[...] il governo ha presentato al Parlamento un disegno di legge che propone nuove norme sulla cittadinanza. È un testo che associa all’idea tradizionale di appartenenza alla comunità italiana, tutta ancorata al legame di sangue, una concezione più dinamica, più inclusiva, che guarda all’effettivo inserimento della persona nel tessuto economico, sociale, politico del Paese. In un tempo in cui l’immigrazione sta modificando questo tessuto, quel testo guarda alla presenza degli immigrati che nascono, crescono, si stabiliscono regolarmente sul nostro territorio senza voler mantenere a lungo nei loro confronti quelle divisioni che non aiutano a «fare» con loro comunità.
Ma perchè questo avvenga occorre che il segno formale della cittadinanza coincida con una sostanziale condivisione delle regole fondamentali, dei principi inderogabili che consentono di stare insieme. Tra questi c’è il rispetto dei diritti delle donne. E c’è il rispetto dei diritti delle bambine e dei bambini[...]
Le donne, la violenza, la responsabilità
di Marcella Lucidi*
Le cronache più recenti ci hanno raccontato storie di donne «tra noi», che hanno vissuto il loro dolore, la loro sofferenza abitando nella casa accanto, dentro una società nella quale a fatica volevano inserirsi. Ci hanno parlato della morte di Hina, ammazzata ad agosto dagli uomini della sua famiglia, della donna di Bologna, uccisa dal marito perché incinta, e del suicidio di Kaur, vedova, che rifiutava di continuare a vivere con il marito impostole.
Ci resta dentro l’impressione della violenza che queste donne hanno subito, sconfitte nella loro voglia di reagire, una violenza inaccettabile come tutte le violenze che vengono commesse contro le donne e i bambini.
La violenza ci sconvolge, ci deve sconvolgere. È la dimensione intollerabile del gesto umano. Non può essere la dimensione di un legame. È il fallimento del rapporto, la sua negazione.
Abbiamo tutti il dovere di non sentirci estranei, ed anche di indagare su quanto essa stia pervadendo le relazioni nella nostra società. A riguardo, il diritto italiano esprime un giudizio severo, rigoroso di condanna. Chi conosce la storia del nostro diritto penale sa che solo vincendo tante resistenze è giunto a «schierarsi» decisamente contro la violenza alle donne e ai bambini, quella sessuale, quella commessa tra le mura domestiche, a chiamare per nome l’autore e la sua vittima, difendendola, reagendo con determinazione agli abusi.
Nei giorni della tragedia di Brescia qualcuno ha ricordato la brutta figura criminosa del delitto per causa d’onore, una forma attenuata di omicidio doloso che soltanto venticinque anni fa si decise di cancellare dal nostro codice penale. E la memoria ci può riportare anche al 1996, quando a seguito di una faticosa battaglia parlamentare che impegnò fortemente le donne, la violenza sessuale smise di essere considerata reato contro la moralità pubblica e il buon costume per diventare reato contro la persona, contro la sua libertà. Di lì in avanti, sono state scritte leggi importanti contro la tratta degli esseri umani, contro lo sfruttamento sessuale dei minori, contro la violenza nelle relazioni familiari.
In dieci anni, sulla violenza, il diritto ha accelerato il passo, ha cambiato il suo linguaggio per parlare diversamente alla società. Credo che ci sia ancora materia sulla quale impegnarsi. Penso ai reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare, di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, di maltrattamento in famiglia o verso i fanciulli, di sottrazione di minori o di persone incapaci: è giunto il tempo di dire che anche per questi casi esistono vittime in carne e ossa, che sono loro il bene giuridico da proteggere e non gli astratti ordine morale delle famiglie o retto esercizio dei poteri disciplinari ovvero la potestà genitoriale.
Ora, è evidente che la strada che il nostro diritto ha percorso, e deve continuare a percorrere, certamente non gli basta a fermare la mano di chi procura sofferenza o morte, ma dice con chiarezza da quale parte sta la comunità, lo Stato, decisamente al fianco della vittima, a favore della libertà che ogni persona ha di decidere, di scegliere la sua vita, e del suo bisogno, quando è debole, di ricevere tutela, protezione. Ne emerge una concezione del rapporto tra le persone che rifiuta il modello proprietario, egoista, un nuovo codice delle relazioni che individua nel riconoscimento positivo dell’altra/altro da sé, nel rispetto della persona un principio inderogabile, pertanto universale.
Come si può, giunti a questo punto dell’elaborazione giuridica, non essere intransigenti e non esigere intransigenza? Come si può pensare di stare dentro la stessa comunità senza condividere questo valore? È certo che la questione non interessa, soltanto, chi, oggi, chiede ingresso nella comunità, chi vuole diventare cittadino. Essa investe chiunque voglia stringere o vivere il legame di appartenenza, anzi riguarda l’idea stessa di comunità, è un suo carattere fondativo. Ma è necessario che su questo non ci siano riserve, di nessun tipo.
