Approvato il testo che blocca i processi del premier e delle alte cariche dello Stato
Inserito l’emendamento del Pd per impedire a Berlusconi una seconda immunità
Lodo Alfano, la Camera dice sì
ora la legge passa al Senato
Veltroni: "Provvedimento ad personam, per questo il via libera in sole 48 ore"
Di Pietro: "Ci penserà la Consulta a rimettere le cose a posto". Si astiene l’Udc *
ROMA - Il Lodo Alfano supera senza problemi il primo ostacolo. Dopo il via libera ottenuto oggi dalla Camera, con 309 voti favorevoli, 236 contrari e 30 astenuti (l’Udc), il disegno di legge firmato dal ministro della Giustizia che garantisce l’immunità giudiziaria alle quattro principali cariche dello Stato, ma soprattutto al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, passa ora all’esame del Senato. Poco più di una formalità visti i numeri di cui dispone la maggioranza anche a Palazzo Madama e visto il percorso lampo e senza scossoni fatto dal provvedimento a Montecitorio.
Approvazione lampo. Il sì della Camera è arrivato a tempo di record, nel giro di 48 ore. Alla velocità ha contribuito il fatto che il testo si compone di un solo articolo suddiviso in otto commi per sancire che "sono sospesi, per tutta la durata della carica, i processi penali nei confronti del presidente della Repubblica, del presidente del Consiglio e dei presidenti di Camera e Senato".
L’emendamento del Pd. Alla versione originale è stato aggiunto uno solo dei 283 emendamenti presentati dall’opposizione nel tentativo di modificare il Lodo e soprattutto rallentarne la corsa. A essere stato accolto è stato l’emendamento del Pd che stabilisce che la sospensione dei processi non si applichi nel caso di successiva investitura in altra carica o in altra funzione. Una clausola pensata essenzialmente per evitare che Berlusconi possa tornare a godere dello speciale privilegio una seconda volta nel caso di elezione a presidente della Repubblica.
Di Pietro invoca la Consulta. La modifica è stata resa possibile grazie al voto a favore del Pdl nel tentativo di mandare un messaggio distensivo all’opposizione, mentre l’Italia dei Valori per marcare in maniera ancora più netta la sua contrarietà ha votato contro. "Lei, signor presidente del Consiglio contumace, non ci degna della sua presenza in Aula", ha tuonato Antonio Di Pietro durante la dichiarazione di voto finale. "Ci avrebbe fatto piacere guardarla in faccia - ha aggiunto il leader dell’Idv - oggi che la mandiamo in paradiso. Ma avete sbagliato a scrivere la norma: sarà stato qualche suo ’domestico parlamentare’, un po’ come accadde a Previti e la legge che state facendo sarà incostituzionale".
Veltroni: "Legge ad personam". Nella dichiarazione di voto del Pd Walter Veltroni ha rimarcato che il Lodo Alfano "è obiettivamente una legge per una persona". "Se non fosse così - ha osservato - il governo avrebbe risposto positivamente all’appello a non avvalersi delle prerogative contenute nella norma, e cioè l’immunità per le alte cariche dello Stato".
Troppa fretta. Ma non solo: per Veltroni la prova che si tratta di una legge ad personam risiede anche nell’urgenza. "Perché non è stata scelta una legge costituzionale? - si è chiesto il segretario del Pd - Per la necessità di andare velocemente e fare presto, tanto che si è anche fatta un’inversione con il blocca processi". Ma ancor più grave, ha sottolineato Veltroni, "è che per fare una norma a favore dei non autosufficienti ci si è messo sei anni, per questa 48 ore".
D’Alema sferza Berlusconi. Per il Pd, Massimo D’Alema nel corso del dibattito mattutino ha preferito parlare invece del Lodo Alfano come di "una soluzione pasticciata e confusa". "E’ una leggina - ha sottolineato l’ex vicepremier - che è un errore politico volto a tutelare l’interesse del presidente del Consiglio e lo espone al dibattito umiliante di questi giorni". "Non so se sia conveniente a Berlusconi - ha aggiunto - mi sentirei di dargli un consiglio nelle intenzioni amichevole: rinunci a questa leggina ed affronti il giudizio per accuse che ha sempre respinto".
