LE RELIGIONI PROFETICHE E IL RAPPORTO CON LA VOLONTÀ DI DIO
QUELLA VOCE DIVINA CHE ABRAMO ASCOLTÒ’
di Giovanni Filoramo (la Repubblica,/Diario, 03.04.2007, p. 46).
Atto di sottomissione della propria volontà a un’autorità specificamente religiosa, l’obbedienza costituisce un aspetto fondamentale delle più diverse tradizioni religiose. Legata, secondo l’etimologia del termine latino ob-audire “ascoltare”, all’autorità di una Parola sacra fondata sulla trasmissione orale, una volta che questa Parola è fissata per iscritto in un codice di regole e norme sacre, di leggi che la divinità trasmette per regolamentare la vita della sua comunità, l’obbedienza religiosa deve imparare a fare i conti con tutti i problemi che la fissazione per iscritto della volontà divina in codici e libri sacri comporta.
Forma, natura, limiti dell’obbedienza religiosa variano, naturalmente, col variare dei contesti religiosi, del tipo di comunità, delle antropologie soggiacenti e, in particolare, dei generi e gradi dell’autorità di riferimento: se umana o divina; se individuale o collettiva; se legata alla lettera dello scritto o a una sua interpretazione spirituale.
Parimenti, il grado di obbligatorietà conosce vari livelli: nell’induismo si attribuisce molta importanza alle Leggi di Manu, ma non minore a quella nei confronti del guru, alle regole della setta o dell’organizzazione religiosa.
Così, nell’islam vi è l’obbedienza alla sharia, ma anche alla propria tariqa o confraternita, o al proprio pir, la guida spirituale. Anche nel buddismo, che predica la liberazione dai vincoli dell’io (e, dunque, dell’obbedienza), i monaci devono comunque ubbidire alle regole del samgha.
Il modello dell’obbedienza religiosa è in genere individuato in Abramo, che spinge la sua obbedienza all’ordine del Signore sino al punto di essere pronto a sacrificare il suo unico figlio, Isacco. Né è un caso che Paolo, nella Lettera ai Romani(1, 5), individui in questa “obbedienza alla fede” - espressione problematica che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro - il nucleo duro della obbedienza in Cristo.
Parafrasando Nietzsche, si sarebbe tentati di dire che ogni volere presuppone un’obbedienza: quello del Padre, l’obbedienza del Figlio fino all’annichilimento; quello del padre spirituale, l’obbedienza del discepolo pronto a recidere la propria volontà per sostituirla con quella del suo padre spirituale, icona della volontà divina; quello dell’abate o fondatore di ordine religioso, l’obbedienza perinde ac cadaver di un voto, in cui il sacrificio della propria volontà diventa il mezzo necessario per la costruzione della comunità. Il cammino di perfezione del singolo, che costituisce la meta del cristiano, presuppone così una volontà di potenza disposta, attraverso l’obbedienza, a pervenire a un’impotenza che si rivela essere la vera potenza.
L’obbedienza, se è il primo requisito per intraprendere un cammino spirituale di perfezione, ne è anche in certo senso la meta, come ricorda il termine stesso di islam: abbandono, obbedienza autentica e totale al volere della divinità.
La tradizione cristiana ha costruito i propri codici dell’obbedienza a partire dall’esempio di Gesù, disposto a obbedire alla volontà del Padre, rinunciando alla propria, fino alla morte.
La Lettera agli Ebrei 5, 8-9, ha fissato in modo pregnante questa decisione e le sue conseguenze salvifiche per il credente: « Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».
Paolo, poi, ha fatto dell’obbedienza della fede il fulcro della sua predicazione, sulla base della constatazione che l’obbedienza incondizionata del Figlio al volere del Padre ha liberato tutti gli uomini dal peccato: «Come per la disobbedienza di uno i molti sono stati costituiti peccatori; così per l’obbedienza di uno i molti saranno costituiti giusti». (Rom 5, 19).
Lo stesso Paolo, d’altro canto, dialettizzando il rapporto tra Legge e Vangelo, tra obbedienza ai comandamenti positivi presenti nella Torah e obbedienza interiore e spirituale al Cristo, non soltanto ha posto le basi per la rilettura cristiana dell’obbedienza biblica, ma ha sollevato per la prima volta il problema del ruolo della coscienza, che diventa il “tribunale”, anche per coloro che non hanno conosciuto la rivelazione definitiva della volontà del Padre in Cristo, cui fare riferimento, ai cui decreti ubbidire, nelle questioni etico-religiose decisive. Di frequente, infatti, l’apostolo propone la coscienza come criterio primo di moralità, attribuendo alla sua testimonianza particolare valore (Rom 2, 15), dal momento che lo Spirito Santo si esprime in una coscienza forte e incontaminata (Rom 9,1).
È qui contenuta in nuce l’idea moderna, riconosciuta dal Concilio Vaticano II, secondo cui l’obiezione di coscienza rientra nel diritto-dovere di ogni credente di formarsi una coscienza illuminata dalla parola di Cristo e dalla grazia dello Spirito Santo, alla quale obbedire come all’unica forza autenticamente cogente per la persona (Dichiarazione sulla libertà religiosa, n. 11). Vi è anche contenuta l’idea, che distingue la tradizione cristiana da quella classica, secondo cui «l’obbedienza ai precetti divini costituisce il fondamento di tutte le virtù» (Ambrogio, che verrà seguito da Agostino).
Sempre Paolo, nel controverso capitolo 13 della Lettera ai Romani, incita i cristiani a obbedire anche alla legittima autorità civile, nel rispetto dell’ordine voluto da Dio. Il controcanto a questa ubbidienza nei confronti del potere politico, che troppo spesso si è tradotta in remissività e complicità, è dato, con il suo potenziale critico, dal celebre passo di Atti 5, 29, in cui Pietro, al sommo sacerdote che ingiunge a lui e agli altri apostoli di non più predicare, risponde: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini». Passo che ha segnato la storia antica e recente della testimonianza cristiana di fronte al potere politico e a cui, in epoca moderna, si sono continuamente ispirati movimenti pacifisti e libertari cristiani nella loro disobbedienza civile.
La libertà interiore del credente costituisce il vero problema del modo in cui il cattolicesimo moderno, per reagire all’individualismo religioso promosso dalla Riforma, è venuto riproponendo in forma sempre più sistematica e cogente, culminata nella dichiarazione dell’infallibilità pontificia, una concezione “positiva” dell’obbedienza tipica dei voti monastici e di chi sceglieva una forma di vita religiosa.
Nell’Antico Testamento, dopo la consegna a Mosè delle tavole della Legge, l’obbedienza a Dio si dimostra nell’obbedienza ai precetti della Torah. Oggi, la rinnovata dottrina sociale della Chiesa e i valori non negoziabili sembrano porsi, per i cattolici italiani, come le nuove tavole della Legge, che Dio avrebbe affidato a un novello Mosè, la cui autorità è garantita dalla Tradizione. Si ripropone, in questo modo, un annoso contrasto, non certo specifico del cristianesimo, solo che si pensi al conflitto tra Antigone e Creonte.
Non si può fare a meno di ubbidire: ma a chi? a quali leggi? a quale autorità mediatrice? Il problema del contrasto tra spirito e lettera è un problema universale. Quante volte la disobbedienza si è rivelata essere la vera, più profonda forma dell’obbedienza religiosa, come insegna, tra tanti, il caso del leader religioso induista Ramanuja (XI sec. d.C.), che disubbidì al suo guru, rendendo pubbliche, affinché tutti gli uomini fossero salvi, le dottrine di salvezza che fino a quel momento erano considerate esoteriche.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La Costituzione e la Repubblica che è in noi
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
AL DI LA’ DELLA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
FLS
TEATRO, METATEATRO, E CRITICA DELLA TEOLOGIA-POLITICA CATTOLICO-SPAGNOLA:
SHAKESPEARE, CON "AMLETO" (E DANTE), CERCA LA VIA D’USCITA PER PORTARSI OLTRE LUTERO E OLTRE ERASMO E TOMMASO MORO.
SOVRANITA’ E OBBEDIENZA. iN "The Book of Sir Thomas More", Shakespeare prende le distanze dalle posizioni teologiche di Tommaso Moro (ed Erasmo) e chiarisce le ragioni antropologiche, politiche e teologiche della Riforma anglicana.
Sir Thomas Moore
da Maria Borio (Nuovi Argomenti, 18 Dic. 2017) *
The Booke of Sir Thomas Moore è un’opera a più mani pervenutaci in manoscritto in una stesura non definitiva che racconta l’ascesa, il trionfo e la caduta del grande statista e umanista inglese attraverso una serie di episodi secondari o immaginari della sua carriera. Con le sue correzioni e revisioni, il testo ci permette di osservare come lavoravano i drammaturghi del Rinascimento inglese. Il manoscritto contiene le uniche pagine vergate di suo pugno da Shakespeare, il cui contributo è limitato a poche scene del dramma. Una di esse (una parte della Scena 6) è quella qui riprodotta.
Il contesto della vicenda è il cosiddetto Ill May Day (1517), una rivolta del popolino contro i Lombardi, i potenti mercanti e banchieri stranieri attivi a Londra in quell’epoca. Per placare il delirio xenofobo irrompono alcuni nobili e poi Moro, il quale persuade i ribelli ad arrendersi (il fatto è un’invenzione dei drammaturghi). Come ricompensa, viene nominato cavaliere e membro del Privy Council, mentre i rivoltosi vengono imprigionati.
Le parti del testo sottolineate sono quelle cancellate dal censore di stato, Edmund Tilney. In carattere speciale (tipo grassetto) sono invece indicate le annotazioni di una mano diversa da quella dell’autore.
Il libro di Sir Tommaso Moro
di Anthony Munday e Henry Chettle,
con revisioni e aggiunte di Thomas Dekker, William Shakespeare e Thomas Heywood
LINCOLN
Silenzio, ascoltatemi! Chi non vuol vedere un’aringa affumicata a quattro centesimi[ii], il burro a undici centesimi alla libbra, la farina a nove scellini allo staio[iii] e il manzo a quattro nobili[iv] per sei chili, mi ascolti[v].
UN ALTRO GEORGE BETTS
Arriveremo a tanto se continuiamo a tollerare gli stranieri. Dategli retta.
LINCOLN
Per il cibo il nostro è un grande paese; argo[vi], questi mangiano più da noi che in patria.
UN ALTRO CLOWN BETTS
Almeno una pagnotta da mezzo centesimo al giorno, pesata alla francese[vii].
LINCOLN
Loro importano qui verdure straniere giusto per rovinare i poveri apprendisti: cos’è mai una misera pastinaca rispetto al nostro buon cuore?
UN ALTRO WILLIAMSON Schifezze, schifezze! Infiammano gli occhi, e questo basta per impestare la città con un’ondata di paralisi cerebrale[viii].
LINCOLN
Con quella l’hanno già impestata: queste bastarde piante del letame (lo sapete, no? che crescono nel letame!) ci hanno impestato, e la nostra infezione farà tremare tutta la città, cosa che in parte succede a mangiar pastinache.
UN ALTRO CLOWN BETTS
È vero, e anche le zucche.
GUARDIA
Che cosa rispondete alla clemenza del re? La rifiutate?
LINCOLN
Vorreste prenderci in contropiede, non è vero? Niente affatto, non la rifiutiamo. Accettiamo la clemenza del re, ma non avremo compassione degli stranieri.
GUARDIA
Siete gli esseri più ingenui che si siano mai infilati in un pasticcio del genere.
LINCOLN
Che ne dite adesso, apprendisti? Apprendisti ingenui? Diamogli una lezione.
TUTTI
Apprendisti ingenui? Ingenui noi?
SHREWSBURY SINDACO
Fermi, in nome del re, fermi!
SURREY
Amici, maestri, compatrioti...
SINDACO
Silenzio, oh, silenzio! Vi ordino di stare calmi!
SHREWSBURY
Maestri miei, compatrioti...
SHERWIN WILLIAMSON
Il nobile conte di Shrewsbury! Ascoltiamolo!
GEORGE BETTS
Vogliamo sentire il conte di Surrey!
LINCOLN
Il conte di Shrewsbury!
GEORGE BETTS
Vogliamo sentirli tutti e due!
TUTTI I CITTADINI
Tutti e due, tutti e due, tutti e due, tutti e due!
LINCOLN
Silenzio, vi dico, silenzio! Siete persone assennate o che cosa?
SURREY
Tutto quel che volete, tranne che persone di buon senso.
ALCUNI CITTADINI
Non vogliamo sentire lord Surrey!
ALTRI CITTADINI
No, no, no, no, no! Shrewsbury, Shrewsbury!
MORO
Hanno oltrepassato l’argine dell’obbedienza, e così travolgeranno ogni cosa.
