"Parole inaccettabili su Liberazione"
E Fausto rompe con l’amico Fagioli
di UMBERTO ROSSO (la Repubblica, 3 gennaio 2009)
CALA il sipario. A Bertinotti il guru non piace più. Addio a Massimo Fagioli, ascoltato santone per quattro anni dell’ex presidente della Camera. E bye-bye anche a Luca Bonaccorsi, discepolo fagiolino tutto di un pezzo, che vorrebbe mettere le mani su Liberazione, il quotidiano di Rifondazione, spronato dal segretario del partito Paolo Ferrero. Proprio l’assalto al giornale e al suo direttore Sansonetti sta sgretolando quelle consolidate amicizie di "politica&psiche". E sta aprendo uno spettacolare controvalzer di legami e alleanze dentro Rifondazione. Con Ferrero lo "stalinista" che ora si ritrova al fianco il protagonista delle sedute di psicanalisi di massa a Trastevere. L’uomo che si è auto-intestata la svolta della non violenza dentro Rifondazione.
Bertinotti invece, dopo giorni di interviste e dichiarazioni del maestro contro Sansonetti ("eterno ragazzino del ’68, praticamente un malato di mente") e Vendola ("non può essere omosessuale, cattolico e comunista allo stesso tempo, va curato"), non ce l’ha fatta più, e ha deciso appunto che era arrivato il momento di prendere le distanze. Se non pubblicamente, almeno dentro il partito. Telefonate e massaggi riservati, affidati ai suoi collaboratori più stretti, per il direttore e il comitato di redazione del giornale.
"Nelle posizioni dei due io, sia chiaro, non mi riconosco affatto. Anzi, sono sconcertato e indignato. Il giornale deve vivere in piena autonomia, che Sansonetti ha garantito fin qui in modo eccellente". Amareggiato dalle manovre in corso al punto che l’ex leader del partito sta provando a tagliare fisicamente i ponti con Bonaccorsi, che della sua rivista "Alternative per il socialismo" è stato fin qui editore.
"In realtà - sottolineano però i redattori del bimestrale - il nostro editore si chiama Editori Riuniti. Bonaccorsi, attraverso Left, lo distribuisce ma l’abbinamento non funziona come dovrebbe, se nelle edicole fuori Roma la rivista è praticamente introvabile. L’accordo va riconsiderato". Uno sganciamento dalla galassia dell’editore cognato di Ivan Gardini (il figlio di Raul ne ha sposato la sorella Ilaria) che le polemiche di questi giorni stanno accelerando. In considerazione del fatto che, secondo le confidenze di Bertinotti, il piano che il fagiolino e il suo guru hanno in testa sarebbe il seguente. "Il senso dell’intera operazione sta nella stravagante proposta del doppio direttore. Uno per la politica, che diventerà così il commissario dell’attuale segretario. L’altro che sovrintende alla parte culturale e informativa. E qui si corre il rischio di creare un corpo separato". Insomma, da una parte nelle mani di Ferrero, dall’altra il pericolo di una presa del potere dei fagiolini a Liberazione, trasformata in una specie di house-organ del guru romano.
I ricordi dei bei tempi a questo punto si fanno lontani e sfumati. Una storia cominciata una mattina del 2004, quando a Villa Piccolomini di Roma, presente anche Ingrao, scoppiò per la prima volta la scintilla. Bertinotti portato in trionfo dai fagiolini per il suo socialismo nuovo: sul sito restano ancora le parole di celebrazione dello psicanalista "mai prima d’ora qualcuno aveva, fra comunismo e libertà, messo le parole: realtà umana". Da quel momento i due diventano quasi coppia fissa.
Fagioli va ai congressi di Rifondazione, Bertinotti ospite d’onore alla libreria Amore&Psiche, il quartier generale al Pantheon del gran cerimoniere, che allarga i suoi consulti a dieci euro ai rifondaroli in crisi di identità. Certo qualche "stranezza" l’avevano notata, come quando Fagioli chiese all’allibito Sansonetti di licenziare in tronco la responsabile della cultura per due pagine su Freud, "quel cretino, quel criminale di Sigmund: la giornalista va cacciata".
Ora sugli scogli dell’assalto a Liberazione naufragano rapporti politici e personali. Perché, come dice l’ex capogruppo alla Camera Gennaro Migliore, che pure dei fagiolini è stato un fan, "se ti presti a certe operazioni politiche poi saltano anche i rapporti umani".
Egr. dott.
...
come ha ben intuito la Sua ipotesi di lettura del percorso di E. De Martino mi trova con-senziente e disponibile: è interessante e preziosa, sia per se stessa sia per la connessione che essa ha con la linea della mia stessa ricerca *
Detto questo, però, il mio invito è quello di non fermarsi e di scavare di più e meglio. E con questo, senza mezzi termini e velocemente, il consiglio è: "se sulla tua strada incontri il Buddha, uccidilo" (il titolo di un libro molto interessante apparso anni fa nelle edizioni Astrolabio).
Chiaro è il senso, credo: Fagioli - come Freud e sulla strada di Freud - è andato più in là di Freud (cfr. il famoso Zuiderzee), ha raggiunto l’alto mare ... ma non è riuscito a venire a galla; si è acquetato/accampato nell’inconscio mare calmo... ed edipicamente si è riproposto come Freud Mosé o come Jung "mago-pastore, Seelesorger".
Ora, se vuole far vivere la Sua ipotesi di lavoro, non può legarla alla posizione-’stazione’ di Fagioli: questo il nodo da sciogliere.
A mio parere, l’inconscio mare calmo è decisivo (non mi fraintenda - ciò che è di Fagioli e di Armando è di Fagioli e di Armando!) ma non determinante. Bisogna venir fuori, e con gli occhi aperti. Altrimenti la morte continuerà a vincere, e ... noi - scioccamente - a pensare che il mare è mio, è tuo, è nostro - ’romanamente’!
Fino a prova contraria, la verità rende liberi (- non schiavi!, e nemmeno proprietari!).
Buon lavoro e cordiali saluti
Federico La Sala
20.01.1994 d.C.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Marco Bellocchio: "Massimo Fagioli mi ha salvato la vita".
Tre film insieme (’Il diavolo in corpo’, ’La condanna’ e ’Il sogno e la farfalla’) e più di trent’anni di analisi.
.Il regista Marco Bellocchio ricorda lo psicanalista Massimo Fagioli, morto oggi all’età di 85 anni.
"Ci eravamo allontanati negli ultimi anni ma oggi voglio ricordare lo straordinario interprete di sogni, che ti poneva una visione umanistica della realtà".
L’intervista di Chiara Ugolini (la Repubblica, 13 febbraio 2017).
FLS
FILOSOFIA ANTROPOLOGIA PSICOANALISI E RINASCITA:
LA RIPRODUZIONE SOCIALE NELLA CAVERNA E UNA SOLLECITAZIONE A USCIRE DAL CINEMA.
Una nota a margine della "lettura" che del film di Marco Bellocchio ("Rapito") propone Felice Cimatti *
"RAPITO". Una nota a margine della "lettura" che del film di #MarcoBellocchio propone #FeliceCimatti ("Il soggetto e la libertà", "FataMorgana Web", 4 giugno 2023):
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NOTA.
"RAPITO". A meglio comprendere l’interpretazione "dialettica" del film, proposta da Felice Cimatti - “Prima il rapimento, poi la libertà, è questa la strada inusuale e controintuitiva che Bellocchio ci propone di seguire”, - forse, può essere opportuno riascoltare, sul tema della relazione "pedagogica", l’intervista fatta nel 2017 da Chiara Ugolini allo stesso regista:
Bertinotti al meeting di Cl: la differenza tra fede e politica
di Marco Palombi (Il Fatto, 27.08.2017)
Al meeting di Comunione e Liberazione, com’è noto, hanno tutto: migliaia di visitatori educatissimi, mezza curia, tre quarti del governo, le meglio imprese italiane che mettono soldi e poi mandano i manager a tenere sermoni compunti, gli artisti e i volontari, le televisioni e la carta stampata, Luciano Violante e le suore laiche. “Non ci manca niente”, si dicevano felici i responsabili durante le riunioni preparatorie, finché uno non s’è battuto la mano sulla fronte: “Ci manca un comunista!”.
Sì, ma mica uno di quelli cattivi, che mangiano i bambini, si sono subito detti, ne serve uno educato, che sappia usare le posate: “Ma non c’è quell’amico di don Carròn?”. È una scena che si ripete più o meno ogni anno e alla fine porta all’arrivo a Rimini di Fausto Bertinotti, quello che inviti quando non vuoi essere 13 a tavola. E venerdì l’ex leader di Rifondazione non ha tradito l’attesa ciellina: coccole, battutine, sorrisi, ammiccamenti, forchetta e coltello, Papa Francesco e il subcomandante Marcos.
Parole a caso: “Nella storia di Cl la tradizione è viva, mentre certa sinistra se ne è disfatta”; “la cosa che più mi interessa di Cl è la formazione di un popolo: a me ricorda la storia migliore, quella delle feste dell’Unità, dell’organizzazione comunitaria e degli scioperi”; “la cosificazione dell’umanità”; “un pensiero debole produce persone deboli e popoli disarmati”; “la fede è il problema di sapere dove andare”. Ecco, quest’ultima frase ci ha colpito: la fede è sapere dove andare. Ora non ricordiamo: ma quindi è la politica che è sapere dove mandare
Meeting di Cl, Bertinotti superstar
«Sarà significativo che la mostra sul 1917 la faccia il Meeting di Cl e non una forza politica di sinistra... Questo perché nella storia di Cl la tradizione è viva, mentre certa sinistra se ne è disfatta diventando colpevole di una damnatio memoriae». Così l’ex segrretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, ieri al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini. E durante il suo intervento i circa 1.500 presenti si sono spellati le mani. «Dobbiamo porci il tema della fede, del senso della vita umana rispetto a una meta - ha detto ancora Bertinotti -. Per chi ha l’ambizione, a questa tarda età, di dirsi ancora comunista, l’imprevisto è tutto ciò che ci può salvare».
* il manifesto 26.8.17
Massimo Fagioli morto a Roma: lo psicanalista aveva 85 anni. Aveva definito Freud “un imbecille”
Contestato da sempre e seguito privatamente da tanti, venne espulso dalla Società psicanalitica italiana. Amico vicinissimo di Fausto Bertinotti, ebbe pure come bersaglio Nichi Vendola, colpevole a suo avviso dell’incompatibilità tra l’essere comunista, cattolico e gay
di Davide Turrini *
C’erano una volta Massimo Fagioli e i suoi “fagiolini”. Lo psichiatra che ha deriso e messo al bando Freud, che ha contestato prezzi e prassi delle psicoterapie tradizionali, che ha concentrato in un’unica seduta plenaria e collettiva (ripetuta quattro volte a settimana) la possibile regressione/salvezza per i pazienti bisognosi di cure psicologiche, è morto a Roma all’età di 85 anni. Contestato da sempre, seguito privatamente da tanti, amato pubblicamente da pochi, Fagioli ha sempre tirato dritto nella sua convinzione professionale e teorica fin da metà anni ’70 quando, dopo la laurea con specializzazione in neuropsichiatria e il lavoro nei manicomi, venne espulso dalla Società psicanalitica italiana.
“La psicanalisi è una truffa”. “Freud un imbecille!. Fagioli non è mai stato tenero con l’architrave teorico/pratica della psicoanalisi: “Ho cominciato a sostenere che le teorie freudiane sono tutte fregnacce. E a tenere un seminario all’università di Roma: un successo incredibile. Venivano in centinaia. È stato l’inizio di una pratica che ho trasferito, da privato, nel mio studio di Trastevere”, spiegava nelle interviste “Lui”, come lo chiamano con la L maiuscola anche su blog e social i suoi “fagiolini”.
Le cronache di giornali e riviste sovrabbondano di reportage dentro e fuori la sala collettiva di Piazza San Cosimato nel cuore della capitale. Selezione rigorosa all’ingresso, obolo non obbligatorio a fine seduta (“Non si possono spendere migliaia di euro all’anno per la psicanalisi”), sedute collettiva ma private sia mai. La teoria scientifica alla base della ”rivoluzione” è stata coniata dal medico stesso: negazione e pulsione di annullamento. Più l’interpretazione dei sogni (“centomila quelli analizzati”, disse), ma senza la depistante idea freudiana che li equipara a desideri.
Il tutto racchiuso nel libro Istinto di morte e conoscenza (L’Asino D’Oro). “Il problema era scoprire la negazione, cioè la deformazione delle immagini nel sogno: questa elaborazione nel passaggio tra veglia e sonno, per cui la cosa percepita viene deformata in senso negativo. L’interpretazione dei sogni è questo. Il desiderio invece no, perché conduce alla tragedia del ’68, che diceva di voler liberare il desiderio dalla repressione e che così l’uomo avrebbe raggiunto la felicità. Pura cretineria”, spiegava Fagioli al giornalista Paolo Izzo alcuni anni fa.
Fagioli e la politica, appunto. Perché sarebbe stato impossibile non mescolare le carte tra teorie rivoluzionarie sulla psiche e la gauche italiana, salottiera e popolare, di fronte perfino alla caduta delle ideologie nel post ’89. Amico vicinissimo di Fausto Bertinotti, ebbe pure come bersaglio Nichi Vendola, colpevole a suo avviso dell’incompatibilità tra l’essere comunista, cattolico e gay.
