Madelyn Dunham aveva 86 anni. Il candidato democratico aveva interrotto la campagna per volare da lei, che si era aggravata. Nei sondaggi il distacco su McCain aumenta
Obama, il lutto nel giorno dell’attesa
Ad Honolulu muore la nonna bianca
dal nostro inviato MARIO CALABRESI *
MANASSAS - Barack Obama ha chiuso la sua campagna elettorale questa notte con due ore di ritardo, la sua corsa finale ieri pomeriggio è stata bloccata dalla notizia che sperava di non ricevere: la nonna bianca, la donna che lo ha cresciuto alle Hawaii, è morta ieri di cancro ad Honolulu. Madelyn Dunham, che aveva 86 anni, non saprà mai se suo nipote oggi riuscirà ad entrare nella storia.
Lo ha annunciato lo stesso Obama che, parlando a Charlotte in North Carolina, si è commosso e ha pianto ricordandola: "Era una donna umile e diretta. Un eroe silenzioso come ce ne sono molti qui tra voi, che lavorano sodo, che pensano alla famiglia, che si sacrificano per figli e nipoti". Nella platea molti bambini ma anche molti anziani. Un gruppo di donne settantenni aveva dipinto il simbolo della campagna di Obama sulle guance. "E’ stata - ha proseguito il senatore - la pietra angolare della nostra famiglia, una donna di una straordinaria forza e umiltà. Era fiera dei suoi nipoti e pronipoti e ha lasciato questo mondo con la consapevolezza che la sua impronta su tutti noi è stata significativa e sarà durevole".
Dieci giorni fa il candidato democratico aveva interrotto la campagna elettorale per andare a trovarla, aveva chiaro che si avvicinava la fine e non voleva avere di nuovo quel rimorso che per anni lo ha tormentato per non aver salutato sua madre, morta anche lei per un tumore.
L’uomo che potrebbe diventare il primo presidente nero d’America ha investito tutto il suo ultimo giorno di campagna elettorale nel sud degli Stati Uniti, in tre zone simbolo dello schiavismo e della lotta per i diritti civili. Ma non lo ha fatto per provocazione o per testimonianza, ma perché è convinto di poter vincere anche qui di poter rivoluzionare la mappa della politica americana. E alle dieci e mezza di sera è arrivato a Manassas in Virginia, dove i sudisti comandati dal generale Robert Lee sconfissero per ben due volte nel 1861 i nordisti antischiavisti. Era il posto giusto dove chiudere il cerchio e riconciliarsi con la storia.
L’ultimo comizio, che segna la fine di un viaggio cominciato in mezzo alla neve a Springfield in Illinois il 10 febbraio del 2007 e durato 631 giorni, è stato l’occasione per l’appello finale: "Non credete per un secondo che questa elezione sia già vinta: il nostro futuro dipende dalle prossime 24 ore. Ho già detto tutto quello che dovevo dire, ho fatto quello che potevo, ora tutto dipende da voi. Mi è rimasta solo una parola per voi: domani". E davanti a 85mila persone che non hanno smesso di cantare "Yes we can" ha aggiunto: "Dopo anni di politiche sbagliate e fallimentari mancano solo poche ore al cambiamento, domani si volta pagina: siamo arrivati al momento cruciale della nostra storia. Nelle ultime 21 ore non possiamo sederci, non possiamo perdere un’ora, un minuto o un secondo: votate, portate ai seggi i parenti, gli amici, i vicini, dobbiamo cambiare l’America".
I sondaggi che arrivano alla fine della serata dicono che Obama è in testa in cinque degli otto Stati chiave, che a livello nazionale è in vantaggio su McCain di ben 11 punti e che qui nella Virginia repubblicana va verso la vittoria.
Questa notte Obama dormirà a casa sua a Chicago, nel suo letto, cosa che non accade da mesi. Voterà nel suo quartiere, farà un giro tra gli elettori dell’Indiana, e alle dieci di sera arriverà al Grant Park dove lo attenderanno centinaia di migliaia di persone. Poi arriverà il verdetto che gli dirà se l’America è pronta per il più grande cambiamento della sua storia. E allora, finalmente, potrà volare nel Pacifico per l’ultimo addio alla donna che lo ha cresciuto.
* la Repubblica, 4 novembre 2008
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
OBAMA SI ISPIRA A GIOACCHINO DA FIORE (Adnkronos)
"IO HO UN SOGNO". IL DISCORSO DEL 28 AGOSTO 1963 A WASHINGTON
DI MARTIN LUTHER KING *
Oggi sono felice di essere con voi in quella che nella storia sara’ ricordata come la piu’ grande manifestazione per la liberta’ nella storia del nostro paese. Un secolo fa, un grande americano, che oggi getta su di noi la sua ombra simbolica, firmo’ il Proclama dell’emancipazione. Si trattava di una legge epocale, che accese un grande faro di speranza per milioni di schiavi neri, marchiati dal fuoco di una bruciante ingiustizia. Il proclama giunse come un’aurora di gioia, che metteva fine alla lunga notte della loro cattivita’.
Ma oggi, e sono passati cento anni, i neri non sono ancora liberi. Sono passati cento anni, e la vita dei neri e’ ancora paralizzata dalle pastoie della segregazione e dalle catene della discriminazione. Sono passati cento anni, e i neri vivono in un’isola solitaria di poverta’, in mezzo a un immenso oceano di benessere materiale. Sono passati cento anni, e i neri ancora languiscono negli angoli della societa’ americana, si ritrovano esuli nella propria terra.
Quindi oggi siamo venuti qui per tratteggiare a tinte forti una situazione vergognosa. In un certo senso, siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della nostra repubblica hanno scritto le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione d’indipendenza, hanno firmato un "paghero’" di cui ciascun americano era destinato a ereditare la titolarita’. Il "paghero’" conteneva la promessa che a tutti gli uomini, si’, ai neri come ai bianchi, sarebbero stati garantiti questi diritti inalienabili: "vita, liberta’ e ricerca della felicita’".
Oggi appare evidente che per quanto riguarda i cittadini americani di colore, l’America ha mancato di onorare il suo impegno debitorio. Invece di adempiere a questo sacro dovere, l’America ha dato al popolo nero un assegno a vuoto, un assegno che e’ tornato indietro, con la scritta "copertura insufficiente". Ma noi ci rifiutiamo di credere che la banca della giustizia sia in fallimento. Ci rifiutiamo di credere che nei grandi caveau di opportunita’ di questo paese non vi siano fondi sufficienti. E quindi siamo venuti a incassarlo, questo assegno, l’assegno che offre, a chi le richiede, la ricchezza della liberta’ e la garanzia della giustizia.
Siamo venuti in questo luogo consacrato anche per ricordare all’America l’infuocata urgenza dell’oggi. Quest’ora non e’ fatta per abbandonarsi al lusso di prendersela calma o di assumere la droga tranquillante del gradualismo. Adesso ’ il momento di tradurre in realta’ le promesse della democrazia. Adesso e’ il momento di risollevarci dalla valle buia e desolata della segregazione fino al sentiero soleggiato della giustizia razziale. Adesso e’ il momento di sollevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale per collocarla sulla roccia compatta della fraternita’. Adesso e’ il momento di tradurre la giustizia in una realta’ per tutti i figli di Dio.
Se la nazione non cogliesse l’urgenza del presente, le conseguenze sarebbero funeste. L’afosa estate della legittima insoddisfazione dei negri non finira’ finche’ non saremo entrati nel frizzante autunno della liberta’ e dell’uguaglianza. Il 1963 non e’ una fine, e’ un principio. Se la nazione tornera’ all’ordinaria amministrazione come se niente fosse accaduto, chi sperava che i neri avessero solo bisogno di sfogarsi un po’ e poi se ne sarebbero rimasti tranquilli rischia di avere una brutta sorpresa.
In America non ci sara’ ne’ riposo ne’ pace finche’ i neri non vedranno garantiti i loro diritti di cittadinanza. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione finche’ non spuntera’ il giorno luminoso della giustizia.
Ma c’e’ qualcosa che devo dire al mio popolo, fermo su una soglia rischiosa, alle porte del palazzo della giustizia: durante il processo che ci portera’ a ottenere il posto che ci spetta di diritto, non dobbiamo commettere torti. Non cerchiamo di placare la sete di liberta’ bevendo alla coppa del rancore e dell’odio. Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano elevato di dignita’ e disciplina. Non dobbiamo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Sempre, e ancora e ancora, dobbiamo innalzarci fino alle vette maestose in cui la forza fisica s’incontra con la forza dell’anima.
Il nuovo e meraviglioso clima di combattivita’ di cui oggi e’ impregnata l’intera comunita’ nera non deve indurci a diffidare di tutti i bianchi, perche’ molti nostri fratelli bianchi, come attesta oggi la loro presenza qui, hanno capito che il loro destino e’ legato al nostro. Hanno capito che la loro liberta’ si lega con un nodo inestricabile alla nostra. Non possiamo camminare da soli. E mentre camminiamo, dobbiamo impegnarci con un giuramento: di proseguire sempre avanti. Non possiamo voltarci indietro.
C’e’ chi domanda ai seguaci dei diritti civili: "Quando sarete soddisfatti?". Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i neri continueranno a subire gli indescrivibili orrori della brutalita’ poliziesca. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ non riusciremo a trovare alloggio nei motel delle autostrade e negli alberghi delle citta’, per dare riposo al nostro corpo affaticato dal viaggio. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ tutta la facolta’ di movimento dei neri restera’ limitata alla possibilita’ di trasferirsi da un piccolo ghetto a uno piu’ grande. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i nostri figli continueranno a essere spogliati dell’identita’ e derubati della dignita’ dai cartelli su cui sta scritto "Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i neri del Mississippi non potranno votare e i neri di New York crederanno di non avere niente per cui votare. No, no, non siamo soddisfatti e non saremo mai soddisfatti, finche’ la giustizia non scorrera’ come l’acqua, e la rettitudine come un fiume in piena.
Io non dimentico che alcuni fra voi sono venuti qui dopo grandi prove e tribolazioni. Alcuni di voi hanno lasciato da poco anguste celle di prigione. Alcuni di voi sono venuti da zone dove ricercando la liberta’ sono stati colpiti dalle tempeste della persecuzione e travolti dai venti della brutalita’ poliziesca. Siete i reduci della sofferenza creativa. Continuate il vostro lavoro, nella fede che la sofferenza immeritata ha per frutto la redenzione.
Tornate nel Mississippi, tornate nell’Alabama, tornate nella Carolina del Sud, tornate in Georgia, tornate in Louisiana, tornate alle baraccopoli e ai ghetti delle nostre citta’ del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione puo’ cambiare e cambiera’.
Non indugiamo nella valle della disperazione. Oggi, amici miei, vi dico: anche se dobbiamo affrontare le difficolta’ di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno. E un sogno che ha radici profonde nel sogno americano.
Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgera’ e vivra’ il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verita’ evidenti di per se’, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternita’.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformera’ in un’oasi di liberta’ e di giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalita’.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno, laggiu’ nell’Alabama, dove i razzisti sono piu’ che mai accaniti, dove il governatore non parla d’altro che di potere di compromesso interlocutorio e di nullification delle leggi federali, un giorno, proprio la’ nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e sorelle.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sara’ innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sara’ rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme. Questa e’ la nostra speranza. Questa e’ la fede che portero’ con me tornando nel Sud. Con questa fede potremo cavare dalla montagna della disperazione una pietra di speranza.