LINCOLN
Parla lo sceriffo[ix] Moro! Vogliamo sentirlo, lo sceriffo Moro?
DOLL
Sentiamolo! Il suo è uno sceriffato[x] generoso, e ha fatto diventare mio fratello, Arthur Watchins, attendente del sergente Safe. Sentiamo lo sceriffo Moro!
TUTTI I CITTADINI
Sceriffo Moro, Moro, Moro, sceriffo Moro!
MORO
Secondo l’autorità in vigore fra di voi, ordinategli di ascoltare in silenzio.
ALCUNI CITTADINI
Surrey, Surrey!
ALTRI CITTADINI
Moro, Moro!
LINCOLN e GEORGE BETTS
Zitti, zitti, silenzio, zitti!
MORO
Voi che avete autorità e credito presso la folla, ordinategli di fare silenzio.
LINCOLN
Gli venga un accidente, non vogliono star zitti. Neanche il diavolo può governarli.
MORO
Che incarico spinoso e difficile avete, guidare gente che neanche il diavolo è in grado di governare. Cari maestri, ascoltate le mie parole.
DOLL
Sì, corpo di Cristo, vi ascolteremo, Moro. Siete un buon padrone di casa, e ringrazio vostra altezza per mio fratello Arthur Watchins.
TUTTI GLI ALTRI CITTADINI
Zitti, pace!
MORO
Attenti, voi offendete proprio quello che invocate, cioè la pace. Nessuno di voi sarebbe qui presente, se quando eravate bambini fossero vissuti dei vostri simili che avessero travolto[xi] la pace come voi volete fare adesso; quella pace in cui finora siete cresciuti vi sarebbe stata tolta, e i tempi sanguinari non vi avrebbero permesso di diventare adulti. Poveri voi! Che cosa otterrete se anche vi concediamo quello che cercate?
GEORGE BETTS
Per la Madonna, mandar via gli stranieri, cosa che senz’altro porterà grandissimo vantaggio ai poveri artigiani della città.
MORO
Mettiamo che vengano allontanati, e mettiamo che la vostra baraonda abbia soffocato[xii] tutta l’autorità reale dell’Inghilterra. Immaginate di vedere i disgraziati stranieri trascinarsi verso la costa e i porti per imbarcarsi, con i loro miseri bagagli e i bambini dietro[xiii], mentre voi ve ne state a soddisfare i vostri desideri come sovrani, con le autorità ammutolite dal vostro berciare e voi tronfi nella gorgiera della vostra arroganza: che cosa avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete mostrato come la superbia e la forza possono prevalere e come l’ordine può essere distrutto. Ma in questo schema di cose non uno di voi giungerebbe alla vecchiaia, poiché altri furfanti, seguendo le loro ubbie, con identiche mani, identiche ragioni e identico diritto, vi spolperebbero, e gli uomini si divorerebbero fra loro come pesci voraci.
DOLL
Dio mi sia testimone, questo è vero come il vangelo.
GEORGE BETTS LINCOLN
Sì, questo è uno pieno di buon senso, parola mia. Stiamo attenti a quello che dice.
MORO
Miei cari amici, lasciate che sottoponga un’ipotesi alla vostra riflessione. Se ci pensate bene, vi accorgerete quale forma orribile hanno in sé le vostre novità rivoluzionarie. Anzitutto, è un peccato verso il quale l’Apostolo ci ha ammonito spesso di stare in guardia, raccomandandoci di obbedire alle autorità [xiv: Si riferisce al noto passo di S. Paolo, Romani 13.1-2]; e non sbaglierei se vi dicessi che voi siete insorti contro Dio.
TUTTI I CITTADINI
Santa Vergine, che Dio non voglia!
MORO
Eppure è così, perché al re Dio prestò il proprio ufficio di terrore, giustizia, potere e comando. A lui ingiunse di governare e volle che voi obbediste. E per aggiungere a questo una più ampia maestà, prestò al re non soltanto la sua figura, il trono e la spada, ma gli diede il suo stesso nome, chiamandolo dio in terra. Che cosa fate dunque voi, ribellandovi contro un uomo insediato da Dio in persona, se non ribellarvi contro Dio? Facendo così, che cosa fate alle vostre anime? Oh sconsiderati, lavate di lacrime le vostre menti corrotte; e le stesse mani che da ribelli levate contro la pace, a favore della pace alzatele, e le vostre ginocchia sacrileghe trasformatele in piedi. Inginocchiarsi per il perdono è la guerra [xv] più sicura che potete fare voi, la cui tattica[xvi] è la ribellione. Su, su, tornate a obbedire! Perfino questa sommossa può proseguire solo con l’obbedienza. Ditemi soltanto: quando una rivolta sta per scoppiare, quale capopopolo è in grado di sedare la turba nel proprio nome? Chi vuole obbedire a un traditore? O quanto bene suonerà l’elezione di qualcuno che come titolo abbia solo quello di ‘ribelle’ per definire un ribelle?
Voi volete schiacciare gli stranieri, ucciderli, tagliargli la gola, impadronirvi delle loro case e condurre al guinzaglio[xvii] la maestà della legge, per aizzarla come un segugio. Ahimè, ahimè! Supponiamo adesso che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, giudicasse il vostro grave reato limitandosi a punirvi con l’esilio: dove andreste, allora? Quale paese vi accoglierebbe vedendo la natura del vostro errore? Che andiate in Francia o nelle Fiandre, in qualsiasi provincia della Germania, in Spagna o in Portogallo, anzi no, un luogo qualunque diverso dall’Inghilterra, vi ritroverete inevitabilmente stranieri.
Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che, in un’esplosione di odiosa violenza, non vi offrisse dimora sulla terra, affilasse i suoi detestabili coltelli sulle vostre gole, vi cacciasse via come cani, quasi che Dio non vi avesse creati né vi riconoscesse come suoi figli, o che gli elementi naturali non fossero stati fatti per il vostro benessere ma riservati per legge esclusivamente a loro? Che cosa pensereste se vi trattassero così? Questa è la condizione degli stranieri, e questa la vostra barbara disumanità.
TUTTI I CITTADINI
In fede, dice la verità. Facciamo agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi stessi.
TUTTI I CITTADINI LlNCOLN
Ci faremo governare da voi, mastro Moro, se ci sarete amico e ci procurerete il perdono.
MORO
Sottomettetevi a questi nobili signori[xviii], implorate la loro mediazione presso il Re, assumete un comportamento ortodosso, obbedite al magistrato, e senza dubbio troverete misericordia, se la cercate in questo modo.
* Fonte: Nuovi Argomenti, Dic 18, 2017 (ripresa parziale, senza le note).
"Esodo", il libro del servizio e della democrazia
di Jean-Louis Ska (Avvenire, 15.04.2021).
Dalla servitù al servizio: è così che Georges Auzou intitolava il suo breve commento al libro dell’Esodo, pubblicato in francese nel 1961 con le edizioni Orante. Ë difficile trovare un titolo più adatto a questo libro fondamentale per la fede d’Israele e per quella dei cristiani, il secondo libro del Pentateuco dopo quello della Genesi. In effetti, questo titolo ha l’enorme vantaggio di descrivere il passaggio da una situazione dolorosa, ossia dalla schiavitù, a una situazione più soddisfacente, cioè al servizio. In secondo luogo, questo titolo gioca sulla stessa radice linguistica, poiché «servitù» e «servizio» sono due parole correlate, due modi cli «servire».
Ora, anche il libro dell’Esodo gioca su tutte le sfumature di uno stesso verbo, il verbo «servire». Che in ebraico può significare «essere schiavi», «essere al servizio di», «lavorare» e finalmente «rendere un culto». Anche il sostantivo «servizio» possiede tutte queste sfumature: «servitù», «schiavitù», «servizio», «lavoro», «fatica», «culto»`e «liturgia».
Infine, il titolo scelto da Georges Auzou fissa in due parole l’essenziale di quello che avviene nel libro dell’Esodo: nel deserto, il popolo di Israele passa dalla servitù in Egitto al servizio del suo Dio, il Signore. Occorre notare che Israele non passa solo dalla servitù alla libertà, ma anche che questa libertà si traduce immediatamente in un «servizio», che gli dona il suo senso e il suo scopo. La libertà di Israele è una libertà «per». Uno dei messaggi del libro è inoltre quello che Israele sarà libero solo se è fedele a quel Dio che gli ha donato la sua libertä [...]
Il libro dell’Esodo è quindi un libro fondatore. Infatti, il popolo di Israele vi trova gli elementi essenziali della sua identità e della sua esistenza, l’equivalente di un territorio e di una monarchia o di un potere organizzatore. Il suo Dio sarà certamente il suo solo e vero sovrano, il solo degno di esserlo. Israele ne farà l’esperienza, talora anche a sue spese. La presenza di questo Signore si manifesta in realtà concrete: la Legge dï Mosè e il santuario. La Legge di Mosè definisce le vere frontiere del popolo, quelle del suo comportamento, poiché determina subito chi può far parte o deve essere escluso dal popolo di Dio. Come dice molto bene il poeta tedesco di origine ebraica Heinrich Heine, la Legge (in ebraico: la Torah) è per Israele una «patria portatile». Il santuario e le istituzioni del culto sono presenti per ricordare a Israele chi è il suo unico e vero sovrano, il solo che merita di essere onorato, perché Israele deve a lui la propria esistenza di popolo libero. Esodo, legge, alleanza e culto risalgono tutti a un personaggio, Mosè, unico mediatore tra Dio e il popolo. È a lui che il popolo d’Israele fa risalire tutte le istituzioni che considera indispensabili per la propria identità e sopravvivenza [..] Tutto ciò dovrebbe convincerci dell’attualità di questo libro che stabilisce un legame indissolubile tra l’esperienza di Dio e quella della libertà.
San Paolo lo ribadirà: ‹Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1).
Il libro dell’Esodo stabilisce un legame indissolubile anche tra l’esperienza della libertà e le esigenze del diritto. Quando Israele esce dall’Egitto, non sostituisce la tirannia del faraone con un’altra e ancora meno conl’anarchia. Israele si libera dalla tirannia imboccando la via del diritto e della Legge, che, stando al racconto dell’Esodo, è il vero mezzo per preservare e promuovere la libertà.
Citiamo nuovamente san Paolo «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13).
Dio libera il suo popolo per il servizio, un servizio libero e generoso, un servizio vicendevole che significa anche la costruzione di una società giusta ed equa, fondata sul rispetto del diritto. Anche le nostre democrazie attuali, talora senza saperlo, hanno ereditato questa esperienza. Come, infatti, fa notare il filosofo Baruch Spinoza (1632-1677), Mosè non prende il posto del faraone, ma lo sostituisce con la Legge, «come in una democrazia».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SOVRANITÀ E OBBEDIENZA. "DICO": DI CHI, DI QUALE LEGGE - A CHI, A QUALE LEGGE OBBEDIRE?!! ... Al Faraone e alla sua legge o a Mosè e alla Legge che egli stesso segue?! Abramo, chi ascoltò: Baal, il dio dei sacrifici e della morte, o Amore, il dio dei viventi?! Un’analisi di Giovanni Filoramo
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
Quale sovranità?
C’è chi chiede più sovranità, intendendo più autonomia di decisione, ma anche chi vorrebbe più iniziativa collettiva
di Andrea Ruggeri (Il Mulino, 04 marzo 2021)
E se fossimo tutti sovranisti? C’è chi inarcherebbe il sopracciglio al solo pensiero di essere paragonato ai sovranisti nazionalisti. Ma c’è confusione su cosa si intende per sovranità. Sia chiaro, quest’ambiguità non è né strettamente un fenomeno italiano, né di sviluppo recentissimo.
Queste note esplorano due domande, una analitica - cosa intendiamo per sovranità? - e una critica - possiamo illuderci che una sovranità condivisa, anziché solitaria, non abbia rischi?
Boris Johnson e Donald Trump - ma anche Matteo Salvini con il suo «prima gli italiani» - sono sovranisti che sostengono che «riprendersi il controllo» del processo decisionale sia sufficiente per tornare a essere pienamente sovrani e dare forma in maniera autonoma al futuro del proprio Paese. Sovranità intesa, dunque, come mantenimento delle decisioni dentro i confini nazionali: si è sovrani, se si è indipendenti nel decidere. E poi c’è chi crede che la sovranità si debba declinare come controllo delle politiche e degli effetti delle stesse. Per loro non è centrale il luogo ove si decide, ma essere sovrani è governare la politica o almeno influenzarla. Dunque, per (ri)prendere il controllo si deve non solo partecipare, ma anche pesare, nelle organizzazioni sovranazionali e multilaterali. Macron e Draghi potrebbero dunque rappresentare coloro che interpretano la sovranità anche come condivisone della stessa.