“Il problema di Nichi è che non si può essere contemporaneamente cattolici, gay e comunisti. Soprattutto un vero comunista non può essere cattolico, perché il cattolicesimo è intriso di deliri. Credere nell’Immacolata concezione è un delirio, l’ho detto anche a Fausto (Bertinotti) altro cattolico finto comunista”, spiegava interdetto ad Alessandro Ferrucci sul Fatto Quotidiano qualche anno fa. Poi ancora la fondazione della casa editrice L’Asino d’Oro e del settimanale Left, la creazione della libreria Amore e Psiche in via Santa Caterina a Roma, le numerose collaborazioni nel campo dell’architettura e i pazienti celebri tra cui il regista Marco Bellocchio. Questi ultimi hanno sempre respinto le critiche negative a Fagioli: macchè “santone”, macché “guru” o plagiatore di menti.
“Gli incontri con Massimo cambiano la vita”, spiegò l’autore de I Pugni in tasca che “rinacque” artisticamente dopo le sedute collettive con Fagioli frequentate fin dal 1976. Il diavolo in corpo (1986), film che ha dentro brigatisti rossi che fanno sesso nella gabbia degli imputati, è il primo. Una marea di polemiche. Perché il produttore del film, Leo Pescarolo, convocò la stampa e disse che Bellocchio era stato “plagiato” nel montare il film da Fagioli. Poi ancora nel ’91 arriva La condanna. Altre polemiche, apologia dello stupro, femministe, e non, incazzate come belve. E dietro a tutti l’ombra amica di Fagioli. Che poi nel 1997 un film se lo fa da solo. Addirittura soggettista, sceneggiatore, direttore della fotografia (?), compositore delle musiche, montatore, e perfino interprete per Il cielo della luna. Impossibile rintracciarlo e vederlo da qualche parte, ma nell’archivio Anica la sinossi richiama un ginepraio di spunti e personaggi vagolanti che nemmeno Ingmar Bergman.
È morto Massimo Fagioli, psicanalista controverso
Aveva 85 anni. Fu espulso dalla Società Italiana per la sua critica a Freud e per i suoi metodi. Negli ultimi anni molto vicino all’area di Bertinotti
di RAFFAELLA DE SANTIS (la Repubblica, 13 febbraio 2017)
I suoi seguaci si chiamavano “fagiolini”, che un po’ ricorda i “sorcini” fan di Renato Zero. Lui, Massimo Fagioli, era il guru, lo psichiatra che aveva rifiutato Freud dicendo che le sue teorie erano “fregnacce”, quello che flirtava con Fausto Bertinotti e che parlava di rivoluzione mettendo insieme la sinistra e le malattie mentali, la rivoluzione e l’interpretazione dei sogni.
Parlava lentamente, ipnoticamente, colorando il linguaggio specialistico e sofisticato con termini a volte grevi. Personaggio e studioso controverso, fondatore di una scuola di psicoanalisi antifreudiana si era duramente scontrato con la Società italiana di psicoanalisi. Irrituale anche nel look: camicie e bretelle colorate, capelli candidi arruffati, barba incolta da saggio socratico.
Le sue sedute di analisi collettiva nello studio trasteverino erano frequentatissime. L’ingresso era libero e arrivavano fiumi di persone, tra cui molti semplici curiosi. In realtà Fagioli aveva alle spalle un curriculum serio prima di diventare un santone pop “consigliere” di politici e intellettuali.
Dopo la laurea in neuropsichiatria aveva iniziato a praticare la professione nei manicomi, prima a Venezia, nell’isola di San Clemente, e poi all’ospedale psichiatrico di Padova. Studiava le cartelle cliniche, rifiutava, come Franco Basaglia, i muri che separavano la città dei sani da quella dei pazzi. Erano gli anni Sessanta e quelle ricerche lo portarono anche in Svizzera, nella clinica Bellevue di Binswanger a Kreuzlingen.
Al 1970 risale il suo testo fondamentale, "Istinto di morte e conoscenza", che lo ha fatto conoscere agli ambienti scientifici internazionali (pubblicato in una nuova edizione nel 2010 da L’Asino D’Oro, casa editrice che aveva contribuito a fondare). Tradotto in molte lingue, il saggio espone la “teoria della nascita”, a partire dalla scoperta dell’origine biologica del non cosciente. Scoperte poi sviluppate in "La marionetta e il burattino" e "Teoria della nascita e castrazione umana".
Nella vita Fagioli ha fatto di tutto, portatore sano di un carisma che lo spingeva ad esagerare. Ha insegnato all’università, fondato una rivista (Il sogno della farfalla), una casa editrice, scritto 23 libri e collaborato con architetti, arredatori, scultori, sceneggiatori, registi (tra cui Marco Bellocchio). Oggi Left, la rivista con la quale lavorava dal 2006, firmando una sua rubrica intitolata Trasformazione, lo piange come un padre. Sulla home page si legge: “Oggi Massimo Fagioli è morto. E noi dovremo fare i conti con quello che vorrà dire per noi. Per noi giornale, per noi comunità, per noi mondo di idee. Tante tantissime le sue, idee rivoluzionarie con cui abbiamo riempito anni di vita, di politica, di sinistra, di affetti, di figli...”. Eppure anche quella sua rubrica aveva procurato più di un malumore. Lui di sé diceva: “Sono un lupo solitario”. Strano per chi frequentava sempre posti molto affollati.
Sabato 18 febbraio, dalle 10, l’ultimo saluto nella capitale in via Roma Libera 23 dove per anni Massimo Fagioli ha tenuto i suoi seminari di Analisi collettiva, le affollate e controverse sedute di psicoterapia di gruppo. Prima, Fagioli incontrava tutti in via di Villa Massimo, in una sede distaccata dell’Università.
Un analista che rifiuta Freud
Intervista a Massimo Fagioli
di Fulvio Stinchelli (Il Messaggero 9.11.1977
Quarantasei anni, faccia scavata e sguardo ardente dietro le lenti fumè un passato di rissoso eretico freudiano alle spalle, Massimo Fagioli è oggi lo psicoanalista italiano di gran lunga più seguito e ascoltato. Da due anni, nello spazio universitario concessogli dall’illuminato pluralismo del professor Reda per l’intercessione del suo amico e collega Nicola Lalli, tiene seminari bisettimanali sempre più affollati. Terapia di gruppo? Psicodramma? L’autore di “Istinto di morte e conoscenza” respinge seccamente queste definizioni-etichetta che “lo soffocano”, dice, “senza appartenergli”.
Mezzo scienziato e mezzo profeta, rinnega paternità, filosofie e ideologie: Freud? Un pasticcione. Lacan? Un altro che non ha capito niente. La psicoanalisi? Si, purché sia quella che passa per l’ “inconscio marecalmo”, la “fantasia di sparizione” e l’ “istinto di annullamento”. Sono questi i tre cardini della “scoperta” su cui ruotano ossessivamente la dottrina e la “predicazione” di Fagioli.
Lo incontriamo nel suo quieto studio di Via Nomentana, in una cornice rigorosamente freudiana: pochi libri, quadri anonimi, scrittoio modesto, poltrone comode e il sacro divanetto. Osserviamo. “Qualcosa di Herr Professor comunque rimane”. Risponde: “Restano le analisi individuali che continuo a fare, perché i seminari sono gratuiti, ma il mio vero campo d’azione è l’analisi collettiva, una cosa che Freud non ha mai fatto”.
Prima di arrivare all’analisi collettiva, che è il successo del giorno, vogliamo soffermarci un attimo sul punto di partenza? “Per me tutto cominciò al liceo, quando, vivendo in ambiente medico, feci la prima osservazione: Le malattie psichiche distruggono più di quelle fisiche. Una gamba rotta o una broncopolmonite trovavano soluzione mentre i pazienti depressi venivano liquidati col manicomio. Decisi allora di fare medicina e specializzarmi in psichiatria. Dopo la laurea, la pratica presso l’ospedale psichiatrico di Venezia. Per un anno e mezzo mi attenni al ruolo e alle disposizioni: non dovevo far altro che girare la chiavetta e zac: elettroshock. Allora mi chiesi: ma cosa sto facendo? Sto alla catena di montaggio? Avvito le teste? Me ne andai e cominciò un periodo duro per me. Prima Verona, dove mi cacciarono perché ero “rosso”, poi approdai a Padova, dove un minimo di ricerca si faceva. E lì mi venne la prima ispirazione. Dissi: l’istinto di morte è l’istinto di morte, d’accordo, ma questi, i malati, non muovono un dito. Dov’è tutta questa aggressività? Un esempio? Reparto agitati: trenta ricoverati, due infermieri. Mai accaduto un incidente. Allora, quest’istinto di morte non è distruzione. Incominciai così a studiare questo istinto passando e andando sempre più a fondo nel rapporto con l’inconscio. Mi trasferii in Svizzera, dove ebbi modo di superare la sindrome del malato per vedere cosa ci fosse dietro. Nel ’64 feci la mia analisi personale, la svolta fondamentale”.
C’è un episodio cui puoi legare questo del passaggio dalla psichiatria alla psicoanalisi? “Si, ed è connesso a un paziente il quale, un giorno, mi rimproverò di non averlo assistito in una determinata circostanza e di avergli, quindi, “fatto del male”. Ma se quel giorno, mi dissi, io ero in ospedale, come posso avergli fatto del male? Fu un’illuminazione: è l’assenza che fa del male. Cos’è l’assenza? E’ una pulsione attiva di annullamento”. Qui spunta Lacan.... “No. Lacan dice che è una mancanza. La mia, ripeto, è pulsione attiva di annullamento. La si può verificare nel “Non visto” e nel gioco infantile del “Bubù settete”, dove il bambino appare e sparisce. Di qui mille passaggi, verifiche e confronti. Una storia lunga, che comincia, però, qui: dalla scoperta dell’annullamento”. Arrivando a questa scoperta e nel lavoro successivo, l’insegnamento di Freud l’ha tenuto presente? “L’ho rifiutato e lo rifiuto totalmente”.
Anche tu, però, in questa ricerca , pratichi “l’arte del sospetto”? “Ma nemmeno per idea. Il sospetto parte da una verità precostituita e accertata: Io mi metto in sospetto se temo che tu mi dia un pugno: La mia ricerca non ha condizionamenti di questo tipo”. E’ importante, secondo te, che Freud sia nato”? “Io, sulla nascita delle persone, evito di intervenire. Giusto che sia nato, lo sbaglio è che si è messo a fare lo psicoanalista. Se avesse fatto il medico generico sarebbe stato molto meglio. Diciamo le cose come stanno: esiste una bibliografia enorme, opera di predecessori di Freud, che sta a dimostrare che Freud non ha scoperto niente.
Se una certa società e una certa cultura lo idealizzano tanto ciò è dovuto al fatto che con Freud l’analisi non si fa e questa società ha paura che la gente faccia l’analisi, perché fare l’analisi sul serio significa vederci chiaro, rendersi conto dei “mucchi di sabbia” di tanta cultura, significa imparare a dire si no. E chi sa dire di no rimette tutto in discussione: affare scomodo.
Freud, invece, è comodo perché finge di fare l’analisi. Infatti, non ha metodo, si limita a codificare la non-trasformazione umana. La sua è un’analisi interminabile, perché parte dal punto di vista che non c’è niente da fare e allora ricade nella vecchia psicoterapia di sostegno. Roba dei tempi di Ippocrate. Non c’è trasformazione.....”.
Invece, nella tua c’è, a quanto lasci capire. ma prima di te? “C’è Marx. Ecco uno che aveva intuito la psicoanalisi, parlando di trasformazione. Mi riferisco al giovane Marx, quello dei “Manoscritti” e dell’”Ideologia tedesca”.
Meno male che anche tu ha un padre, ma veniamo ai tempi nostri: quando ti sei deciso a rompere con la Società di Psicoanalisi Italiana? “E’ una storia risaputa. Comunque, fu nel ’68. Sentii che i tempi erano matura per tirar fuori quel che avevo scoperto e già praticavo. Pubblicai il mio primo libro e fu l’innesco della reazione a catena che mi ha portato agli attuali seminari basati sull’analisi collettiva”.
Anche qui c’entra Marx? “Eh, sì. Perché tutta quella gente raccolta intorno a me parla, racconta, domanda, ascolta e domanda ancora. E torna, puntualmente, senza che nessun le abbia fissato un appuntamento né un programma d’analisi. Tutti insieme, senza pudori né resistenze. Indubbiamente, trovano quel che stavano cercando. Tutti insieme, collettivamente. Siamo dunque lontano dall’analisi individuale. Un po’ come la presa di coscienza nella fabbrica, Per me è la conferma di essere sulla via giusta. Io non uccido il paziente come fa l’analista dall’alto del suo ruolo e del suo diploma, nel chiuso dello studio. Io li affronto, lì, seduto in mezzo a a loro che sono centinaia, pronti a rimbeccarmi se dico stupidaggini. Perché la gente conosce l’analisi più di quanto comunemente si creda”.