Nel mese di luglio il governo ha presentato al Parlamento un disegno di legge che propone nuove norme sulla cittadinanza. È un testo che associa all’idea tradizionale di appartenenza alla comunità italiana, tutta ancorata al legame di sangue, una concezione più dinamica, più inclusiva, che guarda all’effettivo inserimento della persona nel tessuto economico, sociale, politico del Paese. In un tempo in cui l’immigrazione sta modificando questo tessuto, quel testo guarda alla presenza degli immigrati che nascono, crescono, si stabiliscono regolarmente sul nostro territorio senza voler mantenere a lungo nei loro confronti quelle divisioni che non aiutano a «fare» con loro comunità.
Ma perchè questo avvenga occorre che il segno formale della cittadinanza coincida con una sostanziale condivisione delle regole fondamentali, dei principi inderogabili che consentono di stare insieme. Tra questi c’è il rispetto dei diritti delle donne. E c’è il rispetto dei diritti delle bambine e dei bambini.
Sarebbe davvero utile se la recente cronaca di violenze non servisse a mantenere, nel dibattito pubblico, l’idea che, nonostante tutto quel che si vuol fare- riforma della cittadinanza compresa- su questi diritti ci sono «riserve» invalicabili, filtri culturali, religiosi o tribali che continueranno ad impedire di sentirli come valore.
Ma, allora, serve uno sforzo che coinvolga più soggetti in un patto. Il ministro Amato ha già interpellato, a riguardo, la Consulta islamica. Avverto l’esigenza che tutte le comunità di immigrati presenti nel nostro Paese si sentano sollecitate, perché i diritti delle donne e dell’infanzia possano vivere dentro la società italiana che è già multietnica, siano diritto e cultura, iniziativa sociale, politica, portata avanti da italiani e immigrati insieme, perché insieme già crescono i loro figli nelle scuole e insieme - come il progetto di legge sulla cittadinanza registra - quei ragazzi e quelle ragazze sono il segno di una comune nuova generazione.
www.unita.it, Pubblicato il: 07.09.06
Modificato il: 07.09.06 alle ore 9.02
Napolitano: follia negare la cittadinanza ai figli di immigrati
di Umberto Rosso (la Repubblica, 23 novembre 2011)
Occorre dare, fin dalla nascita, la cittadinanza ai figli degli immigrati stranieri nati in Italia. Non farlo «non so se definirla un’autentica follia, un’assurdità». È l’affondo del presidente della Repubblica Napolitano. Dura la replica della Lega: pronti alle barricate. Per il Pdl il governo è a rischio.
«Non so come definirla, un’autentica follia, un’assurdità. Questo è il non concedere la cittadinanza ai bambini figli di immigrati che sono nati in Italia ma che non diventano italiani». Per la seconda volta, nel giro di pochi giorni, Giorgio Napolitano torna a invocare la nuova legge sul diritto di cittadinanza. E al Quirinale, incontrando le chiese evangeliche, ha tirato fuori stavolta toni decisi e fuori ordinanza proprio per «inchiodare» i partiti alla necessità urgente di una riforma che introduca lo «ius soli», il diritto acquisito in base al luogo di nascita e non al paese di origine dei genitori.
Obiettivo centrato, perché la sollecitazione ha rimesso all’ordine del giorno la questione, ma con la neo maggioranza di governo che si spacca sul da farsi. Tanto che arrivano perfino minacce di rappresaglia sulle sorti del governo Monti da parte del centrodestra. Il Pd invece accoglie in pieno il richiamo di Napolitano, «un’esigenza di civiltà che noi siamo pronti ad approvare entro Natale» garantisce il capogruppo Franceschini. Già depositato dai democratici un disegno di legge firmato da 113 parlamentari. Così come totalmente d’accordo con il capo dello Stato si dicono Terzo Polo e Idv. «Lasciamo da parte le contingenze elettorali su questioni come queste», propone Casini. Sì dal ministro Riccardi: «I nuovi nati sono cittadini italiani».
Al contrario, reazioni rabbiose contro il capo dello Stato della Lega, pronta «alle barricate» per non far passare una legge che «stravolgerebbe la Costituzione», sostiene l’ex ministro Maroni. «Napolitano sta esagerando», accusa l’eurodeputato Salvini. E l’altro ex ministro del Carroccio, Calderoli, replica che vera follia sarebbe non applicare più lo «ius sanguinis», e legge perfino nelle parole di Napolitano un mero espediente per dare la caccia ai voti degli immigrati: «Non vorrei che questa idea altro non sia che il cavallo di Troia che, utilizzando l’immagine dei «poveri bambini», punti invece ad arrivare a dare il voto agli immigrati prima del tempo previsto dalla legge».
