bobbio. Le fonti su cui è costruito il rapporto sono documenti prodotti da enti o istituzioni che li pubblicano per i loro scopi (la Chiesa cattolica nel suo Annuario statistico, la Cei, l’Istat, il Miur, il Ministero della Salute).
Tre soli dati (sono del 2004 e ovviamente negli ultimi dieci anni sono peggiorati per la Chiesa). - battesimi: nel decennio 1994-2004 c’è stato un calo di circa 12 punti percentuali (dall’89,4% al 77,46% dei bambini nati in quell’anno - matrimoni: dal 1991 al 2004 i matrimoni concordatari sono scesi dall’82,53% al 68,83% delle legittime unioni. La percentuale delle nozze solo civili è passata dal 17,5% del 1991 al 31,2% del 2004 - unioni di fatto: sono passate da 207 mila del 1993 a 556 mila nel 2004.
3) Il Vaticano ha rifiutato due volte di firmare convenzioni internazionali sui diritti civili. La prima volta si è trattato del “no” alla depenalizzazione della omosessualità proposta dalla Francia e approvata dall’ONU: un rifiuto particolarmente grave perché in molti paesi l’omosessualità è punita addirittura con la pena di morte. Motivo del rifiuto: il timore che la lotta alla discriminazione degli omosessuali possa portare alla legalizzazione delle unioni tra gay. La seconda volta il Vaticano ha espresso il proprio dissenso nei confronti della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità - il primo trattato sui diritti umani del Terzo Millennio - entrata in vigore nel maggio del 2008. Il Vaticano ha rifiutato di firmarla perché il documento non ha inserito un divieto esplicito nei confronti dell’aborto.
4) “Non si può pretendere - argomenta Romano - che la Chiesa abbia un Papa piuttosto che un altro, come accadde nel 1903 quando l’Austria mise il veto all’elezione del cardinale Rampolla. Non si può condizionare la scelta di un vescovo all’approvazione dell’autorità civile, come pure accadde per molti secoli in Europa. Ma la Chiesa non può, a sua volta, intervenire nelle scelte elettorali dei cittadini o addirittura dare indicazioni di voto ai parlamentari cattolici”. E Romano ricorda, oltre a molti altri casi, che la Conferenza episcopale, con una nota del 27 marzo 2007, dichiarò che “la legalizzazione delle coppie di fatto era inaccettabile” e aggiunse: “Nessun politico che si proclami cattolico può appellarsi al principio del pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società. Sarebbe incoerente quel cristiano che sostenesse la legalizzazione delle unioni di fatto”. Il parlamentare cattolico aveva quindi il “dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro qualsiasi progetto di legge che possa dare un riconoscimento alle unioni gay”. Queste affermazioni - conclude Romano - non sono, compatibili, a mio avviso, con l’art. 1 del Concordato del 1984”.
Il Papa: non confondere la famiglia voluta da Dio e altre unioni. Ma quale famiglia, quale Dio?:
Il Papa: non confondere la famiglia voluta da Dio e altre unioni
Francesco alla Rota romana: «La Chiesa continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali non come un ideale per pochi ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Serve una maggiore preparazione, un «nuovo catecumenato»
di ANDREA TORNIELLI (La Stampa, 22/01/2016)
CITTÀ DEL VATICANO
Nel percorso sinodale sul tema della famiglia, la Chiesa ha «indicato al mondo che non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Lo ha detto Papa Francesco ricevendo nella Sala Clementina giudici, officiali e avvocati della Rota romana, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Bergoglio ha ricordato che la Rota «è il tribunale della famiglia» ma anche «il tribunale della verità del vincolo sacro», due aspetti «complementari» perché la Chiesa mostra l’«amore misericordioso di Dio» verso le famiglie, «in particolare quelle ferite dal peccato e dalle prove della vita», e allo stesso tempo proclama «l’irrinunciabile verità del matrimonio secondo il disegno di Dio».
Dopo aver sottolineato come il Sinodo abbia ribadito che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», Francesco ha detto che la Chiesa, tramite il servizio della Rota, «si propone di dichiarare la verità sul matrimonio nel caso concreto, per il bene dei fedeli» e «al tempo stesso tiene sempre presente che quanti, per libera scelta o per infelici circostanze della vita, vivono in uno stato oggettivo di errore, continuano ad essere oggetto dell’amore misericordioso di Cristo e perciò della Chiesa stessa».
«La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al “sogno” di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità», ha spiegato Francesco, ricordando che «Dio ha voluto rendere partecipi gli sposi del suo amore: dell’amore personale che Egli ha per ciascuno di essi e per il quale li chiama ad aiutarsi e a donarsi vicendevolmente per raggiungere la pienezza della loro vita personale; e dell’amore che Egli porta all’umanità e a tutti i suoi figli, e per il quale desidera moltiplicare i figli degli uomini per renderli partecipi della sua vita e della sua felicità eterna».
La famiglia, ha aggiunto, è «chiesa domestica» e «lo “spirito famigliare” è una carta costituzionale per la Chiesa: così il cristianesimo deve apparire, e così deve essere». E la Chiesa sa che tra i cristiani, «alcuni hanno una fede forte, formata dalla carità, rafforzata dalla buona catechesi e nutrita dalla preghiera e dalla vita sacramentale, mentre altri hanno una fede debole, trascurata, non formata, poco educata, o dimenticata».
A proposito del peso della fede personale circa la validità del matrimonio, Papa Bergoglio ha ribadito «con chiarezza che la qualità della fede non è condizione essenziale del consenso matrimoniale, che, secondo la dottrina di sempre, può essere minato solo a livello naturale». Infatti, il dono ricevuto nel battesimo «continua ad avere influsso misterioso nell’anima, anche quando la fede non è stata sviluppata e psicologicamente sembra essere assente». Non è raro che gli sposi nel momento della celebrazione abbiano «una coscienza limitata della pienezza del progetto di Dio, e solamente dopo, nella vita di famiglia, scoprano tutto ciò che Dio Creatore e Redentore ha stabilito per loro».
«Le mancanze della formazione nella fede e anche l’errore circa l’unità, l’indissolubilità e la dignità sacramentale del matrimonio viziano il consenso matrimoniale soltanto se determinano la volontà», precisa il Pontefice. «Proprio per questo gli errori che riguardano la sacramentalità del matrimonio devono essere valutati molto attentamente».
«La Chiesa - ha concluso Francesco - con rinnovato senso di responsabilità continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali - prole, bene dei coniugi, unità, indissolubilità, sacramentalità -, non come un ideale per pochi, nonostante i moderni modelli centrati sull’effimero e sul transitorio, ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Proprio per questo è urgente, dal punto di vista pastorale, coinvolgere tutte la Chiesa nella preparazione adeguata degli sposi al matrimonio «in una sorta di nuovo catecumenato, tanto auspicato da alcuni padri sinodali».
di don Aldo Antonelli (L’Huffinton Post, 11/07/2014
Guardo la foto e leggo il contesto. Una madonna, intronizzata come regina, incorniciata in una raggiera dorata, portata a spalle da una masnada di giovanotti biancovestiti, nel caos festante di una folla accalcata che non si capisce bene se prega, canta o chicchiericcia. Osservo la foto e mi chiedo quale rapporto può esserci tra questa "Madonna Regnante" e la semplice, umile ragazza di Nazareth di cui narrano i Vangeli. Mi domando come possa essere accaduto che colei che nel Magnificat inneggia al Dio che "depone i potenti dai troni", possa a sua volta sedere su un trono ed essere chiamata "Regina"! Come possa essere beffardamente ricoperta di ori e di argento la Madre di Colui che comandò ai suoi discepoli di non portare con sé né oro, né argento.
Siamo di fronte ad una metamorfosi depravata e deformante, funzionale ad una società auto-referente e lontana anni luce da quell’espressione di fede, coscienza critica della società, che la teologia più attenta vorrebbe evidenziare.
Secondo l’analisi funzionalistica di Emile Durkheim, la religione non è altro che un riflesso della società che venera se stessa. Con questa espressione, dalle connotazioni decisamente provocatorie, il grande sociologo intendeva sottolineare il carattere sociale e civile della religione, intesa come un sistema di riti grazie al quale una società si rinforza e crea legami profondi fra gli individui che la compongono. Secondo il sociologo francese, la religione serve alla società per salvaguardarsi, ma, soprattutto consente all’individuo di sentirsi parte di un’entità collettiva, nella quale assumere un ruolo definito. I riti religiosi, quindi, accompagnano le trasformazioni personali e sociali, permettendo, attraverso la loro capacità di regolamentare il caos e, insieme, di esprimere una forte carica simbolica, di creare, problematizzare e rafforzare le realtà sociali stesse.
Naturalmente, in una società mafiosa la religione diventa la legittimazione morale del sistema-mafia! In una società capitalistica, la religione consacra, facendone degli assoluti, i principi di "proprietà" e di "libertà"! In ambito politico, la religione si fa veicolo di consenso verso pratiche che pur contraddicendo i valori ne sposano la difesa. L’espressione più evidente di questo diabolico potere è offerta dal fenomeno di quelle persone che si definiscono come «atei devoti».
In questa formula, vi è evidente una contraddizione che, però, finisce con lo spiegare meglio il senso e le forme della religione civile. Scrive Marco Gallizioli sul numero 8 dal 2011 della rivista cattolica "Rocca", della Cittadella di Assisi: «Alcuni individui, infatti, pur negando validità trascendente alle religioni, ne sposano le linee etiche e ne ri-conoscono il valore insostituibile nel tessere un abito identitario dai colori netti. In altri termini, le fedi vengono svuotate del loro proprium, e imbalsamate nella loro funzione sociale, perché fungano da moltiplicatori di identità e di etica... Così facendo, la religione rischia di trasformarsi in una lobby di potere, che, grazie alle sue funzioni sociali, può giocare un ruolo decisivo nella politica degli stati, rischiando di mercificare la sua proposta spirituale».
Analisi precisa, puntuale e senza sconti di parte. A mio avviso, tanta strumentalità e, diciamolo pure, tanto abbrutimento è stato possibile anche grazie agli interessi di bottega e/o alle pigrizie di comodo di una chiesa e di un clero più inclini a tradurre la fede nella comoda e compensativa religiosità popolare che impegnati alla difficile e scomoda testimonianza. In questo, grande supporto è dato dalla teologia di palazzo, tutta ideologia e affatto evangelica. Ma qui si apre un altro discorso.
Per ora dobbiamo dire grazie al richiamo forte di papa Francesco e allo scandalo salutare di Oppido Mamertina.
La struttura segreta del Vaticano
Immobili a Londra con i soldi di Mussolini
Una società off-shore custodisce un patrimonio da circa 650 milioni di euro. Per conto della Santa Sede, che ha raggranellato prestigiosi locali ed edifici nella capitale britannica. Grazie ai soldi che Mussolini diede al papato con i Patti Lateranensi
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - A chi appartiene il locale che ospita la gioielleria Bulgari a Bond street, più esclusiva via dello shopping nella capitale britannica? E di chi è l’edificio in cui ha sede la Altium Capital, una delle più ricche banche di investimenti di Londra, all’angolo super chic tra St. James Square e Pall Mall, la strada dei club per gentiluomini? La risposta alle due domande è la stessa: il proprietario è il Vaticano. Ma nessuno lo sa, perché i due investimenti fanno parte di un segretissimo impero immobiliare costruito nel corso del tempo dalla Santa Sede, attualmente nascosto dietro un’anonima società off-shore che rifiuta di identificare il vero possessore di un portfolio da 500 milioni di sterline, circa 650 milioni di euro. E come è nata questa attività commerciale dello Stato della Chiesa? Con i soldi che Benito Mussolini diede in contanti al papato, in cambio del riconoscimento del suo regime fascista, nel 1929, con i Patti Lateranensi.
A rivelare questo storia è il Guardian, con uno scoop che oggi occupa l’intera terza pagina. Il quotidiano londinese ha messo tre reporter sulle tracce di questo tesoro immobiliare del Vaticano ed è rimasto sorpreso, nel corso della sua inchiesta, dallo sforzo fatto dalla Santa Sede per mantenere l’assoluta segretezza sui suoi legami con la British Grolux Investment Ltd, la società formalmente titolare di tale cospicuo investimento internazionale. Due autorevoli banchieri inglesi, entrambi cattolici, John Varley e Robin Herbert, hanno rifiutato di divulgare alcunché e di rispondere alle domande del giornale in merito al vero intestatario della società.
Ma il Guardian è riuscito a scoprirlo lo stesso attraverso ricerche negli archivi di Stato, da cui è emerso non solo il legame con il Vaticano ma anche una storia più torbida che affonda nel passato. Il controllo della società inglese è di un’altra società, chiamata Profima, con sede presso la banca JP Morgan a New York e formata in Svizzera. I documenti d’archivio rivelano che la Profima appartiene al Vaticano sin dalla seconda guerra mondiale, quando i servizi segreti britannici la accusarono di "attività contrarie agli interessi degli Alleati". In particolare le accuse erano rivolte al finanziere del papa, Bernardino Nogara, l’uomo che aveva preso il controllo di un capitale di 65 milioni di euro (al valore attuale) ottenuto dalla Santa Sede in contanti, da parte di Mussolini, come contraccambio per il riconoscimento dello stato fascista, fin dai primi anni Trenta. Il Guardian ha chiesto commenti sulle sue rivelazioni all’ufficio del Nunzio Apostolico a Londra, ma ha ottenuto soltanto un "no comment" da un portavoce.
Patti Lateranensi
Quel “baco” nella Costituzione
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 29.09.2012)
Caro Augias,
il professor Adriano Prosperi, su Repubblica di alcuni giorni fa, ha denunciato con rara chiarezza il “baco” che rende fragile la nostra Costituzione scrivendo “di fatto i principi di uguaglianza e di pari dignità degli italiani espressi nella Costituzione furono invalidati col semplice inserimento dei Patti Lateranensi: da quella porta come da un cavallo di Troia entrarono nella vita del paese continue e sistematiche lesioni di quei diritti”. Questa sarebbe la vera “grande riforma” costituzionale cui porre mano, la cancellazione del secondo comma dell’articolo 7. Abrogandolo si collocherebbero al loro giusto posto i Patti lateranensi, fuori cioè dalla Costituzione. Accade invece che proprio quel comma sia il collante che tiene unite le forze politiche. Per cui al momento non c’è alcuna possibilità concreta che il principio di pari dignità degli italiani venga ristabilito. Vittorio Melandri
Dell’articolo 7 della Costituzione ormai si parla poco. Invece, fin dal momento della sua formulazione e per molti anni a seguire, è stato oggetto di accanite discussioni. Il primo comma riprende a suo modo il principio già formulato da Cavour: “Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Il “baco” come l’ha giustamente definito il professor Prosperi si trova nel secondo comma: “I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi”.
Fu Palmiro Togliatti, in base ad un calcolo politico, a determinare il voto favorevole dei comunisti a questa formulazione. Il segretario del Pci pensava di favorire in questo modo la permanenza dei comunisti al governo. Di lì a poco invece vennero allontanati dato il superiore ordine mondiale che voleva l’Italia collocata nella sfera d’influenza americana. Ci sarebbe per la verità anche un terzo comma in quell’articolo, secondo il quale “le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.
Ma sarebbero necessari governi ben più solidi di quelli che abbiamo per metterlo in pratica. Anche per questo il ministro della Pubblica istruzione Francesco Profumo ha dovuto fare rapida marcia indietro dopo aver incautamente annunciato di voler modificare l’assetto esistente. Indipendentemente dal modo in cui si può interpretare l’insegnamento di una materia così anomala, è proprio l’esistenza di questo meccanismo a viziare in partenza la disciplina. Basta pensare che i prof di religione sono pagati dallo Stato ma scelti dai vescovi e che, nonostante l’articolo 33 della Costituzione, dica “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, questi insegnanti sono tenuti a seguire nelle loro lezioni il canone dettato dalla curia a pena di licenziamento.
SEGRETI VATICANO/ 750 chiese di proprietà pubblica cedute gratis al Vaticano, che incassa pure le offerte. Alle spese di gestione invece ci pensa il Viminale
Probabilmente pochi lo sanno, ma chiese come Santa Croce e Santa Maria Novella a Firenze, San Gregorio Armeno a Napoli e Santa Maria del Popolo a Roma, sono di proprietà del Viminale. In tutto sono 750 le chiese patrimonio dello Stato. Ma a beneficiarne, in uso assolutamente gratuito, sono le istituzioni ecclesiastiche, che non pagano il benché minimo fitto. Né si occupano di spese di gestione, manutenzione e restauro: tutto a carico dello Stato. A riscuotere le offerte, però, è il Vaticano.
di Carmine Gazzanni *
È la storia - tutta italiana - del FEC, Fondo Edifici di Culto, nato il 20 maggio 1985 con la revisione del Concordato Lateranense ad opera dell’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi: una sorta di contenitore di tutto quel patrimonio ricco e variegato proveniente dagli enti religiosi discioltisi nella seconda metà del XIX secolo.
Da allora il ministro degli Interni si ritrova ad essere “legale rappresentante” di oltre 750 chiese, alcune delle quali di enorme importanza storica e religiosa. Solo per citarne alcune: San Domenico a Bologna; Santa Croce e Santa Maria Novella a Firenze; Santa Maria in Ara Coeli, Santa Maria del Popolo e la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo al Celio a Roma; Santa Chiara con l’annesso monastero e San Gregorio Armeno a Napoli; la Chiesa del Gesù a Palermo. Rientrano tra le proprietà del ministero non solo le strutture esterne, ma anche le opere d’arte e gli arredi in esse custoditi. E c’è di più: tra i possedimenti del Fec ci sono anche “immobili produttivi di rendite (appartamenti, negozi, caserme, cascine)”. E ben tre foreste. Come quella di Tarvisio, un complesso boschivo di circa 23 mila ettari.
Insomma, un patrimonio immenso. Peccato, però, che il Ministero sia un proprietario un po’ anomalo. Già, perché pur non utilizzando in alcun modo queste sue proprietà (cosa potrebbe farsene, d’altronde, di 750 chiese?), dal 1985 ha deciso pure di non guadagnarci nemmeno un soldo. Anzi, di rimetterci anche.
Le chiese e cattedrali che rientrano nel Fondo, infatti, sono cedute ad uso gratuito alle istituzioni ecclesiastiche. Non solo. Secondo quanto previsto dalle leggi in materia, non spetta nemmeno alle diocesi o al Vaticano occuparsi delle spese di gestione. Tutti i costi di manutenzione, infatti, sono a carico esclusivo del Fondo. Leggere per credere. “La Direzione Centrale per l’amministrazione del Fondo Edifici Culto - si legge sul sito - provvede, con le risorse a disposizione del Fondo, al finanziamento degli interventi di conservazione, manutenzione e restauro delle oltre 750 chiese possedute e concesse in uso gratuito all’Autorità Ecclesiastica per fini di culto, nonché delle opere d’arte in esse custodite, di cui cura anche la sicurezza (con sistemi antifurto, impianti rilevazione fumi, etc.)”.
Insomma, le autorità ecclesiastiche altro non fanno che dire messa, guadagnare, per di più, con le offerte dei fedeli e infischiarsene delle spese di manutenzione perché tanto sono a carico dello Stato.
Facciamo un esempio. Prendiamo una chiesa di grande importanza storica come può essere Santa Croce a Firenze, nella quale troviamo, tra le altre cose, “Le storie della vita di San Francesco” di Giotto e il crocifisso ligneo di Donatello. Qui, com’è facile immaginare, il flusso di turisti è ininterrotto. Se non tutti, perlomeno una grossa percentuale lascerà un’offerta. Di questa beneficerà esclusivamente l’istituzione Chiesa e non lo Stato, sebbene sia proprio quest’ ultimo ad occuparsi, come detto, della manutenzione.
Insomma, il paradosso: il proprietario cede le strutture gratis e poi, come se non bastasse, paga per le spese di gestione. E le uniche entrate previste - in questo caso le offerte dei fedeli - se le pappa tutte, per così dire, l’utilizzatore finale.
E non finisce nemmeno qui. Il Fondo, infatti, ha alle spalle una struttura robusta la quale, chiaramente, è ben stipendiata. In poche parole, il Fec costa. E non poco. Amministrato direttamente dalla direzione centrale del ministero (come detto, d’altronde, il ministro “né è rappresentante legale”), ha un direttore (il prefetto Lucia Di Mario) che coordina ben sei uffici (che vanno dal bilancio, al restauro fino alla documentazione) per un totale di circa 50 dipendenti. Non solo. A capo anche un consiglio di amministrazione formato da nove membri, che coadiuva il ministro degli interni.
Curiosa anche la composizione di questo cda: uno è il direttore del Fondo (la Di Mario), cinque sono nominati dai ministeri (tre gli Interni, uno a testa Lavoro e Cultura) e ben tre, invece, sono “designati dalla Conferenza episcopale italiana”. Cioè dai vescovi.
Strana natura questo Fondo. Tra sacro e profano. Tra pubblico e privato.
L’INDAGINE
Maestro unico o unico-prevalente
la riforma Gelmini è un fallimento
Il monitoraggio sullo stato di attuazione delle ristrutturazioni degli ultimi tre ministri ha evidenziato tra l’altro che alle elementari una classe su cinque funziona addirittura con più di tre insegnanti e le rimanenti con tre
di SALVO INTRAVAIA *
"Maestro unico" all’elementare? La novità proposta per giustificare la demolizione del modulo di tre insegnanti su due classi è rimasta soltanto un’idea nella testa dell’ex ministro Mariastella Gelmini. La realtà è un’altra cosa: il modulo è stato in effetti minato alla base, mentre del maestro unico nessuna traccia. A certificare il flop del maestro unico, poi diventato "unico-prevalente", è lo stesso ministero dell’Istruzione, che qualche giorno fa ha pubblicato gli esiti del monitoraggio sullo stato di attuazione delle riforme Moratti, Fioroni e Gelmini del primo ciclo, in cui l’unico ad essere promosso da coloro che hanno materialmente attuato le riforme sembra l’ex ministro Fioroni.
Perché anche l’anticipo scolastico alla materna e all’elementare, introdotto dalla Moratti, viene giudicato una mezza sciagura da chi lo ha dovuto subire in questi anni. Ma andiamo con ordine. Oggi, dopo tre anni di riforma Gelmini, una classe di scuola elementare su cinque funziona addirittura con più di tre maestri, la restante parte con tre. E se a questi aggiungiamo gli specialisti di Inglese, Religione e spesso di sostegno si scopre che alla scuola primaria i bambini possono vedere nell’arco della settimana anche sette e più insegnanti. Come alla scuola media e al liceo. E la scuola vintage con un unico maestro, come quella frequentata dai quaranta/cinquantenni di oggi?
Nel 2009 la riforma Gelmini del primo ciclo di istruzione - la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado - smonta il "modulo", che fino a quel momento ha fatto la fortuna della scuola elementare italiana. L’obiettivo è quello di tagliare il maggior numero di posti possibile sfruttando al massimo l’orario di cattedra dei maestri: 22 ore settimanali, più due di programmazione. E al posto delle 30 e più ore settimanali vengono lanciate tre opzioni, a scelta delle famiglie: 24, 27 e 30 ore a settimana. Più il tempo pieno di 40 ore settimanali. Le 24 ore hanno la finalità di realizzare l’ipotesi di una scuola elementare con un solo maestro per classe.
Perché, nell’ipotesi di scelta in massa da parte delle famiglie di questa opzione, basterebbe un solo insegnante curricolare, con 22 ore settimanali, a completare l’orario della classe. Le restanti due ore sono appannaggio dai docenti specialisti di Inglese e di Religione. E il gioco è fatto. Ma le famiglie che scelgono le 24 ore sono una percentuale "residuale", scrive l’Ansas che ha curato il monitoraggio in questione: lo 0,4 per cento, cioè quattro su mille. La stragrande maggioranza delle famiglie italiane continuano a richiedere 30 ore a settimana di istruzione per i propri figli, anche se, per effetto dei tagli, una parte consistente - il 30 per cento - dovrà accontentarsi di 27 ore di lezione a settimana.
Intanto, il modulo è stato smontato e le scuole anno dopo anno si sono dovute accontentare di un numero di docenti sempre minore. Per fare quadrare i conti, così, in alcune classi le scuole sono riuscite a mantenere il modulo con tre insegnanti su due classi, ma nella restante parte l’orario è diventato uno "spezzatino", come avevano previsto i sindacati. "Gli esiti del monitoraggio - scrivono gli esperti dell’Ansas - hanno rilevato che, per effetto della riforma, a livello nazionale sul totale di 82.396 classi funzionanti con orario ordinario da 24 a 30 ore, è stata introdotta una diversa organizzazione delle risorse umane con utilizzo di un numero superiore a tre docenti per classe (esclusi gli specialisti di Inglese, Religione e sostegno) per un numero complessivo di 16.463 classi interessate, pari al 20 per cento".
Anche il maestro unico-prevalente ha trovato difficoltà ad affermarsi: le classi dove è presente un docente con orario prevalente - con più ore dei colleghi - rappresentano il 54 per cento. Ma non solo. Ai docenti delle elementari è stato chiesto un parere anche sull’anticipo scolastico, cavallo di battaglia dell’ex sindaco di Milano Letizia Moratti, che consente ancora oggi l’ingresso alla scuola elementare a cinque anni e mezzo e alla materna a due anni e mezzo. E la risposta è chiara: un mezzo disastro. L’unico ad essere "promosso" dagli insegnanti sembra essere l’ex ministro Fioroni. Le sue "indicazioni per il curricolo" sono decisamente più apprezzate e più utilizzate delle "indicazioni nazionali" della Moratti.
* la Repubblica, 06 maggio 2012
Un parroco e il ventennio B.B.
di don Giorgio Morlin (“settimana”, n. 15, 15 aprile 2012)
Stendo in libertà alcune riflessioni personali sull’onda mediatica delle miserande vicende d’interesse privato che toccano un personaggio politico di primissimo piano come Umberto Bossi e il partito della Lega Nord. Innanzitutto lui, un personaggio carismatico che, nell’immaginario collettivo, rappresenta da circa 25 anni una specie di totem tribale intoccabile, a cui si deve obbedienza cieca e a cui è permessa ogni forma di turpiloquio e d’insulto, di pernacchie e di minacce, E poi il movimento leghista, una folla sempre plaudente verso il capo e perennemente arrabbiata con l’intero mondo, partecipe di grotteschi riti pagani come le ampolle d’acqua del Po dentro un ridicolo campionario d’innumerevoli scemenze celtiche.
Il crollo del leader padano arriva puntuale dopo alcuni mesi dal crollo di un altro suo compare nazionale, quel Silvio Berlusconi che è riuscito a catturare per quasi due decenni il consenso di masse d’italiani osannanti. Cos’è successo all’Italia di fine ’900 e inizio 2000? Sembra impossibile, eppure è successo che, nel giro di nemmeno un ventennio, si sono tra loro miscelati due filoni culturali dirompenti, il leghismo e il berlusconismo. Due fenomeni, autonomi ma tra loro interdipendenti, che, dopo aver inoculato un virus eticamente letale, hanno plasmato un’opinione pubblica addomesticata, ad immagine e somiglianza dei due capi che godevano effettivamente di un largo consenso di massa.
Mentre cala squallidamente il sipario sulla scena politica dei due succitati leaders, la terribile miscela culturale-etica da loro innescata sembra ormai stabilmente metabolizzata dentro un tessuto civile senza anticorpi, determinando l’assimilazione di nuovi modelli collettivi di vita e di pensiero. Abbiamo visto un’Italia umiliata e mortificata da una molteplicità di truci slogans, contro i magistrati, contro inesistenti comunisti, contro Roma ladrona, contro gli immigrati, che infiammavano istericamente le masse ma impoverivano l’anima e l’identità del popolo italiano.
Fino a poco più di un anno fa, non solo la maggioranza del mondo cattolico ma anche una parte dell’istituzione ecclesiastica apparivano ammaliate dalla seducente sirena berlusconiano-leghista.
L’incantamento di una parte della Chiesa italiana probabilmente nasceva da una tacita e reciproca intesa in cui, sempre e comunque, gli uni lucravano qualcosa dagli altri. Dalla parte politica, si lucrava il consenso elettorale dei cattolici e, dalla parte ecclesiastica, si lucrava la difesa dei valori cosiddetti non negoziabili (famiglia, bioetica, scuola) ed eventuali altre prebende, magari anche di tipo economico.
In un’intervista al Corriere della Sera, mons. Fisichella, esponente ecclesiastico di rilievo, il 30 marzo 2010, dichiarava che la Lega Nord, «per quanto riguarda i problemi etici, manifesta una piena condivisione con il pensiero della Chiesa».
Poco dopo, alla suddetta intervista rispondeva lo scrittore Claudio Magris con una lettera aperta in cui, riportando solo qualche stralcio, si poteva leggere: «Caro mons. Fisichella, mi permetto di scriverle per esprimerle lo sconcerto che ho provato leggendo la sua recente intervista in cui lei dichiarava che il partito politico Lega Nord si fonda su valori cristiani. Non intendo esprimere alcun giudizio politico sul suddetto partito. Ma, tutto l’atteggiamento del medesimo partito nei con fronti degli immigrati costituisce la negazione dello spirito cristiano. La Lega spesso fomenta un volgare rifiuto razziale, che è la perfetta antitesi dell’amore cristiano del prossimo e del principio paolino secondo il quale "non ha più importanza essere greci o ebrei, circoncisi o no, barbari o selvaggi, schiavi o liberi; ciò che importa è Cristo e la sua presenza in tutti noi!" (cf. Col 3,11).
Questa lettera non è indirizzata alla Chiesa, ma ad uno dei tanti - ancorché autorevoli - suoi rappresentanti, le cui opinioni non possono essere addebitate alla Chiesa, ma possono destare sconcerto e scandalizzare non pochi fedeli» (Corriere dello Sera, 11 aprile 2010).
Come avrei desiderato leggere quest’inequivocabile presa di posizione dell’illustre intellettuale italiano, forse credente o forse agnostico, magari in uno dei tanti documenti magisteriali della Cei negli ultimi due decenni! È vero - dirà qualcuno -, basta leggere il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa. Appunto! Però, queste due primarie fonti dell’annuncio cristiano vanno riscoperte, attualizzate e storicizzate dentro le emergenze culturali ed etiche che segnano il nostro tempo, proclamando a voce alta, senza se e senza ma, valori quali la dignità umana, il rispetto per lo straniero, la giustizia, la legalità, il bene comune, l’etica pubblica... Questi, oltre naturalmente a quelli tradizionali predicati dalla Chiesa, sono o no da riconoscere come valori non negoziabili sui quali non si può e non si deve transigere?
In quest’ultimo ventennio italiano si è collettivamente dissolto quel nucleo portante di valori civili che, ad esempio, aveva efficacemente retto durante la gravissima emergenza del terrorismo negli anni 70. E proprio la Chiesa postconciliare dell’epoca, assieme a tante altre istituzioni, si era direttamente messa in gioco e a servizio della società italiana con l’obiettivo di ricostruire il tessuto sociale che rischiava la degenerazione della convivenza (cf. il profetico documento Cei La Chiesa italiana e le prospettive del paese del 1981!).
Nella prolusione del card. Ruini al Consiglio permanente della Cei (19 settembre 1994) veniva ufficialmente proclamato che il Progetto culturale della Chiesa italiana rappresentava «un terreno d’incontro tra la missione della Chiesa e le esigenze più urgenti della nazione!». Sante parole!