Qual’è la differenza tra analisi individuale e analisi collettiva? “All’analisi individuale si presenta, quasi sempre, un uomo che sta molto male: è confuso, annullante, depresso. In quel caso deva fare quasi tutto l’analista, cogliendo il problema e cerando di risolverlo, direi a dispetto dello stesso analizzando che vuol distruggere l’analista. Questo, in un certo senso si verifica anche al seminario, ma lì la risposta è collettiva. A volte io non faccio che interpretare il sogno di uno per rispondere a quello di un altro. E’ la conferma che l’uomo è un essere sociale. Vedi che Marx torna sempre? Voglio dire che il problema della ragazza la cui madre le dà della puttana perché esce la sera è problema di migliaia di persone, non è il problema per-sonale di quella singola ragazza con quella madre. Questo è il mio lavoro, in poche parole. E allora si capisce perché tutto ciò rappresenta la distruzione di Freud”.
Fausto Bertinotti: "Il movimento operaio è morto, in Comunione e Liberazione ho ritrovato un popolo"
Corriere della Sera *
"L’eutanasia del movimento operaio ha disperso la memoria di cosa è stato il dialogo con il mondo cattolico". Lo afferma al Corriere della Sera, Fausto Bertinotti, secondo cui "il movimento operaio è morto", "solo la Chiesa sta cercando di reagire". Bertinotti, che in queste settimane ha partecipato in diverse città alla presentazione del libro del successore di don Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, spiega anche: "In Cl ho ritrovato un popolo. E Julian Carrón ci fa riflettere sulla natura del potere".
"Il problema della politica - spiega Bertinotti - è che distrutte le ideologie si è ritrovata depredata, priva di riferimenti. Il dialogo con chi ha una fede può essere la scintilla che ridà speranza". "La sinistra come istanza di uguaglianza - aggiunge - riaffiora, anche se ignorata, nel campo delle nuove forme di organizzazione comunitaria della società".
Alla domanda se si senta folgorato dalla fede religiosa, Bertinotti replica:
"No, questo sarebbe la negazione del dialogo che deve essere tra diversi. Se uno pensa di farsi cooptare vuol dire che non ha identità".
Su Heidegger il derby culturale tra Corriere e Repubblica
di Carlo Patrignani *
L’uno, il Corriere della Sera di Ferruccio De Bortoli, a dar conto degli inquietanti enunciati dei Quaderni neri - alle prime 1300 pagine per gli anni 1931-1941, stanno per aggiungersene altre 560 con ulteriori rivelazioni per il periodo 1942-1948, con il nuovo volume curato da Peter Trawny, per l’editore Klostermann - di Martin Heidegger, il sommo filosofo tedesco, già fondamentalista cattolico, antisemita, razzista, nazista, icona di una certa sinistra radical chic.
L’altra, la Repubblica di Enzo Mauro, a leccarsi amaramente, pateticamente, le ferite confinando la scottante materia, impossibile da nascondere vista l’influenza, imposta e guidata, che ha avuto sulla storia della cultura europea del ’900, e sullo stesso fondatore Eugenio Scalfari, nella rubrica delle lettere curata da un imbarazzato Corrado Augias.
Come dire, l’uno, il Corriere della Sera, a far cultura, l’altra, la Repubblica a tentare goffamente di salvarsi in angolo ripiegando sulle risposte ai lettori.
Il quotidiano di via Solferino non si è infatti limitato al solitario scoop delle prossime 560 pagine dei Quaderni neri che sfatano il silenzio di Heidegger sulla Shoa e a dar notizia della pubblicazione di quelle del 1945/46 che sembrava fossero andate perdute, ma ha coinvolto sulla complessa materia una vasta, erudita e competente platea di filosofi e intellettuali: da Emanuele Severino a Guido Ceronetti a Livia Profeti, oltre ovviamente a Donatella Di Cesare, sua collaboratrice, che ha fornito l’anticipazione essendo dal 2011 vice-presidente della Martin Heidegger Gesellschaft che gestisce i manoscritti del filosofo tedesco.
E, non va dimenticato che, in passato, il Corriere aveva ospitato il filosofo francese Emmanuel Faye autore di un testo assai significativo: Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia (ed. L’Asino d’oro).
In termini calcistici si può senz’altro dire che il derby culturale sui Quaderni neri - che svelano manifestamente il pensiero nazista, antisemita, razzista di Heidegger, per il quale lo sterminio degli Ebrei è da considerarsi una necessaria purificazione dell’Essere e sarebbe sarebbe stato colpa degli Ebrei stessi che si sono auto-annientati - tra i due maggiori quotidiani italiani e concorrenti diretti, l’ha stravinto il Corriere: anzi, finora non c’è stata partita, per cui il Palmares di questo specifico caso va assegnato al quotidiano di De Bortoli, le cui rivelazioni hanno costretto e fatto da traino a numerosi media.
Più della giustificata grancassa mediatica prodotta dalle anticipazioni della Di Cesare, allieva di di Hans-Georg Gadamer, uno dei massimi interpreti di Heidegger, colpisce il silenzio assordante e persistente di Repubblica che in passato si era invece molto interessata al pensiero del sommo filosofo, anche con convegni. Come del resto ha fatto e fa ancora, per il reazionario, cocainomane e ipocondriaco, Sigmund Freud che, avuto il titolo di "Padre" della Psicoanalisi, è stato elevato a icona del pensiero moderno dalla stessa sinistra radical chic.
Due falsi giganti del pensiero moderno, Heidegger e Freud, dal pensiero quanto mai reazionario e distruttivo.
Rimane un mistero di come sia stato e in buona parte sia ancora possibile fare del primo, il teorico dell’annientamento del presunto "nemico", e del secondo, il misogino teorico dell’inferiorità della donna e del bambino polimorfo perverso, due giganti del pensiero progressista!
Entrambi, l’uno, Heidegger, è stato da sempre nazista convinto: nel 1933-34 incitava gli studenti dell’Università di Friburgo allo stermino totale del nemico interno, cioè l’ebreo assimilato (cfr. E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia) e l’altro estimatore di Benito Mussolini che salutò affettuosamente Eroe della cultura, nonché dell’impero asburgico.
Due spietati reazionari amati da una certa sinistra radical chic che nel contempo aveva ucciso, e ha totalmente cancellato, quella che avrebbe dovuto e potuto essere la vera icona del ’900, lasciata marcire giovanissima nel duro carcere fascista: l’eretico, ateo, antirazzista e antistalinista Antonio Gramsci che è, per il suo scontro e conflitto mortale con Palmiro Togliatti, ricomparso in certi studi recenti e sul Corriere della Sera anche se nella rubrica delle lettere curata da Sergio Romano.
E’ probabile che il silenzio assordante e persistente di Repubblica si leghi strettamente al contenuto delle ultime rivelazioni sull’annientamento che gettano un enorme fascio di luce sull’essere-per-la- morte e sull’intera filosofia del sommo filosofo tedesco. Una teoria questa che è stata alla base di tutti gli autori che hanno fatto l’intera cultura di questa sinistra radical chic: da Franco Basaglia a Massimo Cacciari a Gianni Vattimo, solo per citarne alcuni, e che era stata ampiamente disvelata sin dal 1980 dallo psichiatra Massimo Fagioli (cfr, Massimo Fagioli, Bambino, donna e trasformazione dell’uomo, ed. L’Asino d’oro) per averne magistralmente visto l’intrinseco nazismo.
Ed è proprio la scoperta di Fagioli della "pulsione d’annullamento" ben nota a Repubblica che può fare e fa piena luce sulla tipicità dell’annientamento nazional-socialista degli Ebrei, eliminati, fatti sparire, nel fumo delle camere a gas come se non fossero mai esistiti, per realizzare la purificazione dell’Essere che Heidegger auspicava.
Fausto Bertinotti, comunista pentito: un clamoroso discorso...
"Abbiamo sbagliato tutto"
Il discorso del 29 agosto a Todi
di Franco Bechis (Libero, 31.08.2014)
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http://www.liberoquotidiano.it/news/11681057/Fausto-Bertinotti--comunista-pentito-.html
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http://www.liberoquotidiano.it/video/11681077/Fausto-Bertinotti--comunista-pentito-.html
Il comunismo? «Ha fallito». La cultura politica da cui si deve ripartire? «Quella liberale, che ha difeso i diritti dell’individuo». Il gesto più rivoluzionario di questi anni? «Le dimissioni da Papa di Joseph Ratzinger».
L’unica delle tre grandi culture del Novecento che è in vita oggi? «Quella cattolica, che è stata rivitalizzata da papa Francesco che si sta guadagnando consenso e attenzione di mondi lontani». Parole clamorose, perché a pronunciarle è l’ultimo dei Mohicani della vecchia sinistra italiana: Fausto Bertinotti, il leader di quella che è stata Rifondazione comunista. Un discorso-choc quello che l’ex presidente della Camera ha pronunciato a Todi il 29 agosto scorso, che in qualche modo segna il vero cambiamento epocale della politica italiana, la chiusura definitiva di quella che è stata la prima Repubblica.
Bertinotti ha raccontato che il mondo è effettivamente cambiato in modo così sorprendente da abbattere qualsiasi tentazione di nostalgia. «Noi tutti siamo con un piede in un mondo che conosciamo e con un piede in un mondo che fuoriesce totalmente dal nostro quadro di conoscenze», ha premesso l’ex leader rosso. E ha raccontato un episodio per rendere l’idea: «L’altra sera stavo con alcuni dei migliori studiosi e scienziati italiani e con qualche brivido ho sentito dire che beh, insomma, non è ormai così fuori dalla portata potere progettare un essere umano e stabilire se debba avere occhi azzurri piuttosto che scuri con una taglia piuttosto che un’altra. Insomma, grosso modo come si comprerebbe un vestito...».
Una trasformazione radicale, quindi, che secondo Bertinotti «chiede una rifondazione delle grandi visioni del mondo. La sinistra che io ho conosciuto, quella della lotta per l’eguaglianza degli uomini, quella che chiedeva ai proletari di tutto il mondo di unirsi, è finita con una sconfitta. Io appartenevo a questo mondo. Questo mondo è stato sconfitto dalla falsificazione della sua tesi (l’Unione sovietica) e da un cambiamento della scena del mondo che possiamo chiamare globalizzazione e capitalismo finanziario globale». E qui la scelta di campo che non ti saresti aspettato dall’ex segretario di Rifondazione comunista: «Io penso che la cultura liberale- che è stata attenta più di me e della mia cultura all’individuo, alla difesa dei diritti dell’individuo e della persona contro il potere economico e contro lo Stato - è oggi indispensabile per intraprendere il nuovo cammino di liberazione».
Bertinotti si è reso conto di quel che stava dicendo: «Faccio fatica a dirlo. Ma io appartengo a una cultura che ha pensato che si potessero comprimere - almeno per un certo periodo - i diritti individuali in nome di una causa di liberazione. Abbiamo pensato che se per un certo periodo era necessario mettere la mordacchia al dissenso, eh, beh... ragazzi, c’era la rivoluzione». Ecco l’auto-accusa terribile: «La mia storia ha pensato che si potesse comprimere le libertà personali. L’intellettualità europea fra il 1945 e il 1950 è stata tutta comunista. Jean Paul Satre, Andrè Gide, Albert Camus per parlare dei francesi. In Italia tutti, proprio tutti: i registi del neorealismo, i principali cattedratici italiani, i grandi scrittori, le case editrici. Erano tutti comunisti. E adesso non mi dite per favore che non si sapeva niente di cosa accadeva in Unione Sovietica, e che bisognava attendere il 1956 o Praga!».
E anche questo è un racconto della storia di Italia che non è mai stato fatto nemmeno dai post-comunisti. Dopo questo lavacro purificatore, il nuovo battesimo bertinottiano: «Io penso che la cultura liberale ha in maniera feconda scoperto prima, poi difeso e rivalutato il diritto individuale come incomprimibile. Se io oggi dovessi riprendere il mio cammino politico vorrei mettere nel mio bagaglio oltre a quel che c’è di meglio della mia tradizione, sia pure rivisitata molto criticamente, ma soprattutto ciò che viene portato dalla tradizione liberale e da quella cattolica».
Era serata di grandi rivisitazioni, e non è sfuggito nemmeno qualcosa di più stretta attualità: nemmeno il sindacato è sfuggito al piccone di Bertinotti, che pure è stato una vita dirigente della Cgil: «ll sindacato in Italia ha subito una mutazione genetica», ha spiegato l’ex presidente della Camera. «È diventato un pezzo dello Stato sociale. Da 20 anni ormai ha smesso di avere una capacità rivendicativa autonoma, e si è messo a sedere ai tavoli di concertazione con governo e imprenditori».
Bertinotti ha fatto un esempio pratico e assai illuminante dei risultati di questa scelta sindacale: «Nel 1975 i salari italiani erano i più alti di Europa. Più alti di quelli che c’erano in Germania: un operaio di Mirafiori prendeva di più di un operaio della Volskwagen, e la Fiat faceva 2 milioni di automobili. Oggi i salari italiani sono fra i più bassi di Europa. Qualcosa evidentemente non ha funzionato, e il sindacato è parte di questo qualcosa. Ha scelto sempre il male minore. Ma soprattutto ha scambiato la difesa dei lavoratori con un riconoscimento crescente del suo ruolo istituzionale. Hanno fatto meno contratti e sono andati più volte a palazzo Chigi».
