KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIGINI DELL’“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICHMANN. Alcune note
di Federico La Sala
In Germania, la “distorsione” - e le premesse della ”hitlerizzazione di Kant” - avviene già alla fine del 1700, ad opera di Fichte prima e di Holderlin, Schelling, e Hegel poi. Chi dà il via - contro il programma critico di Kant che, già con “i sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica” (1766) prima e soprattutto con la “Critica della ragion Pura” (1781 e del 1787) dopo, ha ‘ghigliottinato’ (anticipando gli eventi: la rivoluzione francese e la morte di Luigi XVI) il “Dio” dei Faraoni (atei e devoti) e senza negare la rivelazione (l’antropologico “bisogno razionale” della ragione) ha sbarrato la strada a ogni possibilità di una metafisica e di una teologia come scienza, - è Johann G. Fichte. Questi, nato nel 1762, nello stesso anno della pubblicazione dell’Emilio e del Contratto sociale di J.-J. Rousseau, è segnato paradossalmente dalla lettura del Robinson Crusoe di Daniel Defoe.
Nel 1791 con il “Tentativo di critica di ogni rivelazione” (1792), Fichte dà l’avvio al suo programma, sottopone il discorso di Kant a una radicale distorsione e comincia le sue lezioni “sui doveri degli eruditi” (sulla cosiddetta “Missione del dotto”, un tema che sarà al centro delle sue preoccupazioni fino al 1811-1812, quando sarà eletto rettore del’Università di Berlino), dà il via libera al sogno di una restaurazione della “Scienza” (“Sul concetto della dottrina della scienza“, e il “Fondamenti della intera dottrina della scienza” sono del 1794) e, infine, con i “Discorsi alla nazione tedesca” (1807-8), lavora a stimolare un risveglio politico e morale della coscienza nazionale in modo già fortemente nazionalistico.
Hegel, in una lettera a Schelling del 1795, documenta molto bene l’atmosfera “romantica e mistica” della strada aperta da Fichte e subito condivisa da lui stesso, Schelling, e Holderlin, e a Schelling scrive: “Holderlin mi scrive da Jena di tanto in tanto. (...) Segue le lezioni di Fichte e ne parla con entusiasmo, come di un titano che combatte per l’umanità e la cui sfera d’azione non rimarrà certamente confinata tra i muri dell’aula accademica (...) Venga il regno di Dio e le nostre mani non restino in grembo (...) Ragione e libertà restano la nostra parola d’ordine, e il nostro punto d’incontro resta la chiesa invisibile” (G.W.F. Hegel, Lettere, Laterza, Bari 1972, p. 11-12).
L’ “Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico” (Kant, 1784), per quanto ancora segnata da eurocentrismo e memoria delle origini greco-romane, è buttata alle ortiche e l’ottica diventa sempre più (e già, minacciosamente) nazionale. Nel 1799, quando Kant era ancora vivo (uno dei suoi ultimi scritti, “Logica”, uscì nel 1800), Holderlin lo consegna filosoficamente già morto agli amici del “seminario di Tubinga” e lo im-mortala come la pietra fondante della costruzione dell’idealismo tedesco, come il “Mosè della nostra nazione, che conduce dal torpore egiziano nel libero, solitario deserto della speculazione, portandole dal sacro monte l’implacabile legge” (cit. in: Remo Bodei, Scomposizioni, Einaudi, Torino 1987, p. 90).
E nel 1805, Hegel a Johann H. Voss (che aveva realizzato la traduzione tedesca dell’Odissea nel 1781 e dell’Iliade nel 1793), scrive: “Lutero ha fatto parlare la Bibbia in tedesco, Lei, Omero: è il più grande regalo che possa essere fatto a un popolo; infatti un popolo rimane allo stato barbarico e non considera come sua proprietà le cose pregiate che viene a conoscere, finché non impara a riconoscerle nella propria lingua. Se Lei vuol dimenticare questi due esempi, Le dirò che il mio sforzo è diretto a far parlare la filosofia in tedesco”. E, poco oltre, aggiunge: “Per la Germania sembra essere venuto il tempo in cui la verità debba diventare manifesta, e che a Heidelberg possa sorgere una nuova aurora per la salvezza della scienza” (G.W.F. Hegel, Lettere, cit., p. 68).
Hegel sta alludendo alla imminente pubblicazione della “Fenomenologia dello Spirito”, ma è ancora incerto. Su Heidelberg si sbaglia, ma alla fine dell’anno successivo a Jena, occupata dai francesi, abbagliato dalla luce dello Spirito del mondo, riceve l’ ‘investitura’ e scrive: “Ho visto l’Imperatore [Napoleone] - quest’anima del mondo - uscire a cavallo dalla città per andare in ricognizione; è in effetti, una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, s’irradia per il mondo e lo domina” (Lettera a Niethammer, op.cit., p. 77). Allora rompe ogni indugio e, preso dall’entusiasmo, taglia il cordone all’ombelico del suo sogno (ma anche di Cartesio) e, agli inzi del 1807, butta giù la famosa ‘Vorrede’ (la “Prefazione” alla Fenomenologia dello Spirito), celebrata da Marcuse di “Ragione e Rivoluzione” come “una tra le più grandi imprese filosofiche di tutti i tempi, costituendo niente di meno che un tentativo di restaurare la filosofia come la forma più alta della conoscenza umana, come La Scienza”. Egli, finalmente, è giunto a cogliere e a ‘svelare’ al mondo l’ “elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua religione”: l’Assoluto come Spirito (“Io che è Noi, e Noi che è Io”)! E il sogno di “far parlare la filosofia in tedesco” comincia.
Nel 1933, il discorso del rettorato di Martin Heidegger è la ‘logica’ conseguenza dell’assassinio non solo del “Mosè della nazione tedesca” (come voleva Holderlin), ma del Mosè Liberatore e Legislatore dell’intera tradizione abramica (ebraismo, cristianesimo, e islamismo) ed europea. L’"Uno" di Mosè (“Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno”), come l’“uno”di Kant, diventa l’uno della monarchia prussiana prima (si cfr. la “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico” di K. Marx) e poi del Terzo Reich dopo! E il “Tu devi” (con il suo “io voglio”) dell’ “imperativo categorico” mosaico, cristiano e kantiano, diventa il “Tu devi” (con il suo “io voglio”) del Regno del Fuhrer-Dio - l’“imperativo categorico” di Heidegger come di Eichmann. Offesa più grande a Kant non poteva essere fatta e trappola più grande non poteva essere congegnata per la filosofia tedesca e per l’intera cultura europea.
Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici: “Ad esempio, nella sua introduzione all’edizione italiana del volume [Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, Guida, Napoli 1992], Eugenio Mazzarella scrive: “Paradossalmente è la perdita della patria che ridà ai tedeschi - come all’altro popolo eletto - una missione storico-universale nel senso dell’interiorità e della profezia, e non più in quello demonico del dominio planetario” (pp.34-35).
Giustamente, Alessandro Dal Lago, scrive e commenta a riguardo: “No. io non credo che alcun popolo abbia oggi missioni storiche, e tantomeno universali da compiere, persino nella interiorità della profezia. Semmai, la scena contemporanea esigerebbe che i pensatori, invece di bearsi della loro grande tradizione, si decidessero ad abbandonare interiorità e profezie, si confrontassero con il mondo (...) Ciò presuppone una ridiscussione dell’immaginario politico immanente nella filosofia stessa, a partire da quello strano pregiudizio per cui i filosofi, chissà perché, sarebbero in grado, più di ogni altro, di leggere il destino del mondo” (cfr. Alessandro dal Lago, Ma fu davvero la cattiva coscienza della Germania, l’Unità, 17 ottobre 1992, p. 18).
Purtroppo, dopo Auschwitz (1945) e dopo il processo di Eichmann a Gerusalemme (1961), lo Stato del Faraone e della minorità è ancora molto forte - e, ovviamente, la superstizione e l’esaltazione della ragione anche!
Federico La Sala (04.06.2010)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
FILOSOFIA LINGUISTICA ANTROPOLOGIA E CRITICA:
UNA HAMLETICA QUESTIONE DI TEMPO E DI RAPPRESENTAZIONE (KANT).
SE, COME SCRIVE ERACLITO DI EFESO, "Il tempo [#aìon] è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo" (fr. 52), E, COME SCRIVE SHAKESPEARE NEL SUO "AMLETO", "il tempo è fuori dai cardini" ("The time is out of joint": "Hamlet", I.5), RICORDANDO KANT (1724-1804), E CONSIDERANDO "IL TEMPO ESAURITO" (Enrico Castelli, 1900-1977), alla luce di una sintetica "lezione" grafica di Umberto Eco, forse, è opportuno una ripresa di riflessione sul tema.
MEMORIA E STORIA. LA sollecitazione viene da una importante testimonianza di Franco Lo Piparo: "Mi sono ricordato di una vignetta filosofica sul tempo che Eco ideò in occasione di una mia conferenza all’Università di San Marino. Era il 26 gennaio 1995 [...]" (cfr. "UNA VIGNETTA FILOSOFICA DI ECO SUL TEMPO E ALTRE ANCORA",16 agosto 2024):
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA"). Umberto Eco, oso pensare (#sàpereaude!"), rendeva "silenziosamente" omaggio a Kant e alla sua "Critica della ragion pura": forse, egli aveva cominciato a lavorare intorno al libro che uscirà due anni dopo, "Kant e l’ornitorinco" (Bompiani 1997 - La nave di Teseo 2016) e stava già riflettendo sul rapporto "essere e tempo" e "tempo ed essere" a livello antropologico (nel tentativo di gettare luce sul lavoro di Kant e, infine, anche di Heidegger).
NOTA:
Filosofia. Dalle relazioni ai social: perché leggere Heidegger ci aiuta ancora
Il pensatore tedesco ha elaborato le categorie tradizionali in maniera creativa, le ha riadattate al presente tecnologico con particolare attenzione ai rapporti interpersonali
di Adriano Fabris (Avvenire, mercoledì 14 febbraio 2024)
Il titolo del mio intervento al convegno su "Heidegger in Italia - Heidegger e il problema della relazione" - può essere fuorviante. Si può intendere [...] accentuando il termine “problema” oppure valorizzando il concetto di “relazione”. Nel primo caso [...] ci si muovei sulla scia delle critiche che da Essere e tempo in poi sono state rivolte al pensiero heideggeriano, soprattutto dal versante ebraico. Löwith, Buber, Levinas [...] hanno rimproverato Heidegger di trascurare, o di fraintendere nel loro senso più proprio, le relazioni fra gli esseri umani e il vincolo etico che in esse s’impone.
Qui si vuole mettere al centro il tema della relazione attribuendolo a Heidegger, per dir così, in una maniera positiva. Far vedere che è il principio motore del pensiero heideggeriano in tutto il suo sviluppo; valorizzare una determinata idea di relazione intendendola come il problema di fondo che Heidegger affronta, come un argomento decisivo che egli eredita dalla tradizione filosofica, trasforma produttivamente e lascia in eredità alla riflessione futura. [...]
Dobbiamo aver chiara la mossa teorica che Heidegger compie e grazie alla quale il tema della relazione acquisisce la sua centralità. È la mossa effettuata nei confronti di Husserl e, in particolare, rispetto alla sua dottrina dell’intenzionalità. Anche Husserl infatti, sebbene in maniera più implicita, considera la relazione come un suo problema. Rispetto all’unilateralità del legame fra soggetto e oggetto che caratterizza ad esempio l’approccio neokantiano, e nei confronti dell’incomprensibilità del fatto che possano poi incontrarsi un soggetto e un oggetto che sono inizialmente e irrimediabilmente separati, lo Husserl dei primi anni del Novecento intende il soggetto come intentio, cioè come soggetto intenzionale,e l’oggetto come intentum, come fenomeno intenzionato, predisponendoli così già a un incontro.
Tuttavia tale incontro, nell’ottica di Husserl, dipende soprattutto dal soggetto. [...] Tale approccio condanna Husserl a una lettura unilateralmente conoscitiva, teoreticistica, della relazione stessa. Altri modi di pensare il nostro legame con il mondo, altri modi di essere, debbono invece venir considerati: primi fra tutti - come insegna Aristotele - quelli relativi alla praxis. È ciò che mette a fuoco, proprio con riferimento ad Aristotele, Heidegger nei primi anni Venti.
Per far sì che avvenga questo allargamento di prospettiva - col quale, si badi bene, si scopre un nuovo territorio per l’indagine filosofica, un territorio che va al di là di quello colonizzato dalle scienze modernamente intese - è necessario però compiere un ulteriore passaggio fondamentale. È necessario considerare il principio della relazione, ciò che è condizione della relazione stessa, dei termini che mette in relazione e non sul loro stesso piano [...] Questo “qualcosa” che è prima, come condizione di tutte le possibili relazioni che possono essere sperimentate, Heidegger lo chiama “essere”. È dunque necessario porsi anche (e soprattutto) il problema della relazione a questa condizione di ogni relazione, nonché il problema di quell’ente che è in grado di approfondire e sviluppare tale relazione con l’essere. Questo, come sappiamo, è il tema di Essere e tempo. [...]