Invece, proprio a partire dal 1994, con la micidiale miscela berlusconiano-leghista, paradossalmente iniziava per l’Italia una lenta ma progressiva deriva etica che ha portato al disastro attuale. Certamente i tradizionali valori cari alla Chiesa (vita, scuola, famiglia) sono salvi! Però, rimane il forte disagio per una deriva antropologica già raggiunta in tanti ambiti, evidente soprattutto negli immorali e amorali modelli di vita, indotti anche da una certa politica che mette l’interesse privato al centro. Lo ha detto, finalmente con chiarezza, il card. Bagnasco, proprio negli squallidi giorni del bunga bunga berlusconiano: «La collettività guarda sgomenta gli attori della scena pubblica e respira un evidente disagio morale» (Consiglio permanente, 24 gennaio 2011).
Come cittadini e come credenti, è proprio da questo disagio morale che bisogna ripartire per farsi carico delle sorti della società e delle generazioni che verranno, dopo un ventennio triste e nefasto che ha reso irrespirabile l’aria della convivenza civile.
La «teoria dell’acclamazione» nazista contro la democrazia borghese
di Giuseppe Bedeschi (Corriere della Sera, 14.01.2012)
A Norimberga Carl Schmitt venne processato per il suo passato nazista: infatti, benché fosse caduto in disgrazia nel 1936 (a causa di un duro attacco sferratogli dalla rivista delle SS che gli rinfacciava la sua collaborazione con von Papen nel 1932), egli era stato una delle personalità culturali più prestigiose che avevano aderito al regime hitleriano. Era stato presidente dell’associazione dei giuristi nazionalsocialisti; aveva avallato con la sua autorità imprese efferate, come la «notte dei lunghi coltelli» del 30 giugno 1934 («l’azione del Führer - affermò allora - è stata un atto di autentica giurisdizione. Essa non sottostà alla giustizia, ma è essa stessa giustizia suprema»). Dal tribunale di Norimberga Schmitt venne prosciolto, ma fu dichiarato «persona non grata» nell’ambito delle istituzioni accademiche.
E tuttavia, benché messo al bando per il suo passato nazista, Schmitt continuò a esercitare un fascino notevole su personalità eminenti della cultura europea. Basti pensare a Raymond Aron - che stava certo agli antipodi, sia sul piano dottrinale sia su quello politico, del pensatore tedesco - il quale in una pagina delle sue Memorie (1983) ricordò di averlo conosciuto personalmente, di avere intrattenuto con lui rapporti epistolari, e poi ne diede questa ammirata caratterizzazione: «All’epoca della repubblica di Weimar Carl Schmitt era stato un giurista di eccezionale talento, riconosciuto da tutti.
Appartiene tuttora alla grande scuola dei sapienti tedeschi, che vanno oltre la propria specializzazione, abbracciano tutti i problemi della società e della politica e possono definirsi filosofi, come, a suo modo, lo fu Max Weber». Aron aggiunse che «uomo di alta cultura, Schmitt non poteva essere un hitleriano e non lo fu mai». Affermazione certo azzardata, questa di Aron, eppure in un certo senso vera, in quanto il filosofo tedesco aveva maturato il proprio pensiero molto prima che il nazionalsocialismo conquistasse il potere in Germania. Ma è altrettanto vero che la sua adesione al partito di Hitler, lungi dall’essere opportunistica (come alcuni hanno sostenuto), era pienamente coerente coi motivi più profondi della sua riflessione.
Tale riflessione era maturata nella repubblica di Weimar, travagliata dalle discordie dei partiti, dall’aspro contrasto degli interessi, dalle spinte centrifughe, dalle minacce rivoluzionarie e «golpiste» (nel 1919 ci fu un tentativo di rivoluzione comunista, represso nel sangue; nel 1920 il Putsch di destra di Kapp, nel 1923 il fallito tentativo di colpo di Stato di Hitler).
A questa situazione di sfacelo, tremendamente aggravata dalla crisi economica, che minacciava l’esistenza della nazione tedesca, Schmitt opponeva il suo concetto di popolo inteso come comunità coesa e organica (Gemeinschaft), che deve unificare completamente gli individui, e che è la base della «vera» democrazia. La quale non può essere confusa con la democrazia liberale, e con quella sua espressione caratteristica che è il parlamentarismo. Il liberalismo infatti si fonda, secondo Schmitt, sull’individuo isolato, sul privato egoista, dedito solo ai propri interessi. Ciò si vede anche, egli dice, nella procedura elettorale introdotta dal liberalismo, in cui il singolo esprime il proprio voto in una cabina, in una situazione di segretezza e di completo isolamento: sicché, proprio nel momento in cui si chiede al privato di diventare cittadino e di esercitare, col voto, una funzione pubblica, lo si relega nel suo ruolo di privato, di «borghese». (Questa critica ha avuto molta fortuna a sinistra: essa ritorna, nella sostanza, nella Critique de la raison dialectique di Sartre). Il risultato di tutto ciò è una maggioranza «puramente aritmetica», cioè nulla di coerente e nulla di stabile.
La vera democrazia, per Schmitt, è tutt’altro. Essa deve essere espressione autentica della volontà del popolo, la quale si manifesta nel modo più alto attraverso l’«acclamazione». «La forma naturale dell’immediata espressione del volere di un popolo - egli dice - è la voce che consente o che rifiuta della folla riunita, l’acclamazione». Attraverso il proprio «grido» (Zuruf) il popolo approva o disapprova, acclama un Führer, si identifica con lui. Grazie a questa investitura popolare del Führer, il regime nazionalsocialista era una vera democrazia, in quanto poggiava sulla sostanza del popolo tedesco, sulla unità della sua stirpe.
Un altro importante filone della riflessione filosofica di Schmitt è stato quello della «teologia politica»: un’espressione con la quale il filosofo tedesco intendeva dire che per un verso i concetti politici derivano da quelli teologici, e per un altro verso presentano una analogia strutturale con essi. «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti.
Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli». A questa idea schmittiana di «secolarizzazione» sono state mosse molte critiche. Hans Blumenberg ha obiettato che essa delegittima la modernità, e quindi non è in grado di capire lo sforzo di autofondazione che è proprio della politica moderna.
Esce ora in edizione italiana, presso Laterza, un libro che raccoglie tutta la discussione fra Blumenberg e Schmitt (L’enigma della modernità. Epistolario 1971-1978 e altri materiali, pagine 227, 20): una discussione profonda, in cui due grandi personalità, con una storia filosofica e politica completamente diversa l’una dall’altra, si misurano, con tolleranza e al tempo stesso con tormentata passione, sul futuro spirituale dell’Europa e, più in generale, del mondo moderno.
Berlusconi, il volto e il vuoto
di GIANNI BAGET BOZZO (La Stampa,26/7/2008).
Dal ‘94 ad oggi le elezioni politiche, e persino quelle regionali e locali, sono state vissute come un referendum pro o contro Berlusconi. Il volto di una persona è diventato il messaggio: un fatto singolare nella democrazia, che ha indotto a spiegare Berlusconi come il frutto di un potere personale, delle sue proprietà televisive, del suo carattere di comunicatore e imbonitore. Il voto sulla persona è stato vissuto dai partiti come un sequestro della democrazia storicamente legata ai partiti e quindi, per questo, illegittimo.
Nel 2008 le cose sono andate diversamente. Il partito democratico ha posto fine all’esperienza Prodi e ha proposto il suo messaggio in termini di cooperazione politica con il centrodestra. Le elezioni hanno determinato la sconfitta del Pd e la scomparsa della sinistra antagonista. E’ caduta la forza politica alternativa a Berlusconi ed egli è diventato, come persona, il titolare della legittimità politica senza alternative: una situazione che ricorda quella della Dc dopo le elezioni del ‘48. Perché tanto consenso attorno a un volto, un consenso che non ha mai investito l’insieme dei partiti di centrodestra in quanto tale, ma è rimasto legato alla persona, inscindibile da essa?
Questo crea un problema politico obiettivo perché non può essere una soluzione ma chiede una spiegazione: perché Berlusconi è diventato il volto della politica italiana.
Ciò indica che alla base di questo vi è un problema di Stato e non di governo. Un uomo solo riguarda il caso di emergenza, non una soluzione stabile. L’elettorato del centrodestra è nato da una crisi di Stato e non da questione di scelta politica, è nato da una crisi del consenso attorno alla Costituzione del ‘48 e allo Stato che su di essa si fondava. La crisi del consenso costituzionale si manifesta nel ‘92-‘93 con due eventi: l’autoscioglimento dei partiti democratici occidentali che avevano guidato la democrazia italiana di fronte al comunismo e il sorgere di un problema indipendentista del nord espresso da Bossi.
Ciò ha alterato il consenso attorno allo Stato, perché era impossibile far decadere il partito cattolico, il partito socialista e il partito liberale, che avevano retto la storia della democrazia italiana del Novecento e porre il Pds come chiave della legittimità politica.
La Costituzione del ‘48 supponeva il consenso dei partiti antifascisti che ne erano mallevadori, la sua costituzione materiale. La loro pluralità e differenza era la base della legittimità politica della Costituzione. Il documento stesso era un compromesso politico: e supponeva che i partiti fondatori, nella loro diversità, rimanessero la base politica dello Stato. La riduzione al solo Pds dei partiti antifascisti creava un vuoto politico, non sul piano del governo, ma sul piano dello Stato, cioè sul piano dell’accettazione della Costituzione come base politica della Repubblica.
A ciò si aggiunge il fatto che l’indipendentismo padano (che aveva allora figura etnica e si richiamava alla tradizione celtica del nord Italia come base di una differenza radicale) metteva in crisi l’impianto del sistema politico italiano fondato sulla centralità della questione meridionale. Poteva un partito rispondere a un tale stato di eccezione politica, quando tutte le tradizioni politiche diverse da quella comunista erano dissolte e vi era un vuoto obbiettivo, un vuoto che corrispondeva alla sfida indipendentista del Nord?
Ci voleva un volto, perché non c’erano più i partiti. Perché questo sia stato quello di Berlusconi non si può spiegare, esso è un fatto e non vi è dubbio che ciò corrisponde a un carisma politico, a una capacità di interpretare il popolo oltre i partiti. Berlusconi fu un evento straordinario, non prevedibile e quindi non facilmente giustificabile. Non entrava nella logica della politica e si pensava che non entrasse nelle regole della democrazia. Invece la tesi di Berlusconi fu quella di rappresentare la sovranità popolare e il suo potere costituente di un ordine politico diverso da quello dei partiti antifascisti ormai distrutto.
Solo il volto di un uomo poteva coprire il vuoto politico delle istituzioni. E ciò avvenne mediante l’alleanza con la Lega Nord e con l’Msi si creando così un’alternativa alla sinistra che non era mai esistita prima e che era assai diversa dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista.
Berlusconi ha rappresentato questo ruolo evitando ogni carattere salvifico persino autorevole, ha messo in luce la sua persona, non il suo carisma, lo ha fatto nelle sue debolezze, persino femminili, presentandosi come l’italiano medio, come rappresentante e non come salvatore. Il fatto di difendere la sua proprietà televisiva non gli ha nuociuto: anzi ha mostrato che egli era un potere della società e che poteva quindi bilanciare poteri istituzionali proprio perché aveva roba. Ciò che venne sentito come un difetto dai suoi oppositori, venne sentito come un vantaggio da parte del suo popolo.
Don Giuseppe Dossetti disse che, con la Costituzione del ‘48, il popolo italiano aveva abbandonato il suo potere costituente, Berlusconi mostrò che non era così e si pose come alternativa alla Costituzione del ‘48, entrando in conflitto con tutti i poteri di garanzia dal Quirinale, alla Corte Costituzionale, al Csm. Toccò così un difetto essenziale della Costituzione del ‘48: quello di fondare i poteri di garanzia e non quelli di governo.
Sovranità popolare contro Costituzione rigida: questa è l’essenza del dilemma berlusconiano che otterrebbe la sua perfezione se si rivedesse l’art. 138 e si riconoscesse che il popolo ha un potere costituente che né i partiti e né gli organi di garanzia istituzionale possono espropriare.
“Rischio protettorato Usa per il Vaticano”
Andreotti scoperchia l’archivio della Dc
Il senatore: “Lo scongiurammo inserendo i Patti Lateranensi in Costituzione”
di Fabio Martini (La Stampa, 16.11.2011)
ROMA. Dopo il Pci, ora è la volta della Dc. Il declino della Seconda Repubblica sta accelerando la riscoperta dei partiti della prima stagione della Repubblica e così, dopo la ricca mostra itinerante dedicata alcuni mesi fa alla storia del Partito comunista italiano (e preparata dai «legittimi eredi» di quella storia, gli ex Ds), da oggi al Tempio di Adriano di Roma si apre una analoga iniziativa che in questo caso ripercorre, per immagini e documenti, la storia della Democrazia cristiana. Promossa dalla Associazione «I Popolari», la mostra intende «valorizzare il ruolo dei cattolici impegnati in politica - spiega l’ideatore della iniziativa Pier Luigi Castagnetti - che, dopo non aver partecipato alla stagione risorgimentale, nel secondo dopoguerra furono i protagonisti della rinascita del Paese e della sua unificazione, anche grazie alla scolarizzazione di massa, all’Ina-casa di Fanfani, all’autostrada in sei anni, all’effetto unificante sul linguaggio realizzato dalla prima Rai».
Un soprassalto di orgoglio democristiano che, più o meno consapevolmente, trae alimento anche da una piccola maledizione che perseguita il buon nome della Dc: nell’immaginario collettivo il termine democristiano oramai è diventato sinonimo di compromesso al ribasso, di sottogoverno deteriore. Un’immagine che finisce per associare in un unico «calderone» la stagione del declino - l’ultimo ventennio, dal 1974 al 1993 - con l’intera storia del partito, che copre un cinquantennio e che comprende tutta la prima fase della Repubblica, la ricostruzione e il boom economico.
Nel lavoro di preparazione della mostra, gli organizzatori hanno avuto la fortuna di acquisire una testimonianza storicamente assai interessante sulle ingerenze straniere sull’Italia, tema in questi giorni assai dibattuto, sia per motivi molto diversi. Richiesto di ricordare la stagione della Assemblea costituente, Giulio Andreotti, rivela un dettaglio che lui stesso riconosce essere stato finora «mai considerato». Racconta Andreotti, in quegli anni molto vicino al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi: «Inserendo nella Costituzione i Patti lateranensi, si allontanò definitivamente l’ipotesi di una garanzia internazionale alla Santa Sede, per la quale avevano fatto sondaggi in Segreteria di Stato tanto il governo americano che quello irlandese, con esito per loro non incoraggiante da parte di monsignor Montini».
In parole povere, uno dei passaggi più importanti nella storia del dopoguerra, l’inserimento dei Patti lateranensi in Costituzione col voto congiunto della Dc e del Pci e quello contrario dei socialisti e degli azionisti, sarebbe stato preceduto e accelerato anche dall’opzione di una sorta di «protettorato» straniero, con una esplicita candidatura non solo dell’Irlanda cattolica, ma soprattutto di una delle due superpotenze uscite vittoriose dalla guerra mondiale, gli Stati Uniti d’America. In sostanza, la Chiesa attraverso il futuro Paolo VI, la Dc di De Gasperi e il Pci filosovietico di Palmiro Togliatti si ritrovarono d’accordo nel concedere alla Chiesa la «protezione» nazionale piuttosto che affidare il Vaticano alle cure degli Stati Uniti d’America. Nella mostra che si apre oggi sono esposti 170 documenti, tra manifesti, volantini, audiovisivi e alcune lettere di speciale valore storico.
PATTI LATERANENSI
Breve "faccia a faccia"
Berlusconi-Bagnasco
"Scambio di opinioni" tra i due, seduti vicini in occasione dell’incontro bilaterale Italia-S.Sede.
Napolitano: "La Chiesa parteciperà alle manifestazioni per l’Unità d’Italia. E ci sarà anche, in qualche forma, la presenza del Pontefice" *
Breve scambio di opinioni tra Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco in occasione dell’incontro bilaterale Italia-S.Sede per l’anniversario dei Patti Lateranensi e del Concordato, svoltosi a Palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata d’Italia presso il Vaticano. A quanto si apprende da chi ha potuto assistere all’incontro, il premier e il cardinale seduti vicino, si sono parlati per qualche minuto. Non è naturalmente noto il contenuto del loro scambio di battute.
In contemporanea, sulle poltrone vicine, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha parlato con il segretario di stato Vaticano cardinale Tarcisio Bertone.
E’ comunque probabile che Berlusconi e Bagnasco abbiano comunque sfiorato argomenti riguardanti le ultime vicende che coinvolgono il presidente del Consiglio e più in generale la credibilità dell’Italia rispetto alle altre nazioni.
Al termine dell’incontro, solo un brevissimo commento del premier ai cronisti che gli hanno chiesto come era andato l’anniversario dei Patti Lateranensi e del Concordato: "Benissimo, come sempre", ha risposto. Si è anche appreso che il presidente del Consiglio ha incontrato il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Tra i due c’è stata una stretta di mano e un cenno di saluto.
Anche Napolitano, all’uscita, ha commentato l’incontro: "È andata come sempre. C’è un clima di cordialità nelle relazioni tra Italia e Santa Sede". E ha poi aggiunto: "È molto importante l’impegno sottolineato dai cardinali Bertone e Bagnasco della partecipazione della Chiesa e, in qualche forma, del pontefice, all’anniversario dei 150 anni dell’unità d’italia". Napolitano si è trattenuto al ricevimento per circa mezz’ora dopo l’uscita di Silvio Berlusconi, sforando di una ventina di minuti i tempi previsti dal protocollo. Un messaggio del Papa per le cerimonie dell’Unità d’Italia. E’ questa, a quanto si apprende, una delle ipotesi a cui si sta lavorando relativamente al "coinvolgimento" di Benedetto XVI di cui ha parlato Napolitano.
Al momento, fanno sapere fonti vaticane, non c’è ancora nulla di stabilito. Ma questa è l’ipotesi più fondata. Il messaggio potrebbe essere letto, probabilmente, durante la messa annunciata per il 17 marzo, giorno delle celebrazioni, dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei.
Nel corso dell’incontro bilaterale Italia-S.Sede sono stati affrontati anche temi etici come il testamento biologico e la recente sentenza della Cassazioni in materia di adozioni dei single. Lo ha spiegato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, aggiungendo che su questi temi si "vuole evitare una deriva".
* la Repubblica, 18 febbraio 2011
Una croce fondata sulla P2
Nasce un movimento per la difesa del crocifisso: ispirato dal Venerabile
di Carlo Tecce e Giampiero Calapà (il Fatto, 03.07.2010)
Il crocifisso di legno cade tre volte dal trespolo di una lavagna. Le braccia dell’emozionato Roberto Mezzaroma che l’agitava, in quel momento mistico e (un po’) pacchiano, erano le protesi di Licio Gelli, il gran maestro della P2.
Il cosiddetto Venerabile ha ispirato il Movimento etico per la difesa internazionale del crocifisso (Medic), presentato nella sala congressi del Michelangelo di Roma, un albergo a pochi passi dal Vaticano. La politica è corsa a sostenere l’iniziativa: c’era Olimpia Tarzia, consigliere regionale Pdl, l’ex direttore del Tg1 Nuccio Fava, atteso invano l’ex mezzobusto del Tg1 Francesco Pionati (Adc) e sono stati annunciati telegrammi ricevuti (ma non letti) dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, dal presidente emerito Francesco Cossiga e dal “divo” Giulio Andreotti.
Il disegno dell’uomo P2
Per la Chiesa è un appuntamento imperdibile: don Walter Trovato, cappellano della polizia di Stato, è il primo a sedersi al tavolo degli oratori; l’anziano monsignore Antonio Silvestrelli è l’ultimo. Non è facile contare i collarini bianchi dei preti. Gelli ha scritto il codice etico e addirittura disegnato il simbolo dell’associazione: una sfera tagliata da cerchi concentrici su sfondo azzurro, una croce nera avvolta in una stretta di mano, quattro frecce ai bordi. Il Venerabile è nella sua Villa Wanda sulle colline di Arezzo: “Questa è la mia nuova battaglia - spiega al Fatto Quotidiano - e il colore scelto per il simbolo rimanda al mare, al cielo e al grembiule della Madonna, il resto a San Francesco e le frecce rappresentano i punti cardinali”.
L’età avanzata ha impedito a Gelli di officiare la cerimonia in una sala moderna, affollata di uomini e donne vestiti con abiti scuri da sera nel caldo di mezzogiorno. Un amico di Gelli ha rimpianto l’assenza del Venerabile, criticando “la gestione troppo rude della cerimonia del costruttore Mezzaroma”. Accenti che si mescolano, spillette che si confondono. Segni, simboli, messaggi più o meno occulti, più o meno massonici. Il secondo capitolo di uno Statuto suggellato da Gelli, più che a un piano di rinascita nazionale, somiglia a una crociata pop: difendere, coinvolgere, riconoscere.
“Medic vuole far emergere - declama Mezzaroma - le radici giudaico-cristiane del mondo occidentale e promuovere il significato autentico del crocifisso quale simbolo condiviso di amore assoluto; nasce con l’ambizione di essere un movimento trasversale, che raccoglie non solo cattolici ma anche ebrei, musulmani, atei, convinti che la croce abbraccia l’umanità intera”. Quasi un comizio, senza leggere, e un po’ fuori dal protocollo per un evento mondano in pieno giorno.
L’imprenditore Mezzaroma, ex europarlamentare di Forza Italia, è stato nominato segretario generale del Medic in una riunione a Villa Wanda che, diretta come è logico da Gelli, ha indicato presidente onoraria la duchessa d’Aosta, Silvia Paternò, dei marchesi di Regiovanni , dei conti di Prades, dei baroni di Spedalotto, appartenente al Sovrano Militare Ordine di Malta .
Una roba da far impallidire la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare di fantozziana memoria. Araldica pesante, insomma, tanto che “siamo già in 500: faccio politica per passione, sono iscritto al Pdl; stimo tantissimo Gel-li, ma non mi confido al telefono con nessuno” e attacca la cornetta Mezzaroma, contattato all’ultima forchettata di un banchetto fastoso. Il costruttore romano è un fan della prim’ora dei Circoli del buon governo di quel Marcello dell’Utri appena condannato a 7 anni in appello per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ex romanista parente di Lotito
Ex europarlamentare, responsabile del dipartimento “lotta alla povertà” del partito ai tempi di Forza Italia, Mezzaroma è lo zio della moglie di Claudio Lotito. Nel 2005 diventò il secondo azionista della Lazio vantandosi di “aver già salvato la Roma nel 1992 assieme ai miei fratelli, perché bisogna costruire non demolire”. E detto da lui vale un capitale, perché di cemento se ne intende. L’avventura con la Lazio è costata una condanna a un anno e 8 mesi, per un accordo definito “interpositorio” che permise a Mezzaroma di acquistare il 14,61% delle azioni biancocelesti di fatto per conto di Lotito, in modo da nascondere la titolarità del pacchetto completo con cui lo stesso Lotito avrebbe poi lanciato l’Opa. Aggiotaggio e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza, per Lotito la condanna è di due anni.
Tra i padrini chiamati a battezzare il Medic, c’era anche monsignor Alberto Silvestrelli: un alto prelato che risponde all’invito di Licio Gelli. Esponente del governo Vaticano con l’incarico di sottosegretario alla Congregazione per il clero, oltre ad essere giudice di appello del Vicariato di Roma (il tribunale dei preti) e commissario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, si occupa di sociale: alcolismo e disabili. Ai tempi della gestione Ratzinger, monsignor Silvestrelli ha ricoperto incarichi anche nella Congregazione per la dottrina della fede, la moderna Inquisizione.
Il consigliere regionale (Lazio) Olimpia Tarzia, altra commensale, vanta un ampio curriculum tra fede e politica: fondatore (e segretario generale dal ‘97 al 2006) del Movimento per la vita, il cui successo più importante è stato il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita nel 2005. “Il crocifisso - ha affermato Tarzia - è simbolo di vita: si invoca lo Stato laico, ma lo Stato laico come democratico difende i diritti umani e il primodiquestidirittièquelloalla vita”.IlMedicèprontoadifendere il crocifisso “anche con azioni forti, a promuovere un referendum che rimetta al popolo italiano la decisione di continuare a riconoscersi in quei valori che hanno delineato i confini culturali e spirituali dell’Italia e dell’Europa”. A quei valori che affascinano Licio Gelli.
Fisichella: l’intervento dei vescovi era necessario
intervista a Rino Fisichella
a cura di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 30 marzo 2010)
L’indicazione della Cei per la difesa della vita, i principi «antropologici» che fondano quelli sociali e quindi sono una discriminante nel voto dei cattolici, l’aborto «crimine incommensurabile», le parole del cardinale Bagnasco riprese con evidenza dai media vaticani. E tutti a pensare a Emma Bonino.
Eccellenza, per la Chiesa non è stato rischioso esporsi così?
«Vede, noi siamo abituati a rispettare il consenso elettorale, sia che riguardi elezioni amministrative o politiche sia che si tratti di un referendum. Se fossero tutti abituati come noi al rispetto delle regole, potremmo vivere tempi migliori...».
A tarda sera l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente della pontificia Accademia per la vita, considera sereno l’andamento dello spoglio. Quello che la Chiesa doveva dire, l’ha detto.
«Noi lavoriamo con un criterio che non si ferma alla politica, ai partiti: e richiede un impegno diretto nella società, secondo quel principio di sussidiarietà che ci sta particolarmente caro».
Che la Chiesa fosse preoccupata per Emma Bonino, non è un mistero.
«Qui non si tratta di esprimere un giudizio su questo o quel candidato. Ma se una candidatura è all’opposto di quelli che sono i valori fondamentali del Cristianesimo, anzitutto il rispetto della vita nascente e del suo termine naturale...».
Non sono temi astratti, rispetto al ruolo delle Regioni?
«Macché, non è vero: le Regioni hanno un’autonomia reale, legislativa, che determina anche la politica delle strutture sanitarie, oltre alla formazione scolastica».
Si può pensare a un’astensione di parte dei cattolici del Pd?
«Quando i numeri dell’astensionismo sono così rilevanti, è ovvio pensare che ci sia stata anche un’insoddisfazione dei cattolici: da una parte dipende dalla radicalizzazione bipolarista e dall’altra, certo, anche al fatto che i candidati scelti non sempre corrispondono ai valori fondamentali di un cristiano. Comunque, mi sembra importante far notare una cosa...».
Quale?
«I cattolici in queste elezioni hanno una presenza determinante, come nel caso di Formigoni o Cota, e questo vale anche quando non si presentano con gli schieramenti principali: penso ad esempio ai risultati qualificanti di Paola Binetti o di Magdi Cristiano Allam. Sono dati che fanno comprendere l’impegno costante del mondo cattolico».
Non avete messo in difficoltà una parte del mondo cattolico?
«Nel periodo elettorale c’è stata grande confusione, sia per motivi tecnico-amministrativi sia per ragioni valoriali. Per questo era ancor più necessario che i vescovi intervenissero. Siamo in una società libera e democratica. E quando sono in gioco valori fondamentali, non solo per i cattolici, è inevitabile che la voce dei vescovi si faccia sentire, come sempre chiara e convincente». Al Nord trionfa la Lega, in Veneto ha percentuali da Dc.
Per la Chiesa, ci possono essere problemi su temi come l’immigrazione?
«Anzitutto credo che dobbiamo prendere atto dell’affermarsi della Lega, della sua presenza ormai più che ventennale in Parlamento, di un radicamento nel territorio che le permette di sentire più direttamente alcuni problemi presenti nel tessuto sociale. Quanto ai problemi etici, mi pare che manifesti una piena condivisione con il pensiero della Chiesa. Sull’immigrazione, bisognerà essere capaci di saper coniugare le esigenze dei cittadini e quelle del mondo del lavoro: sapendo che non possiamo considerare gli immigrati come merce lavoro, che esiste un dignità della persona che va rispettata, e che la Chiesa d’altra parte non potrà mai non andare incontro a una richiesta di legalità. Il nostro criterio è dialogare e rispettare il voto dei cittadini».
Ma parlare di principi «non negoziabili», in politica, non è una contraddizione in termini?
«Noi non parliamo di principi non negoziabili in politica, ma a livello di istanza etica. La politica vive di una laicità propria, fatta di indipendenza dal mondo confessionale e religioso. Ma questo non significa indipendenza dai principi etici. Anche il legislatore deve richiamarsi a principi che hanno il loro fondamento nella legge naturale: che non è un’invenzione cattolica, ne parlava anche Cicerone e prima di lui i greci. Tutti siamo chiamati a rispettarla, per non permettere mai che prevalga l’arroganza del più forte sul più debole».
L’arbitro
Se l’Italia fosse un Paese normale, i risultati delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo sarebbero risultati normali: in un sistema seccamente bipolare, come quello che fa le fortune della destra italiana, un risultato di 7 regioni all’opposizione e 6 alla maggioranza sarebbe un risultato ragionevole e abbastanza equilibrato; significherebbe che il centro-destra conserva, sia pure di misura, i consensi per governare e il centro-sinistra è ancora in grado di candidarsi al potere; che il governo ha passato senza danni e senza gloria la strettoia delle elezioni “di mezzo termine” e può tranquillamente continuare a lavorare per altri tre anni; che sul risultato del voto hanno pesato non solo gli schieramenti nazionali, ma anche la qualità delle persone, che spesso ha fatto la differenza, come Vendola in Puglia che il centro-sinistra nemmeno voleva, come Renata Polverini nel Lazio che ha commosso e persuaso con la sua limpida figura femminile ed operaia, come Emma Bonino ingiustamente abbattuta dal diktat dei vescovi, come De Luca e Loiero contro cui ha votato (o non votato) mezzo elettorato di sinistra in Campania e in Calabria, come Formigoni a Milano che Comunione e Liberazione sembra aver deputato al potere per sempre.
Ma l’Italia non è un Paese normale, e perciò i risultati elettorali si prestano anche ad altre, più allarmate letture. Il Paese non ha colto quest’occasione per salvarsi dal dominio incondizionato di Berlusconi, che in forza di un diritto proprietario interpretato alla latina, esercita il potere di “usarne ed abusarne” a suo piacimento; e anche se il rimedio era a portata di mano, ha preferito rimanere sotto schiaffo della violenza contro le istituzioni che Berlusconi e la sua corte scatenano ogni giorno nel loro anarchico o sovversivo estremismo; lo scorato se non disperato astensionismo ha contribuito a questo esito.