E ora Cgil e compagnia sono destinati a scomparire: « Ora arriva Matteo Renzi», ha chiosato il suo intervento Bertinotti, «che ti cancella e il sindacato non ha più armi per difendersi. Perché nel frattempo sono i lavoratori a non riconoscerti più come prima. Avresti dovuto rinunciare tu al sovrappiù di permessi sindacali nel pubblico impiego, non fartelo imporre. Un sindacato così è un sindacato disarmato, che prima o poi si fa irretire nella rete del potere».
Freud la polemica. Intervista a Massimo Fagioli, lo psichiatra dell’Analisi collettiva
di Carlo Patrignani *
La partita con Sigmund Freud e la psicoanalisi lo psichiatra Massimo Fagioli l’ha chiusa, passandoci dentro, prestissimo e nel 1970, dopo la sbornia rivoluzionaria del ’68 autodistruttivo, con la pubblicazione di Istinto di Morte e Conoscenza , ha posto le basi teoriche, le fondamenta, della prassi di ‘cura, ricerca e formazione’ che dal 1975 è l’Analisi Collettiva.
Oggi, 40 anni dopo, Fagioli, espulso dalla Spi, la Società Italiana di Psicoanalisi, nel 1976, intanto aveva dato alle stampe La Marionetta e il Burattino e Teoria della nascita e castrazione umana, assiste allo scontro frontale, un po’ incredulo (“poteva avere una validità 40 anni fa”), un po’ divertito (“Ma Freud è un cadavere dal 1939!”), un po’ incuriosito (“perché all’alba del 2010 e a sinistra?”), fatto “di insulti, rabbie e odii personali”, suscitato in Francia dall’uscita del libro Crépuscule d’une idole. L’affabulation freudienne del filosofo post anarchico Michel Onfray.
Messo sotto accusa da filosofi, intellettuali e psicoanalisti di ‘sinistra’ (Elisabeth Roudinesco, Bernard-Henri Levy, Julia Kristeva, Alain de Mijolla), Onfray, che vede nel ‘socialismo utopistico’ di Proudhon, una possibile rifondazione della sinistra, li ha bollati come ‘ammuffiti del ‘68’. “A me è sempre interessato il pensiero di Freud - attacca Fagioli - e ricordo che in Italia, rispetto a Francia e Stati Uniti, arrivo’ tardissimo nel ‘68, prima non era conosciuto. Non mi sono mai occupato dei suoi comportamenti, di quel che faceva nella vita privata: ho letto le sue opere, poi ci sono andato dentro a questa storia della psicoanalisi, ma prestissimo mi sono reso conto che era tutto un imbroglio, un pensiero falso, che Freud non aveva scoperto nessun inconscio. Lo definiva inconoscibile: ma se è inconoscibile come fai a dire che hai scoperto l’inconscio? Poi non aveva nessuna idea di cura (“figurarsi se poteva esser proponibile la guarigione!”) per cui non ho esitato a definirlo un imbecille”.
Era il 12 marzo 1978 e - ricorda lo psichiatra - ‘Freud è un imbecille’ comparve su uno dei maggiori quotidiani italiani, il Corriere della Sera. “Questo accadeva quando già erano iniziati i seminari, sempre affollatissimi e pubblici, dell’Analisi Collettiva”, nota lo psichiatra che tuttora proseguono “speditamente e su ben altri argomenti: “il comunismo, il cristianesimo, il socialismo, il logos occidentale”.
Ormai gli insulti dei primi anni che investirono gratuitamente Fagioli da parte di certi ambienti politico-mediatici che facevano riferimento alla ‘sinistra’, appartengono alla storia di questa ‘ricerca’ sulla quale non ci sono mai state critiche nel merito. “Al limite qualche interesse posso trovarlo nel Freud fascista o che intrattiene rapporti con il regime nazista - osserva Fagioli - ma poi, a ben pensarci, sono fatti noti: con il nazismo, Heidegger ci è andato più a fondo di Freud stesso”. Insomma, siamo in presenza di un Freud, “imbecille e stupido che non ha scoperto nessun inconscio, lo riteneva naturalmente perverso, che non conosce la pulsione di annullamento, la negazione, il desiderio, che definisce i sogni allucinazioni, quando è ben noto che l’allucinazione è assenza di immagini, mentre le immagini che compaiono nel sonno quando non c’è coscienza, comportamento e linguaggio articolato, vanno interpretate perché sono pensiero”. Tutto si basa, “sul ricordo cosciente, sulle libere associazioni, di latente non c’è nulla”, osserva ancora Fagioli. Nei fatti pero’ questa falsa impostazione ha impedito e impedisce qualsiasi ‘ricerca’ sulla malattia mentale.
E Freud continua ad esser osannato e difeso da una certa sinistra, perché? “Questa è una ricerca affascinante: il comunismo ha ignorato ed annullato l’inconscio, lo stesso ha fatto e fa il cristianesimo - risponde Fagioli - per cui l’inconscio o non esiste o è il Male. E l’identità umana allora starebbe nella Ragione: no, le cose non stanno cosi’. L’identità umana non è la Ragione: bisogna volgere la ricerca verso cio’ che non è Ragione, l’irrazionale”. E qui, “si inserisce - conclude Fagioli - il rapporto uomo-donna, il riconoscimento del ‘diverso da se’’’ che, sia Freud, il comunismo, il ‘68 e il cristianesimo, un po’ quindi la cultura dominante, hanno escluso e tentano di escludere.
Carlo Patrignani
Intervista a Massimo Fagioli
L’«Istinto» di Massimo Fagioli. Quaranta anni dopo
di Paolo Izzo (Agenzia Radicale, 09.04.2010)
Quarant’anni fa veniva pubblicato per la prima volta “Istinto di morte e conoscenza”, il rivoluzionario capolavoro di Massimo Fagioli (cui seguirono presto, nel 1974 e nel 1980, tre libri altrettanto importanti per la definizione della teoria fagioliana: “La marionetta e il burattino”, “Teoria della nascita e castrazione umana”, “Bambino donna e trasformazione dell’uomo”). Da quel lontano 1970, il libro con le scoperte dello psichiatra marchigiano sulla realtà umana, dalla “pulsione di annullamento” alla “fantasia di sparizione” alla sanità della nascita, è stato venduto in migliaia di copie, con ben dodici ristampe.
Tanto che ormai il lavoro di Fagioli è conosciuto e riconosciuto come “Teoria della nascita”. Dopo quarant’anni, la nuova casa editrice L’Asino d’Oro ripropone in grande stile il primo volume dello psichiatra dell’Analisi collettiva, che non ne ha cambiato nemmeno una virgola, aggiungendovi soltanto una breve appendice, intitolata “La violenza invisibile”. In questa lunga conversazione con Massimo Fagioli, siamo partiti da questa riedizione straordinaria di “Istinto di morte e conoscenza”, in libreria da oggi.
Professor Fagioli, la sua Teoria è immutata e immutabile. Segno che ha funzionato e che funziona. Soprattutto nella sua prassi di “cura per la guarigione” della malattia mentale, attraverso l’interpretazione dei sogni.
I cardini rimangono sempre fantasia di sparizione, pulsione di annullamento e negazione, che impostano tutte le possibilità e la realtà della cura attraverso l’interpretazione dei sogni. Se non c’è questo e invece c’è la cretineria di un Freud che dice che i sogni sono desideri, non si farà mai assolutamente nulla. Il problema era scoprire la negazione, cioè la deformazione delle immagini nel sogno: questa elaborazione nel passaggio tra veglia e sonno, per cui la cosa percepita viene deformata in senso negativo. L’interpretazione dei sogni è questo. Il desiderio invece no, perché conduce alla tragedia del ’68, che diceva di voler liberare il desiderio dalla repressione e che così l’uomo avrebbe raggiunto la felicità. Pura cretineria.
Scoprire la negazione. Nessuno ci aveva mai pensato?
Perché la negazione si può scoprire se si scopre la pulsione di annullamento, che si può scoprire se si scopre la Teoria della nascita. Allora si può interpretare la negazione che porta a una alterazione della realtà, che va dalla “diffamazione”, ovvero credere che uno è brutto e cattivo e invece non lo è, alla schizofrenia di chi ammazza perché pensa che nell’altro ci sia Satana. La matrice di tutto sta nella percezione delirante: il malato è convinto che quello è Satana e quindi lo ammazza; cioè “vedrebbe dentro” l’apparenza del corpo. Lo studio della percezione delirante: altra cosa che nella vecchia psicoanalisi non esiste.
Quarant’anni dopo “Istinto” che cosa è cambiato?
E’ cambiata la storia. Quarant’anni fa c’era il comunismo, che non era stato messo in crisi nemmeno dai fatti del 1956, con Krusciov e la destalinizzazione. In realtà la crisi del comunismo poteva arrivare, ma non era stata vista e forse l’aveva realizzata soltanto Giolitti, che se ne andò... Poi, anche la Chiesa cattolica era diversa: adesso è particolarmente feroce, in particolare sulla identità delle donne, sulla sessualità. Ma a quei tempi era meno feroce, si occupava meno di queste faccende. Sono tanti i movimenti storici, insomma.
Dell’impianto teorico di “Istinto di morte e conoscenza” non è cambiato niente, ma una novità importantissima c’è stata, lei lo afferma spesso, con l’arrivo della Analisi collettiva, con la trasformazione cioè della sua “Teoria della nascita” in una prassi psicoterapeutica. Questo fa la differenza con il 1970?
Come dico sempre e come ho detto anche da poco a “la Repubblica”, non sono io che ho fatto l’Analisi collettiva. Qui c’è da osservare il movimento, chiamiamolo pure popolare, che è l’arrivo di centinaia e migliaia di persone che chiedevano, guarda caso, proprio l’interpretazione dei sogni. Un movimento di massa cui ho risposto, nel senso che non sono scappato. Né per paura, né per impotenza, né tanto meno per mantenere l’identità di studio, segretaria, appuntamenti fissi e onorario individuale. C’è stata la mia risposta a una massa di persone anonime, che io non conoscevo, di cui tuttora non so nemmeno nome e cognome. La ricerca cioè di un rapporto interumano pulito, diretto, per quello che è: non ci si confronta per l’identità sociale, professionale, ma per quella realtà umana che è dialettica tra due identità. Chiaramente io propongo che la mia sia sana e l’altra malata, oppure negante. E questa è la dialettica della cura della psicosi, oppure della formazione di una persona che non è psicotica, ma deve “formare” la propria identità umana. E questa cosa, dopo 35 anni, indubbiamente è riuscita.
Non soltanto è riuscita ma si è anche contrapposta all’idea che il movimento di massa sia sempre, se non terrificante, quantomeno ingestibile...
Perché esisteva soltanto la possibilità di starsene sul lettino a cercare il ricordo cosciente delle cose dimenticate. Per cui stavano lì ore e ore, venti venticinque anni, come hanno confessato Bertolucci e Woody Allen nei loro film, a cercare quello che gli era successo a cinque sei anni di età. Perché c’era l’affermazione categorica che i sogni non erano direttamente interpretabili, cioè che i sogni non avevano linguaggio: erano soltanto ricordi coscienti deformati dalla censura del superio. Questo era il concetto freudiano. Da lì, allora, il mio rifiuto radicale, totale: perché la montatura che fecero su Freud era propria truffaldina. Quello non aveva pensato né scoperto assolutamente niente!
Anche se le radici affondano in suoi scritti precedenti, sulla “percezione delirante” e la “psicoterapia di gruppo”, “Istinto” arrivò all’inizio di anni molto difficili.
Negli anni 60 era cominciato tutto un movimento che doveva sfociare nel grandissimo fuoco di paglia del ’68: c’era, da Marcuse a Foucault, questa strana ideologia di liberare gli istinti e tutto si sarebbe risolto. Una stupidità che non capisco: solo un ubriaco potrebbe sostenere una cosa del genere. Invece io ho sostenuto che ci debba essere la ricerca dell’identità umana. Da sempre, mi viene da dire da tremila e cinquemila anni, si è tenuto fuori il pensiero senza coscienza, che al contrario rappresenta un terzo di vita, cioè 33 anni su 100, come se non fosse realtà umana, come se ci fosse l’idea terribile che andare a dormire, addormentarsi è come morire, perché non c’è pensiero. Nessuna filosofia s’è mai occupata di quel terzo di vita. Soltanto dopo la Rivoluzione francese, ai primi dell’Ottocento, si cominciò a dire che il pensiero senza coscienza c’è, però è inconoscibile! Su questo si è basata tutta la Storia: voler fare una liberazione umana, una emancipazione senza cercare una identità umana che comprendesse anche la realtà e la dinamica fra veglia e sonno. Io dico che se questa non è una fatuità schizofrenica, che cos’è? Invece io sostengo che si deve realizzare un’identità; il principio del piacere verrà dopo. Se non c’è identità, il principio del piacere è ammazzare il prossimo; è quello del maniaco sessuale che prova piacere ammazzando.
Veniamo alla politica?