Ma, al di là delle battutacce leghiste, resta il Pdl il nodo sensibile per la tenuta delle larghe intese. E qui echeggiano, pur fra differenti posizioni (l’ex ministro Carfagna per esempio è possibilista) e altolà perentori, e si agita il fantasma della crisi di governo se la riforma della cittadinanza non dovesse restare fuori dal programma. «Se qualcuno vuol fare cadere il governo e andare alle elezioni anticipate - minaccia La Russa, coordinatore del Pdl - ha trovato la strada giusta». E Gasparri, capogruppo al Senato: «Questa è una spallata. Il governo Monti è nato solo per occuparsi dell’emergenza economica, Lasci stare il resto».
La replica arriva dal presidente della Camera Fini («Mi pare un modo originale di porre la questione»), che chiede invece di affrontare l’argomento alle Camere: «Sono temi che stanno nell’agenda politica e del Parlamento, spero che il mutato clima che si sta vivendo renda possibile lavorare su questo». Ma con la richiesta del presidente Napolitano si schierano anche molte associazioni, dalla Caritas all’Anci, da Telefono azzurro alle Acli, e i sindacati. Concedere la cittadinanza ai nati nel nostro paese, ha spiegato il capo dello Stato, «dovrebbe corrispondere ad una visione della nostra nazione di acquisire nuove energie per una società invecchiata, se non sclerotizzata». E per Napolitano la nomina di Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, a ministro per la Cooperazione e l’Integrazione, segnala «la possibilità di riprendere le politiche di integrazione che hanno uno sviluppo ormai lontano». Ovvero, quella riforma del ‘98 che porta proprio, insieme a Livia Turco, la firma dell’attuale presidente della Repubblica.
Quei ragazzi nel limbo
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 23 novembre 2011)
Instancabilmente il presidente Giorgio Napolitano richiama la classe politica al dovere della responsabilità in tutti i settori cruciali per il futuro del Paese, quindi necessariamente anche per le condizioni in cui si trovano a crescere e operare le nuove generazioni, inclusi i bambini e adolescenti legalmente stranieri. Stranieri ma di fatto italianissimi per autoidentificazione ed esperienza quotidiana. A due riprese nel giro di pochi giorni, il Presidente ne ha denunciato con nettezza lo status di cittadini dimezzati, che li colloca in una sorta di limbo del diritto, di persone senza territorio e senza appartenenza.
I minori nati in Italia da genitori entrambi stranieri e residenti nel nostro Paese sono oltre mezzo milione. Il loro numero è raddoppiato dal 2000, quando erano 277 mila. Costituiscono ormai quasi il 14% dei bambini che nascono ogni anno in Italia. In un Paese che invecchia rapidamente a causa della bassissima fecondità, si tratta di numeri importanti e di una risorsa umana preziosa. Tuttavia il nostro ordinamento continua a considerarli con indifferenza, quando non ostilità. Insieme ai bambini e ragazzi che sono nati altrove, ma stanno vivendo tutta la loro infanzia e adolescenza nel nostro Paese, condividendo lingua e abitudini con i loro coetanei autoctoni, i minori "stranieri" nati in Italia, infatti, vivono in una sorta di condizione sospesa per quanto riguarda la cittadinanza e i diritti ad essa connessi. La legge italiana li costringe in uno statuto di apolidi di fatto, se non di principio, con tutte le restrizioni che questo comporta. Se per qualche motivo i loro genitori perdono il diritto di soggiorno, ne seguono il destino, anche se l’Italia è l’unico paese che conoscono e in cui sono cresciuti. Ed è meglio che non passino lunghi periodi fuori Italia, per uno stage formativo o per stare con parenti rimasti nel paese d’origine, se non vogliono rischiare di perdere il diritto a chiedere la cittadinanza. Mentre a un giovane nato e cresciuto all’estero da genitori italiani che magari non hanno mai vissuto in Italia bastano due anni di soggiorno ininterrotto in Italia per ottenere la cittadinanza, ne occorrono diciotto ad uno figlio di stranieri nato e vissuto nel nostro paese, di cui ha frequentato le scuole, conosce la lingua e acquisito lo stile di vita e le norme di convivenza sociale.
Sono i paradossi dello jus sanguinis, che concepisce la nazionalità come una sorta di gene che si trasmette per via ereditaria e non per partecipazione quotidiana ad una società. Sospesi tra due mondi, i bambini e adolescenti stranieri che nascono e crescono nel nostro Paese non appartengono a nessuno dei due: uno non lo conoscono, l’altro non li riconosce. L’esperienza di essere straniero nel loro caso è estrema; perché non c’è patria cui si possano sentire pienamente appartenenti. Si tratta di un’esperienza difficile anche per un adulto, ma che per una persona impegnata nella definizione della propria identità e nella individuazione del proprio posto nel mondo costituisce un handicap inutilmente gravoso. Può anche innescare processi di rifiuto, di estremizzazione difensiva della propria non appartenenza, con grave danno per tutti.