Con questa fede potremo trasformare le stridenti discordanze della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fraternita’.
Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in prigione insieme, schierarci insieme per la liberta’, sapendo che un giorno saremo liberi.
Quel giorno verra’, quel giorno verra’ quando tutti i figli di Dio potranno cantare con un significato nuovo: "Patria mia, e’ di te, dolce terra di liberta’, e’ di te che io canto. Terra dove sono morti i miei padri, terra dell’orgoglio dei Pellegrini, da ogni vetta riecheggi liberta’". E se l’America vuol essere una grande nazione, bisogna che questo diventi vero.
E dunque, che la liberta’ riecheggi dalle straordinarie colline del New Hampshire.
Che la liberta’ riecheggi dalle possenti montagne di New York.
Che la liberta’ riecheggi dagli elevati Allegheny della Pennsylvania.
Che la liberta’ riecheggi dalle innevate Montagne Rocciose del Colorado.
Che la liberta’ riecheggi dai pendii sinuosi della California.
Ma non soltanto.
Che la liberta’ riecheggi dalla Stone Mountain della Georgia.
Che la liberta’ riecheggi dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Che la liberta’ riecheggi da ogni collina e da ogni formicaio del Mississippi, da ogni vetta, che riecheggi la liberta’.
E quando questo avverra’, quando faremo riecheggiare la liberta’, quando la lasceremo riecheggiare da ogni villaggio e da ogni paese, da ogni stato e da ogni citta’, saremo riusciti ad avvicinare quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, potranno prendersi per mano e cantare le parole dell’antico inno: "Liberi finalmente, liberi finalmente. Grazie a Dio onnipotente, siamo liberi finalmente".
* TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3331 del 17 marzo 2019
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XX)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: -centropacevt@gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Il discorso di addio di Barack Obama
Che cosa ha detto stanotte il presidente uscente degli Stati Uniti, nel suo ultimo commosso discorso da tale
di Francesco Costa*
A quasi dieci anni dal freddissimo 10 febbraio del 2007 in cui annunciò per la prima volta la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama martedì 10 gennaio - in Italia era la notte tra martedì 10 e mercoledì 11 - ha pronunciato il suo discorso di saluto da presidente degli Stati Uniti; il 20 gennaio, infatti, si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca il suo successore, Donald J. Trump, che ha vinto le elezioni dello scorso 8 novembre. Barack Obama ha parlato da Chicago, la sua città di origine, a pochi chilometri dal parco in cui festeggiò la sua vittoria dopo le elezioni del 2008.
Nel suo discorso, interrotto più volte dagli applausi e durante il quale si è commosso, Obama ha parlato dei risultati ottenuti nel corso dei suoi due mandati ma si è dedicato soprattutto a un tema, lo stato della democrazia americana, parlando del perché va preservata ed elencando quattro cose che la minacciano. Ha parlato circa un’ora dopo la diffusione del nuovo dossier su Trump e la Russia, ma non ha fatto riferimenti a questa storia nel suo discorso. Obama ha usato alcune frasi che aveva pronunciato altre volte in altri importanti discorsi della sua carriera; davanti a sé aveva, oltre alla sua famiglia e a quella del vicepresidente Joe Biden, tantissime persone che avevano lavorato alle sue due campagne elettorali e poi nella sua amministrazione alla Casa Bianca. Il discorso di Obama in tre minuti:
Queste sono le cose più significative che Obama ha detto nel corso del suo discorso.
L’inizio
Sia «life, liberty and the pursuit of happiness» che «a more perfect union» sono formule utilizzate nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. I Padri Fondatori sono i firmatari della Dichiarazione e le persone che scrissero la Costituzione americana.
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Se otto anni fa vi avessi detto
La frase sull’asticella in inglese era: «you might have said our sights were set a little too high». È una citazione del discorso che Obama fece nel 2008 dopo aver vinto le prime primarie della campagna elettorale, in Iowa.
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Non è ancora abbastanza
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Una forza potente e spesso divisiva
Lo spirito di questo passaggio del discorso di Obama è quello che descrisse in un altro famoso discorso della sua campagna elettorale del 2008, quello cosiddetto “sulla razza”, nel quale parlò della complessità di sentimenti di molti benintenzionati bianchi e neri d’America raccontando del pastore della sua chiesa, un afroamericano molto arrabbiato con i bianchi, e di sua nonna, una donna bianca che aveva paura quando la sera per strada passava accanto a un gruppo di afroamericani. Anche quel discorso, peraltro, era costruito a partire dai vari passaggi della Costituzione americana.
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Una base comune di fatti
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Tutto questo dipende dalla nostra partecipazione
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I ringraziamenti finali
Il rapporto tra Obama e Biden è considerato tra i più stretti e personali che si siano mai visti tra un presidente e un vicepresidente nella storia americana. Questo è il discorso che Obama pronunciò al funerale del figlio di Biden, Beau Biden, morto nel 2015 a 46 anni per un tumore al cervello: è quello in cui Obama dice di considerarsi ormai un Biden.
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La conclusione
“Si può fare” è naturalmente la traduzione di “Yes we can”, forse lo slogan più famoso tra quelli usati da Obama nel corso della sua carriera politica. Lo slogan fu usato per la prima volta dopo le primarie che nel 2008 Obama perse in New Hampshire contro Hillary Clinton.
Obama lascia la Casa Bianca a 55 anni, uno dei più giovani ex presidenti di sempre. Il suo tasso di popolarità e approvazione è molto alto. Per il momento resterà con la sua famiglia a Washington, per dare modo alla figlia minore Sasha di concludere gli studi al liceo. Poi dovrebbe tornare a Chicago, dove ha ancora casa e dove sarà inaugurata tra qualche anno la sua biblioteca presidenziale.
* IL POST, 11.01.2017 (ripresa parziale, senza immagini).
Domani il discorso di addio del presidente uscente in vista dell’insediamento del presidente eletto
L’addio di Obama
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 09 gennaio 2017)
I riti in democrazia sono importanti e hanno la capacità di cementare una comunità. Al di là dei conflitti che la lacerano, testimoniano la continuità nella diversità delle scelte politiche, certificano la saldezza delle istituzioni sulla volatilità dei comportamenti e degli umori popolari.
Se ne erano accorti anche i padri fondatori della nuova repubblica americana quando, all’interno di una lotta politica che vedeva all’opera tutta la gamma possibile della retorica populista, ritenevano il passaggio di potere da un presidente all’altro come il momento della sospensione del conflitto e della ricerca dell’unità del paese.
Certo alla fine del Settecento anche nei primi decenni dell’Ottocento, tutto era relativamente più semplice: in fondo i candidati appartenevano alla stessa élite economico-sociale, condividevano la stessa cultura politica di fondo pur facendo riferimento a un elettorato già composito dal punto di vista economico, religioso ed etnico. Non a caso, il primo vero e proprio terremoto politico si ebbe con l’elezione dell’«uomo del popolo», piuttosto rozzo e volgare (o quantomeno così dipinto all’epoca), per quanto eroe di guerra, Andrew Jackson, il quale aprì la Casa Bianca al popolino che si gettò sulle bevande e sul cibo, travolgendo tutto sotto lo sguardo attonito dei rappresentanti delle élite che osservavano la nuova calata dei barbari.
Gli ultimi atti della presidenza di Barack Obama per certi versi sembrano voler segnare la distanza siderale fra la sua amministrazione e i nuovi barbari che si apprestano a entrare alla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo. D’altronde, è una presidenza, quella Obama, che si conclude senza che siano emersi scandali o casi controversi che abbiano messo in discussione la caratura morale del presidente. La classe non è acqua, sembrano voler dire gli Obama a un popolo americano che ha eletto Trump a novembre, ma che allo stesso tempo continua a dare un giudizio estremamente positivo del presidente uscente e della sua first lady. Lo ha espresso Michelle Obama nel suo ultimo discorso, ribadendo che la forza dell’America, nonostante la rabbia di chi ancora non si rassegna all’evidenza, è la sua diversità di religioni, colori e valori. Una riaffermazione di tipo patriottico rivolta soprattutto a quei giovani che pure avevano tradito gli Obama e il partito democratico l’8 novembre, spronandoli a prendere in mano il loro destino, ma anche ad assumersi la responsabilità delle loro scelte e delle loro convinzioni.
Lo farà Barack Obama domani, 10 gennaio, nel suo ultimo discorso che, non casualmente, si terrà laddove tutto era cominciato, a Chicago. Sul sito della Casa Bianca, è pubblicata una foto, che ritrae la coppia, elegantemente vestita che guarda al di là del lago lo skyline della Windy City (come è definita Chicago). Un’immagine estremamente glamour che irriterà ancora di più quell’elettorato bianco infastidito da tutto ciò che è associato alle élite culturali più che a quelle economiche, come l’elezione di Trump ha ampiamente dimostrato.
Il Farewell Address è una tradizione, avviata con il famoso discorso di George Washington che invitava gli Stati Uniti a non lasciarsi coinvolgere negli affari europei, anche se non sempre è stata rispettata.
Obama ha scelto di seguire una tradizione che vede nel discorso d’addio un modo per il presidente uscente di riaffermare la propria eredità politica e invitare il successore a tener conto che non può fare tabula rasa del recente passato. Lo stile, ovviamente, diverge a seconda dei contesti e dei presidenti. Clinton celebrò i successi economici dei suoi due mandati, i 22 milioni di nuovi posti di lavoro, il tasso di disoccupazione più basso degli ultimi 30 anni, la diminuzione dei reati. Bush Jr., invece, non poteva che concentrare il suo discorso sull’impatto dell’11 settembre e sulle minacce di attacchi terroristici che rimanevano incombenti (ribadendo così la correttezza delle sue scelte), invitando l’America a rispondere alla sfida con «moral clarity».
Obama utilizzerà quest’ultimo spazio per ribadire i successi della sua amministrazione dal punto di vista politico interno e internazionale, rispondendo a coloro che hanno giudicato fallimentare la sua politica, difendendo a spada tratta la riforma sanitaria e invitando a tenere fede ai valori americani di rispetto delle differenze e del dialogo fra le tante Americhe che compongono il mosaico sociale e politico. E, tuttavia, il discorso di Obama è atteso per quello che può far intravedere rispetto alle strategie future del presidente uscente.
Di fronte a un Congresso pronto a smantellare programmi che neppure Reagan aveva mai messo in discussione come il Medicare, tanto che, come ha osservato Immanuel Wallerstein, persino Trump è preoccupato da un radicalismo che rischia di provocare una rivolta sociale, Obama è costretto a difendere la sua eredità politica. Se nella conferenza stampa di fine anno, aveva dichiarato di vedere il suo ruolo come quello di «counsel and advice» per il partito democratico, adesso il suo impegno è estremamente più ambizioso.
Di fronte a un’elezione che ha azzerato il partito democratico, il compito primo è quello di ricostruire la leadership del partito. Per fare questo però Obama si pone un obiettivo che, in realtà, dovrebbe essere caro a leader che ambiscono ad avere una visione politica che duri più di uno spazio di tweet e che siano meno affascinati dalle sirene della post-verità (qualunque cosa essa significhi): quello della costruzione e formazione di una classe politica, di una classe dirigente. Un investimento di lungo periodo che deve accompagnarsi a un lavoro politico sul territorio che porterà Obama a visitare proprio quelle contee che Hillary Clinton aveva trascurato, pagandone amaramente il prezzo.