Tuttavia Berlusconi resta al potere per il gioco di fattori che sono ormai del tutto estranei alla sua effettiva capacità di controllo. Non ha più la forza di un partito che “per amore” doveva inglobare in sé più della metà, se non tutti gli Italiani: questo suo partito personale è uscito a pezzi dalle urne (ha perso sei punti, cioè milioni di voti, rispetto alle politiche), spesso superato nel Nord dalla Lega, aborrito da Casini e quasi ripudiato da Fini. Non ha più il fascino del leader, perché la sua immagine privata e pubblica si è irrimediabilmente rotta, e nemmeno lui deve essere molto contento quando la mattina mette la sua faccia, cipria o non cipria, davanti allo specchio. Ha perso la sua lucidità perché in odio a Santoro e a Floris, ad Anno zero e Ballarò, ha dovuto rinunciare a Vespa e a Porta a porta, scatenando uno tsunami di opinione contro di lui, e ha dovuto rimediare con una “totale immersione” in TV facendo tutto da solo, per vincere il suo personale “referendum”. Ha finto un’intimità che non ha con gli Italiani, mandando loro per posta venti milioni di lettere chiamandoli grottescamente uno per uno per nome. Ha continuato a magnificare come opera del regime la ricostruzione all’Aquila, quando la città, materia ormai”inerte”, giaceva sbriciolata nelle carriole trascinate a forza dai suoi esuli abitanti. Ha tentato il dialogo diretto con la folla a San Giovanni e l’ha fatta giurare, offrendosi come paradigma di un nuovo regime assoluto in cui corpo mistico del sovrano e corpo politico del popolo si identificano, ed è bastato il confronto con Mussolini a piazza Venezia perché la cosa finisse nel ridicolo.
Se questo premier che il mondo ci invidia resta al potere, è perché la sinistra è in stato di confusione mentale, e perché dietro a lui si è alzato un arbitro, che ancora non fischia il rigore e che detta le regole del gioco. Questo arbitro è Bossi, come ha detto egli stesso di sé la sera della vittoria; e Bossi è oggi un uomo di poche, ma decisive parole. Arbitro e allenatore insieme, l’unica cosa che vuole è il “federalismo”, che una volta si chiamava secessione, e che i suoi giornali chiamano “la Padania”. Da vero politico, il capo della Lega Nord si è insinuato nelle pieghe del sistema bipolare, ma non perché voglia due partiti o due schieramenti politici, ma perché vuole due Italie, quella delle regioni ricche e quella delle regioni povere, e vuole due “proletariati”, quello degli italiani e quello degli stranieri, dei nativi e dei migranti, degli sfruttati e degli sfruttatori; due poli, geografici e sociali, uno dei quali deve innalzarsi e dominare sull’altro.
Quando Bossi cominciò, si è irriso, lo si è chiamato “folklore”. Come è stato ricordato nell’occasione, D’Alema tentò di annetterselo, come “una costola della sinistra”. Ora Bossi presenta il conto, ed è la divisione sociale ed etnica, la balcanizzazione. Se lo permetteremo.
Raniero La Valle
La bandiera vaticana
di ADRIANO PROSPERI
Le elezioni sono alle porte e la Chiesa italiana ha parlato: o meglio, ha parlato la Cei per bocca del cardinal Bagnasco. La precisazione è d’obbligo: è possibile che una sola voce riesca ad esprimere la quantità e la qualità delle posizioni che si muovono nella realtà del mondo cattolico?
Ci si chiede anche se le elezioni amministrative siano un’occasione di tale importanza da imporre che si levi in modo speciale la voce di un’autorità morale e spirituale come la Chiesa nella sua espressione gerarchica, obbligata dalla sua stessa natura a essere al di sopra delle parti . E non intendiamo levare la pur sacrosanta protesta di chi chiede che le autorità ecclesiastiche si astengano dalla lotta politica: anche se si potrebbe - e forse si dovrebbe, visti i tempi - ricordare ai vescovi che ci sono tante occasioni di urgenze grosse e di scandali clamorosi davanti ai quali la loro voce dovrebbe trovare il coraggio di levarsi. Lo stato morale del Paese è disastroso. C’è una corruzione che ha invaso - partendo dall’alto - anche i più remoti angoli dove si dà esercizio del potere. È cosa recentissima la pubblicazione del rapporto annuale dell’agenzia internazionale per il monitoraggio dello stato dei diritti umani nel mondo: e lì abbiamo letto note ben poco confortanti per il nostro Paese. Che cosa può fare un vescovo in questa situazione?
I modelli di vescovi che hanno saputo affrontare senza paura i potenti per esercitare il loro compito di pastori di anime e di guide di coscienze non mancano certo nella millenaria storia della Chiesa: il gesto di ripulsa e di condanna di Sant’Ambrogio davanti all’imperatore Teodosio fondò il diritto del vescovo di Milano a guidare il suo popolo. Non sono più tempi così drammatici, penserà qualcuno. Eppure l’appello del cardinal Bagnasco ha un tono di una certa drammaticità. Anche se nel suo discorso sono stati toccati diversi problemi, nella sostanza uno domina su tutti gli altri. Gli elettori sono stati invitati a seguire nella scelta elettorale la bussola della questione dell’aborto.
Ora, la domanda che si pone è se questo è veramente il problema dei problemi, quello per cui sta o cade la società. Si dice che questa funzione è quella che prima di tutte le altre appartiene alla Chiesa: la difesa della vita. Bandiera nobile, se altre ce ne sono. La vita umana va difesa. Su questo siamo tutti d’accordo. Ma allora bisogna essere conseguenti e andare fino in fondo. Prendiamo un caso: sono passati appena pochi giorni da un episodio gravissimo: una madre ha partorito in una stazione di sport invernali dove lavorava, sulla neve dell’Abetone. Aveva un permesso di soggiorno legato al suo posto di lavoro. Ha nascosto il parto, il neonato è morto soffocato. Un’immigrata non può avere figli senza rischiare di perdere il lavoro: è l’effetto di una legge approvata da un governo di centrodestra che si vanta di avere il consenso degli italiani. E l’appoggio della Chiesa a questo governo produce ogni giorno effetti devastanti.
Noi non sappiamo quanti siano gli aborti clandestini che si praticano in Italia. Fu per affrontare la piaga dell’aborto clandestino che fu varata la legge 194. E l’effetto si è visto. Era un modo civile di affrontare una piaga antica, ben nota alle autorità ecclesiastiche. Per secoli l’arma della scomunica non ha impedito che nel segreto delle famiglie si eliminassero i figli indesiderati laddove le ferree catene del bisogno imponevano di non aumentare le bocche e di non avere figlie femmine. Allora la scomunica non colpiva i colpevoli della iniqua distribuzione delle risorse. E ancora oggi la condanna ecclesiastica non colpisce coloro che hanno varato quella legge che provoca lutti e dolori, che impedisce alle donne immigrate di avere figli. Né colpisce le forze politiche che non hanno a cuore la tutela della famiglia e che dedicano tutta la loro forza a sottrarre alla legge un presidente del Consiglio invece di varare una riforma fiscale che introduca il quoziente famiglia. Invece basta un normale appuntamento elettorale perché si ripeta ancora lo stanco spettacolo di un’autorità ecclesiastica che si schiera a favore di una parte politica contro un’altra. È un rito vecchio, logorato dall’uso, ripetitivo, facilmente decifrabile. Siamo a una scadenza elettorale resa inquieta dal silenzio della televisione di Stato, assurdamente determinata a lasciare i cittadini in una condizione di dubbio e di perplessità. Sono semplici elezioni amministrative. Non è in gioco la sorte del governo. Si tratta di scegliere i candidati più credibili per affidare loro l’amministrazione di regioni e città. Ci aspettavamo di essere messi in grado di scegliere serenamente sulla base dei profili dei candidati e del contenuto dei loro programmi. Ma di programmi è stato molto difficile parlare.
Il confronto è stato oscurato dall’episodio della clamorosa incapacità del più potente partito italiano di mettere insieme una lista di candidati e di farla pervenire alla scadenza dovuta davanti all’ufficio competente. Una manifestazione di piazza ha costruito lo spettacolo televisivo per raggiungere in un colpo solo tutti gli elettori. Ma forse anche questo spettacolo rischiava di non essere efficace. E allora, che altro si poteva fare per dare una mano al Pdl e combattere la candidatura di Emma Bonino nel Lazio?
© la Repubblica, 23 marzo 2010
Il Papa il potere e il veleno dei cardinali
di Vito Mancuso (la Repubblica, 4 febbraio 2010)
Sarà vero che il documento calunnioso sul direttore di Avvenire è stato consegnato al direttore del Giornale niente di meno che da Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, dietro esplicito mandato del Segretario di Stato vaticano cardinale Bertone, numero due della gerarchia cattolica a livello mondiale? E che l’insigne porporato si è servito di Vian e di Feltri per colpire il direttore di Avvenire in quanto espressione di una Conferenza Episcopale Italiana a suo avviso troppo indipendente e troppo politicamente equidistante? E che quindi il vero bersaglio del cardinal Bertone era il collega e confratello cardinal Bagnasco? Sarà vera la notizia di questo complotto intraecclesiale degno di papa Borgia e di sua figlia Lucrezia?
Come cattolico spero di no, ma come conoscitore di un po’ di storia e di cronaca della Chiesa temo di sì. Del resto fu l’allora cardinal Ratzinger, poco prima di essere eletto papa, a parlare di "sporcizia" all’interno della Chiesa (25 marzo 2005). Qualcuno in questi cinque anni l’ha visto fare pulizia? Direi di no, e forse non a caso proprio ieri egli ha parlato di «tentazione della carriera, del potere, da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di governo nella Chiesa». Quindi è lecito pensare che la sporcizia denunciata dal Papa abbia potuto produrre l’abbondante dose di spazzatura morale di cui ora forse veniamo a conoscenza.
Naturalmente come siano andate davvero le cose è dovere morale dei diretti interessati chiarirlo. Con una precisa consapevolezza: che gli storici un giorno indagheranno e ricostruiranno la verità, la quale alla fine emerge sempre, chiara e splendente, perché non c’è nulla di più forte della verità. Le bugie hanno le gambe corte, dice il proverbio, e questo per fortuna vale anche per il foro ecclesiastico. Siamo in un mondo che è preda di una devastante crisi morale. Le anime dei giovani sono aggredite dalla nebbia del nichilismo. Parole come bene, verità, giustizia, amore, fedeltà, appaiono a un numero crescente di persone solo ingenue illusioni.
La missione morale e spirituale della Chiesa è più urgente che mai. E invece che cosa succede? Succede che la gerarchia della Chiesa pensa solo a se stessa come una qualunque altra lobby di potere, e come una qualunque altra lobby è dilaniata da lotte fratricide all’interno. Certo, nulla di nuovo alla luce dei duemila anni di storia e di certo nessun cattolico sta svenendo disilluso. Rimane però il problema principale, e cioè che oggi, molto più di ieri, il criterio decisivo per fare carriera all’interno della Chiesa non è la spiritualità e la nobiltà d’animo ma il servilismo, e che la dote principale richiesta al futuro dirigente ecclesiastico non è lo spirito di profezia e l’ardore della carità, ma l’obbedienza all’autorità sempre e comunque.
Eccoci dunque al tipo umano che emerge dalle cronache di questi giorni: il cosiddetto "uomo di Chiesa". È la presenza sempre più massiccia di persone così ai vertici della Chiesa che mi rende propenso a credere che le accuse alla coppia Bertone-Vian siano fondate. Impossibile però non vedere che nella storia ecclesiastica misfatti di questo genere contro gli elementari principi della morale ne sono avvenuti in quantità. Anzi, che cosa sarà mai un foglietto calunnioso passato al direttore di un giornale laico per far fuori il direttore del giornale cattolico, rispetto alle torture e ai morti dell’Inquisizione? È noto che il potere temporale dei papi si è basato per secoli su un documento falso quale la Donazione di Costantino, attribuito all’imperatore romano e invece redatto qualche secolo dopo dalla cancelleria papale.
Che cosa concludere allora? Che è tutto un imbroglio? No, il messaggio dell’amore universale per il quale Gesù ha dato la vita non è un imbroglio. L’imbroglio e gli imbroglioni sono coloro che lo sfruttano per la loro sete di potere, per la quale hanno costruito una teologia secondo cui credere in Gesù significa obbedire sempre e comunque alla Chiesa. Secondo l’impostazione cattolico-romana venutasi a creare soprattutto a partire dal concilio di Trento la mediazione della struttura ecclesiastica è il criterio decisivo del credere. Lo esemplificano al meglio queste parole di Ignazio di Loyola rivolte a chi «vuole essere un buon figlio della Chiesa»: «Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica». Ne viene che il baricentro spirituale dell’uomo di Chiesa non è nella propria coscienza, ma fuori di sé, nella gerarchia. I "principi non negoziabili" non sono dentro di lui ma nel volere dei superiori, e se gli si ordina di scrivere la falsa donazione di Costantino egli lo fa, e se gli si ordina di torturare gli eretici egli lo fa, e se gli si ordina di appiccare il fuoco alle fascine per il rogo egli lo fa, e se gli si ordina di passare un documento falso egli lo fa. Ecco l’uomo di Chiesa voluto e utilizzato da una certa gerarchia.
È questa la sporcizia a cui si riferiva il cardinal Ratzinger nel venerdì santo del 2005? È questo il carrierismo denunciato ieri da Benedetto XVI? Il messaggio di Gesù però è troppo importante per farselo rovinare da qualche personaggio assetato di potere della nomenklatura vaticana. Una fede matura sa distaccarsi dall’obbedienza incondizionata alla gerarchia e se vede bianco dirà sempre che è bianco, anche se è stato stabilito che è nero. Né si presterà mai a intrighi di sorta "per il bene della Chiesa". La vera Chiesa infatti è molto più grande del Vaticano e dei suoi dirigenti, è l’Ecclesia ab Abel, cioè esistente a partire da Abele in quanto comunità dei giusti. In questa Chiesa quello che conta è la purezza del cuore, mentre non serve a nulla portare sulla testa curiosi copricapo tondeggianti, viola, rossi o bianchi che siano.
Roma sfida l’Europa per difendere il crocifisso
di il manifesto (il manifesto, 22 gennaio 2010)
Galeotto, probabilmente, fu l’incontro nel pieno delle polemiche sull’approvazione del processo breve al Senato tra il premier Silvio Berlusconi e l’ex capo dei vescovi italiani Camillo Ruini avvenuto proprio l’altro ieri. Fatto sta che ieri mattina il «gran visir» Gianni Letta ha dato l’annuncio, in occasione della presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia»: «Il ricorso italiano contro la sentenza della Corte di Strasburgo sull’esposizione dei crocifissi nei luoghi pubblici è pronto - ha spiegato - proprio stamane c’è stato un incontro alla Farnesina per mettere a punto gli ultimi dettagli».
Nella cornice dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede, Letta ha definito la decisione della Corte di Strasburgo «il grave torto», e ha aggiunto: «Abbiamo fiducia che il nostro ricorso possa trovare accoglimento, anche perché sono molti i paesi europei che stanno venendo sempre più numerosi a sostegno dell’azione italiana». Presto dunque al Consiglio d’Europa andrà in onda l’ennesima puntata della lunga saga sul crocifisso.
La Corte, pochi mesi fa, aveva accolto il ricorso di una cittadina italiana di origini finlandesi Soile Lautsi che da quasi dieci anni si batte perché nelle aule scolastiche non sia esposto il crocifisso. Secondo i magistrati del Consiglio d’Europa, con sentenza emessa all’unanimità, la presenza del crocifisso in classe condiziona l’educazione degli studenti che possono interpretarlo come simbolo di una religione ufficiale. E, riscontrando la violazione degli articoli della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo riguardanti i diritti all’istruzione e alla libertà di pensiero, coscienza e religione, la Corte ha condannato l’Italia a risarcire con cinquemila euro la Lautsi per danni morali.
Sin da subito il governo si è schierato contro la decisione della Corte europea, promettendo di fare ricorso. Ma poi non se ne aveva più avuto notizia. Ieri, l’annuncio del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Letta, che parla a poche ore dall’incontro tra il premier e Ruini.
L’approvazione della Chiesa non si è fatta attendere: «Quella del governo italiano è un’iniziativa da apprezzare e da lodare», ha detto il presidente della Cei Angelo Bagnasco. «La sentenza - ha aggiunto il cardinale - veramente va contro non solo all’oggettività della storia europea ma anche al sentire popolare, della gente».
L’inciucio
È cosa non buona e ingiusta
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 20.12.2009)
Ho letto con molto interesse l’articolo del nostro collaboratore Alexander Stille (figlio di tanto padre) pubblicato venerdì scorso su Repubblica. Spiega perché chi si opponga alla politica del Pdl non può che concentrare le sue critiche su Silvio Berlusconi. Non è questione di distinguere la parola "nemico" dalla parola "avversario", la parola "odio" dalla parola "opposizione". Su queste differenze lessicali potremmo (inutilmente) discutere per pagine e pagine senza cavarne alcun risultato, come pure potremmo discutere sulla personalizzazione degli scontri politici in altri paesi.
Negli Stati Uniti per esempio lo scontro personalizzato è una prassi durissima e assolutamente normale. Basta ricordare (ed è appena un anno fa) la polemica senza esclusione di colpi tra Obama e Hillary Clinton durante le primarie, quella tra Gore e Bush nella corsa alla Casa Bianca, la campagna dei giornali che portò alle dimissioni di Nixon e Bill Clinton ad un passo dall’"impeachment" all’epoca dello scandalo Lewinsky.
Eppure in nessuno di quei casi i protagonisti avevano mai personalizzato su di sé il partito o la parte politica che rappresentavano come è avvenuto per Silvio Berlusconi. Ma chi lo ha detto meglio di tutti e con maggiore attendibilità è stato Denis Verdini. Il suo non è un nome molto noto, eppure si tratta d’un personaggio di primissimo piano: è il segretario del Pdl, il numero uno dei tre coordinatori di quel partito e soprattutto il co-fondatore di Forza Italia.
Quando Berlusconi decise di scendere in campo nell’autunno del 1993, affidò la costruzione del partito ai due capi di Publitalia, la società che raccoglieva la pubblicità per il gruppo Fininvest, nelle persone di Dell’Utri e di Verdini. Il primo è da tempo distratto da altri affanni; Verdini è invece nel pieno del suo impegno politico.
Nell’articolo pubblicato dal Giornale il 18 dicembre Verdini elenca gli obiettivi che il Pdl si propone di realizzare nei prossimi mesi e descrive come meglio non si potrebbe il ruolo di Berlusconi. «Lui ha costruito la figura del leader moderno - scrive Verdini - anzi ha costruito la leadership come istituzione. Per affrontarlo anche gli altri partiti dovranno affidarsi ad una leadership e se non riusciranno a farlo saranno sempre sconfitti. Ma anche i "media" non potranno esimersi dal concentrare sul leader la loro attenzione se vorranno cogliere il vero significato di quanto accade».
Segue l’elenco degli obiettivi: smontare la Costituzione e adeguarla alla Costituzione materiale; cambiare il sistema di elezione del Csm e quello della Corte costituzionale; riformare la giustizia separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei giudicanti; concentrare nella figura del premier tutti i poteri dell’Esecutivo e sancire che tutti gli altri poteri siano tenuti a collaborare lealmente con lui perché lui solo è l’eletto del popolo e quindi investito della sovranità che dal popolo emana.
Quest’articolo è infinitamente più preoccupante delle esagitate denunce e liste di proscrizione lanciate da Cicchitto in Parlamento, da Feltri e da Belpietro sui loro giornali e dai vari "pasdaran" del berlusconismo di assalto. Verdini l’ha scritto il 18 dicembre quando già Berlusconi era tornato ad Arcore ed aveva avviato la politica del dialogo con l’opposizione. Esso contiene dunque con lodevole chiarezza le condizioni di quel dialogo, con l’ovvio preliminare che essi comportano e cioè il salvacondotto in piena regola riguardante i processi del premier. Da qui dunque bisogna partire, tutto il resto è pura chiacchiera.
* * *
I giornali di ieri hanno dato notevole risalto alla battuta di D’Alema sull’utilità ed anzi la necessità, in certi momenti della vita politica, di far ricorso agli "inciuci". La parola "inciucio" denomina un compromesso malandrino tra parti politiche avversarie, un compromesso sporco e seminascosto che contiene segrete pattuizioni e segreti benefici per i contraenti, nascosti al popolo-bue.
Per esemplificare la sua battuta sull’utilità dell’inciucio D’Alema ha citato la decisione di Togliatti di votare, nell’Assemblea costituente del 1947, per l’inclusione del Concordato nella Costituzione italiana. Ma l’esempio è stato scelto a sproposito: la costituzionalizzazione del Concordato tra lo Stato e la Chiesa non fu affatto un inciucio ma un trasparente atto politico con il quale il Pci, distinguendosi dal Partito socialista e dal Partito d’azione, dichiarò la sua contrarietà a mantenere viva una contrapposizione tra laici e cattolici.
Si può non concordare con quella posizione; del resto la sinistra ha sempre privilegiato le lotte sociali rispetto alle cosiddette libertà borghesi, iscrivendo tra queste anche la laicità che non fu mai un cavallo di battaglia del Pci. Si può non condividere ma, lo ripeto, l’inciucio è tutt’altra cosa e D’Alema lo sa benissimo.
Credo di sapere perché D’Alema ha scelto di usare quel termine così peggiorativo: vuole stupire, gli piace esser citato dai "media", è una civetteria di chi, essendo molto sicuro di sé, sfida e provoca e si diverte.
È fatto così Massimo D’Alema. I compromessi gli piace descriverli, teorizzarli, talvolta anche tentarne la realizzazione, annusarne il cattivo odore, sicuro che se gli riuscisse di farli sarebbe comunque lui a guidarli verso l’utilità generale perché lui è più bravo degli altri. In realtà non è riuscito a metterne in pista nessuno. Ma la sua provocazione ha suscitato preoccupazioni nel suo partito e parecchie reazioni. Si è dovuto parlare di lui per l’ennesima volta. Sarà contento perché era appunto ciò che voleva.
I suoi contraddittori hanno deciso che bisognerà spostare il tiro sui problemi economici ai quali il governo ha dedicato pochissima attenzione. Sarà su di essi che si svolgerà il grande confronto tra la sinistra e la destra.
È vero, il governo non ha fatto nulla, la nostra "exit strategy" dalla crisi è del tutto inesistente e farà bene l’opposizione e il Pd a darsene carico, ma il centro dello scontro non sarà questo. Il centro dello scontro l’ha indicato Verdini, sarà sullo smantellamento della Costituzione. Sul passaggio dallo Stato di diritto allo Stato autoritario.
* * *
Berlusconi vuole il dialogo. Che cosa vuol dire dialogo? Lo spiega quasi ogni giorno sul Foglio Giuliano Ferrara. Lo spiegano gli editorialisti terzisti "ad adiuvandum": dialogo vuol dire mettersi d’accordo sul percorso da seguire e poi attuarlo con leale fedeltà a quanto pattuito. Insomma un disarmo. Unilaterale o bilaterale? Vediamo.
Berlusconi chiede: la legge sul legittimo impedimento come strumento-ponte che lo metta al riparo fino al lodo Alfano attuato con legge costituzionale; rottura immediata tra Pd e Di Pietro; riforme costituzionali e istituzionali secondo lo schema Verdini. In contropartita Berlusconi promette di parcheggiare su un binario morto la legge sul processo breve e di "riconoscere" il Pd come la sola forma di opposizione. Va aggiunto che Berlusconi non pretende che il Pd voti a favore della legge sul legittimo impedimento; vuole soltanto che essa non sia considerata dal Pd come un ostacolo all’accordo sulle riforme.
Vi sembra un disarmo bilaterale? Chiaramente non lo è. Chiaramente sarebbe un inciucio di pessimo odore.
In una Repubblica parlamentare il dialogo si svolge quotidianamente in Parlamento. Le forze politiche presentano progetti di legge, il governo presenta i propri, il Capo dello Stato vigila sulla loro costituzionalità, i presidenti delle Camere sulla ricevibilità di procedure ed emendamenti nonché sul calendario dei lavori badando che anche i progetti di legge formulati dall’opposizione approdino all’esame parlamentare.
Non si tratta dunque di un dialogo al riparo di occhi indiscreti ma d’un confronto aperto e pubblico, con tanto di verbalizzazione.
Quanto alla richiesta politica di rompere con Di Pietro, non può essere una condizione in vista di una legittimazione di cui il Pd non ha alcun bisogno e che la maggioranza non ha alcun titolo ad offrire. Come risponderebbe Berlusconi se Bersani gli chiedesse di rompere con la Lega? Che non è meno indigesta di Di Pietro ad un palato democraticamente sensibile ed anzi lo è ancora di più?
La conclusione non può dunque essere che l’appuntamento in Parlamento. Il punto sensibile è l’assalto alla Costituzione repubblicana. Ci sarà un referendum confermativo poiché sembra molto difficile una riforma condivisa. A meno che il premier non receda dai suoi propositi che, nella versione Verdini, sono decisamente eversivi. Uso questa parola non per odio verso chicchessia ma per amore verso lo Stato di diritto che è condizione preliminare della democrazia.
IN ITALIA L’UNICO LEGITTIMO PRESIDENTE DEGNO DI GRIDARE "FORZA ITALIA" E’ IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, GIORGIO NAPOLITANO. Chi lo ha fatto e continua a farlo illegalmente è solo un mentitore e un golpista!!!
Il voto di religione
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 15.10.2009)
Alla democrazia ci pensa il Cavaliere, alla religione ci pensa la ministra Gelmini. Una divisione dei compiti in un lavoro comune: marciare divisi e colpire uniti. La questione è la stessa. Non ci può essere un sistema di garanzia democratica dei diritti individuali dove non c’è libertà di religione. Norberto Bobbio ricordava spesso la passione con cui Francesco Ruffini, lo studioso dei diritti di libertà, tornava sul punto ricordando che storicamente e idealmente la libertà di religione è stata la madre di tutte le libertà. Ma qualcuno penserà che sia eccessivo allarmarsi per le intenzioni ribadite a ogni passo dalla ministra e stavolta aggravate dall’intenzione, dichiarata ieri all’VIII Giornata europea dei genitori e della scuola, di far presto concorrere alla pari con gli altri voti anche il voto sull’insegnamento della religione.
Si dirà che la libertà religiosa non è in pericolo nel nostro paese: la Costituzione ha accolto e ribadito questo diritto, in Italia accanto ai cattolici abbiamo anche noi i nostri protestanti, insediati storicamente nelle valli alpine dove resistettero nei secoli lontani agli eserciti sabaudi guidati da inquisitori e predicatori gesuiti. E ci sono tante minoranze religiose non cattoliche e non cristiane.
Ma l’attacco alla libertà di religione che sta minando passo dopo passo quelle affermazioni teoriche e quelle eredità storiche conquistate dalle minoranze è aperto e grave, svuota di contenuto il dettato costituzionale e impone in materia uno stato di fatto che viola il diritto scritto e poggia solo sulla prepotenza di un potere politico in cerca di favori vaticani.
Avviene insediando nella scuola pubblica, vera cittadella della democrazia, una religione dominante insegnata al di fuori del controllo pubblico da insegnanti a cui è richiesto solo il permesso del vescovo. Religione dominante ed esclusiva di fatto: sia perché manca la possibilità concreta di scegliere altri insegnamenti di altre confessioni cristiane o di altre religioni sia perché l’insegnante di cattolicesimo concorre alla formazione del giudizio conclusivo sul rendimento scolastico e - come la ministra adesso si impegna a garantire - disporrà di un vero voto di profitto, con lo stesso peso dell’insegnante di matematica o di inglese.
Si tratta di un attacco portato nel cuore di quella scuola pubblica alla quale hanno accesso tutti i cittadini italiani con tutte le differenze culturali e ideali che si portano dietro. A loro, quale che sia la loro base di partenza personale e familiare, quale che sia la loro volontà di aprirsi nella scuola e grazie alla scuola alla conoscenza del mondo, inclusi i grandi testi fondanti delle religioni dell’umanità dalla Bibbia al Corano, da Confucio a Budda, sarà impartita la visione cattolica del mondo da insegnanti direttamente formati e controllati dalla gerarchia cattolica. Insegnanti, si badi bene, che se perdono il permesso vescovile, passano nel ruolo di docenti di filosofia.
Filosofia a braccetto con la religione, dunque, non più col marxismo come denunciava anni fa una preoccupatissima Comunione e Liberazione. Certo, tra gli studenti ci saranno quelli che si asterranno dalle lezioni. Alcuni, una minoranza, rinunceranno eroicamente al voto aggiuntivo dell’insegnante, che alzerà la media dei loro compagni.
Ma, anche se l’opportunismo delle famiglie e la corruttibilità di giovani ancora incerti di se stessi non finiranno per avere la meglio, costoro resteranno confinati nel vuoto di una negazione, saranno i "non avvalenti", refrattari all’usignolo della Chiesa cattolica, ma incuriositi e attirati da quei grandi discorsi sul mistero di Dio che è in realtà il mistero che ogni uomo è per se stesso: e la loro refrattarietà sarà sterile, genererà un’inquietudine che potrà un giorno dare luogo a quella "conversione" che la sapienza secolare della Chiesa si aspetta e dalla quale ha raccolto storicamente grandi frutti, fin dai tempi di Sant’Agostino di Ippona.
Ma lasciamo che la Chiesa faccia i suoi calcoli e nutra le sue attese. Non è a lei, storicamente avversa alla democrazia e ai diritti di libertà, in lotta perenne col grande nemico, quell’Illuminismo definito "turpe" e "torvo" da autorevoli ecclesiastici, che si rivolge il pensiero del cittadino italiano ma allo stato: lo stato che svende i diritti sacrosanti dei cittadini, primo fra tutti quello alla libertà di coscienza e di religione, sul mercato dei consensi del clero. È vero che questo diritto è stato riconosciuto solennemente dai padri conciliari cattolici del Concilio Vaticano II.
Ma quando i concili si chiudono la parola torna alla Curia romana. E qui si ha l’impressione che l’aria che tira nei conflitti religiosi del mondo abbia riportato in auge un clima che sembrava tramontato. Viene in mente quello che disse papa Pio XI a Mussolini nell’incontro dell’11 febbraio 1933, che sancì le intese sull’educazione cattolica degli italiani: il totalitarismo fascista poteva andare d’accordo col "totalitarismo cattolico"; al primo il governo dei corpi, al secondo le anime. L’importante era affermare i principi di ordine, autorità, disciplina, contro il pericolo di una ragione individuale libera di decidere.
Eppure c’è stata tanta storia dopo di allora. C’è stata anche la crescita di un mondo cattolico italiano che si è mostrato spesso all’altezza degli appuntamenti culturali e politici del mondo moderno e ha contribuito fin dai tempi dell’assemblea costituente a garantire il rispetto dei diritti di tutti - l’unico modo per tutelare i deboli, le minoranze culturali e religiose e l’indifesa e ancor molle coscienza di bambini e di giovani. È dunque a chi, credente cattolico o diversamente credente, agnostico o ateo, crede però nel diritto di ognuno a elaborare in libertà le sue scelte nel contesto di un’offerta informativa e formativa libera e non coartata, che si rivolge l’appello a non tollerare questa nuova prepotenza, a non lasciar passare questo modo furbesco e prepotente di offrire privilegi a una sola religione e chiesa da parte di una classe di governo autoselezionata, in cambio dell’avallo di una politica che continua a scoraggiare e impoverire le famiglie, a colpire i dannati della terra, a strumentalizzare l’immagine e il corpo femminile, a esaltare miti e a proporre etiche diametralmente opposte a ogni autentica riflessione
Le due chiese e il principe
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 01.09.2009)
«Abbiamo dunque con la Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obligo: di essere diventati sanza religione e cattivi; ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa». Il tempo muta tutte le cose e non lascia niente com’era. Ma la realtà odierna, pur nelle nebbie che coprono ai nostri occhi i movimenti e i moventi reali, sembra offrire materiale adeguato per una verifica della diagnosi di Machiavelli.