Casini spiega l’astensione. Diversa la scelta dell’Udc, che ha preferito astenersi. "La maggioranza - ha chiarito Pier Ferdinando Casini - si assume interamente la sua responsabilità. Noi abbiamo operato con la logica della riduzione del danno. La nostra astensione non è solo un contributo alla serenità, ma è finalizzata a togliere dal decreto sicurezza il blocca processi".
Alfano soddisfatto. Soddisfatti, naturalmente, per il via libera di Montecitorio, maggioranza e governo, a cominciare dal ministro Alfano. "Siamo contenti - ha commentato il Guardasigilli - crediamo di aver fatto un buon lavoro". "L’Italia - ha aggiunto - ha bisogno di essere governata e Berlusconi, che ha vinto le elezioni, merita di governare questo Paese: i cittadini potranno poi valutare dopo un po’ di anni".
* la Repubblica, 10 luglio 2008.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
D’Alema rivolge un «consiglio amichevole» a Silvio Berlusconi .... gridiamo insieme: Forza Italia!!!
IL COMMENT0
Il privilegio che fa
del leader un sovrano
di EZIO MAURO *
Mancava, Silvio Berlusconi, nell’aula di Montecitorio radunata ai suoi ordini, ieri, per votargli l’immunità disegnata su misura per la sua persona, consentendogli di evitare in extremis la sentenza nel processo per corruzione in atti giudiziari in corso a Milano, dove il Cavaliere è accusato di aver spinto l’avvocato londinese Mills a dichiarare il falso sui fondi neri Fininvest all’estero. Penso che l’imbarazzo - politico, morale, istituzionale - lo abbia tenuto fuori dalla Camera dove, a due mesi dalla nascita del suo governo, l’abuso della forza ha ieri raggiunto il culmine, rivelando una debolezza che peserà come un destino sul resto della legislatura.
Nel Paese che continua a proclamare la legge uguale per tutti, dopo il voto di ieri e in attesa urgente di quello del Senato il Cavaliere si avvia a diventare "più uguale" dei suoi concittadini, sottraendo l’imputato Berlusconi al suo legittimo giudice che lo sta processando per reati comuni, per nulla legati all’attività politica. Per fare questo, l’imputato ha dovuto chiedere soccorso al premier Berlusconi, che non ha esitato a usare fino in fondo il potere esecutivo per imporre al legislativo una norma capace di bloccare il giudiziario. Anzi, di più. Finché non è stato sicuro dell’approvazione del "lodo", predisposto dal ministro-ombra della Giustizia Alfano (il vero Guardasigilli è l’avvocato del Cavaliere, Ghedini), il premier ha mandato avanti come norma d’urgenza un emendamento che fermava 100 mila procedimenti giudiziari pur di arrestare il suo. Ieri, avuta la sicurezza che l’immunità diventerà subito legge, Berlusconi ha acconsentito a disfare la norma blocca-processi, dimostrando così platealmente che la norma non aveva alcuna urgenza reale ma era solo strumentale alla sua difesa, in una combinazione legislativa meccanica che piegava due volte la procedura penale e l’uguaglianza dei cittadini per costruire un salvacondotto personale su misura ad un imputato eccellente.
Qui sta l’imbarazzo della democrazia italiana, in questa concatenazione tra l’interesse privato e la legislazione pubblica, che forma un abuso, deforma l’imparzialità della giurisdizione, trasforma la separazione dei poteri. Le tre funzioni (legiferare, amministrare, rendere giustizia) nello Stato moderno sono affidate a organi distinti in posizione di reciproca indipendenza e autonomia proprio per garantire che anche l’esercizio delle attività sovrane è sottoposto al diritto. Montesquieu ha spiegato una volta per sempre che "tutto sarebbe perduto se il medesimo uomo facesse le leggi, ne eseguisse i comandi e giudicasse delle infrazioni". Ma che accade quando il medesimo uomo fa le leggi, ne esegue i comandi e così fa in modo che nessuno possa giudicare delle sue infrazioni? Quanto è "perduto" in questo uso abusivo del potere?
