[...] I 150 anni di condanna non possono sostituire 150 o più processi o indagini non ancora partiti su come è stato possibile tutto ciò; su come venivano fatti i controlli; sul perché nessuno abbia dato retta a Harry Markopolos, un esperto che dieci anni fa si era rivolto alle autorità di controllo [...] Spente le luci sul processo, molti interrogativi restano [...]
E ora il processo al sistema
di MARIO DEAGLIO (La Stampa, 30/6/2009)
Chiaro. Limpido. Indiscutibile. Un truffatore perfido, uomo di successo, con una faccia da attore di successo. Una condanna colossale, 150 anni di galera, assurdi a orecchi europei, per una truffa colossale, assurda anch’essa nella sua semplicità con cui sono stati gabbati per decenni alcuni tra i più preparati investitori del mondo, le autorità di vigilanza, gli analisti, i guru, i media, i controllori, molte banche. Un giudice che parla di crimine diabolico e un imputato-diavolo che faceva il benefattore, era membro dei consigli di numerose istituzioni benefiche. E viene denunciato dai figli, terrorizzati dall’entità della frode. Quest’imputato-diavolo chiede il permesso di essere presente - impassibile - alla lettura della sentenza in camicia bianca, giacca e cravatta che, per il duro regolamento del carcere in cui sarà rinchiuso, probabilmente non indosserà mai più, o meglio indosserà tra 150 anni. Ex ricchi che si mettono a piangere, pubblico che applaude, un imprigionamento che diventa un atto liberatorio per un’America che vuole condannare, ripartire, dimenticare e continuare a fare finanza. Fine del discorso. Fine della scena.
Seconda scena in Italia. È fin troppo plateale il confronto tra una giustizia americana che ti scova il malfattore l’11 dicembre, lo rimanda agli arresti domiciliari dietro una cauzione gigantesca, lo riarresta in gennaio, imbastisce il processo in febbraio-marzo e te lo condanna con tutte le cerimonie, praticamente in maniera definitiva, il 29 giugno. Nessuna scarcerazione in attesa di gradi ulteriori di giudizio, dei quali, d’altra parte, ci sono pochissime possibilità; nessuna ricusazione di giudici, nessuna lotta per arrivare all’archiviazione per decorrenza dei termini. Nessun affidamento ai servizi sociali, nessun occhio di riguardo perché l’imputato ha più di settant’anni. Prevedibili dichiarazioni di politici. Di giudici. Di esperti. Forse accordo sulla necessità di riforma per i crimini economici. Chissà, magari qualche progetto di legge; è persino possibile l’istituzione di una commissione parlamentare. Fine della scena. Ebbene, né l’una né l’altra scena sono soddisfacenti.
I 150 anni di condanna non possono sostituire 150 o più processi o indagini non ancora partiti su come è stato possibile tutto ciò; su come venivano fatti i controlli; sul perché nessuno abbia dato retta a Harry Markopolos, un esperto che dieci anni fa si era rivolto alle autorità di controllo perché persuaso che fosse matematicamente impossibile che le società di Madoff realizzassero i profitti che dichiaravano di realizzare; sul perché per questi dieci anni uomini finanziariamente astutissimi (Madoff si è rifiutato di fare qualsiasi nome) sulle due rive dell’Atlantico continuassero a consegnargli un fiume di denaro. Spente le luci sul processo, molti interrogativi restano.
La distanza tra Stati Uniti e Italia rimane altissima, ma non è che oltre Atlantico tutto sia chiarissimo. La scena si deve spostare in avanti. Magari all’Aquila, al G8, visto che tutto ormai sembra rotolare verso questo vertice al di fuori del normale in un anno economicamente al di fuori del normale. Potrebbe essere questa la sede buona per affrontare una volta per tutte il problema dei mercati finanziari; che è poi il problema di quanti Madoff siano in attività nel mondo e di quanti possano sorgere in futuro.