Stavo rileggendo la risposta che ho dato ad Alessandra Longo su “la Repubblica” di ieri. Il giorno prima la giornalista mi aveva accusato un po’ di essere un “menagramo”, perché chi viene con me andrebbe a finire male politicamente. La Longo correttamente ha pubblicato la mia risposta, in cui confermo invece che Emma Bonino a Roma ha preso un milione e trecentomila voti, più del 50 per cento. Altro che “menagramo”!
Nella risposta a “la Repubblica” risalta ancora una volta la sua distanza netta dal catto-comunismo, che risale appunto ai tempi di “Istinto”...
Lì mi devo un po’ correggere, perché tutto forse risale anche a dieci anni prima, a quegli scritti sulla percezione delirante di cui accennavi tu.
Come si lega il rifiuto del catto-comunismo con le sue scoperte sulla nascita umana? Cioè: per scoprire la fantasia di sparizione, per ideare la sua Teoria è stato necessario rifiutare sia il cattolicesimo, sia il comunismo (e di qui forse l’interessamento dei Radicali). Mi spiega perché?
L’ho sempre saputo e pensato, ma la verbalizzazione è avvenuta soltanto negli ultimi tempi. Perché, sintetizzando, è noto dalla storia che l’inizio del Cristianesimo parte proprio con l’attacco ai sogni, a quello che doveva essere rimasto a Roma della cultura etrusca, che aveva una impostazione di divinazione, di auguri, di aruspici. La prima cosa che fanno con i concili di Ankara del 312 e di Nicea del 325 è di condannare quello che c’era di “etrusco” e in particolare l’interpretazione dei sogni. La cosa viene confermata da sant’Agostino che dice che i sogni esistono e sono mandati da Dio, ma anche dal diavolo e siccome non si può stabilire chi li mandi, allora vanno eliminati, condannati. Così, sotto Teodosio, gli interpreti dei sogni vengono proprio condannati a morte. Questo, dopo l’anno Mille, si svilupperà con la caccia alle streghe e agli eretici, bruciati perché avevano un pensiero originale che non obbediva alla bibbia, ai vangeli, ai dettami della curia, cosa che succede anche oggi. Qui è da osservare che non dicono che non esiste l’inconscio, ma che esso è il male e quindi va combattuto. Ma non dice che non esiste.
Il comunismo invece?
Dopo l’Illuminismo, in cui ugualmente c’era l’idea che il pensiero senza coscienza fosse inconoscibile (“anima spirituale”, eredità di Platone), accade qualcosa soprattutto nel leninismo, ma già a partire da Marx, che annunciava il suo fallimento sulla realtà umana nella famosa “Lettera al padre” del 10 novembre 1837. Nel 1923, dopo la libertà e la rivoluzione sessuale raccontate dalla Kollontaj, Lenin procede con una dura repressione, con la scusa dalla crisi economica, e il comunismo diventa ultra-razionale. Questo porterà poi alla grande potenza di Stalin. In quel periodo viene fuori che tutto ciò che non è coscienza, tutto ciò che non è ragione, prassi positivistica in rapporto soltanto con la realtà materiale, non esiste! Non è più come con la Chiesa cattolica che dice che va combattuto: dice proprio che non esiste, cioè arriva all’annullamento totale. E forse questa è una violenza invisibile molto maggiore di quella della Chiesa cattolica. Perché significa non doversi occupare assolutamente di realtà umana. Significa che non si afferra che la trasformazione non è trasformare il mondo: la trasformazione è quel movimento che passa dalla veglia al sonno (e forse anche dal sonno alla veglia), quando scompaiono veglia, coscienza, comportamento e linguaggio articolato, però il pensiero resta. Al mattino, dopo sette otto ore di sonno, ritorna quell’altro pensiero. E’ qui che bisogna trovare la parola “trasformazione”: allora si trova anche la possibilità di cura, attraverso la trasformazione di immagini, di forme di pensiero, che però contengono una negazione, cioè che non sono rappresentazione della realtà percepita.
Nella fascetta della nuova edizione del suo libro si legge “Il sogno è un pensiero per immagini. Un pensiero non cosciente la cui comprensione può portare ad una ulteriore realizzazione dell’essere umano”...
Appunto. La cosa importante è capire che il pensiero del sonno non è un mondo oscuro di orchi, di streghe, di diavolerie terrificanti. No! E’ un pensiero che si esprime mediante immagini senza linguaggio articolato, che se è malato è basato sulla negazione, sull’orrore, sull’impostazione di distruggere. Se invece è sano, parla, racconta. Tutto sta poi a comprendere questo linguaggio silenzioso. E universale.
Che lei lega alla nascita umana...
E’ lì che parte la trasformazione! Ed ecco l’idea, di cui la Chiesa non vuole sentir parlare perché è darwiniana al cento per cento: il feto non ha vita, è dimostrato anche scientificamente. Ha esistenza. Con il venire alla luce, con questo stimolo dell’ambiente fuori dall’utero e dall’acqua in cui non respira, ma in particolare con il rapporto con la luce, nasce l’essere umano. Comincia la capacità di immaginare e quindi è il feto è trasformato completamente in essere umano, anche se il corpo è più o meno lo stesso. La vera trasformazione è che compare il pensiero e che esso compare dalla realtà biologica! La Chiesa non lo accetterà mai, perché il pensiero deve venire dall’anima, dallo spirito santo, da Dio.
In una recente intervista, Barbara Palombelli ha detto che il suo è un libro fondamentale e che lo dovrebbero leggere tutte le mamme.
Sì, “fondamentale per il rapporto mamma-figlio”. Certo: perché le mamme devono sapere che il figlio ha nascita e identità. Non è identità adulta, non ha la parola, non cammina, però è un’identità. E’ una identità di pensiero. Mentre nella cultura millenaria il bambino al massimo è un animale. Con il conseguente, terribile, battesimo dei cattolici, come se il neonato fosse una bestia che soltanto loro rendono umano. Anche questo le mamme devono sapere: che quella è tutta una violenza, neanche tanto invisibile.
Rapporto mamma figlio, ma poi rapporto uomo donna.
Da qualche tempo, da una decina di anni, abbiamo cominciato a leggere la parola “diverso” in modo nuovo. Quella parola l’ho legata al primo anno, anno e mezzo, di vita senza comportamento, senza parola e cammino. Per cui è un pensiero nascosto, fatto solo di immagini. Che quindi è diverso dalla nostra realtà di adulti... E’ qualcosa che si ricrea nel sonno veglia: la veglia è l’adulto e il sonno è quel primo anno di vita. Dunque c’è una realtà “diversa”, non animale, dentro di noi e questa realtà scatta dopo, quando a due, tre anni cominciamo a vedere la differenza tra il bambino e la bambina... E nel rapporto uomo donna ognuno è diverso dall’altro, non uguale! C’è una uguaglianza di fondo che è l’essere umani. Siamo esseri umani. Però siamo diversi ed è dialettica tra due identità diverse. E questo mi pare abbastanza interessante anche contro il razzismo: le razze non esistono, ma il colore della pelle può essere diverso. E anche lì è una dialettica tra esseri umani, però diversi.
Di fondo l’uguaglianza della nascita...
E la diversità nella formazione dell’identità... Ecco perché poi non sono d’accordo con il comunismo. Perché il comunismo toglie questa diversità dell’età adulta. Per rendere tutti uguali, ma in maniera esterna, formale.
C’era già in Freud, che sosteneva che tutti sono perversi dalla nascita e poi hanno una sessualità incerta, una bisessualità di fondo. Dopo ci si è messa l’antipsichiatria a dire che siamo tutti matti. E nel frattempo il comunismo aveva detto che dovevamo essere tutti uguali, indossare la stessa giacchetta grigia...
Ma è la Bibbia! È il peccato originale, ribadito fino a oggi dalla Chiesa. Il peccato è originale è animalità, perversione, malattia mentale. La matrice è la credenza nel peccato originale.
Mi viene da concludere che la sua vera eresia sia stata quella di mettere l’uguaglianza all’inizio della vita umana, nella nascita, mentre per gli altri è un fine: uguaglianza, ma come omologazione, normalizzazione. Per lei l’uguaglianza della nascita è il punto di partenza.
Esatto. E ognuno poi realizza la propria identità umana come gli pare, nella massima libertà, nella massima diversità.
Se l’analisi del voto è cieca
Sinistra senza trasformazione
di Flore Murard Yovanovitch (l’Unità, 30.06.2009)
A ogni giro di elezioni, ricompare regolarmente la stessa analisi sul crollo della sinistra. Essa sarebbe fallita perché elitaria, autistica, priva di rapporti con la società (come se quest’ultima fosse un entità a parte, da contattare per scoprire le giuste risposte politiche) e dovrebbe ora fare la sua autocritica...
Analisi tanto vecchia quanto errata, perché rifiuta ancora oggi di vedere che la sinistra non è fallita perché salottiera o burocratica, ma per non avere (avuto) idee e soprattutto idee chiare sulla realtà della natura umana. Per non avere scoperto che l’uomo, invece di mero prodotto del suo lavoro, è psiche, dinamica, in rapporto all’altro diverso. Per non essersi interessata all’unica questione che riguardi profondamente l’essere umano: la trasformazione. La struttura mentale della sinistra, come disse Giacomo Marramao alla Fiera del Libro di Torino il 16 maggio scorso, «tradizionalmente focalizzata sulle sovrastrutture, deve ora passare ai soggetti»; noi aggiungiamo alle loro menti. Capendo che la trasformazione sociale passa necessariamente per la trasformazione psichica degli individui che compongono la società.
La sinistra non è sinistrata, né ricomponibile dai suoi frammenti passati (come si agitano ora a fare i suoi... teologi) o ne verranno fuori solo deboli e anacronistiche creature, come sono Partito Democratico e Sinistra e Libertà: essa è storicamente scomparsa dalla cultura. E solo un salto di conoscenza potrà darle un’identità e una reale (ri)nascita. Sono necessari i concetti teorici per pensare e agire una società davvero ugualitaria e di sinistra, non strutturata intorno ai rapporti di produzione e ai vecchi totem, ma ai rapporti creativi, non-violenti e non sfruttanti tra esseri umani uguali dalla nascita. Una società non (auto)distruttiva.
Questione assai urgente, visto che i risultati delle elezioni europee hanno rivelato la dimensione malata dell’Europa, costruita sulla «percezione delirante» di un nemico esterno; nonché l’apparire di un nuovo fascismo difensivo, come lo chiama l’intellettuale ungherese Gaspar Miklos Tamar. Per affrontare questi potenziali mostri e il disfacimento della socialdemocrazia erede del Novecento - e del connesso sistema di valori sul quale era fondata la nostra società, in particolare il consenso egalitario - la sinistra ha bisogno di una teoria radicalmente nuova. Non guardando al passato/futuro, glissando all’infinito su manovre di ricomposizione, ma osando fare un salto totale del pensiero: il sogno realistico di una società non-violenta, non certo basata sui principi spirituali o cristiani, ma sui rivoluzionari concetti di «sparizione del disumano nell’essere umano» (Massimo Fagioli) e di reale uguaglianza.
La storia.
Fagioli il guru e il Super Io della sinistra
Le liti con Bertinotti, le pene del partito radiografia di uno psicanalista discusso
"Già dagli anni Settanta sostenevo che le teorie freudiane sono tutte fregnacce"
"Ho interpretato centomila sogni. E nel 99 per cento dei casi ci ho azzeccato"
di Luca Villoresi (la Repubblica, 22.01.2009)
ROMA. Di Massimo Fagioli se ne dicono molte, di tutti i colori, davanti e di dietro. Ogni tanto, certo, è lui che se la va a cercare, sfrucugliando l’omosessualità di Niki Vendola, o alzando il tiro contro le istituzioni della psicanalisi: «Freud? Un imbecille». E i freudiani? «Criminali».
Come criminali? «Come chiamare una società che vuole curare solo chi ha da spendere almeno diecimila euro all’anno? La cura deve essere per tutti, non solo per i ricchi». Ogni tanto, invece, a metterlo in mezzo ci pensano gli altri, accusandolo di essere un plagiatore, il capo di una setta. E poi, ogni tanto, capita che lo infilino in qualche retroscena, senza che lui, così pare, ne sappia niente: «Che stavo per comprare Liberazione l’ho letto sui giornali. Che poi abbia ispirato la scissione di Rifondazione... non scherziamo». Comunque sia, Massimo Fagioli, il fondatore di una scuola di psicanalisi basata sulla lettura dei sogni e il ritorno all’esperienza della nascita, non recede. Nega. E rivendica.
Piove. La seduta comincia alle sei. Manca più di mezz’ora. Ma sotto i cornicioni ci sono già una trentina di persone in attesa. Il cuore pulsante del fagiolismo è alloggiato in uno stanzone di 120 metri quadrati a Trastevere, all’angolo di piazza San Cosimato. Qui, per quattro giorni a settimana, il professore guida una seduta di analisi collettiva che richiama, ogni volta, almeno un centinaio di partecipanti. L’ingresso è libero. Anche se con qualche limitazione. «No, lei non può entrare. Non siamo a un seminario all’università. Siamo nel mio studio privato. La seduta è un atto medico, sacro. Posso decidere chi entra e chi no. La partecipazione, peraltro, è gratuita e solo chi vuole, alla fine, lascia qualcosa, senza che nessuno controlli». Porta chiusa, dunque. La letteratura sulla dinamica delle riunioni, peraltro, è abbastanza vasta.