Naturalmente questo ragionamento viene evitato dai costruttori del nuovo senso comune berlusconiano. Si prescinde dai fatti (un’ipotesi di reato, un’inchiesta, un processo, e la corsa politica a bloccarne l’esito) e si preferisce ragionare in termini generali: qui - si dice - non si discute di Berlusconi, ma di un sistema di guarentigie, che esiste anche altrove e riguarda le quattro principali cariche della Repubblica. Con ogni evidenza è una mistificazione. A parte il fatto che l’immunità del Capo del governo non esiste nelle democrazie europee, si può discutere in astratto di immunità se e in quanto serva a disegnare un sistema generale di garanzie, non quando urga la necessità di sottrarre un imputato al suo giudizio, strappandolo all’aula del Tribunale che sta per concludere il processo.
Questo anzi è il caso in cui la garanzia si trasforma in privilegio, e l’immunità studiata dalla dottrina costituzionale in considerazione della funzione pubblica e della sua tutela - nell’interesse non già del singolo, ma della collettività -, si riduce a impunità costruita nell’interesse esclusivo non di una carica ma di una persona, che con un vantaggio improprio viene sottratta ad oneri e responsabilità che valgono per tutti gli altri cittadini.
Qui sta tutta l’eccezionalità (uso la parola in senso tecnico) di ciò che sta accadendo in un parlamento ridotto a collegio di difesa di un imputato di corruzione, costretto a votare leggi speciali a sua tutela, impegnato a costruire un regime esclusivo di salvaguardia per un leader a cui non basta la politica, il trionfo elettorale, la forza della maggioranza, la dignità della funzione che ricopre nel nostro Stato. Sul piano culturale, c’è qualcosa di più. Una forzatura nella costituzione materiale del Paese, nella struttura politica del sistema, per cui da questo eccesso d’autorità scaturirà una nuova concezione dello Stato, con la supremazia del Leader che ha vinto le elezioni e per questo è intoccabile perché è un tutt’uno con la volontà dei cittadini, in un’unione sacra al punto che nessuna legge, nessun diritto, nessun potere può intervenire a sindacarla. Attraverso questa concezione, il leader legittimo del Paese diventa sovrano di fatto, perché si appropria di una sovranità che per Costituzione appartiene al popolo: non "emana" dal popolo verso qualche potere come oggi si vuole far credere e come pretende la teoria del moderno populismo, ma nel popolo risiede perché è il popolo che la esercita, "come contrassegno ineliminabile - si disse nella discussione in Costituente - del regime democratico".
Questa è la posta in palio negli eventi a cui stiamo assistendo, nonostante la riduzione interessata a stanca contesa tra politica e magistratura, nonostante la banalizzazione accurata della sostanza politica, istituzionale e costituzionale di questa vicenda: non per caso immersa in un grande pettegolezzo sessuale su presunte intercettazioni in parte già distrutte dai magistrati e in parte prossime alla distruzione e tuttavia evocate e sceneggiate senza posa dai costruttori del paesaggio politico berlusconiano, secondo la modernissima strategia feticista che - come spiega la psicanalista Louise J. Kaplan - "mette in rilievo un dettaglio particolare per poter distrarre l’attenzione da altre caratteristiche considerate inquietanti", "per immobilizzare e ammutolire, vincolare e dominare".
Proprio per questo, a mio parere, è importante e significativo che migliaia di persone abbiano sentito il bisogno martedì scorso di uscire dalla solitudine repubblicana in cui viviamo per andare nella piazza di Roma dov’era annunciata una manifestazione di testimonianza e di protesta per le leggi ad personam predisposte dalla destra berlusconiana. Nella nuova egemonia culturale che domina l’Italia e che mette l’azione e le decisioni del governo al primo posto, trasformando la legittimità in nuova sovranità, e chiedendo alla legalità di non intralciarla, la vera domanda è se c’è una capacità di reazione liberale e democratica, costituzionale e repubblicana. Quella piazza, fatta di cittadini sconosciuti che hanno voluto riconnettersi al discorso pubblico in un momento delicato (e in molti casi hanno dovuto farlo da soli, senza il tradizionale canale dei partiti) è appunto un principio di reazione.