Sono ormai anni che si discute di una riforma della legge del 1992 sulla cittadinanza, in particolare, anche se non esclusivamente, per quanto riguarda chi è nato in Italia o comunque vi ha frequentato le scuole. Chissà se il Parlamento, liberato dalla necessità di discutere di provvedimenti di legge ad personam, troverà il tempo e il senso di responsabilità per approvare finalmente norme più civili e lungimiranti nei confronti dei ragazzi che crescono tra noi e con noi e che, con i nostri, sono il presente e il futuro del Paese. Solo se smettiamo di considerarli stranieri di passaggio, e anzi investiamo su di loro e sul loro desiderio di appartenenza, possiamo aspettarci da loro, come da tutti, che si impegnino lealmente per il nostro comune Paese. A differenza di quanto fanno i leghisti, per i quali l’appartenenza nazionale è solo un’arma da giocare contro gli immigrati, ma da rifiutare per tutto il resto.
IL CASO
Immigrati, Napolitano: "Cittadinanza ai bambini"
La Lega: "Così si stravolge la Costituzione"
Il capo dello Stato interviene con decisione sul problema dei figli di stranieri nati in Italia e auspica un intervento del Parlamento. La Russa: "Così si fa cadere governo". Maroni e Calderoli: "Pronti alle barricate". Cicchitto: "Così si mette a rischio la vita del governo". Ampio il fronte del sì, dall’Udc a Sel. Il Pd: "Serve legge urgente". Fini :"Quando ne parlai io mi diedero del compagno" *
ROMA - A pochi giorni dalla nascita del governo Monti, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, affronta con decisione uno dei temi che, risollevato da Bersani durante la dichiarazione di fiducia al nuovo esecutivo, aveva suscitato dure polemiche da parte di Lega e Pdl: la cittadinanza ai figli degli immigrati 1 nati in Italia. "Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un’autentica follia, un’assurdità. I bambini hanno questa aspirazione", ha detto Napolitano durante l’incontro al Quirinale con la Federazione delle chiese evangeliche.
Maggiori possibilità di confronto politico. Per quanto, poi, riguarda il clima politico, nel Paese, il presidente della Repubblica ha tenuto a sottolineare che ora ci sono maggiori possibilità di confronto anche se "non credo che in pochi giorni il mare in tempesta sia diventato una tavola. È un po’ incrinato, un po’ mosso, ma credo ci siano maggiori possibilità di confronto fra gli schieramenti", ha concluso.
Bersani e gli immigrati VIDEO 2 - "Cari leghisti, abbiamo centinaia di migliaia di figli di immigrati che pagano le tasse, vanno a scuola e parlano italiano e che non sono né immigrati né italiani, non sanno chi sono. È una una vergogna", aveva detto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, alla Camera durante la dichiarazione del voto di fiducia a Monti. L’intervento, contestato dai banchi della Lega anche in Aula, aveva scatenato le reazioni polemiche anche dei vertici del Pdl.
Il no di Lega e Pdl - "La vera follia sarebbe quella di concedere la cittadinanza basandosi sullo ’ius soli’ e non sullo ’ius sanguinis’, come prevede invece oggi la legge - dice oggi l’ex ministro Roberto Calderoli, coordinatore delle segreterie nazionali della Lega Nord - . La Lega su questa materia è pronta a fare le barricate in Parlamento e nelle piazze. E non vorrei che questa idea altro non sia che il ’cavallo di Troia’ che, utilizzando l’immagine dei ’poveri bambini’, punti invece ad arrivare a dare il voto agli immigrati prima del tempo previsto dalla legge...". Ancora più dure le parole di Roberto Maroni. Secondo l’ex ministro dell’Interno, un intervento per dare la cittadinanza ai figli di stranieri sulla base del principio dello ’ius soli’ "sarebbe uno stravolgimento dei principi contenuti nella Costituzione". E la Lega, aggiunge, "è fermamente contraria".