Proprio l’individuazione di una nuova generazione di politici democratici sembra il compito principale della Fondazione Obama che ha sede a Chicago e che vorrà, quindi, essere qualcosa di più che non la sede della presidential library. Non a caso, a capo della fondazione è stato chiamato uno stretto collaboratore di Obama, fin dalla campagna elettorale del 2008, David Simas, che in precedenza aveva lavorato per l’ex governatore democratico del Massachusetts, uno di quegli Stati che, per alcuni, devono costituire la rampa di lancio per la controffensiva del Partito democratico dal punto di vista sia delle scelte politiche sia della costruzione del consenso. Nel consiglio di amministrazione della fondazione, poi, fa parte lo stratega elettorale del 2008, David Plouffe, oltre ad altri esponenti di primo piano del partito.
Obama, quindi, ricomincia da tre, per riprendere il titolo del film del mai troppo compianto Massimo Troisi: dalle vittorie nelle primarie nel 2008, nelle presidenziali del 2008 e del 2012. Non si accontenterà, sembra, di fare il citizen-diplomat onorario come Carter, ma vorrà essere un citizen-activist. Di certo il lavoro non gli mancherà.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Un testo di John Kennedy [del 1957], pubblicato per la prima volta in Italia, racconta la via crucis dei migranti
Parole di mezzo secolo fa che sembrano scritte oggi
JFK: «Io sono un immigrato»
Non c’è nulla di più straordinario della ridda di emozioni e sentimenti che inducono una famiglia a dire addio ai vecchi legami, a solcare le scure acque dell’oceano per approdare in una terra straniera
Strappati alla loro vecchia vita, sbarcavano nel nuovo Paese stremati Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze, dovevano proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro
di John Fitzgerald Kennedy (la Repubblica, 30.o8.2009)
l’11 maggio 1831 Tocqueville, giovane aristocratico francese, sbarcò nel caotico porto di New York. Aveva attraversato l’oceano per cercare di capire le implicazioni che il nuovo esperimento democratico in corso sulla sponda opposta dell’Atlantico avrebbe avuto per la civiltà europea. Per i successivi nove mesi, Tocqueville e il suo amico Gustave de Beaumont percorsero in lungo e in largo la parte orientale del continente, da Boston a Green Bay, da New Orleans fino al Québec, alla ricerca dell’essenza della società americana. Tocqueville rimase affascinato da ciò che vide. Fu sbalordito dall’energia delle persone che stavano costruendo una nuova nazione, apprezzando le nuove istituzioni e gli ideali politici. Ma, sopra ogni cosa, rimase impressionato dallo spirito di uguaglianza che permeava la vita e le usanze di quella gente. Pur nutrendo qualche riserva verso alcune manifestazioni di quello spirito, riuscì a scorgerne i meccanismi in ogni aspetto della società americana: nella politica, negli affari, nei rapporti personali, nella cultura, nel pensiero. Tale dedizione al principio di uguaglianza strideva con la società classista europea. Eppure Tocqueville considerava quella «rivoluzione democratica» irresistibile. [...]
Ciò che Tocqueville vide in America fu una società di immigrati che avevano cominciato una nuova vita su un piano di uguaglianza. Era questo il segreto dell’America: una nazione fatta di uomini che avevano ancora vivo il ricordo delle antiche tradizioni e si erano avventurati a esplorare nuove frontiere, uomini desiderosi di costruire da sé la propria esistenza in una società in cui c’era posto per tutti e che non limitava la libertà di scelta e di azione.[...]
In poco più di 350 anni, si è sviluppata una nazione di quasi 200 milioni di abitanti, popolata per la quasi totalità da individui provenienti da altre nazioni o i cui antenati erano emigrati da altri paesi. Come ha dichiarato il presidente Franklin Delano Roosevelt al congresso delle Daughters of the American Revolution: «Ricordate sempre che tutti noi, io e voi in special mondo, discendiamo da immigrati e rivoluzionari».
Tutti i grandi movimenti sociali lasciano un’impronta, e la massiccia migrazione di persone nel Nuovo mondo non ha fatto eccezione. L’interazione tra culture differenti, la forza degli ideali che spinsero gli immigrati a venire fin qui, le opportunità che una nuova vita schiudeva, tutto ciò ha conferito all’America un’essenza e un carattere che la rendono inconfondibile e straordinaria agli occhi della gente oggi, come era stato nella prima metà del Diciannovesimo secolo per Tocqueville.
Il contributo degli immigrati è visibile in ogni aspetto della vita della nostra nazione: nella religione, nella politica, negli affari, nelle arti, nell’istruzione, perfino nello sport e nello spettacolo. Non vi è settore che non sia stato investito dal nostro passato di immigrati. Ovunque gli immigrati hanno arricchito e rafforzato il tessuto della vita americana. Come ha detto Walt Whitman:
Questi Stati sono il poema più ampio, /
Qui non v’è solo una nazione ma /
una brulicante Nazione di nazioni.
Per conoscere l’America, dunque, è necessario comprendere questa rivoluzione sociale squisitamente americana. È necessario capire perché più di 42 milioni di persone hanno rinunciato a una vita consolidata per ricominciare da zero in un paese straniero. Dobbiamo capire in che modo essi andarono incontro a questo paese e in che modo questo paese andò incontro a loro e, cosa ancor più importante, dobbiamo capire cosa implica tutto ciò per il nostro presente e per il nostro futuro. [...]
Non vi è nulla di più straordinario della decisione di emigrare, nulla di più straordinario della ridda di emozioni e pensieri che inducono infine una famiglia a dire addio ai vecchi legami e ai luoghi familiari, a solcare le scure acque dell’oceano per approdare in una terra straniera. Oggi, in un’epoca in cui grazie ai mezzi di comunicazione di massa a un capo del mondo si sa tutto ciò che accade nell’altro, non è difficile capire come la povertà o la tirannia possa spingere una persona a lasciare il proprio paese per un altro. Ma secoli fa l’emigrazione era un salto nel buio, era un investimento intellettuale ed emotivo enorme. Le forze che indussero i nostri antenati a quella decisione estrema - lasciare la propria casa e intraprendere un’avventura gravida di incognite, rischi e immense difficoltà - dovevano essere soverchianti.
Nel suo libro intitolato Gli sradicati, Oscar Handlin descrive l’esperienza degli immigranti:
Il viaggio sottoponeva l’emigrante a una serie di emozioni sconvolgenti ed ebbe un’influenza decisiva sulla vita di tutti coloro che riuscirono a sopravvivere. Fu questo il primo contatto con lo stile di vita che li attendeva. Per molti contadini era la prima volta che si allontanavano da casa, che uscivano dalla sicurezza di piccoli villaggi in cui avevano passato tutta la vita. Ora avrebbero dovuto imparare a trattare con persone completamente diverse. Si sarebbero scontrati con problemi a cui non erano avvezzi, avrebbero imparato a comprendere costumi e linguaggi stranieri, si sarebbero industriati per affermarsi in un ambiente oltremodo ostile.
Come prima cosa, dovevano mettere da parte il denaro necessario per il viaggio. Dopodiché salutavano i loro cari e gli amici, consapevoli che con ogni probabilità non li avrebbero mai più rivisti. Quindi cominciava il viaggio che dai villaggi li avrebbe condotti ai porti di imbarco. Alcuni si spostavano a piedi; i più fortunati trasportavano i loro pochi averi su carretti che poi rivendevano prima di imbarcarsi. In certi casi facevano tappa durante il viaggio lavorando nei campi per mangiare. Prima ancora di riuscire a raggiungere i porti erano esposti alle malattie, agli incidenti, alle intemperie e alla neve, e attaccati anche dai banditi.
Una volta giunti al porto, spesso dovevano attendere giorni, settimane, talvolta mesi prima di imbarcarsi, contrattando con i capitani e gli agenti il costo della traversata. Nell’attesa, vivevano ammassati in stamberghe a poco prezzo a ridosso dei moli, dormendo sulla paglia in stanzette buie, a volte in quaranta in uno spazio di tre metri per quattro.
Fino alla metà del Diciannovesimo secolo gli immigranti viaggiavano a bordo di navi a vela. In media la traversata da Liverpool a New York durava quaranta giorni, ma all’epoca qualsiasi previsione era azzardata, poiché la nave era esposta ai venti e alle maree, le tecniche di navigazione primitive, l’equipaggio inesperto e la rotta soggetta ai capricci del capitano. Per le imbarcazioni di allora, non così massicce, trecento tonnellate costituivano una buona stazza, e tutte erano stipate di passeggeri, dai quattrocento ai mille, in ogni angolo.
Il mondo degli immigranti a bordo della nave si riduceva alla stiva, lo spazio ristretto sottostante il ponte, generalmente lungo trenta metri e largo sette. Su molte navi le persone alte più di un metro e settanta non potevano neanche stare in piedi. Lì vivevano giorno e notte, ricevevano la razione quotidiana di acqua con l’aggiunta di aceto e tentavano di sopravvivere con le provviste che si erano portate per il viaggio. Quando i viveri finivano, si ritrovavano spesso alla mercé dei metodi usurai dei capitani.
Se ne stavano assiepati in cuccette anguste e dure, dove quando venivano aperti i boccaporti si gelava e si soffocava dal caldo quando erano chiusi. L’unica fonte di luce proveniva da una fioca lanterna pencolante. Il giorno e la notte erano indistinguibili, ma i passeggeri imparavano a riconoscere gli infidi venti e i flutti, lo zampettio dei topi e il tonfo dei cadaveri gettati in mare. Le malattie - colera, febbre gialla, vaiolo e dissenteria - facevano strage: uno su dieci non riusciva a sopravvivere alla traversata.
Alla fine il viaggio terminava. I passeggeri guardavano la costa americana con un senso di sollievo misto a eccitazione, trepidazione e ansia. Strappati alla loro vecchia vita, si ritrovavano ora «in un continuo stato di crisi, nel senso che erano, e rimanevano, nomadi», come scrive Handlin. Sbarcavano nel nuovo paese stremati dalla mancanza di riposo, dalla cattiva alimentazione, dalla reclusione, gravati dalla fatica di adeguarsi alle nuove condizioni di vita. Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze. Non avevano scorte di cibo né denaro, quindi erano costretti a proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro. [...]
Probabilmente le motivazioni per venire in America erano tante quante le persone che arrivarono qui: si trattava di una decisione del tutto personale. Tuttavia si può dire che tre grandi spinte - persecuzione religiosa, oppressione politica e difficoltà economiche - costituirono le ragioni principali delle migrazioni di massa nel nostro paese. Questi uomini rispondevano, a modo loro, alla promessa sancita dalla Dichiarazione di indipendenza di garantire il diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». [...]