Ma alla domanda tutta politica - finalmente - che veniva dai cittadini in piazza (e dai molti altri che non hanno partecipato per molte ragioni, ma anche perché non si riconoscevano nelle forme, nei modi e nel programma dell’organizzazione) è stata servita una risposta di segno opposto, tutta impolitica. Anzi, antipolitica. Con un crescendo da "Corrida" che mescolava denunce planetarie e racconti da Calandrino sul Cavaliere, accuse a Napolitano (come se fossero le istituzioni di garanzia il vero problema del Paese), e al Pd come principale nemico, secondo la tradizione consolidata della peggior sinistra, per cui il vero avversario è il tuo compagno. Attraverso questo meccanismo che ha sostituito gli "idoli" dello spettacolo ai leader, trasformando il loro linguaggio in discorso politico e riducendo i cittadini a spettatori che applaudono, si è rotta la cornice istituzionalmente drammatica in cui si sta compiendo la prova di forza di Berlusconi. Anzi, si è persa l’"eccezionalità" di quanto la nuova destra berlusconiana sta facendo, l’unicità di questo passaggio, smarrito nella denuncia antipolitica grillina che urlando vuole tutti uguali: dunque Berlusconi è come gli altri e tutti insieme sono "un comitato d’affari", col risultato che lo show convince il cittadino della sua impotenza, lo depriva della sua scelta di partecipare, depotenzia la sua reazione di ogni qualità politica, infine lo restituisce al privato con la convinzione che ogni azione pubblica collettiva è impossibile, peggio, inutile. Salvo battere le mani all’idolo che urla a vuoto, contro tutti e nessuno.
Si possono recuperare le ragioni che hanno portato quei cittadini in piazza, provando a dar loro un indirizzo politico, un percorso democratico, uno sbocco possibile? Molti "girotondi" hanno capito i limiti dell’antipolitica, che probabilmente ha consumato qui la sua stagione. Il Pd dovrebbe aver compreso che il vuoto della politica, anche lui genera mostri, e bisogna costruire un orizzonte riformista che sappia mobilitare e rispondere, dando radicalità ai valori e ai diritti, soprattutto quando sono sotto attacco. La sinistra sparsa, il centro cattolico, i moderati che non accettano il passaggio di sovranità hanno a disposizione un’idea semplice e necessaria: la democrazia come idea comune, nell’Italia sfortunata del 2008.
* la Repubblica, 11 luglio 2008.
Il male minore
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 11/7/2008)
Il lodo Alfano, diretto ad assicurare una copertura immunitaria alle quattro più alte cariche dello Stato mediante la sospensione temporanea dei processi nei quali esse dovessero risultare imputate, è stato approvato a tempo di record dalla Camera. Ora si attende che venga approvato con uguale velocità dal Senato.
Si tratta di una peculiare manifestazione di rapidità. Qualcuno ha, anzi, parlato di un’oggettiva forzatura della normale tempistica parlamentare. Alle spalle c’è, evidentemente, l’ansia irrefrenabile di salvaguardare a tutti i costi la figura del presidente del Consiglio, sottoposto a Milano ad un processo per corruzione in atti giudiziari che, a giudizio dei suoi, non può né deve, per il bene dello Stato, rischiare di chiudersi con una condanna infamante. Che cosa ne sarebbe infatti, se ciò accadesse, della credibilità internazionale del Paese e della tenuta del governo?