Dicono che lei usi, a volte, un linguaggio un po’ greve. «In quattro ore una battuta che allevia l’atmosfera ci può stare. E poi usare parole più accessibili fa parte dell’arte medica. Alle mie sedute vengono intellettuali, ma anche persone meno preparate ai linguaggi più sofisticati». Un genio che rifonda la psicanalisi? O un ciarlatano assetato di potere? Il dilemma passa per questioni teoriche molto specialistiche: desiderio o bramosia? Inconscio o inconoscibile? Calandosi, per di più, in un’atmosfera molto romana: cene e cenacoli, pettegolezzi e progetti politico-editoriali.
I seguaci di Fagioli sono stati popolarmente ribattezzati, da trent’anni a questa parte, i fagiolini. Il nome vi dà fastidio? «Ma no. Ci danno fastidio le calunnie. Ci chiamino come vogliono. Un nome vale l’altro». Odio e amore. I fagiolini pentiti si sfogano sui blog, ma continuano a riferirsi a «Lui», con la maiuscola. I più convinti, invece, vanno a sentire il professore anche quando fa lezione all’università di Chieti. E credono che il maestro abbia una mente leonardesca.
Architetto, musicista, arredatore, sceneggiatore, scultore, editore... L’unica professione che Fagioli non esercita abusivamente, si direbbe, è la psicanalisi. Per questa materia i titoli sono a posto. Non siamo di fronte a un analista selvaggio. Laurea in medicina a pieni voti nel 1956, specializzazione in neuropsichiatria, prima esperienze in quelli che all’epoca si chiamavano (ed erano) i manicomi... poi la guida di una comunità terapeutica in Svizzera, l’ingresso nella Società psicanalitica italiana, l’espulsione dalla Società psicanalitica italiana...
La svolta alla metà degli anni Settanta. «Ho cominciato a sostenere che le teorie freudiane sono tutte fregnacce. E a tenere un seminario all’università di Roma: un successo incredibile. Venivano in centinaia. È stato l’inizio di una pratica che ho trasferito, da privato, nel mio studio di Trastevere». Dal successo sono nate anche una rivista, «Il sogno della farfalla», trimestrale di psichiatria e psicoterapia, e una libreria, Amore e psiche, specializzata nella diffusione dei testi di una casa editrice, Nuove edizioni romane, specializzata nella opere di Fagioli, autore di sette libri; l’ottavo è in arrivo.
La prima ribalta mediatica risale alla metà degli anni Ottanta. All’uscita de «Il diavolo in corpo» accusano lo psichiatra di aver plagiato il regista Marco Bellocchio. Cinque anni dopo, sempre con Bellocchio, Fagioli firma la sceneggiatura de «La condanna»: l’accusa, stavolta, è di apologia dello stupro. Nel ’98 Fagioli ha poi realizzato un film tutto suo (regista, sceneggiatore, attore, autore delle musiche), «Il cielo della luna», rimasto senza riscontri.
Dal cinema all’architettura. Fagioli ha partecipato alla sistemazione della libreria Amore e Psiche, alla realizzazione di una palazzina, al restyling di una piazza capitolina incentrata su una scultura spiazzante. «E ho all’attivo anche una trentina di appartamenti. Diciamo che per me è un hobby». Fagioli, nel contempo, non trascura l’organizzazione. Ispira convegni, con nomi prestigiosi. O si occupa di editoria. Trent’anni fa era una sottoscrizione per Lotta continua. Oggi insinuano che voglia controllare Liberazione. Sempre a sinistra, comunque: «Una persona sana di mente non può non essere di sinistra». Una scelta di campo che comporta una ulteriore, inevitabile lista degli amici (dagli ex sessantottini a Bertinotti) e dei nemici (la comparsa di una rubrica dello psichiatra su Left ha innescato una catena di dimissioni).
Citazione da un’intervista del 1991: «In quindici anni avrò esaminato qualcosa come centomila sogni, dando un’interpretazione corretta non dico nel cento per cento, ma almeno nel 99 per cento dei casi sì». Da allora sono passati altri diciotto anni. Aggiorniamo i dati? «Certo, in meglio. Ho superato pure il 99 per cento. E ottengo questi risultati perché la mia teoria, basata su quello che chiamo negazione e pulsione di annullamento, non è una chiacchiera, ma una teoria scientifica».
Sicuro di sé. Anche quando mente, sapendo che gli altri sanno che mente. Professore, perché i fagiolini sono soprattutto fagioline? «Davvero?» Professore, non c’è bisogno di entrare; si vede anche da fuori, basta contare... «Beh, non me ne sono mai accorto». Lei esercita un certo fascino. Quanto contano, per il successo delle sedute, le capacità comunicative del terapeuta? «Praticamente niente. È la teoria che guarisce». Perfino l’Ego del professore, in qualche caso, è disposto a fare un passo indietro: il carisma non conta, viva la teoria. «E mi raccomando la foto, non mettete un’altra volta quella dove punto il dito».
Vendola: risentimenti e menzogne della vicenda Liberazione mi hanno fatto soffrire da comunista
"Siamo finiti in una gabbia di veleni
cambiamo casa per rifondare la sinistra"
Le accuse di Fagioli? Mi provocano ricordi da brivido. Con Fausto d’accordo su come andare avanti
di Carmelo Lopapa (la Repubblica, 13.01.2009)
ROMA - «È giunto il momento di mettere ordine, di riscrivere lo spartito della sinistra del futuro. Le miserie umane e culturali alle quali abbiamo assistito ci hanno indotto a questo passo, quello della rifondazione della sinistra. Questa non era più casa nostra».
Nichi Vendola, governatore della Puglia, perché non sarebbe più casa vostra? Perché abbandonate il partito?
«Una storia si è ormai compiuta, finita dentro una prigione di risentimenti. È stata scritta una pagina brutta, siamo finiti tutti in una spirale ritorsiva. Quella non è più casa nostra perché è poco accogliente, è un luogo che ha chiuso i conti con la parola "rifondazione". Il Prc per 18 anni è stato protagonista vivace, efficace, controverso, fascinoso e vero della politica italiana. Quella storia, ecco, si è illividita, sfarinata».
Vi accusano di non esservi arresi al fatto di aver perso il congresso.
«Non dico queste cose perché ho perso il congresso, che pure in qualche modo ho vinto col 47%, ma perché col vulnus inferto a Liberazione, al diritto di informazione e all’autonomia del giornalismo, non c’è stata solo la presa d’atto di una divaricazione politica, ma qualcosa di più profondo. E siccome non dobbiamo passare il resto della vita a maledirci, allora meglio ricostruire qualcosa partendo da ciò che ci divide. Ho sofferto tanto per quanto accaduto, da giornalista e da comunista».
Con il Prc dite addio una volta per tutte anche all’utopia comunista?
«L’utopia è come l’araba fenice, rinasce dalle proprie ceneri. E l’utopia dell’eguaglianza non è riducibile alle conseguenze di alcun fallimento, continuerà a camminare lungo le strade della politica».
E la vostra strada porta alla costruzione con Fava, Mussi, pezzi dei verdi, di un nuovo soggetto. Ma c’è bisogno di un’altra bandierina a sinistra? Di un piccolo Arcobaleno?
«Si può continuare la battaglia dentro e fuori il Prc, si può anche avere la doppia tessera. Niente ingessature. Ma dobbiamo prendere atto che ci è cascato il mondo addosso. L’Italia che fu il paese dell’anomalia comunista è oggi diventato il paese in cui l’anomalia è rappresentata dall’assenza di una forte sinistra politica. Antirazzismo, la cura per le persone più deboli, dell’ambiente: la parola sinistra deve tornare ad avere senso. Rifondazione e il Pd rischiano di essere la narrazione dello stesso suicidio. Da un lato, la ricerca affannosa di governismo a tutti i costi, dall’altro, la predicazione velleitaria lontana dalla realtà».
Si dice che Bertinotti abbia benedetto lo strappo.
«Con Fausto facciamo lunghe chiacchierate. Parlare con lui per me è respirare aria pulita, ossigenare il cervello. Condividiamo la fiducia nel fatto che la sinistra sia un’istanza oggettiva».
Presidente Vendola, confessi, quanto male le hanno fatto le parole dello psichiatra Fagioli sull’incompatibilità tra l’essere comunista, gay e cattolico?
«Non mi hanno scalfito per nulla, piuttosto ho notato che spesso una certa veemenza viscerale ha degli effetti antipatici sul viso di chi la esprime. Detto questo, non bisogna necessariamente essere comunisti e neppure avere confidenza con la società dei lumi per non simpatizzare con chiunque giudichi le altre persone, non per i loro comportamenti, ma per la loro condizione esistenziale. Sono cose che a me danno ricordi da brivido».
7 maggio 2006. L’intellettuale femminista rilegge il padre della psicoanalisi.
Subito dopo l’uscita del numero interamente dedicato ai 150 anni dalla nascita, Luca Bonaccorsi - attuale acquirente di "Liberazione" - chiese di destituire la curatrice dell’inserto angela azzaro
Freud, come Marx, le due grandi utopie del 900
Davvero, Rifondazione, lo vuoi scaricare?
di Lea Melandri (Liberazione Queer, 11.1.2009, p 3)
«Dal fondo del torpore, quasi dal sonno, un pensiero solitario. Dopo lo squarcio iniziale, la psicanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità...l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, da un pericolo interno.
Bardato. Corazzato. Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida verso ciò che si profila all’orizzonte. Nausicaa, Ulisse. Le regge di Creta aperte verso il mare, senza difese...
Anche per la scoperta freudiana fu così? Un’accettazione di qualcosa che veniva, in certo senso, dall’esterno, dopo un estenuante brancolare? Bisognerebbe rileggere le origini della psicanalisi da questo punto...Il sogno osa generalmente di più di quanto si permetta il sognatore da sveglio. Di qui l’idea di Freud di trasferire questo oltrepassamento alla coscienza vigile nella cura dei nevrotici. Il sogno testimonia di ciò che vuoi essere - ciò che puoi essere, allora» (Elvio Fachinelli, La mente estatica , Adelphi 1989).
Forse l’invenzione, scientifica o non scientifica, procede sempre con un movimento analogo, che è allentamento di difese, abbandono al fantasticare, defluire di frammenti, sprazzi di idee, da cui emerge un messaggio inatteso, un pensiero più organizzato e coerente. Ma non possono non colpire le risonanze profonde tra un geniale interprete di Freud, quale è stato Elvio Fachinelli nel momento in cui si accingeva, avendo se stesso "come unica bussola", a esplorare quell’ "area di frontiera" che è per ogni essere umano l’originaria indistinzione con la madre, e il singolare "conquistador" che nell’ultimo decennio dell’800 cominciava a inoltrarsi, "primo tra i mortali", in regioni inesplorate della vita psichica.
A Wilhelm Fliess, l’"amico segreto" con cui intrattiene uno scambio intenso, intellettuale e, pur nella castità, dichiaratamente amoroso, nel periodo più originale della sua scoperta - gli studi sull’isteria, l’autoanalisi, l’interpretazione dei sogni - Freud scrive: «Posso guarire solo lavorando con l’inconscio: con sforzi esclusivamente coscienti non posso farcela... uno strano stato mentale che la coscienza non riesce ad afferrare; pensieri crepuscolari, la mente offuscata, appena un raggio di luce qua e là».
«In una giornata come e come oggi tutto tace dentro di me e io mi sento terribilmente solo...bello attendere che qualcosa cominci a muoversi dentro di me e che io riesca ad accorgermene. Perciò spesso sogno per giorni interi».
«Mi sono aiutato col rinunciare a qualsiasi sforzo mentale cosciente, in modo da affrontare i problemi a tentoni. Da allora ho lavorato forse meglio di prima, ma quasi non so quel che sto effettivamente facendo».
«Io non sono né uno scienziato né un osservatore né uno sperimentatore né un pensatore. Non sono altro che un conquistador per temperamento - un avventuriero, se volete tradurre il termine - con la curiosità, la baldanza e la tenacia propria di quel genere di individui».
Nel momento in cui rinunciano a tradurre "in modo razionale e scientifico" il misterioso mondo della psiche, per cimentarsi nell’"eroica impresa" di esplorare il proprio inconscio, fin nelle regioni estreme verso cui li spinge "la passione per il preistorico", sia Freud che Fachinelli operano, sia pure in contesti storici diversi, un rovesciamento di prospettiva. Ne sono investiti e trasformati in eguale misura: l’io onnipotente della ragione tecnica e burocratica, la coscienza certa di non avere alle spalle che il deserto del senso, la cultura occidentale avviata al dominio del mondo, e la figura di una maschilità distorta dall’abitudine millenaria all’offesa e alla difesa. Indagatori entrambi della felicità, a partire dalle sue misteriose radici nell’infanzia, curiosi dell’origine e della natura degli umani, disposti a imbarcare la ragione "nel mare procelloso del mondo emotivo", non potevano non approdare a verità ambigue, contraddittorie, sfuggenti a interpretazioni lineari e sistematiche, reperti di un passato mai del tutto estinto e, nel medesimo tempo, segnali di insospettate potenzialità antropologiche.