Nessun margine di trattativa neanche dall’area dei "falchi" del Pdl: "Non si possono affrontare le leggi sulla cittadinanza a spallate e con semplificazioni che francamente rischiano di complicare e non di semplificare la vicenda - dice il capo dei senatori, Maurizio Gasparri - . Non è una follia che in Italia viga il principio dello ius sanguinis e non quello dello ius soli. E’ così in tante parti del mondo. Ci si può confrontare, si può discutere ma siamo in tanti a ritenere assolutamente inopportuno passare al regime di ius soli, riconoscendo la cittadinanza a chiunque nasca in Italia. Questa sì che sarebbe una scelta assurda, che il Parlamento non farà". Simile il parere di Ignazio La Russa: "Se c’è qualcuno che fa finta di sostenere appassionatamente Monti, ma in realtà vuole già creare le condizioni perché cada subito ha trovato la strada giusta: quella di proporre che questo governo affronti il tema della legge sulla cittadinanza". Lapidario Fabrizio Cicchitto: "Il tema della cittadinanza è fuori dall’agenda del governo e ci auguriamo che non ci siano forzature perchè altrimenti anche noi proporremo altri temi come la giustizia e le intercettazioni che sono fuori dall’agenda economica del governo". Del resto, ricorda Cicchitto, "il tema è già stato sollevato dal Pd in Parlamento e c’è stato dissenso. Porre ora un argomento sul quale c’è il dissenso del Pdl significa ostacolare la vita del governo", conclude.
Il fronte del sì - "Le parole del presidente della Repubblica ci spingono a legiferare con urgenza", ha detto Dario Franceschini, presidente dei deputati Pd. "Il tema è talmente un’esigenza di civiltà che vorremmo non diventasse un tema di scontro politico, ma invece un elemento unificante; anche per questo - aggiunge - sin da marzo il Pd ha presentato una proposta di legge per stralciare dalle norme complessive sulla cittadinanza soltanto i diritti dei bambini nati in Italia. Ripeto, la nostra volontà è costruire un’intesa tra le forze che sostengono il governo Monti e non quella di inserire su un tema così delicato un elemento di divisione".
’’Condivido pienamente’’ l’appello del presidente, ha detto il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, per il quale ’’è un’assurdità e una follia che dei bambini nati in Italia non diventino italiani. Non viene riconosciuto loro un diritto fondamentale’’.
"Il governo assecondi le proposte di legge presentate in Parlamento che vanno nella direzione indicata dal presidente Napolitano - dice il capogruppo dell’Italia dei valori in Senato, Felice Belisario - . Il riconoscimento della cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia è una questione prioritaria, che deve essere affrontata entro questa legislatura".
Condivisione piena su quanto affermato da Napolitano arriva da Fli: "Fli condivide in pieno le considerazioni fatte dal presidente in merito al diritto di cittadinanza dei figli di immigrati nati sul suolo italiano - dice l’eurodeputato Potito Salatto, membro dell’ufficio di presidenza nazionale di Fli - . Perciò, d’intesa con i parlamentari di Futuro e libertà nazionali ed europei, stiamo organizzando una raccolta di firme per dare vita a una petizione popolare che spinga verso il riconoscimento di tale diritto". Gianfranco Fini ricorda che gli venne affibbiato l’epiteto di ’compagno’ quando, appartenendo ancora al Pdl, iniziò a parlare del diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati. "Ora possiamo discuterne. Questi sono temi che devono stare nell’agenda del Parlamento", dice.
Sottolinea "l’’assoluta saggezza e la straordinaria modernità" delle parole del capo dello Stato anche Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà: "I bambini e le bambine dei migranti non sono figli di un Dio minore". L’intervento del presidente della Repubblica, mai così deciso nella forma malgrado i frequenti richiami di Giorgio Napolitano alla questione, potrebbe ora far diventare il tema dello Jus soli oggetto di confronto fra il nuovo governo e le forze che lo sostengono in Parlamento. Dopo l’intervento di Napolitano, il senatore del Pd Ignazio Marino, ha depositato un disegno legge firmato da 113 senatori (tutto il Pd, Idv e alcuni del Terzo Polo) che modifica la legge del 1992 e assegna la cittadinanza ad ogni nato in Italia indipendentemente da quella dei genitori.
* la Repubblica, 22 novembre 2011
ROMA, AL VOTO 155MILA STRANIERI
ROMA - Alle 18 sono stati 13.664 gli extracomunitari, pari all’8,79% dei 155.534 aventi diritto che vivono a Roma per motivi di lavoro o di studio, che oggi hanno votato per rinnovare i consiglieri aggiunti, ovvero i rappresentanti degli stranieri nelle istituzioni cittadine della Capitale, consiglio comunale e municipi. Le urne si chiuderanno alle 22. Degli oltre 13 mila, 6.241 sono uomini e 7.423 donne, che dovranno scegliere 23 candidati: 19 rappresentanti nei consigli dei municipi e quattro in consiglio comunale (uno per ogni continente, Asia e Oceania sono accorpate), ma con una novità: diventeranno cinque se i primi quattro eletti saranno tutti dello stesso sesso a tutela delle pari opportunità.