La vicenda politica che si è dipanata nelle ultime settimane attorno alla questione Berlusconi è sconcertante. In un primo tempo la maggioranza ha inserito nel decreto sicurezza, in discussione al Senato, un emendamento volto a sospendere per un anno tutti i processi relativi ai reati puniti con pena massima di anni dieci commessi fino al 30 giugno 2002. Si trattava di un provvedimento abnorme, destinato a bloccare automaticamente migliaia di processi (molti concernenti reati gravi, fra i quali, appunto, la corruzione), che, se definitivamente approvato, avrebbe avuto effetti dirompenti nei confronti dell’ordinato esercizio della giurisdizione.
Un provvedimento tanto impresentabile sul piano costituzionale quanto foriero di gravissime future disfunzioni per la macchina della giustizia.
Quasi contemporaneamente, la maggioranza ha pensato di riproporre, emendato, il vecchio lodo Schifani, a suo tempo già approvato da un Parlamento targato Berlusconi, ma dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale. Il ministro Alfano ha ricevuto mandato vincolante in questo senso: rivedere e correggere il lodo in modo da eludere, se possibile, le censure della Corte. Mandato prontamente eseguito: nuovo lodo e sua immediata approvazione da parte del governo. Ecco pronto, pertanto, il cosiddetto lodo Alfano, subito, peraltro, giudicato da numerosi autorevoli costituzionalisti a sua volta irrimediabilmente illegittimo sul terreno costituzionale.
Il disegno politico legislativo a questo punto era trasparente. Con l’emendamento salva-processi inserito nel decreto sicurezza, che avrebbe dovuto necessariamente essere approvato entro luglio pena la sua decadenza, si intendeva tamponare per l’immediato il rischio condanna del presidente del Consiglio. Con la successiva approvazione del lodo Alfano si sarebbe sistemata definitivamente, per il quinquennio di governo, l’immunità del Cavaliere. Dal punto di vista di costui, un disegno geniale. Peccato che, così operando, si rischiava di danneggiare definitivamente l’esercizio della giurisdizione ordinaria appannando la legalità del Paese.
Poi, improvvisamente, la strategia è cambiata. Con l’inversione dei tempi della loro rispettiva trattazione si è anticipata, alla Camera, l’approvazione del lodo Alfano rispetto a quella del decreto sicurezza contenente l’emendamento blocca-processi. Il nuovo obiettivo è evidente. Se l’operazione «anticipazione» dovesse riuscire anche al Senato, il presidente del Consiglio, per effetto del lodo, sarebbe comunque liberato, quantomeno fino ad un’eventuale nuova dichiarazione d’illegittimità da parte della Corte Costituzionale, dal rischio di condanne penali. L’emendamento blocca-processi potrebbe essere pertanto, a questo punto, tranquillamente accantonato o essere sostituito da una disciplina meno dirompente.
Sia pure secondo la logica del meno peggio, nell’attuale temperie politica il risultato cui si perverrebbe sarebbe comunque, in certa misura, apprezzabile. Il Cavaliere si sottrarrebbe in ogni caso, in un modo che numerosi costituzionalisti hanno giudicato assolutamente illegittimo, al normale esercizio della giustizia penale con la sospensione dei suoi processi per la durata della carica. Ma, quantomeno, questa conseguenza non avverrebbe al prezzo, drammatico, della contemporanea abnorme sospensione di migliaia di altri processi. Ieri La Stampa ha pubblicato, d’altro canto, la notizia secondo cui la maggioranza si appresterebbe a modificare in modo radicale, come segnale di pace, l’emendamento blocca-processi: via la sospensione automatica, la sospensione dovrebbe riguardare soltanto i processi concernenti reati con pena massima di 3 anni, via la tagliola del 30 giugno 2002, mentre ci si ricollegherebbe alla data dell’indulto, cioè al maggio 2006.
Se così fosse, per lo meno sul versante della normale amministrazione della giustizia il quadro sarebbe ricomposto. Anzi, la nuova disciplina consentirebbe, positivamente, di non celebrare i processi che è in ogni caso inutile celebrare perché la pena che potrebbe essere inflitta (massimo 3 anni) sarebbe comunque totalmente cancellata dall’indulto. Un piccolo granello positivo in un quadro di grandissima tristezza complessiva. Di questi tempi sarebbe tuttavia già qualcosa.