Nei paesi che avevano lasciato, gli immigrati in genere avevano un lavoro stabile. Portavano avanti l’attività artigianale o commerciale dei loro padri, coltivavano la terra di famiglia o il piccolo appezzamento ereditato in seguito alla spartizione con i fratelli. Solo grazie a un talento e a un’intraprendenza eccezionali gli immigrati potevano rompere lo stampo nel quale la loro vita era stata forgiata. Non c’era uno stampo simile ad attenderli nel Nuovo mondo. Una volta rotto con il passato, a parte i legami affettivi e l’eredità culturale, dovevano fare affidamento esclusivamente sulle proprie capacità. Erano obbligati a volgere lo sguardo al futuro, non al passato. A eccezione degli schiavi neri, gli immigrati potevano andare dovunque e fare qualsiasi cosa il talento consentisse loro. Si apriva dinanzi a loro un continente sconfinato, non dovevano far altro che collegarne le parti con canali, ferrovie e strade. E se non fossero riusciti a realizzare il sogno per se stessi, potevano sempre serbarlo per i loro figli. È stata questa l’origine dell’inventiva e dell’ingegno americani, delle tante e nuove imprese e della capacità di raggiungere il tenore di vita più elevato del mondo.[...]
Sul finire del Diciannovesimo secolo l’emigrazione verso l’America subì un cambiamento notevole. Cominciarono infatti ad arrivare, in gran numero, italiani, russi, polacchi, cechi, ungheresi, rumeni, bulgari, austriaci e greci, creando nuovi problemi e dando origine a nuove tensioni.
Per loro la barriera linguistica era ancor più insormontabile di quanto non fosse stato per i gruppi che li avevano preceduti, cosicché lo scarto tra il mondo che si erano lasciati alle spalle e quello in cui erano approdati si approfondì. Si trattava per la gran parte di gente di campagna, costretta però all’arrivo in America a stabilirsi nella maggioranza dei casi nelle città. Già nel 1910 in molte città esistevano delle "Little Italy" o "Little Poland" dai confini ben definiti. Stando al censimento del 1960, abitavano più persone di origini o di genitori italiani a New York che non a Roma.
La storia delle città dimostra che quando vi è sovraffollamento, quando la gente è povera e le condizioni di vita sono pessime, le tensioni si inaspriscono. È un sistema che si autoalimenta: la povertà e la delinquenza all’interno di un gruppo generano paura e ostilità negli altri; ciò, a sua volta, impedisce che il primo gruppo venga accettato e ne ostacola il progresso, protraendone così la condizione di arretratezza. Fu in questa penosa situazione che si ritrovarono molti immigrati provenienti dall’Europa meridionale e orientale, così com’era accaduto ad alcuni gruppi delle prime ondate migratorie. Un giornale di New York riservò ai nuovi arrivati italiani parole impietose: «Le cateratte sono aperte. Le sbarre abbassate. Le porte sono incustodite. La diga è stata spazzata via. La fogna è sturata [...]. La feccia dell’immigrazione si sta riversando sulle nostre coste. Dai serbatoi di melma del Continente la marmaglia di terza classe viene travasata nel nostro paese». [...]
Le leggi sull’immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero essere eque, dovrebbero essere flessibili. Con leggi siffatte potremo guardare al mondo, e al nostro passato, con le mani pulite e la coscienza tranquilla. Una tale politica non sarebbe che una conferma dei nostri antichi principi. Esprimerebbe la nostra adesione alle parole di George Washington: «Il grembo dell’America è pronto ad accogliere non solo lo straniero ricco e rispettabile, ma anche gli oppressi e i perseguitati di ogni nazione e religione; a costoro dovremmo garantire la partecipazione ai nostri diritti e privilegi, se con la loro moralità e condotta decorosa si mostrano degni di goderne».
Traduzione di Marianna Matullo
© Donzelli Editore 2009
INTERDIPENDENCE *
Se gli altri esseri sono separati da me, sarà legittima la mia indifferenza per la loro sorte; ma se essi sono inseparabili da me come io da loro, se la mia stessa identità è formata dal tessuto delle relazioni in cui sono coinvolto, allora ogni autentica cura verso me stesso coincide con l’agire responsabile nel contesto che mi comprende.
Da alcuni anni negli Stati Uniti il terzo lunedì del mese di gennaio, in prossimità dell’anniversario della nascita di Martin Luther King, si celebra il Martin Luther King Day. Quest’anno, a Torino, per la prima volta sarà celebrato in Italia e la ricorrenza ha un significato eccezionale, essendo il 19 gennaio la vigilia dell’insediamento di Obama alla presidenza degli Stati Uniti.
Il sogno del pastore King prende forma nel modo più straordinario, e gli uomini e le donne di ogni continente hanno in quel sogno il fondamento di un futuro comune.
Le immagini di morte che ossessivamente in questi giorni si sono riversate da Gaza sono invece un incubo da cui vogliamo uscire. Occorre saper voltare pagina, cercare vie nuove, uscire dalla spirale dell’odio e della paura. Possa un più lungimirante senso di responsabilità e di giustizia guidare coloro che reggono le sorti del mondo.
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Il presidente eletto annuncia: pronuncerò la tradizionale frase sulla Bibbia di Lincoln
Obama, no agli atei: «Giurerò invocando Dio»
Intentata un’azione legale ma Barack, religioso, assicura che non rinuncerà all’invocazione: «Che Dio mi aiuti»
di Ennio Caretto (Corriere della Sera, 14.01.2009)
WASHINGTON - Il nome di Dio viene invocato molto spesso dallo stato americano. «In God we trust», Confidiamo in Dio, è il motto stampato sulle sue banconote. «One nation under God», Una nazione sotto Dio, figura nel Giuramento alla bandiera dal ’54, l’era dell’anticomunismo. «God bless America », Dio benedica l’America, è la chiosa finale dei discorsi presidenziali. E alla sua inaugurazione, il nuovo presidente chiede «So help me God», Che Dio mi aiuti. Una tradizione, sostengono molti storici, iniziata da George Washington nel 1789 (è tuttavia dubbio) e osservata solo da alcuni suoi successori, ma divenuta prassi dal ’33, con Franklin Roosevelt, il quale forse segretamente dubitava di riuscire a salvare il Paese dalla Grande depressione senza l’appoggio divino.
Le continue invocazioni a Dio hanno così disturbato gli atei americani - secondo cui sono incostituzionali - che un loro esponente di punta, il medico californiano Michael Newdow, ha citato a giudizio (a nome di 10 associazioni e 17 persone) i comitati organizzatori dell’inaugurazione di Obama, i due predicatori Joseph Lowery e Rick Warren, che terranno le preghiere, nonché il presidente della Corte suprema John Roberts, chiedendo che alla cerimonia non si pronunci la parola «Dio» e Obama non concluda il solenne giuramento - «Svolgerò fedelmente l’incarico di presidente, e farò del mio meglio per preservare proteggere e difendere la Costituzione » - col fatidico «So help me God». È difficile che il tribunale federale sentenzi in tempo - la citazione è del 31 dicembre scorso - anzi è probabile che finisca per respingerla.
Ma Obama, che è religioso e giurerà sulla Bibbia di Lincoln, il presidente dell’abolizione della schiavitù, l’ha anticipato affermando che dirà «Dio mi aiuti». È un’invocazione che non intacca il principio della separazione Stato-Chiesa, hanno notato i portavoce, e che non viola la Costituzione, il cui primo articolo vieta al Congresso di stabilire una religione in America. Un atto di fede appropriato in un momento molto delicato per il Paese.
Newdow ha incassato. Ha spiegato di non avere citato Obama personalmente «perché come cittadino ha il diritto di osservare la sua religione », ma di sperare ancora che dica «So help me God» in privato. E ha aggiunto che se bocciato dal tribunale ricorrerà in appello, per ottenere che dopo le elezioni del 2012 Obama o il suo successore rinuncino al «Dio mi aiuti».
Una missione impossibile? Newdow fallì già nel 2001 e nel 2005 all’insediamento di Bush alla Casa Bianca, epoca in cui i neocon si battevano perché l’America si definisse una repubblica cristiana. I credenti americani lo attaccarono. «Vuole che lo stato smentisca l’esistenza di Dio», ribatté Scott Walter della Fondazione della libertà di religione. «Ma i nostri valori si basano su di essa».
Intervista a Thomas Nagel.
Il sogno filosofico di Obama
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 21.11.2008)
Che effetto fa essere un pipistrello? Ma soprattutto, che diavolo c’entra questa domanda bizzarra con la filosofia, con Barack Obama e con le idee morali e politiche del mondo contemporaneo? C’entra, magari alla lontana, ma c’entra. Perché a porsela quella domanda, in un saggio accademico nel lontano 1974, fu un professore nato a Belgrado nel 1936, e via via divenuto uno dei massimi filosofi morali e politici contemporanei, docente prima a Princeton e poi alla New York University: Thomas Nagel. Erede negli Usa del grande John Rawls, pensatore scomparso e teorico della «società giusta», la società dove la libertà doveva essere davvero di tutti, e dove l’ineguaglianza si giustificava solo se aiutava i meno fortunati a progredire.
Qual è stata l’innovazione di Nagel rispetto al maestro? Eccola: occorre in etica tenere conto degli «stati limite soggettivi» («essere un pipistrello»), per potersi accordare con gli altri sul piano dell’etica civile. E da questa dialettica, tra differenza soggettiva e regole comuni sempre in fieri, scaturisce poi la giustizia - sociale, culturale e giuridica - che non è mai scritta una volta per tutte. Insomma, se per un verso l’andare oltre la propria condizione specifica, e la propria visione del mondo, è un presupposto necessario per la nascita del discorso morale, al contempo l’ossessione per l’«oggettività assoluta» rischia di negare le differenze individuali e la soggettività dei singoli. Paralizzando l’etica dentro dilemmi insolubili, che finiscono con renderla inutile per l’esistenza umana.
Per questo Nagel si è sempre battuto su due fronti: contro il moralismo conservatore e contro lo scetticismo decostruzionista, entrambi in gran voga negli Usa. E lo ha fatto in opere come La possibilità dell’altruismo, Questioni mortali, Soggettivo e Oggettivo, e anche in lavori più politici come Giustizia globale, uscito nel 2005 sulla rivista Philosohy and pubblic affairs.
Come avrete capito siamo in ambito «liberal» americano, sulla barricata opposta a quella dei neconservatori, duramente sconfitti dal primo presidente afro e americano alla Casa Bianca. E del resto Nagel si è molto impegnato per Obama e confida molto in una rivoluzione morale legata alle sue idee politiche. Per questo siamo andati a incontrarlo all’Hotel Plaza di Roma, alla vigilia della cerimonia per l’importante Premio Balzan per la filosofia morale, che gli verrà conferito questo pomeriggio da Napolitano all’Accademia dei Lincei. Sentiamo.
Professor Nagel, Margareth Thatcher diceva: non esiste la società ma solo individui. Dopo Barack Obama siamo entrati in un’era in cui questa idea è diventata un po’ più assurda?
«Mi è sempre parsa assurda questa idea. La Thatcher forse voleva dire che ogni azione politica o morale si giustifica solo in base all’interesse degli individui. Sbagliato, perché l’interesse pubblico riguarda la vita quotidiana di ciascuno e non se ne può proprio fare a meno. Come dimostra la crisi finanziaria Usa, nata dal privilegiamento esclusivo dell’interesse privato che ha generato il crack. Ora c’è uno spostamento culturale inevitabile. Dal libertarismo egoistico ad una società responsabile, dove il mercato resta cruciale per la crescita ma va regolato in base al bene comune».
Un ritorno in grande al New Deal di Franklin Delano Roosevelt?
«Credo di sì, a partire dalle politiche pubbliche per incoraggiare la crescita e i salari. E dalla sanità pubblica. Che verrà regolata non all’europea, sfortunatamente. Ma coinvolgendo lavoratori e imprese, specie queste ultime. E anche a partire dall’ambiente, altra occasione pubblica di rilancio economico, almeno nelle intenzioni di Obama».