Ma in quest’opera tale compito viene svolto solo parzialmente. Il problema della relazione che lì viene impostato e che, però, resta ancora aperto riguarda il legame tra il Dasein e l’essere in generale, nonché il modo in cui dev’essere intesa e può configurarsi la relazione tra l’essere, gli enti e il Dasein. Ciò, come sappiamo, porterà in seguito Heidegger a rovesciare, proprio per risolvere questo problema e garantire l’attuarsi della relazione, l’approccio di Essere e tempo.
A partire dagli anni Trenta diventa sempre più chiaro che è l’essere in generale, in quanto Ereignis (evento), a manifestarsi veritativamente e onto-storicamente al Dasein. [...] Ora “relazione” non indica solo ciò che sta prima. “Relazione” significa ed è, propriamente, relazionarsi. In ciò e solo in ciò essa si attua nella sua verità. In ciò e solo in ciò si annuncia anche la sua differenza rispetto agli enti nella loro oggettività e staticità. E “essere” finisce per diventare il nome, precisamente risemantizzato, di questa stessa dinamica relazionale.
Potremmo ricostruire a partire da qui la riflessione di Heidegger della seconda metà degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta, soprattutto considerando la stratificazione dei trattati inediti. [...] Preferisco invece, a partire da quanto messo in evidenza e concludendo il discorso, indicare alcune vie per utilizzare il pensiero heideggeriano, produttivamente, nel contesto contemporaneo.
Ciò che dobbiamo pensare oggi, ciò con cui l’indagine filosofica deve confrontarsi, è lo sviluppo tecnologico, in tutte le sue forme. Dobbiamo pensare questo sviluppo nella sua struttura, nelle sue conseguenze, nelle trasformazioni della mentalità che esso comporta. Dobbiamo pensarlo filosoficamente, cioè a partire da quelle categorie e da quei concetti che la storia del pensiero ha elaborato.
Questo è ciò che ha fatto Heidegger. Heidegger ha ripensato le categorie tradizionali in maniera creativa, per elaborare una filosofia all’altezza delle questioni che riteneva di dover affrontare: e fra queste anche la situazione in cui viviamo, permeata dagli sviluppi tecnologici. Questo è ciò che ha fatto Heidegger, nello specifico, riguardo al problema della relazione. [...]
Le tecnologie mettono in opera relazioni. I programmi che consentono di farlo sono disegnati e costruiti secondo specifiche forme di relazione - quelle operazionali prodotte dagli algoritmi - e servono per attuare relazioni fra gli esseri umani (ad esempio attraverso i social), fra le macchine (ad esempio nell’IoT), e fra gli esseri umani e le macchine (ad esempio quando usiamo uno smartphone). I dispositivi utilizzati a tale scopo funzionano proprio mettendosi in relazione fra loro (cioè mettendosi in rete) e aprendo contesti di relazione (gli ambienti digitali). [...]
Tutto ciò richiede di essere pensato: di essere pensato filosoficamente. È un tema su cui, anche in riferimento a Heidegger, la filosofia italiana del secondo dopoguerra si è soffermata più volte: da Paci a Severino, per esempio. Ma Heidegger, a questo proposito, ci può essere utile ancora oggi. Almeno per due motivi.
Da una parte, ci consente di approfondire nella sua complessità la dimensione relazionale in cui viviamo, evitando di ridurre la relazione a una semplice connessione. Dall’altra, il riferimento al suo pensiero ci permette di tenere presente il limite del vivere e dell’agire umani, anche quando tale limite si riflette nell’azione apparentemente illimitata delle tecnologie. Questi possono essere i modi in cui il pensiero di Heidegger può essere rilanciato, anche e soprattutto nel contesto della filosofia italiana, per fare i conti criticamente con la situazione attuale.
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, "RELIGIONE DEL DOVERE", E "DIVINA COMMEDIA":
BENEDETTO CROCE E LA PUNTA FILOSOFICA DI UN ICEBERG COSMOTEANDRICO.
Sul "lascito morale di Benedetto Croce", forse, è opportuno ricordare storiograficamente (filologicamente e antropologicamente) che "la lingua batte dove il dente duole": può essere condivisibile, oggi, la considerazione che “ciò che si richiede e che si ubbidisca ad una necessità morale. La quale comanda che si attenda con ogni rischio, a tutelare gli umani valori e le umane virtù, il rispetto della personalità, il dir no al male e sì al bene, ciò che si chiama insomma il culto della libertà; la quale è il principio direttivo a cui sempre deve si deve far ricorso. Quale che sia lo schema di ciò verso cui il mondo va, quello schema sarà riempito da uomini e sarà reale solo nei pensieri, nei sentimenti e negli atti degli uomini, e avrà quella realtà che essi gli daranno, e tanto migliore quanto migliori quegli uomini. Non vi date dunque pensiero di dove vada il mondo, ma dove bisogna che andiate voi, per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi di voi stessi” (cfr. Tito Lucrezio Rizzo, "Il lascito morale di Benedetto Croce", L’Opinione delle Libertà, 08 febbraio 2024)?!
All’interno dell’attuale presente storico (dell’Europa del 2024), proprio per non vergognarsi di sé e ri-accogliere come indicazione antropologica piena l’affermazione che «L’uomo morale - affermerà nuovamente il #Croce - è il "Vir bonus agendi peritus", chiamato ad operare nel quotidiano sorretto da una retta #coscienza che ne ispirava l’agire concreto, perseguendo i fini di utilità generale da raggiungere e di cui farsi strumento» (T. L. Rizzo, cit.), non è , forse, necessario re-interrogarsi e re-interpretare il rapporto tra la tradizione greco-romana e la tradizione cristiana (con spirito critico, con le famose "virgolette" crociane, del saggio del 1942), proprio a partire da questa "ovvia" (ma indebita) generalizzazione, in cui l’uomo (#Vir) vale immediatamente come l’Uomo (#Homo), come il #genereumano nella sua totalità (cioè, per l’#uomo e per la #donna, per "Adamo ed Eva", e per "Giuseppe e Maria")?
Non è bene riprendere il filo almeno dalla "Divina Commedia" e reinterrogarsi non solo sul significato della lezione di #Beatrice a #Dante sul senso di quel "sarai meco sanza fine cive / di quella #Roma onde #Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102), ma anche sul "Tu devi" kantiano, sul problema dell’imperativo categorico di Immanuel Kant, se si vuole vivere secondo Coscienza, cioè secondo la Costituzione della Repubblica italiana?
Federico La Sala
MEMORIA, ANTROPOLOGIA, E "RAPPORTI SOCIALI DI PRODUZIONE" (27 GENNAIO 2024):
STORIA E FILOLOGIA: IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO).
RIMEDITARE INSIEME ALLA LEZIONE DI NIETZSCHE ("Sull’utilità e il danno della storia per la vita"), ANCHE QUELLA DI ESCHILO («i morti uccidono i vivi») E DI MARX ("Il morto fa presa sul vivo!").
Se non ora, quando!?
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN...
#Earthrise #Kant2024
27 GENNAIO 2024: USCIRE A "RIVEDERE LE STELLE" (DANTE ALIGHIERI, Inf. XXXIV, 139).
MITO, ANTROPOLOGIA, STORIA, LETTERATURA, E STORIOGRAFIA: IL POMO DELLA DISCORDIA...
LA TERRA, L’AMORE COSMOGONICO DI DANTE ALIGHIERI, IL "CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI" DI ITALO CALVINO, E LA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" DEI "DUE SOLI".
UNA QUESTIONE "COSMICOMICA", A QUANTO PARE, SEGNATA DALLA "PAURA" (E DALLA CONSEGUENTE "CADUTA" in una "SELVA OSCURA", in uno"stato di minorità" ) E’ DIVENTATA "BIBLICAMENTE" COSMOTRAGICA: ""Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto" (Gn "3, 8").
Probabilmente, aveva ragione #GiordanoBruno nell’avanzare la teoria che si trattava di un tempo "fuori dai cardini", che era un problema di ordine cosmico, di riforma cosmologica ("Lo spaccio della bestia trionfante") e dopo, al contempo, #Lessing, nel porre all’ordine del giorno la questione di #educazione del genere umano.
Kant, da parte sua, riprendendo il discorso e riannodando insieme il "cielo stellato" e la "legge morale", dice che è soprattutto una questione di maturità, e a chi non vuole sentire ragioni, risponde con determinazione, con e come #Orazio: "#sàpere aude!" (risolviti ad assaggiare"), esci dal tuo personale "stato di minorità", e fà un buon uso della tua propria facoltà di giudizio, senza avere di nuovo e ancora paura: "Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra. Ecco ciò che è tuo!".(Mt. 24-25).
FORSE "LA TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI" (CALVINO) E I "DUE SERPENTI" DEL CADUCEO (DI ERMES/MERCURIO), con i DUE SOLI di Dante Alighieri, ripensati con "IL #MULINO DI AMLETO" (di Giorgio Diaz de Santillana e Hertha von Dechend), e, non ultimo, con lo stesso "AMLETO" (di William #Shakespeare), possono aiutare a focalizzare meglio l’orizzonte spazio-temporale cosmico e le "regole del gioco" entro cui si danno "le disavventure di Eros".
DA considerare e non dimenticare che la memoria di #Demetra - Cerere (Eleusi) è più viva che mai (se pure in gran pericolo) e che le sue "disavventure" sono iniziate proprio da un intervento voluto da #Afrodite-#Venere e da #Eros - #Cupìdo che, come ha ben visto Dante, ha un suo orrizzonte cosmicomico: "è l’amore che muove il sole e le altre stelle".
NOTA
#Eleusis2023 #Buon2024...
ALL’ORIGINE DELLA "GUERRA DI TROIA", LA STESSA "STORIA" DEL "GIOCASTOLAIO" EDIPO:
MATEMATICA, ANTROPOLOGIA, E ARCHEOLOGIA FILOLOGICA E FILOSOFICA: 1+1=1.....
DA UNA ENCICLOPEDICA "VOCE " DI "DONNA": "[...] Un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, 1979),
UNA #HAMLET-ICA #DOMANDA. CHI HA SCRITTO il "#Discorso sull’origine e i fondamenti dell’#ineguaglianza tra gli uomini" ("Discours sur l’origine et les fondements de l’#inégalité parmi les hommes")?
NON è il "caso" di ripensare il "Problema Jean-Jacques #Rousseau" e interrogarsi di nuovo e ancora su "#comenasconoibambini" (come da sollecitazione di un protagonista della "#ScuoladiMilano", #EnzoPaci, che ben conosceva l’opera del napoletano #GiambattistaVico) e dare il via a una "#ScienzaNuova"?
FILOLOGIA STORIA FILOSOFIA ANTROPOLOGIA:
USCIRE DAL SONNO DOGMATICO (KANT). Chi di potenza ferisce, di potenza perisce. Queste le "regole del gioco" dell’Occidente? A quanto pare, l’#Europa è ancora ferma a Niccolò #Cusano e alla sua teologia-politica delle "congetture": con l’#astuzia paolina della "dotta ignoranza" (1440), quale "setaccio" ("cribratio") può fondare il #dialogo tra le religioni e la "pace della fede" (1453)? Non è meglio ripartire dalla "caduta" ("donazione") di #Costantino (#LorenzoValla, 1440), per capire e andare oltre la "caduta di #Costantinopoli" (1453) e, #oggi (nell’anno dell’#Incarnazione del #Natale2023), oltre #Nicea (325-2025)?! Se non ora, quando?
#STORIAELETTERATURA E #STORIOGRAFIA: LE “#REGOLEDELGIOCO" DELL’EUROPA (DI #IERI). A partire dal 1492: "Su cosa è stato edificato il nuovo mondo? Genocidi e stermini. Chi ha dato il nome a questo nuovo mondo? Un Vespucci (in verità non lui direttamente, ma ricordiamoci dei ragni e delle formiche di Bacone). Chi ha chiamato così l’Amazzonia? E, chi così il Brasile? A Napoli, sì sempre a Nea-polis, questo nome ricorda la brace, il braciere, persone intorno a un fuoco che riscalda, un cerchio familiare che si apre e accoglie chi ha freddo - non la devastazione e il deserto di chi cieco e folle si mette a distruggere tutto: Edipo con in mano il lancia-fiamme a volontà - Platone, il Tecno-crate. Di fronte alla Foresta gli uomini ciechi e folli di potenza (ma qui si parla anche delle donne-amazzoni) vedono nulla e fanno e ... faranno il Brasile?” (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991, pp. 180-181).