La scoperta dell’inconscio, e dei modi per aprirgli uno spiraglio dentro i territori della coscienza, era destinata a produrre un radicale ripensamento di quell’"enigma del dualismo" che, quasi negli stessi anni, Otto Weininger si affrettava a riportare sulle solide fondamenta della cultura occidentale, greca e cristiana. Freud si muove ancora dentro la cornice di opposizioni complementari - biologia e psicologia, vita e anima, corpo e mente, realtà e sogno - e cerca per tutti gli anni del suo maggiore sforzo esplorativo della vita psichica l’armonioso completamento di parti maschili e femminili di sé - e quindi della "fecondità" creativa - nella "gioia smisurata" che gli danno gli incontri con Fliess.
«Mi era necessario amarti per poter arricchire la mia vita. Nessuno può sostituire i rapporti con un amico che un lato particolare di me stesso - forse femminile - richiede». Fliess è, rispetto a Freud, colui che sa, che dà, che può appagare la fame e la sete di chi vive nell’attesa di riempire un vuoto, di ricevere incoraggiamento, consolazione, consigli.
Ma, al di là dell’aspetto più evidente del loro rapporto - in cui si mescolano le figure complementari di una sedotta e di femminili e maschili scambievoli - si profila oscuramente una situazione più complessa, destinata a gettare una luce nuova sul rapporto tra i sessi e sul legame profondo che ha tenuto insieme per millenni una comunità storica di soli uomini.
Lo svelamento non poteva che avvenire attraverso lo sguardo dell’esploratore che, con uguale ardimento, a distanza di un secolo, si addentra nello stesso paesaggio e mostra quello che l’altro non poteva ancora vedere. Nella rilettura del rapporto tra Freud e Fliess, Fachinelli scrive: «L’attesa sembra rivolta a una figura resuscitata: quella della prima madre, el sesso (il riferimento è alla vecchia bambinaia che, scoperta a rubare, sarà cacciata dal fratellastro Phillip). L’incontro con Fliess l’ha fatta tornare e Fliess dovrebbe saziare una fame non saziata, colmare un vuoto che si creò allora bruscamente... Siamo qui nell’ambito di un rapporto di compenetrazione con una particolare figura materna... Vi è un sovrappiù, un acme di godimento, qualcosa che si collega a un "desiderio preistorico", l’unico che generi felicità secondo Freud».
Ma è proprio questa "gioia smisurata" a far sorgere l’immagine dell’assorbimento nell’oceano materno, a costituirsi come minaccia per la propria identità. Dietro il sogno realizzato della fusione col primo oggetto d’amore, si profila l’ombra della pulsione di morte, cessazione di ogni tensione, cioè della vita stessa. «Come segno di compromesso -scrive sempre Fachinelli - tra tendenze all’unità e tendenze all’individuazione, affiora la figura del doppio, del gemello, dell’alter. Basta qui una sola citazione: "Non posso fare a meno di un altro, l’unico altro, l’alter, sei tu"».
Il femminile conosciuto dall’uomo nella "beatitudine", sia pure solo sognata, di un’originaria indistinzione, è ciò da cui si fugge ma è anche nel cuore dell’amore e odio per la persona dello stesso sesso. A distanza di un secolo, nel punto più alto dello sviluppo tecnologico e industriale, la preistoria parla con la stessa lingua, ma il paesaggio e i suoi protagonisti appaiono dislocati, i contorni meno nitidi, i fantasmi più vicini alla coscienza che li ha prodotti. Il mutamento più significativo riguarda la figura del padre, che già nell’autoanalisi Freud era venuto decantando.
Dopo aver ipotizzato una seduzione da parte dell’adulto di sesso maschile nella genesi delle nevrosi, Freud si accorge di aver piegato la teoria alle sue fantasie, e da quel momento affiorano altri rapporti con fratelli, nipoti, soprattutto con due figure materne, la madre reale e la vecchia bambinaia, e il fratellastro Phillip, collocato nei sogni al posto del padre. A muoversi dentro un’imbrogliata vicenda famigliare è il Freud-figlio, prossimo a quella che considera l’unica felicità possibile e, nel medesimo tempo, la "terra promessa" in cui non potrà entrare. Il "complesso di Edipo" si può pensare allora che intervenga, come osserva Fachinelli, come "ideale regolatore", destinato a fare un po’ d’ordine nella grande confusione, a ridare una certa importanza e centralità alla figura di Jacob, il padre di Freud morto nel 1896, poco prima che Freud cominciasse la sua autoanalisi.
Nella zona più remota e inesplorata della preistoria degli umani non poteva che esserci il corpo femminile da cui si nasce, la memoria di un’appartenenza intima che entrambi i sessi hanno conosciuto, i segni di un desiderio sessuale che li accomuna, indipendentemente dal diverso destino che la storia ha loro assegnato. Se prima dell’autoanalisi, negli Studi sull’isteria, Freud aveva creduto di trovare l’origine della malattia nell’incompatibilità tra pulsioni sessuali e "purezza morale" delle donne prese in cura, nel Caso Dora riconosce, sia pure alcuni anni dopo che la giovane paziente aveva interrotto l’analisi, il suo "errore tecnico": non aver detto in tempo alla malata «che il suo impulso erotico omosessuale con la signora K. era la più forte delle sue correnti psichiche inconsce». Se la madre è per entrambi il primo oggetto d’amore, come giunge la bambina a rinunziarvi e ad assumere invece il padre come oggetto? Questa "svolta" verso l’uomo, «necessaria al mantenimento del matrimonio in una società civile », concludeva Freud, potrebbe per molte donne non avvenire mai.
L’affermazione "l’anatomia è il destino", con cui sembra voler dare un fondamento biologico alla differenza tra i sessi, può essere letta allora, non diversamente dal "complesso edipico", come l’extrema ratio di un osservatore che ha visto cadere ad una ad una ragioni preconcette, l’ultimo appiglio a quella visione del mondo che il suo nuovo sapere stava mettendo alle corde.
Negli anni ’70, sia il movimento antiautoritario, che scopriva la necessità della politica di "andare alle radici dell’umano", l’influenza decisiva delle esperienze infantili sui sistemi sociali, sia il femminismo che riportava l’attenzione sul corpo e sulla sessualità cancellata delle donne, hanno riservato a Freud la stessa critica repressiva, patriarcale e autoritaria, proprio nel momento in cui appariva chiaro il declino della figura paterna, l’emergere, dietro al consumismo di massa, di un fantasma materno saziante e divorante. Strano, ingiustificato destino per l’intrepido "avventuriero" che, con angoscia, vergogna, tentennamenti, aveva osato penetrare il "rimosso" innominabile della storia dei padri, sfidare i rigidi codici del rigore scientifico, affinché la sua grande scoperta, la "cura delle parole", lasciasse parlare l’umano in tutta la sua complessità.
«Le storie cliniche che scrivo si l’impronta rigorosa della scientificità... una rappresentazione particolareggiata dei processi psichici, quale in genere ci è data dagli scrittori...Mi servo di una serie di similitudini, mi prendo la libertà di fare uso di paragoni... mi guida l’intenzione di rendere intuibile una situazione mentale estremamente complessa e mai sinora descritta» (Breuer, Freud, Studi sull’isteria ).
Mai il pensiero e la vita, la parola e il corpo sono parsi vicini e indisgiungibili come nella lettura che Freud fa dei sintomi isterici: un archivio di simboli, idee, esperienze allontanate dalla coscienza, perché troppo dolorose, torna a partecipare al discorso, a raccontare attraverso segnali corporei le storie di sofferenze sepolte, mai registrate. Il "demone" che ora irrigidisce ora agita oltre misura i corpi delle isteriche, se va talvolta a collocarsi sotto il segno di un male da estirpare - "cavità purulenta", "camino da spazzare" - nella maggior parte dei casi viene accolto, attraverso le fessure che gli apre la coscienza, come irruzione di energie intellettuali e psichiche sorprendenti, messaggere di individualità femminili a venire, di cui Freud sembra avere un’oscura ma inequivocabile percezione.
La scoperta della sessualità infantile e dell’influenza che ha la preistoria degli umani sulle sedimentazioni inconsce della vita psichica, non poteva che affiorare all’animo inquieto di un uomo- figlio; l’analisi in chiave psicologica dell’isteria, l’attenzione straordinaria, partecipe e lungimirante con cui Freud si addentra nelle inedite storie delle sue pazienti, sarebbe inspiegabile senza quel movimento parallelo che piega lo sguardo su di sé, su quella "parte femminile" che l’uomo tiene celata dentro la corazza della virilità, e su cui ha continuato a costruire fisionomie immaginarie dell’altro sesso. Se è l’uomo di scienza, il medico, l’appassionato esploratore della mente umana, che vede nella sessualità - identificata con la donna, la famiglia - una "stirpe" che la civiltà ha asservito alle sue "sublimazioni", non c’è dubbio che è la tenerezza filiale a voler vedere come "esente da ambivalenze" il rapporto madre-figlio, a fare dell’unità a due dell’origine il modello di ogni felicità, a leggere nelle carezze di una madre "antiche aspirazioni sessuali" inibite o scoraggiate dalla violenza maschile.
L’idealizzazione dell’Eros nella sua forma primordiale, dove ancora si confondono l’Io e il suo oggetto d’amore, impedisce a Freud di accorgersi quanto abbia a che vedere con il "rifiuto della femminilità" la pulsione di morte che si accompagna all’abbraccio-inglobamento materno; è quella che lo induce a ritenere "naturale" il riserbo, la purezza morale, la dedizione della donna a padri, mariti, figli, la cura dei malati, a scapito della propria persona.
Ma è per la stessa ragione che, paradossalmente, Freud arriva a intuire che non è genericamente la sessualità repressa, tenuta a bada dalle convinzioni morali, a provocare la malattia, bensì la sessualità violenta, che decide deldel destino della donna. La "non comune intelligenza", l’"acuto spirito critico", il talento, l’ambizione, lo spirito di indipendenza, la combattività, che nota nelle sue pazienti, non incontrano solo l’ostacolo di pulsioni sessuali incanalate in disturbi corporei, ma urtano in modo più diretto e consapevole con una sorte decisa da altri, che toglie loro i piaceri più elementari, che fa del dovere, della moralità, del sacrificio, l’unica via praticabile per avere riconoscimento e autostima. Contrastano, soprattutto, con la solitudine e il bisogno d’amore a cui sembra condannata la donna che non si piega alla sottomissione, alla violenza sessuale e psicologica a cui la costringe quasi sempre il matrimonio: «Effettivamente essa era molto scontenta del suo stato di ragazza, era piena di progetti ambiziosi, voleva studiare o perfezionarsi nella musica, si ribellava al pensiero di dover sacrificare in un matrimonio le sue inclinazioni e la sua libertà di giudizio».
«...il senso di non poter mai, come ragazza sola, godere qualcosa della vita o fare qualcosa nella vita. Fino ad allora essa si era creduta forte abbastanza per poter fare a meno dell’aiuto di un uomo, adesso si impossessava di lei il sentimento della sua debolezza femminile, una nostalgia di amore sulla quale la rigidezza del suo carattere cominciava a sciogliersi».
«La tendenza a respingere ciò che è sessuale viene ulteriormente rafforzata dal fatto che l’eccitamento sessuale nella vergine ha una componente di angoscia, il timore dell’ignoto, del presagito, di quel che verrà, mentre nel giovane maschio sano e naturale è una pulsione nettamente aggressiva. La fanciulla presagisce nell’Eros la terribile potenza che ne domina e decide il destino ed è angosciata da essa... Il matrimonio porta traumi sessuali...la prima notte... tanto spesso non è una seduzione erotica, bensì uno stupro... non credo di esagerare affermando che la grande maggioranza delle nevrosi gravi nelle donne proviene dal letto matrimoniale».
Sulla strada del suo avventuroso viaggio nel mondo ignoto della vita psichica, Freud non poteva non incontrare prima di tutto il sesso che la storia ha identificato con le sue origini - corpo, animalità, sessualità, infanzia - e cioè la donna, ma non avrebbe potuto leggere così a fondo nelle vicende e passioni contraddittorie dell’esistenza femminile se non avesse scoperto quasi contemporaneamente in se stesso il protagonismo del corpo, dell’infanzia, dell’immaginario sessuale, di un "preistorico", esclusivo, e perciò tirannico, modello di felicità.
Rifondazione, è conto alla rovescia?
di Clementina Colombo (il manifesto, 10.01.2009)
Il conto alla rovescia, per Rifondazione comunista, è cominciato. Giovedì scorso, con una lunga intervista a “Repubblica” l’ex segretario Franco Giordano, oggi tra i principali dirigenti dell’area vendoliana “Rifondazione per la sinistra”, ha di fatto annunciato l’imminente uscita di quell’area dal Prc. La decisione finale spetterà all’assemblea dell’area convocata per il 24 e 25 gennaio in quella stessa Chianciano dove, in luglio, un cartello composto dalle quattro mozioni di minoranza battè la mozione vendoliana, che aveva ottenuto la maggioranza relativa. Ma, sia pur prive di potere decisionale, quelle di Giordano non sono certo parole in libertà. Tanto più che ieri, dopo una girandola di incontri con lo stesso Giordano, con diversi esponenti dell’area vendoliana e alla fine col segretario Paolo Ferrero, Bertinotti ha benedetto la scissione facendo sapere che “con la destituzione di Sansonetti la Rifondazione che avevamo costruito insieme è diventata irriconoscibile”.