E’ la seconda volta che i "romani di ogni continente" vanno alle urne: le prime elezioni risalgono al marzo del 2004. Questa volta il Comune di Roma ha scelto una data simbolica per le elezioni poiché il 10 dicembre è la giornata mondiale dei diritti umani e, è stato spiegato, "dare voce istituzionale agli stranieri di Roma è prima di tutto un modo concreto per riconoscere e attuare i loro diritti, sanciti dalla comunità internazionale e dalla Costituzione italiana".
Complessivamente si sono presentati 154 candidati (i più numerosi sono gli asiatici): 41 concorrono per il consiglio comunale e 113 per i municipi. I consiglieri aggiunti in base allo statuto del Comune hanno funzioni consultive, ma possono proporre delibere, ordini del giorno e mozioni. I primi trenta non eletti andranno a costituire la Consulta cittadina delle comunità straniere.
"Mi auguro che governo e maggioranza approvino una legge che consenta il diritto di voto alle elezioni amministrative per gli immigrati", è l’auspicio espresso oggi dal sindaco di Roma Walter Veltroni che in mattinata è andato a visitare un seggio. "C’é anche la disponibilità del presidente di Alleanza Nazionale su questo tipo di legge - ha ricordato Veltroni - e quindi è un provvedimento che si può votare bipartisan aumentando l’integrazione degli immigrati che vivono e lavorano nelle nostre città. Spero che sia l’ultima volta che si vota con questo tipo di elezione".
ANSA » 2006-12-10 13:00
Immigrazione, Prodi: «La cittadinanza è un diritto»
di Paola Zanca *
A discutere del XVI rapporto sull’immigrazione in Italia realizzato da Caritas-Migrantes presentato mercoledì a Roma, non c’è il ministro dell’Interno Giuliano Amato. C’è Romano Prodi, presidente del Consiglio. E non si tratta di una scelta casuale, ma di un’intenzionale volontà di ripensare alle politiche migratorie non guardando solo alle questure. «L’interfaccia dell’immigrato con il nostro paese - ha esordito il primo ministro - non può essere la questura, ma deve diventare l’ente locale, il comune, l’associazionismo». Insomma, considerare l’immigrazione come fatto strutturale, sistemico, che coinvolge non solo le forze di polizia ma il welfare, l’istruzione, la sanità, a livello sia nazionale che locale. Per questo Romano Prodi ha scelto di venire di persona, per rappresentare tutti i suoi ministri, tutti gli amministratori che sono chiamati ad affrontare un fenomeno che ha già grandi proporzioni e che si duplicherà nei prossimi 10 anni.
Sì, perché il dossier curato dalla Caritas, che si avvale di una rete capillare di centri d’ascolto disseminati sul territorio nazionale, disegna quello che sarà il destino italiano: se oggi sono 3 milioni i soggiornanti regolari nel nostro paese - in particolare rumeni, albanesi, marocchini, ucraini e cinesi - nel 2016 diventeranno il doppio. Non solo perché i flussi migratori non accennano a diminuire, ma anche per i ricongiungimenti familiari e per le nuove nascite: gli immigrati andranno così ad invertire il trend della nostra crescita demografica - nel giro di quarant’anni si stima che il 35 degli italiani sarà over65 - contribuendo a mantenere giovane la nostra popolazione.
Ma non solo: i dati che emergono dal rapporto Caritas sull’immigrazione mostrano come il rapporto tra italiani e migranti non sia concorrenziale, ma garantisca una vera e propria sostituzione in settori dove gli italiani non lavorano più. Ad esempio sono quasi 125 mila gli immigrati occupati regolarmente in agricoltura - il 13% per cento del totale - che contribuiscono in modo determinante all’economia agricola italiana: è il caso della raccolta delle fragole nel veronese, delle mele in Trentino, della frutta in Emilia Romagna, dell’uva in Piemonte, del tabacco in Umbria e Toscana o del pomodoro in Puglia. Situazioni analoghe a quelle di altri settori, come l’edilizia e l’assistenza sanitaria, dove le badanti si prendono cura di oltre 2 milioni di persone non autosufficienti.
Persone che lavorano e che, ha spiegato Prodi, «leggi precedenti hanno obbligato ad essere clandestine e che, se si comportano rispettando le regole della nostra comunità, debbono avere il diritto di diventare cittadini italiani». Le ricette per far emergere questi lavoratori e lavoratrici dalla clandestinità e garantire un ingresso legale a chi arriva nel nostro paese, Prodi le spiega in maniera semplice e concreta: snellire gli adempimenti amministrativi, stabilire quote annuali realistiche, reintrodurre la figura dello sponsor, creare degli strumenti come il permesso di soggiorno per ricerca di lavoro, evitare i ghetti residenziali, effettuare una programmazione triennale che tenga conto delle indicazioni del mercato del lavoro: «Non si può lanciare l’allarme immigrati di giorno e chiedere la manodopera di notte» ha ammonito il premier, «bisogna rendere flessibile la legalità». Ma c’è anche un’altra strada: il nostro paese deve essere in grado di attrarre immigrazione qualificata: «Nelle nostre università - ha detto Prodi - ci sono solo 38 mila studenti e ricercatori stranieri, dobbiamo raggiungere la varietà culturale degli altri paesi europei».