Se c’è una cosa che il caso Madoff mette in luce, è l’inutilità di controlli nazionali - e anche di sistemi giudiziari nazionali per crimini economici legati ai circuiti finanziari globali - e la necessità di un loro rapido superamento in favore di un’autorità internazionale di controllo. Che possa ficcare il naso nei libri contabili e fare domande di ogni tipo, in ogni Paese del mondo. Che gli americani hanno sempre avversato e che forse oggi avverserebbero un po’ meno. Madoff, insomma, deve essere un punto di partenza, non un punto d’arrivo. Non dimenticato fino a quando defungerà come il prigioniero matricola 61727-054 del Metropolitan Correction Center di New York in cui è detenuto, ma sempre presente nelle prossime mosse dei procuratori di giustizia.Si potrebbe anche suggerire che chi si occupa di crimini economici si tenga sempre una foto di Madoff sulla scrivania o appesa sul muro dell’ufficio. Per ricordargli che deve capire davvero come ha fatto; per convincere collaboratori e vittime a raccontare tutto. Per evitare che si faccia un processo, per quanto sacrosanto, a una persona anziché un’indagine a tappeto, sicuramente necessaria, sul funzionamento di un sistema.
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Sentenza esemplare per il finanziere autore di una frode da 65 miliardi di dollari
A breve all’asta l’appartamento, le ville, gli yacht, i quadri e i gioielli
Madoff condannato a 150 anni
Il giudice: "Crimine diabolico" *
NEW YORK - E’ stato condannato a 150 anni di carcere, la massima pena possibile, Bernard Madoff, il finanziare di 71 anni autore di una delle più grandi truffe della storia. La lettura della sentenza è stata accolta da un applauso. Madoff si è dichiarato colpevole di tutte le 11 imputazioni emerse da uno dei più grossi scandali della storia di Wall Street: le somme da lui frodate ammontano a 65 miliardi di dollari (l’equivalente di circa 46 miliardi di euro).
Si è anche scusato, nel corso dell’udienza odierna, l’ultima di un processo lampo durato pochissimi mesi (l’arresto del finanziere risale all’11 dicembre 2008), ma le scuse sono servite a ben poco. "Nessun altro caso di frode è comparabile con il caso Madoff", ha detto il giudice Denny Chin, precisando che "il simbolismo della sentenza è importante perché attraverso questa si invierà un messaggio".
Il giudice Chin ha definito quello di Madoff "un crimine straordinariamente diabolico". Dal 1995 Madoff, che era stato anche presidente del Nasdaq, aveva iniziato la sua attività privata promettendo tassi di interessi alti e sicuri (circa il 10%). Che puntualmente pagava, ma non perché il danaro venisse accortamente investito, ma soltanto perché arrivava danaro fresco dai nuovi clienti. E Madoff diventava sempre più ricco: se l’ammontare delle somme truffate è stimato in circa 65 miliardi di dollari, le cifre legate al suo impero economico ammontano a 171 miliardi di dollari.
Madoff, che ha passato gli ultimi mesi agli arresti domiciliari nel suo appartamento di lusso di Manhattan, del valore di 7 milioni di dollari, perderà tutto: le ville (una a Palm Beach, un’altra in Florida, una da 13 milioni a Montauk, sulla punta di Long Island), gli yacht e i beni personali, che verranno messi all’asta nei prossimi giorni. La moglie, Ruth, 68 anni, rimarrà senza casa e dovrà vivere d’ora in poi con i 2,5 milioni di dollari che le sono stati assegnati dal tribunale.
L’avvocato del finanziere, Ira Sorkin, puntava a una pena mite, al massimo 12 anni, dal momento che il suo cliente aveva ampiamente collaborato alle indagini. Ma si aspettava il peggio, anche sulla base delle richieste dei tanti truffati che hanno preso la parola in tribunale: "La cella deve diventare la sua bara", ha affermato uno degli investitori truffati. Un’altra vittima è scoppiata in lacrime dopo aver denunciato perdite per 5 milioni di dollari.
In questo clima l’appello e le scuse di Madoff sono cadute nel vuoto, e semmai sono state accolte con scherno: "Vivrò con questo dolore per il resto della mia vita - ha detto Madoff - Non posso chiedervi scusa per il mio comportamento: come puoi chiedere scusa per aver ingannato un’industria che hai contribuito a costruire? Come puoi chiedere scusa per aver ingannato una moglie dopo 50 anni di matrimonio?".
"Lascio alla mia famiglia un’eredità di vergogna, come hanno detto alcune delle mie vittime - ha proseguito il finanziere - Sono responsabile di molta sofferenza e molto dolore. Chiedo scusa alle mie vittime. Mi dispiace".
* la Repubblica, 29 giugno 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Ma da noi sono tutti impuniti
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 30/6/2009).