LA TRAGEDIA DEL CD. "PATRIARCATO", OVVERO IL "COMPROMESSO DORICO" DELLA RAGIONE OLIMPICA (ELEUSIS2023).
Una nota a margine della "metafisica concreta" dell’Occidente... *
DOTTA IGNORANZA (CUSANO,1440) CONTRO FILOLOGIA (LORENZO VALLA, 1440):#COME NASCONO I BAMBINI...
STORIA #STORIOGRAFIA E #ANTROPOLOGIA. MASSIMO #CACCIARI, a mio parere, sta ancora a difendere, il #compromesso "dorico" della #tragedia tebana di #Giocasta ed #Edipo (e della #caduta biblica): con tutta la stima nei suoi confronti personali, ma la logica della sua metafisica concreta resta tutta dentro l’orizzonte del #paolinismo e della #cosmoteandria atea e devota! (Nicea, 325-2025).
#DANTE2021 #BOVILLUS #COSMICOMICHE (#calvino100)
STORIA DELLA CULTURA EUROPEA:
UNA FILOSOFICA QUESTIONE D’AMORE (CHARITAS).
Una nota sul "disagio della civiltà" (e nella civiltà).
Hannah Arendt, sul "concetto d’#amore in Agostino" (1929), titola il cap. 2 della Parte Prima ("Amor qua appetitus") e della Parte Seconda ("Creator - Creatura"): "Caritas e cupiditas"; ma il Dottore della #Grazia ("Charis") non scrive "Ecce unde incipit Charitas"?
Martin Heidegger, in "Essere e Tempo" (1927), a proposito di Max "Scheler, sotto l’influenza di Agostino e di Pascal", ricorda la frase del’uno e dell’altro, e, cita in nota: "Non intratur in veritatem nisi per charitatem"; "n’entre dans la vérité que par la charité" ("Non si entra nella verità se non con la carità"). Che fare?!
Amore (Charitas") o Mammona ("Caritas"): "Essere, o non essere" (Shakespeare, "Amleto": III,1). Sul "Deus caritas est" non è forse ora di fare chiarezza (claritas)? O, per assurdo, l’amore è "lo zimbello del Tempo" (Shakespeare, Sonetto 116)?!
Non è bene ricordare, filologicamente, che "in principio era il Logos"?! Se non ora, quando?!
*
a) Cfr. Hannah Arendt, "Il concetto d’amore in Agostino", a c. di Laura Boella, SE, 2021.
b) Cfr. Max Scheler, "Ordo amoris", Morcelliana, Brescia.
c) Cfr. S. Freud, "Disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino.
FILOSOFIA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, POLITICA, E RELIGIONE E STORIA E LETTERATURA:
LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL.
Una nota *
Il tramonto della cristianità
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 18 Settembre 2023)
La crisi della Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Naturalmente preoccupa soprattutto i cristiani, ma non riguarda soltanto loro perché essa è l’effetto di una crisi sottostante, quella della civiltà cristiana che è la base delle nostre società. Per questo non riguarda soltanto la fede cristiana, ma la società contemporanea nel suo insieme.
In che modo e con quali conseguenze è l’argomento di un breve e interessante saggio della filosofa politica francese Chantal Delsol dal titolo esplicito, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo (ed. Cantagalli). Il punto di partenza della sua analisi è la constatazione che stiamo assistendo al tramonto della cristianità, la civiltà fondata sul cristianesimo che ha dominato l’Europa e il mondo Occidentale per sedici secoli. Il suo declino è certamente provocato «dal cedimento della base che ne sosteneva l’esistenza: la fede in una verità trascendente, in questo caso quella in un Dio unico venuto nel mondo», tuttavia non comporta necessariamente la fine del cristianesimo. Una religione, infatti, resta viva anche quando raccoglie un piccolo numero di credenti. Quanti e fino a quando, impossibile dirlo e, a questo punto, viene inevitabilmente alla memoria la frase forse più sconcertante pronunciata da Gesù, riportata nel Vangelo di Luca (18,8): «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»
La civiltà cristiana, invece, scrive Delsol, come tutte le costruzioni umane è «effimera, soggetta ai tempi e alle mode, ed eminentemente fragile, mortale». È del tutto ragionevole pensare che possa finire. Il suo inizio è convenzionalmente stabilito dagli storici nel 394 d.C., data della battaglia del fiume Frigido e della definitiva sconfitta del paganesimo. Da quel momento ha preso il sopravvento una civiltà nuova «ispirata, ordinata e guidata dalla Chiesa», con un nuovo «modo di vivere» e una nuova concezione del bene e del male. Il suo declino inizia molti secoli dopo, con il movimento culturale dell’Illuminismo e la Rivoluzione Francese che cercò di fare piazza pulita della Chiesa con abbondante uso della ghigliottina contro chierici e fedeli laici. Poi divenne sempre più rapido, fino ad assomigliare a una vera débâcle culturale a partire dagli anni Sessanta del Novecento, quando i movimenti della contestazione giovanile in tutto il mondo occidentale scompaginarono la società cambiando i costumi e affossando le tradizioni, e gettarono le basi del mondo odierno. Chantal Delsol pensa che quegli anni rappresentino il punto di non ritorno della crisi e che oggi all’orizzonte, a vista d’uomo, sia impossibile immaginare una rinascita della cristianità.
Già nel 1969 Joseph Ratzinger, allora giovane teologo e professore universitario, fece questa previsione sul futuro della Chiesa: «Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi... Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali, ... non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra» e diventerà più spirituale.
Il futuro papa immaginava che un processo lungo e difficile ma positivo l’avrebbe condotta a liberarsi della mondanità, della pomposità e del settarismo permettendole di essere di nuovo, come all’origine, l’assemblea (questo è il significato della parola chiesa) dei ‘piccoli’, termine con cui il linguaggio biblico chiama coloro che non cercano potere, riconoscimenti o ricchezze ma Dio, e a lui si affidano con semplicità e fiducia. Purificata dalla zavorra accumulata lungo i secoli del suo predominio, dopo grandi sommovimenti e una lunga crisi che, a suo parere, era appena cominciata sarebbe rimasta «non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede... Conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte» (Cfr. La profezia dimenticata di Ratzinger sul futuro della Chiesa, reperibile on line o nel libro Faith and Future, Ignatius Press, 2009). Una Chiesa nuova e antica capace di annunciare sempre lo stesso messaggio di speranza affidatole duemila anni fa. Per quale altro scopo se non per conoscerlo la gente dovrebbe avvicinarsi alla Chiesa, si domanda senza tergiversare il filosofo polacco Kolakowski in un breve saggio incompiuto solo ora tradotto in italiano: «Se non è Dio e Gesù che la gente cerca nella Chiesa, la Chiesa non ha alcun compito specifico da realizzare...è Dio che tutti vorrebbero trovare nel cristianesimo», non un’ideologia o una lobby politica (L. Kolakowski, Gesù. Saggio apologetico e scettico, ed. Le Lettere).
Fine del cristianesimo, dunque, fine della morale e trionfo dell’ateismo? Tutt’altro. Se il XXI secolo vedrà la fine della cristianità, scrive Delsol, non vedrà però la fine della moralità, come paventano alcuni cristiani convinti che i principi morali derivino solo dalla religione. Lo dimostrano le società pagane la cui moralità era determinata dai costumi, dalle leggi e dalle tradizioni. Allo stesso modo la società post-cristiana segue una morale che rispecchia i costumi condivisi dalla maggioranza dei cittadini e confermata dalle leggi dello Stato il quale provvede anche alle sanzioni a sua tutela non più affidate alla Chiesa.
Per quanto riguarda l’ateismo, Delsol è certa che non trionferà perché non ha presa sull’animo umano, portato piuttosto a riempire il vuoto provocato dalla fine del trascendente con altre forme di sacro. Le religioni e le filosofie orientali rispondono perfettamente alle nuove esigenze di spiritualità, perché «non brandiscono alcun Dio, alcun dogma, alcun obbligo» e il loro «sforzo per eliminare la sofferenza è molto simile alle sessioni di sviluppo personale, ed è proprio quello che i nostri contemporanei cercano». Anche l’ecologismo è perfetto per l’uomo di oggi. Egli non riconosce più gerarchie e separazioni tra uomo e natura, e nella ricerca di una sacralità senza divinità rigetta ogni monoteismo avvicinandosi piuttosto all’antico animismo; la sua visione è una sorta di cosmo-teismo «preoccupato più dello spazio che del tempo» perché non immagina niente al di sopra del mondo. La fede ecologista, inoltre, bilancia almeno in parte l’individualismo esasperato reintroducendo il concetto di responsabilità personale verso il futuro del pianeta e di chi lo abiterà. Forse, prospetta prendendo a prestito le riflessioni del filosofo tedesco Odo Marquard, dopo il regno di Dio e dopo quello dell’uomo è giunto il regno della natura.
Dall’analisi della Delsol, dalle parole di Ratzinger, dalle considerazioni di Kolakowski emergono pensieri convergenti, non pessimisti, che indicano una via percorribile per il futuro. La Chiesa può sopravvivere tornando all’essenza della sua missione, alla sua originaria ragione d’essere: l’annuncio e la testimonianza del messaggio di Gesù, semplicemente così come lo raccontano i Vangeli. La speranza di un amore che va oltre la morte, oltre le nostre fragilità, gli errori, le mancanze. La consapevolezza di condividere un destino che dovrebbe farci sentire responsabili gli uni degli altri e tutti del mondo. La perdita del potere politico, del riconoscimento sociale, della ricchezza potrebbe essere un beneficio piuttosto che una catastrofe, argomenta Chantal Delsol. Forse non deve essere la cristianità a lasciarci, ma potrebbero essere i cristiani ad abbandonarla rinunciando alla forza e all’ideologizzazione per tornare ad essere quello che devono essere: testimoni. «Non possiamo inventare un altro modo di essere se non quello dell’egemonia? La missione dev’essere necessariamente sinonimo di conquista?» E conclude: «Probabilmente sarebbe meglio se rimanessimo solamente dei testimoni silenziosi e, in fondo, degli agenti segreti di Dio».
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LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL:
Nonostante Hegel sapesse che "The time is out of joint" (Shakespeare, "Hamlet", I.2), la visione COSMOTEANDRICA di Napoleone a cavallo a Jena (1806) in parte lo accecò e non poté più portarsi fuori dalla DIALETTICA della "strada di Damasco" (e "protestante" e "cattolica"). Con Amleto (e Marx), tuttavia non si può non ripetere: "Ben detto, vecchia talpa!" (I.5).
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, TECNOCRAZIA, E COSMOTEANDRIA: IL"NOVUM ORGANUM" (BACONE). L’ AVANZATA DEL GIGANTE, ormai, con i suoi stivali dalle sette leghe, è diventata inarrestabile: è un "golem-antico" progresso sulla strada aperta dal demiurgico sogno tragico dell’Accademia platonico-socratica, paolina, baconiana-hobbesiana, e schmittiana. "Il parto maschio del tempo ovvero la grande instaurazione del dominio dell’uomo sull’universo" è ormai a "buon" punto.
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA, OGGI (12 SETTEMBRE 2023).
UN "INVITO ALLA LETTURA" di una breve annotazione di Giorgio Agamben (Quodlibet, 30 agosto 2023) sulla "fede" e sulla "esperienza della parola":
La neve in Romania
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 30 agosto 2023)
A che cosa siamo fedeli, che cosa significa aver fede? Credere in un codice di opinioni, in un sistema di idee formulate in un’ideologia o in un «credo» religioso o politico? Se così fosse, fedeltà e fede sarebbero una triste faccenda, nient’altro che il tetro, compiaciuto dovere di eseguire prescrizioni dalle quali per qualche ragione ci sentiamo vincolati e obbligati. Una tale fede non sarebbe qualcosa di vivo, sarebbe lettera morta come quella che il giudice o lo sbirro ritengono di applicare nello svolgimento delle loro funzioni. L’idea che il fedele sia una specie di funzionario della sua fede è così ripugnante, che una ragazza, che aveva sopportato la tortura pur di non rivelare il nome dei suoi compagni, a coloro che elogiavano la sua fedeltà alle proprie idee rispose semplicemente: «non l’ho fatto per questo, l’ho fatto per capriccio».
Che cosa intendeva dire la ragazza, che esperienza della fedeltà voleva esprimere con le sue parole? Una riflessione su quella fede per eccellenza, che fino a qualche decennio fa era ancora considerata la fede religiosa, può fornirci indizi e riscontri per una risposta. Tanto più che proprio in questo ambito la Chiesa a partire dal Simbolo niceno (325 d.C.) ha ritenuto di dover fissare in una serie di dogmi, cioè di proposizioni vere, il contenuto della fede, ogni discordanza rispetto alle quali costituiva un’eresia condannabile. Nella lettera ai Romani Paolo sembra dirci anzi esattamente il contrario. Egli lega innanzitutto la fede alla parola («la fede viene dall’ascolto attraverso la parola di Cristo») e descrive l’esperienza della parola che è in questione nella fede come una immediata vicinanza di bocca e cuore: «Vicina (eggys, letteralmente alla mano) a te è la parola, nella tua bocca e nel tuo cuore, questa è la parola della fede... Col cuore infatti si crede nella giustizia, con la bocca si professa per la salvezza». Paolo riprende qui un passo del Deuteronomio che affermava questa stessa prossimità: «la parola è vicinissima nella tua bocca e nel tuo cuore ed è nelle tue mani attuarla».