Già, l’Europa. Le politiche migratorie per avere successo non possono svilupparsi senza il concerto dell’UE. Soprattutto ora che l’allargamento è in vista: «I flussi migratori dalla Bulgaria e dalla Romania sono un problema serio - ha spiegato il presidente del Consiglio - e trovare solidarietà sul tema del Nord e del Sud dell’Europa è ancora molto complicato».
*
www.unita.it, Pubblicato il: 25.10.06 Modificato il: 25.10.06 alle ore 15.26
Culture e convivenze
Multiculturalismo e conflitto tra i sessi
di Bianca M. Pomeranzi (Liberazione, 08.09.2006)
Il dibattito sulla violenza nei confronti delle donne sta coinvolgendo progressivamente il tema della convivenza tra le diverse comunità etniche, sempre più visibili nel nostro paese. Anzi, sembra quasi che nel caso della violenza sessuale alle italiane come nella violenza di genere contro le migranti sia sempre in gioco l’“altro patriarcato”, quello che viene dal Sud del mondo e riduce le donne a soggetti totalmente vulnerabili.
Recentemente, anche autrici serie, come Elisabetta Rasy sul Corriere della Sera, non hanno perso occasione di denigrare il “multiculturalismo femminista” che non osa prendere parola sulla mancanza di libertà delle straniere migranti. Su questo, concordo con quanto ha scritto Monica Lanfranco proprio su questo giornale, citando le voci delle donne migranti in altri paesi occidentali con una storia molto più lunga del nostro in materia, che da tempo hanno svelato come un certo tipo di multiculturalismo sia spesso un “contratto tra patriarcati”, che rimuove e allontana il conflitto di sesso.
Prendere posizione su un tema così complesso comunque, non è semplice e richiede un “salto epistemologico” che solo alcune pratiche politiche stanno iniziando a compiere. D’altronde, l’incapacità è diffusa nella cultura politica italiana corrente, particolarmente arretrata anche a causa dell’imbarbarimento culturale subito nel quinquennio berlusconiano. Di questo imbarbarimento fa parte un uso improprio della retorica sulle donne migranti “vittime”, lanciato dalle rappresentanti istituzionali del governo di destra che avevano fatto della “tutela delle donne” un’arma per criminalizzare le culture dell’immigrazione.
E’ proprio di questo atteggiamento che il movimento delle donne vorrebbe velocemente sbarazzarsi, senza chiudere gli occhi, ovviamente, di fronte al patto patriarcale che trasforma il dialogo tra civiltà in un cupo silenzio sulle condizioni materiali di vita delle donne.
I casi recenti e clamorosi di Hina e di Kaur non possono passare in secondo piano, non possono non essere chiamati per quello che sono: violenze di genere. In un caso, quello di Hina, la nostra legislazione è sufficiente a punire, ma non a prevenire, nell’altro semplicemente nè totalmente inefficace. Perché come ben sanno anche le donne italiane, non ci sono strumenti per resistere alle pressioni patriarcali all’interno della famiglia, se non la presa di coscienza, la presa di parola, e la ribellione.
Occorre dunque riflettere su cosa si può fare per intervenire efficacemente. Su questo le pratiche avviate dalle donne, spesso a livello locale, hanno dimostrato che accanto alle campagne di informazione e di denuncia, vanno costruite strategie di intervento concrete in cui il ruolo del pubblico, locale o nazionale, è quello di sostenere iniziative che valorizzino l’autonomia delle donne migranti anche rispetto alle loro comunità.
Si tratta di una strategia semplice, ma complessa nella sua realizzazione, poiché richiede l’attenzione a una “pratica delle relazioni” che anche una grande parte della politica, schiacciata solo sulla decisionalità istituzionale, non è in grado di comprendere in tutta la sua importanza. La situazione è resa più difficile dal fatto che neanche le associazioni di rappresentanza delle differenti comunità migranti hanno interesse a spezzare il patto patriarcale che sta alla base di un multiculturalismo omertoso sul conflitto tra i sessi (quindi di facciata). L’azione delle “native” - per tornare al titolo di un convegno femminista sull’emigrazione organizzato a Torino più di dieci anni fa - dovrebbe essere quella di mettere in luce l’insostenibilità di quel “patto patriarcale” per tutte le donne che vivono in questo paese.