Bernard Madoff, il finanziere americano accusato di avere frodato i suoi clienti per un totale di oltre sessantacinque miliardi di dollari con una sorta di colossale catena di sant’Antonio, è stato condannato da un tribunale di New York a 150 anni di galera. Una condanna indubbiamente esemplare, che segue ad altre condanne altrettanto esemplari pronunciate negli anni scorsi dalla giustizia americana nei confronti di altri finanzieri malfattori (si pensi, per tutti, al caso Enron). Al di là della entità della pena irrogata, colpisce d’altronde la rapidità del giudizio: Madoff era stato arrestato nel dicembre scorso, non appena erano emerse le sue malefatte. In poco più di sei mesi si è arrivati alla sua condanna penale. Anche sotto questo profilo la sentenza americana costituisce un esempio di incisività ed efficienza.
Si potrà discutere se la decisione, a fronte del comportamento processuale dell’imputato, che aveva confessato di avere commesso tutti i delitti dei quali era stato accusato (ben undici imputazioni), ed almeno apparentemente aveva mostrato contrizione ed aveva cercato di collaborare con il giudice chiamato a giudicarlo, sia stata giusta od eccessivamente pesante. Un dato è comunque indiscutibile: che una volta di più la giustizia americana ha dimostrato di non avere difficoltà a colpire con rapidità e durezza chi, chiamato ad operare in una economia di mercato nel rispetto delle regole, tali regole ha violato e calpestato con l’obbiettivo dell’arricchimento selvaggio a danno dei cittadini truffati. Anche in Italia si sono verificati, in questi ultimi anni, scandali finanziari di grandissima entità: Parmalat, Cirio, bond argentini, per citare soltanto i casi più eclatanti. Anche in Italia, come negli Stati Uniti, si sono aperti processi penali. Quanta differenza, tuttavia, nelle giustizie dei due Paesi.
Mentre i giudici americani hanno, bene o male, fatto giustizia, e sono riusciti a farla in tempi rapidissimi, i giudici italiani, per fatti ormai risalenti a cinque o sei anni fa, stanno ancora rincorrendo gli imputati in processi lenti, complessi e faticosi, destinati, in larga misura, ad estinguersi per stanchezza e prescrizione. Si consideri, per tutte, la vicenda Parmalat. Gli autori della colossale truffa e ruberia a danno di azionisti e risparmiatori sono stati incriminati da ben due procure della Repubblica, da quella di Milano, che ha proceduto per i delitti di aggiotaggio, e da quella di Parma, che ha proceduto a sua volta per le bancarotte. Data la difficoltà di gestire, per la loro complessità, le vicende processuali, la tratta milanese si è sfrangiata a sua volta in due processi distinti, quella parmense in una decina di filoni separati. Di tutti questi processi, uno soltanto è giunto, fino ad ora, alla sentenza di primo grado: il primo processo per aggiotaggio contro Tanzi (e altri) celebrato davanti alla prima sezione del Tribunale di Milano, nel quale la maggior parte dei responsabili è riuscita a patteggiare con la Procura pene irrisorie, mentre il solo Tanzi, alla fine del dibattimento, è stato condannato ad una pena di dieci anni di reclusione.
Un risultato deludente. Tanto più deludente se si considera che, dati i tempi dei giudizi di appello e di cassazione, è ragionevole pensare che i delitti contestati risulteranno in ogni caso prescritti prima della sentenza definitiva. Se si valuta che negli Stati Uniti Madoff, raggiunto, come era naturale, da custodia cautelare, ha affrontato il processo agli arresti domiciliari, e si appresta a passare in carcere quanto gli rimane da vivere, mentre in Italia, dopo una breve custodia, lo stesso Tanzi è stato subito scarcerato ed eviterà sicuramente il carcere quand’anche taluna delle pene alle quali fosse definitivamente condannato non dovesse risultare prescritta, la differenza fra la giustizia americana e quella italiana appare, anche sotto questo profilo, enorme.
Le vicende parallele della giustizia americana e di quella italiana in materia di criminalità economica dovrebbero pertanto indurre a riflettere chi ha responsabilità di governo: non è tollerabile che in Italia criminali economici e colletti bianchi, sotto la copertura di una giustizia penale complessivamente malfunzionante, siano, comunque sostanzialmente certi della loro impunità, qualunque delitto abbiano commesso.
Non a caso il giudice americano che ha condannato Madoff, a commento della sua decisione, ha dichiarato che le sentenze, al di là delle conseguenze che cagionano al condannato, hanno un importante «valore simbolico», in quanto costituiscono un «monito importante» per quanti vorrebbero allo stesso modo delinquere. È ciò che noi chiamiamo «efficacia preventiva» della pena, un principio mai così negletto come di questi tempi.