L’esperienza della parola che è in questione nella fede non si riferisce al suo carattere denotativo, al suo corrispondere a dei fatti e a delle cose esteriori: è, piuttosto, esperienza di una vicinanza che ha luogo nell’intima corrispondenza tra bocca e cuore. Testimoniare della propria fede non significa fare delle affermazioni fattualmente vere (o false) come si fa in un processo. Non siamo fedeli, come nel credo o nel giuramento, a una serie di enunciati che corrispondono o non corrispondono a dei fatti. Siamo fedeli a un’esperienza della parola che sentiamo così vicina, che non c’è spazio per separarla da ciò che dice.
La fede è, cioè, innanzitutto un’altra esperienza della parola rispetto a quella di cui crediamo di servirci per comunicare dei messaggi e dei significati ad essa esterni. A questa parola siamo fedeli perché, nella misura in cui non possiamo separare la bocca e il cuore, viviamo in essa e essa vive in noi. È una tale esperienza che doveva avere in mente quella ragazza berbera che, mentre un giorno le chiedevo che cosa la legava così fortemente a un uomo che diceva di aver amato e con il quale era vissuta per un anno in una capanna nelle montagne rumene, rispose: «io non sono fedele a lui, sono fedele alla neve in Romania».
ANTROPOLOGIA, STORIA, E FILOSOFIA: IL PAOLINISMO (ATEO E DEVOTO).
Alcuni appunti per riflettere sull’attuale presente storico. In memoria di Paolo di Tarso, di Antonio Gramsci, e di Ernesto De Martino ...
A) AL DI LA’ DELLA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
B) MARX e LENIN, CRISTO e SAN PAOLO. A. GRAMSCI, "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 (VII), § 33).
C) IL PAOLINISMO ANTROPOLOGICO. ERNESTO DE MARTINO: “Essere comunista vuol dire essere umano, rinnovare in termini moderni l’esperienza paolina: “sono diventato tutto con tutti per tutti fare salvi”. Essere comunista vuol dire volgersi al mondo dei poveri e dei semplici, e quella parte dell’umanità che gli uomini cercano di mantenere fuori della storia e che vive orfana nella nostalgia di una cultura che sta come un al di là vago e misterioso. Essere comunista significa sentire la vergogna, anzi la colpa, di tutto lo spirito che potrebbe essere e che non è, di tutta la bellezza deviata, di tutta la verità rimasta a bella strada, di tutta la vita morale soffocata, di tutta l’umanità e la cultura insidiate a cagione del modo di esistere e della società” (Cfr. "Compagni e amici Lettere di Ernesto de Martino e Pietro Secchia", a c. di Riccardo Di Donato - “Un contributo su de Martino politico” - La Nuova Italia, 1993, p. II).
D) "CRITICA DELLA RAGION PURA" E ILLUMINISMO (1784): "IN OGNI MODO OCCORRE STUDIARE KANT E RIVEDERE I SUOI CONCETTI ESATTAMENTE" (Antonio Gramsci, "Quaderni del carcere", 10 (XXXIII), § 40).
ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA: "NOTE" PER ELEUSI 2023
KOENIGSBERG (1784), KALININGRAD (2022), E MISTERI ELEUSINI:
Dopo interi millenni di labirinto e di platonismo per il popolo (Nietzsche), con Hegel e Holderlin, andare oltre Hegel e Holderlin e prepararsi a ripensare la storia della Terra-Madre (Demetra), M->Arianna, e rendere omaggio a ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA #CULTURA 2023.
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STORIA, FILOSOFIA, E MEMORIA. HEGEL,
"A HOLDERLIN" [dalla lettera dell’agosto 1796]:
ELEUSI" *
"[...]
Ah! Se da sole ora le porte del tuo santuario si spezzassero,
o Cerere, tu che in Eleusi avevi il trono!
Ebbro di entusiasmo, io proverei ora
il fremito della tua vicinanza,
comprenderei le tue rivelazioni,
interpreterei l’alto senso delle immagini, udrei
gli inni nei banchetti degli dei,
gli alti detti del loro consiglio -
Pure i tuoi atri sono ammutoliti, o dea!
Il cerchio degli dei è fuggito dall’Olimpo
degli altari consacrati,
fuggito dalla tomba dell’umanità profanata
il genio innocente, che qui li incantava! -
La saggezza dei tuoi sacerdoti tace; non un suono dalle sacre
iniziazioni si è salvato fino a noi [...]"
* Cfr. G. W. F. Hegel, "Eleusis, Carteggio. Il poema filosofico del giovane Hegel e il suo epistolario con Hölderlin", Mimesis edizioni 2014 - ripresa parziale).
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LETTERATURA EUROPEA E INTERPRETAZIONE DEI SOGNI: DEMETRA (LA TERRA-MADRE) ED ELEUSI 2023...
A) L’ORACOLO DI APOLLO AI TROIANI, A DELO: "[...] la #terra da cui traete origine,/ prima culla dei padri, vi vedrà ritornare/ nel suo seno materno, reduci. Su, cercate/ l’antica #madre! [...]" (Virgilio, Eneide, III, 114-117).
B) GIUNONE (E LA RICERCA DI FREUD): "Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo" (Virgilio, Eneide, VII, 312)
C) L’EDIPO COMPLETO (FREUD) E DEMETRA: ELEUSIS 2023. "[...] Rimane ancora aperta la questione della Madre, di cui oggi parlano in pochi. Non si tratta né di ruolo, né di funzione. Si tratta di codici. Perché la Legge del Padre si stabilisca nel modo giusto, è necessaria, a mio avviso, la fiducia nella persona, incarnata nel codice affettivo materno. Ciò che mantiene sempre il legame sociale, anche quando appare spezzato. Sembra che di ciò, in tutto questo importante discorso sui padri, ci si stia dimenticando." (Pietro Barbetta, "Presenza/Assenza del padre", Doppiozero 7 Gennaio 2014).
"MENTE ESTATICA" E "SCHIZOFRENIA DELLA SALUTE":
RITORNARE A HÖLDERLIN.
Una ipotesi-chiave per reinterpretare «“Pallaksch”, la parola magica di Hölderlin». *
In #memoria di #ElvioFachinelli e di #RubinaGiorgi...
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"LA PAROLA MAGICA DI HÖLDERLIN: [...] Come nota Christoph Theodor Schwab nel suo diario del 1841, il #poeta malato aveva escogitato, e usava con predilezione, l’espressione #pallaksch, che si poteva prendere per un ‘sì’ o per un ‘no’ e che gli serviva come espediente per evitare l’affermazione o la negazione.
FriedrichHölderlin s’inchina e entra nella “torre” del falegname Ernst Zimmer nel 1807. Due anni prima lo avevano dichiarato ipocondriaco, “la sua #follia è diventata furiosa”, scrive il dottor Müller, a cui, da Homburg, è chiesta una perizia medica. In particolare, annota il #dottore, “i suoi discorsi paiono incomprensibili, parte in tedesco, parte in greco e in latino”. La fatale follia di Hölderlin si celebra in linguaggio, catabasi nell’incomprensibile. Hölderlin resta nella “torre” più di trent’anni, morirà nel giugno del 1843. [...]
Nello studio su «Hölderlin. «L’arte della parola» (IL Melangolo, 1979), Roman Jakobson ci porge la parola #pallaksch. “Una volta, mentre gli si facevano parole pressanti, Hölderlin fu preso da movimenti convulsi e si ebbe da lui solo ‘un terribile, confuso profluvio di parole senza senso’. Oppure Hölderlin preferisce semplicemente rifiutare la risposta... Alla continua contraddizione fra sì e no nel modo di parlare di Hölderlin, Waiblinger ha ‘innumerevoli volte’ prestato attenzione”. Il poeta non vuole rispondere perché non ammette la logica umana, non vi appartiene: sì e no accerchiano in scelte innaturali - non certo esclusive, escludenti, piuttosto -, che concimano morte. Non esiste ragionevolezza né opposizione nel mondo autentico, dove le “parole senza senso” sono la sola poesia possibile. Pallaksch è una specie di amuleto, una parola magica, il passepartout per tutte le visioni, da sbandierare di fronte a chi pensa per superfici piane e progressive, per convenzioni. A te, che ragioni in trapezi e rettangoli, la risposta: io resto sconfinato, opto per tutte le direzioni, dice il poeta. [...].
(cfr. «“Pallaksch”, la parola magica di Hölderlin. Il poeta si fionda nell’indicibile», Pangea, 03 Novembre 2020).
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA E FILOLOGIA.
LA SCOMPARSA DELLA "FANCIULLA STRANIERA" (F. Schiller, 1796) E DELL’AMORE (K. Marx, 1844) E IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ (S. Freud, 1929: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità [...]").
Una nota a margine di una memoria dell’antica commedia greca ...
"HOMO HOMINI LUPUS" (Freud, 1929). Formidabile questa riflessione di Andreas Katsouris sulla frase di Menandro! A ben riflettere sulle parole (e, in particolare, sul legame tra la "grazia" ("charis") del χαρίεν ("charien") e "l’anthropos), si dovrebbe tentare di capire su come e quando è stata persa la memoria delle Grazie (greco: Χάριτες - Charites) ed è stata persa anche la traccia di ogni umanità e l’orizzonte culturale dell’Europa (e del Pianeta Terra) è diventato sempre più cosmoteandrico, edipicamente, con la stessa connivenza della filosofia, della filologia, e della psicoanalisi!
CRITICA DELLA VIOLENZA: J.-J. ROUSSEAU, K. MARX, W. BENJAMIN. Una prima traccia della "caduta" è nell’atto logico-storico ("primordiale", che prima di essere materiale è linguistico) della recinzione: "Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della società civile"("Discorso sull’origine della disuguaglianza", 1754"); la seconda è nella denuncia marxiana (nella "Sacra Famiglia") dell’inversione soggetto-predicato (il problema della mele, delle pere, e delle fragole... del Mentitore) e della "fanciulla straniera e la civetta hegeliana" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197)"!
A quando il sorgere della Terra?
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA. COME NASCONO I BAMBINI...*
È la nostra nascita il miracolo che salva il mondo
Quella postilla di Hannah Arendt che illumina i dati Istat sulla natalità
di Sergio Belardinelli (il Foglio, 24 apr 2021)
L’Istat ci ha comunicato di recente che, complice anche il Covid, in Italia nel 2020 i morti sono stati 746 mila e i nuovi nati 404 mila. Un dato agghiacciante nel suo significato sociale e culturale che a me, come una sorta di riflesso condizionato, richiama alla mente uno dei brani filosofici più intensi che abbia mai letto: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.
Con queste parole Hannah Arendt conclude il capitolo di Vita Activa dedicato all’azione. Si tratta di un brano che cito e commento ormai da quarant’anni, nel quale viene messo a tema un nesso, quello tra la libertà e la natalità, tra la libertà e la vita, col quale, che io sappia, soltanto la Arendt ha avuto l’acutezza e il coraggio di cimentarsi e che, a prima vista, può apparire persino paradossale. La vita infatti, almeno immediatamente, sembra richiamare non tanto la libertà, quanto piuttosto il gigantesco, immutabile ripetersi dei cicli naturali, l’ambito di quelli che il grande biologo Adolf Portmann, autore peraltro assai caro alla Arendt, definirebbe i “rapporti preordinati” - il contrario, quindi, di ciò che in genere intendiamo allorché parliamo di libertà. Quanto poi alla vita specificamente umana, essa, è certo impastata di libertà, ma è anche qualcosa che, a diversi livelli, non dipende da noi, qualcosa di cui, nonostante le tecnologie della riproduzione, non possiamo avere il completo controllo: la riceviamo semplicemente; non scegliamo i nostri genitori, né il luogo dove venire al mondo; dobbiamo fare continuamente i conti con gli altri, con le nostre passioni, i nostri istinti, le nostre inclinazioni, con quel coacervo di natura, ragione, sentimenti, usi e costumi che vanno a costituire appunto il “gran mare” della vita. La vita insomma pone una serie di condizioni e condizionamenti alla libertà che possono renderla persino impossibile. Eppure, rompendo in un certo senso questa grande catena, è proprio la libertà che dà sapore e specificità alla vita umana; solo la libertà impedisce che il mondo si riduca spinozianamente a “sostanza”, a qualcosa di omogeneo, a qualcosa come un continuo fluire; solo la libertà è capace di introdurre nel mondo un elemento di novità, qualcosa di imprevisto.