Mi auguro che gli sciagurati episodi di violenza - verso le italiane e verso le straniere - rimangano tutti, senza distinzione, al centro dell’attenzione mediatica: per fare in modo che il dibattito, aperto tra intellettuali, giornaliste/i, rappresentanti istituzionali e attiviste, non si chiuda relegandoli di nuovo in episodi di cronaca locale. Il giusto scandalo per questi massacri non può tuttavia tradursi in una sbrigativa condanna delle culture “altre”, e deve far riflettere sulle conseguenze della globalizzazione sfrenata che non ha mai tenuto in conto la sostenibilità umana del modello di sviluppo neo-liberale. Fare fronte a questi fenomeni costringe adesso uomini e donne, politica istituzionale e movimenti, a radicali mutamenti di visione e di pratica politica. In questo senso anche la cooperazione verso i paesi del Sud del mondo, può servire a comprendere e a intervenire in modo appropriato e va mantenuta costantemente “in tensione” con quello che accade all’interno del nostro paese.
Cercare di affrontare il problema delle violenze di sesso e di genere in questo nuovo contesto globale impone di mettere in luce l’esperienza delle donne, native e migranti, nel Nord come nel Sud del mondo, per smascherare le connivenze e le gerarchie tra patriarcati. Solo così avremo una possibilità di superare la concezione liberale del multiculturalismo: attraverso una politica delle relazioni e della conoscenza, capace di fornire le basi per una convivenza tra diversi che non offenda i corpi e i desideri di nessuna.
Tra coloro che non sanno leggere e scrivere e chi ha solo licenza media o elementare, oltre la metà della popolazione è in condizione di difficoltà
Quasi sei milioni di analfabeti e il 66% degli italiani è a rischio *
ROMA - Quasi sei milioni di cittadini italiani, il 12% della nostra popolazione (5.981.579 persone per la precisione), sono analfabeti e senza alcun titolo di studio. È quanto emerge da un’inchiesta dell’Università di Castel Sant’Angelo dell’Unla (Unione Nazionale per la Lotta contro l’Analfabetismo) sull’arretratezza e gli squilibri educativi nell’Italia di oggi.
La ricerca, che si basa sui dati del censimento Istat del 2001, mostra come i cittadini italiani per quanto riguarda il livello d’istruzione raggiunta formino una "piramide appuntita": in alto, il 7,5% pari a circa 4 milioni, figurano i laureati; subito sotto coloro che hanno frequentato la scuola superiore (il 25,85% della popolazione). Segue la scuola media (30,12%), mentre il 36,52% dei cittadini hanno frequentato solo la scuola elementare. In particolare, questi ultimi due dati sono molto importanti, perché, essendo le licenze media e elementare insufficienti per affacciarsi sul mondo del lavoro di oggi, se aggregati insieme a quelli degli analfabeti totali si arriva alla cifra impressionante di quasi 36 milioni (il 66% della popolazione) di "ana-alfabeti", e cioè del tutto analfabeti o appena alfabeti.
A livello territoriale, poi, nove regioni (Basilicata in testa, poi Calabria, Molise, Sicilia, Puglia, Abruzzo, Campania, Sardegna, Umbria) si attestano oltre la soglia di allarme dell’8%, calcolata dagli studiosi riguardo alla popolazione senza titolo di studio. Stessa situazione per le città con oltre i 250 mila abitanti: la maggio quantità di "ana-alfabeti" è a Catania, con l’8,4%, seguita da Palermo, Bari e Napoli. A livello mondiale, infine, l’Italia, in base ai dati Ocse 2004, si colloca al terz’ultimo posto nella classifica dei primi trenta paesi più istruiti, seguita solo da Portogallo e Messico.
"Tra il 20 e il 25% di ragazzi e ragazze che escono dalla scuola media inferiore non sa leggere o scrivere, segno inequivocabile che la la scuola dell’obbligo non ha fruttato. Aggredire questa massa significa dare un contributo straordinario al lavoro ordinario della scuola" è il grido d’allarme di Tullio De Mauro, docente di Linguistica all’Università "La Sapienza" di Roma. "L’investimento nella scuola ordinaria - continua De Mauro - deve essere al centro dei nostri pensieri, ma rende dopo anni. L’educazione degli adulti, invece, ritorna immediatamente, e da questo punto di vista è grave la negligenza del governo.
D’accordo anche Sergio Zavoli, giornalista e senatore Ds, che avanza una proposta innovativa: "In un tempo in cui la rivoluzione non è più il cambiamento ma è la velocità di questo, ascoltando questi dati abbiamo appreso che siamo tra i Paesi più attardati rispetto a questo fenomeno. Credo che sia il tempo di realizzare una forte sinergia tra scuola e tv: quest’ultima non solo deve informare, ma comunicare, trasmettere valori. Scuola e tv devono ricostruire un rapporto".
* (la Repubblica, 14 novembre 2005)