Possiamo parlare di rivoluzione morale con Obama?
«La sua grande promessa va in tal senso. Non so però se un presidente da solo può creare una mutazione del genere. Al più può favorire un clima, e incoraggiare la persuasione che sia giusto e conveniente fare sacrifici, cambiare abitudini e stili di vita. Obama è venuto al momento giusto, come Lincoln e Roosevelt. Lui vuole un nuovo corso, anche ideale, dopo l’isolamento internazionale degli Usa e la catastrofe finanziaria».
Che tipo di religiosità è quella di Obama? Passeremo dal fondamentalismo neocon ad una sorta di profetismo democratico?
«Intanto Obama, come dimostra la sua biografia, è diventato un vero americano, nero e africano. Che ha instaurato un legame tra le due appartenenze e proprio attraverso la Chiesa. Non proprio un cosmopolita quindi, ma un americano che si richiama alle promesse originarie dell’America: integrazione, diritti, libertà. Più Luther King che Malcolm X, per intendersi. Ciò renderà la religione negli Usa meno divisiva e conflittuale. E anche più laica e secolare soprattutto nell’agenda bioetica, e diametralmente all’opposto di Bush Jr».
Il neocon Robert Kagan sostiene: gli Usa sono il paese più democratico e integrato. Dunque la Pax americana è in ogni caso la più giusta. Dov’è l’errore?
«È un punto di vista ideologico, che nasce dalla paura. Dalla mancanza di fiducia nel resto del mondo. E dalla diffidenza verso tanti paesi che erano i nostri alleati naturali. Una sindrome hobbesiana, fondata sulla caccia al nemico anche interno che ci minaccia e può inquinare la nostra convivenza. Non che certe paure siano del tutto infondate, ma possiamo fronteggiare le insidie ripristinando le nostre alleanze di sempre. Ripristinando insieme agli altri, e con l’Europa in primo luogo, un legame di fiducia. L’immagine di Obama perciò verrà associata sempre di più al multilateralismo».
Parliamo di filosofia, e di Utopia magari. A suo avviso la speranza kantiana della «Pace perpetua» potrà riacquistare una sua attualità, come criterio guida delle relazioni internazionali e contro l’idea hobbesiana della forza e della paura?
«Quella indicata da Immanuel Kant nel 1794 è un’idea molto importante e di lungo periodo. Idea regolativa e profetica, fondata su una straordinaria premonizione in Kant del futuro mondo globale. Significa che l’ordine mondiale appartiene a tutti e che l’affermarsi su scala planetaria di vere democrazie comporta la risoluzione consensuale dei conflitti e senza guerra. In base a un diritto condiviso. Una previsione in fondo corretta, oltre che auspicabile».
Tornerà di moda negli Usa la visione della «società giusta» e dell’ordine cosmopolitico giusto, legata a Kant e a John Rawls oltre che alla stagione dei diritti civili?
«Sono tematiche di sinistra che non hanno mai smesso di esercitare un certo influsso nella società americana. E che entro certi limiti influenzano anche le élite politiche progressiste negli Usa. Un influsso destinato senz’altro a crescere».
Le sottopongo tre parole chiave: «liberal», «left» (sinistra), «socialist». Con Obama diventerà più facile pronunciarle da voi?
«Liberal, cioè progressista non radicale, verrà certamente riabilitata. Socialist, non credo. Perché gli americani hanno sempre avuto in sospetto lo statalismo. Quanto a left o leftist, riguardano una minoranza negli Usa. La sinistra in senso europeo da noi è solo una frazione dello spettro politico: è la sinistra del Partito democratico. Semmai il problema è ancora la destra americana, essa sì robusta e identitariamente forte! Ecco, nelle nuove e più favorevoli condizioni, alla sinistra spetta il compito di neutralizzare la destra. Ma a condizione di allearsi stabilmente con il centro. Con i liberal e la middle class».
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Obama e la lotta per i diritti
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21.11.2008)
Dalla cellule staminali alla chiusura di Guantanamo Barack ha già segnato una discontinuità Il neopresidente ha offerto una prospettiva diversa: la democrazia torna ad essere protagonista
L’annuncio di una serie di immediati provvedimenti di Barack Obama, per segnare già nelle prime dichiarazioni un radicale distacco dalla cultura dell’era Bush, induce (obbliga?) ad una discussione sul senso e le prospettive che assumono oggi le politiche dei diritti. So bene che, affrettandosi ad etichettare le mosse del nuovo Presidente degli Stati Uniti, si corre il rischio di cadere in quel chiacchiericcio provinciale che ha già prodotto le impagabili interpretazioni di chi ha indicato in Berlusconi e Bossi i precursori dell’innovazione prodotta dalle elezioni americane. Ma i segnali provenienti dagli Stati Uniti rimbalzano in tutto il mondo sì che, con la giusta misura, bisogna sempre prenderli sul serio.
Cellule staminali, aborto, Guantanamo sono parole familiari, che ci hanno abituato a vedere in esse addirittura il discrimine tra due mondi. Vengono pronunciate oggi per rendere subito evidente dove si vuole produrre una discontinuità. Chiudere il carcere di Guantanamo significa allontanarsi da una logica che, con l’argomento della difesa della democrazia, ha finito con il travolgere proprio i principi democratici, appannando l’immagine di un paese che ha sempre voluto identificarsi con le ragioni della libertà. Se questo annuncio significativo diverrà concreto, possiamo aspettarci anche un abbandono delle aggressive politiche di sicurezza che si sono volute imporre agli altri Stati, facendo divenire planetarie le leggi americane? Su questo punto l’Unione europea avrà qualcosa da dire se si libererà da una soggezione che l’ha indotta non solo ad accogliere eccessive pretese americane, ma anche a mimarne in maniera ingiustificata i modelli, incurante pure degli appelli ad una coerente difesa dei principi di libertà che arrivavano proprio da organizzazioni americane importanti come l’American Civil Rights Union.
Nettissima sarebbe la discontinuità legata all’abbandono delle politiche "ideologicamente offensive" di Bush che hanno vietato il finanziamento federale delle ricerche sulle cellule staminali embrionali e delle organizzazioni internazionali che aiutano le donne ad abortire legalmente. Qui, infatti, hanno pesato in modo determinante i confessionalismi religiosi e, una volta che Obama avesse ripristinato i finanziamenti pubblici, la distanza con la politica ufficiale del Vaticano diverrebbe clamorosa (e assumerebbe ben diverso significato la stessa versione della religiosità di Obama, sulla quale si sono esercitati con grande disinvoltura diversi commentatori). Su questi temi, peraltro, il sostegno dell’opinione pubblica è ben visibile, testimoniato dalla sconfitta in tre Stati dei referendum contro l’aborto e dal successo in un altro di un referendum sul suicidio assistito. E’ lecito sperare che anche in Italia sia possibile tornare con pacatezza sul tema della ricerca sulle staminali, liberandosi anche qui delle pesantezze ideologiche e mettendo magari a frutto contributi come quello recentissimo di Armando Massarenti (Staminalia, Guanda, Parma 2008)?
Le discontinuità non si esauriscono con i casi appena ricordati, ma riguardano altre importanti materie, dalla tutela dell’ambiente alla sanità, dall’istruzione ai diritti dei minori (vi fu un veto di Bush su una legge che li riguardava). Ed è importante sottolineare che la rottura con il passato può essere rapida e immediata perché la maggior parte dei provvedimenti da cambiare ha la sua fonte in "executive orders" di Bush, atti presidenziali che non hanno bisogno dell’approvazione del Congresso. Usando la stessa tecnica, Obama potrebbe effettuare in pochissimo tempo una spettacolare ripulitura del sistema giuridico americano.
Ma, al di là delle pur importantissime questioni specifiche, è significativo il modo in cui viene concepita l’intera strategia d’avvio della nuova presidenza. L’economia presenta il suo conto, pesantissimo. E tuttavia questa indubbia priorità non ha indotto nella classica tentazione della politica dei due tempi: prima i provvedimenti economici e poi i diritti civili. "Erst kommt das Fresse, dann kommt die Moral", prima la pancia e poi la morale, si canta alla fine del primo atto dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Una politica che vuol essere moderna non si risolve tutta nell’uso delle nuove tecnologie, pur così importanti nel successo di Obama. Ha il suo baricentro nella capacità di tenere insieme economia e diritti, individuo e società. I diritti non sono un lusso o un’appendice, di cui ci si può occupare solo a pancia piena, una volta soddisfatti i bisogni economici e di sicurezza, anche perché è proprio la logica dei diritti e delle libertà a definire, in un sistema democratico, le caratteristiche delle politiche economiche e d’ordine pubblico. Ai molti americani, giovani e non, disimpegnati e lontani dalla politica Obama non ha offerto solo il fascino di You Tube, ma una prospettiva diversa, dove appunto la democrazia e i diritti tornano ad essere protagonisti e hanno bisogno di persone che diano loro voce. Una prospettiva non lontana da quella aperta in Europa soprattutto da Zapatero; che attraverso la vicenda americana si conferma, si consolida, ci dice che le politiche dei diritti hanno bisogno di radicalità; e che dovrebbe indurre qualcuno, anche dalle nostre parti, ad abbandonare schematismi e pigrizie.
Non sarà una passeggiata, quella del nuovo Presidente degli Stati Uniti, anche se la sua elezione offre una importantissima garanzia: la Corte Suprema, strumento essenziale per le politiche dei diritti, non subirà un ulteriore "impacchettamento" conservatore. Ma soprattutto il risultato del referendum californiano contro i matrimoni gay apre un delicatissimo fronte politico e giuridico. Quale sarà la linea di Obama, che pure ha esplicitamente ricordato gli omosessuali nel suo discorso di ringraziamento? Come hanno sottolineato i giuristi più attenti, quel referendum incide in forme improprie sul principio di eguaglianza e mette in discussione i diritti già acquisiti dalle diciottomila coppie che hanno utilizzato il nuovo istituto. Tempi impegnativi si sono aperti, e in essi la lotta per i diritti giocherà un ruolo essenziale.
Un cristiano americano
di Raniero La Valle
Articolo della rubrica "Resistenza e pace" in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi, Rocca (rocca@cittadella.org) *
Sì, è vero, in America tutto può accadere, compreso il fatto che un nero divenga presidente degli Stati Uniti. Però ci sono voluti 220 anni; all’inizio i neri erano incatenati come schiavi, e i padroni li tenevano in vincoli invocando gli stessi principi per i quali oggi possono diventare presidenti degli Stati Uniti. In quel bellissimo romanzo che è "La capanna dello zio Tom", a chi contestava il modo in cui un padrone del Sud trascinava in catene i suoi schiavi, quello rispondeva: "Questo è un Paese libero; quest’uomo è mio ed io ci posso fare quello che mi pare". Commentava Alessandro Portelli, in un recente seminario, che ciò voleva dire intendere la libertà come proprietà. E mentre la Dichiarazione di indipendenza americana proclamava che con tutta evidenza "gli uomini sono creati uguali, e che essi sono dotati dal loro creatore di certi diritti inalienabili, e tra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità", i due Padri fondatori Washington e Jefferson erano i più grandi proprietari di schiavi d’America. E ancora pochi decenni fa, quando Martin Luther King alla marcia per i diritti civili gridava "I have a dream" (io ho un sogno), come oggi Obama dice "change I need" (abbiamo bisogno di cambiare), il sogno non poteva essere più umile, era semplicemente che i neri potessero salire sugli stessi autobus dei bianchi e che i bambini neri potessero andare a scuola con i bambini bianchi, senza essere né segregati né "spalmati", come ora si vorrebbe fare con i bambini stranieri in Italia.