Pensieri non nuovi, si potrebbe dire. Ma proprio qui si inserisce la fondamentale postilla arendtiana, preziosa per leggere in una chiave forse inusuale ma certo illuminante anche i dati Istat sulla natalità in Italia da cui siamo partiti: è la stessa vita umana, il nostro venire al mondo, la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi, a rappresentare la prima e più immediata forma di novità, il primo scompaginamento, se così si può dire, della routine della vita.
La facoltà dell’azione, dice la Arendt, “è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni - la libertà e la natalità - ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme fiducia nel futuro. In questo senso ogni bambino che nasce è un segno di speranza nel mondo; è l’irruzione nel mondo di una “novità”, la cui memoria, è il caso di dire, ritroviamo da adulti nell’esercizio della nostra libertà, nella nostra capacità di incominciare qualcosa che senza di noi non incomincerebbe mai.
Novità, pluralità (gli uomini, non l’uomo abitano la terra, ripete spesso Hannah Arendt) e speranza: questo ci schiude direttamente e in modo straordinario il discorso arendtiano sulla libertà radicata nella natalità. Ma indirettamente, specialmente oggi, tale discorso ci schiude molto di più. Ci fa capire, ad esempio, quale tragedia, anche simbolica, si consuma nel momento in cui un paese come l’Italia registra in un anno un saldo passivo tra morti e nuovi nati di 342 mila unità. È un po’ come se il mondo e la nostra libertà perdessero la speranza, ossia ciò che dà loro sapore, ciò che è insieme accettazione della realtà nella quale viviamo e fiducia nel futuro.
È vero, tutto passa. La vita non è altro che un eterno dissolversi nel gigantesco circolo della natura dove, propriamente, non esiste inizio né fine e dove tutte le cose e gli eventi si svolgono in un’immutabile ripetizione: la mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Ma la Arendt non accetta questa mestizia, poiché a suo avviso “la nascita e la morte di esseri umani non sono semplici eventi naturali”; avvengono in un mondo dove vivono altri uomini; un mondo che acquista significato grazie alle loro azioni e ai loro discorsi; un mondo che per questo è sempre aperto alla novità.
Con la creazione dell’uomo, dice la Arendt, “il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo”. Di nuovo l’inizio, dunque, diciamo pure, la natalità.
È proprio perché, in quanto uomini, siamo initium, nuovi venuti, iniziatori, per virtù di nascita che secondo la Arendt, siamo indotti ad agire. La definizione che più si addice agli uomini non è quella di “mortali”, ma piuttosto quella di “coloro che nascono”. In questo modo, quasi per una sottile ironia della sorte, la categoria della natalità diventa fondamentale proprio nel pensiero di un’allieva (e anche qualcosa di più) di Martin Heidegger, l’inventore dell’essere per la morte. Non che la Arendt ovviamente trascuri che la morte rappresenta l’ineluttabile fine di ogni vita umana, solo che, a suo avviso, gli uomini, anche se debbono morire, non nascono per questo, bensì per incominciare. E siamo di nuovo al passo da cui siamo partiti: “Il miracolo che salva il mondo....”.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
Federico La Sala
In onore di Francesco e Chiara d’Assisi, dei Francescani (Dante Alighieri, compreso!) ... e di Leonard Boff
IGNOTI A SE’ STESSI ...ED ESPORTATORI DI ’CRISTIANESIMO’ E DI ’DEMOCRAZIA’!!!
La ’lezione’ (di Nietzsche e) di un aborigeno canadese ai ’registi’ della politica ’cattolica’ (e ’laica’).
di Federico La Sala (ildialogo.org, 22 novembre 2005)
Credo che ormai siamo proprio e davvero al capolinea - nella totale ignoranza di se stessi i componenti della Gerarchia della Chiesa ’cattolica’ si agitano ... alla ’grande’!!! Non hanno proprio più nulla da dire, evidentemente! Sono scesi in campo ... ma contro Chi?!, contro che cosa?! Contro lo spirito francescano!!!
In segno di solidarietà, qui ed ora - 2005 dopo Cristo, con i francescani in carne ed ossa, oggetto di un richiamo, con un Motu Proprio, da parte dell’ex- prefetto ’kantiano’ Ratzinger, il papa Benedetto sedicesimo, forse non è inutile un breve commento a margine... per cercare di stare svegli e di svegliarci, possibilmente - tutti e tutte!
Dennis McPherson, un aborigeno (che ormai ’ci’ conosce bene, evidentemente!) canadese, ecco cosa (sapientemente e sorprendentemente - per noi, occidentali!!!), alla domanda - “qual è l’essenza dell’essere umano? E’ una creatura speciale con una missione speciale?” - di un’antropologa-intervistatrice, ha risposto:
Se teniamo presente le famose parole “De nobis ipsis silemus [...]”(di Francesco Bacone), messe da Kant sopra (come una pietra tombale) e prima di iniziare il suo discorso della e nella Critica della ragion pura, si può dire che il ’nostro’ aborigeno ha capito e visto più che bene - e meglio di tutti i filosofi e teologi dell’Occide[re]nte!!! E ’ce’ lo ha detto in faccia - ’papale’, ’papale’: basta!!!
Noi che non conosciamo ancora noi stessi (Nietzsche) .... e che navighiamo nel più grande “oscurantismo” - quello (più importante!!!) relativo a noi stessi, vogliamo pure dare lezioni ed esportare ’cristianesimo’ e ’democrazia’ in tutto il mondo!? “Mi”!?, e “Mah”!!!?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo). HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
FLS
"ESSERE E TEMPO" E FILOLOGIA. La "svolta" di Hannah Arendt. .... *
L’anniversario del processo.
Eichmann e il male, sempre relativo
Si apriva l’11 aprile 1961 il processo al criminale nazista che ispirò a Hannah Arendt la celebre riflessione sulla “banalità del male”: ancora oggi una sfida al pensiero
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 11 aprile 2021)
Sessant’anni or sono (precisamente l’11 aprile del 1961), si apriva a Gerusalemme il processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, che era stato prelevato in Argentina dal Mossad e condotto in Israele per essere lì giudicato, da quel popolo, ormai nazione, che aveva contribuito a massacrare. Nella sala stampa del tribunale, sedeva la pensatrice tedesca Hannah Arendt, una delle menti più perspicaci e lucide del XX secolo, inviata dal “The New Yorker”, per redigere il reportage delle varie sedute del tribunale. La Arendt trasforma la cronaca in interpretazione filosofica della storia, tanto che introduce nei suoi articoli anche delle parole greche, memore forse di quanto il suo antico maestro Martin Heidegger amava ripetere ai suoi allievi, dicendo loro che si può pensare solo in greco e in tedesco. Fino alla fine rivolse un accorato appello, inascoltato, al filosofo suo mentore perché ritrattasse la sua adesione al nazismo. Al direttore del periodico che le faceva osservare che i lettori non conoscevano il greco, l’inviata filosofa avrebbe risposto che possono sempre impararlo, se vogliono imparare a pensare.
Nel 2012 Margarethe von Trotta trasse dalla vicenda un film molto bello, titolato col nome della pensatrice. Dai reportage la stessa Arendt aveva tratto il suo libro più famoso, La banalità del male (qui citiamo l’edizione digitale Feltrinelli, Milano 2019), il cui titolo originale è Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of Evil (1963). La prospettiva adottata, nel tentativo di districare una vicenda complessa, irta di ostacoli sul piano storico, giuridico (nel senso del diritto internazionale) ed emotivo, offrendone un’interpretazione filosofica, non poteva non avere una sporgenza teologica, almeno nel senso della “teo- dicea”, ovvero della riflessione sul misterium iniquitatis, di cui è intrisa l’esistenza dei singoli e dell’umanità.
L’attualità teo-logica della lezione che si può trarre dalla lettura del reportage, può essere intravista da alcuni passaggi che intendo sottolineare. Nel descrivere la posizione del criminale nazista che veniva processato a Gerusalemme, la Arendt non manca di evocare la sua teologia (che può essere quella del nazismo): «Secondo le sue credenze religiose, rimaste immutate dal tempo del nazismo (a Gerusalemme dichiarò di essere un Gottgläubiger, “credente in Dio” - il termine nazista per indicare chi ha rotto col cristianesimo - e rifiutò di giurare sulla Bibbia), questo avvenimento andava ascritto a un “Essere razionale superiore” (Höherer Sinnesträger), un’entità più o meno identica a quel “movimento dell’universo” a cui la vita umana, priva in sé di un “significato superiore”, è soggetta (La banalità del male, p. 63).
La Arendt avverte il lettore che denominare Dio Höherer Sinnesträger equivaleva ad assegnargli un posto di preminenza nella gerarchia militare. Rispetto a questa entità superiore, Eichmann si percepiva come un Befehlsempfänger, ovvero un portatore di ordini e al tempo stesso un depositario di segreti Geheimnisträger. Ed eccoci al punto decisivo, in cui si svela la “banalità del male”: la burocrazia del sistema. Infatti «il gergo burocratico era la sua lingua’, farcita di cliché, che rivelavano la sua ’incapacità di pensare». Non era un “mostro”, ma forse nemmeno un “buffone”, in lui si manifestava, come in molti oggi, in tutto il suo splendore, la mediocrità della burocrazia. Il suo avvocato ebbe a dire che Eichmann «si sentiva colpevole dinanzi a Dio, non dinanzi alla legge» ( ivi, p. 50), per certi aspetti un’Antigone capovolta.
Ma proprio al cospetto dell’epifania di tanta banalità, avviene la svolta nel pensiero della Arendt, che, nel suo saggio su Le origini del totalitarismo (1951), aveva interpretato i sistemi totalitari del secolo breve alla luce del “male radicale”.
E la traccia di tale Kehre (“svolta”) la rinveniamo in un’espressione particolarmente significativa, che si può leggere nel carteggio della filosofa con Gershom Scholem: «Ho cambiato idea - scrive l’allieva di Heidegger - e non parlo più di male radicale, ora credo che il male non sia mai “radicale”, ma che sia solamente estremo e che non possieda né profondità né spessore demoniaco». Agisce ed opera in quanto «sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di andare in profondità, di toccare le radici nel momento in cui si occupa del male, è frustrato perché non trova niente. È la sua banalità. Solo il bene ha profondità e può essere radicale» (Ebraismo e modernità, Unicopli, Milano 1986, p. 227). Ma la svolta esprime anche un rinon torno, ovvero la ripresa del pensiero agostiniano, oggetto della tesi dottorale (condotta sotto la guida di Karl Jaspers ad Heidelberg e pubblicata nel 1929 col titolo Il concetto d’amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica). Il compianto Remo Bodei ha letto la parabola del pensiero della Arendt come un’inclusione agostiniana, che prendendo le mosse dal contenuto della tesi giunge al termine del percorso.
A noi pare decisiva per questa inclusione l’affermazione della radicalità del bene, che relativizza il male e lo sconfigge in un sempre nuovo inizio. Una citazione dell’Ipponense ricorre negli scritti della pensatrice tedesca:
«Initium ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit» (“affinché ci fosse un inizio fu creato l’uomo, prima del quale non esisteva nessuno”). E «questo inizio non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa, ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore. Con la creazione dell’uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima» (Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2012, p. 251, edizione digitale).
L’unicità della persona e la sua libertà responsabile trovano in questo inizio il loro fondamento. Noi in tale inizio rinveniamo la possibilità di “ricominciare”. Per quanto, infatti, allorché ci troviamo nel pieno della tempesta, pensiamo che il male che ci assale sia invincibile e assoluto, la Arendt viene invece a ricordarci che esso è sempre e comunque relativo, ossia contingente e che può e deve essere sconfitto nell’esercizio del nostro agire responsabile. Nella visione cristiana, che appartiene alla filosofa ebreo-tedesca, la possibilità di un nuovo inizio si fonda sull’evento pasquale, come ha ricordato papa Francesco, nell’omelia della veglia: «Ecco il primo annuncio di Pasqua che vorrei consegnarvi: è possibile ricominciare sempre, perché sempre c’è una vita nuova che Dio è capace di far ripartire in noi al di là di tutti i nostri fallimenti. Anche dalle macerie del nostro cuore - ognuno di noi sa, conosce le macerie del proprio cuore - anche dalle macerie del nostro cuore Dio può costruire un’opera d’arte, anche dai frammenti rovinosi della nostra umanità Dio prepara una storia nuova. Egli ci precede sempre: nella croce della sofferenza, della desolazione e della morte, così come nella gloria di una vita che risorge, di una storia che cambia, di una speranza che rinasce. E in questi mesi bui di pandemia sentiamo il Signore risorto che ci invita a ricominciare, a non perdere mai la speranza».