Ma, dunque, cosa intendiamo per sovranità? Nello studio della politica internazionale il concetto di sovranità è centrale, ma la sua ambiguità è palese, non solo poiché spesso si usa il termine per descrivere azioni sia di politica interna sia di politica estera, ma anche perché alcuni pensano che la sovranità si possa unicamente delegare, mentre altri che la si possa anche condividere. Alcuni si illudono che il concetto di sovranità sia chiaro e netto, per via del «mito fondativo» della sovranità legato alla pace di Vestfalia (1648). La sovranità vestfaliana, forse all’insaputa di molti oratori, è quella più utilizzata nei discorsi pubblici e che tendiamo a etichettare frettolosamente come sovranismo. Stephen Krasner definiva questa forma di sovranità come «un assetto istituzionale per l’organizzazione della vita politica che si basa sulla territorialità e sull’autonomia. Gli Stati esistono in territori specifici. All’interno di questi territori, le autorità politiche nazionali sono gli unici arbitri del comportamento legittimo». Altre caratteristiche chiave, spesso riportate, configurano la sovranità come eguaglianza formale fra Stati e indivisibilità della stessa.
Tuttavia, tantissimi autori hanno evidenziato come eguaglianza e indivisibilità della sovranità sono sfidati quotidianamente nel campo delle relazioni internazionali. David Lake, infatti, scrive che «la sovranità è divisibile e dividerla in passato non ha portato a un’erosione inesorabile del principio». Però, Krasner ha notato come oltre al concetto vestfaliano di sovranità, vi siano almeno altri tre concetti di sovranità, prossimi ma diversi. Primo, il grado di controllo esercitato dagli enti pubblici e dall’organizzazione dell’autorità entro i confini territoriali. Se l’autorità statale non riesce a proiettare il potere centrale, non c’è sovranità. Secondo, il grado di controllo esercitato dall’autorità interna sui movimenti transfrontalieri. L’incapacità di regolare il flusso di merci, persone e idee attraverso i confini territoriali è stata descritta come una perdita di sovranità. Terzo, la sovranità intesa come diritto di alcuni attori a concludere accordi internazionali, concetto sviluppato e utilizzato principalmente dagli studiosi di diritto internazionale. Gli Stati sovrani possono stipulare trattati. Ecco un’ambiguità analitica: la sovranità può essere intesa come controllo della politica interna, ma anche come relazione esterna fra entità sovrane. Tuttavia, John Agnew, coniando il termine «la trappola territoriale», faceva giustamente notare che la politica interna, e dunque la sovranità interna, non è indipendente dalla politica esterna ed estera: ci illudiamo che i confini possano difenderci da scelte esterne e cadiamo nella fallacia di dividere nettamente tra politica interna ed estera.
Kenneth Waltz, acuto analiticamente ma con un punto di vista parziale e profondamente americano, scriveva che fra Stati sovrani «nessuno ha il diritto di comandare; nessuno deve per forza obbedire». Ma quest’eguaglianza è chiaramente solo formale. Un fatto è dirsi sovrano perché si hanno personalità giuridica e organi decisionali, un altro è essere liberi dalle scelte e dalle politiche adottate da altri Paesi. Infatti, sebbene l’istituzione della sovranità affermi il principio di non intervento negli affari di altri Stati, l’intervento è sempre stato una caratteristica degli affari internazionali. Dunque, Krasner definì la sovranità vestfaliana come un’«ipocrisia organizzata», una pratica contraddittoria dove si afferma l’inviolabilità dei confini territoriali, ma si continua a intervenire negli affari altrui. Questa sovranità ipocrita, in un mondo meno globalizzato e con alleanze internazionali ben salde, era meno problematica per Paesi come l’Italia. Oggi, invece, l’influenza e gli effetti di soggetti esteri sono più forti, soprattutto se si rimane ancorati solamente a una visione della sovranità vestfaliana.
David Lake sottolinea un’ulteriore differenza analitica importante: si può delegare sovranità a un’organizzazione internazionale, ma vi può anche essere il raggruppamento della sovranità in sede internazionale. Nel delegare sovranità alle organizzazioni internazionali, gli Stati concedono loro porzioni di sovranità per eseguire determinati compiti limitati. Mettendo in comune l’autorità - raggruppamento della sovranità - all’interno delle organizzazioni internazionali, gli Stati trasferiscono l’autorità di prendere decisioni vincolanti da se stessi a un corpo collettivo di Stati all’interno del quale possono esercitare più o meno influenza. Oggi, secondo Lake, gran parte delle preoccupazioni riguarda la messa in comune di sovranità, piuttosto che la sua delega. E aggiunge che quando si parla di Unione europea più che cedere sovranità, si raggruppa sovranità.
A scopo esplicativo, per elaborare quanto scritto sopra sul concetto di sovranità, riprendo alcuni interventi recenti nel dibattito pubblico da parte di due presidenti del consiglio: Giuseppe Conte e Mario Draghi. Nel suo discorso alla Camera per la fiducia nel giugno del 2018, Conte dichiarava: «Le forze politiche che integrano la maggioranza di governo sono state accusate di essere populiste e antisistema. Se populismo è attitudine ad ascoltare i bisogni della gente, allora lo rivendichiamo». Per Conte il nodo centrale della sovranità è dove essa risiede, nel popolo. Nel suo discorso di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York nel settembre 2018, Conte, per respingere alcune accuse contro il governo giallo-verde, ribadiva l’importanza di chi detiene la sovranità: «quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo amo sempre ricordare che sovranità e popolo sono richiamati dall’articolo 1 della Costituzione italiana, ed è in quella previsione che interpreto il concetto di sovranità e il suo esercizio da parte del popolo». Dimenticava, Conte, la seconda parte dell’articolo 1, «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Dove i membri della costituente chiaramente intesero, dopo un tragico conflitto mondiale, la possibilità e necessità di poter delegare sovranità per guadagnarne in cooperazione. Conte espresse allora un sostegno al concetto di sovranità come indipendenza decisionale, focalizzandosi sull’aspetto procedurale - chi decide e dove - ma recentissimamente ha condiviso l’idea che vi sono situazione e circostanze in cui si può cedere sovranità a organizzazioni sovranazionali.
Conte, nella sua lectio all’ateneo fiorentino del 26 febbraio 2021, sembra dunque parzialmente rivedere cosa si debba fare con la sovranità: «Abbiamo sempre più integrato i nostri sistemi economici, i nostri modelli educativi, le nostre legislazioni sociali, cedendo spazi di sovranità e trasferendo competenze via via sempre più importanti dagli Stati all’Unione». La sovranità rimane nazionale, ma parziali deleghe possono avvenire per poter affrontate sfide contemporanee. Non è dunque esplicitata una necessità di sovranità collettiva, ma un’esigenza -dato il contesto - semmai di delega.
Draghi, invece, è tetragono sul valore di una sovranità condivisa, o, come Lake direbbe, di «raggruppamento della sovranità», che si concentra di più sul risultato delle politiche, anziché sul processo decisionale. Draghi, nel suo discorso a Bologna nel 2019 per il conferimento di una laurea ad honorem, così definiva chiaramente la sua idea di sovranità: «La vera sovranità si riflette non nel potere di fare leggi - come vorrebbe una definizione giuridica - ma nella capacità di controllare i risultati e rispondere ai bisogni fondamentali delle persone. [...] La capacità di prendere decisioni indipendenti non garantisce ai Paesi tale controllo. In altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità».
Ed ecco che il passaggio succinto sulla sovranità nel suo discorso per la fiducia del suo esecutivo, forse in questo contesto può guadagnare ulteriore chiarezza: «Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa [...] Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere».
Sembra chiaro che il vulnus stia nel credere che «riprendere il controllo» e poter decidere indipendentemente si traducano nel poter plasmare il proprio futuro. In questo caso la sovranità viene declinata essenzialmente come processo decisionale, interno ai confini nazionali, anziché come effetto delle decisioni stesse. Ci si illude che potendo dire quel che si vorrebbe fare od ottenere - senza confrontarsi con altri - porti a fare e ottenere ciò che si vuole. Oggi, un’Italia che mirasse a una sovranità solitaria, in realtà non sarebbe sovrana perché sarebbe alla mercé della potenza egemone di turno. Oggi gli Stati Uniti, domani forse la Cina.
Se un sovranismo vestfaliano, di stampo indipendentista o nazionalista, è solamente frutto di un’ambiguità analitica o di un malinteso storico - o al massimo di una miopia retorica e strumentale- possiamo illuderci che una sovranità condivisa, anziché solitaria, non abbia rischi? L’interdipendenza economica di oggi è una realtà consolidata e le sfide globali, dal terrorismo transnazionale alle pandemie globali, fino al cambiamento climatico, non possono essere risolte dai singoli Paesi. Dunque, si può puntare al rafforzamento della sovranità - intesa come capacità di controllare i risultati - raggruppando autorità e risorse in organizzazioni sovranazionali, in primis, come l’Unione europea.
Tuttavia, anche in questo caso si rischia di cadere in una fallacia sovranista, ma di delega. La politica e dunque l’importanza della sovranità, è decidere «chi ottiene cosa, quando e come», come sosteneva Harold Lasswell. E dunque mettere insieme risorse per affrontare un’arena internazionale sempre più complessa e attori sempre più competitivi non può giustificare una delega in bianco, senza sviluppare al contempo e ulteriormente istituzioni e strumenti di controllo e partecipazione da parte della cittadinanza. Ma devono essere chiari ai cittadini quali benefici e politiche si potranno guadagnare e perseguire attraverso questa sovranità condivisa. E i benefici ottenuti dovranno essere diffusi e condivisi. La questione centrale non è dunque essere per il sovranismo o essere contro di esso, ma quale sovranità si vuole ottenere e come gestirla collettivamente, non solo in Europa, ma anche in qualità di cittadini.
ARITMETICA, ANTROPOLOGIA, E "MONOTONISMO"... *
Profezia è storia /13.
Benedetto è il numero uno
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 31 agosto 2019)
In questo racconto, tra i più noti della letteratura religiosa antica, il numero benedetto è il numero uno. Con Elia, solo contro le centinaia di profeti di Baal, e Abdia unico salvatore di profeti, la Bibbia ci dice che in molte crisi tremende la salvezza arriva perché c’è rimasto un giusto che salva tutti. In alcuni momenti decisivi, la massa critica è uno. Noè, Abramo, Mosè, i profeti, Elia, Abdia, Maria, Gesù: per quanto importante e bello sia il "noi", la Bibbia esalta anche l’"io". Il noi non salva nessuno se al suo cuore non c’è almeno un io che obbedisce a una voce e liberamente agisce. Un io giusto è il lievito della buona massa del noi. È questa la radice di quel principio personalista al centro dell’umanesimo occidentale, che oggi, nel fascino esercitato da nuovi noi, continua a ripeterci che nessun gruppo supera in dignità la singola persona, al massimo la può uguagliare. Nel "calcolo della dignità" nei gruppi umani le regole dell’aritmetica non valgono. Questo valore non aumenta con la somma, perché il primo addendo ha già un valore infinito - qui uno più uno più uno fa sempre e solo uno.
Durante una carestia tremenda e lunghissima, mentre una regina sanguinaria sta sterminando i profeti di YHWH, un uomo li salva: «A Samaria c’era una grande carestia. Acab convocò Abdia, che era il maggiordomo. Abdia temeva molto YHWH; quando Gezabele uccideva i profeti di YHWH, Abdia aveva preso cento profeti e ne aveva nascosti cinquanta alla volta in una caverna e aveva procurato loro pane e acqua» (1 Re 18, 2-4). Abdia è un amico dei profeti. Come l’etiope Ebed-Melec l’eunuco che salvò Geremia dalla cisterna (Ger 38), anche ora incontriamo un uomo, un "maggiordomo", che salva i profeti dalla morte.
Anche la storia delle religioni e delle civiltà conosce questa categoria di giusti, questi goel. I profeti hanno molti nemici; ma hanno anche alcuni amici e "salvatori". Li ospitano nelle loro case-Betania, li nascondono, li curano, li consolano, credono in loro quando tutti li abbandonano. I profeti hanno questi amici, ne hanno almeno uno, almeno una, che diventa il tozzo di pane e il palmo d’acqua per non morire nell’attraversamento dei deserti. A volte sono i genitori, una sorella. Non sono sempre discepoli dei profeti, a volte sono solo amici. Un amico di profeta vale più di mille discepoli.