Assistiamo oggi a un conflitto aperto e pubblico tra la coscienza morale del popolo cattolico italiano coi suoi preti e i suoi vescovi e le necessità strategiche della Chiesa come potere (quella che Machiavelli chiamava la Corte di Roma). Dalla parte dei primi è affiorato con toni sofferti il disagio davanti allo spettacolo di un potere senza freni e senza pudore.
Annunciatosi in sordina, cresciuto col brontolio di un tuono lontano, quel disagio è esploso nello scandalo e nella protesta: i corpi utilizzati per i piaceri e quelli condannati a sparire nel Mediterraneo hanno scatenato un moto di ripulsa e il quotidiano dei vescovi e della Chiesa italiana ha dovuto dargli espressione, sia pure con i toni smorzati della retorica ecclesiastica. Ci si chiedeva che cosa corrispondesse a quel disagio nell’ovattato silenzio dei palazzi vaticani. E già le cene progettate e le perdonanze estorte all’ombra di quel papa Celestino morto prigioniero di un altro Papa facevano intuire che la diplomazia della Chiesa-Potere si stava adoperando per coprire e sedare.
Forse un giorno i movimenti segreti della diplomazia saranno resi noti dagli storici. Ma non c’è stato bisogno di un appuntamento segreto come quello che ci fu tra il 19 e il 20 gennaio 1923 tra il cardinal Gasparri e il cavalier Mussolini per orientare la politica della comunicazione pubblica di parte vaticana e portare all’uscita di ieri del direttore dell’Osservatore Romano sul Corriere della Sera. Da quella intervista ricaviamo un giudizio severo: ma non sull’aggressione del quotidiano berlusconiano al dottor Boffo che il cardinal Bagnasco ha definito «disgustoso», bensì sulle critiche che il quotidiano diretto da Boffo aveva avanzato nei confronti del berlusconismo immorale.
E allora ci si chiede fino a che punto la marcia della Chiesa-Potere può accordarsi al cammino delle coscienze italiane. Per sfuggire all’emozione e all’ira di un ignobile, disgustoso scenario di primi piani - ma la politica non è roba da stomaci delicati, com’è noto - ricorriamo al campo lungo della storia. Ci soccorre un libro importante che finalmente riprende in esame la questione dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia in tutta la sua complessità e nell’intrico dei movimenti reali: lo ha scritto un valente storico, Roberto Pertici, lo pubblica per i tipi del Mulino il Senato della Repubblica (Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984)).
La storia è scienza difficile, richiede che le passioni tacciano e che lo sguardo acquisti la lucidità di chi può e vuole solo capire. Secondo Pertici è dalla Grande Guerra che si deve partire per comprendere perché la formula cavouriana del «libera Chiesa in libero Stato» sia stata accantonata per avviarsi sulla strada del concordato. Fu allora che il papato di Benedetto XV sottrasse la Chiesa cattolica al condizionamento degli Stati e fece della scelta di neutralità e della parola di pace il cuore della nuova posizione nel mondo che l’immane carneficina le offriva. Non le servivano più dei portavoce laici autorizzati né delle forze politiche confessionali. Di conseguenza lo stesso rapporto col Partito Popolare di don Sturzo e più avanti con la Democrazia Cristiana di De Gasperi non cancellarono più la volontà della Chiesa di perseguire la sua politica con un rapporto diretto coi governi. Nacque così la politica dei concordati. E l’atto con cui Togliatti nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1947 - un vero «luogo della memoria» nella storia dell’Italia repubblicana, come osserva Pertici - portò l’adesione non desiderata e non gradita del Partito Comunista all’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione nacque dalla coscienza della fragilità delle istituzioni del paese.
Togliatti ci tenne a dire pubblicamente a De Gasperi che aveva ben compreso un suo accenno al fatto che il nuovo regime italiano di tutto aveva bisogno fuorché di turbamenti alla pace religiosa. De Gasperi aveva letto pubblicamente la formula del giuramento concordatario col quale i vescovi si impegnavano a essere leali verso lo Stato italiano, a rispettare e a far rispettare dal clero il capo della repubblica e il governo costituzionale: e aveva concluso: «Amici, non siamo in Italia così solidificati, così cristallizzati nella forma del regime da poter rinunziare a simili impegni».
Questo lo scenario offerto dalla storia per affrontare la lettura del presente. Oggi niente è rimasto com’era nel paese Italia, un paese nei cui registri parrocchiali si leggeva allora molto spesso la qualifica di «miserabile», dove i mestieri più diffusi erano quelli di bracciante per gli uomini e di casalinga per le donne. Un abisso sociale divide oggi i nipoti dalla realtà di chi tornò allora vivo o morto dalla guerra. E tuttavia nemmeno oggi il regime è "cristallizzato", anzi. E la Chiesa fa la sua politica.
Nell’incontro segreto del 1923 maturò la politica che portò il governo Mussolini a reintrodurre la religione cattolica come materia da insegnare nelle scuole e a fare tutti i passi che portarono al Concordato. Oggi un partito che ieri vantava il suo paganesimo e adorava le acque del Po si offre come il vero partito cattolico: non ci stupiremo pensando all’ateo Mussolini che sfidava la folgore di Dio dal pulpito. Un altro «uomo della Provvidenza» tenta la strada del Vaticano. E forse oltre Tevere qualcuno starà valutando freddamente la sua credibilità come successore di un ormai imbarazzante - anche per loro - presidente del Consiglio.
Le intuizioni giuridiche del giovane Carlo Azeglio Ciampi al momento della laurea
C’è libertà per le minoranze religiose?
La «libertà concordataria» è ben lontana sia dalle posizioni dei teologi protestanti riuniti nel 1943 alle Giornate del Ciabas, sia di Piero Calamandrei... e puntuale arrivò il Concordato
di JEAN-JACQUES PEYRONEL (Riforma, n. 33, 04.09.2009)
«PERSONALMENTE mi riconoscevo in pieno nelle posizioni di Piero Calamandrei. Non sentivo contraddizione alcuna tra il sentimento religioso al quale ero stato educato in famiglia e a scuola (...) e la formazione laica vissuta negli anni della “Normale”»: così scrive Carlo Azeglio Ciampi nell’introduzione al libro* che pubblica la sua tesi di laurea in Giurisprudenza, sostenuta il 23 luglio 1946 a Pisa, su «La libertà delle minoranze religiose nel diritto ecclesiastico italiano».
Ora è noto che Calamandrei, costituente del Partito d’Azione, fu uno dei più tenaci oppositori all’art. 7 che costituzionalizzò i Patti Lateranensi. Nelle sue «note» sull’acceso dibattito della Costituente, Calamandrei scriveva tra l’altro: «Tutti gli oppositori (...) si rifiutavano di accettare una formula, la quale, venendo a dare ai Patti Lateranensi il carattere di vere e proprie norme costituzionali, avrebbe accolto nella costituzione repubblicana il principio dello Stato confessionale e della religione di Stato consacrato in quei Patti, in aperto contrasto coi principi della libertà di coscienza e della uguaglianza di tutte le religioni di fronte alla legge, proclamati in altri articoli della stessa costituzione».
La tesi di Ciampi, sostenuta otto mesi prima del voto sull’art. 7, parte da questa constatazione: «Mentre la proclamazione della religione dello Stato è solennemente fatta negli articoli 1 dello Statuto e del Trattato, il principio della libertà religiosa non trova nessuna esplicita affermazione del nostro diritto». Libertà religiosa che per lui va intesa come un «concetto giuridico» da distinguere «in due aspetti principali: libertà di coscienza e libertà di culto».
Nell’introduzione al libro, Francesco Margiotta Broglio rievoca il percorso del futuro presidente della Repubblica tra la guerra e gli studi giuridici, concludendo: «Ciampi non poteva sicuramente immaginare, nel luglio del ’46, che i costituenti avrebbero finito per adottare soluzioni pienamente compatibili con le formulazioni assai equilibrate da lui esposte nella dissertazione di laurea in giurisprudenza ».
Gianni Long invece, parlando della situazione degli ebrei e dei protestanti alla vigilia della Costituente in una «città aperta» come Livorno, che diede i natali a Ciampi, ricorda gli atteggiamenti ambivalenti del protestantesimo italiano su questo tema.
La legge sui culti ammessi del 1929, fortemente voluta da Mario Piacentini, ex cattolico sposato con una valdese delle Valli, «fu accolta con entusiasmo da tutti gli evangelici italiani», scrive, ma poi ci fu la «svolta dell’estate del 1943», alle Giornate del Ciabàs, in cui venne rivendicato il «principio della separazione nei rapporti tra chiesa e stato, come il regime nel quale meglio che in ogni altro, essa può svolgere la propria opera con quella libertà che le proviene dalla Parola di Dio», posizione ribadita in un manifesto del Consiglio federale delle chiese evangeliche del 2 giugno 1946, in cui «si enunciavano tre punti: la piena e completa libertà di coscienza e di religione; l’assoluta indipendenza di tutte le chiese dallo Stato; la neutralità religiosa, cioè “l’imparzialità dello Stato, non confessionale e libero da ogni ingerenza ecclesiastica” ». Infine, Long ricorda che le «intese» previste all’art. 8 «non erano volute né dagli ebrei (...) né dai protestanti, legati al principio del diritto comune».
In appendice, Francesco Paolo Casavola, ex Presidente della Corte costituzionale, riflettendo su «Lo Stato tra confessione e laicità», afferma che fu «paradossalmente, il richiamo protestantico alla libertà della coscienza» a richiedere «il soccorso e il sostegno dei poteri statali» in quanto «il compromesso di Westfalia» era «ben più crudo di una proclamazione di confessionismo di Stato, perché postulava anche ideologicamente l’annientamento della libertà di coscienza nell’appartenenza territoriale».
Anche il giovane Ciampi insiste sul principio della libertà di coscienza. Ma, dopo aver parlato dei limiti alla libertà religiosa per motivi di ordine pubblico, ricorda i «limiti del tutto diversi (...) posti al concetto di libertà religiosa da parte cattolica» citando la lettera di Pio XI al Cardinale Gasparri del 30 maggio 1929: «Se si vuole dire che coscienza sfugge ai poteri dello Stato, se si intende riconoscere, come si riconosce, che in fatto di coscienza, competente è la Chiesa ed essa sola in forza di un mandato divino, viene con ciò stesso riconosciuto che in uno Stato cattolico, libertà di coscienza e di discussione devono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica».
Il che fa dire a Ciampi: «Dire che lo Stato (...) riconosce la religione cattolica come la vera, significa l’accettazione completa della dottrina cattolica, che per la sua caratteristica “totalitaria” investe ogni aspetto della vita umana, tendendo necessariamente alla unicità, all’esclusione di qualsiasi altra fede religiosa».
«Se quindi si vuole rispondere alla domanda se in Italia esista un regime di libertà religiosa - conclude Ciampi - la risposta è senz’altro negativa; non si può certo definire “libertà” il trattamento fatto alle minoranze religiose».
Si chiede inoltre: «È ammissibile in un regime di libertà religiosa l’esistenza di un Concordato fra lo Stato e uno dei culti?». La risposta dei costituenti democristiani e comunisti consistette nell’approvazione dell’art. 7 seguito dall’art. 8.
Otto mesi prima, Ciampi scriveva in conclusione della sua tesi: «Se da un lato i sostenitori dello Stato laico hanno ragione quando affermano che non debbano esistere privilegi per nessuna religione, d’altro canto non meno legittima è l’esigenza di valutare l’importanza della tradizione cristiana nella vita della Nazione italiana». Ragion per cui, secondo lui, «lo Stato non può certo disinteressarsi dell’educazione religiosa».
62 anni dopo, non c’è tuttora una legge quadro sulla libertà religiosa, c’è tuttora il Concordato, pur revisionato, e c’è tuttora l’Irc confessionale. E ci sono voluti 37 anni per giungere alla prima firma di un’intesa. A noi pare che questa «laicità concordataria» sia alquanto lontana da quella che chiedevano i giovani barthiani del Ciabàs nel 1943 e anche da quella che avrebbe voluto Piero Calamandrei...
* Carlo Azeglio Ciampi, La libertà delle minoranze religiose, a cura di Francesco Paolo Casavola, Gianni Long, Francesco Margiotta Broglio. Bologna, Il Mulino, 2009, euro 15,00.
La Padania accusa la Chiesa: "Ingerenze nelle faccende di uno Stato laico"
e Famiglia cristiana critica Renzo Bossi per il gioco ’Rimbalza il clandestino’
La Lega attacca ancora il Vaticano "Stop accuse o revisione dei Patti"
Il ministro Frattini: "Escludo che il Carroccio voglia fare annegare i migranti"
Il Guardasigilli: "Il sovraffollamento delle carceri dovuto agli stranieri"
ROMA - Basta accuse al Carroccio da Oltretevere, altrimenti tornano in discussione i Trattati lateranensi che regolano, per costituzione, i rapporti fra Italia e Vaticano. Il monito leghista alla Santa Sede, ultimo di una serie di scontri sempre più duri tra la Lega e la Chiesa giunge - alla vigilia dell’incontro all’Aquila fra il premier Silvio Berlusconi e il cardinal Tarcisio Bertone - dalle colonne della Padania, quotidiano del partito di Umberto Bossi, che non è solo il segretario dei Lumbard ma anche il ministro in carica delle Riforme.
L’articolo della Padania, in prima pagina, dal titolo "Strane ingerenze ideologiche in uno stato laico", definisce le parole di ieri di monsignor Vegliò all’indirizzo del ministro leghista Calderoli come "l’ultimo episodio di una lunga serie di ingerenze ideologiche e squisitamente politiche da parte di uomini delle gerarchie ecclesiastiche nelle faccende di uno Stato che, fino a prova contraria, è laico". Ed elenca tutti gli interventi di prelati e porporati contro le politiche, soprattutto in tema di sicurezza e immigrazione, degli attuali ministri leghisti.
"I confini e le sfere di ingerenza reciproca fra Stato e Chiesa - si legge ancora dopo il riassunto del contenuto dei Patti lateranensi come attualmente disciplinati e in vigore - sono precisi. Ed è anche vero che la Chiesa rappresenta uno dei cosiddetti ’poteri forti’. Tuttavia se i rapporti fra lo Stato e la Chiesa andranno avanti lungo questa deriva, ossia le gerarchie ecclesiastiche proseguiranno in questa politica marcatamente interventista nei confronti delle decisioni e degli orientamenti della politica e delle istituzioni al di là di ogni ragionevole confine di neutralità delle rispettive sfere di intervento - avverte l’articolo a firma Stefano B. Galli - bisognerà inserire nell’agenda delle riforme anche una revisione di Concordato e Patti lateranensi. Non ci pare il caso".
Frattini difende la Lega. Il ministro degli Esteri, nel corso di un’intervista al programma Faccia a Faccia su Radio3, ha avvertito che "la vita umana viene sopra di ogni altra cosa" e che "nessuno si può sottrarre al salvataggio" dei migranti. "Credo che questa sia anche l’opinione di Calderoli e della Lega", ha sottolineato Franco Frattini, "escludo che la Lega voglia fare annegare" i migranti. "Dire che la vita umana non debba essere salvata è un’aberrazione", ha aggiunto. Il titolare della Farnesina ha inoltre ricordato come l’Italia sia "il Paese che ha salvato di gran lunga più vite umane nel Mediterraneo e continuerà a esserlo".
Famiglia Cristiana contro Bossi jr. Famiglia cristiana critica duramente il gioco ideato da Renzo Bossi, figlio del leader della Lega, ’Rimbalza il clandestino’, su Facebook. "Fresco dell’agognato diploma (preso al quarto tentativo) Renzo Bossi, primogenito di Umberto - scrive ironicamente il settimanale dei paolini In un box intitolato ’L’angolo di brontolo’ - si è subito applicato ideando l’agghiacciante videogame ’rimbalza il clandestino’. Vince chi respinge con un clic più barconi di naufraghi. Il pargoletto muove i primi passi nella politica. Non è meraviglioso?".
Alfano: "Carceri piene per gli immigrati". Parlando con i giornalisti poco prima di intervenire sul palco del Meeting di Rimini, il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha affrontato anche il tema caldo del sovraffollamento delle carceri spiegando che le ragioni sono dovute sostanzialmente alla presenza dei detenuti stranieri: "Ci sono oltre 63 mila detenuti. E oltre 20 mila sono stranieri. Il che vuol dire che le carceri italiane sono idonee ad ospitare i detenuti italiani. Con l’aggiungersi degli stranieri agli italiani si supera la capienza regolamentare, ma anche quella tollerabile". Da qui l’appello del Guardasigilli all’Europa: "La Ue deve o farsi promotrice di trattati oppure dare risorse economche agli stati più interessati dal problema per costruire nuove carceri".
* la Repubblica, 26 agosto 2009
La Stampa, 20/8/2009
Nuove regole per la valutazione i prof. di religione daranno crediti
Regolamento in Gazzetta: per ora sentenza Tar Lazio inefficace
ROMA Da oggi gli alunni della scuola italiana verranno valutati attraverso un nuovo regolamento: il testo è stato pubblicato nella gazzetta ufficiale sotto forma di decreto del presidente della Repubblica (n. 122). Rimangono confermate quasi del tutto le indicazioni contenute nella bozza iniziale, tra cui l’obbligo per essere ammessi alla maturità di acquisire la sufficienza in tutte le materie e l’equiparazione dei docenti di religione ai colleghi delle altre materie ai fini dell’assegnazione dei crediti scolastici (non viene quindi preso in considerazione il parere contrario espresso dal Tar del Lazio il 17 luglio scorso).
Tra le novità più importanti che introduce il provvedimento vi è la necessità di conseguire, per essere ammessi agli esami di Stato, almeno la sufficienza in tutte le discipline: la regola vale sia per l’esame di licenza media, come del resto già previsto e applicato quest’anno, sia per le scuole superiori (dove invece durante gli ultimi scrutini era stata adottata la norma `interlocutorià voluta dall’ex ministro Fioroni che per l’ammissione all’esame di Stato richiedeva solo la media del sei).
Sarebbe utile, per un’applicazione immediata delle nuove indicazioni, che i collegi dei docenti predispongano sin dai primi incontri dell’anno. Alcune delle novità introdotte dal dpr 122 erano comunque già state adottate: come anche quella che prevede la presenza attiva e a pieno titolo dei docenti di religione cattolica per la determinazione dei crediti scolastici (mentre la valutazione della materia continua ad essere espressa dagli insegnanti nominati dal vicariato «senza attribuzione di voto numerico»).
Del resto il comma 3 dell’articolo 6 del nuovo regolamento, adottabile da oggi, non lascia spazio a dubbi: «In sede di scrutinio finale - si legge nel dpr 122 - il consiglio di classe, cui partecipano tutti i docenti della classe,compresi gli insegnanti di educazione fisica, gli insegnanti tecnico-pratici (...), i docenti di sostegno, nonchè gli insegnanti di religione cattolica limitatamente agli alunni che si avvalgono di quest’ultimo insegnamento, attribuisce il punteggio per il credito scolastico di cui all’articolo 11 del decreto del Presidente della Repubblica 23 luglio 1998, n. 323, e successive modificazioni».
Una conferma che quindi non tiene conto della discussa sentenza emessa il 17 luglio scorso dai giudici del Tar del Lazio, secondo i quali, per non discriminare quel 10% scarso di allievi che non si avvale della religione, non bisognerebbe rendere utile la frequenza della materia ai fini dell’assegnazione dei punti utili alla formulazione del voto di maturità.
Tra l’altro la mancata osservazione della pronunciamento dei giudici avviene attraverso l’adozione di un regolamento, quindi non con una procedura amministrativa, e comporta pochi problemi di incompatibilità applicativa rispetto a quanto stabilito dal tribunale laziale. Sempre in attesa, comunque, che si pronunci il Consiglio di Stato.
È bene infine ricordare che la presenza dei docenti di religione nel consiglio di classe non ha effetti attivi per tutte le operazioni di scrutinio: ad esempio la materia non viene presa in considerazione per la formulazione delle medie dei cosiddetti ottisti, gli studenti super-bravi che si presentano alla maturità senza aver frequentato il quinto anno.
Per quanto riguarda gli esami di licenza media, il nuovo regolamento sulla valutazione prevede che dal 2009/2010 nella determinazione del voto finale debba essere calcolata la media aritmetica dei voti conseguiti in tutte le prove d’esame: prove quindi scritte (anche il test standard Invalsi il cui peso quest’anno era stato deciso invece da ogni istituto) e orali. Oltre che nel giudizio di ammissione di esame (già dal 2008/09 espresso con voto in decimi anziché con giudizio (sufficiente, ottimo, distinto, ecc.).
Rispetto alla prima versione del testo non c’è invece più traccia, rispetto alla prima bozza di regolamento, della parte che prevedeva l’assegnazione del voto numerico anche durante le lezioni: i pareri contrari, tra cui quello obbligatorio ma non vincolante del Cnpi, devono evidentemente avere avuto il loro peso.
Rimane in piedi invece il voto numerico anche per la certificazione delle competenze, in disaccordo con quanto avviene nell’Ue. Alle superiori una novità importante, ma solo a riforma avvenuta, riguarderà l’obbligo da parte degli alunni, salvo situazioni particolari, di aver frequentato almeno i tre quarti delle lezioni: viene così introdotto, teoricamente a partire dal 2010/11, il concetto di frequenza obbligatoria invece sino ad oggi adottato solo nella primarie e durante lo scrutinio delle medie inferiori.
Pressoché confermata la valutazione dei ragazzi che presentano con difficoltà specifiche di apprendimento adeguatamente certificate. Ciò significa che «la valutazione e la verifica degli apprendimenti - si legge nel dpr 122 - , comprese quelle effettuate in sede di esame conclusivo dei cicli, devono tenere conto delle specifiche situazioni soggettive di tali alunni; a tali fini, nello svolgimento dell’attività didattica e delle prove di esame, sono adottati, nell’ambito delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente, gli strumenti metodologico-didattici compensativi e dispensativi ritenuti più idonei».
In merito alla sentenza del TAR del Lazio
REGIO e RELIGIO
di Ernesto Miragoli *
Il Tar del Lazio ha accolto un ricorso per l’annullamento di un’ordinanza per gli esami di stato 2007/2008 adottata dall’ex ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni sotto il governo Prodi, che prevedeva che a determinare il credito scolastico per gli esami di maturità potesse concorrere anche la valutazione dell’insegnante di religione. Con questa sentenza, la frequenza dell’ora di religione cattolica non concorrerà all’attribuzione del credito e i docenti di religione non potranno partecipare alle deliberazioni del consiglio di classe. Secondo il Tar, infatti, "sul piano giuridico un insegnamento di carattere etico-religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico".
Diego Coletti, vescovo di Como e Presidente della Commissione per l’Educazione Cattolica della C.E.I., al riguardo ha dichiarato alla Radio Vaticana che "...la laicità è danneggiata da questa sentenza perché per laicità si intende la giusta neutralità di una comunità civile che però dovrebbe valorizzare tutte le identità, ciascuna secondo il proprio peso e rilevanza culturale. Così invece si cade nel più bieco e negativo risvolto dell’illuminismo che prevede che la pace sociale sia garantita dalla cancellazione delle diversità e delle identità".
Il Ministro Gelmini, dalla spiaggia di Positano dove si trova in vacanza con il suo compagno Giorgio Patelli, ha annunciato che farà ricorso contro la sentenza del T.A.R. laziale al Consiglio di Stato. Questi i fatti. Veniamo ai misfatti (nel senso di mistificazione dei fatti).
L’ora di religione cattolica nelle scuole è un "non senso" che lo stato italiano si porta dietro dal 1929, quando il card.Gasparri, tramite l’avvocato Pacelli, fratello del futuro Pio XII, la pretese quale prova dell’affermazione concordataria della religione cattolica come "...fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica". "Non senso" che il fascista Mussolini accettò (proprio lui che pochi anni prima, in Svizzera, in un comizio estrasse l’orologio dal panciotto e declamò:"Se Dio esiste gli do due minuti per fulminarmi" e si mise lì, istrionico e corrucciato, ad aspettare un evento che molti rimpiangono che non si sia verificato, ben sapendo che Dio non avrebbe mai assecondato tali stupide sfide) e che il socialista Craxi assecondò nel 1984. "Non senso"(per questo "misfatto") perché uno stato laico - e qui rispondo a mons.Coletti - ha rispetto per tutte le religioni e non ne conculca né privilegia alcuna. Secondo il vescovo di Como, invece, uno stato laico deve porsi in una giusta neutralità, ma avere attenzione "al peso ed alla rilevanza culturale": gesuitica affermazione che lascia intendere che, siccome in Italia la stragrande maggioranza della popolazione si riconosce nel cattolicesimo...intelligenti pauca. Coletti rincara la dose affermando che così si cade nel più bieco illuminismo che prevede che la pace sociale sia garantita dalla cancellazione delle diversità e delle identità.
So che Coletti è laurato in filosofia, ma credo che qui spinga un po’ troppo sull’accelleratore del Cicero pro domo sua. A me non pare che Diderot e D’Alambert (tanto per citare due illuministi) abbiano affermato quel che sostiene il vescovo di Como, mi pare - piuttosto - che, sostenendo l’illimitato uso della ragione, pensino ad una concezione cosmopolita, che prende in considerazione anche le civiltà extraeuropee, e laica della storia, che ne amplia l’orizzonte rispetto a quella cristianocentrica e di ispirazione teologica. E che c’è di male? Non ci siamo - come seguaci del Cristo - inseriti in un contesto ebraico, greco, romano dove altre erano le spiritualità ed altre le etiche e non siamo stati, secondo l’esortazione del Maestro, "...lievito che fermenta la pasta"? Solo dopo (313 d.C.) abbiamo cominciato a cercare alleanze fra trono ed altare, appoggi al braccio secolare, terreni, prebende e via elencando, dimenticando l’esortazione:"...non prendete né bastone, né bisaccia, né sandali...mangiate quel che vi vien posto dinanzi...".
Tornando all’ora di religione: il vero misfatto è che gli insegnanti di religione, designati dalla curia, siano diventati di ruolo scavalcando graduatorie, precariati e sofferenze dei loro colleghi (regalo del centrodestra al card.Ruini); il vero misfatto è che può succedere che a tale insegnamento siano deputate persone che non hanno una preparazione pedagogica o che si freghino dietro al Direttore dell’Ufficio catechistico diocesano per avere qualche ora in modo da guadagnare qualcosa (si veda la dichiarazione dell’on.Lupi su "Il Corriere" del 14 agosto); il vero misfatto è che nessuno ha il coraggio di rivedere il Concordato e di dichiarare che tale ora debba essere obbligatoria, ma in questa si deve insegnare storia delle religioni e l’insegnante deve superare un esame di stato esibendo titoli adeguati e non essere designato dalla Curia locale. Il mio parere sulla sentenza del T.A.R. laziale? Assolutamente favorevole. Gli alunni i crediti debbono guadagnarseli sul campo.
Un consiglio a chi si straccia le vesti per questa sentenza: si faccia una verifica su come viene condotta l’ora di religione nelle scuole di ogni ordine e grado, sul gradimento degli insegnanti, sulla loro preparazione ad affrontare temi importanti, sull’uso che si fa del testo di religione che si deve obbligatoriamenti acquistare nel caso in cui ci si avvalga dell’insegnamento, poi ci si stracceranno le vesti, ma non certo per la sentenza del T.A.R. del Lazio! Anche qui: intelligenti pauca.
Ernesto Miragoli
Giornalista
22100 Como - via Lambertenghi 4
Cell. 3484006306
e-mail:miragoli@hotmail.it
Blog: www.webalice.it/miragoli
* Il Dialogo, 15 Agosto,2009 Ore: 20:16
Monsignor Diego Coletti critica la decisione del Tribunale amministrativo
"Alimenta diffidenza verso magistrati. Motivazioni da bieco illuminismo"
I vescovi contro il Tar del Lazio
Gelmini: "Faremo ricorso"
Gasparri: "Deriva anticattolica". Volonté: "Magistratura fuori legge"
Il ministro dell’Istruzione: "Così si discrimina la religione cattolica"
CITTÀ DEL VATICANO - "Sentenza pretestuosa", "bieco illuminismo". La Chiesa non ci sta e, tramite monsignor Diego Coletti, presidente della Commissione episcopale per l’educazione cattolica scatena fuoco e fiamme sulla sentenza del Tar del Lazio che esclude gli insegnanti di religione dagli scrutini. Passano poche ore e il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini mette in pratica l’indignazione dei vescovi: "Farò ricorso al Consiglio di Stato contro la sentenza". Secondo il ministro questa decisione discrimina la religione cattolica. "L’ordinanza del Tar determina un ingiusto danno nei confronti di chi sceglie liberamente di seguire il corso", dice la responsabile dell’istruzione che difende il ruolo degli insegnati di religone: "Non è giusto sminuire il loro ruolo, come se esistessero docenti di serie a e di serie B".
Proprio quello che la Cei aveva chiesto. "Non credo - aveva detto ai microfoni della Radio Vaticana monsignor Coletti - che tocchi alla chiesa come tale fare ricorso. Tocca ai cittadini italiani organizzati in partiti o in associazioni culturali esprimere il loro parere, il loro dissenso di fronte a una sentenza così povera di motivazioni e credo che lo stesso ministero dovrà fare un ricorso perché ciò che è stato messo sotto accusa non è l’opinione della Chiesa ma una circolare del ministero, un qualche cosa che attiene all’organizzazione della scuola di Stato e credo quindi che siano questi gli organismi che debbano muoversi".
Monsignor Coletti ha definito la sentenza particolarmente pretestuosa e ha riaffermato che l’insegnamento della religione cattolica è parte integrante della conoscenza della cultura italiana, e in questo senso va inteso nel sistema scolastico italiano, non come percorso confessionale individuale. "Non si tratta di un insegnamento che va a sostenere scelte religiose individuali: ma di una componente importante di conoscenza della cultura di questo Paese, con buona pace degli irriducibili laicisti e purtroppo dobbiamo dire con buona pace anche dei nostri fratelli nella fede di altre confessioni cristiane".
La sentenza del Tar del Lazio, ha proseguito Coletti, rischia di alimentare diffidenza e sospetto verso la magistratura che sono già troppo alti in Italia e sono fenomeni che invece vanno contrastati. "Non conosco i giudici del Tar del Lazio - ha detto il vescovo di Como - anche se questo tribunale amministrativo ha una sua lunga storia che molti conoscono. Caso mai ci sarà da chiedersi come mai la competenza su una questione così delicata venga data a un tribunale amministrativo regionale".
Critiche alla sentenza arrivano anche dal fronte politico. E sono trasversali. Giuseppe Fioroni, ora responsabile organizzazione del Pd, da ministro della Pubblica istruzione fautore delle contestate ordinanze, ha invitato il ministro Mariastella Gelmini a fare ricorso. Il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, ha parlato di "deriva anticattolica che non ha precedenti nella storia e nella tradizione del nostro Paese". Sulla stessa linea il presidente del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, secondo cui "il Tar del Lazio non coglie il problema e rischia di gettar via il bambino insieme all’acqua sporca". Il punto "è quello di assicurare lo stesso numero di ore di frequentazione scolastica a ogni alunno, cosa che non avvenendo determina la discriminazione su cui è intervenuto il Tar del Lazio". E di "vergognosa e ideologica sentenza" parla anche Luca Volontè dell’Udc secondo il quale "la magistratura è fuorilegge".