Che cosa c’è di mezzo tra quella condizione di schiavitù, di discriminazione, e la condizione di oggi? Non possiamo dire che c’è la Costituzione, perché la Costituzione c’era ieri come c’è oggi. Ma il fatto è che quando la Dichiarazione di indipendenza diceva che "tutti gli uomini sono creati uguali", ciò veniva interpretato nel senso che non tutti sono creati uomini, ma solo i liberi ed eguali lo erano, restandone esclusi i neri, gli indigeni, gli schiavi; ed è su questa linea che ancora oggi per l’amministrazione Bush esistono due categorie di uomini, gli americani e i non-americani, a cui si applicano due pesi e due misure ed anche due diritti penali diversi, senza di che lo scandalo di Guantanamo e il rifiuto di applicare le convenzioni di Ginevra ai nemici in quanto "combattenti illegittimi", non sarebbero possibili.
Perciò non bastano le Costituzioni, ma tra le Costituzioni che proclamano i diritti e il momento in cui essi diventano effettivi, c’è di mezzo la lotta per l’attuazione della Costituzione; c’è di mezzo la politica.
Ma la elezione di Obama non è solo un momento dell’attuazione in America di una democrazia costituzionale per tanti aspetti non ancora compiuta; è anche una grande sfida e una grande opportunità per la ripresa di una prospettiva di democrazia costituzionale sul piano mondiale. Questa prospettiva, che era stata aperta dall’istituzione dell’ONU nel 1945, era stata congelata dalla guerra fredda, era sembrata riaprirsi con la rimozione del Muro e la fine del conflitto tra i blocchi nell’89, è stata chiusa dalla Nuova destra religiosa e militarista americana che ha concepito, sul finire del Novecento, il progetto del "nuovo secolo americano", ha cavalcato la tragedia dell’11 settembre, si è servita come braccio secolare del povero Bush e ha enunciato, con l’editto della "Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti" del 2002, il principio che l’unica sicurezza per l’America era il dominio del mondo, ridotto a un’unica disciplina, a un’unica economia, a un’unica ideologia e a un unico Impero.
Questo disegno è fallito, nella catastrofe dell’Iraq e dell’Afghanistan, nel velleitarismo dello scontro di civiltà e nella crisi economica e finanziaria globale. Le file di votanti mai viste prima in America hanno detto al mondo che questa fase si è chiusa e che ora che l’edificio è crollato, nulla davvero potrà essere più come prima.
Ma la stessa entità del disastro dice qual è l’entità del cambiamento necessario. Non c’è alcuna certezza che Obama ce la farà, anche se ha cominciato bene annunciando la cancellazione di molti "ordini esecutivi" di Bush, a cominciare da Guantanamo; ma certo egli porta al vertice della politica americana una qualità nuova, che è quella di essere un cristiano che non sta dalla parte dei ricchi ma dalla parte dei poveri e della "classe media" impoverita; un cristiano che nel linguaggio europeo si direbbe "un cristiano di sinistra"; un cristiano che non sta con l’arroganza della fede e con le truppe crociate, ma rivendica a sé una "vittoria umile", e che in questa umiltà potrebbe ritessere equi rapporti con il resto del mondo.
Raniero La Valle
BAMBIMI DA SPALMARE
di Raniero La Valle (Rocca n.22/08)
Per impedire a tutti i costi l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, la destra oltranzista americana ha cercato di far passare il candidato democratico per un musulmano amico dei terroristi, diffondendo tra l’altro 28 milioni di copie di un video che in tal modo lo colpisce. Esemplare è stata a questo proposito la replica di Colin Powell, l’ex segretario di Stato di Bush, che nel dichiarare il proprio appoggio ad Obama ha detto: «Mi dà fastidio quello che dicono alcuni repubblicani: "Obama è musulmano". È cristiano, lo è sempre stato. Ma la vera risposta sarebbe: e anche se fosse musulmano? Non c’è niente di male a esserlo, questa è l’America». Questa è l’America; ma ancora di più si potrebbe dire: questo è il mondo moderno e civile.
Su Obama cominciano a nascere molte speranze. Un afro-americano alla presidenza degli Stati Uniti! Forse non così i padri fondatori, cristiani bianchi e puritani com’erano, si erano immaginati quella «città sul monte» che avevano inteso costruire. Per Colin Powell, «sarà un segnale che elettrizzerà il mondo intero». Secondo gli osservatori più intelligenti Obama cercherà di costruire questa nuova figura dell’America avvicinandosi all’Europa e tornando a incontrare la sua cultura magnanima e accogliente: non più Guantanamo, non più Abu Ghraib, non più scontri di civiltà. Ma sarebbe una catastrofe se le parti si invertissero, e in questo ritorno gli Stati Uniti trovassero un’Europa matrigna, intollerante e razzista.
Proprio così sarebbe l’Italia se vi prendesse piede la cultura professata dalla sua attuale maggioranza di governo, quale si è espressa nella mozione per la discriminazione nelle scuole fatta approvare dalla Lega Nord. Molti altri guai si profilano per la scuola italiana, e contro una tale politica scolastica è in atto una mobilitazione in tutto il Paese, di cui non occorre qui ripetere le ragioni. Ma una cosa va notata: che per giustificare l’idea di separare i bambini stranieri o «spalmarli» in più istituti, come dice l’on. Cota, al fine di preservare l’identità italiana, la Lega fa ricorso a una categoria identitaria - fatta di religione, cultura, lingua, usi, doveri, diritti e bandiera - che invece strenuamente nega nella sua politica generale, per giustificare il secessionismo in salsa federale e rivendicare la specificità, padana e non italiana, delle popolazioni nordiste.
Ed è allora proprio alla Lega che va rivolta la domanda: ma di quale identità parlate quando pretendete che i bambini stranieri vi siano «integrati» per essere accolti? Forse che i bambini di lingua tedesca di Bolzano sono prima integrati nella cultura italiana? Forse che gli ebrei devono essere integrati nell’identità cristiana dell’Italia e dell’Europa, per poter essere considerati a pieno titolo cittadini italiani ed europei? Forse che il papa tedesco doveva farsi ribattezzare nel Tevere per fare il vescovo di Roma?
In realtà ciò che questa fazione pretende dagli stranieri in Italia non è l’integrazione, che armonizza i diversi, ma è l’omologazione che impone il modello dominante e cancella tutte le differenze. La definizione più agghiacciante di questa ideologia c’era già nel libro di Tremonti «La paura e la speranza»: «L’inclusione degli "altri" in Europa può proseguire solo se gli "altri" cessano di essere "altri" e diventano "noi"». Gli altri devono «rinunciare alla propria identità», noi dobbiamo imporre i nostri valori non perché debbano o possano «essere necessariamente valori universali», ma perché sono «definiti come tali da "noi" e per "noi"», e passano «necessariamente attraverso una "rivendicazione di potere"».
Qui si va oltre la scuola. Il libro di Tremonti scontava l’arrivo della crisi capitalistica globale (donde la «paura»), che poi effettivamente è sopraggiunta, non certo perché abbiamo perduto o non abbiamo difeso la nostra soggettività, ma perché ci hanno tradito i nostri denari e abbiamo perduto i nostri profitti. Ma ciò che è veramente pauroso è che la risposta alla crisi sia l’arroccamento nelle propria presunta identità e nei propri particolari valori, per combattere contro tutti gli altri che non siano «noi» e che non diventino «noi».
Questa è l’ideologia da battere, se l’America e l’Europa insieme vogliono ancora essere strumenti di civiltà nel mondo che viene.
Non c’è nulla di diverso nel paese di stamattina. Eppure tutto è diverso
una "primavera americana" che ancora non si vede, ma si sente
La lunga notte della rivoluzione
che ha cambiato il volto degli Usa
Gli ultimi lustrascarpe ricordano ancora la rivolta di Washington
ora che un "brother" dormirà nella casa che avrebbero voluto mettere a sacco
di VITTORIO ZUCCONI *
WASHINGTON - La notte che ha cambiato tutto si stempera in un giorno di esausta, civile normalità, che produce in noi ammirazione, stupore e qualche invidia.
È cambiato tutto. Si sono rovesciati 40 anni di storia, tra le rivolte dei ghetti del 1968 e l’annuncio della vittoria del figlio di un kenyano, nelle tre ore passate fra i primi risultati incerti dalla Florida, dalla Virginia, dall’Ohio, fino alla valanga di voti del West alle 23 e un minuto, ora della capitale.
Ma sulla nuova America che ha stravinto, come su quella vecchia che ha straperso, sulla insurrezione elettorale dei giovani che hanno respinto la tentazioni della protesta e hanno trovato lo strumento politico per manifestare la loro voglia di antipolitica, dei neri, dei bruni, delle donne, è già scesa la pace. Sotto la coperta rassicurante della Costituzione, delle regole da rispettare e rispettate, della civiltà politica, dell’accettazione di vittorie come di sconfitte, l’America oggi riposa esausta e si distende.
Gli americani hanno fatto una rivoluzione e tutto quello che posso raccontare di scomposto è la folla che spontaneamente si era raccolta attorno alla Casa Bianca a mezzanotte, per cantare "Bye Bye George" e fare la serenata a un presidente detestato da 3 americani su 4, senza che volasse un ciottolo.
Perché rivoluzione è stata e la nuova carta politica dell’America, che i pennelli elettronici delle network andavano disegnando, i messaggi frenetici dei blog e dei siti internet raccontavano e le ricerche sui voti confermavano, è un continente umano e politico che sembrava scomparso ed è invece riemerso. Non un’"altra America", come vogliono i luoghi comuni, ma un’America che non aveva trovato il messaggio e il messaggero per uscire dall’incantesimo dei falsi "valori", del moralismo, della xenofobia, dei miti fiscali spacciati da coloro che avevano tutto da guadagnare e nulla da restituire, e ora l’ha trovato. E’ sbalorditivo che tutti gli stracci agitati per un decennio dalla destra, nessuno, neppure la questione dell’aborto che ormai è vissuta come una storia conclusa e acquisita, abbiano fatto la loro comparsa in questa elezione. Forse questo, il mancato ricorso agli spettri delle paure, spiega la quiete dopo la notte.
Barack Obama ha vinto ovviamente perché i suoi fratelli di sangue hanno votato come mai avevano fatto prima, fino al 95% con lui, dopo che si era insinuato che lui "non fosse abbastanza nero", per non essere cresciuto nei casermoni dell’edilizia popolare, i projects, sforacchiati da sparatorie e da crimine. Ma ha vinto perché le donne lo hanno scelto, nella speranza che lui sia colui che finalmente darà sicurezza sanitaria a quelle madri single che allevano figli senza alcuna protezione assicurativa e hanno visto in lui, bambino allevato da donne, la madre sola e la nonna, la rivincita della loro fatica quotidiana. Ha vinto con i latinos, stanchi di essere trattati come usurpatori di terre nelle quali fanno i lavori che permettono ai bianchi di farne di migliori. Ha vinto fra quei "colletti blu" delle acciaierie in agonia, delle fabbriche d’auto che oggi vendono un terzo meno dell’anno scorso, quei "democratici di Reagan" che la strategia repubblicana era riuscita a sedurre agitando le bandierine dei "valori", morali, patriottici, militari. Ha vinto addirittura nel West, dove il rude cowboy immaginario ha da tempo lasciato le prateria ai nuovi americani dei sobborghi, della tecnologia, dei diritti. Ha vinto perché è il segno, e il volto, dell’America nuova, contro un partito vittima del proprio successo con un’America Vecchia che esiste sempre meno, persino nella Florida dei vecchi.