Abdia incontra Elia, e la dote con cui si presenta sono i cento profeti che ha salvato: «Io nascosi cento profeti, cinquanta alla volta, in una caverna e procurai loro pane e acqua?» (18, 13). Elia gli si fa incontro: «Quello lo riconobbe e cadde con la faccia a terra dicendo: "Sei proprio tu il mio signore Elia?". Gli rispose: "Lo sono; va’ a dire al tuo signore: c’è qui Elia"» (18, 7-8). Abdia ha paura. Elia lo rassicura, e lui va: «Abdia andò incontro ad Acab e gli riferì la cosa». (18, 16). Elia incontra finalmente Acab. Ed entriamo in una delle pagine più note e tremende della Bibbia: la sfida, la cosiddetta ordalia del Monte Carmelo tra Elia e quattrocentocinquanta profeti di Baal. Una scena potente ed epica, che ci fa vivere in presa diretta un brano della religione di quei popoli arcaici, in bilico tra magia e fede.
«Acab convocò tutti gli Israeliti e radunò i profeti sul monte Carmelo. Elia si accostò a tutto il popolo e disse: "Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!"» (18, 20-21). Elia propone un duello tra YHWH, il Dio di Israele e Baal, il dio locale fenicio-cananeo. Dalla parte di Baal ci sono centinaia di profeti; accanto a YHWH c’è il solo Elia.
Ancora una lotta impari, un altro Davide contro un altro Golia. Ma, anche qui, la vittoria non è una faccenda di forza né di numeri. È la qualità, non la quantità, il principio attivo di queste vittorie. Dal resto del racconto si comprende, infatti, che la sfida non è tra due dèi entrambi vivi, ma piuttosto tra Dio e il nulla. Questa vittoria di YHWH è una delle prime attestazioni monoteistiche di Israele. «Ci vengano dati due giovenchi; essi se ne scelgano uno, lo squartino e lo pongano sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Io preparerò l’altro giovenco e lo porrò sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Invocherete il nome del vostro dio e io invocherò il nome di YHWH. Il dio che risponderà col fuoco è Dio!"» (18, 23-24).
I profeti di Baal apparecchiano per primi il loro altare, e attendono che Baal, il dio dei fulmini, faccia bruciare la legna per il sacrificio. E poi «invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, gridando: "Baal, rispondici!". Ma non vi fu voce, né chi rispondesse» (18, 26).
Non vi fu voce... Torna quella nota bellissima che accompagna l’intera Bibbia: il Dio vero è il Dio della voce. YHWH parla, chiama, sussurra. Gli idoli sono falsi perché non hanno voce, sono sfiatati. La frenesia profetica cresce, svelandoci dettagli interessanti di quegli antichi riti: «Gridarono a gran voce e si fecero incisioni, secondo il loro costume, con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue» (18, 28). Il fuoco non ci accende, Baal non risponde. Elia ironizza e li sbeffeggia: «Gridate a gran voce, perché è un dio! È occupato, è in affari o è in viaggio; forse dorme» (18, 27). In questo sfottò Elia "si dimentica" che molti salmi sono un grido per "svegliare" Dio, e che la prima preghiera collettiva della Bibbia fu un urlo di schiavi perché YHWH, distratto, si ricordasse della sua promessa (Es 2). Anche i profeti più grandi nell’agone della lotta religiosa possono usare contro l’avversario le parole più umane e più belle imparate sotto la tenda di casa. Come noi.
Quindi arriva il turno di Elia: «Elia prese dodici pietre... Eresse un altare nel nome di YHWH... Dispose la legna, squartò il giovenco e lo pose sulla legna... Elia disse: "YHWH, Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele... Rispondimi, Signore, rispondimi, e questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!". Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere» (18, 31-38). Colpisce l’essenzialità sobria della preghiera di Elia, se confrontata alla spettacolarità barocca dei profeti di Baal - le liturgie eccessive ed emozionali sono quasi sempre segno di fedi larvatamente idolatriche. Elia vince la sfida, e il popolo esclama: «YHWH è Dio! YHWH è Dio!» (18, 39). Elia celebra la sua vittoria facendo sgozzare uno a uno i quattrocentocinquanta profeti di Baal: «Elia disse loro: "Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!". Li afferrarono. Elia li fece scendere al torrente Kison, ove li ammazzò» (18, 40). Un epilogo tremendo, come tutta la scena.
L’ordalia, o "giudizio di Dio", è una prova il cui esito veniva interpretato come diretta manifestazione della volontà degli dèi. Era molto diffusa nell’antichità e in molte culture. In Europa le ordalie furono introdotte soprattutto dai popoli germanici, in Italia dai Longobardi, per molti secoli tollerate anche dalla Chiesa. Nell’ordalia - del fuoco, dei veleni, dei metalli fusi... - chi usciva illeso dalla prova era considerato giusto e/o innocente. Il dato di fatto veniva eretto a volontà divina. Quindi il più forte in duello, o il più scaltro a camminare sul fuoco, era benedetto da Dio e portatore di un suo messaggio. E così, i forti diventavano ancora più forti, i deboli ancora più deboli. Qualcosa di molto simile alla religione economico-retributiva, che leggeva nella ricchezza la benedizione di Dio e nella povertà la maledizione, che rendeva i ricchi due volte benedetti e i poveri due volte maledetti.
La Bibbia ha dovuto lottare molto per liberarsi da questa visione arcaica e "naturalistica" della fede, e c’è riuscita solo in parte. Ha cercato di mostrarci che i "miracoli" non sono di per sé prove della verità della fede, ma solo segni imperfetti e sempre parziali. Perché anche i falsi profeti sanno fare miracoli, anche i maghi in Egitto simulavano le piaghe, e Simon Mago con i suoi gesti "strabiliava" gli abitanti di Samaria (Atti degli Apostoli, cap. 8). Geremia era avversato e perseguitato dai falsi profeti che invocavano il miracolo che li avrebbe salvati - che non ci fu.
C’è voluto l’Esilio per capire che YHWH non è vero perché vincitore, che continuava a essere il Dio della promessa anche da Dio sconfitto. Ma noi nonostante tutta la Bibbia, i Vangeli, san Paolo, san Francesco, nonostante il non-miracolo della croce e la non-ordalia dei chiodi e del legno, siamo troppo tentati di imitare Elia, di pensare che il nostro Dio è vero perché è vincente, e poi sgozziamo i perdenti.
Il miracolo del fuoco sul Monte Carmelo non prova che YHWH è Dio. Forse prova soltanto che Baal è un idolo, ma questo lo sapevamo prima dell’ordalia. Non è bene "tentare Dio", dirà un’altra anima della stessa Bibbia. Anche perché noi troppe volte apparecchiamo gli altari, facciamo veglie, urliamo e chiediamo il miracolo che non arriva. E come noi siamo capaci di non perdere la fede davanti a un figlio che non guarisce e muore, quella stessa fede vera non può essere creata da nessun miracolo. Anche perché di fronte a un miracolo per noi dobbiamo sempre continuare a chiedere a Dio: "Perché non agli altri"?
La parte luminosa di questa pagina buia del Monte Carmelo non sta allora nella luce del fuoco che irrompe sulla scena, ma nella domanda che Elia rivolge al suo popolo: «Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se YHWH è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!» (18,21).
La tentazione idolatrica è tenace, sempre presente e attiva nel cuore dell’uomo e della donna perché, diversamente dall’ateismo, non nega Dio ma prima lo riduce a idolo e poi lo moltiplica - ogni idolatria è politeista, perché ogni consumatore ama la varietà delle merci. L’idolatra non rinnega Dio, lo rimpicciolisce per manipolarlo. I profeti ci dicono: "scegli", perché è meglio, paradossalmente, passare interamente a Baal che aggiungerlo nel tempio accanto a YHWH. Ma noi preferiamo molti piccoli dèi innocui a un unico Dio vero e scomodo. Ecco perché sulla terra l’idolatria è molto più presente della fede. Quando il figlio dell’uomo tornerà sulla terra vi troverà certamente l’idolatria. La fede non lo sappiamo. Speriamo che la trovi almeno in uno. E se viene presto, che quell’uno possiamo essere noi.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
SVOLTA IN FRANCIA. DALLA CARITÀ ("CHARITE’") DI PASCAL ALLA CARITA’ DI PAPA RAZTINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006), DALLA CHIAREZZA DI CARTESIO ALLA "CONFUSIO-NE" ("COMMUNIO") DI J.-L. MARION .... IL PRESIDENTE SARKOZY E IL FILOSOFO J.-L. MARION: DALL’ACCOGLIENZA DELLA DIVERSITÀ ALLA DIFESA DELL’IDENTITÀ, ’NAZIONALE’ E ’CATTOLICA’.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
Sacro e potere nella storia del Cristianesimo*
Premessa
1. Il ritorno sulla scena pubblica a livello globale delle religioni tradizionali costituisce, per riconoscimento unanime degli studiosi della società contemporanea, uno degli avvenimenti più rilevanti di questi ultimi anni. Si tratta di un fenomeno complesso, che ha dietro di sé molteplici cause, tra le quali basterà ricordare, in sede introduttiva, i processi di globalizzazione, che hanno prodot to, nel giro di pochi anni, una vera e propria religione “globale”, profondamente diversa - almeno per quel che concerne l’Europa - dalla situazione in atto fino alla fi ne del Novecento, creando un panorama religioso radi calmente nuovo di cui è diventato difficile ridisegnare la mappa, data la mobilità continua del nuovo territorio re ligioso. Sia per il diffondersi e moltiplicarsi delle cosid dette religioni diasporiche nei paesi industriali e cioè, in conseguenza dei giganteschi processi immigratori indot ti dalla globalizzazione, del moltiplicarsi di diaspore reli- giose, sovente a sfondo etnico, sia per la crisi che ha co nosciuto lo Stato laico caratteristico della tradizione oc cidentale, al di là delle pur rilevanti variazioni nei rapporti fra tradizioni religiose e Stati peculiari dei vari paesi eu ropei, a differenza di quanto è a lungo avvenuto in regi me di secolarizzazione, oggi le religioni tendono a fuori uscire dalla sfera privata in cui uno Stato di tipo laico le relegava, ponendo nuovi e complessi problemi di rappresentanza civile, pubblica, giuridica e, alla fin fine, politica.
Nella particolare prospettiva in cui questo saggio si col loca, il mutamento radicale sommariamente delineato in veste in modo nuovo uno dei nodi fondamentali che le re ligioni tradizionali incontrano nel loro più o meno lungo cammino storico: quello dei rapporti con la sfera della po litica o, per la precisione, dei rapporti tra sacro e potere.
Tradizionalmente, almeno in Occidente, la relazione tra religione e politica è stata intesa e interpretata nel recin to ben delimitato, ma anche angusto e oggi deviante, dei rapporti tra Chiese cristiane e Stati moderni. Si tratta di relazioni essenzialmente politico-giuridiche, che tocca no certamente un nodo fondamentale nella storia dei rap porti tra Chiese cristiane e società in periodo moderno e cioè dalla costituzione degli Stati sovrani, attraverso le va rie rivoluzioni, fino all’imporsi di forme di democrazia li berale. Si tratta, altresì, di una prospettiva unilaterale che riesce con difficoltà a dar conto della complessità attuale del problema e che comunque, nel momento in cui negli ultimi decenni si è imposto un nuovo pluralismo religio so che ha scardinato antichi monopoli creando nuove con dizioni di confronto ed esigendo di affrontarle in una pro spettiva più ampia, è stata progressivamente sostituita, per rimanere sul terreno politico-giuridico, da nuove pro spettive, in grado di fare i conti non più solo con il dirit to canonico cattolico, ma con diritti sacri meno sensibili alle sirene secolarizzanti e non disponibili a compromessi e condizionamenti sulle questioni fondamentali.
Questo confronto/scontro, che domina ormai da alcu-si ni anni la scena pubblica europea, ha messo in luce un aspetto fondamentale di questo rapporto, che una pro spettiva tradizionale tendeva a trascurare: e precisamen te il fatto che ciò con cui il potere politico nelle sue varie forme ha a che fare, prima delle religioni, è il sacro. Ri torneremo nel corso del saggio sulla questione controver sa di che cosa sia «sacro» e di come possa essere distinto dalla «religione»: questione annosa e che non si pretende certo di dirimere definitivamente. Quel che ora preme piuttosto sottolineare è un altro punto: in prospettiva storico-comparata, dietro le relazioni fra religioni e varie forme della politica si cela, in realtà, un rapporto più profondo: quello tra sacro e potere. Il potere ha sempre a che fare con il sacro, che decida di usarlo come forma di legittimazione, come in genere è avvenuto nelle più di verse forme di monarchia - non a caso definite monar chie «sacre» - o, come ha invece avuto luogo in epoca moderna per effetto della secolarizzazione, che decida di circuirlo, confinarlo, esorcizzarlo per, alla fine, espeller lo. Il sacro, a sua volta, è un potere particolare, dai mil le nomi (mana, carisma, ecc.) e volti, che rimandano però e celano il mistero stesso del potere e cioè la forza.