Favorevole alla sentenza il leader dell’Idv, Antonio di Pietro: "Da cattolico, rispettoso della Chiesa e dei suoi comandamenti, non posso che condividere la decisione del Tar del Lazio in quanto in uno Stato laico tutti i cittadini, cattolici e non cattolici, hanno uguali diritti". Della stessa opinione sono i ragazzi dell’Unione degli studenti, che la considerano "un passo avanti nella direzione della laicità della scuola pubblica".
"Da sempre - ha sottolineato l’Uds - riteniamo incostituzionali le ordinanze dell’allora ministro Fioroni e vediamo con entusiasmo l’accoglimento del ricorso di cui l’Unione degli Studenti è stata l’associazione studentesca firmataria". "Viva soddisfazione" è stata espressa anche dal presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, il pastore Domenico Maselli, tra i firmatari del ricorso avanzato, tra gli altri, anche dalla Consulta romana per la laicità delle istituzioni e dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), insieme a decine di associazioni laiche e a diverse confessioni religiose non cattoliche - tra cui avventisti, battisti, ebrei, luterani, pentecostali e valdesi - nonché da due studenti oggi ventenni, che in sede di scrutinio degli esami statali si erano visti discriminati nell’attribuzione del voto finale, perché non avevano frequentato l’ora di religione.
Barbara racconta le visite a Palazzo Grazioli e a Villa Certosa
"Dopo la cena io me ne andai. Patrizia, che faceva la escort, restò col presidente"
"Io, Silvio e le altre ragazze
tutte lo chiamavano Papi"
"Reclutata" da Giampaolo Tarantini. Difende il premier: "E’ stato simpaticissimo
Mi ha regalato dei gioielli e una busta con una cifra generosa solo per la presenza"
di PAOLO BERIZZI e GABRIELLA DE MATTEIS (la Repubblica, 20 giugno 2009 - per leggere l’art., cliccare sul rosso)
STATO E CHIESA: APOLOGIA DELL’UOMO DELLA PROVVIDENZA, DI IERI E DI OGGI. Benito Mussolini aveva carisma, come Berlusconi. Una riflessione di Lucetta Scaraffia, sul film di Marco Bellocchio
Non si può continuare a dire che gli italiani che hanno favorito e accettato l’ascesa di Mussolini erano solo stupidi e accecati, esattamente come oggi si dice di chi vota Berlusconi: nella vita politica moderna il fascino carismatico occupa un posto importante, e bisogna farsene una ragione.
Può un articolo della costituzione essere (o essere divenuto) incostituzionale?
di Antonio Guagliumi (Comunità cristiana di base di San Paolo - Roma) *
Può un articolo della costituzione essere (o essere divenuto) incostituzionale? La risposta, per quanto possa apparire paradossale, è, a mio parere, “si”. Si tratta dell’art. 7 che recita: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Che succede se uno dei due soggetti vìola l’indipendenza e la sovranità dell’altro? Chi interverrà a dirimere la questione, visto che non c’è un Organismo sovraordinato ai due? E se il soggetto passivo è lo Stato italiano, avrà questo come unica soluzione l’abrogazione dell’art. 7 secondo la procedura di revisione costituzionale ovvero avrà altri modi per denunciare la violazione e tornare pienamente in possesso della sua piena sovranità?
Da tempo, praticamente da quando quell’articolo esiste ma recentemente in modo particolare, molti e autorevoli soggetti hanno riflettuto sull’anomalia dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia, sicché il paradosso di definire incostituzionale una norma della Costituzione non è poi tanto scandaloso, perché deriva da un altro paradosso: due entità che si proclamano egualmente “sovrane” sugli stessi cittadini “ciascuna nel proprio ordine”, come se il cittadino potesse appartenere a due “ordini” operanti su piani diversi. Di fatto quelle che si possono distinguere e salvaguardare sono le scelte private e organizzative dei cittadini nell’ambito delle comuni libertà, nelle quali lo Stato non può entrare (e infatti nessun prefetto potrà pretendere di presiedere l’eucarestia o nessun sindaco battezzare) mentre la Chiesa (intesa qui e in seguito come “Santa Sede” salvo diversa indicazione) pretende di essere portatrice di norme “superiori” a quelle dello Stato, che valgono anzi non solo per i suoi fedeli, ma per tutti gli esseri umani perché finalizzate al loro bene supremo e come tali richiedono di essere inserite nell’ordinamento statuale. Come si vede, la posizione dei due soggetti contemplati nell’art. 7 è “a priori” squilibrata; la prassi si è poi incaricata di mostrare che un equilibrio tra i due “poteri” dipende molto da come la Chiesa vive la sua missione ed è strutturata al suo interno: si va da momenti come quelli espressi dal Concilio Vaticano II che sembrò mettere in discussione la necessità stessa di privilegi concordatari (Cost. “Gaudium et Spes” n° 76) alla attuale tendenza restauratrice e integralista.
A un tale organismo lo Stato italiano ha comunque ceduto non solo una parte, sia pur minima, del suo territorio consentendo la nascita di un vero e proprio “Stato” sovrano secondo il diritto internazionale, ma tutti i suoi cittadini (nell’ordine religioso, s’intende) e ha riconosciuto una serie singolare di privilegi e potestà che limitano la propria sovranità in vari settori (territoriali, fiscali, educativi, ecc.) consentendo che organismi periferici di uno Stato straniero, governato da una monarchia assoluta, risiedano ed operino sul suo territorio, per di più senza alcuna reciprocità. Il sindaco non può battezzare, s’è detto; ma il parroco può sposare obbligando l’ufficiale di stato civile a prenderne atto. Lo Stato si è ripreso il diritto di dichiarare nulli i matrimoni, ma il parroco non riconosce questo diritto.
La Conferenza episcopale può invitare i cittadini italiani (e vincolarne la coscienza in quanto fedeli cattolici) a partecipare o a non partecipare ad un referendum previsto dalle leggi italiane; a votare in un certo modo o in un altro; a rifiutarsi di obbedire a certe leggi regolarmente votate dal parlamento; a qualificare il grado di “cattolicità” degli uomini politici; ma lo Stato non può intervenire in difesa di un insegnante di religione privato dal vescovo del suo incarico perché divorziato secondo la legge dello Stato (il Concordato non lo consente) o di un parroco allontanato dalla sua parrocchia per le sue idee (che in questo caso non sono tutelate dalla costituzione) tra le proteste di parrocchiani e non ricordo casi di proteste delle autorità italiane per le tante invasioni di campo della Chiesa contro lo Stato, sempre giustificate col pretesto che “nel proprio ordine” essa è sovrana. Mentre la Chiesa afferma di
avere un diritto “originario” e “divino” che giustifica il suo comportamento invasivo, lo Stato sembra succube e inerme. L’unico che riuscì ad arginare questo dilagare della Chiesa fu Mussolini, proprio lui, l’uomo della Provvidenza, responsabile del primo Concordato, formulato in termini ancora più favorevoli alla Chiesa di quello craxiano dell ’84 eppure trasferito nella nostra Costituzione così com’era nel 1946 con l’appoggio del partito Comunista, caduto nella trappola di pensare in tal modo di ammorbidire la Chiesa che infatti scomunicò subito i comunisti. Allora era Mussolini che conquistava alla sua religione dello Stato semplici fedeli e parti notevoli della gerarchia, oggi la democrazia sembra debole e succube, eppure la preferiamo perché ci lascia almeno la speranza.
Ma questa pretesa della Chiesa di avere un diritto assoluto e originario a dirigere “eticamente” i cittadini di un’altro Stato sovrano, che dovrebbe anzi favorirla in questa opera di “educazione” con contributi finanziari e privilegi operativi, è veramente “originario”? E’ veramente assoluto e gestibile da una struttura monarchica operante a partire da uno Stato uguale a tutti gli altri Stati ma nello stesso tempo superiore a tutti?
Finora ho parlato di Chiesa per quello che è di fatto, cioè una struttura gerarchica al cui vertice c’è un sovrano assoluto attorniato da una curia di eminenti consiglieri scelti ad libitum, in periferia vescovi e parroci con pochissima autonomia operativa e molti obblighi esecutivi, anch’essi scelti e revocabili ad libitum. Ma è stato e dovrà essere sempre così? In verità il Concilio Vaticano II, come già sopra accennato, faceva intravedere come possibile una Chiesa senza privilegi, retta da criteri di collegialità episcopale e soprattutto consapevole che il Popolo di Dio è una sua componente fondamentale ed imprescindibile, che dovrebbe in qualche modo essere interpellata quando si stipulano patti e trattati con lo Stato. Che senso ha affermare che una Chiesa di questo genere è “Indipendente e sovrana”? Che si costituisca in Stato sovrano? Ma è noto che le novità introdotte dal Concilio Vaticano II sono stare rapidamente soffocate e si è tornati ad una situazione peggiore di quella che c’era prima. Per conservare intatte le verità eterne e per rispetto della tradizione, si dice. Ma la Chiesa cattolica quale cristianesimo rappresenta oggi? Quale tradizione rispetta?
Un marziano che, pur dotato di logica perfetta, leggesse queste riflessioni direbbe ora meravigliato: “Cristianesimo” ? Che è mai questo? L’art. 7 parla di Chiesa cattolica, i Patti lateranensi di Stato della città del Vaticano , so di Cardinali, Vescovi e preti cattolici, di conferenze episcopali, di fedeli cattolici ecc., ma questo cristianesimo in tutto ciò che c’entra?” E allora bisognerà spiegare al marziano un po’ di storia, cosa che non farò qui perché non siamo marziani; però non poso non pensare a che cosa avrebbe detto o fatto Gesù, detto il Cristo, prima che diventasse cattolico, se avesse dovuto firmare il concordato o i patti lateranensi; se si fosse trovato a dover governare uno Stato tutto suo, lui che aveva detto “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36); che rifiutò sdegnato la signoria su tutti i regni della terra offertigli da Satana, che a quanto pare è in possesso di una signoria sui poteri temporali ancora più originaria dei quella rivendicata da Gregorio VII e successori (Mt 4, 8ssg e par.); che quando si fece dare una moneta non vi trovò sopra la sua faccia o quella di un papa, come accade oggi con le monete del Vaticano, se no non avrebbe potuto dire “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mt 22,19 e par.); che fece dire al suo apostolo: “Questo vi dico fratelli, il tempo ormai si è fatto breve; d’ora in poi quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; coloro che piangono come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo come se non ne usassero appieno, perché passa la scena di questo mondo! Io vorrei vedervi senza preoccupazioni...(I Cor 7,28 sgg.) ecc.
Queste parole conservano, anche nella diversa prospettiva circa la fine dl mondo, tutto un loro profondissimo valore un valore che rende inutile e peccaminoso aggrapparsi alle sicurezze del mondo, ai privilegi del mondo, alle leggi del mondo e anche a leggi ecclesiastiche che vadano oltre alla regola aurea, ripresa e testimoniata da Gesù, di amare Dio nel prossimo.
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supplemento al n°2/2008, anno XI di Viottoli
I genitori bocciano la Gelmini: no al maestro unico e ai tagli
di Gioia Salvatori *
Le famiglie chiedono il tempo prolungato e bocciano il maestro unico. Vorrebbero che il bambino di sei anni andasse a scuola per 30 ore settimanali o per 40. Il 90 per cento delle famiglie vorrebbe che il figlio passasse in aula ogni mattina e un pomeriggio a settimana o tutte le mattine e tutti i pomeriggi. Lo dicono i dati parziali del ministero dell’Istruzione secondo i quali il 56 % dei genitori, su un campione di 900 scuole, ha scelto le 30 ore e il 34 % le 40. Segno, il trend era chiaro già negli anni precedenti, che la scuola vecchio stile, bambino a scuola 4 ore al giorno per sei giorni a settimana, non va bene per le famiglie di oggi. Meglio 30 ore di lezioni settimanali, secondo il più classico dei modelli del pre- Gelmini: bimbo a scuola la mattina e un pomeriggio o 5 giorni per 6 ore a settimana a seconda dell’organizzazione dell’istituto.
TEMPO PIENO IN FORSE Cosa farà il bambino a scuola durante le 30 ore è un’incognita. Con i tagli di organico e l’abolizione delle ore di mensa e compresenza, infatti, settembre potrebbe riservare sorprese amare. Sorprese di cui, d’altronde, le famiglie, sono state in avvertite: tempi pieni e prolungati, infatti, verranno forniti «compatibilmente con l’organico» recita il modulo d’iscrizione del ministero che, onestamente, mette le mani avanti. Sa, infatti, il ministro dell’istruzione Maria Stella Gelmini, che sarà dura garantire 30 e 40 ore con i tagli in finanziaria pari agli stipendi di 42mila insegnanti.
TAGLI DI ORGANICO Al momento l’unica garanzia è che i bambini non vedranno più due maestri insieme e che ai genitori il modulo unico di 24 ore, scelto solo dal 3 % delle famiglie, non piace. Bocciate anche le 27 ore scelte da un misero 7%. Dati inequivocabili per il responsabile educazione del Pd, Giuseppe Fioroni: «La maggioranza - prosegue Fioroni - ha scelto 30 ore per la prima elementare basandosi sul modello precedente che prevedeva mensa e compresenza di docenti. Sorge spontanea una domanda, come farà questo governo con i tagli economico finanziari e le scelte fatte, a garantire gli standard di qualità a cui i genitori italiani erano abituati?». Il governo ritorna a trenta anni fa e con i tagli di organico è certo che il maestro sarà «prevalente» in tutti le opzioni d’orario come d’altronde, la Gelmini ieri ha ribadito replicando a Fioroni: «Tutti i modelli orari prevedono il maestro unico di riferimento e non solo quello a 24 ore come qualcuno sostiene in maniera imprecisa». Addio compresenza ma, secondo alcuni dirigenti, anche i laboratori articolati: con la diminuzione degli organici non si potrà scegliere, chi è a disposizione completa le ore di lezione fino ad arrivare a 30 o 40, a prescindere dalle competenze. Ci rimetterà la formazione, dunque, e i dirigenti dovranno giocare d’incastro per dare il migliore del servizio, con i pochi docenti a disposizione.
DECIMATI I DOCENTI DI LETTERE I docenti andranno a casa, 30mila già a settembre, si prevede, e tra gli insegnanti di lettere delle medie sarà una strage. Tra tagli sulle ore in cui gli insegnanti erano a disposizione e ore opzionali per le famiglie, vanno a casa 3 insegnanti ogni 6 sezioni. La Gelmini, infatti, non solo ha tagliato le compresenze ma anche l’opzione di fare 11 ore di lettere settimanali anziché nove che, da settembre, saranno l’opzione unica.
* l’Unità, 02 marzo 2009
In libreria l’ultimo lavoro di Stefano Rodotà. Un «manuale» per ricostruire la cittadinanza
Manifesto laico
di Gabriele Polo (il manifesto, 20.02.2009)
Non accade spesso che un libro riesca a cogliere nel segno dell’attualità, senza ridursi a un istant-book. E a coniugare saperi costruiti in anni e anni con l’intervento sul presente.
È questo il caso dell’ultimo lavoro di Stefano Rodotà, Perché laico (Laterza, pp.190, 15 euro), che è arrivato nelle librerie proprio nel pieno del riproporsi di un antico conflitto tra stato e Chiesa, culminato nella vicenda di Eluana Englaro, un dramma umano che il governo Berlusconi ha voluto usare per portare un altro colpo alla nostra Costituzione. E mentre lo stesso governo - e la sua maggioranza - si propongono di chiudere il capitolo del testamento biologico con una legge che preclude ogni diritto e ogni libertà. In nome di un «diritto superiore», quello del potere politico.
Perché laico è, già dal titolo, una dichiarazione d’intenti, non una professione di fede. È la denuncia di un rapporto irrisolto tra stato e Chiesa in Italia, fin da quel Concordato riproposto nel dopoguerra (con la mediazione operata nell’articolo 7 della Costituzione) e riaggiornato da Bettino Craxi (nel 1985), che ha finito col subordinare alle opportunità politiche i diritti delle persone. In una «laicità negoziabile» che Rodotà denuncia come vulnus alla stessa democrazia. Quella più profonda, per cui i cittadini trovano nelle leggi un contorno di regole comuni in cui poter esercitare le loro libere scelte.
È da lì che Rodotà parte per sostenere la propria tesi secondo cui democrazia e laicità sono un tutt’uno, in nome di quell’antico universalismo sempre mal sopportato dagli integralismi e oggi cancellato da una politica che riduce i diritti a interessi personali. Generando un arbitrio in cui le diversità contano per la forza che possono mettere in campo e non in quanto elementi conviventi che nel confronto loro permesso si arricchiscono reciprocamente. Infatti - spiega Rodotà - è assai diverso «guardare alla molteplicità, alla diversità, al multiculturalismo come se questo significasse identità necessariamente separate o, invece, riconoscere il diritto alla diversità in un quadro di riferimenti universali e comuni». Perché - prosegue - «il grande risultato del pensiero laico è non aver chiuso nessuno nel ghetto delle identità».
Considerazioni da sempre proprie del pensiero democratico, ma che diventano oggi essenziali, nel momento in cui una politica sempre più in crisi di rappresentanza - e per questo tendenzialmente autoritaria - offre alla Chiesa cattolica la possibilità di colmare il vuoto di un diritto in estrema difficoltà di fronte ai progressi della tecnologia sul terreno fondamentale della «nuda vita». Da questo punto di vista i casi Englaro o Welby e lo scontro sulla procreazione assistita appaiono in tutta la loro enormità: vita e morte diventano l’incerto terreno di scontro tra poteri istituzionali, l’assurdo luogo di contrattazione tra equilibri politici, mentre i soggetti direttamente interessati non possono contare né su un diritto certo, né su una cultura comune che permettano loro di essere ascoltati, compresi e, infine, poter scegliere liberamente.
Appare perciò evidente come sia urgente un ricostruzione della cittadinanza che ha bisogno di due supporti fondamentali: una politica che stabilisca confini chiari ma non invasivi delle libertà individuali - qui il riferimento alla difesa dei principi fondanti della Costituzione e al suo spirito laico - e una crescita culturale della comunità di riferimento, in primis attraverso i suoi luoghi di comunicazione e formazione, dai media alla scuola.
E, detto per inciso, Perché laico, sarebbe un ottimo libro di testo per le scuole medie superiori (ammesso che si concepisca ancora la scuola in quanto luogo di formazione libera e non di dissipazione coatta, come fanno intendere le riforme del ministro Gelmini). Proprio perché ripone le questioni di attualità in un contesto comprensibile e le misura con i nodi irrisolti della storia politica italiana, della vita pubblica che si confronta con quella privata.
In tempi di profonda crisi del senso stesso dell’agire pubblico, di collasso delle rappresentanza, mentre si sfaldano le certezze delle appartenenze e si dissolvono i partiti leggeri nati su queste crisi (usandole come alibi per non affrontare il merito di quelle crisi), la ricerca di un’etica democratica e civile appare come essenziale contributo per ridare un senso alla parola democrazia e, più nel profondo, per salvare «la ragione» contro il prevalere delle pulsioni intestine che finiscono per misurarsi solo sul terreno della forza. In un kantiano dover essere che qualcuno dovrà pur ascoltare.
Chi s’è arreso alle armate del Papa
di MICHELE AINIS (La Stampa, 21/2/2009)
Cadono gli anniversari: l’11 febbraio, 80 anni dal vecchio Concordato, siglato da Mussolini; il 18 febbraio, 25 anni dal nuovo Concordato, quello con la firma di Craxi. Ma cade inoltre, dalla memoria collettiva, il ricordo delle scelte che li accompagnarono, che li resero possibili. Cade la percezione d’un clima nei rapporti fra Italia e Vaticano che oggi non sapremmo neanche immaginare. Altri uomini, altre regole. Ecco perché il documento pubblicato lunedì su questo giornale è un bene prezioso: ci aiuta a ricordare, al contempo ci dimostra che c’è stata una Chiesa rispettosa delle nostre istituzioni. E se c’è stata, può esserci di nuovo. Dipende dalle autorità religiose, ma soprattutto dalle autorità politiche della Repubblica italiana. Quel documento è una nota riservata del vescovo Riva, indirizzata a Moro nel gennaio 1976. Quindi 8 anni prima degli accordi di Villa Madama, ma la nota già ne anticipa il contenuto più essenziale. A partire dall’affermazione secondo cui la Chiesa «si sottopone alle leggi dello Stato».
La stessa affermazione, tradotta in norma vincolante, che apre il nuovo Concordato, dove la Santa Sede s’impegna al «pieno rispetto» della sovranità statale. Ma in quella nota c’è di più: una doppia ammissione che a leggerla adesso ti fa saltare sulla sedia. Perché c’è scritto che le gerarchie ecclesiastiche non reclamano privilegi dallo Stato italiano. Perché vi si mette a nudo la ferita più bruciante, che all’epoca fu inflitta dalla legge sul divorzio. L’emissario di Paolo VI continua a dolersi per la legislazione divorzista; ma aggiunge che la Santa Sede «non si propone di insistere in una richiesta pregiudiziale del ristabilimento della situazione quo ante». Insomma pazienza per la sacralità della famiglia, quantomeno allora era più forte la sacralità dello Stato.
Come ha potuto rovesciarsi questo atteggiamento? Quando comincia l’invasione delle truppe pontificie (titolo di Le Monde) sul suolo italiano? Da dove nasce l’intransigenza, e insieme la prepotenza sfoderata attorno al caso Englaro? Semplice: da un doppio referendum. Quello che nel 1974 la Chiesa ha perso sul divorzio; quello che nel 2005 ha vinto sulla procreazione assistita. Ma se è questa la lezione della storia, significa che lo spazio della Chiesa nella nostra vita pubblica dipende principalmente da noi stessi. È uno spazio politico, e la politica ha orrore del vuoto. Se il trono rimane vacante, al suo posto sorgerà un altare. Se gli elettori pensano che la laicità sia questione da filosofi, la filosofia imperante sarà quella religiosa.
Se i politici italiani sono libertini in privato ma genuflessi in pubblico, perché la Chiesa dovrebbe fare un passo indietro? C’è almeno un tratto di continuità fra l’arrendevolezza vaticana sul divorzio e l’inflessibilità sul testamento biologico: il pragmatismo, virtù molto terrena che sa adattarsi ai tempi, cogliendo l’opportunità del giorno dopo. Tutto l’opposto del rigore dottrinale, della parola scolpita sulla Bibbia. Eppure non è che lo Stato italiano si sia del tutto arreso alle armate vaticane. O meglio si è arreso il governo, si è arreso il Parlamento. Tuttavia di tanto in tanto resiste qualche giudice.
La Cassazione ha riconosciuto il buon diritto di Beppino Englaro. Successivamente la Consulta ha riconosciuto il buon diritto della Cassazione. E sempre la Suprema Corte questa settimana ha assolto il magistrato Tosti, che rifiutò di tenere udienza davanti al crocefisso, in nome della laicità della Repubblica. Evidentemente ai nostri giudici difetta il pragmatismo.
michele.ainis@uniroma3.it
Prelati d’attacco e politici in ginocchio a 80 anni il Concordato è "invisibile"
Dall’etica al fisco, l’irresistibile avanzata della Chiesa
Mercoledì ricevimento in ambasciata: cardinali a fianco del governo
Le rivendicazioni ecclesiastiche arrivano a condizionare le nomine nella tv di Stato
di Filippo Ceccarelli (la Repubblica, 09.02.2009)
Gli anniversari ballano, gli anniversari scherzano e quindi a volte finiscono precisamente per cadere, certi anniversari, nel momento della verità. Dopodomani 11 febbraio il Concordato compie dunque 80 anni.Ma non è mai apparso così malridotto. Nulla probabilmente cambierà nella rappresentazione della ricorrenza: dicasteri vaticani imbandierati, soporifere cerimonie e dotte articolesse commemorative, bisbigli, tartine e cordiale ipocrisia al ricevimento nella Palazzina Borromeo, sede dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede, là dove ogni anno porpore e grisaglie si ritrovano a celebrare, insieme all’antica sapienza del potere, le risorse dello stile diplomatico che vela e camuffa gli eventi, le fatiche, le magagne, le inimicizie.
Ma chi abbia un filo di onestà non può stavolta, nei giorni di Eluana, far finta che tra Cesare e Dio, o per lo meno fra i loro pretesi rappresentanti, le cose filino proprio lisce. Mai come oggi il Vaticano è parte in causa, perciò si scopre, attacca, ripiega, cerca alleati; mai come adesso l’Italia sembra così compiutamente immersa in una turbinosa realtà post-lateranense. Ma quali stati "indipendenti e autonomi"! Non solo sbiadiscono le istantanee di Mussolini e Craxi, la firma antica del 1929 e quella ormai pure remota del 1984, ma di colpo suonano vuote anche espressioni come "laicismo" o "interferenze".
L’altro giorno il giornale dei vescovi parlava di "assassinio" e davanti alla chiesa di Gesù operaio hanno fatto scoppiare una bomba carta: cosa si vuole di più per riflettere sulle condizioni del Concordato? Sconcordato, piuttosto: un patto rotto, un accordo in evidente stato di confusione, un attrezzo inservibile, nel migliore dei casi un simulacro. Non lo si dice qui per polemica, al modo dei radicali. Sono i fatti degli ultimi anni che parlano da soli, e danno la misura dello strappo, degli strappi: fecondazione assistita, istruzione privata, astensionismi, vittimismi, aborto, unioni civili, pressioni, anatemi. I
l contenzioso si allarga mese dopo mese, c’è sempre chi ci marcia e lo estende all’Ici, alle moschee, o all’immigrazione e a persino a una sorta di franchigia ecclesiale nella legge sulle intercettazioni telefoniche. Le sacre immagini sugli stendardi e i torpedoni al Family day, il Pontefice impedito di entrare all’università, i politici in preghiera e in passerella a piazza San Pietro, l’evocazione di "diavoloni frocioni" a piazza Navona. E baci berlusconiani all’anello pontificio, genuflessioni, commistioni di ruoli: l’altro giorno nella cappella Sistina, per un concerto in onore del fratello del Papa, c’era Gianni Letta - e vai a sapere se stava lì, e poi pure in foto sull’Osservatore romano, come sottosegretario alla presidenza o come Gentiluomo di Sua Santità.
Si sono smarriti i confini, ma questo complica le cose. Il sindaco di Roma invoca la benedizione papale sugli atti del Comune; il Cardinale Segretario di Stato celebra all’interno della Camera una messa "d’inizio legislatura"; la Binetti arruola il Signore nei risultati d’aula. E allora dal balcone di Montecitorio si sventola per polemica la bandiera vaticana; al concertone del primo maggio si prende di mira il Papa; al Gay Pride si oltraggiano i sacramenti. Così va, ritorsione dopo ritorsione.
E allora ecco Ratzinger nel video di Storace, poi sulle bandiere di Borghezio, "saremo le guardie svizzere del Pd" promettono i teo-dem, e "Il Vaticano tifa Pera" recita, testualmente, un titolo de Il Tempo, giornale tutt’altro che laicista. No, davvero non si invidiano i potenti italiani e i dignitari pontifici che nel bel mezzo della storia angosciosissima di Eluana e dell’aspro conflitto che ne deriva s’incontreranno sotto la loggia del Sansovino per poi sedersi sulle poltroncine di raso rosso e spalliera dorata, come se nulla fosse.
Come se davvero al giorno d’oggi bastasse un Concordato inserito a sorpresa da Togliatti nella Costituzione e trionfalisticamente revisionato 25 anni orsono da una partitocrazia già ansimante, per rimettere a posto le cose: là dove il vuoto ideologico sembra già colmato da un pieno di generici e sospetti "Valori" che ognuno, oltretutto, si tira spudoratamente dalla propria parte.
Eh no, stavolta è diverso, stavolta non mancano spunti per una quantità e varietà di conflitti. Codice da Vinci, crocifisso nelle aule, presepi identitari e creativi, ora di religione, scritte sui muri, filmati sui preti pedofili, commemorazione degli zuavi, rane crocifisse. Non c’è vicenda che non implichi un disagio, una frizione, un cortocircuito fra Stato e Chiesa. In provincia hanno ricominciato a litigare sulle ore in cui sciogliere le campane; la Littizzetto disturba oltre il Portone di bronzo; le nomine Rai debbono tenere presente i gusti dei tele-prelati; si torna a parlare dei peccati e pure del diavolo; sembra uno scherzo onomastico, una trovata felliniana per far colpo sugli stranieri, ma adesso c’è perfino il segretario della Cei che di cognome fa Crociata: monsignor Crociata, sul serio.
Serve a nulla rimpiangere la Dc, che per quasi mezzo secolo ha fatto da cuscinetto alle richieste vaticane. Al corto di idee e di progetti il centrodestra indossa i paramenti, si attacca alla mantella del Papa; mentre fin troppe volte il centrosinistra è paralizzato, subalterno, confuso. Tanti anni fa, per indicare un’auspicabile distanza, Giovanni Spadolini lanciò l’immagine del "Tevere più largo". Oggi non è nemmeno più stretto. Sembra un fiume in piena, grigio, gonfio e anche un po’ pauroso - come quello che s’è visto a Roma nel novembre scorso.
di Andrea Manzella (la Repubblica, 09.02.2009)
Negli ultimi quindici anni, l’unica vera e grande sconfitta del centro-destra avvenne il 25 e il 26 giugno del 2006: quando il 61,7 per cento degli elettori bocciò il progetto di revisione costituzionale del terzo governo Berlusconi.
Uno scarto di voti che non si era mai verificato prima, non si verificherà mai dopo. Chi percorse l’Italia, meno di tre anni fa (non di tre secoli fa) ricorda la modestia di quella campagna per il «no»: passaparola, riunioni mai troppo affollate, partiti distratti. Vi era però anche una accorata partecipazione cittadina, l’attenzione di chi rischia di perdere la propria carta d’identità. Queste qualità si capirono poi, in quella data d’estate che sembrava proibitiva e senza vincolo di quorum: quando andò a votare invece il 53,6% dei cittadini iscritti.
Sarebbe bene che di quei giorni e di quei conti si ricordasse il presidente del Consiglio che dichiara oggi una seconda guerra contro la Costituzione. Momento e terreno sono stati scelti con il consueto istinto. La strapotenza numerica parlamentare non vede flessioni di sondaggi. Il campo è quello vasto delle incertezze bioetiche. È in corso un lacerante dramma di coscienza popolare. Non c’è qui neppure l’ombra del pervasivo conflitto di interessi. Eppure, eppure.
Quando, com’è fatale, il casus belli si sarà allontanato e separato dal conflitto istituzionale di fondo. Quando le alleanze stipulate sulla tragedia di Udine rifiuteranno di estendersi ad un avventuroso disegno di potere senza garanzie. Quando questo, tra poco avverrà, riappariranno allora, con la loro forza impeditiva (al di là di quello che potrà fare l’opposizione parlamentare) le debolezze culturali ed etico-nazionali di un tale progetto di arrembaggio alla Costituzione. Vecchi e nuovi alleati obietteranno. Sarà chiaro a tutti che dal predellino di un’auto si possono cancellare vecchi partiti e inventarne uno nuovo. È più difficile cancellare una Costituzione e imporne una diversa.