La rimozione di Sansonetti, accusato di promuovere una linea politica diversa da quella "del partito", si consumerà lunedì. La Direzione del Prc è convocata con all’ordine del giorno la sfiducia al direttore di Liberazione e la nomina dei nuovi direttori. Uno sarà Dino Greco, ex segretario della Camera del Lavoro di Brescia, purtroppo privo di qualsivoglia esperienza giornalistica. Sul secondo, che dovrebbe invece essere un giornalista vero, regna il massimo segreto, e non è neppure certo che sia già stato individuato.
A complicare ulteriormente la vicenda, campeggia sullo sfondo l’ipotesi di vendere la testata (pur mantenendo la dizione "quotidiano del Prc" dalla quale dipende l’erogazione dei pingui contributi statali) all’editore Luca Bonaccorsi, piuttosto "chiacchierato" sia per i numerosi contenziosi sindacali con i giornalisti che lavorano nelle sue testate sia per le posizioni assai vicine a quelle del "guru" Massmo Fagioli, a sua volta un ex "bertinottiano" deluso poi dalla scelta di un gay cattolico come Nichi Vendola alla guida di "Rifondazione per la Sinistra".
Un bel ginepraio. I vendoliani negano che la loro scelta sia una diretta conseguenza del caso Sansonetti-Liberazione. In effetti, dopo il congresso di luglio, le posizioni delle due aree interne al Prc si sono vieppiù divaricate, sino a diventare incompatibili su tutti i fronti (dal giudizio sulla caduta del Muro di Berlino, all’alleanza con Di Pietro sponsorizzat da Ferrero sino all’iniziativa, criticatissima dai vendolianio).
Ma è fuori di dubbio che la vicenda di Liberazione ha quanto meno accelerato i temi del divorzio. Una parte non irrilevante dell’area vendoliana (circa un quarto) ha già annunciato e confermerà oggi la scelta di restare all’interno del Prc, sia pure su posizioni di fatto identiche a quelle degli scissionisti, con i quali manterranno comuque stretti rapporti. E c’è solo da sperare che avesse ragione il timoniere cinese Mao, quando diceva che "grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è dunque ottima".
I fanatici del popolo - Da Putin a Berlusconi, il populismo è globale
La ragione populista del filosofo marxista Ernesto Laclau e Populismo globale del giornalista italiano Guido Caldiron. Due saggi per aiutare a comprendere una forma politica che ha acquisto forza nella crisi della democrazia e nei punti «alti» dello sviluppo capitalista
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 12 dicembre 2008)
Il populismo, ovvero il nodo scorsoio della democrazia contemporanea. A scioglierlo ci provano in molti, da chi lo ritiene un residuo del passato che sarà rimosso dopo avere adeguatamente riformato le istituzioni politiche in termini di semplificazione e di centralità del potere esecutivo rispetto a quelli legislativo e giudiziario. Oppure, come manifestazione politica di quei paesi poco avvezzi alla democrazia. Letture tuttavia non convincenti.
In primo luogo, perché il populismo mostra tutta la sua radicalità politica non nei paesi dove lo sviluppo economico è più lento, come avveniva in passato in America Latina o in alcune realtà asiatiche, dove partiti e leader esplicitamente populisti facevano le loro fortune. La fine del Novecento ha infatti visto forze populiste conquistare sempre più consensi, arrivando a condizionare la vita politica se non a governare nazioni come la Francia, l’Italia, l’Olanda, l’Austria, gli Stati Uniti e la Russia di Vladimir Putin.
Dunque, un fenomeno politico che non è certo un’ingombrante eredità gettata con volgarità sul presente. Piuttosto va considerato come la forma politica che si misura con i problemi posti dalla crisi del neoliberismo e della globalizzazione. Insomma, una risposta innovativa ai conflitti sociali nei cosiddetti «punti alti» dello sviluppo capitalismo: è questa, infatti, la tesi di studiosi e leader politici affascinati dal discorso populisti. Per sgomberare il campo da equivoci va subito detto che il termine «innovativo» non esprime qui un giudizio, ma solo la constatazione che i partiti e i leader populisti riescono a elaborare analisi e proposte politiche più efficaci di altre, sfruttando al meglio i media e le forme di mobilitazione - dalla vecchia radio all’anziana televisione, alla caotica Internet, dagli sms al fascinoso volantinaggio - preposte alla formazione dell’opinione pubblica.
Le fragili identità
A confrontarsi con questo rovello sono due recenti libri che, sebbene siano nati in ambiti disciplinari e con prospettive diverse, sono tra loro complementari. Si tratta di Populismo globale (Manifestolibri, pp. 191, euro 18) e La ragione populista (Laterza, pp. 300, euro 20). Il primo è di Guido Caldiron, un giornalista e studioso da sempre attento alle evoluzioni della destra radicale europea. Il secondo è del filosofo argentino Ernesto Laclau, che ha dedicato molte opere alla comprensione di come funziona la democrazia sin da quando è salito in cattedra a Oxford su segnalazione dello storico Eric Hobsbawm dopo aver precipitosamente abbandonato il suo paese perché minacciato di morte dai gruppi paramilitari di estrema destra.
La complementarietà dei due saggi è data dal fatto che là dove finisce Caldiron inizia l’analisi di Laclau. Populismo globale è, infatti, è una documentata analisi sull’ascesa dei partiti e leader populisti, mentre La ragione populista definisce le coordinate filosofiche entro le quali si muove la cultura politica populista. Caldiron ne cerca le radici, Laclau evidenzia come l’albero è nel frattempo cresciuto. Entrambi, però, iscrivono il populismo nella sfera politica, cancellandone le basi materiali. Infatti, né Caldiron, né Laclau mettono mai in relazione il fatto che il populismo cresce laddove è presente una composizione sociale della forza-lavoro estremamente articolata e dove la precarietà è la condizione necessaria alla messa al lavoro del sapere, il linguaggio, la conoscenza, la capacità di sviluppare una «autonoma» cooperazione sociale. In altri termini, il populismo ha fortuna nei punti alti dello sviluppo capitalistico.
Guido Caldiron parte dall’elezione a presidente di Nicolas Sarkozy e dalla vittoria elettorale del Popolo delle libertà di Silvio Berlusconi. Entrambi sono leader populisti, che hanno saputo intercettare gli umori profondi dei rispettivi popoli, articolandoli in un programma politico con al centro la figura dell’individuo proprietario. Inoltre, tanto Sarkozy che Berlusconi hanno saputo creare un clima mediatico che ha posto con forza nell’agenda politica temi e argomenti che componevano il loro programma politico: l’insicurezza sociale, intesa come paura di una messa in discussione del proprio stile di vita; la presenza di nemici interni alla nazione - in Francia la cultura del Sessantotto e la racaille delle periferia, in Italia uno stato-vampiro e i migranti -. Per Caldiron è tuttavia importante comprendere come i temi dell’agenda populista siano stati quelli dei gruppi di estrema destra per i venti anni che hanno preceduto la fine del Novecento.
In nome del futuro
Ciò che colpisce nella ricostruzione di Caldiron dell’ascesa di Nicolas Sarkozy è la traduzione dei temi propri della «destra radicale» in una politica «per bene» fatta dal presidente francese e di come siano stati sapientemente usati all’interno della crisi dei partiti moderati e della destra francese alimentata dalla globalizzazione neoliberista per un ricambio generazionale e culturale di quegli stessi partiti. Con una novità, che rende il populismo contemporaneo radicalmente diverso da quello Novecentesco: le richieste di ordine e disciplina non vengono motivate in nome di un’armonica comunità originaria minacciata dalla modernità, bensì in nome del futuro.
Il popolo evocato da Sarkozy e da Berlusconi ha fatto esperienza della globalizzazione. È il popolo dove i singoli sono rappresentati come tanti imprenditori di se stessi proprietari di un capitale intellettuale e sociale che deve poter essere sfruttato al meglio senza i limiti posti dallo stato sociale. Della triade della rivoluzione francese preferisce infatti la libertà all’eguaglianza e alla fraternità: una libertà, si badi bene, che ha nel il mercato la sua unità di misura. Per questo motivo chi lo vuole rappresentare parla del futuro invece che del passato. A sostegno di questa lettura Caldiron cita il caso di Pim Fortuyn, il leader della destra populista olandese ucciso alcuni anni fa che non ha mai nascosto la sua omosessualità e che ha invocato la tutela dei diritti umani contro gli «indigeni» musulmani presenti o nati in Olanda. In questa particolare accezione, i diritti umani sono il perimetro di una civiltà che non tollera nessuna diversità. Così, l’accesso alla cittadinanza è quindi necessariamente selettivo.
Assistiamo così a un populismo che impugna l’arma dei diritti umani per tenere fuori i nemici dell’Occidente: per i nemici interni, invece, la «tolleranza zero» non è solo una politica dell’ordine pubblico, ma un marchio di fabbrica che non può essere contraffatto. Tesi presenti, ad esempio, nelle prese di posizione di intellettuali come Alain Finkielkraut, Christopher Hitchens, André Glucksmann che, seppur con un passato di sinistra, sono diventati i più strenui difensori della superiorità occidentale. Un ordine del discorso dilagante dopo l’attacco alle Twin Towers, dove la presidenza di George W. Bush ha fatto esplicitamente riferimento allo scontro di civiltà di Samuel Phillips Huntington per legittimare un politica interna decisamente populista.
Se si rimane però all’atlante della galassia populista proposto da Guido Caldiron si rimane colpiti più dalle differenze che dalle ripetizioni che si incontrano mettendo a confronto l’Europa, gli Stati Uniti, la Russia di Putin o l’Iran del presidente Mahmud Ahmadinejad. E rischia di smarrirsi in esso. Ma è proprio questa grande capacità di adattamento a realtà diverse che contraddistingue il populismo contemporaneo da quello del passato.
Il problema è dunque svelare la visione populista del Politico. Per dirla con le parole del filosofo Ernesto Laclau occorre stabilire la sua ontologia, perché il populismo «costruisce» il popolo, attraverso l’evocazione della sua assenza.
Mutanti e flessibili
Il populismo dunque come paradigma del «Politico», ma anche come un modo di organizzare uno Stato che ha preso congedo sia dalla democrazia rappresentativa che dalle alternative ad essa. È infatti uno stato, quello invocato dai populisti contemporanei, che eleva sì un leader al di sopra degli interessi parziali che confliggono nella società, ma stabilisce l’equivalenza, quindi la commensurabilità di un interesse economico, di uno stile di vita con un altro. Non è un caso che Ernesto Laclau utilizzi in maniera innovativa il concetto gramsciano di egemonia per spiegare la costruzione di un significante che abbia la capacità di rappresentare, superandoli, gli antagonismi e le differenze della realtà sociale.
Il popolo è un significante vuoto che va riempito, stabilendo appunto i criteri che stabiliscono la coesistenza e la commensurabilità tra le tante parzialità che compongono la realtà sociale. I populisti sono i traduttori dei diversi idiomi sociali in un linguaggio comune, quello del popolo.
È noto che nelle pratiche politiche populiste c’è il popolo è rappresentato come una «comunità organica di simili» e che occorre cancellare le divisioni introdotte dagli elementi estranei a quella stessa comunità. I populisti, insomma, sono sempre a caccia di nemici interni. Il discorso populista contemporaneo invece non cancella la eterogeneità e le differenze anche di classe, ma le riconduce appunto alla loro parzialità, che possono esistere solo se espresse in un significante universale messo a punto in una data contingenza. In questo testo di Laclau sono forti gli echi degli studi di filosofi come Jacques Ranciere e Alain Badiou quando si sono confrontati con l’impossibilità di pensare la politica al di fuori di una contingenza. Quella che vede la presa di parola di chi è dotato di una facoltà di linguaggio negata dai dominanti, come sostiene Ranciere; o laddove, secondo Badiou quando scrive sulla Comune di Parigi, si interrompe il corso lineare della storia a causa dell’irruzione del conflitto di classe nella scena pubblica. Laclau, invece, ritiene che c’è contingenza quando l’assenza del popolo viene evocata e presentata dal discorso populista. Il populismo è quindi la forma politica che risponde alla crisi della democrazia.
Occorre quindi guardare la «bestia» in volto senza averne paura. Una bestia che non si ritirerà dalla scena pubblica con la crisi del neoliberismo. Il limite dei due libri sta, però, nella rimozione, se non nell’irrilevanza del nesso tra i laboratori della produzione e la dimensione politica. È infatti in quei laboratori che il populismo, in nome dell’individuo proprietario, altro significante universale che attiene alla ragione populista, ha compiuto la prima operazione, traducendo in termini capitalistici le istanze di libertà e di autodeterminazione espresse dalla forza-lavoro. Una traduzione che gli ha dato forza, fino a condizionare l’agenda politica non solo di una nazione, ma di tutto il capitalismo contemporaneo indipendentemente da chi esercita il potere dell’esecutivo.