Nella loro storia millenaria, le varie tradizioni religiose, in conseguenza sia di quello che veniva ritenuto il loro messaggio «originario», sia dei confronti, conflitti e adat tamenti che esse hanno conosciuto ora come religioni dia sporiche - il caso dell’ebraismo - ora come religioni trans nazionali a vocazione universalistica - dal cristianesimo all’islam al buddhismo -, nel loro rapporto con le differen ti forme di Stato hanno elaborato una serie di risposte al l’annosa questione di come i credenti devono comportar si nei confronti delle autorità politiche che li governano. Questo hanno fatto ricorrendo ad adattamenti e compro messi estremamente vari, che però, nel loro nucleo, ruo tano in genere intorno al modo in cui esse decidevano di rispondere a poche semplici questioni di fondo: chi gesti sce il potere sacro che discende direttamente dalla divi nità? qual è la natura e l’origine del potere politico? chi sono i rappresentanti autorizzati dei due poteri? quali so no le modalità, i luoghi e i gestori della mediazione?
È nota la tesi di Marcel Gauchet, esposta ne Il disincanto del mondo, che sta alla base anche dei suoi lavori successivi sulla natura della democrazia contemporanea e i suoi problemi. Secondo questa tesi, il politico preesiste, e può esistere, di conseguenza, senza il religioso e al di fuori delle religioni, mentre il religioso, nella sua costitu zione primordiale, si dà come una risposta nei confronti dell’autonomia processuale che si instaura attraverso il politico. Le religioni, in altri termini, sono un’espressio ne di questa autonomia del politico e, nel contempo, una scelta nei suoi confronti, che consiste nel rifiutarla e nel cercare di esorcizzarla. Per far questo, esse costruiscono un’eteronomia fondata sulla presunta esistenza di esseri indipendenti e superiori a noi.
La tesi di Gauchet non tiene nel debito conto la «real tà» del sacro, che preesiste con il politico, e non ne è una conseguenza: questo, almeno, è il modo in cui le due sfe re si sono rapportate e sono state concepite per secoli, an zi, millenni, fino a oggi: e questo, nel fondo dei loro rap porti, senza sostanziali variazioni rispetto ad alcuni possi bili modelli di relazione. Trascurare questa coesistenza - che non coincide né con la tesi di Gauchet né con il pri mato metafisico assegnato alla religione in una visione teo logica tradizionale, ma presuppone antropologicamente l’e sistenza di due sfere di esistenza ed esperienza diverse - ha delle conseguenze non solo sul piano storico, ma anche nell’interpretazione del presente, per quanto concerne il rapporto tra religione/i e sfera del / la politico/a.
Per comprendere questo aspetto, in genere trascura- to, nei pur numerosi lavori che si sono accumulati sugli scaffali in questi ultimi anni sul tema in oggetto, tra tan- te e legittime prospettive possibili occorre tener conto anche di una prospettiva storico-religiosa, in grado di for nire profondità storica al problema, nel contempo allar gandosi a qualche fruttuosa - anche se inevitabilmente circoscritta - comparazione. L’asse della nostra riflessio ne è costituito dal modo in cui questa tematica si è posta in alcuni momenti nodali della storia del cristianesimo, secondo una prospettiva che aspira a far dialogare que sta storia, nella fattispecie per quanto riguarda il tema
«sacro/politica», con altre tradizioni religiose attraverso una comparazione attenta alle specificità storiche, rispet tosa delle avventure della differenza, ma anche convinta che soltanto attraverso un’appropriata analisi comparata è possibile mettere meglio in luce la complessità dei problemi in gioco.
2. Oggi, nei paesi cattolici (in particolare in Italia, ma anche in Spagna e in minor misura in Francia), si è colpi ti dai reiterati tentativi del Magistero di mettere in di scussione radicalmente il tipo di rapporto tra religione e politica tipico dello Stato laico. La Chiesa, in quanto realtà istituzionale che rappresenta il corpo dei cattolici, non ac cetta più di essere relegata nello spazio del privato, ma aspira a porsi come una sorta di «religione civile degli ita liani», in funzione della sua pretesa di essere la garante dei «veri» diritti umani e del suo possesso di un patrimo nio etico fondato sulla Rivelazione. In questo modo, se pur indirettamente, essa cerca di esercitare un controllo su tutte le questioni fondamentali dell’etica, che si tradu ce in un controllo politico delle coscienze
Questo nodo ha dietro di sé una lunga storia. Essa co stituisce, d’altra parte, soltanto un esempio, anche se par ticolarmente significativo, del modo complesso in cui nel le vicende millenarie del cristianesimo hanno teso a por si i rapporti tra Chiesa (nella fattispecie, Chiesa cattolica) e potere politico. Lo scopo del saggio è quello di fornire una chiave di lettura di questi rapporti, attraverso la ri costruzione sintetica dei momenti forti e degli episodi più significativi di questo rapporto, riletti nella particolare ottica della relazione tra sacro e potere. Ma che cosa significa esattamente ciò?
3. Il problema è molto complesso, sia per la polivalen za dei due termini e delle due sfere d’azione, sia perché, di conseguenza, esso può essere affrontato da una molte plicità di punti di vista: ad esempio, in funzione della storia del pensiero politico, indagando le differenti concezio ni del potere, della politica e dello Stato proprie della Chiesa e del Magistero; o da un punto di vista genericamente storico, ricostruendo le principali fasi di questo rapporto, in Occidente e in Oriente; o ancora da un pun to di vista di filosofia e di teologia della politica , analizzando i presupposti filosofici e teologici delle concezioni più significative in gioco, da Agostino a Tommaso, da Marsilio da Padova a Hobbes; o, infine, da un punto di vista storico-giuridico , indagando i rapporti e le relazioni, prima di tutto giuridiche, tra Chiesa e Stato.
Il punto di vista qui assunto è diverso. Oggetto dell’a nalisi sono i presupposti sottostanti a queste relazioni, le forme di rapporto soggiacenti all’estrema variabilità sto rica delle relazioni tra l’istituzione ecclesiastica, a comin ciare dal papato, e i vari Stati con cui essa è entrata con tinuamente in contatto. Dietro questa variabilità si cela no, da un lato, dei tipi di rapporto (ad esempio quello «dualistico», che avrebbe contraddistinto la Chiesa ro mano-cattolica d’Occidente e quello «sinfonico», che avrebbe invece caratterizzato le Chiese orientali); dall’al tro, delle forme (o come altro si decida di chiamare que sto persistere di configurazioni e costellazioni di pensie ro) che elaborano in modo diverso la relazione tra sacro e potere.
Per perseguire questo scopo il lavoro si articola in tre parti. La prima ( Alle origini ), dopo aver affrontato alcu- ni nodi metodologici e ricostruito l’ambiente storico-re ligioso del Vicino Oriente antico con il suo istituto della regalità sacra (cap. i ), descrive il modo in cui il problema si è posto nel primo cristianesimo (cap. ii ), sofferman- dosi poi, nel capitolo iii , sul caso del messianismo. La se conda parte ( Variazioni storiche ), dopo aver tracciato i rapporti fra sacro, istituzione ecclesiastica e potere poli tico in età precostantiniana (cap. iv ), prende in esame i due modelli di relazione che si sono affermati in Orien te (cap. v ) e Occidente (cap. vi ). Infine, la terza parte ( La rottura del moderno e le sfide attuali ) esamina nei capitoli vii e viii il modo in cui il problema in questione si è po sto in epoca moderna dopo la Riforma, per concludersi con qualche riflessione di tipo comparativo sul caso del l’islam (cap. ix ).
* Giovanni Filoramo, Il sacro e il potere. Il caso cristiano, Einaudi, Torino 2009.
Premessa (ripresa parziale senza note).
Maestri del Novecento
Kojève: perché obbediamo al Capo
“La nozione di autorità” (1942) del filosofo russo, proposto da Adelphi, aiuta a capire le crisi politiche di oggi, da Obama a B.
di Andrea Tagliapietra (il Fatto Saturno, 4.11.2011)
SE AL GIORNO d’oggi, come recita la sempreverde battuta di Woody Allen, “Dio è morto, Marx è morto e anch’io non mi sento tanto bene”, non c’è da meravigliarsi che la nozione di “autorità” ci appaia come un oggetto misterioso, che viene spesso confuso con il “potere” e finanche con la “legalità” dell’esercizio della forza da parte dello Stato, nonché con le pratiche retoriche persuasive che garantiscono ai governanti la conservazione del potere nel tempo. Infatti, la riflessione filosofico-politica sembra privilegiare un taglio genealogico, spiegandoci come l’autorità sorge e si trasmette, o analitico-descrittivo, isolando colui che la esercita e le sue qualità, ma non ne tematizza quasi mai l’essenza. Compito che viene svolto, invece, con iconica chiarezza, da Alexandre Kojève in un libro che, redatto nel 1942, come molti lavori del filosofo franco-russo giacerà a lungo in un cassetto, inedito, vedendo la luce in Francia solo nel 2004.
La nozione di autorità ci viene proposto oggi dai tipi di Adelphi per la cura di Marco Filoni che, oltre ad accompagnare il testo con una pregevole postfazione, ha il merito di rendere nella nostra lingua la splendida sobrietà della scrittura di Kojève, che traspone l’hegeliana fatica del concetto, giocata in chiaroscuro sui limiti espressivi del tedesco, nella prosa geometrica e cristallina di Cartesio, dove, al contrario, tutto sembra essere dicibile con la massima efficacia e rigore.
Ad Hegel, del resto, e alle ormai mitiche lezioni sulla Fenomenologia dello spirito, tenute da Kojève all’Ecole pratique des hautes études di Parigi dal 1933 al 1939, vera officina segreta del pensiero, non solo francese, del Novecento, rinvia anche il libro sull’autorità, perché è indubbiamente hegeliana la scoperta della sua essenza dialettica.
L’autorità, spiega Kojève, è una forma di relazione attiva, anzi di azione e reazione, dove il tratto decisivo, che la distingue dal potere, dalla forza e dalla violenza, è dato dalla rinuncia libera, cosciente e volontaria all’opposizione e alla resistenza di chi le si sottomette. Non si può, quindi, comprendere l’autorità senza adottare il pensiero intrinsecamente sociale e storico della dialettica del reale. Per capire l’autorità bisogna descrivere non soltanto chi la detiene (infatti le teorie analitico-descrittive dell’autorità mancano il bersaglio), ma soprattutto coloro che la riconoscono.
Chiarita l’essenza dell’autorità Kojève passa a distinguerne le quattro forme “semplici, pure o elementari” in corrispondenza con quattro capitali prestazioni teoriche del canone filosofico occidentale: la dottrina di Platone, che viene esemplificata dal “personaggio concettuale” del Giudice, che guarda all’autorità nello specchio eterno della giustizia; quella di Aristotele, espressa nella figura del Capo, che proietta l’autorità nel futuro del progetto (spesso rivoluzionario); quella detta genericamente teologico-scolastica, incarnata nella persona del Padre, che custodisce l’autorità nel passato ereditario e causale della tradizione e, infine, quella di Hegel, che si estrinseca nel ruolo del Signore, che afferma l’autorità nella tirannide esecutiva del presente.
A partire da questo cristallo teorico, di rara trasparenza malgrado i continui richiami alla natura sommaria del suo lavoro, Kojève sviluppa prima un’analisi fenomenologica, metafisica e ontologica delle forme pure e/o miste, ossia combinate, con cui l’autorità si dà storicamente , e poi una serie di deduzioni che ne prendono in esame le applicazioni politiche, morali e psicologiche. Intessuta nell’esposizione, una filosofia della storia della nozione di autorità rimarca il senso decisivo della crisi e dell’eclisse moderna dell’autorità del Padre - è il tramonto della teologia politica, ma anche della forma più diffusa con cui l’autorità si dà nel mondo della vita, quella del “padre di famiglia”, ossia dei genitori nei confronti dei figli - che rende difficile ricomporre le altre tre forme di autorità in un’unità organica, che si intravede appena nella teoria della separazione dei poteri giudiziario (Giudice), esecutivo (Signore) e legislativo (Capo).
Una divisione che sempre più spesso è un aperto conflitto, ossia, come insegnano vuoi le miserevoli cronache italiane, vuoi le notizie dei continui scontri tra Obama e il Congresso che ci giungono dall’altra sponda dell’Atlantico, tutt’altro che un esempio d’autorità. Non abbiamo qui lo spazio per seguire Kojève nella sua vertiginosa ars combinatoria dialettica: un esercizio di stile che riduce sapientemente a poche precise definizioni intere sezioni della storia politica occidentale e della corrispondente speculazione teorica. Del resto, come già osservava lapidario Jacob Taubes a proposito del modo geniale e aristocratico di trattare i problemi da parte del nostro filosofo, «alcuni scrivono libri interi su ciò che Kojève risolve, con eleganza, in una nota».