Sarebbe bene però che di quelle giornate del giugno 2006 si ricordasse anche chi oggi ha il diritto-dovere dell’opposizione costituzionale (un aggettivo tradizionale che acquista ora una intensità di significato che non aveva prima). Non per cullarsi nell’illusione che alla fine avrà la meglio il radicamento popolare di istituzioni e libertà.
Nell’anno appena trascorso, il grande seminario popolare per i sessant’anni della Costituzione ci ha infatti detto, al di là della inevitabile retorica di certe celebrazioni, che abbiamo a che fare, nella vita politica e di ogni giorno, con una Costituzione problematica, con una Costituzione inquieta che chiede nuove letture: magari più radicali di nuove riscritture. Non è un testo che ci può fare addormentare tranquilli nel suo tran tran, nelle sue formule felici, ma è una «sentinella» che ci impone di stare svegli sui suoi principi e sui suoi equilibri: perché i pericoli sono cresciuti e le antiche difese si sono abbassate.
Ecco perché un’opposizione che voglia far fronte a questa nuova guerra, deve darsi una regola, un programma, un suo pensiero costituzionale, appunto. Che questo debba partire dalle garanzie è cosa da tempo evidente: non per impedire ma per consentire il «governo democratico» dello stato di eccezione permanente in cui viviamo. Di questo programma, di questo pensiero non si è vista finora traccia alcuna.
Da questo punto di vista, il presidente del Consiglio ha reso un servizio utile al paese. Rivelando il suo disegno punitivo della Costituzione, ha forse rotto le uova nel paniere di tanti suoi accorti negoziatori. Ma certo ha ridicolizzato quell’opposizione che, malata di cecità istituzionale, si accingeva a scambi ineguali, a patti leonini (con il leone), a cambiali in bianco. Da oggi tutto si svolge in clima di grande chiarezza: dopo che il premier ha rovesciato il tavolo degli equivoci, la trattativa sulle regole può ricominciare. Ma da oggi peseranno irreversibilmente: perché legate, per contrappasso, al ricordo irreversibile dell’attuale dramma alcune cose.
La prima cosa è che il premier rifiuta la garanzia del capo dello Stato. La rifiuta nella forma riservata che era ormai consuetudine repubblicana (Luigi Einaudi, chiuso il suo mandato, aveva raccolto, nel 1956, quei suoi «pareri» in un libro famoso: «Lo scrittoio del presidente»). La rifiuta come controllo di legittimità preventiva sul più «pericoloso» dei poteri del governo: decreti per fare norme legislative che entrano in vigore, prima ancora che il Parlamento se ne possa occupare.
La seconda cosa è che il premier ritiene che con un atto normativo urgente di governo sia possibile impedire l’attuazione, su una vicenda umana, di sentenze definitive emesse da tre ordini di giudici (civili, amministrativi, costituzionali) sulla base di principi della Costituzione, dopo un «giusto processo» iniziato nel 1999. Senza che il legislatore sia in tutto questo tempo intervenuto.
La terza cosa è che il premier considera che il metodo naturale per governare sia quello per decreto. Il ruolo del Parlamento viene dopo, a norme fatte e a rapporti giuridici iniziati sulla loro base.
La quarta cosa è che il premier contesta la stessa legittimazione originaria della Costituzione, scritta «con la presenza di forze che hanno guardato alla Costituzione sovietica come a un modello». Certo: si tratta di una vecchia manipolazione, ricorrente come i «protocolli di Sion».
Ed è inutile ricordare che l’influenza «sociale» dei cattolici e dei social-comunisti poté manifestarsi solo nei «compromessi» delle norme programmatiche della Costituzione: non certo sulle garanzie istituzionali. È inutile anche ricordare che quando la Costituzione fu votata, i social-comunisti erano già stati espulsi dal governo De Gasperi: e anzi era cominciata la loro esclusione «strutturale» dai governi del paese. È inutile pure ricordare che il 22 dicembre 1947 votarono per la Costituzione: Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, ma anche Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi; Giorgio La Pira ed Epicarmo Corbino; Aldo Moro ed Amintore Fanfani; Benedetto Croce e Giuseppe Dossetti.
È inutile ricordare tutto questo perché sono cose scritte anche nel più elementare dei libri di scuola. Se il premier preferisce invece la contrapposizione del non-vero è perché capisce che solo la collaudata tecnica propagandistica anticomunista può aiutarlo a tirar via dall’aria del paese un elemento, come la Costituzione, che vi è entrata quale fattore costitutivo e vissuto di cittadinanza: anche per chi non l’ha mai letta.
Ecco, con queste avvertenze, il dialogo può anche ripartire. Gli ultimi fatti italiani ci dicono, anzi, quanta misura di sicurezza istituzionale si debba ancora ricercare assieme.
Il potere unico
di EZIO MAURO *
SIAMO dunque giunti al punto. Ieri Berlusconi ha annunciato l’intenzione di cambiare la Costituzione, a colpi di maggioranza, per "riformare" la giustizia. Poiché per la semplice separazione delle carriere non è necessario toccare la carta costituzionale, diventa chiaro che l’obiettivo del premier è più ambizioso.
O la modifica del principio previsto in Costituzione dell’obbligatorietà dell’azione penale, o la creazione di due Csm separati, uno per i magistrati giudicanti e uno per i pubblici ministeri, creando così un ordine autonomo che ha in mano la potestà della pubblica accusa, il comando della polizia giudiziaria e il potere di autocontrollo: e che sarà guidato nella sua iniziativa penale selettiva dai "consigli" e dagli indirizzi del governo o della maggioranza parlamentare, cioè sarà di fatto uno strumento della politica dominante.
Viene così a compiersi un disegno che non è solo di potere, ma è in qualche modo di sistema, e a cui fin dall’origine il berlusconismo trasformato in politica tendeva per sua stessa natura. Il passaggio, per dirlo in una formula chiara, da una meccanica istituzionale con poteri divisi ad un aggregato post-costituzionale che prefigura un potere sempre più unico. Un potere incarnato da un uomo che già ha sciolto se stesso dalla regola secondo cui la legge era uguale per tutti con il lodo Alfano, vero primo atto della riforma della giustizia, digerito passivamente dall’Italia con il plauso compiacente della stampa "liberale" ormai acquisita al pensiero unico e alla logica del più forte.
Oggi quel prologo vede il suo sviluppo logico e conseguente. Ovviamente la Costituzione si può cambiare, come la stessa carta fondamentale prevede. Ma cambiarla a maggioranza, annunciando questa intenzione come un trofeo anticipato di guerra, significa puntare sulla divisione del Paese, mentre il Capo dello Stato, il presidente della Camera e persino questo presidente del Senato ancora ieri invitavano al dialogo per riformare la giustizia. Con ogni evidenza, a Berlusconi non interessa riformare la giustizia. Gli preme invece riformare i giudici, come ha cercato di fare dall’inizio della sua avventura politica, e come può fare più agevolmente oggi che l’establishment vola compatto insieme con lui, due procure danno spettacolo indecoroso, il Pd si lascia incredibilmente affibbiare la titolarità di una "questione morale" da chi ha svillaneggiato la morale repubblicana e costituzionale, con la tessera della P2 ancora in tasca.
Tutto ciò consente oggi a Berlusconi qualcosa di più, che va oltre il regolamento personale dei conti con la magistratura. È l’attacco ad un potere di controllo - il controllo della legalità - che la Costituzione ha finora garantito alla magistratura, disegnandola nella sua architettura istituzionale come un ordine autonomo e indipendente, soggetto solo alla legge, dunque sottratto ad ogni rapporto di dipendenza da soggetti esterni, in particolare la politica. Il governo che lascia formalmente intatta l’obbligatorietà dell’azione penale, ma interviene sul suo "funzionamento" - come ha annunciato ieri il Guardasigilli Alfano - attraverso criteri suoi di "selezione" dei reati e "canoni di priorità" nell’esercizio dell’accusa, attacca proprio questa garanzia e questa autonomia, subordinando di fatto a sé i pubblici ministeri.
Siamo quindi davanti non a una riforma, ma a una modifica nell’equilibrio dei poteri, che va ancora una volta nella direzione di sovraordinare il potere politico supremo dell’eletto dal popolo, facendo infine prevalere la legittimità dell’investitura del moderno Sovrano alla legalità. Eppure, è il caso di ricordarlo, la funzione giurisdizionale è esercitata "in nome del popolo" perché nel nostro ordinamento è il popolo l’organo sovrano, non il capo del governo. Altrimenti, si torna allo Statuto, secondo cui "la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome".
Questa e non altra è la posta in gioco. Vale la pena discuterla davanti al Paese, spiegando la strategia della destra di ridisegnare il potere repubblicano dopo averlo conquistato. Ma la sinistra sembra prigioniera di una di quelle palle di vetro natalizie con la finta neve che cade, cercando di aprire (invano) la porta della Rai, come se lì si giocasse la partita. Fuori invece c’è il Paese reale, con il problema concreto di una crisi che ridisegna il mondo. A questo Paese abbandonato, Berlusconi propone oggi di fatto di costituzionalizzare la sua anomalia, sanandola infine dopo un quindicennio: e restandone così deformato.
* la Repubblica, 11 dicembre 2008
Ansa» 2008-12-05 16:28
FINANZIARIA: GOVERNO, RIPRISTINIAMO FONDI SCUOLE PRIVATE
ROMA - In arrivo 120 milioni per la scuola, ma senza distinzioni al momento dei destinatari: sarà il ministero dell’Istruzione, di concerto con il dicastero degli Affari regionali e dell’Economia, a valutare successivamente, entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge finanziaria, la quota da destinare agli istituti scolastici privati. E’ quanto stabiliscono due diversi emendamenti dei relatori al disegno di legge finanziaria e al bilancio approvati dalla commissione Bilancio del Senato.
Sono due gli emendamenti che intervengono sulla scuola e che sono stati approvati oggi dalla commissione Bilancio del Senato: uno è una modifica al disegno di legge Bilancio ed è una tabella, l’altro è una novità introdotta alla legge finanziaria e riguarda il decreto con il quale il governo potrà stabilire i criteri per la distribuzione alle regioni delle risorse finanziarie".
In questo ultimo emendamento, a firma del relatore, si legge che "fermo restando le prerogative regionali in materia di istruzione scolastica, con decreto del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il ministro degli Affari regionali e il ministro dell’Economia, sentita la Conferenza Stato-regioni, sono stabiliti entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge i criteri per la distribuzione alle regioni finanziarie occorrenti alla realizzazione delle misure". Per quanto riguarda invece la tabella inserita nel ddl Bilancio, il testo provvede a un incremento di 120milioni per il 2009 per "interventi in materia di istruzione" coperto con un taglio corrispondente ai fondi del ministero dell’Economia.
Il tema del finanziamento alle scuole private e’ stato rilanciato dalla Cei, preoccupata per il destineo delle scuole pubbliche non statali. Dopo aver annunciato la mobilitazione delle federazioni delle scuole cattoliche, la Conferenza episcopale si e’ detta fiduciosa negli impegni presi dal governo in materia.
Il ripristino quasi totale dei fondi originariamente tagliati, che ammontava a 130 milioni, era stato anticipato dal sottosegretario all’Economia Vegas. ’’C’e’ un emendamento del relatore che ripristina - dice Vegas - il livello originario, vale a dire 120 milioni di euro. Possono stare tranquilli, dormire su quattro cuscini’’.
PAPA: AIUTO A GENITORI PER SCELTA SCUOLA DIRITTO INALIENABILE
CITTA’ DEL VATICANO - Papa Benedetto XVI ha invocato "l’adozione di misure a favore dei genitori che li aiutino nel loro diritto inalienabile di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose, come pure la promozione della gioventù". Di ciò , Benedetto XVI ha parlato al nuovo ambasciatore argentino presso la Santa Sede, Juan Pablo Cafiero, che ha presentato oggi le sue credenziali. Le parole del Papa, pur se non riferite difrettamente al dibattito in corso in Italia tra Cei e governo sugli aiuti alle scuole cattoliche, delineano tuttavia il punto di vista generale della Chiesa su tale problema.
Se la Costituzione trova radici nell’Esodo
DA ROMA GIOVANNI RUGGIERO (Avvenire, 29.11.2008)
Quanto la Costituzione sia stata a cuore dei costituenti cattolici che contribuirono a scriverla - se non si volessero leggere tutti gli atti dell’Assemblea costituente - si capisce da una frase folgorante di Dossetti, come la riporta Giancarla Codrignani che a Roma ha moderato un convegno su Bibbia e Costituzione, promosso da Biblia, l’associazione laica di cultura biblica. «Se i Dieci Comandamenti dovessero far cilecca, - avrebbe detto dunque Dossetti - salvate almeno la Costituzione».
La nostra Magna Carta ha 60 anni, e Biblia la sta leggendo per cercare in essa fili segreti e delicati che la ricollegano alla tradizione culturale e religiosa occidentale, pur riconoscendone la profonda laicità «che - spiega Valerio Onida, presidente emerito della Consulta - come principio supremo non vuol dire che lo Stato sia estraneo o ostile alla religione, ma che riconosce il pluralismo religioso e la piena libertà di aderire all’una o all’altra confessione». Che la religione potesse essere occasione di divisione, specie nel 1948 in una Italia che usciva lacerata dalla guerra, lo intuì anche La Pira che non insistette perché un preambolo alla Carta contenesse la formula «in nome di Dio».
Andando più lontano, - e lo fa Mario Miegge, docente di filosofia teoretica a Ferrara - il patto sociale, che le Costituzioni in qualche modo cristallizzano, ha radici dirette nella Bibbia. Il filosofo le rintraccia nell’Esodo, e cioè nel patto sinaitico tra Dio e il suo Popolo. «Il richiamo all’Esodo - sostiene Miegge - è presente, a partire dal Medioevo, in molti documenti della storia politica. Ma se questo patto non resta saldamente legato alla memoria della oppressione e della liberazione, è esposto al pericolo di prendere a sua volta connotati di esclusione e di discriminazione nei confronti degli estranei, e si accrescono i rischi che la democrazia stesa si trasformi in un regime autoreferenziale, eventualmente plebiscitario e tendenzialmente totalitario».
La massima espressione di questo patto, la nostra Costituzione la traduce nell’articolo 3 che scolpisce la ’pari dignità sociale’. È una formula di non poco conto: «In essa - dice Piero Coda, presidente dell’Associazione teologica italiana - vengono coagulati tre dati che intendono formare un tutt’uno: la dignità, e cioè l’intrinseco valore riconosciuto a ogni cittadino in quanto tale; specificata dalla qualifica della parità, e cioè dall’essere essa identica in ciascuno di coloro che la posseggono e la esercitano; e insieme dalla sua socialità, e cioè dalla connotazione per cui essa, la pari dignità, è tale nel e per il suo proporsi nella relazione dell’uno, o degli uni, verso l’altro, o verso gli altri». In tutto questo intreccio - si chiede il teologo - quale ruolo ha giocato l’ispirazione biblica e in particolare quella cristiana? «Tale ispirazione - sostiene Coda - ha offerto alla civiltà umana, in specie a quella occidentale, un ampio e lavorato humus teologico e insieme antropologico per la percezione e la realizzazione della dignità sociale dell’uomo e della donna, a partire dal riconoscimento e dalla promozione della loro libertà e uguaglianza».
Gelli: il nuovo capo della P2? «Il mio erede è Berlusconi»
Per il "gran maestro" un programma tv *
Adesso ha un programma tutto suo su Odeon tv e sfrutta la rinnovata ribalta per passare il testimone. Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, non ha dubbi: per l’attuazione del Piano di Rinascita democratica della P2, «l’unico che può andare avanti è Berlusconi». L’investitura arriva durante la conferenza stampa di presentazione di Venerabile Italia, il programma che Gelli condurrà sull’emittente tv: «L’unico che può andare avanti è Berlusconi: non perché era iscritto alla P2, ma perché ha la tempra del grande uomo che ha saputo fare, anche se ora mostra un po’ di debolezza perché non si avvale della maggioranza parlamentare che ha».
Sembra una barzelletta. Invece è una vergogna. Soprattutto perché a Gelli viene regalata una tribuna tutta per sé. Il tema del programma sarà la storia d’Italia. Il capo della loggia massonica P2 racconterà la sua versione, magari sulla strage di Bologna, per cui è stato condannato per depistaggio. O sulla repubblica di Salò a cui aderì, o su Gladio, o su qualsiasi delle pagine grigie (se non nere) dalla storia del nostro paese a cui Gelli è legato.Il programma ha già degli ospiti, Anche questi poco fantasiosi: per la prima puntata Giulio Andreotti, Marcello Veneziani e Marcello Dell’Utri. Si parlerà di fascismo.
Forse, per chiarire il contesto, è utile ricordare la sua fedina penale. Licio Gelli è stato condannato con sentenza definitiva per i seguenti reati: procacciamento di notizie contenenti segreti di Stato, calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola, tentativi di depistaggio delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna e Bancarotta fraudolenta (per il fallimento del Banco Ambrosiano è stato condannato a 12 anni). Se lui considera Berlusconi il suo erede più credibile non abbiamo troppo di che stare tranquilli.
Anche perché, come se non bastasse quello che sta facendo, Gelli dà anche consigli al suo “figliol prodigo”: «Se uno ha la maggioranza deve usarla, senza interessarsi della minoranza. Non mi interessa la minoranza, che non deve scendere in piazza, non deve fare assenteismo, e non ci devono essere offese. Ci sono provvedimenti che non vengono presi perché sono impopolari, e invece andrebbero presi: bisogna affondare il bisturi o non si può guarire il malato».
* l’Unità, Pubblicato il: 31.10.08, Modificato il: 31.10.08 alle ore 17.33
I prof di religione pagati meglio e sempre più numerosi
Prof di religione, privilegiati di Dio
Per loro non ci sono tagli. E i precari nominati dal Vicariato prendono anche lo scatto biennale di anzianità
di Maristella Iervasi (l’Unità, 09.10.2008)
«OGNI ANNO scolastico vengo assunto in settembre e licenziato in giugno. Non ne posso più. Il mio stipendio, pur avendo una cattedra a 18 ore come tutti gli insegnanti a tempo indeterminato non cresce di un euro. Resta fermo a 1200 al mese. È un’ingiustizia di parità lavorativa. Uno scandalo». Così l’estate scorsa, Pino La Satta, 35 anni, da 7 anni docente precario di diritto, economia e con una specializzazione anche in sostegno presso un istituto professionale a Campobasso, ha avviato un ricorso. Ha colto al balzo la vertenza sulla conciliazione lavorativa lanciata in tutta Italia dalla Flc-Cgil. E spera di poter procedere davanti al giudice del lavoro per costituire un precedente, in forza di una sentenza della Corte di Giustizia Europea pronunciata sul caso di una lavoratrice spagnola precaria di 12 anni che al momento dell’assunzione ha chiesto il riconoscimento dell’anzianità pregressa.
«Ho fatto i calcoli - sottolinea il professore precario - ho perso finora 4mila euro lordi. Mentre ci sono altri docenti che hanno gli scatti pur essendo precari come me. Sono intoccabili, perfino dai tagli della Gelmini». Il riferimento è agli insegnanti di religione, che vengono pagati dallo Stato e nominati dal Vicariato su organici regionali. Oltre 25mila prof di fede cattolica privilegiati da sempre: sia che siano supplenti precari che di ruolo. Uno caso che pone la questione della violazione del principio di uguaglianza e sul quale la Commissione Europea ha aperto un dossier. Bruxelles, dopo l’esposto del deputato radicale Maurizio Turco, pretende adesso spiegazioni dal governo Berlusconi. Ma come stanno le cosè?
La Gelmini per volontà di Tremonti ha deciso che la scuola deve dimagrire di 87.400 posti docenti, di cui 30mila solo nelle elementari. Ma la mannaia creativa - e l’ha dichiarato il ministro stesso a Porta a Porta - non riguarda gli insegnanti di religione. Che restano sempre dei privilegiati. I loro stipendi crescono del 2% circa ogni 2 anni sia da semplici supplenti che di ruolo. Mentre tutti agli altri insegnanti a cui si applica il contratto devono sottostare a tempi più lunghi per l’avanzamento di carriera: 6-7 anni, i cosidetti gradoni. Mentre i precari di matematica o italiano restano al palo.
Il tutto è frutto della revisione dei Patti Lateranensi sottoscritti nel 1984 dal presidente Bettino Craxi e dal cardinal Agostino Casaroli. A cui seguì una legge, la n.186 del 18 luglio 2003: «Norme sullo stato giuridico degli insegnanti di religione cattolica negli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado». E l’accordo Miur-Cei del 23 ottobre 2003, tra l’allora ministro dell’Istruzione Letizia Moratti e il cardinal Camillo Ruini. Prima di allora gli insegnanti di religione erano sì scelti dalle Curie e pagati dallo Stato ma non potevano entrare di ruolo. Ogni anno dovevano essere riconfermati con il placet del vescovo ma rischiavano di restare precari a vita, fermi al primo livello stipendiale. Da qui la scelta di maggiori tutele rispetto agli altri insegnanti: dopo 4 anni consecutivi di lavoro a scuola, il diritto degli scatti biennali. Con la legge del 2003 si prospetta però la loro stabilizzazione. Ma quel privilegio non viene cancellato. Vige tutt’ora. Le prime assunzioni con Moratti, bel 2005-2006: 9.229 insegnanti su complessivi 24.412 precari. Le assunzioni successive, come d’intesa con la Chiesa, avvengono gradualmente di 3mila unità nel 2005-2006 e nel 2007-2008, coprendo fino 70%: 15mila posti docente in totale; il 30% è supplente.
LA SCUOLA NELLA BUFERA
Famiglie nei guai se chiudono le paritarie
In molte zone sono l’unica realtà educativa
Da Nord a Sud sono migliaia i piccoli Comuni nei quali
le materne o le elementari non statali sono il solo luogo formativo
-DA MILANO ENRICO LENZI (Avvenire, 30.10.2008)
Con il taglio di 133 milioni di euro alle scuole paritarie, per i piccoli della monosezione della materna di Vione, in Alta Vallecamonica nel Bresciano, potrebbe aprirsi la via del pendolarismo verso Temù, Comune a una decina di chilometri da Ponte di Legno. Un viaggio di parecchi chilometri lungo la tortuosa via che risale la Vallecamonica. E la stessa sorte potrebbe capitare ai loro amici di Marmertino in Val Trompia, che avrebbero come meta Tavernole sul Mella, scendendo di oltre 400 metri di altitudine. Ma lo scenario montano potrebbe ripetersi tranquillamente anche nella pianura dove si trova la ma- terna di Martignana vicino Empoli: anche in questo caso la chiusura dell’attività costringerebbe le famiglie o a rinunciare al servizio o a trasportare i propri figli in altri Comuni. Già, perché in molti centri abitati di piccole dimensioni la materna paritaria è l’unico centro educativo presente e non ha alternative.
Sono soltanto tre delle centinaia di esempi che si potrebbero fare. Sono scuole, ma anche volti, storie, famiglie reali, che rischiano di veder sparire un servizio pubblico oggi garantito anche dalle ottomila materne aderenti alla Federazione scuole materne di ispirazione cristiana (Fism) e alle centinaia di scuole elementari che aderiscono alla Fidae, la Federazione che riunisce le scuole cattoliche dalle elementari alle superiori. «Troppo spesso pensiamo alle grandi città - sottolinea Luigi Morgano, segretario nazionale della Fism -, dove l’alternativa di un’altra scuola esiste. Ma le nostre materne sono spesso sorte là dove lo Stato non ha un proprio istituto scolastico e dove magari il Comune, viste le proprie finanze, preferisce sostenere con un piccolo contributo la nostra scuola paritaria», il tutto in un’ottica non solo di sana sussidiarietà, ma anche nel principio sancito con la legge 62 del 2000, quella nota come legge sulla parità, in cui si parla di un unico sistema scolastico pubblico, a cui partecipano scuole di diversi gestori, compreso lo Stato. «E non dimentichiamo - rivendica Morgano - che il sostegno degli Enti locali nasce anche dall’apprezzamento della qualità delle nostre scuole».
Un principio importante che riceve, però, dallo Stato solo 534 milioni di euro, che la Finanziaria 2009 potrebbe ridurre di un quarto. Legittimo allora domandarsi cosa accadrà alle sezioni delle materne di Trecchina, Senise, Maratea, Castelluccio Superiore, Oppido Lucano, o San Costantino Albanese in provincia di Potenza, ma anche a quelle di Bagnoli di Sopra o Rio di Ponte San Nicolò nel Padovano. O, per restare nel Nord-Est, la «San Giovanni Bosco» di Piano di Riva vicino ad Ariano Polesine, o la «San Gottardo » di Bagnolo di Po, entrambi Comune in provincia di Rovigo, dove sono presenti soltanto le sezioni di scuola materna paritaria della Fism.
«Ma anche nelle grandi città - aggiunge don Francesco Macrì, presidente nazionale della Fidae - le nostre scuole sono spesso sorte e sono ancora presenti nei quartieri periferici o popolari dei capoluoghi». Ora arriva «questo taglio indiscriminato e grande nelle proporzioni, visto il nostro punto di partenza, che è fermo da ben sei anni» ricorda il presidente Fidae. Insomma una decisione che fanno apparire lontane le parole pronunciate dal presidente Napolitano all’apertura dell’anno scolastico, quando, rammenta don Macrì, «ha auspicato che la scuola sia collocata tra le priorità per l’avvenire del Paese, tanto da meritare - sono ancora parole di Napolitano - una speciale considerazione quando si affronta il problema della riduzione della spesa pubblica ».
Preoccupazione condivisa anche da Vincenzo Silvano, presidente della Federazione Opere Educative (Foe), le scuole che fanno riferimento alla Compagnia delle Opere. «Diminuire ulteriormente gli esigui fondi alle scuole paritarie - commenta - è un colpo alle famiglie che già sopportano oneri economici per garantirsi la propria libertà di scelta in campo educativo. Tra le scuole nostre associate circa un quarto restano aperte grazie proprio all’impegno delle famiglie che sono subentrati alle Congregazioni religiose nella gestione diretta delle scuole paritarie. Un impegno accettato e sostenuto, ma se ci saranno questi tagli per loro diventerà ancora più difficile». E alle famiglie va il pensiero anche di Luigi Morgano della Fism: «Le nostre scuole con meno fondi si troverebbero davanti al bivio: interrompere il servizio o alzare le rette, con un ulteriore aggravio di spesa». Uno scenario rifiutato pure da don Francesco Macrì della Fidae. Insomma ritirare quel taglio ai fondi permetterebbe ai bambini della materna di Vione (e a tutte le altre migliaia di sparse in tutto il Paese) di continuare la loro formazione nella comunità in cui sono nati.
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Il premier: correggeremo la manovra sui tagli
Emendamenti presentati da Pd e dall’Udc Casini:
la libertà di istruzione vale anche per le «non statali»
Appello al governo
DA MILANO ENRICO LENZI (Avvenire, 30.10.2007)*
«Vorrei mantenere la Finanziaria così com’è. Ciò non vieta che all’interno della manovra ci siano margini di correzione. Penso per esempio alla scuola privata » . All’indomani del grido dall’allarme lanciato dalle associazioni del mondo della scuola paritaria per i 133 milioni di euro tagliati nella Finanziaria in discussione in Parlamento, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi annuncia la disponibilità ad apportare « qualche modifica al testo » , citando espressamente il caso della scuola paritaria. Lo fa a margine dell’incontro con la Confcommercio. Promessa che ora deve trasformarsi in un atto concreto. Se lo augura l’Udc, il cui leader nazionale Pierferdinando Casini ha sottolineato che « nel triennio 2008- 2011 sono previsti 500 milioni di tagli per le scuole paritarie » . Per questo, prosegue Casini « noi solleviamo in Parlamento e nel Paese una grande questione: la libertà nell’istruzione vale per tutti, anche per le scuole libere » . Un secco «no» a questi «inaccettabili tagli». E per questo, con i deputati Antonio De Poli, Amedeo Ciccanti e Gian Luca Galletti, l’Udc ha presentato un proprio emendamento affinché «siano ripristinati i 133 milioni di tagli, anche perché la scuola paritaria oggi sta vivendo una crisi profonda, grazie al fatto che i contributi pubblici sono minimi. Le scuole non statali sono da sempre impegnate a promuovere l’educazione del bambino, secondo una visione cristiana dell’uomo, del mondo e della vita. È necessario sollecitare il governo affinché anche questo tipo di insegnamento sia sostenuto ».
Anche dal Partito Democratico arriva «la solidarietà alla scuole paritarie che a causa dei tagli previsti nella Finanziaria stanno manifestando la loro impossibilità di proseguire nell’erogazione dei servizi scolastici » . E con la deputata del Pd, Rosa De Pasquale, componente della commissione Istruzione, annuncia la presentazione « di un emendamento che ripristini i 113 milioni per le scuole paritarie, perché questi sono tagli gravissimi, che ledono il sistema pubblico dell’istruzione, colpendo in particolare le scuole dell’infanzia e quelle primarie ».
E poi, commenta monsignor Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense, rispondendo a una precisa domanda dei giornalisti, «ribadisco che le scuole cattoliche sono una ricchezza e non un peso per lo Stato».
Insomma le opposizioni incalzano il governo affinché accolga questi emendamenti che eliminano i tagli al capitolo di spesa per la scuola paritaria. Ma anche dall’interno della stessa maggioranza di centrodestra si sono levate in più occasioni voci contro questa misura della Finanziaria. Già in occasione del passaggio del testo in commissione Istruzione di Montecitorio, il testo venne approvato con la richiesta di modificare proprio la decisione del taglio alle paritarie. Tra i sostenitori di tale posizione lo stesso presidente della commissione, Valentina Aprea. Anche al Senato l’esame del testo si è concluso con un analogo invito all’esecutivo, con una esplicita richiesta da parte anche del capogruppo del Pd in commissione Istruzione, il senatore Andrea Rusconi.
La palla torna dunque nel campo del governo che nelle prossime settimane, in fase di votazione della manovra finanziaria dovrà dare attuazione a quanto promesso ieri dal presidente del Consiglio. Del resto le sollecitazioni per un ripristino completo dei 534 milioni di euro previsti dal capitolo di bilancio sono davvero bipartisan.
Enrico Lenzi
La Commissione di Bruxelles accoglie un esposto che ritiene violato il principio di uguaglianza dei cittadini
Dubbi Ue sui docenti di religione
"Assunti per fede, l’Italia spieghi"
di ALBERTO D’ARGENIO *
BRUXELLES - In Italia per diventare insegnante di religione, anche in una scuola pubblica, bisogna ottenere il via libera del vescovo. Una prassi in vigore dai Patti lateranensi del 1929 ma entrata in collisione con le regole europee che vietano qualsiasi forma di discriminazione in ragione del credo religioso di un lavoratore. E per vederci chiaro Bruxelles ha aperto un dossier e inviato una richiesta di informazioni al governo Berlusconi.
Il caso nasce da una denuncia alla Commissione europea promossa dal deputato radicale Maurizio Turco, dall’avvocato Alessandro Nucara e dal fiscalista Carlo Pontesilli. Le accuse del pool radicale sono molto precise e si fondano sulle regole cardine dell’Unione europea. Afferma infatti la direttiva comunitaria del 2000 contro la discriminazione che un lavoratore non può essere discriminato per ragioni "fondate sulla religione".