E tale fondamento deve trovare terreno fertile nelle nostre menti e nei nostri cuori, perché non resti nel passato, ma si renda vivo e presente. E in questa prospettiva “antropologica” la lezione della Arendt è attuale e feconda. Un motivo di incredibile attualità, nell’orizzonte della banalità del male lo abbiamo trovato in una lettera di Karl Jaspers alla Arendt, risalente al periodo bellico. Qui il filosofo, per esprimere la “normalità” del male si affida all’esempio dei batteri, capaci di provocare epidemie letali per intere popolazioni, ma che restano pur sempre microorganismi (H. Arendt - K. Jaspers, Carteggio (19261969): filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989, p. 71). Microorganismi che con la ricerca scientifica possiamo conoscere sempre meglio, per non soccombere e ricondurli alla loro contingenza, immunizzandoci dal loro potere distruttivo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica. L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
"CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" , "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (E MEMORIA DI DANTE ALIGHIERI - ANNO 2021) . Alla luce del fatto che si è persa ogni cognizione dello "stato di cose presente", forse, è opportuno - come voleva Marx - riprendere il filo dalla indicazione delle note "Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione"): "La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso".
Si dice:
CONCORDO. Ma per ripartire bisogna riprendere il filo dalla "Logica" di Kant (non di Hegel, come si recita ancora oggi: http://www.leparoleelecose.it/?p=41116#comment-439785), dalla sua "quarta" (e prima!) domanda: "che cosa è l’uomo?", dalla sua "Critica della ragion pratica", e dal suo "imperativo categorico" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)! La questione è antropologica (non andrologica né ginecologica)! O no?!
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. la "Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)": "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); su COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?!, rileggere la lettera di Sigmund Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923).
PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA. Ridiscendere nella "nave" di Galileo Galilei, ripartire da un nuovo "principio di carità" e riprendere la navigazione ... *
Se la fisica è tentata dalla metafisica
La teoria quantistica ha messo in crisi la fiducia della scienza di poter davvero “vedere” il reale.
di Roberto Timossi (Avvenire, martedì 19 gennaio 2021)
Che cos’è la realtà? Siamo in grado di conoscere la natura del reale così come effettivamente è e non semplicemente come appare? Si tratta di due domande classiche del pensiero filosofico, che hanno assunto particolare rilievo con la filosofia moderna.
È noto per esempio che per l’empirismo scettico di David Hume la conoscenza è condizionata dalle impressioni e quindi si riduce a ciò che appare alla nostra mente, per cui anche la scienza in definitiva non ha valore oggettivo, ma è il prodotto dalla nostra abitudine a generalizzare dei fenomeni solo apparentemente ricorrenti e concatenati.
Questa sfiducia nella possibilità di stabilire se quello che crediamo di conoscere corrisponde o meno alla realtà effettiva oppure risulta solamente una nostra raffigurazione mentale ha condotto Immanuel Kant a rinunciare alla ricerca del reale o cosa in sé (il “noumeno” ovvero il pensabile, ma non conoscibile) per limitarsi al “fenomeno”, ossia esclusivamente a quanto si manifesta nelle nostre percezioni sensoriali.
Con l’idealismo e con il positivismo il problema se la realtà sia davvero quella che ci appare è stato svuotato a priori, perché nel caso degli idealisti «ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) e nel caso dei positivisti il positum, ossia ciò che è osservato empiricamente dalla scienza, è indiscutibilmente reale (A. Comte, Discorso sullo spirito positivo). Come però purtroppo spesso è accaduto dal Novecento ai giorni nostri, laddove i filosofi hanno “gettato la spugna” ritendendo di dover abbandonare argomenti reputati metafisici, si sono invece fatti avanti gli scienziati.
La questione di che cosa sia la realtà e se davvero la conosciamo è stata infatti rilanciata prima con la teoria einsteiniana della relatività e poi soprattutto con la meccanica quantistica. Quest’ultima, sorta come una teoria che doveva spiegare il funzionamento del microcosmo delle particelle, ha finito inevitabilmente per coinvolgere tutto l’esistente, non fosse altro perché ogni cosa osservabile è fatta di materia, quindi possiede una struttura atomica.
Fin dalle sue origini, la teoria prevalente nella meccanica quantistica (la cosiddetta “interpretazione di Copenaghen”) iniziò a generare problemi al realismo, quantomeno a livello atomico e subatomico, conducendo a un contrasto rimasto famoso tra due grandi fisici premi Nobel: Albert Einstein e Niels Bohr.
Mentre infatti il primo da tenace realista non riusciva ad accettare l’indeterminismo implicito nella descrizione quantistica dei fenomeni (“Dio non gioca a dadi”), il secondo prendeva atto della situazione ritenendo che fosse sbagliato pensare che il compito della fisica sia dire come la natura è realmente. Presente nella filosofia della scienza nella forma di una disputa tra realismo e antirealismo scientifico, il tema ritorna oggi sempre più spesso in libri dall’intento divulgativo, che in fondo riproducono le stesse posizioni contrapposte di Einstein e Bohr.
Avviene così per esempio che il fisico statunitense Lee Smolin, che cerca un’alternativa realistica per la teoria dei quanti ( La rivoluzione incompiuta di Einstein, Einaudi), finisca per entrare in inevitabile conflitto con la teoria quantistica relazionale del fisico italiano Carlo Rovelli ( Helgoland, Adelphi), con la quale il reale sembra dissolversi in assenza di una relazione osservativa o di osservatori, per cui non esistono più una verità e una realtà oggettive, bensì tanti punti di vista. Ma dal momento che lo stesso Rovelli riconosce che «solo Dio può vedere in due luoghi nello stesso momento» e quindi solo Lui possiede il punto di vista assoluto sulla verità e la realtà delle cose, verrebbe paradossalmente da concludere che l’unica strada per salvare il realismo sembra essere quella dei filosofi occasionalisti: il mondo funziona, sta insieme e assume reale consistenza unicamente grazie all’intervento diretto e continuo di Dio.
In definitiva, sarebbe opportuno che gli scienziati non spacciassero speculazioni metafisiche per teorie scientifiche, seguendo in ciò l’atteggiamento del premio Nobel per la fisica Kip Thorne, il quale affrontando il problema di come sia realmente lo spazio-tempo descritto dalla teoria della relatività ha concluso: «Quale punto di vista dica la “verità autentica” è irrilevante ai fini degli esperimenti, è una questione dei filosofi, non dei fisici» ( Buchi neri e salti temporali. L’eredità di Einstein, Castelvecchi).
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI.
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
FLS
UNA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" ITALICA. L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma: *
A) Mussolini, Discorso dell’anno IX - Roma, 27 ottobre 1930: "Oggi io affermo che il Fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, è universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti. -Lo spirito è universale per la sua stessa natura. Si può quindi prevedere una Europa fascista, unì Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo.
Il Fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati. Per questo noi sorridiamo quando dei profeti funerei contano i nostri giorni. Di questi profeti non si troverà più non solo la polvere, ma nemmeno il ricordo, e il Fascismo sarà vivo ancora. Del resto ci occorre del tempo, moltissimo tempo, per compiere l’opera nostra. Non parlo di quella materiale, ma di quella morale. Noi dobbiamo scrostare e polverizzare, nel carattere e nella mentalità degli italiani, i sedimenti depostivi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare, morale, che vanno dal 1600 al sorgere di Napoleone. È una fatica grandiosa.
Il Risorgimento non è stato che l’inizio, poiché fu opera di troppo esigue minoranze; la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare, giorno per giorno, in questa opera di rifacimento del carattere degli italiani [...]"(Messaggio per l’Anno Nono - Roma, 27 ottobre 1930, in B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXIV, p. 283).
B) Mussolini - Milano, Piazza Duomo, 25 ottobre 1932: "Oggi, con piena tranquillità di coscienza, dico a voi, moltitudine immensa, che questo secolo decimoventesimo darà il secolo del Fascismo. Sarà il secolo della potenza italiana. Sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere direttrice della civiltà umana. Perché fuori dai nostri principi, e soprattutto in tempi di crisi, non c’è salvezza né per gli individui e tanto meno per i popoli.
Fra dieci anni - lo si può dire. Senza fare i profeti - l’Europa sarà cambiata. Non da ora si sono commesse delle ingiustizie, anche contro di noi, soprattutto contro di noi. E niente di più triste il compito che vi spetta di dover difendere quello che è stato il sacrificio magnifico di sangue di tutto il popolo italiano. [...] Tra un decennio l’Europa sarà fascista o fascistizzata!
L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma [...]" (B. Mussolini, Opera Omnia, XXV, pp. 147-148).
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAFIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924). IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO : MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Recensione a:
Sappiamo che Socrate amava intrattenere conversazioni con i concittadini nell’agorà di Atene, ponendoli ironicamente di fronte a insolite questioni e sollecitandoli a spiegare e giustificare le proprie affermazioni al riguardo. Il filosofo non intendeva insegnare qualcosa ai suoi interlocutori e introiettare in loro una qualche conoscenza dall’esterno, bensì condurli a trovare la verità nascosta in se stessi, portandola alla luce attraverso l’interrogazione e lo sradicamento delle false doxai. Lo scopo era, cioè, quello di aiutare il soggetto a partorire la propria verità, seguendo la celebre metafora della maieutica proposta dallo stesso Socrate. L’obiettivo è realizzabile nel corso di una vita fatta di riflessione, interrogazione continua e messa in discussione dei convincimenti più radicati, poiché proprio dietro la più proclamata sicurezza può nascondersi una subdola ignoranza della verità. Solo a partire dalla conoscenza di se stessi e dal riconoscimento dei propri limiti, risulta possibile dare alla luce la verità. Precisamente in virtù dell’attività socratica, la filosofia inizia a delinearsi come conversazione dialettica e come disciplina caratterizzata da lineamenti precisi.
Non è un caso che la personalità di Socrate attraversi e accompagni la totalità della riflessione di Hannah Arendt, fornendo all’autrice un vivo esempio per la formulazione di tesi che ruotano intorno al controverso rapporto tra filosofia e politica, alla coscienza individuale e al tema del male.
Il saggio Socrate compare per la prima volta in traduzione italiana nel 2015, figurando in origine come terza e ultima parte di un corso tenuto presso la Notre Dame University nel 1954.
Il testo si apre con un’introduzione a cura di Ilaria Possenti, la quale contestualizza il contributo arendtiano nel contesto della produzione letteraria dell’autrice, e che nelle sue considerazioni prende avvio da una lettera indirizzata da Arendt a Karl Jaspers nell’estate del 1956, dove l’autrice individua nel processo a Socrate il principio del conflitto tra filosofia e politica. Ricostruendo la genesi di questa contrapposizione, Possenti spiega che Arendt non condanna la polis ateniese, bensì chiama in causa Platone, l’allievo di Socrate. Egli avrebbe lasciato in eredità alla storia del pensiero occidentale due convinzioni fondamentali: “che la politica, così come Atene l’aveva intesa, fosse una pericolosa fonte di ingiustizia; e che i criteri per porre rimedio all’ingiustizia dovessero essere trovati altrove, al di fuori e al di sopra della polis” (p. 9). Ciò è evidente se ci rivolgiamo alla Repubblica: la città ideale delineata nel dialogo si regge su un ideale statico di giustizia, definito a priori, che deve la sua realizzazione nel contesto sociale alla reggenza dei filosofi, coloro che, distanti dalla polis, hanno dedicato la loro vita al puro pensiero inteso come noein, come intuizione e contemplazione della verità.
Secondo Arendt, Platone definì “i termini del conflitto tra filosofia e politica” (p. 10), generando uno iato tra le due, di cui l’autrice lo accusa direttamente. L’allievo fallì così nel cogliere l’eredità del maestro, in cui filosofia e politica risultano invece coessenziali: “così facendo, Platone inaugura la ‘grande tradizione’ rendendo immortale la figura di Socrate e marginale il suo pensiero politico” (p. 11).
Arendt individua, invero, precisamente nella prospettiva socratica un’alternativa a una filosofia ormai esaurita, inserendola peraltro nella sua visione fenomenologica. Nell’ottica arendtiana, l’unica realtà è data dall’apparire e dal mondo comune, lo stesso mondo comune a cui si rivolgeva il filosofo greco. La sua concezione della “condizione umana, in qualche modo intesa come condizione ‘politica’, [...] dovrebbe aiutarci a ripensare da capo il senso della vita della polis [...] e l’oggetto stesso della ‘meraviglia’ filosofica - la pluralità che ci unisce, ci distingue e ci attraversa” (p. 18): è precisamente in ciò che possiamo individuare il fulcro delle riflessioni arendtiane contenute in Socrate.