Alexandre Kojève, La nozione di autorità, a cura di Marco Filoni, Adelphi, pagg. 145, • 29,00
IL GIOCO SPORCO
di don Aldo Antonelli
vi partecipo le riflessioni che mi vengono dalla lettura del vangelo di oggi, domenica 9 settembre 2007. Ve le consegno con l’augurio di una buona domenica.
Aldo
Vangelo di Luca 14, 25-33
Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace. Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
Questo il Vangelo di oggi che, ad un orecchio non assuefatto, pone una serie di domande:
Come è possibile che ci venga comandato l’odio da parte di Colui che ha sempre predicato e praticato l’amore?
Perché mai un cristiano che vuol essere fedele discepolo del Cristo (compito di tutti i cristiani e non dei cosiddetti “eletti”) deve trasgredire il quarto comandamento dell’Antica Alleanza e l’unico comandamento della Nuova Alleanza?
Perché per obbedire bisogna disobbedire?
La chiave di risposta ci viene dalla situazione prospettata dalle parole introduttive della narrazione: “Siccome molta gente andava con Lui, egli si voltò e disse”!
Le folle, tanto care ai nostri ultimi due papi e ai registi vaticani, non sono mai piaciute al Profeta di Galilea che, anzi, le schivava. Lui non amava giocare al ribasso, fare il gioco sporco che molte volte noi facciamo, quello cioè di modellare il suo messaggio sui gusti e sulle preferenze dei suoi ascoltatori carezzandone i bassi istinti e sollecitandone le facili devianze. Non era suo il motto proprio di tanti nostri chierici e altrettanti nostri politici: «Questo vuole la “ggente”»!
Quando le esigenze della giustizia e la ragioni della fraternità, che sono le colonne portanti della costruzione del “Regno”, cozzano con gli interessi della casta o del clan, della famiglia o della chiesa, allora sono queste ultime ad essere sottoposte a giudizio più che le prime.
E’ in gioco sporco quello che facciamo noi preti quando “per amore di chiesa” mettiamo a bagnomaria il Vangelo.
E’ un gioco sporco quello dei politici che sterilizzano la “religione” per farne cemento di egoismi di gruppo e di presunzioni razziste (Cfr. il discorso sulle radici cristiane e il Family Day).
La sequela, per noi cristiani, non ha niente a che fare con le tifoserie da stadio, né con la insolente proclamazione di princìpii datati.
La fedeltà al progetto, perché di progetto si tratta (“chi di voi volendo costruire...”), richiede un esame delle nostre capacità per una testimonianza che cresca dal basso e parta da noi e che non venga imposta ad altri, dall’alto.
don Aldo Antonelli
BENEDETTO XVI°- “L’OMOSESSUALITA’ E’ UN PECCATO CHE GRIDA VENDETTA AL COSPETTO DI DIO”
di Francesco Cossiga
SANTO PADRE LEI CHE HA PROMOSSO, NELLA PIENA RIAFFERMAZIONE DELLA DOTTRINA MORALE DELLA CHIESA, COMUNE ANCHE ALLE ALTRE GRANDI RELIGIONI MONOTEISTE CIRCA L’OGGETTIVO E INTRINSECO GRAVE DISORDINE DELLE RELAZIONI OMOSESSUALI, GIÀ DEFINITE DAI CATECHISMI CATTOLICI COME «PECCATI CHE GRIDANO VENDETTA AL COSPETTO DI DIO» *
Santo Padre, ho l’onore di conoscerla di persona e attraverso i suoi scritti da molti, molti anni. E so bene quali siano le Sue doti non solo d’intelligenza e di carità cristiana, ma di comprensione e di tolleranza...
Quando prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede Lei ha promosso, nella piena riaffermazione della dottrina morale della Chiesa, comune anche alle altre grandi religioni monoteiste circa l’oggettivo e intrinseco grave disordine delle relazioni omosessuali, già definite dai catechismi cattolici come «peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio», ha promosso documenti dei Vescovi e della stessa Congregazione che prescrivono il dovere di ogni cristiano di rispettare la dignità delle persone omosessuali.
Le scrivo questa lettera per chiederle scusa, oltre che a Lei come Vescovo di Roma, come a cittadino elettivo di questa città che La ospita da oltre venticinque anni. Le chiedo scusa per le offese che sono state recate alla Chiesa di Roma, ai suoi simboli e ai suoi principi, e direttamente alla Sua persona da parte dei partecipanti di una manifestazione priva di decoro e di dignità.
Io le chiedo scusa come semplice cittadino di questa città e come cattolico, cattolico liberale che crede fermamente nella libertà e nella civile tolleranza, ma «cattolico infante» che, anche se un giorno ricoprì quasi occasionalmente alcune cariche rappresentative dello Stato, nessuna influenza ha né alcun ruolo riveste ormai più nella vita politica e istituzionale del nostro Paese, ma che come cittadino di uno Stato democratico ha il diritto di rammaricarsi per l’offuscamento nella vita italiana per quelli che sono stati i valori storici fondanti della nostra comunità nazionale, il riconoscimento del cui carattere fondamentale fece scrivere a un grande filosofo laico e liberale un saggio dal titolo: Perché non possiamo non dirci cristiani.
Questa lettera aperta di scuse gliela avrebbe dovuta forse scrivere il Presidente del Consiglio dei ministri, cattolico e «cattolico adulto»: ma egli, e lo comprendo, non può perché ritiene che la politica e la religione debbano essere non solo distinte ma separate, e che ciò debba valere anche sul piano della buona educazione, perché il suo Governo ha dato il suo patronato a questa carnascialesca e volgare manifestazione e tre suoi ministri vi hanno partecipato insieme a leader di partiti della sua coalizione di governo, e infine perché coloro che vi hanno partecipato sono suoi elettori e suoi sostenitori. Credo vi abbia partecipato in nome della laicità anche un manipolo di «cattolici democratici».
Questa lettera aperta di scuse gliela avrebbe dovuta scrivere il Sindaco di Roma, non cattolico, ma molto ossequioso verso la Chiesa e soprattutto verso i vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose che sono elettori nel Comune di Roma; ma non può perché anche suoi elettori e suoi sostenitori sono i partecipanti della sfilata dell’altro giorno. Ma anche se io non rappresento altri che me stesso, ed è assai poco - anche se penso che molti romani, cattolici o no, almeno in nome della buona educazione e dello spirito di ospitalità la pensino come me -, sono certo che vorrà accettare queste scuse da un tempo suo affezionatissimo amico (il teologo anche se cardinale era una cosa, per me «cattolico infante» il Papa è un’altra cosa!) e Suo devoto fedele.
* Il Giornale, 19/06/2007
Messico: la chiesa scomunica i politici che approvano l’aborto
La notizia è stata data ufficialmente dalla stessa arcidiocesi guidata dal cardinale Norberto Rivera Carrera*
CITTA’ DEL VATICANO L’arcidiocesi di Città del Messico ha scomunicato il sindaco di Città del Messico, Marcelo Ebrard, e tutti i deputati del «Distrito federal» che hanno votato e approvato la settimana scorsa il provvedimento di depenalizzazione dell’aborto. La notizia è stata data ufficialmente dalla stessa arcidiocesi guidata dal cardinale Norberto Rivera Carrera, che in questi giorni si trova a Roma.
Il portavoce del cardinale, il sacerdote Hugo Valdemar, riferendosi ai parlamentari di Città del Messico - la capitale è governata da una maggioranza di sinistra - ha affermato: «Abbiano la decenza di non entrare in cattedrale nè in nessuna altra Chiesa cattolica del mondo finchè non saranno perdonati».
La scomunica ha precisato Valdemar, «è un fatto, una legge della Chiesa che si applica ai cattolici». il Parlamento del Distretto Federale ha approvato la legge con 46 voti a favore e 19 contrari, il provvedimento ammette l’aborto entro le prime 12 settimane di gravidanza. La discussione della legge è stata accompagnata da forti polemiche e da dimostrazioni di piazza da una parte e dall’altra, mentre la Chiesa ha fatto sentire la sua voce. Anche dal Vaticano è arrivato un messaggio di Benedetto XVI che invitava i vescovi del Messico a difendere la vita.
Si tratta di una svolta in America Latina, in quanto l’unico stato che fino ad ora si era dotato di una legislazione favorevole all’interruzione di gravidanza era Cuba. In questi mesi la discussione sull’aborto e quindi su leggi che ne permettessero la pratica, si è aperta in Paesi come il Brasile e l’Argentina, che insieme al Messico sono fra i paesi cattolici più grandi del mondo.
La scomunica contro i politici che hanno votato la legge favorevole alla depenalizzazione dell’aborto rappresenta poi una presa di posizione particolarmente dura da parte della Chiesa messicana sulla quale lo stesso Vaticano nei giorni scorsi aveva espresso qualche perplessità. Secondo il codice di diritto canonico infatti la scomunica latae sententiae appannaggio del vescovo, comprende chi ricorre alla pratica dell’aborto, cioè la donna, e chi lo rende possibile, cioè lo attua, vale a dire i medici.
I politici fino ad ora non erano stati chiamati in causa per la scomunica ma solo richiamati con estrema fermezza a una coerenza di comportamenti con la dottrina della Chiesa in materia. Dunque quanto affermato dall’arcidiocesi della capitale messicana costituisce un ulteriore escalation nel confronto-scontro che in questi mesi divide la Chiesa da settori importanti della politica e delle istituzioni nell’area latinoamericana. Di fatto la linea di dura intransigenza inaugurata da Norberto Rivera Carrera sull’aborto viene messa in campo dalla Chiesa a pochi giorni dall’arrivo del Pontefice in Brasile a San Paolo e dall’inizio della V conferenza dell’episcopato latinoamericano.
Senza prendere in considerazione la richiesta di un referendum presentata da più di 76 mila cittadini, l’Assemblea Legislativa del Distretto Federale (ALDF) aveva approvato il 24 aprile scorso la proposta di riforma al Codice Penale che contempla appunto la depenalizzazione dell’aborto durante le prime 12 settimane di gestazione. La nuova legge, approvata con 46 voti a favore, 19 contrari ed una astensione, contempla la riduzione delle pene per le donne che decidano di interrompere la gravidanza dopo il termine delle dodici settimane.
Nella stessa sessione l’Assemblea Legislativa ha approvato anche una serie di cambiamenti nella Legge Sanitaria locale secondo cui le istituzioni sanitarie pubbliche della città dovranno rispondere alle richieste di interruzione della gestazione da parte delle richiedenti, e obbliga il Governo a promuovere la salute sessuale ed i diritti riproduttivi, come la maternità e paternità responsabile. Città del Messico si è così aggiunta a Cuba, Guayana e Porto Rico, che sono per il momento gli unici luoghi in America Latina e nei Caraibi che permettono questa opzione.
Alla vigilia della votazione, i Vescovi di Oaxaca hanno pubblicato un comunicato nell’intento di chiarire alcuni aspetti e rispondere ad alcune domande che si usano come pretesto per giustificare e promuovere condotte contrarie alla vita. I Vescovi avevano ricordato che «benchè un governo depenalizzi l’aborto, questo continuerà ad essere un crimine abominevole e seguirà ad essere vigente il comandamento di Dio: ’Non ucciderè. Le alternative per la soluzione di questo problema dovranno ricercarsi nell’intensificare gli sforzi tesi a migliorare la salute e l’educazione autentica e completa».
* La Stampa, 30.04.2007
SOVRANITA’, OBBEDIENZA - MONOTEISMO E DEMOCRAZIA: DUE GAFFE - UNA "CATTOLICA" (di Gian Maria Vian) E UNA "LIBERALDEMOCRATICA" (di Giovanni Sartori)!!! (fls)
Monoteismi e democrazie: che gaffe!
di Gian Maria Vian (Avvenire, 04.04.2007)
Lanciare un saggio di politologia, per di più solo ampliato in una nuova edizione, non è facile. Anche se l’autore è uno studioso noto come Giovanni Sartori, di cui va oggi in libreria "Democrazia. Cosa è" (Rizzoli), per l’appunto riedito con nuovi capitoli.
Così il "Corriere della sera" di ieri ha, per così dire, montato la panna: titolando in prima pagina "Il monoteismo ostacola la democrazia" e dedicando la prima pagina della sezione culturale ad alcuni brani del libro, e in particolare alla tesi che "la democrazia - e più esattamente la liberaldemocrazia - è una creazione della cultura e della civiltà occidentale".