Ma c’è di più, visto che la parità di trattamento a prescindere dalla confessione è garantita anche dalla Dichiarazione universale dell’Onu, richiamata dal Trattato di Maastricht, e dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo. E, a quanto sembra, la regola in vigore da ottant’anni e confermata nel 1985 in seguito al rinnovo dei Patti firmato da Bettino Craxi va in un’altra direzione.
L’avallo vescovile, è la tesi radicale, rappresenta infatti una violazione delle regole comunitarie. A non andare è soprattutto la diversità di trattamento tra i professori di religione e quelli delle altre materie: chi vuole insegnare, infatti, deve svolgere un corso di abilitazione di un anno e poi sperare di diventare precario, prima tappa della sua incerta carriera. Chi insegna religione, sottolinea la denuncia recapitata a Bruxelles, invece deve solo ottenere la nomina vescovile (fatti salvi alcuni requisiti professionali) godendo dunque di un trattamento privilegiato vietato dalla Ue. E ovviamente va da sé che un ateo o un non cattolico non può diventare docente di religione, con palese discriminazione rispetto a chi è credente.
Ma non finisce qui, visto che c’è anche una disparità di trattamento retributivo tra i circa 23 mila insegnanti di religione e gli altri, con i primi che prendono più soldi dei secondi. Prassi bocciata a luglio dalla giustizia italiana, che ha condannato il ministero dell’Istruzione a parificare lo stipendio di un professore che ha fatto ricorso aprendo la strada a nuove singole denunce (in Italia non esiste il ricorso collettivo). Argomentazioni che hanno fatto breccia a Bruxelles, con la direzione generale Affari sociali e pari opportunità della Commissione europea che a cavallo dell’estate ha chiesto una serie di informazioni al governo riservandosi di decidere sul caso solo quando avrà letto la risposta, attesa a breve.
Insomma, non si tratta ancora di una procedura formale contro l’Italia, ma l’invio di un questionario significa che la Ue nutre seri dubbi sulla legalità della nostra legge. Esattamente come avvenuto nel 2007, quando Bruxelles ha chiesto una serie di informazioni sui colossali sgravi fiscali accordati alla Chiesa. Un dossier, questo, ancora al vaglio della Commissione che, secondo diversi interlocutori, prende tempo viste le ingombranti pressioni politiche che spingono per un’archiviazione.
* la Repubblica, 8 ottobre 2008
La scuola del Vaticano e i soldi italiani
"Favorire quella effettiva uguaglianza tra scuole statali e scuole paritarie che consenta ai genitori opportuna libertà di scelta circa la scuola da frequentare": È l’auspicio "per il bene dei giovani e del Paese" rivolto oggi da papa Benedetto XVI. Si dice "effettiva uguaglianza" e si traduce in "dateci i soldi!".
Ogni giorno è più imbarazzante l’ingerenza del capo della Chiesa Cattolica, Papa Benedetto XVI, e la mano tesa per chiedere soldi allo Stato italiano. Oggi, per un genitore, esiste la libertà di scegliere se mandare i propri figli ad una scuola pubblica o ad una privata, religiosa, cattolica o laica che sia, ma è bene ricordare che esiste, e molto chiaro l’articolo 33 della Costituzione: "Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato".
Ma l’ora facoltativa di religione costa ai contribuenti italiani circa un miliardo di euro all’anno. È la seconda voce di finanziamento diretto dello Stato alla confessione cattolica, di pochi milioni inferiore all’otto per mille. È la messa in opera della seconda morale di papa Ratzinger, la prima è quella spirituale e laica, che per essere messa in opera abbisogna dei soldi per i quali scatta la seconda morale.
Donatella Poretti
Fonte: www.italialaica.it
La scure di Gelmini sui più piccoli
Elementari, bocciati con un cinque
di Maristella Iervasi (l’Unità, 26.09.2008)
Ripristinata la bocciatura alle scuole elementari. Basterà una sola insufficienza e i bambini della primaria ma anche i ragazzini delle medie verranno bocciati. Con un 5 e mezzo in Geografia o disegno alle elementari - tanto per fare un esempio - e lo stesso voto per i più grandicelli in Applicazione tecnica o in Musica, gli studenti rischiano di ripetere l’anno e persino di non essere ammessi all’esame di licenza scolastica. Ecco la scuola del «rigore» del ministro Mariastella Gelmini. La norma, in vigore da subito, è nascosta tra le righe del decreto n.137 del 1° settembre scorso che il Parlamento si appresta a convertire in legge. Quello - per capirci - che ha introdotto il voto in condotta, le pagelle in numeri e che prevede il ritorno del maestro unico. «Basta un solo voto al di sotto dei 6/10 in un’unica materia o gruppo di discipline per pregiudicare la carriera scolastica di un alunno - denuncia Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd in Commissione Cultura alla Camera».
«Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università». Dopo Cittadinanza e Costituzione e la valutazione del comportamento degli studenti, ecco l’articolo 3: «Valutazione del rendimento scolastico degli studenti». Il titolo è generico e i primi due commi specificano che si parla della valutazione «periodica e annuale» dall’anno scolastico 2008/2009 nella scuola primaria e secondaria di I° grado, cioè le medie. Mentre il terzo comma sancisce: «Sono ammessi alla classe successiva, ovvero all’esame di Stato a conclusione del ciclo, gli studenti che hanno ottenuto un voto non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline».
Una rivoluzione senza precedenti, visto che finora alle elementari la bocciatura è un caso raro e laddove è ritenuta necessaria è sempre concordata tra genitori e insegnanti. Ed è una norma fortemente discriminatoria anche per i ragazzi delle medie e le loro famiglie, visto che per gli studenti delle superiori è consentito di mettersi in pari con il proprio debito o le difficoltà scolastiche con i programmi di recupero introdotti dall’ex ministro dell’Istruzione Beppe Fioroni e confermati dalla Gelmini.
Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil: «È assurdo che per una sola materia si bocci un bambino. Il 137 prevede proprio questo. Dietro queste norme si nasconde un vuoto assoluto di idee su come rendere innovativo il sistema di istruzione nel nostro paese e nello stesso tempo si dà un corpo mortale alla scuola pubblica partendo da quella che funziona meglio: l’elementare. Bocciare un bambino, attraverso il meccanismo del voto - conclude Pantaleo - significa riconoscere l’incapacità della scuola, la sua funzione educativa e di apprendimento».
Il Pd in Commissione Cultura, solo per il comma 3 sulla valutazione del rendimento scolastico, ha presentato 5 emendamenti (Ghizzoni, Caterina Pess, Rosa Bruna De Pasquale e Letizia De Torre). Ne ha discusso a lungo con la relatrice Valentina Aprea e anche alla presenza del ministro. Mentre anche la Lega con la deputata Paola Goisis, si è accorta della pericolosità della norma e ha chiesto «che venga meglio chiariata». Ma il testo, alla fine è stato licenziato con il ripristino della bocciatura per le elementari. Senza alcuna modifica. Solo un impegno della Lega a modificarla in aula. Sconcertanti le parole messe verbale e riportate sul sito della Camera nel corso della discussione di martedì scorso in VII Commissione Cultura. Valentina Aprea, presidente e relatore: «Il comma 3 dell’articolo 3 è una norma chiara, volta a responsabilizzare i docenti della scuola secondaria di primo grado». Il ministro Maristella Gelmini: «Gli insegnanti avranno buon senso nell’applicare la norma in questione».
Lunedì a Montecitorio l’aula comincerà l’esame del decreto. «E chissà se in quella sede la maggioranza capirà che le leggi si scrivano affinchè vengano applicate e non per confidare nel buon senso dei cittadini», è il commento di Manuela Ghizzoni. Il Piddì annuncia battaglia. Il governo e il centrodestra hanno invece fretta di convertire in decreto in legge ordinaria, perchè altrimenti entro il mese di ottobre decadrebbe.
Ma un’altra «grana» è in agguato: l’art.4 che prevede il ritorno del maestro unico, manca di copertura finaziaria. L’ha certificato la commissione bilancio, che ne ha chiesto la riformulazione per precisarne gli oneri e la data di applicazione.
Intanto, con lo slogan «salva la scuola» parte la tre giorni di mobilitazione del Pd contro il decreto Gelmini. Stamattina l’ex ministro Giuseppe Fioroni sarà a Milano davanti davanti alla scuola «Casa del Sole» e poi al convegno «Salva l’Italia cambia la scuola all’Auditorium Teatro San Carlo. Domani Dario Franceschini, vice segretario Pd, sarà a Perugia. Mentre lunedì, a Roma, alle 17, Walter Veltroni incontrerà il mondo della scuola al teatro Capranica.
l’Unità 26.09.2008
Scuole pubbliche e private: Ratzinger vuole la parità
Parità scolastica. Sia reale la possibilità di «libera scelta delle famiglie» e sia «effettiva l’uguaglianza tra scuole statali e scuole paritarie», che poi sono fondamentalmente quelle cattoliche. Lo ha chiesto ieri Benedetto XVI ricevendo in udienza a Castel Gandolfo i partecipanti al convegno promosso dal Centro studi per la scuola cattolica della Cei.
Nel suo saluto il Papa, sottolineando il «significato civile» del progetto pedagogico cattolico, ha rilevato come possa e debba rispondere a «quella emergenza educativa» denunciata più volte. Lo fa rilanciando il tema della parità scolastica, non soltanto come problema di cassa per la scuola «cattolica», ma anche come «intento pedagogico» da far conoscere e da valorizzare in tutti i suoi aspetti, non solo quello dell’identità ecclesiale e del suo progetto culturale, ma anche del suo «significato civile», che «va considerato non come difesa di un interesse di parte, ma come contributo prezioso all’edificazione del bene comune dell’intera società italiana». È così che quel modello, spiega il pontefice, può essere «scelto e apprezzato». Plaude il ministro dell’istruzione del governo ombra, la democratica Mariapia Garavaglia, aggiungendo che «purtroppo il governo in carica non ha presentato nessun progetto educativo, ma tagli pesanti che coinvolgono tanto la scuola statale che paritaria». Plaude anche Luca Volontà (Udc) che sottoscrive la richiesta di «effettiva parità scolastica» e di «reale libertà di scelta per le famiglie», per chiedere al governo di centrodestra di passare ai fatti: di assicurare finanziamenti alla scuola cattolica «per riconoscere la piena attuazione del diritto-dovere di libertà educativa».
Un giudizio non condiviso dalla portavoce del Cgd, Coordinamento genitori democratici, Angela Nava. «Le dichiarazioni del Papa sulla necessità di un’effettiva parità fra istituti statali e paritari può funzionare per le coscienze, ma non per la politica di uno Stato, che d’altronde è particolarmente favorevole alla scuola privata. Il governo dovrebbe investire maggiormente sulla scuola pubblica, quella di tutti». «In Italia -continua Nava- la questione fra scuola pubblica e scuola privata è ancora irrisolta. La legge Berlinguer, in base alla quale istituti statali e paritari devono garantire stessi diritti e doveri, non ha ancora avuto piena attuazione. Quando gli istituti privati si adegueranno ci sarà effettiva parità, e in questo modo potremo garantire il diritto delle famiglie alla scelta». L’Unione genitori, invece, apprezza e chiede maggiore sostegno alle famiglie.
E’ stata presentata ai sindacati una bozza della riforma messa in campo dal governo
Nel documento non c’è neppure un accenno alla questione del tempo pieno
Maestro unico, trenta per classe
ecco il decalogo della Gelmini
Molti condizionali, ma proviamo a fare il punto su come potrebbe cambiare la scuola
di SALVO INTRAVAIA *
Classi più numerose: fino a 29 alunni all’asilo, fino a 30 nelle prime di medie e superiori. Lo prevede la bozza di regolamento per la riorganizzazione della rete scolastica presentata ieri dal Ministero dell’Istruzione ai sindacati di categoria. Non ancora il piano programmatico promesso dal ministro Maria Stella Gelmini. E in più i sindacati, che hanno visionato il documento, fanno sapere che non c’è nessun accenno alla questione del tempo pieno.
Il documento contiene i nuovi criteri per la formazione delle classi, l’accorpamento degli istituti, l’impiego del personale in esubero. "Il piano deve essere definito nei dettagli con il ministro dell’Economia", è stato spiegato ai sindacati.
E infatti la riforma parte proporio dalla attuazione della manovra economica estiva. Comunque tra mille illazioni, polemiche e incertezze ("assurde", dicono i sindacati) proviamo a fare il punto su quali dovrebbero essere - il condizionale è d’obbligo - le norme che in pochi anni dovrebbero cambiare volto alla scuola italiana.
Due parole d’ordine, "essenzialità" e "continuità": la seconda con le riforme precedenti, compresa quella del Centro-sinistra, e la prima per semplificare e rendere più efficiente l’intero sistema-scuola. Il Piano si muove su tre direttici: Revisione degli ordinamenti scolastici, Dimensionamento della rete scolastica italiana e Razionalizzazione delle risorse umane, cioè tagli.
Scuola dell’infanzia. L’organizzazione oraria della scuola materna rimarrà sostanzialmente invariata. Saranno reintrodotti gli anticipi morattiani (possibilità di iscrivere i piccoli già a due anni e mezzo) e nelle piccole isole o nei piccoli comuni montani l’ingresso alla scuola dell’infanzia potrà avvenire, per piccoli gruppi di bambini, anche a due anni. L’esperienza delle "sezioni primavera" per i piccoli di età compresa fra i 24 e i 36 mesi sarà confermata.
Scuola primaria. E’ il ritorno al maestro unico la novità che ha messo in subbuglio la scuola elementare. Già dal 2009 partiranno prime classi con scansione settimanale di 24 ore affidate ad un unico insegnante che sostituisce il "modulo": tre insegnanti su due classi. Le altre opzioni possibili, limitatamente all’organico disponibile, saranno 27 e 30 ore a settimana. La Gelmini "promette" anche di non toccare il Tempo pieno di 40 ore settimanali che potrebbe essere addirittura incrementato ma, su questo punto, pare che il ministero dell’Economia non sia d’accordo. E l’insegnamento dell’Inglese sarà affidato esclusivamente ad insegnanti specializzati, non più specialisti, attraverso corsi di 400/500 ore.
Scuola secondaria di primo grado. La scuola media è al centro di un autentico tsunami che si pone come obiettivo quello di scalare le classifiche internazionali (Ocse-Pisa) che vedono i quindicenni italiani agli ultimi posti. L’orario scenderà dalle attuali 32 ore a 29 ore settimanali. Per questo verranno rivisti programmi e curricoli. Il Tempo prolungato (di 40 ore a settimana) sarà mantenuto solo a determinate condizioni, in parecchi casi verrà tagliato. Per cancellare l’onta dei test Pisa, si prevede il potenziamento dello studio dell’Italiano e della Matematica. Stesso discorso per l’Inglese, il cui studio potrà essere potenziato solo a scapito della seconda lingua comunitaria introdotta dalla Moratti.
Secondaria di secondo grado. La scuola superiore, rimasta fuori da riforme strutturali per decenni, vedrà parecchi cambiamenti. Gli 868 indirizzi saranno ricondotti ad un numero "normale". I ragazzi che opteranno per i licei (Classico, Scientifico e delle Scienze umane) studieranno 30 ore a settimana. Saranno rivisti, anche al superiore, curricoli e quadri orario. Al classico saranno privilegiati Inglese, Matematica e Storia dell’Arte. Allo scientifico, in uno o più corsi, le scuole autonome potranno si potrà sostituire il Latino con lingua straniera. I compagni degli istituti tecnici e professionali saranno impegnati per 32 ore a settimana. Stesso destino per i ragazzi dei licei artistici e musicali.
Riorganizzazione rete scolastica. Attualmente, la scuola italiana funziona attraverso 10.760 istituzioni scolastiche che lavorano su 41.862 "punti di erogazione" del servizio: plessi, succursali, sedi staccate, ecc. Secondo i calcoli di viale Trastevere, 2.600 istituzioni scolastiche con un numero di alunni inferiore alle 500 unità (il minimo stabilito dalla norma per ottenere l’Autonomia) o in deroga (con una popolazione scolastica compresa fra le 300 e le 500 unità) dovrebbero essere e smembrate e accorpate ad altri istituti. Dal ondata di tagli della Gelmini si salverebbero soltanto le scuole materne. Dovrebbero, invece, chiudere i plessi e le succursali con meno di 50 alunni: circa 4.200 in tutto. In forse anche i 5.880 plessi con meno di 100 alunni. Ma l’intera operazione, che il ministro vuole avviare già a dicembre, dovrà trovare il benestare di Regioni ed enti locali.
Razionalizzazione risorse umane: i tagli. Il capitolo dei tagli è lunghissimo. Alla fine del triennio 2009/2010-2011/2012 il governo Berlusconi farà sparire 87.400 cattedre di insegnante e 44.500 posti di personale amministrativo, tecnico e ausiliario (Ata): 132 mila posti in tutto. Il personale Ata verrà ridotto del 17 per cento. Il rapporto alunni/docente dovrà crescere di una unità. Maestro unico, soppressione di 11.200 specialisti di Inglese alle elementari, contrazione delle ore in tutti gli ordini di scuola, compressione del Tempo prolungato alla scuola media, rivisitazione delle classi di concorso degli insegnanti e ulteriore taglio all’organico di sostegno contribuiranno alla cura da cavallo che attende la scuola italiana. L’intera operazione dovrebbe consentire risparmi superiori a 8 miliardi di euro che in parte (30 per cento) potranno ritornare nelle tasche degli insegnanti, ma solo dei più meritevoli.
* la Repubblica, 25 settembre 2008.
Un professore di religione in una media inferiore. Sono loro gli insegnanti più pagati.
Durante il precariato lo stipendio aumenta del 2,5% ogni due anni.
Aumenti solo ai docenti di religione. Collega di diritto fa causa: risarcita
Il tribunale di Roma ha sentenziato che si tratta di una differenza ingiustificata
di Lorenzo Salvia (Corriere della Sera, 25.09.2008)
ROMA - Un professore di religione guadagna più di un professore di italiano. E anche di uno di matematica, oppure di storia, di inglese, insomma di una delle qualsiasi materie obbligatorie nella scuola italiana. Lo dice la legge, anzi l’interpretazione della legge che per anni è arrivata dal ministero della Pubblica istruzione. Solo agli insegnanti di religione, durante il precariato, è riservato un aumento dello stipendio del 2,5 per cento ogni due anni. Non un patrimonio, certo. Ma dopo otto anni, rispetto ai loro colleghi di altre materie, guadagnano 130 euro netti al mese in più. Stesso lavoro, stipendio diverso: una differenza ingiustificata e dal «profilo di tutta evidenza discriminatorio» secondo una sentenza del tribunale di Roma che potrebbe aprire la strada ad un risarcimento danni di massa. E creare qualche problemino alle casse pubbliche che già di loro non sono messe benissimo.
A fare causa è stata Alessandra Rizzuto, insegnante di diritto con incarico annuale in una scuola superiore della Capitale. Il suo avvocato, Claudio Zaza, sosteneva il carattere discriminatorio proprio di quello scatto automatico previsto solo per i professori di religione. E il giudice del lavoro gli ha dato ragione, condannando il ministero della Pubblica istruzione a risarcire la professoressa con 2.611 euro e 36 centesimi, cifra calcolata sommando gli aumenti che avrebbe avuto insegnando religione. La condanna riguarda solo questo caso specifico ma a poter presentare un ricorso simile sono più di 200 mila: tutti i precari che hanno avuto almeno due incarichi annuali più quelli che sono passati di ruolo dal 2003 in poi, perché nelle cause di lavoro dopo cinque anni arriva la prescrizione.
La professoressa Rizzuto non è una testa calda che un bel giorno ha deciso di fare la guerra al ministero della Pubblica istruzione. La sua è una causa pilota promossa dai Radicali, e in particolare dal deputato Maurizio Turco e dal fiscalista Carlo Pontesilli, una coppia che da tempo va alla caccia dei «privilegi della Chiesa». Ed è proprio di «diritto per tutti trasformato in privilegio per pochi» che loro parlano.
L’aumento biennale del 2,5 per cento è stato introdotto con una legge del 1961 che in realtà riguardava tutti gli insegnanti precari, a prescindere dalla materia. Ma nel corso degli anni una serie di circolari ministeriali ha ristretto lo scatto automatico solo a quelli di religione. All’epoca una logica ci poteva anche essere. Fino a pochi anni fa gli insegnanti di religione erano precari a vita, non passavano mai di ruolo e ogni anno, oltre al nulla osta del vescovo, dovevano aspettare la chiamata del preside. Ma nel 2003, con legge ed apposito concorso, sono stati assunti a tempo indeterminato. E si sono portati dietro gli scatti accumulati, conservando il distacco in busta paga sugli altri colleghi.
Carlo Pontesilli, il fiscalista radicale, ha calcolato che se tutti quei 200 mila insegnanti facessero causa e vincessero, lo Stato dovrebbe tirar fuori 2 miliardi e mezzo di euro. Maurizio Turco, il deputato, se la ride: «Li invitiamo tutti a seguire questa strada. Vorrà dire che quei soldi li metteremo sul bilancio dei rapporti fra Stato e Chiesa».
Affinità elettive in nome dell’ordine
I rapporti tra chiesa cattolica e nazismo
di Alessandra Marani (il manifesto, 19.09.2008)
LIBRI :
MARTINO PATTI,
CHIESA CATTOLICA E TERZO REICH (1933-1934),
MORCELLIANA, PP. 368, EURO 25
Risalgono a poco più di un anno fa le tensioni fra il Vaticano e Israele per la didascalia posta sotto la foto di Pio XII nel museo dell’Olocausto a Gerusalemme che attribuisce al pontefice pesanti responsabilità per non avere condannato esplicitamente il nazismo. La posizione della chiesa cattolica nei confronti del Terzo Reich continua infatti a costituire un nodo problematico non risolto.
Anche la produzione storiografica è divisa tra chi sottolinea la netta contrapposizione dell’istituzione ecclesiastica al nazismo e chi mette in evidenza le radici profonde del consenso cattolico al nazionalsocialismo, come testimoniano il saggio di Giovanni Miccoli I dilemmi e i silenzi di Pio XII (Rizzoli, 2000) e la miscellanea Cattolicesimo e totalitarismo curata da Daniele Menozzi e Renato Moro (Morcelliana, 2004).
In Chiesa cattolica e terzo reich (1933-1934) Martino Patti pubblica adesso cinque saggi editi tra il 1933 e il 1934 dall’editore Aschendorff ad opera di altrettanti intellettuali cattolici tedeschi. Gli scritti dimostrano il solido fondarsi di questi studiosi in una stessa cultura che usava riferimenti filosofici, categorie di lettura del presente e del recente passato, modelli di relazione tra chiesa e società uniformi. Ma ognuno degli autori coniuga quei dati comuni con altre suggestioni provenienti dalla cultura filosofica tedesca e dà così un apporto specifico alla precisazione delle affinità tra cattolicesimo e nazionalsocialismo.
Nel saggio di Michael Schmaus - professore di dogmatica all’Università di Münster - sono presenti gli elementi propri di una cultura cattolica intransigente che si è opposta all’Illuminismo, al processo di laicizzazione dello stato, di secolarizzazione della società, che ha giudicato l’età moderna come l’età del «soggettivismo esasperato» e della scienza «priva di premesse morali fondate apriori» e che ha condannato il liberalismo, origine di tutti i mali successivi. Schmaus giudica il nazionalsocialismo la grande occasione per combattere il bolscevismo, per rigettare «l’inganno secondo cui la sapienza umana potrebbe forgiare da sé le leggi che regolano l’economia e la società» e per ricreare una società rispettosa dell’ordine naturale voluto a Dio: organica, fondata sui principi di autorità, ordine gerarchico, rispetto delle «differenze ontologiche» degli individui e che ripudia sia la concezione democratica che la pretesa di eguaglianza tra uomo e donna.
Nelle pagine del teologo, poi docente all’università di Monaco dal 1946 al 1956 e perito straordinario al Concilio Vaticano II, è presente anche la convinzione, derivata dalla filosofia di San Tommaso, che stato e chiesa si devono armonizzare per condurre gli uomini al conseguimento dei loro fini. Questa visione, unita all’affermazione che il bene dello stato viene prima del bene del singolo, spiega la necessità della limitazione della libertà individuale, giudicata tra l’altro in linea con la dottrina cattolica del peccato originale «che giustifica la diffidenza verso la libertà».
Infine il concetto di Volk (comunanza di «lingua, di sangue, di terra, di destino e di dovere») diventa il punto di incontro della concezione organicistica antiliberale con una concezione di Dio contaminata con categorie hegeliane, da cui deriva la convinzione che ad ogni Volk spetti una specifica missione e a quello tedesco «uno dei compiti più significativi».
Nel suo saggio Joseph Lortz - professore all’Accademia di Braunsberg e autore della Storia della Chiesa in una prospettiva di storia delle idee , che nel 1960 raggiunse la sua ventesima edizione tedesca - individua nel nazionalsocialismo ciò che permette alla chiesa di portare a compimento la sua evoluzione storica: il superamento della sua politicizzazione (necessaria nell’età liberale in cui lo stato laico non accettava più i fondamenti dell’ordine naturale), la diffusione capillare dell’etica cattolica e la realizzazione dell’unità ecclesiale dopo la spaccatura introdotta dalla Riforma di Lutero.
Il testo di Franz G. Taeschner, professore di storia orientale all’Università di Münster fino al 1956, consente poi di evidenziare come l’affermazione che il cristianesimo è portatore di una concezione totalitaria, alla quale corrisponde la conduzione autoritaria della chiesa, sia strettamente connessa con l’accettazione della dimensione totalitaria del nazionalsocialismo. L’autore afferma che il Terzo Reich si conforma alle leggi di natura proprio grazie alla concezione della nazione come «organismo vivente», basata sul fondamento razziale e in cui il singolo è un tassello della Volkgemeinschaft e alla concezione autoritaria dello stato. Per Taeschner, cattolicesimo e nazionalsocialismo sono allora due realtà assolutamente complementari.
Infine il saggio di Josef Pieper, dal 1959 professore di antropologia filosofica all’Università di Münster, sottolinea le concordanze tra i contenuti dell’enciclica di Pio XI del 15 maggio 1931 - che, condannando la lotta di classe, proponeva un modello di società organicistico e valutava positivamente il corporativismo - e il diritto del lavoro dello stato nazionalsocialista.
Il volume di Patti permette dunque importanti precisazioni circa i complessi sedimenti filosofici, teologici, ecclesiologici, economico-sociali che hanno condotto questo gruppo di intellettuali cattolici a interpretare il fenomeno del nazionalsocialismo come l’evento provvidenziale che consentiva il superamento degli errori della modernità e la via attraverso cui ristabilire l’ordine naturale voluto da Dio, di cui la chiesa cattolica si riteneva depositaria.
Nastro scuro al braccio in tutta Italia contro la riforma Gelmini
A Firenze, in alcuni plessi, le insegnanti accolgono gli alunni interamente vestite di nero
"No ai tagli, no al maestro unico"
La protesta delle maestre in lutto
ROMA - Questa volta le maestre proprio non ci stanno. E in tutta Italia il primo giorno di scuola decidono di protestare contro la riforma Gelmini, silenziosamente, con un nastro nero legato al braccio, in segno di lutto. Se a Firenze i bambini di alcune scuole materne ed elementari hanno trovato gli insegnanti vestiti completamente di nero, a Roma prof e genitori hanno deciso di occupare un istituto.
Tutti in nero a Firenze. E’ questa la forma di protesta contro la riforma del ministro Gelmini decisa dalle insegnanti della scuola pubblica materna Andrea del Sarto, la scuola dell’infanzia Giotto e la scuola primaria Capponi a Firenze. Le maestre hanno atteso gli studenti davanti ai plessi scolastici, fuori dal portone con tutto l’abito nero e uno striscione: "No ai tagli, no al maestro unico". Solo nelle prime elementari, all’arrivo a scuola dei piccoli studenti, la protesta è stata più sobria, con le maestre che comunque indossavano qualcosa di nero. Altre forme di contestazione contro la riforma Gelmini sono state annunciate per oggi e i prossimi giorni in tutti gli istituti scolastici che fanno parte del circolo 11 di Firenze.
A Roma scatta l’occupazione. Si protesta attivamente anche nella capitale. Volantinaggi e assemblee alla scuola elementare "Iqbal Masih" di via Ferraironi. Stessa situazione alla succursale di via Balzani, nel quartiere Casilino 23. Come già annunciato, anche qui il primo giorno di scuola è iniziato con la protesta di insegnanti e genitori contro la riforma Gelmini e l’introduzione del maestro unico.
"L’occupazione della scuola inizierà alle 12.30 e andrà avanti per una settimana - ha spiegato l’insegnante Paola De Meo della Iqbal Masih - Questa mattina, come annunciato, abbiamo messo il lutto al braccio, ma entrati in classe l’abbiamo tolto per non impressionare i bambini. Durante il pomeriggio, alla fine delle lezioni che andranno avanti regolarmente, abbiamo organizzato attività, teatrali e musicali nonché informative sul funzionamento delle dinamiche scolastiche, una materia che, purtroppo, non tutti conoscono e per cui non sempre viene compresa l’importanza e il significato delle nostre proteste".
La mobilitazione è stata decisa quasi all’unanimità dal Collegio dei docenti ("ci sono stati un’astenuta e un voto contrario"). Anche alla succursale di via Balzani, alle 8 si è svolto un volantinaggio e alle 8,30 una breve assemblea tra genitori e docenti.
* la Repubblica, 15 settembre 2008
DIO PATRIA FAMIGLIA *
L’onnipresente Ministro Tremonti, tuttologo e tuttofare, in un dibattito organizzato dai giovani di AN ha confessato: "Non ho ideologia ma se mi si chiede dico: Dio, Patria e Famiglia"! Sic!
E questa non sarebbe ideologia? Cosa sarebbe questa parola d’ordine del Ventennio? Nutella spalmatutto o una sorta di protesi per handicappati mentali?
E allora, con Adriana Zarri dico a chiara lettere che "Dio mi sta bene, e anche la patria e la famiglia; ma il trilogismo Dio-Patria-Famiglia non mi sta più bene. Dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue. Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano alla patria senza senzo civico"!
Pace e bene a tutti!
Aldo [don Antonelli]
Il dibattito
Su «Aspenia» dialogo sul rapporto tra il credo e la politica, sul «ritorno» della religione dopo la fine delle ideologie
La religione c’è sempre stata, in alcune fasi è stata latente od oscurata dalle ideologie. Il comunismo era una religione sostitutiva
di Giulio Tremonti e Massimo D’Alema (Corriere della Sera, 12.09.2008)
Tremonti, D’Alema e il Secolo Religioso «Era della coscienza». «Laicità a rischio»
Ministro ed ex premier d’accordo: qui la fede non è confinabile alla dimensione privata
Oggi vengono messi in discussione i fondamenti stessi dello Stato laico europeo,
perché libertà e cittadinanza non si fondano sulla verità
Il nuovo numero di Aspenia, la rivista trimestrale diretta da Marta Dassù, ragiona di religione e politica: «Il ritorno della religione nel dibattito pubblico, sul piano della politica globale e della politica tout court». Apre il dibattito il dialogo tra l’ex premier Massimo D’Alema e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che si confrontano su «Dei, patrie e famiglie». La domanda di partenza è se il XXI secolo si profili come un secolo religioso dopo la crisi delle ideologie. Per entrambi è improprio parlare di ritorno della religione: secondo D’Alema «si presenta in modi e gradi diversi in aree differenti del mondo»; Tremonti giudica «falsa» quest’idea perché «la religione c’è sempre stata, se pure con intensità diverse». Tra i temi toccati anche la «deprivatizzazione» della religione in Europa, su cui D’Alema e Tremonti si trovano concordi nel sostenere che il fenomeno religioso non è mai stato confinabile in una dimensione privata. Nella sezione Scenario, dedicata a fede e ragione, l’ex premier Giuliano Amato e il presidente della Fondazione Magna Carta Gaetano Quagliariello dialogano su «Il ritorno di Dio».