Ci sarebbero infinite ragioni di rancore, voglie di conti da saldare, paure per l’immaginario "radicalismo marxista" di un ultra liberal, che si rivelerà molto più probabilmente come un centrista moderato al massimo con qualche istinto blandamente socialdemocratico, ma se ci fossero state voglie di rese dei conti, le avrebbero spente, prima che la notte degenerasse in un giorno di mazzieri, le avrebbero subito spente le parole proprio dei due protagonisti, uniti da uno stesso filo: io ho perso, ora deve vincere l’America e l’America è colui che è stato eletto. Io ho vinto "ma dovrò governare anche per coloro che hanno perso", come ha detto Obama. E le braci accese da secoli si sono spente e raffreddate anche in quel parco di Chicago dove i figli degli hippies e dei sessantottini piangevano abbracciando i vecchi poliziotti in pensione che il sindaco Daly aveva mandato a sprangare a sangue i loro padri e le loro madri, nell’estate del 1968.
Non c’è niente di diverso, nella Washington dove esco dopo il voto. I giovanotti di colore che mi riempiono il sacchetto del supermercato sono gli stessi di ieri e non sono diventati presidenti degli Stati Uniti né direttori del negozio alle 23 e 30 di martedì, quando uno come loro è diventato il Capo dello Stato ed è probabilmente soltanto la mia immaginazione di cronista che vede nei clienti che spingono il carrello e li ringraziano un’ombra di rispetto in più, come se trattarli male, da oggi, potesse scatenare sull’uomo bianco sgarbato con il garzone nero la furia del nuovo governo federale e un immediato accertamento fiscale.
Eppure tutto è diverso, come se vivessimo in una "primavera americana" che ancora non si vede, ma si sente. Guido l’auto nel centro di Washington, la capitale molto "romana", molto sorniona e cinica, che aspetta l’arrivo del nuovo Cesare, il 20 gennaio prossimo, e delle sue centurie, senza scomporsi, sapendo che sopravviverà anche a questo ribaltone storico, culturale, morale come ha saputo sopravvivere ai sudisti che la bombardavano, ai mercenari inglesi che la invasero e ai dementi di Al Qaeda che le schiantarono un Boeing 757 di linea contro il Pentagono, senza che il cuore della città perdesse un colpo. E’ questo, il momento della transizione da un imperatore all’altro, avvenuto 41 volte in 220 anni per 43 presidenze, nel quale si vede la magnificenza civile della nazione. Non si sentono urla e grida, non ci sono vincitori che insolentiscono i trombati, o sconfitti che digrignano i denti, anche grazie alla stangata senza equivoci di Obama, e del partito democratico, che ha conquistato seggi e allargato la maggioranza al Congresso, Camera e Senato, costruendo un "monocolore" democratico nel cuore del governo nazionale come non si vedeva da decenni.
Il sovrano deposto dalla Costituzione e bocciato dal voto, Bush, che è il vero sconfitto come ammettono anche i suoi ultimi supporter come Bill Kristol o Fred Barnes, i boia chi molla della destra estrema, si fa vedere sul pronao della Casa Bianca semplicemente per congratulare colui che da 21 mesi va ripetendo che proprio Bush è stato una catastrofe, per dire che lui è da questo momento a disposizione del successore, che Obama ha ragione quando dice che l’America è la nazione dove tutto è possibile e i messi del nuovo Cesare avranno libero accesso e saranno d’ora in poi, giorno dopo giorno fino alla inauguration fra 70 giorni, messi al corrente di tutti gli affari di Stato.
Chi oggi attraversa questa capitale lubrificata dall’esperienza delle transizioni e dal senso di responsabilità nazionale e internazionale che porta sulle spalle, non può non ricordare come la trovò trent’anni or sono, e cerca invano i segni delle lingue di fuoco che annerivano la facciata degli edifici del centro, all’incrocio della 14esima strada e della F Street, a 100 metri dalla Casa Bianca, dove l’insurrezione del ghetto nero arrivò con la armi, le fiaccole, le spranghe in mano, fermato dalla Guardia Nazionale in assetto di guerra, dopo la notizia dell’assassinio di Martin Luther King, nel 1968.
Gli edifici affumicati, che contemplavo dalla finestra dell’ufficio nel palazzo della stampa, sono stati abbattuti, ci sono shopping center, caffetterie, condomini di lusso, negozi di chincaglieria costosa. Soltanto i vecchi, gli ultimi lustrascarpe ricordano ancora la sommossa di Washington e lustrascarpe rimangono, anche ora che un brother, un fratello di sangue, dormirà nella casa che loro avrebbero voluto mettere a sacco. Il primo giorno del resto della nostra vita, come vuole un detto americano, è un giorno normale, pacifico, qualsiasi, dopo una notte che avrebbe potuto, altrove, scatenare piazze e furori.
Questa "primavera di Washington", che fiorisce in autunno, fa piangere in silenzio, compostamente, come ha pianto ieri notte Colin Powell, che si era esposto per dare la propria investitura a Obama e fa piangere coloro che in buona fede, avendo ascoltato le farneticazioni della cacciatrice di alci, rivelatasi una prevedibile zavorra dopo la fiammata di curiosità iniziali, davvero crede che dal 20 gennaio prossimo gli Usa diverranno gli "Ussa", gli "Stati Uniti Socialisti d’America" e Obama porterà via il negozio di souvenir o la cassetta delle spazzole ai lustrascarpe, mentre i "neri" la faranno da padroni, vendicandosi dei padroni.
E tutto quello che è successo è che la mappa elettorale dell’America torna finalmente a corrispondere alla propria diversità, come la faccia di chi l’ha disegnata, ha il volto di una nazione che riassume in sé il dna del mondo. E se la nonna di Obama non lo ha visto vincere per 24 ore, Ted Kennedy è riuscito a resistere al male che lo sta uccidendo, per vedere il ritorno dell’America che finalmente i suoi fratelli avrebbero riconosciuto.
* la Repubblica, 6 novembre 2008
Ansa» 2008-11-05 09:20
OBAMA: NULLA E’ IMPOSSIBILE IN AMERICA, ’YES WE CAN’
Il presidente eletto Barack Obama ha vinto le elezioni presidenziali con la maggioranza assoluta dei suffragi, circa il 52%, secondo i dati provvisori. Non succedeva dal 1976 per un candidato democratico alla casa Bianca, da quando cioé Jimmy Carter aveva ottenuto il 50,1% dei suffragi. Bill Clinton non è mai riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta. Nel 1996, anno della sua rielezione trionfale, aveva vinto con il 49,24% dei voti; nel 1992, aveva conquistato la Casa Bianca con il 43% (ma è anche vero che i candidati erano ben tre). E’ record anche il tasso di partecipazione di quest’anno, pari circa al 66%, cioé a livelli analoghi di quelli del 1908, secondo il sito Real Clear Politics. Quando John Kennedy venne eletto nel 1960 la partecipazione superò appena il 63%. Nel 2004, anno della rielezione del presidente uscente George W. Bush, del 55,3%.
In America "nulla è impossibile" e chi ancora non è convinto, non ha che da guardare al nuovo presidente eletto degli Stati Uniti. Barack Obama ha debuttato così a Chicago, con un discorso della vittoria impregnato di ’sogno americano’ e riferimenti alle divisioni che hanno segnato la storia degli Usa, e annunciando che il cambiamento "é arrivato". ’Yes we can’, lo slogan che per quasi due anni ha accompagnato la sua campagna elettorale, è diventato anche l’inno con cui Obama ha celebrato quella che definito, rivolto alle decine di migliaia di sostenitori, "la vostra vittoria". "Siamo e saremo gli Stati Uniti d’America - ha detto Obama, citando Abramo Lincoln per respingere l’idea di un Paese diviso - e abbiamo dimostrato al mondo intero che non siamo semplicemente una collezione di individui di tutti i tipi".
Una folla multirazziale ed entusiasta ha accolto Obama, sventolando bandiere a stelle e strisce, in un grande parco di Chicago, assediato all’esterno da un’altra folla che non è potuta entrare nello spazio da 70.000 posti preparato per l’evento. Accolto sulle note di ’Sweet Home Chicago’, Obama ha debuttato ringraziando la città che lo ha adottato dagli anni Ottanta e si è poi lanciato in un primo discorso da presidente eletto che ha ricalcato i temi della sua campagna elettorale: la necessità di portare "il cambiamento" in America, la promessa di rispondere alla speranza di chi si sente abbandonato o ai margini della società, l’avvertimento "ai nostri nemici nel mondo" che l’America è forte, unita e pronta a rispondere a qualsiasi minaccia. L’onore delle armi è andato a John McCain e Sarah Palin, che Obama ha ringraziato e a cui ha chiesto, in una conversazione telefonica con il senatore dell’Arizona, di aiutarlo a guidare il Paese. Il vice Joe Biden, la moglie Michelle e le due famiglie hanno raggiunto alla fine Obama sul palco e il presidente eletto ha chiuso ricordando alle figlie Sasha e Malia che si sono "meritate il cucciolo" che aveva promesso loro all’inizio di un’estenuante campagna che ha coinvolto tutta la famiglia per quasi due anni.
BARACK OBAMA 44° PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI di Giampiero Gramaglia
ROMA - Barack Obama e’ divenuto questa notte il 44.o presidente degli Stati Uniti, e’ il primo nero a conquistare la Casa Bianca: un risultato storico. L’affluenza record ha allungato le code ai seggi nell’Unione e ha reso piu’ lento lo spoglio dei suffragi, ritardando l’annuncio della vittoria del candidato democratico.
La certezza, non matematica, ma politica, e’ stata acquisita quando il candidato democratico s’e’ aggiudicato l’Ohio, uno Stato chiave, lo Stato che tutti i candidati repubblicani divenuti presidenti hanno vinto.
L’America e’ andata al voto nel pieno d’una crisi finanziaria che le toglie fiducia e che deve ancora fare sentire l’impatto sull’economia reale, mentre le difficolta’ militari e politiche in Iraq e in Afghanistan incrinano le certezze e le sicurezze della Super-Potenza unica. In un momento difficile, con un esercizio di democrazia che la conferma fucina di coraggio per l’Occidente, l’America ha scelto e ha scelto il cambiamento: un presidente giovane, nero e relativamente inesperto, ma che e’ un simbolo di speranza e che impersona il sogno americano. All’Est e al Sud, Obama s’e’ imposto in alcuni Stati Chiave di questa competizione: ha fatto suo il New England, ed era scontato, i Grandi Laghi, ma soprattutto ha confermato il potere democratico in Pennsylvania e ha strappato ai repubblicani l’Ohio e lo Iowa, oltre ad altri Stati contesi.