Il saggio si apre con Il processo di Socrate e la replica di Platone. L’autrice inizia le sue considerazioni partendo dal contesto di appartenenza del filosofo, dominato dall’arte della persuasione, l’arte più elevata e più prettamente politica, che rappresenta ciò in cui fallì Socrate, non riuscendo a persuadere i giudici della sua innocenza. Il filosofo non avrebbe dovuto mirare a far partorire una verità che i giudici non erano disposti ad accogliere, bensì a persuaderli della validità del suo punto di vista.
Nell’ottica platonica, la causa della sconfitta del maestro è da ricercare nel fatto che Socrate si rivolse ai giudici nello stesso modo in cui era solito conversare con gli Ateniesi, secondo il metodo dialettico, e non retorico: il dialeghesthai, però, risulta possibile solo come dialogo tra due soggetti, mentre peitho si rivolge sempre a una moltitudine, ragione per cui Socrate avrebbe dovuto ricorrere alla persuasione piuttosto che alla dialettica. Ciò condusse Platone a dubitare del valore del peithein e con esso anche della doxa, che il maestro cercava di far esprimere agli interlocutori: “è lo spettacolo di Socrate che sottopone la propria doxa alle opinioni irresponsabili degli Ateniesi, e che viene infine sconfitto da una maggioranza, a spingere Platone al disprezzo delle opinioni e a fare di lui un ardente fautore di criteri assoluti” (pp. 26-27).
L’adesione platonica a una normatività suprema è, dunque, motivata da Arendt in base alla delusione provata di fronte alla condanna del maestro. A una politica basata sull’opinione plurale, Platone sostituì principi univoci e inequivocabili che non possono essere oggetto di persuasione. Ma egli andò ben oltre la vendetta del maestro affidando il governo ai filosofi, a quei sophoi che per definizione esulano dalla sfera degli affari della città, ribaltando il vecchio aneddoto di Talete deriso dalla servetta perché caduto nel pozzo, in quanto troppo intento a guardare il cielo. Cionondimeno, se Socrate fu il primo filosofo a rivestire un ruolo politico, Platone fu l’ultimo.
Nella seconda parte del saggio Arendt passa a discutere in maniera sistematica la posizione di Socrate. Nella ricostruzione arendtiana, egli fu indubbiamente il primo a ricorrere al dialeghesthai, ma senza considerarlo la controparte di peitho e della doxa, come arrivò invece a fare l’allievo.
Nella prospettiva socratica, la doxa corrisponde alla comprensione che ognuno ha del mondo, della maniera in cui la realtà si apre e si mostra al soggetto particolare, a seconda del posto occupato in essa. È lo stesso mondo comune a rivelarsi, presentandosi però a ciascuno in modo diverso. Ciò spiega perché la dialettica socratica prenda avvio da una serie di domande attraverso le quali il filosofo cerca di capire quale sia la posizione del suo interlocutore nella realtà, al fine di aiutarlo poi a portare alla luce la propria verità: “Socrate voleva rendere la città più veritiera facendo partorire a ogni cittadino la propria verità. Il metodo per farlo è il dialeghesthai, ma quest’arte dialettica [...] non distrugge la doxa, l’opinione; al contrario, ne rivela la veridicità” (p. 35).
La maieutica di Socrate assume dunque i tratti di un’attività politica, che mira a rendere migliori i cittadini, facendo di loro in ultima istanza degli amici, in contrasto con lo spirito agonale regnante nella polis, costituente una minaccia per il bene comune. In particolare, l’aspetto politico dell’amicizia risiede nel fatto che l’amico è capace di comprendere il modo in cui la realtà si apre all’altro, attraverso il dialeghesthai socratico: si tratta della stessa virtù dell’uomo politico, il quale dovrebbe dimostrarsi in grado di comprendere lo spettro più ampio possibile di realtà, al fine di rendere evidente l’essere-in-comune del mondo e formare su tale base una comunità, costruendola sulla comprensione propria degli amici.
È sul tema della philia che Arendt struttura la parte più dinamica del saggio, La scoperta del “due-in-uno”. -Premessa indispensabile di questo capitolo è il precetto delfico “Gnôthi sautón”, esemplificato dalla personalità socratica. Nell’ottica arendtiana, l’invito alla conoscenza di se stessi comporta che il principio guida del soggetto deve tradursi nella comprensione veritiera della propria doxa e nell’accordo dell’individuo con se stesso, ossia nella philia interiore. La paura di incorrere in questo genere di contraddizione è giustificata in base al fatto che ognuno di noi può parlare con se stesso: nel pensiero ognuno di noi è due-in-uno, e l’armonia di questa dualità si pone come la condizione imprescindibile per l’accordo con l’altro; la paura della contraddizione, dunque, altro non è che timore della scissione e della perdita della coerenza. La pluralità si rivela così come una condizione ineliminabile della natura umana, dacché è sì possibile l’allontanamento da qualsiasi forma di organizzazione sociale, ma mai dall’altro dentro di noi.
Ciò implica la convivenza con un testimone di tutte le azioni individuali, con uno spettatore giudicante a cui non è possibile sfuggire: è quel tribunale che la modernità chiamerà coscienza. L’io è così sdoppiato in imputato e testimone, in esecutore e pubblico.
Vista l’impossibilità della separazione da quest’ultimo, per il soggetto è preferibile essere in disaccordo con l’intera società piuttosto che con se stesso, col quale deve sempre convivere: si tratta precisamente della tesi affermata da Socrate nel Gorgia, dove egli dimostra peraltro con forza che è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla (Gorg. 482b). Il compimento di un atto malvagio comporta la convivenza obbligata con un individuo che vorremmo invece evitare e col quale non è possibile essere in armonia, dacché nessuno sceglierebbe di accompagnarsi a un criminale. Ciò costituisce dunque una situazione di disaccordo interiore, accentuata dalla presenza di un testimone che giudica negativamente le nostre azioni malvagie.
La pluralità esterna può anzi distrarci dalla molteplicità più angosciante, rappresentata dal due-in-uno. Nella discussione, inoltre, l’altro ci riconosce come singolo, come una sola voce.
Poste queste premesse, abbiamo modo di comprendere in che modo le presenti considerazioni si pongano in stretta relazione con quanto affermato relativamente alla philia. Solo chi, vivendo l’esperienza del dialogo interiore, è in accordo con se stesso e una persona affidabile, che in quanto tale può diventare un amico, definito in termini aristotelici come un altro se stesso, secondo a quello che abbiamo dentro di noi. Se, cioè, l’individuo supera il giudizio del tribunale della coscienza presieduto da se medesimo, dimostrandosi un compagno leale, può rapportarsi con l’altro in quanto uno, in qualità di soggetto coerente con se stesso e degno di fiducia.
Nella quarta parte, La sconfitta di Socrate, Arendt riflette sulle conseguenze tangibili della visione socratica analizzata nelle pagine precedenti. “Il conflitto tra la filosofia e la politica, tra il filosofo e la polis, esplose dopo che Socrate, più che svolgere un ruolo politico, aveva voluto rendere la filosofia rilevante per la polis” (p. 48): l’opposizione si concluse con la sconfitta della filosofia e determinò la separazione tra pensiero e azione, conducendo la figura del filosofo a disinteressarsi degli affari della polis.
Nella lettura arendtiana, la filosofia venne così a trovarsi di fronte a un bivio: interpretare l’esperienza filosofica secondo le categorie degli affari umani, oppure giudicare quanto rientra nella sfera politica alla luce della visione filosofica. È in questa seconda direzione che è andato Platone, costruendo una polis retta dai filosofi. Nella parabola della caverna egli condensa la biografia del filosofo, il quale si trova ad attraversare emblematici momenti di ribaltamento del proprio essere.
Ma Platone non ci spiega perché il filosofo decida di intraprendere questo percorso. Per risolvere la questione, Arendt richiama quanto si legge nel Teeteto, dove Platone individua l’elemento alla base della nascita della filosofia: “la meraviglia è ciò che appassiona di più il filosofo, poiché non c’è altra origine della filosofia diversa dalla meraviglia” (Thaet. 155d). Ed è proprio con la questione del thaumazein che Arendt chiude questo scritto. A suo avviso, la meraviglia nell’ottica platonica consiste in un pathos, in qualcosa rispetto a cui il soggetto è passivo e che non può trovare espressione nelle parole, ma che consente al soggetto di cogliere l’autentico significato della formula socratica “So di non sapere”. Nel momento in cui l’individuo subisce il thaumazein, capisce cosa significa non sapere. Da tale consapevolezza deriva l’impulso alla filosofia e alla continua interrogazione socratica. Arendt conclude il saggio rivolgendosi ai filosofi contemporanei, i quali, se vorranno raggiungere una nuova filosofia politica in seguito al conflitto con la polis, dovranno “però assumere come oggetto del thaumazein la pluralità degli uomini, dalla quale sorge [...] l’intera sfera degli affari umani” (p. 62).
I due saggi critici di Adriana Cavarero e Simona Forti, in appendice al testo di Arendt, rappresentano un interessante ausilio alla riflessione sul saggio. Cavarero nel suo commento, Il Socrate di Hannah Arendt, si concentra sulla comparsa della personalità socratica in due particolari momenti della riflessione arendtiana, ripercorrendo anche le differenze originarie rispetto allo sviluppo platonico: la prima scena colloca Socrate all’origine di una “pratica filosofica e insieme genuinamente politica” (p. 73), e individua nell’antitesi tra il maestro e l’allievo la scissione della filosofia dalla sfera politica e la conseguente fuga del sophos da tale contesto; l’altra situazione riconosce in Socrate il fondatore di un modello di pensare critico, l’ideatore della coscienza moderna, intesa nei termini di un tribunale interiore in cui il soggetto si interroga e deve rendere conto di sé a se stesso.
Se, però, nelle sue riflessioni Arendt ci ha convinto a difendere Socrate, Cavarero nel suo commento prende invece le parti di Platone, il quale è messo sotto inchiesta nel saggio arendtiano. Nelle pagine precedenti, infatti, ci siamo imbattuti nella disamina delle colpe metafisiche dell’allievo, che si possono riassumere in ultima analisi nel sacrificio di quella pluralità al cuore dell’insegnamento socratico a favore del totalitarismo dell’Uno, che si pone come l’oggetto supremo della conoscenza muta e contemplativa del filosofo. Cionondimeno, Cavarero ricorda al lettore che l’istante della contemplazione è sì presentato da Platone come la forma più elevata del pensiero, ma il filosofo ammette l’esistenza anche di altre articolazioni del conoscere, tra cui quella del “dialogo senza voce che l’anima fa con se stessa” (Soph. 263e). Tuttavia, Arendt sembra attribuire questo riconoscimento esclusivamente a Socrate, ma risulta evidente la presenza del dialogo silenzioso nell’interiorità dell’individuo anche nel contesto della riflessione platonica. La lezione che indubbiamente è doveroso trarre dall’insegnamento socratico, a discapito dell’allievo, è quella di “ripensare l’umanità, o forse pensarla per la prima volta nei suoi tratti concreti [...] registrare la pluralità che rende ciascun essere umano un essere unico, diverso da ogni altro” (p. 97).
Il saggio di Simona Forti, Letture socratiche. Arendt, Foucault, Patočka, è dedicato alle interpretazioni posteriori della figura di Socrate, in particolare, all’analisi dei tratti di quella “grande tribù del socratismo novecentesco della filosofia come forma di vita” (p. 100). Questa corrente individua in Socrate una testimonianza vivente di una condotta “che si singolarizza scegliendo per quanto possibile lo spazio indeterminato della libertà” (p. 100), distaccandosi da un’etica fondata su regole universali che definiscono a priori il bene e il male, delineandosi peraltro come una soggettività immanente che si assume la responsabilità delle azioni individuali di fronte all’altro e al soggetto stesso. In particolare, l’autrice individua un’affinità concettuale tra la prospettiva socratica sul daimon e la parresia e la riflessione di Hannah Arendt, Michel Foucault e Jan Patočka, commentatori novecenteschi del filosofo greco.
Se al centro della riflessione arendtiana vi è la scoperta del due-in-uno, al cuore dell’indagine di Foucault vi è, invece, la parresia, sulla quale Arendt non si sarebbe soffermata, secondo la lettura di Forti. La parresia può dischiudere uno spazio etico nuovo in cui l’interiorità si apre all’altro e alla collettività, delineandosi come una prassi politica in antitesi con l’adulazione e la retorica tipiche delle strutture di potere, dacché assume ad oggetto la verità.
Per quanto concerne l’altra figura al centro del commento di Forti, Patočka, citato dallo stesso Foucault in un corso tenuto nel 1984, concepisce la cura di sé, dell’anima, come radice della cultura europea, nei termini di una pratica filosofica di continua riflessione e interrogazione del soggetto su se stesso, suscettibile di aprirsi alla prassi e così alla dissidenza nei confronti dei meccanismi di potere.