Esportabile, esportabilissima (direbbe il conte Attilio manzoniano), purché non s’imbatta "nell’ostacolo delle religioni monoteistiche". Come dimostrano secondo l’autore il Giappone sconfitto dagli statunitensi e l’India lasciata dai britannici. Cioè due paesi non occidentali che hanno poi adottato il sistema democratico: grazie al fatto che nel primo prevale lo scintoismo, mentre nel secondo convivono induismo e buddismo dopo lo smembramento degli attuali Pakistan e Bangladesh, paesi a maggioranza islamica.
Il ragionamento appare suggestivo e convincente, ma a guardare bene fa acqua da diverse parti. Adombrando una squalificazione dei monoteismi tanto diffusa quanto storicamente debole, la tesi dimentica che la culla della democrazia è la tradizione occidentale, secolarizzata quanto si vuole ma storicamente cristiana, e cioè fino a prova contraria monoteista.
Non si può poi dimenticare che Israele, radicato in una tradizione culturale altrettanto monoteista, è da oltre mezzo secolo un modello di democrazia nel Vicino Oriente (dove democratico era fino a un trentennio fa anche il Libano, certo non politeista). Infine, come essere sicuri che i problematici rapporti tra islamismo e democrazia siano dovuti al suo monoteismo? Il punto insomma non è questo, e se tanti sono gli ostacoli della democrazia tra questi certo non vi sono le religioni monoteistiche.
ANTEPRIMA
Nella nuova edizione del saggio sui sistemi rappresentativi, Giovanni Sartori guarda al futuro del Terzo Mondo
Esportare la DEMOCRAZIA
è possibile, ma l’ ostacolo è il monoteismo *
Al quesito se la democrazia sia esportabile, si può obiettare che la democrazia è nata un po’ dappertutto, e quindi che gli occidentali peccano di arroganza quando ne parlano come di una loro invenzione e vedono il problema in termini di esportazione. Questa tesi è stata illustrata in un recente libriccino (tale in tutti i sensi) intitolato La democrazia degli altri dell’ acclamatissimo premio Nobel Amartya Sen.
(...) A dispetto di Sen e del suo terzomondismo, la democrazia - e più esattamente la liberaldemocrazia - è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La «democrazia degli altri» non c’è e non è mai esistita, salvo che per piccoli gruppi operanti faccia a faccia che non sono per nulla equivalenti alla democrazia come Stato «in grande». Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l’ imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è così, è così. Le cose buone io le prendo da ovunque provengano. Per esempio, io sono lietissimo di adoperare i numeri arabi. Li dovrei respingere perché sono arabi? Allora la democrazia è esportabile?
Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre. E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile. In questa ottica il concetto di liberaldemocrazia deve essere scomposto nei due elementi - liberale e democratico - che lo compongono. La componente liberale è «liberante»: libera il demos dalla oppressione, dalla servitù, dal dispotismo. La componente democratica è, invece, «potenziante» nel senso che potenzia il demos. Il che può essere ridetto così: che la liberaldemocrazia è in primo luogo demoprotezione, la protezione del popolo dalla tirannide; e, secondo, demopotere, l’ attribuzione al popolo di quote, e anche quote crescenti, di effettivo esercizio del potere.
Storicamente parlando, la creazione di un demos libero da, libero dalla oppressione politica, e quindi politicamente protetto, è specialmente dovuta a Locke e al costituzionalismo liberale. Ma un demos libero è anche un demos che entra nella «casa del potere», che si afferma domandando e ottenendo. E questa è la componente specificatamente democratica della liberaldemocrazia. Quale elemento - la demoprotezione o il demopotere - è il più importante?
(...) L’ importanza in questione è procedurale: stabilire cosa viene prima e cosa viene dopo, quali siano le fondamenta della costruzione, e perciò stesso quale sia il supporto fondante dell’ insieme. Se non c’ è prima libertà da, non ci sarà dopo libertà di; se non c’ è prima demoprotezione non ci può essere demopotere. Dovrebbe essere ovvio. Purtroppo non lo è.
Quindi insisto, debbo insistere: la componente liberale della liberaldemocrazia ne è la condizione necessaria sine qua non, mentre la componente democratica ne è l’ elemento variabile che ci può essere ma anche non essere. Il che equivale a dire che la demoprotezione costituisce una definizione minima della democrazia che ne è anche la definizione essenziale, mentre il demopotere ne definisce le caratteristiche contingenti che si possono manifestare in diverso modo e misura.
Torniamo alla esportabilità. Se, come ho appena detto, la demoprotezione è l’ elemento necessario-minimo della liberaldemocrazia, ne consegue che ne dovrebbe anche essere l’ elemento universale, o comunque più universabilizzabile, più facile da esportare. Questo trapianto può avvenire per contagio, e quindi in modo endogeno, oppure può risultare da una sconfitta militare ed essere una esportazione imposta con la forza.
Gli esempi più citati di democrazia costituzionale imposta con successo dalle armi e da una occupazione militare sono, a seguito della Seconda guerra mondiale, Giappone, Germania e Italia. Ma questo è un assemblaggio statistico stupido, nel quale soltanto il Giappone è un caso significativo. La Germania nazista era stata preceduta dalla Repubblica di Weimar, e l’ Italia fascista dall’ Italia risorgimentale e giolittiana. In questi due casi il ritorno alla democrazia sarebbe avvenuto comunque o sarebbe stato pactado (come lo è stato in Spagna alla morte del generale Franco).
Il Giappone sta invece a sé, è un caso reso diverso dalla sua netta eterogeneità culturale. E qui la lunga occupazione militare americana è stata senza dubbio determinante. Però è anche vero che la cultura giapponese si prestava al trapianto. Intanto, e in primo luogo, il Giappone era da tempo un Paese modernizzato; tale in virtù della cosiddetta, ed erroneamente detta, restaurazione Meiji della seconda metà dell’ 800. In secondo luogo, quando arrivò il generale MacArthur i giapponesi obbedivano all’ imperatore, e l’ imperatore ordinò ai suoi sudditi di obbedire al proconsole americano.
Infine, e in terzo luogo, in Giappone non c’ era un ostacolo religioso: lo scintoismo dei giapponesi è una religione, per così dire, molto tranquilla e molto laica. Così la democratizzazione del Giappone non pose problemi e non si imbatté in ostacoli. Il caso del Giappone dimostra più e meglio di ogni altro che la democrazia non è necessariamente vincolata al sistema di credenze e di valori della civiltà occidentale. I giapponesi restano culturalmente giapponesi ma apprezzano, allo stesso tempo, il metodo di governo occidentale.
Ma il caso più significativo è quello dell’ India, che ha assorbito dalla lunga presenza e dominazione degli inglesi (non certo da inesistenti credenziali autoctone) le regole del costituzionalismo britannico e le ha poi mantenute e fatte proprie. Ma l’ ostacolo religioso era, in India, più serio e complesso che in Giappone.
Le grandi religioni indiane sono, nell’ ordine, l’ induismo, il buddismo e l’ islamismo. L’ induismo definisce l’ identità del Paese, si tinge sempre più di nazionalismo e non è sempre una religione placida; però è anche una religione panteistica e sincretistica. Può accettare, come di fatto ha accettato, la democrazia. D’ altra parte il buddismo è una religione meditativa che non pone problemi.
Problemi che sono invece irriducibilmente creati dal monoteismo islamico. Tant’ è vero che quando gli inglesi se ne andarono, si dovettero rassegnare a smembrare l’ India creando un territorio islamico che poi si è a sua volta suddiviso in due Stati: il Pakistan e il Bangladesh.
Qui importa sottolineare, primo, che senza questo scorporo l’ India rischiava di essere dilaniata, nonostante mille anni di coesistenza, da una terribile guerra civile; secondo, che se l’ India è una democrazia è perché l’ ostacolo islamico è stato largamente rimosso dalla spartizione del Paese.
Anche per l’ India, come per il Giappone, si può quindi concludere che una eterogeneità culturale non impedisce l’ adozione di una democrazia di tipo occidentale. La religione non è un ostacolo se e quando può accettare la laicità della politica. Il che spiega come mai l’ India sia una democrazia «importata» che peraltro lascia gli indiani come sono, e cioè culturalmente indiani. Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell’ ostacolo delle religioni monoteistiche. Il problema va inquadrato storicamente così.
* * * In cifre
L’ ultimo rapporto di Freedom House denuncia che 2,4 miliardi di persone vivono sotto regimi autoritari; in 90 Stati c’ è democrazia; in 58 qualche segno positivo; in 45 non c’ è alcuna libertà
* * * La trasmissione
Su Raisat ogni sera trenta lezioni di scienza politica Il testo qui pubblicato fa parte dei capitoli nuovi inclusi nell’ edizione ampliata del saggio di Giovanni Sartori «Democrazia. Cosa è» (pagine 388, 19), in uscita domani da Rizzoli Sempre domani comincia in tv, su Raisat Extra, un ciclo di brevi conversazioni di Sartori con Lorenza Foschini, dal titolo «Lezioni di democrazia», che proseguirà per trenta puntate ogni sera alle ore 21 Sartori Giovanni
* Corriere della Sera, 3 aprile, 2007.
ANALISI
Dei tre ideali rivoluzionari, fino a oggi solo «liberté» ed «egalité» hanno mosso governi e ideologie. Ma ora le nuove sfide reclamano anche più «fraternité»
Se la politica riscopre la fraternità
Dopo il «Terzo ’89», quello della caduta del Muro, all’ordine del giorno si è imposta la necessità di trovare un equilibrio tra i tre principi, dal «welfare» alla «governance» mondiale da affinare
di Antonio Maria Baggio (Avvenire, 05.04.2007) *
La rivoluzione francese del 1789 inalbera, fra i numerosi "motti" che si susseguono nei cinque anni che trascorrono dalla convocazione degli Stati generali alla reazione termidoriana, anche la celebre divisa «Libertà, uguaglianza, fraternità». Essa non diviene però una divisa ufficiale; a renderla tale è solo la Repubblica rivoluzionaria del 1848. In seguito attraversa numerose vicende storiche che alternano la sua dimenticanza a momenti di fulgore e torna ad imporsi alla fine del secolo, a partire dalla vittoria dei repubblicani nel 1879. Il regime di Vichy la mette da parte, sostituendola con «Travail, famille, patrie»; ma rimane la divisa dei resistenti, e trova infine una sistemazione definitiva nell’art. 2 della Costituzione del 1946.
Perché allora occuparsi tanto dell’89, se la comparsa del "trittico" vi fu così breve? Il fatto è che la rivoluzione del 1789 costituisce un punto di riferimento storico di grande rilevanza, perché durante il suo corso, per la prima volta in epoca moderna, l’idea di fraternità viene interpretata e praticata politicamente.
Certo, lungo la storia dell’Occidente profondamente influenzato dalla cultura cristiana, un certo linguaggio della fraternità mantiene una presenza continua, e mostra una vasta gamma di sfumature quanto ai contenuti del concetto: dal significato teologicamente "forte" della fraternità "in Cristo", ad una miriade di manifestazioni pratiche, che vanno dalla semplice elemosina, al dovere dell’ospitalità e della cura, alla fraternità monastica che presuppone la convivenza e la comunione dei beni, fino a complesse opere di solidarietà sociale che, soprattutto in epoca medievale e moderna, precedono i contemporanei sistemi di welfare. Ciò che è nuovo, nel "trittico" dell’89, è l’acquisizione, da parte della fraternità, di una dimensione politica, attraverso il suo accostamento e la sua interazione con gli altri due principi che caratterizzano le democrazie contemporanee: la l ibertà e l’uguaglianza. Perché in effetti, fino a prima dell’89, si parla di fraternità senza la libertà e l’uguaglianza civili, politiche e sociali o, anche, si parla di fraternità in sostituzione di esse.
Il trittico rivoluzionario strappa la fraternità dalle interpretazioni - pur variegate - della tradizione e la inserisce in un contesto del tutto nuovo, insieme alla libertà e all’uguaglianza, come tre principi e ideali costitutivi di una prospettiva politica inedita. Per questo il trittico introduce - o almeno fa balenare lo sguardo - in un mondo nuovo; un novum che mette in crisi anche il modo con il quale il cristianesimo aveva fino ad allora inteso la fraternità: un novum che si annuncia e subito cade, per la scomparsa quasi immediata della fraternità dalla scena pubblica. Rimangono, in primo piano, libertà ed uguaglianza, più spesso antagoniste che alleate - e antagoniste proprio perché prive della fraternità -, integrate in qualche modo tra loro all’interno dei sistemi democratici; ma diventate, anche altrove, le sintesi estreme di due visioni del mondo, di due sistemi economici e politici, che si contenderanno il potere nei due secoli successivi.