Aspenia: «Il XXI secolo si profila come un secolo religioso, dopo che la fine della guerra fredda ha segnato la crisi delle ideologie secolari del secolo scorso, non solo il comunismo ma anche le forme estreme di liberalismo economico. Condividete questa impostazione?
MASSIMO D’ALEMA: «Certamente è tramontata l’idea che aveva preso il sopravvento nella fase culminante della secolarizzazione, e cioè che la religione potesse essere confinata in una sfera privata. Il peso che le religioni sono tornate ad assumere nella sfera pubblica è legato al declino delle ideologie e delle grandi narrazioni novecentesche. In fondo, l’ultimo sussulto delle ideologie del Novecento è stata l’ideologia della fine delle ideologie, con la famosa teoria, dopo il crollo del Muro di Berlino, della fine della storia. Inutile dire quanto tale teoria si sia dimostrata fallace. E non c’è dubbio che l’11 settembre abbia aperto un secolo nuovo. Ma non so dire, onestamente, se sarà davvero un secolo religioso. Per la semplice ragione che il ritorno della religione - in quanto bisogno di dare un senso non solo all’esistenza ma alla convivenza umana - si presenta in modi e gradi diversi in aree differenti del mondo.
(...) Dominique Moïsi distingue fra tre grandi aree: quella della paura, che saremmo noi, l’Occidente; quella del rancore, e cioè il mondo islamico; e infine l’area della speranza, in cui rientrano la società asiatica e le grandi aree emergenti. È in questa ultima parte del mondo che la religione conta di meno. Naturalmente, l’elemento religioso è comunque importante, per esempio in paesi come l’India; ma quel che voglio dire è che nelle aree emergenti ed economicamente vitali, lo spazio pubblico è dominato da una certa fiducia nel progresso, e quindi nel proprio futuro. La religione, invece, conta moltissimo nel mondo occidentale e nel mondo islamico; nel primo sono nate nuove paure, anche come risultato dei processi di globalizzazione; nel secondo domina la frustrazione».
GIULIO TREMONTI: «L’idea del «ritorno della religione» per me è un’idea falsa. Se l’unità temporale su cui si basa la domanda è quella del secolo, allora non credo proprio che la religione sia mai «scomparsa» e per di più per tutto un secolo, quale che sia il secolo. La religione c’è sempre stata, se pure con intensità diverse: in alcune fasi è stata dominante, in altre latente, in altre ancora - soprattutto nel Novecento- è stata in parte oscurata dalle grandi ideologie, configurate a loro volta come religione sostitutiva. Il comunismo è stato costruito, prospettato e poi vissuto come una religione sostitutiva. Lo stesso partito comunista, del resto, era gerarchicamente e simbolicamente costruito come una chiesa. Tra le tante, una delle follie del nazismo consisteva proprio nella sua cifra di religione pagana.
Fuori dalla dimensione temporale (il secolo) c’è piuttosto nella domanda la dimensione dello spazio. Qui, se la dimensione spaziale coincide con la dimensione globale, concordo nel vedere forti asimmetrie e discontinuità. In molte società emergenti, la componente della religione ha, in effetti, una rilevanza abbastanza tenue. Ma non è così in altre parti del mondo. Sarebbe una forzatura dividere il mondo in aree omogenee. Prendiamo per esempio il caso della Cina: pur dentro il nuovo meccanismo comunista/capitalista, la dimensione religiosa è molto forte, l’etica confuciana continua a essere fondamentale.. (...)»
ASPENIA: Benedetto XVI sostiene che «in un mondo senza verità, la libertà perde il suo fondamento e la democrazia senza valori perde la sua anima». Come valutate il messaggio del papa dell’Occidente? È il segno di un’inversione di tendenza, di una sostanziale «deprivatizzazione » della religione nell’Europa postsecolare? L’Europa, insomma, abbandonerebbe il laicismo per diventare più simile all’America, dove la religione è sempre stata considerata una risorsa per la democrazia?
TREMONTI. «L’americanizzazione dell’Europa... lascerei questa formula, un po’ novecentesca, a Gramsci e a Ortega y Gasset. Piuttosto, non credo nella separazione tra dimensione privata e dimensione collettiva della religione. Quella della privatizzazione della religione è un’idea laica e perciò un’idea esterna alla religione. La nostra religione, per come è costruita e per come è stata vissuta per secoli da milioni di persone, è sempre stata insieme interna ed esterna: un modo di riferirsi agli altri. Non c’è mai stato, in questa dimensione, l’individuo da solo, ma la persona in rapporto non solo con se stessa, ma anche con la famiglia, e la famiglia in rapporto con la collettività. È stato fatto anche un discorso sul progresso e sulla crisi. In Occidente, il progresso, l’idea del progresso con il crescente benessere che ne è derivato, ha creato un effetto di euforia, a sua volta progressiva.
Ora la fase euforica sembra terminata con la crisi. Credo che sarebbe terminata comunque, per il suo stesso eccesso parossistico. Alla fine, quando hai troppe cose e inutili, quando tutto diventa insufficiente in modo paradossale, insufficiente per eccesso, torni a porti interrogativi più fondamentali e per così dire valoriali, sulla tua ragione d’essere esistenziale. Soddisfatta la domanda di beni materiali, torni naturalmente ai valori immateriali. Il crescere del benessere produce prima un’euforia che porta le persone in una dimensione «nuova» rispetto a quella tradizionale. Ma poi, fatalmente, l’euforia termina. La crisi, se c’è, se arriva, accelera solo questo processo. La crisi può rendere evidenti alcuni elementi di rottura, ma al ritorno della religione (che in realtà c’è sempre stata) saremmo arrivati comunque».
D’ALEMA: «Tornerei alla domanda di partenza: se il messaggio del papa sia il segno che il rapporto tra politica pubblica e religione, in Europa, è ormai più simile a quello americano. La mia risposta è semplice: sì. Sono d’accordo con Tremonti quando dice che il fenomeno religioso, in Europa, non è stato mai confinabile in una dimensione privata. Difficile dimenticare, del resto, che il cattolicesimo italiano, in particolare, è stato un grande fenomeno sociale e politico, tanto che ha governato per cinquant’anni l’Italia.
Ma oggi, col ritorno della religione nella sfera politica, quella che viene messa in discussione non è la secolarizzazione edonistica. Vengono messi in discussione i fondamenti stessi dello Stato laico europeo, come si è venuto configurando dal XVII secolo in poi. La sfida culturale è a questa altezza. Lo Stato laico europeo nasce infatti dalla considerazione che la libertà non può fondarsi sulla verità. E nasce all’indomani delle guerre di religione, quando si prende atto che la pretesa di fondare la cittadinanza sull’appartenenza religiosa - cuius regio eius religio - porta alla guerra e da tutto ciò si esce proclamando che lo Stato è laico perché le libertà e la cittadinanza non si fondano sulla verità. Ora, non vi è dubbio che oggi, per la crisi profonda dell’Occidente, che è una crisi culturale e ideale prima che economica, ci troviamo anche di fronte a un ritorno religioso che è legato alla ricerca di senso. Ma esiste anche questa vena integrista, che mette in discussione non l’edonismo, ma il fondamento stesso della laicità dello Stato. E quindi io distinguo tra il ritorno prepotente della fede religiosa come modo per dare un fondamento etico alla propria esistenza individuale, e l’uso politico della religione». (...)
ASPENIA: Di fronte ai dilemmi che pongono la scienza, la biotecnologia, non è un anacronismo paventare una restaurazione del potere temporale della chiesa?
D’ALEMA: «Io non temo la restaurazione del potere temporale della chiesa. È legittimo che i cristiani facciano vivere i loro valori, come disse Aldo Moro all’indomani della sconfitta cattolica al referendum sul divorzio; ma pretendere di imporli per legge urta con la coscienza moderna. Anche perché tutto ciò può rappresentare un impedimento alla libera ricerca scientifica, e questo va evitato. È evidente che il legislatore deve confrontarsi con problemi nuovi, ma il mio timore non è che torni il papa re.
La mia paura è un’altra: che in questa sorta di sposalizio con l’Occidente malato, che si volge alla religione in chiave identitaria e che riscopre le radici cristiane in una chiave difensiva, la chiesa rischi di perdere l’universalità del messaggio cristiano. Questa universalità del messaggio cristiano la sentivo di più, devo ammetterlo, nel precedente pontificato, in cui peraltro l’elemento di integrismo religioso era fortissimo e anche molto critico verso gli esiti della globalizzazione, prendendo spesso il posto di una sinistra silente. Mentre nel papato di Ratzinger avverto assai di più il legame con l’Occidente, e l’avverto come un limite all’universalismo cristiano».
TREMONTI: «È corretto iniziare la nostra riflessione su questo punto, proprio, come suggerito, dalla pace di Westfalia, il cui dictum era cuius regio eius religio. Ma appunto: cuius regio eius religio. Religio. Questa parola e non altre. E questo semplice fatto è prova in sé, insieme assoluta e storica, della rilevanza propria della componente religiosa. Nei secoli la "cifra" religiosa sale, scende, viene oscurata, poi riprende, ma non per caso - ripeto - la formula che è usata ancora oggi è cuius regio eius religio, non eius altro. Ciò premesso, una discussione utile va comunque sviluppata, separando la dialettica strumentale da quella sostanziale. La prima utilizza i fatti religiosi in termini polemici. In questi termini, sullo stesso piano degli atei devoti, credo che possano essere messi anche i laici polemici. Zapatero, per esempio, ne è l’eroe eponimo. (...) Detto questo, escludo che, nel tempo presente, ci sia il rischio di un ritorno del potere temporale. La dialettica tra atei devoti e laici polemici, con il relativo apparato di argomenti strumentali, è tuttavia, come dicevo, e per fortuna, relativamente marginale. Sostanziali, sulla dividente "destra"-" sinistra", sono invece altre grandi questioni. Il matrimonio è stato una di queste grandi questioni. E, soprattutto, la scienza. (...)
Non ci limitiamo più alla fase gnoseologica, a conoscere la vita, ma agiamo sulla vita, tentando di crearla o di ricrearla. Certo, anche la bomba atomica agiva sulla vita, ma in negativo, la distruggeva. Poneva dilemmi morali drammatici, ma diversi da quelli che si presentano ora. Un conto è infatti distruggere la vita, un conto è crearla. Distruggere la vita è drammatico, ma crearla è diverso e ancora più drammatico. Si sta avverando la profezia di Malthus, la profezia dell’uomo che non dipende da un’origine, ma che è origine esso stesso: la bestiaccia della favola era già la profezia del postumano, la fabbrica di nuovi corpi o di nuovi ectoplasmi. Sono dilemmi che non si pongono solo a destra, si pongono anche a sinistra. Ma è con questo e proprio per questo che la sinistra ha perso un’altra delle sue basi storiche di sicurezza: l’assoluta sicurezza nella scienza come matrice infallibile di progresso. Per come vedo e sento, sono fortemente convinto dell’ipotesi che una maggiore luce della scienza potrà portare con sé una maggiore luce della ragione e, con questa, anche della coscienza. La dialettica profonda è infatti tra ragione e fede, tra scienza e coscienza, sapendo che devono stare tutte insieme». (...)
La buona laicità
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 16/9/2008)
Il lungo ciclo delle prese di posizione pubbliche di Papa Ratzinger, tra il discorso di Ratisbona (settembre 2006) e il solenne ricevimento all’Eliseo a Parigi (settembre 2008), si chiude con un successo di attenzione mediatica. Il Papa ha ribadito che il contrasto principale di oggi è tra «religione e laicismo». Nel contempo ha evocato benevolmente una «laicità positiva» lasciandone tuttavia indeterminati i contorni. A scanso di equivoci, però, lontano da Nicolas e Carla, ha invitato i Vescovi a non benedire «le unioni illegittime». Tutto deve tenere.
Sembra essersi affermata nell’opinione pubblica l’idea che ci sia il pericolo di una illegittima esclusione dalla sfera pubblica della religione, della Chiesa, del cristianesimo, di Dio (con una intenzionale o preterintenzionale confusione e sovrapposizione di questi concetti).
Naturalmente questo non risponde a verità. Quanto meno occorre distinguere tra la situazione francese e quella italiana. Da noi molti cattolici coltivano la sindrome della vittima: costante presenza mediatica accompagnata dal lamento dell’esclusione; denuncia della critica e del rifiuto delle loro opinioni come prova dell’ostilità verso il cristianesimo-cattolicesimo, verso la Chiesa, anzi verso Dio. Da qui l’equivoco di scambiare il dissenso ragionato verso aspetti - naturalmente importanti - della dottrina della Chiesa e della sua strategia come inimicizia preconcetta contro la religione o come ateismo militante. Magari si prende occasione dall’atteggiamento di alcuni laici, del tutto legittimamente atei, che con le loro posizioni polarizzano su di loro l’attenzione dei media e della Chiesa.
Ma dove passa la differenza tra laicità positiva e laicismo? In concreto: nella definizione della famiglia «naturale», nei temi connessi a quella che viene genericamente chiamata eutanasia, nei problemi cruciali della bioetica? Chi non è d’accordo sul lungo elenco dei «no» degli uomini di Chiesa - dalle coppie di fatto alla sospensione dell’alimentazione forzata nel caso di Eluana - è dichiarato laicista. Chi invece è d’accordo è laico positivo. Come si possono schiacciare in queste caselle le convincenti considerazioni di Barbara Spinelli su «quando muore il cervello» (La Stampa 14 settembre)?
Ma c’è un altro malinteso. In Italia si sta estinguendo il dialogo, se con esso miriamo allo scambio di ragioni e di argomenti. Se lo intendiamo come la ricerca della verità su questioni complesse, dove ognuno degli interlocutori dovrebbe essere disposto a mettere in gioco le proprie convinzioni. No: il dialogo è diventato sinonimo di rassegna e competizione di posizioni già predisposte in funzione identitaria (cattolici contro laici). In particolare per gli interlocutori religiosi la verità c’è ed è intrattabile. Ma questo avviene sulla base di un passaggio logico non esplicitato: l’incontrovertibilità della verità passa impercettibilmente dal piano della «rivelazione religiosa» ai temi della «natura umana» che dovrebbero essere invece affrontabili con strumenti razionali e scientifici presuntivamente comuni e accessibili a tutti.
La Chiesa in questi anni di esposizione pubblica è riuscita a riaffermare la credibilità della sua dottrina naturale. Il costo (non detto e persino non percepito da molti Pastori) è che non si parla più davvero di teologia ma di antropologia, come si sente ripetere in continuazione. Il problema che sta a cuore non è la questione di Dio, ma l’idea di natura umana e di razionalità (nel senso inteso da Ratzinger) che passa surrettiziamente dietro e dentro l’idea di Dio quale è codificata nei termini tradizionali della dottrina. Il laico che solleva questa problematica è etichettato senz’altro come laicista. Con lui si polemizza, non si dialoga.
A questo punto confesso d’aver perso il senso della distinzione benevola-polemica tra laicità positiva e laicismo. Secondo lo stereotipo corrente il laico-laicista è il non-credente, il razionalista («arido», naturalmente), lo scettico cultore del dubbio metodico, relativista rispetto ai valori, l’uomo senza speranza. Inutile dire che queste sono caricature clericali. In realtà oggi il laico (senza bisogno di sentirsi definire «positivo») non condivide più la «religione della ragione» settecentesca, la «religione dell’idealismo» di stampo ottocentesco, neppure quella della scienza novecentesca, anche se tiene ben fermi come criteri di certezza quelli offerti dal metodo scientifico. Di conseguenza si pone interrogativi su Dio che appaiono incompatibili con la dottrina corrente della Chiesa.
Il laico è l’uomo/la donna delle certezze che sanno di essere radicalmente contingenti, ma non per questo meno stringenti. È l’uomo/la donna della ragionevolezza, cioè della razionalità temperata da ciò che non appare riducibile alla semplice strumentazione scientifica. Ma non per questo accetta dottrine costruite su modelli mentali e antropologici storicamente elaborati con mentalità pre-scientifica (o addirittura anti-scientifica) che pretendono accesso privilegiato alla trascendenza.
Il confine tra razionale e irrazionale è precario, ma sempre definibile con gli strumenti della ragione. L’orizzonte della ragione e delle sue espressioni semantiche è intrascendibile. La fede non vi trova posto. Questa è la lezione irrinunciabile da Kant a Wittgenstein, due studiosi che non si dichiaravano affatto atei ma ponevano la fede nella «ragione pratica» o nell’ambito delle «forme di vita». Chi ragiona così è un laicista o un laico positivo? Francamente questa distinzione, che pretende diventare una graduatoria della razionalità, è insostenibile.
Alcuni ministri hanno imposto un modello comunicativo che divide il paese in due
Il maestro è Berlusconi. Ma il metodo è stato messo a punto da Brunetta
Quando la politica
diventa un format
di EDMONDO BERSELLI
E SE LA DEMOCRAZIA contemporanea fosse più vicina a un format che a un complesso strutturato di regole? Nella politica come gioco mediatico, le percentuali di gradimento per il governo schizzano in alto. L’audience appare soddisfatta. Eppure qualcuno dovrà pur chiedersi quali sono le ragioni del consenso che sta accompagnando Silvio Berlusconi.
Dati addirittura "imbarazzanti", ha confessato il premier reprimendo un brivido di piacere di fronte a quel 60 per cento di favorevoli che campeggia nei sondaggi.
L’imbarazzo è un sentimento soggettivo; a sinistra, invece, il picco di popolarità è considerato inspiegabile. Anche osservando da vicino l’azione dell’esecutivo e dei singoli ministri riesce difficile spiegare il perdurare della luna di miele. Difatti, a causa di quelle congiunture economiche sfortunate a cui Berlusconi e Tremonti sembrano condannati, la crescita è praticamente sottozero; l’inflazione ha rialzato la cresta; i consumi flettono; parti consistenti della società italiana avvertono il peso di un andamento economico sfavorevole. Sullo sfondo si intravede l’incubo del Ventinove. E allora?
Allora è probabile che per il momento serva a poco giudicare il governo Berlusconi con le categorie tradizionali della politica e dell’economia. Occorre invece un approccio culturale, se non addirittura antropologico: il governo e i ministri più popolari sono riusciti, chissà se per intenzione esplicita o per un caso fortunato, a imporre un modello, una forma specifica di comunicazione. Anzi, un format.
Come in un programma televisivo di successo, Renato Brunetta, Roberto Maroni, Mariastella Gelmini, e perfino la "new entry" Mara Carfagna, sono riusciti a trasmettere un contenuto secondo modalità standardizzate, di tipo essenzialmente mediatico-televisivo, e quindi a mettersi in comunicazione con il pubblico (ovvero lo stadio di implosione nella privacy a cui è stata consegnata l’opinione pubblica).
Il maestro del format è ovviamente Berlusconi. È stato lui per primo a dare una cornice competitiva e spettacolare alla politica, separando gli italiani "della libertà" dai "comunisti", e quindi a declinare la gara elettorale come un giudizio di Dio fra due Italie separate e inconciliabili. Ma Berlusconi è stato in grado più che altro di dividere, mobilitando la propria parte, fanatizzando ideologicamente i pasdaran del berlusconismo e chiamando a raccolta gli elettori anche più tiepidi contro l’esercito del male, in cui il sostantivo "comunisti" riuniva amministratori, magistrati, sindacalisti, impiegati pubblici, politici fannulloni, insegnanti sessantottini.
Ma in questo modo il consenso non poteva crescere oltre i limiti fisiologici della destra, oltre la sua geografia politica. Per superare il perimetro del voto conservatore occorreva un’invenzione culturale. La Lega, e in particolare Roberto Maroni, hanno aperto la strada, con le iniziative sulla sicurezza e le misure contro l’immigrazione irregolare: ma eravamo ancora nei pressi delle azioni classiche, in cui si individua un nemico vero o virtuale, e lo si etichetta esponendolo alla pubblica opinione, generando così processi dominati dalla configurazione classica del capro espiatorio.
Lo straniero, l’altro, il nomade, identificato come una figura potenzialmente incline a crimini come il furto o lo stupro, capace di violenze inaudite sotto l’effetto della coca, senza rispetto nemmeno per i codici della criminalità autoctona tradizionale.
Il passaggio successivo è stato formalizzato con metodi di rara efficacia da Brunetta, che lo ha pure teorizzato nelle numerose interviste concesse durante l’estate. Nello schema del ministro della pubblica amministrazione, la popolazione nazionale si divide in due parti ben individuate: da un lato, "sessanta milioni" di italiani per bene, contrapposti a un milione di farabutti, fannulloni, lavativi, buoni a niente, sabotatori. Dal lato dei fondamenti empirici, il modello descrittivo di Brunetta è irrilevante.
Ma quanto a capacità di mobilitazione è formidabile. Il format del ministro è un perfetto produttore di consenso, perché colloca la stragrande maggioranza dei cittadini dalla parte del buon senso e della buona volontà, e consegna a una gogna ipotetica un imprecisato milione di italiani (questi sì "imbarazzanti", quindi licenziabili, punibili, penalizzabili dagli ukase ministeriali).
Sarebbe superfluo dire che il format è impreciso, e non descrive nulla della società contemporanea, se non fosse che come modello proposto in pubblico ha successo. Anzi, un successo travolgente. Da un lato rassicura, dall’altro esorcizza. Rassicura i bravi cittadini, gli impiegati onesti, l’intera platea di chi auspica efficienza e rigore nei comportamenti pubblici; esorcizza il rischio di una società contagiata dagli imbroglioni, indifferente ai dettami etici, governata dai criteri di un familismo ancora e sempre amorale.
Naturalmente, il format distorce la realtà nel momento stesso in cui fa entrare a forza le tessere in un mosaico predeterminato. Semplifica con forzature impressionanti, attribuisce responsabilità collettive di procedura alla disposizione individuale, identifica l’inefficienza come il prodotto della furbizia e della neghittosità individuale anziché alla cattiva organizzazione degli apparati.
Non è L’isola dei famosi a essere cattiva in sé; sono un paio di protagonisti, su cui si può concentrare l’animosità degli altri. Ma il format è dannatamente efficace, perché permette a una maggioranza sociale dispersa, anonima, prima di riconoscersi, poi di autoassolversi (nessuno è colpevole, nella soap in cui tutti i cattivi, pochi, sono immediatamente riconoscibili), e infine a sostenere l’azione delle autorità contro questi imprecisati cattivi soggetti, a cui possono essere assegnate tutte le responsabilità.
Non c’è un inventore certo del format. Si è creato per prove ed errori, per tentativi e cambiamenti successivi. Che nel pubblico ci sia una disposizione favorevole, ormai quasi naturale, è fuori dubbio. Basta partecipare a una presentazione dei libri di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (La casta e il più recente La deriva) per rendersi conto che il pubblico si autointerpreta ogni volta come una moltitudine di bravi e onesti cittadini, stupefatti, e anzi angosciati, di fronte all’impazzimento dei meccanismi della politica, agli sprechi, alle piccole e grandi corruzioni delle strutture pubbliche.
Il format è quindi infallibile perché sgrava la coscienza: c’è un’altra Italia, là sullo sfondo, a cui dare la colpa. Un’Italia fortunatamente minoritaria, insignificante anche numericamente rispetto ai sessanta milioni di italiani brava gente, i quali possono deprecare scuotendo la testa il residuo milione di cattivi soggetti.
Il contenuto populista del format è fortissimo: in primo luogo perché inibisce qualsiasi distinguo. Sottilizzare è vietato: non vorrete stare dalla parte dei fannulloni, o dei corrotti. Attribuire la responsabilità dei disfunzionamenti a questioni di struttura e di imperfezione degli apparati è uno dei vizi della sinistra e del sindacato. Sono sciocchi giustificazionismi: bisogna licenziare gli assenteisti, mandare a domicilio le visite fiscali, colpire i fannulloni nel vivo dello stipendio, mettere in galera i corrotti e tenerceli.
Ma più ancora che di populismo si tratta di demagogia allo stato puro: i progetti e i provvedimenti del ministro Gelmini sul voto in condotta, i grembiuli, il "maestro unico" implicano tutti l’idea di un "ritorno" a una condizione nostalgica, in cui l’autorità e l’ordine erano sanciti da rapporti sociali e codici culturali apparentemente immutabili (e purtroppo distrutti dal "nullismo" del Sessantotto, come ripete spesso Giulio Tremonti, ministro che dichiara di ispirarsi sinteticamente al motto "Dio, patria e famiglia").
Dovrebbe essere chiaro che non si esce a ritroso dalla modernità, e che gli anni Cinquanta non sono riproducibili per decreto se non, per l’appunto, nella realtà artificiale del format. Il revanscismo dei ministri del Pdl conduce a una fiction: nessuno dei nessi e nessuna delle contraddizioni della modernizzazione, nessuno dei processi descritti a suo tempo da Max Weber, viene affrontato dagli applauditi serial della destra.
Eppure le semplificazioni, almeno per ora, generano consenso. Le scorciatoie mobilitano risorse affettive, emotive, sentimentali nella società. Rappresentano un antidoto al nichilismo, allo sradicamento morale e all’assenza di senso caratteristici dell’età contemporanea. Offrono soluzioni vicarie di fronte agli choc generati dalle scie vertiginose della globalizzazione.
Perfino i poveri, infatti, nelle soap sono pochi, e risultano trattabili con espedienti come la social card, non con gli apparati "socialisti" dello stato sociale, come ha spiegato da sinistra Laura Pennacchi nel suo ultimo libro, La moralità del Welfare. Contro il neoliberismo populista, editore Donzelli, pagg. 260, euro 27).
Il format offre soluzioni, ma in genere si tratta di soluzioni narrative. Cioè terapie che portano all’individuazione della causa, come se la causa fosse una sola, e la curano con un colpo di scena o un happy ending. Formidabile, per esempio, la trama allestita da Mara Carfagna sulla punizione on the road di prostitute e clienti: come se la realtà metropolitana fosse costituita da pochi devianti, dediti agli incontri sessuali nelle periferie, da dissuadere con le maniere forti.
Mentre il numero stesso dei frequentatori dei viali, e la straordinaria varietà dell’offerta erotica, mostrano una realtà proliferante, in crescita continua, legata sia a scelte individuali sia a macrocircuiti illegali, sostanzialmente incontrollabili con i metodi di polizia.
Cioè una realtà "sociale". Un mercato. Eppure il romanzetto rassicurante di pochi peccatori da colpire con la mano dura è irresistibile. È la tolleranza zero, o una sua imitazione. È il decisionismo che corregge funzionamenti complessi con misure di fantastica semplicità. È il format, amici telespettatori.
* la Repubblica, 18 settembre 2008
La Stampa, 9/10/2008 (12:0)
Scuola, sciopero generale il 30 ottobre
Sindacati sul piede di guerra: "no" al maestro unico della riforma Gelmini
ROMA I sindacati bocciano la riforma Gelmini e proclamano lo sciopero della Scuola giovedì 30 ottobre proclamato. «Le sigle hanno registrato una risposta negativa rispetto alle loro rivendicazioni e hanno, quindi, deciso di promuovere una forte mobilitazione di tutto il personale». I sindacati hanno anche annunciato una manifestazione nazionale a Roma nella stessa giornata.
Lo sciopero generale della scuola dunque si farà: la decisione era giunta già ieri durante l’incontro tra i segretari generali dei sindacati della scuola firmatari dei contratti - Flc-Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals e Gilda - che assieme rappresentano il 90 per cento degli iscritti al comparto scuola pari ad oltre mezzo milione di lavoratori. Restava da definire la data, oggi si è optato per il 30 ottobre: farlo prima sarebbe stato pressoché impossibile per i tempi tecnici ed anche perché a metà mese, il 17 ottobre, è già previsto sciopero dei Cobas.
Sono diverse le motivazioni che hanno portato le organizzazioni sindacali allo sciopero: prima di tutto c’è il dl 137, in via di approvazione definitiva alla Camera e dalla prossima settimana all’esame del Senato, che ripristina il cosiddetto maestro unico riportando l’orario di base della scuola primaria a 24 ore. I sindacati chiedono poi un confronto aperto con il governo per decidere quali misure adottare per ridurre gli sprechi: sinora, invece, lamentano i rappresentanti dei lavoratori, le decisioni (contenute soprattuto nell’articolo n. 64 della finanziaria approvata ad inizio agosto) sono state prese dall’esecutivo unilateralmente attraverso decreti legge e il ricorso alla fiducia in aula.
La mobilitazione servirà anche a rivendicare il rinnovo del contratto scuola scaduto da nove mesi: sempre secondo i sindacati le buste paga del personale scolastico negli ultimi anni si sono infatti attestate ben al di sotto del tasso d’inflazione scivolando nelle ultime posizioni stipendiali dell’Ue. Approvato dall’aula, il decreto Gelmini "sul maestro unico" è dunque bocciato dal mondo della scuola che si prepara a scendere in piazza rispondendo all’appello dei sindacati. Un appuntamento, quello messo in cantiere dai sindacati di categoria, al quale si arriva dopo una marcia di avvicinamento cominciata già da settimane e costellata da sit-in davanti al ministero, iniziative spontanee di protesta, occupazioni, "notti bianche", dal Nord al Sud della penisola.
Venerdì un assaggio del malcontento arriverà ancora dagli studenti che manifesteranno in decine di città. «L’approvazione del voto di fiducia alla Camera sul decreto Gelmini - spiega l’Unione degli studenti - rappresenta un ulteriore atto antidemocratico di un governo che elude le tante manifestazioni di dissenso e con violenza prova ad affermare il proprio autoritarismo. Per questo venerdì porteremo in piazza tutta un’altra musica, alle 70 manifestazioni da noi organizzate». «Ci mobilitiamo - spiega un’altra associazione studentesca, la Rete degli studenti - contro i tagli di 8 miliardi di euro alla scuola pubblica, che è la vera riforma messa in campo dal Governo Gelmini-Tremonti-Berlusconi. Contro un Governo che conta balle, per rivelare la verità all’opinione pubblica». Dai ragazzi la contestazione passerà quindi nelle mani del sindacalismo di base: i Cobas guidati da Piero Bernocchi, tra i primi, hanno proclamato uno sciopero, in calendario per il 17 ottobre. Insomma, il fronte della protesta è ampio e non si ferma certo alla scuola.
Messaggio al Presidente della Repubblica: NON FIRMI IL DECRETO GELMINI!
Scriviamo tutti insieme al Presidente della Repubblica
Scriviamo al Presidente della Repubblica chiedendo di non firmare il decreto Gelmini; sul sito del Quirinale stanno arrivando migliaia di questi messaggi!
https://servizi.quirinale.it/webmail/
IO L’HO FATTO!
ECCO IL TESTO:
Esimio Presidente della Repubblica, come docente/genitore e soprattutto cittadino italiano le chiedo di fermare lo smantellamento della scuola pubblica ad opera del Decreto Legge 137.
In fede
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