I risultati dell’Ohio e dello Iowa sono stati il segnale della disfatta per il candidato repubblicano John McCain, arrivato all’Election Day in forte ritardo in tutti i sondaggi. E che neppure i suoi sostenitori ci credessero lo diceva la differenza di immagini tra l’attesa della festa per Obama a Chicago, dove c’erano decine di migliaia di persone entusiaste, e l’attesa a Phoenix, dove i sostenitori di McCain erano pochi e disorientati.
Per McCain, non e’ stato un tracollo. Per Obama, non e’ stata una vera e propria valanga, specie in termini di voto popolare - ma il computo esatto dei suffragi non e’ ancora definitivo -. Ma dalle urne esce un’America nuova, che Barack Obama dovra’ guidare dal 20 gennaio, quando s’insediera’, fuori dalla crisi, ridandole fiducia in se stessa e restituendole la simpatia del Mondo.
VOTO CALIFORNIA DA’ CERTEZZA VITTORIA A OBAMA
NEW YORK - Il candidato democratico alla Casa Bianca, Barack Obama, ha vinto le elezioni presidenziali in California (55 voti), diventando matematicamente presidente degli Usa con 275 voti elettorali.
Aveva 86 anni
L’ultimo regalo della nonna di Obama: il voto prima di morire
Madelyn Dunham ha votato per posta ed è stato ritenuto valido. Il senatore afroamericano ha dedicato a lei l’ultimo comizio: ’’E’ stata la pietra angolare della nostra famiglia’’
Wahington, 4 nov. - (Adnkronos/Ign) - La nonna di Barack Obama ha fatto un’ultimo regalo al nipote prima di morire: Madelyn Dunham ha votato per posta e il suo voto conterà. Il capo dell’ufficio elettorale delle Hawaii, Kevin Cronin, ha confermato che il voto dell’86enne signora ammalata è arrivato il 27 ottobre ed è stato ritenuto valido. Verrà dunque contato assieme a tutti gli altri.
La nonna bianca di Obama era ammalata di cancro e il candidato democratico a metà ottobre aveva brevemente sospeso la campagna elettorale per andare al suo capezzale. Detta affettuosamente Toot, è la donna che ha allevato il nipote mentre la madre Ann era in Indonesia e Barack aveva con lei un legame fortissimo. Il senatore afroamericano è stato raggiunto ieri dalla notizia della sua morte e a lei ha dedicato l’ultimo comizio. "E’ stata la pietra angolare della nostra famiglia, una donna di una straordinaria forza e umiltà - ha detto parlando a Charlotte in North Carolina - Un eroe silenzioso come ce ne sono molti qui tra voi, che lavorano sodo, che pensano alla famiglia, che si sacrificano per figli e nipoti. E ha lasciato questo mondo con la consapevolezza che la sua impronta su tutti noi è stata significativa e sarà durevole".
Il colore di un altro mondo
di Maurizio Chierici
Forse stasera il mondo cambia colore e la cultura degli Stati Uniti rovescia la vita di ogni comunità. Se i sondaggi non imbrogliano, giorni neri per i bianchi KKK. Non solo rabbia delle maggioranze parlanti modello Alabama. Lo sdegno KKK trema nell’inconscio delle anime perbene sconvolte da emigrazioni dai colori diversi. Insopportabili. Finché scarica patate ai mercati, pazienza, ma un nero alla Casa Bianca è come un mullah che dice messa.
I masi chiusi attorno a Bolzano dubiteranno del suo potere. Dubiteranno le folle montagnarde di leghe scandalizzate dalla profanazione. Fini aveva annunciato che era impossibile. Dovrà rassegnarsi. La democrazia ha queste scomodità. E nelle pieghe delle abitudini qualcosa comincerà ad essere diverso. Segni invisibili a poco a poco visibili appena il tempo addolcirà l’umiliazione ariana. Cominceremo a rovesciare le favole per il rispetto dovuto alla grande potenza.
Qualcuno lo ha già fatto. Caridad Toca era buia come il carbone. I signori Calvino le avevano affidato il figlio: Italo, appena due anni, quando Cuba era un regno americano. Ieri come oggi gli uomini neri impaurivano l’infanzia con la crudeltà di chi rubava i bambini nel sacco. Ma nei racconti della tata nera l’uomo nero si trasforma nell’angelo della luce. Salva chi affoga nel fiume, scaccia lupi randagi. Incanti dei quali lo scrittore non si è mai liberato. Il tempo ci abituerà all’anomalia della storia che si chiama Obama. Quando padre e madre dovranno indovinare chi viene a cena per sposare la figlia, se Obama ce la fa, il sospiro sarà meno desolato: «Almeno è intelligente».
Dovranno rassegnarsi i vecchi dal sangue stanco adattandosi a figli che non vogliono perdere il filo delle novità: addio moldave alle pallide, solo badanti africane. Ecco il dubbio: quali colori finiranno nel ghetto delle classi differenziate? Turandosi il naso, anche i partiti della razza romperanno le quote rosa per briciole di quote nere: l’America é sempre la nostra America ma nessuno si piegherà davvero. Nelle segrete abbandonate dai black power, i white power resusciteranno l’indignazione appena Obama sbaglierà. E sbaglierà, come ogni presidente. Ma è un presidente nero: l’avevano detto. L’ultimo libro di Eduardo Galeano («Specchi», Sperling & Kupfer) racconta le incisioni delle grotte dei deserti africani: colline verdi, frutti che piegano i rami. Quel paradiso terrestre dove Adamo ed Eva si sono forse incontrati. Ed erano neri. Meglio non farlo sapere nei giorni del lutto bianco.
* l’Unità, Pubblicato il: 04.11.08, Modificato il: 03.11.08 alle ore 21.38
La chiusura dei seggi Stato per Stato
Chiuderanno alle 19:00 locali (l’1 in Italia) i primi seggi elettorali nelle elezioni presidenziali statunitensi, facendo scattare la corsa alle proiezioni. I network Usa, dopo i clamorosi errori commessi nelle ultime due elezioni, hanno promesso di essere più prudenti stavolta, preferendo la precisione alla rapidità. Resta da vedere se manterranno la promessa.
Questo il calendario delle chiusure dei seggi nei 50 Stati Usa, più il Distretto di Columbia. Tra parentesi compare il numero di «grandi elettori» del Collegio elettorale assegnati da ciascuno stato sul totale di 538.
Ore 19 locali (01:00 in Italia): Georgia (15), South Carolina (8), Vermont (3), Virginia (13), Indiana (11), Kentucky (8)
Ore 19:30 locali (01:30 in Italia): Ohio (20), West Virginia (5), North Carolina (15)
Ore 20:00 locali (02:00 in Italia): Alabama (9), Connecticut (7), Delaware (3), District of Columbia (3), Florida (27), Illinois (21), Maine (4), Maryland (10), Massachusetts (12), Mississippi (6), Missouri (11), New Hampshire (4), New Jersey (15), Oklahoma (7), Pennsylvania (21), Tennessee (11)
Ore 20:30 locali (02:30 in Italia): Arkansas (6)
Ore 21:00 locali (03:00 in Italia): Arizona (10), Colorado (9), Kansas (6), Louisiana (9), Michigan (17), Minnesota (10), Nebraska (5), New Mexico (5), New York (31), Rhode Island (4), South Dakota (3), Texas (34), Wisconsin (10), Wyoming (3)
Ore 22:00 locali (04:00 in Italia): Iowa (7), Montana (3), Nevada (5), Utah (5)
Ore 23:00 locali (05:00 in Italia): California (55), Hawaii (4), Idaho (4), Nord Dakota (3), Oregon (7), Washington (11)
Ore 24:00 locali (06:00 in Italia): Alaska (3)
* l’Unità, Pubblicato il: 04.11.08, Modificato il: 04.11.08 alle ore 16.37
Inno alla democrazia del nuovo presidente davanti alla folla oceanica di Chicago
Quindici minuti emozionanti in cui ha promesso una nuova èra politica
Dal palco Obama infiamma il Paese
"Negli Usa nulla è impossibile"
dal nostro inviato MARIO CALABRESI *
CHICAGO - Un inno alla democrazia e alla capacità di cambiare. Barack Obama nel discorso più importante della sua vita, davanti a centinaia di migliaia di persone, ha commosso il suo Paese e il mondo rivendicando la forza della speranza contro il cinismo, la forza dell’uomo comune davanti al potere, la forza potente del sogno e del cambiamento. La forza dell’America, ha gridato Obama nella notte di Chicago, non è la sua potenza militare ma la capacità di creare «democrazia, libertà e opportunità».
Un discorso di quindici minuti, intenso, emozionante, capace di promettere una nuova éra politica: «Questa vittoria non è il cambiamento ma la possibilità del cambiamento e se c’è ancora qualcuno che dubita che l’America sia un posto dove ogni cosa è possibile, dove si può realizzare il sogno dei nostri padri e dimostrare il potere della democrazia, questa notte la risposta è arrivata. L’hanno data le donne e gli uomini che sono stati in coda per ore per poter votare».
Barack Obama è salito sul palco di Grant Park tre minuti prima delle undici di sera. La folla lo aspettava da ore, una serie di boati aveva scandito la conquista di tutti gli Stati chiave, ma la festa era scoppiata un’ora prima quando la Cnn lo aveva dichiarato presidente. Prima di prendere la parola Obama ha aspettato che John McCain concedesse la vittoria, poi con Michelle e le figlie - vestite di rosso e nero - è apparso in questa spianata verde chiusa tra il Lago Michigan e i grattacieli. A proteggere il nuovo presidente due immensi vetri antiproiettile, voluti dal secret service ai lati del leggio.
Obama ha cominciato salutando Chicago, la sua città, la nuova capitale politica d’America, ha parlato con rispetto e stima del suo avversario repubblicano e ha ringraziato Michelle: «La roccia della nostra famiglia, l’amore della mia vita». Poi ha detto a Sasha e Malia che rispetterà la piccola promessa di prendere un cane: «Vi siete meritate il cucciolo, verrà con noi alla Casa Bianca».
Le sue parole più convinte sono state per i milioni di volontari che hanno costruito la sua campagna, per «i lavoratori che hanno donato cinque o dieci dollari», per i giovani che hanno lasciato le famiglie per mesi: «Questa vittoria appartiene a voi e io non lo dimenticherò». Ha ripercorso la storia dell’America e delle sue conquiste e il lungo cammino dei diritti civili attraverso la vita dell’elettrice più anziana: una donna di Atlanta di 106 anni che si battè contro la segregazione razziale e che gli ha dato il suo voto.
L’elenco delle cose su cui impegnarsi adesso è lungo: il pianeta in pericolo per il cambio climatico, la crisi finanziaria e quella delle case, i soldati che combattono in Afghanistan, «la necessità di creare lavoro e di costruire nuove scuole». Ma promette di provarci, chiede che il Paese sia unito con lui per riportare «la prosperità, la pace e restituire ad ognuno la possibilità di coronare il Sogno Americano».
Il finale è hollywoodiano, lo raggiungono sul palco Joe Biden e tutti i parenti: si abbracciano e salutano a lungo mentre gli altoprlanti trasmettono una colonna sonora epica. In tutta America si riempiono le piazze e le strade e davanti alla Casa Bianca un’altra folla immensa festeggia pacificamente l’arrivo di un nuovo inquilino. Il primo nero della storia.
* la Repubblica, 5 novembre 2008