Libertà e uguaglianza hanno conosciuto, così, un’evoluzione che le ha portate a diventare vere e proprie categorie politiche, capaci di esprimersi sia come principi costituzionali, sia come idee-guida di movimenti politici. L’idea di fraternità non ha avuto una sorta analoga; se si eccettua il caso francese, essa ha vissuto, come principio politico, una vicenda marginale, un percorso da fiume sotterraneo le cui rare emersioni non riuscivano ad irrigare di sé, se non sporadicamente, il terreno politico. Sulla fraternità, infine, il pensiero democratico è arrivato al silenzio.
La fraternità è andata invece acquisendo, nel corso della storia, un significato universale, arrivando ad individuare il soggetto al quale essa può pienamente riferirsi: il soggetto "umanità" - una comunità di comunità -, l’unico che garantisca la completa espressione anche agli altri due principi universali, di libertà e di uguaglianza. I problemi relativi all’universalità dei principi democratici, alla loro "sofferenza" dovuta all’essere "costretti" dentro una dimensionale statale, alle diverse forme che essi potrebbero assumere, sono stati presenti nei dibattiti suscitati in Occidente dai temi tradizionalmente posti dal federalismo, dalla Guerra fredda, dalle problematiche legate al multiculturalismo: ma chiedono oggi di essere guardati anche sotto l’ottica della fraternità.
Ancora, la fraternità ha avuto una certa, se pur parziale, applicazione politica attraverso l’idea di "solidarietà". Abbiamo avuto un riconoscimento progressivo dei diritti sociali, in alcuni regimi politici, che hanno dato origine a politiche di welfare, cioè a politiche che cercavano di realizzare la dimensione sociale della cittadinanza. In effetti, la solidarietà dà una parziale applicazione ai contenuti della fraternità; ma questa, io credo, ha un suo significato specifico, che non è riducibile a tutti gli altri significati pur buoni e positivi, attraverso i quali si cerca di darle un’applicazione. Ad esempio, la solidarietà - così come si è spesso storicamente realizzata - consente che si faccia del bene ad altri pur mantenendo una posizione di forza, una relazione "verticale" che va dal forte al debole; la fraternità, invece, presuppone il rapporto orizzontale, la condivisione dei beni e dei poteri, tanto che sempre più si sta elaborando - in teoria e in pratica - l’idea di una "solidarietà orizzontale", riferendosi all’aiuto reciproco tra soggetti diversi, sia appartenenti all’ambito sociale, sia di pari livello istituzionale.
Vero è che alcune forme di "solidarietà orizzontale" hanno avuto modo di svilupparsi attraverso concreti movimenti storici, nell’ambito delle organizzazioni sociali, della difesa dei diritti umani e, in parti colare, dei diritti dei lavoratori e, anche, come iniziative economiche: pensiamo al movimento cooperativo, all’economia sociale sviluppatasi negli ultimi decenni.
Ritengo, in conclusione, che si possa dire che la fraternità assume una dimensione politica adeguata, ed è dunque intrinseca al processo politico stesso, non estranea o applicata ad esso dall’esterno, solo sei si realizzano almeno due importanti condizioni. La prima: la fraternità entra a fare parte costitutiva del criterio della decisione politica, contribuendo a determinare, insieme a libertà ed uguaglianza, il metodo e i contenuti della politica stessa; la seconda: riesce ad influire sul modo con il quale vengono interpretate le altre categorie politiche, quali la libertà e l’uguaglianza. Si deve infatti garantire un’interazione dinamica fra i tre principi, senza scartarne nessuno, in tutti gli ambiti pubblici: da quello della politica economica (decisioni sugli investimenti, distribuzioni delle risorse), a quello legislativo e giudiziario (bilanciamento dei diritti fra persone, fra persone e comunità), a quello internazionale (sia per rispondere alle esigenze dei rapporti fra gli Stati, sia per far fronte ai problemi di dimensione continentale e planetaria).
*
il libro
La grande assente del pensiero politico
La riflessione di Antonio Maria Baggio «La riscoperta della fraternità nell’epoca del Terzo ’89», della quale anticipiamo in questa pagina ampi stralci, apre la raccolta da lui curata «Il principio dimenticato. La fraternità nella riflessione politologica contemporanea» in uscita per Città Nuova (pagine 330, euro 22,00). Il filosofo, docente di Etica sociale e Filosofia politica alla Pontificia università Gregoriana di Roma, ha riunito in volume una serie di interventi che mirano a contribuire a risolvere i problemi irrisolti delle democrazie, che non sono ancora riuscite a realizzare in pieno il celebre trittico composta da libertà, uguaglianza e fraternità. Soprattutto quest’ultima è stata poco elaborata, nella riflessione politica novecentesca; per questo le domande che pone, e il suo rapporto con la prassi politica, restano aperte. Ne riflettono, nel volume, gli scritti di Rocco Pezzimenti, Massimiliano Marianelli, Piero Coda, Giuseppe Savagnone, Daniela Ropelato, Alberto Lo Presti , Filippo Pizzolato, Vincenzo Buonuomo, Marco Aquini e Pasquale Ferrara.
IDEE
Il filosofo Spaemann mette in guardia da chi accusa le religioni di fomentare l’odio e il terrore: all’origine dei tre monoteismi vi è una divinità che si rivolge all’uomo attraverso il «logos». La ragione, dunque, appartiene al credente in quanto relazione con l’altro. Chi rifiuta questa dimensione dialogica apre la strada alla conflittualità
Ma Dio non è violenza
«Troppo spesso ancora nel mondo musulmano vince la via sanguinaria. Anche l’islam deve intraprendere la strada del dialogo comune»
di Robert Spaemann (Avvenire, 18.07.2007)
Non è un caso che il discorso di Regensburg abbia aperto un controverso dialogo con l’Islam. Senza il colpo di avvertimento costituito dalla citazione di un imperatore bizantino, più di trenta famosi professori islamici forse non avrebbero mai pensato di accettare l’invito al dialogo, di prenderlo sul serio, di rispondere gentilmente e di cominciare subito ad avanzare delle critiche invece dei soliti scambi di cortesie. Che altri musulmani abbiano reagito con un atto di violenza sanguinaria conferma che la questione del rapporto fra fede e violenza resta per l’Islam un problema aperto. Il Papa ha facilitato l’apertura di un dialogo serio ammettendo senza infingimenti apologetici che anche la cristianità ha avuto questo problema per tanto tempo e che spera che l’Islam compia lo stesso processo di apprendimento che ha compiuto la Chiesa. Oggetto di tale dialogo sarà verificare se il Corano favorisca un tale processo allo stesso modo del Nuovo Testamento. Metterlo inizialmente in dubbio fa parte di un onesto inizio di dialogo.
Ci si potrebbe chiedere perché bisogna discuterne e forse scontrarsi. Se i musulmani avessero un altro Dio rispetto ai cristiani un tale scontro sarebbe privo di senso. I cristiani potrebbero solo ribadire che non credono all’esistenza di quel Dio. In effetti tanti cristiani ritengono che Allah sia un altro Dio rispetto a quello dei cristiani. Se fosse così non avrebbe alcun senso scontrarsi rispettosamente su come si debba pensare e parlare correttamente di Dio. Ma in conformità col suo grande predecessore medievale Gregorio VII e col Concilio Vaticano II, Benedetto XVI parte dal presupposto che gli ebrei, i cristiani e i musulmani pregano lo stesso Dio uno e unico.
La lezione magistrale di Regensburg parla soprattutto della differenza che nel mondo di oggi salta agli occhi. Essa riguarda il tema «Dio e violenza». Ricollegandosi alle riflessioni di un imperatore bizantino, il Papa collega questo all’altro tema: «Dio e ragio ne». La ragione è quello step beyond ourselves la cui possibilità la modernità nega. Ho cercato, riferendomi a Nietzsche, di mostrare che questa possibilità dipende dall’esistenza di Dio e proprio di un Dio che nella sua essenza è luce. La ragione dunque non è uno strumento di sopravvivenza dell’homo sapiens, ma partecipazione alla luce divina e un vedere il mondo in questa «luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9). Questa luce, come dice Platone, fa vedere il bene come il koinon, «ciò che è comune a tutti» (cfr. Platone, Fedone). Non a caso Eraclito parla a questo riguardo del logos, e logos significa anche «parola».
Soltanto attraverso la parola, soltanto attraverso la lingua, attraverso il parlare con gli altri, noi ragioniamo. La violenza però è l’esatto contrario del parlare con gli altri. Lo scopo del discorso è l’intesa tramite la comune sottomissione al criterio del vero, lo scopo della violenza è la sottomissione dell’altro alla volontà di colui che si dimostra fisicamente più forte. Michel Foucault, che nega l’intelligibilità del mondo, deve di conseguenza minimizzare la differenza tra dialogo e violenza. Siccome non esiste un qualcosa che sia verità, anche nel dialogo può trattarsi solo di misurare le forze nella lotta per il potere. Così già pensavano d’altronde i sofisti con i quali si scontrò Socrate. Soltanto quando si dà verità come koinon si dà un’alternativa alla violenza. Il criterio della forza fisica non ha nulla a che fare con quello della verità. E la vittoria nello scontro violento solo per caso può anche essere la vittoria del migliore. C’è la forza legittima dello Stato, la cui ragione risiede nell’impedire la violenza tra gli individui, c’è la forza legittima del potere statale per la difesa contro la violenza di un’ingiusta aggressione. Ma lo scatenarsi della violenza, la trasformazione del dialogo in violenza è semp re il fallimento della ragione, e la probabilità che una situazione violenta possa essere migliorata con la violenza è scarsa.
Ma è soprattutto la violenza nel nome di Dio che è condannata inequivocabilmente da Benedetto XVI. Dio come Signore della storia agisce attraverso tutto ciò che succede e anche la violenza dei violenti alla fine dovrà servire al Suo scopo. Ma lo serve solo come tutto ciò che è malvagio. La Sua volontà è fatta sempre e dappertutto. Non deve chiedere il permesso. Ma non dappertutto sulla terra succede come in cielo, e cioè attraverso il conformarsi della volontà degli angeli e degli uomini alla volontà di Dio. Mefistofele, nel Faust di Goethe, confessa di essere parte «di quella Forza che sempre vuole il male e sempre il bene crea». Noi preghiamo affinché la volontà di Dio non sia fatta sulla terra così, ma «come in cielo», e questo significa anche: non tramite la violenza. Anche il popolo di Israele, a questo riguardo, ha compiuto un processo di apprendimento che si conclude soltanto con Gesù. E nonostante questa conclusione, la cristianità nel Medioevo ha creduto ancora di dover punire con pene temporali fino alla condanna a morte almeno l’apostasia e l’eresia: un punto di vista che vige ancora oggi nei Paesi islamici.
Ma non si può costringere a rimanere nella luce con i mezzi delle tenebre. Laddove dei cristiani vengono perseguitati in quanto cristiani, essi, seguendo il loro Signore, rinunciano a restituire la violenza. Dove dei cristiani, d’altronde, difendono legittimamente la civitas terrena in qualità di cittadini di essa, sanno che il processo della violenza, nei suoi esiti, è indifferente alla giustizia e all’ingiustizia. Non si presenteranno dunque in nome di Dio e in nome del bene per punire i cattivi e terranno l’odio che avvelena l’anima fuori dallo scontro. Dove vige la violenza, la ragione tace e l’unica forma della sua perdurante presenza può essere soltanto quel rispetto dei nemici che anticipa già la riconciliazione.
Non sempre possiamo decidere se avere o no nemici. A volte può essere giusto smitizzare l’idea del nemico, a volte no. Dobbiamo verificare l’idea che abbiamo del nemico confrontandola con la realtà. Ma ciò che invece possiamo decidere è di chiedere la forza di amare i nemici. Tale forza trasforma lo status della violenza che si oppone a Dio ed è il suo modo supremo con cui la luce può illuminare le tenebre, la luce della ragione e dell’amore, il cui massimo testimone è nel nostro tempo Papa Benedetto XVI.
IL DIBATTITO
Dopo Ratisbona, quale dialogo tra le fedi?
Il richiamo alla ragione che Benedetto XVI ha fatto nel discorso di Ratisbona ha suscitato un dibattito molteplice e anche incomprensioni forzate, sebbene il discorso del Papa fosse incentrato sulla necessità di un dialogo che abbia come riferimento il criterio della verità. Su questo ora prendono la parola cinque intellettuali nel volume «Dio salvi la ragione», edito da Cantagalli, che, oltre al testo di Benedetto XVI, presenta gli interventi di Wael Farouq, André Glucksmann, Sari Nusseibeh, Robert Spaemann e Joseph H.H. Weiler. Dal volume, pubblichiamo alcuni stralci del saggio del filosofo Robert Spaemann (nella foto), incentrati sulla questione del presunto rapporto fra religione e violenza.