In ultima analisi, ciò che unisce i tre volti novecenteschi nel loro confronto con Socrate è “la convinzione che l’azione politica [...] deve essere la manifestazione visibile di un’etica [...] l’effetto collaterale di un ethos, di una postura e di una condotta che si radicano saldamente nelle pieghe del ‘modo di vita’ del singolo” (p. 117). Ritornare a Socrate costituisce, dunque, un richiamo alla possibilità del soggetto di opporre resistenza alla forza delle circostanze, “è il nome della possibilità, del potere di ciascuno di resistere a un altro potere” (p. 123).
* Fonte: Discipline Filosofiche.
RAGION PURA E RADICI DELL’IO. Introduzione alla Critica della filosofia ...
Che strano modo “storico” di proporre e portare avanti una riflessione sulla “passione” della “critica” e “l’autocritica delle passioni” (cfr. Paolo Costa, “La passione critica è l’autocritica delle passioni”, Le parole e le cose, 21.07.2020)! Come se la “Critica della Ragion Pura”, la “Critica della Ragion Pratica”, e la “Critica del Giudizio”, non fossero state mai scritte?!
Marx scrive (nonostante i “marxisti”) un “commento” continuo sul lavoro di “critica” portato avanti da Kant (da ricordare non solo la “Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel”, ma anche i “Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica”, il “Per la critica dell’economia politica”, e “Il Capitale. Critica dell’economia politica”) e ancora oggi, dopo Freud e Foucault e Derrida, “essere giusti con Kant” è più che difficile?! Boh e bah!?
RIPRENDERE IL LAVORO DI FREUD. IL MALE, L’AVVENIRE DI UN’ILLUSIONE ....
Nota a margine di "Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
PRIMA DI FARE DICHIARAZIONI STORIOGRAFICHE DI GRANDE IMPEGNO A SOSTEGNO DELLE PROPRIE ARGOMENTAZIONI:
E PARLARE DI “divinizzazione retroattiva del marchese de Sade” è bene ricordare che l’associazione indebita di “Kant e Sade”, fatta da Lacan, nasce sulla base di una interpretazione edipico-hegeliana e di un vera e propria distruzione della kantiana “critica dell’idealismo”.
E, ancora, quando Freud richiama all’inizio del suo lavoro sulla “Interpretazione dei sogni” le parole di Giunone “flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Eneide, VII, 312), sa già (“sibillina-mente”) di che cosa sta parlando e di cosa c’è in gioco e, come Giunone (“Non mi sarà dato, ahimé, di impedirgli di regnare sui Latini e Lavinia, immutabile, resta sua sposa in forza del destino, ma ho il potere di tirare per il lungo, di imporre dei ritardi a eventi così grandi ...”: Eneide, VII, 312- 315 ), va avanti e ricordando-si di Napoli comincia capire cosa c’è dietro la questione “Didone” (Eneide, IV, 625 ) e la sua infatuazione per Annibale, per il vendicatore: la vittoria di Roma, dell’Amore sulla Morte. Fiducioso, continua il suo lavoro!
La “Horrenda Virgo” (Eneide XI, v. 507) , la “ragazza terribilmente bella”, come Giunone (e Freud), lo sa: deve cedere il passo ad un’altra “Virgo”, ad Astrea, alla Giustizia: «Già viene l’ultima era dell’oracolo di Cuma, / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno, /già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo.» (Ecloga IV, 4-7). La “Horrenda SYbilla” (Eneide VI, 11), ispirata da Apollo, il profeta di Delo, ha rivelato ad Enea tutto il futuro (Eneide VI, 11-12).
PERCHE’ HANNAH ARENDT, nella sua “Vita della mente” (alla luce di un inedito dialogo con Kant) richiama ancora e di nuovo Virgilio e Dante, e dal “Libro del malumore” di Goethe cita: “Chi di tremila anni / Non sa darsi conto, / Rimane all’oscuro inesperto, /Vuol vivere così di giorno in giorno”? Boh e bah?!
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LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, LA FEDELTA’ ALL’ AMORE DI HEIDEGGER ED HANNAH ARENDT, LA FINE DI UN MONOTEISMO CIECO E ZOPPO E LA COMUNITA’ CHE VIENE ... *
A) - UNA CASA DI CURA, UN OSPEDALE DA CAMPO: [...] Proprio un totalitarismo apolitico ed economico - fondato su una idea di soggetto come arbitrario e indefinito dispiegamento delle proprie potenzialità - ha impedito sinora di far fronte a tali questioni. Come la pandemia, si tratta di sfide che minano la sopravvivenza. Il virus ha scoperchiato il tetto e ci ha rigettato nella storia. Si può dunque iniziare da qui: dalla condizione storica in cui ci troviamo, che non è regredibile, e che è quella che la biopolitica analizza con acume. Se è vero che il potere sovrano si rivolge sempre più ai corpi, trovando un paradigma nell’oikos o nel campo, allora la “comunità che viene”, costituita da libertà non pure e astratte, ma malate e inchiodate a questi corpi, non potrà che iniziare a costituirsi nella forma di una casa di cura, o di un “ospedale da campo.” ( Francesco Valerio Tommasi, “Curarsi di. Una libertà inchiodata al corpo e alla storia”, Le parole e le cose, 14 aprile 2020);
B) - “UN NUOVO INIZIO”: “[...] Ma rimane altresì vero che ogni fine della storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico «messaggio» che la fine possa presentare. L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. «Initium ut esset, creatus est homo», dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo” (Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, Edizioni di Comunità, Milano 1996);
C) - ANTROPOLOGIA: KANT E LA RISCOPERTA DEL CORPO, LA RICERCA DI ENZO PACI SULLA NASCITA e la “fedeltà all’amore” di HEIDEGGER e ARENDT;
D) - CORONAVIRUS O SOVRANITA’ ( “CORONA VIRTUS”) ?! FILOLOGIA: ECCE HOMO! Ad evitare problemi di un cieco e zoppo monoteismo teologico-politico e biologico e uscire dal letargo e dalla caverna, ricordare che Ponzio Pilato disse: “«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)”;
E) - LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
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La realtà e i cowboy. A proposito del più grande evento mediatico della storia
di Pierangelo Di Vittorio ("Aut Aut", 07.04.2020)
Al contrario di altri scenari possibili - nei quali la catastrofe, provocando un blackout tecnologico, consegna la sopravvivenza a vecchie risorse “analogiche” - l’attuale pandemia, costringendoci a un confinamento domestico, ha invece esaltato l’uso delle tecnologie digitali. Collegarsi al computer o allo smartphone è diventata, non solo una necessità, per studiare, lavorare, comunicare, ma anche un’occasione per conservare o magari riscoprire le relazioni sociali. Chi in questi giorni non ha provato almeno una volta il piacere di ritrovarsi a chiacchierare con un gruppo di amici o di colleghi in una videochiamata collettiva? Questo potrebbe essere quindi il momento meno adatto per mettersi a fare le pulci al digitale.
Credo tuttavia che una delle poche riflessioni davvero urgenti in questo periodo riguardi, non tanto il digitale in sé, quanto alcuni effetti legati alla sua capacità di industrializzare e massificare alcune tendenze di più lungo periodo. Mi riferisco in particolare alla mediatizzazione o alla messa in spettacolo della vita quotidiana (che va beninteso di pari passo con la riduzione della realtà a merce-spettacolo). La cosiddetta rivoluzione digitale ha sicuramente introdotto delle novità rispetto all’epoca televisiva. In primo luogo, l’alta tecnologia è diventata “personale” (pc, tablet, smartphone); in secondo luogo, grazie all’accessibilità di tale tecnologia personale e di tutto quello che essa consente di fare, forse per la prima volta nella storia moderna è venuta meno la tradizionale distinzione tra proprietari dei mezzi di produzione e operai, tra produttori e consumatori, tra attori e spettatori. Si tratta quindi di una novità che introduce una discontinuità fondamentale, ma che può essere vista al tempo stesso come un ulteriore giro di vite nel lungo processo di “democratizzazione” delle nostre società, il cui esito, troppo spesso trascurato, è che l’uomo comune si ritrova al centro del sistema come una specie di divinità paradossale - essendo ciò che, per principio, si oppone a ogni forma di unicità, di eccezionalità, di trascendenza.
Ora, forse non ce ne siamo accorti, le priorità sono ben altre, ma quello che stiamo vivendo, anche per le ragioni che dicevo prima, è il più gigantesco evento mediatico della storia dell’umanità. Penso ai comunicati radio e ai cinegiornali durante la Seconda guerra mondiale; al processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme nel 1961; all’allunaggio di Armstrong e compagni nel 1969; alla caduta del muro di Berlino nel 1989 e agli eventi sportivi di rilevanza mondiale: la pandemia li ha surclassati tutti. Perché?
Per la sua globalità, certo. Per la sua durata, anche. Per la sua gravità, indubbiamente. Ma c’è dell’altro. Credo - e qui veniamo alla novità introdotta dal digitale - che la ragione stia soprattutto nel fatto che tutti, in tutto il mondo, tutti i giorni e per molti giorni, abbiamo contribuito alla “messa in scena” della realtà della catastrofe: dal papa che usa piazza San Pietro deserta come set di un thriller apocalittico alla Dan Brown; ai grandi filosofi che usano il virus come paesaggio su cui stagliare le loro più o meno logore o inopportune teorie; alle autorità governative e sanitarie che tengono messa ogni sera; ai sindaci che se vanno in giro nelle città deserte a fare i giustizieri stile Charles Bronson; all’esercito di politici, esperti, opinionisti, giornalisti che remano come schiavi dietro una prima pagina che non cambia mai; agli uomini e le donne del mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo che si autopromuovono con la scusa di #iorestoacasa; a ciascuno di noi, e siamo la maggior parte, persone comuni che, oltre a riverberare all’infinito le agenzie di cui sopra, offrendo al mondo le nostre quotidiane pillole di saggezza religiosa, filosofica, scientifica, politica ecc., celebriamo noi stessi attraverso l’auto(docu)fiction, i vari diari intimi della pandemia, gli improvvisati spettacolini firmati #iorestoacasa e #celafaremo, le continue valanghe di news e fake news, video, meme e altri contenuti “umoristici” che invadono i social network, saturano le chat di whatsapp ecc.
Sì, celebriamo noi stessi, perché l’uomo comune, non dimentichiamolo, è il centro del sistema, mentre la catastrofe fa da sfondo, come il Colosseo o la Tour Eiffel in tempi “normali”, anche se questo sfondo è fondamentale, trattandosi di “capitale mediatico”, anzi, in questo momento, della soglia mediatica che dà accesso a una condizione di “esistenza” (mediatica e tout court: si può esistere oggi senza passare dalla pandemia, senza parlare del virus, senza mostrarsi con il poster della catastrofe alle spalle?). Il selfie con il virus è diventato lo sport più praticato sul pianeta. Sarà salutare? In ogni caso sembra di assistere al più grande (auto)sciacallaggio mediatico della realtà che sia mai stato compiuto nella storia dell’umanità. Sarà giusto parlarne? O saremo tacciati di disfattismo, di terrorismo? Correremo il rischio. Però chi, in questi giorni, almeno una volta, non ha pensato che la viralità mediatica della pandemia fosse almeno pari a quella biologica del virus stesso? In fondo si tratta di questo. Poi ci sono le priorità. Certo.
A dire il vero, non abbiamo dovuto aspettare la pandemia per assistere all’affermarsi di tale fenomeno: da tempo l’uomo comune è diventato il protagonista del film ininterrotto (e autoprodotto: self-cinema, come si parla di self-publishing ecc.) della propria vita quotidiana. Un film nel quale la realtà stessa è l’unica scenografia, al punto da rendere difficile distinguere dove finisca il primo e dove inizi la seconda. Un film che è solo la mediatizzazione o la messa in spettacolo della realtà più immediata, banale o triviale. Un film che è il reality show della nostra vita quotidiana.
Sarà pure legittimo chiedersi che effetti produce tutto questo sulla nostra relazione con la realtà? E quindi sulla possibilità stessa di costruire delle relazioni - con noi stessi, con gli altri, con il mondo che ci circonda? Perché, attenzione: non si tratta di sostenere, ingenuamente, che la realtà è solo “quella cosa lì” che possiamo toccare, la realtà fisica, materiale, mentre tutto il resto, ossia ciò che chiamiamo genericamente “immateriale”, appartiene al mondo della fantasia. Nulla di tutto questo.
Si tratta invece di considerare la realtà come il piano delle relazioni “possibili” (in senso kantiano), materiali o immateriali che siano. E le relazioni sono possibili nella misura in cui c’è sempre qualcosa che ci sfugge, nel senso che in esse si apre una dimensione che non ci fa mai essere del tutto a casa nostra, che entra in gioco qualcosa che ha a che fare con l’“altro”.
La relazione di realtà è quel nesso che ci connette con e attraverso una forma di alterità (a cominciare dal rapporto con noi stessi), e che ci espone quindi a qualcosa che non “padroneggiamo” mai del tutto. La realtà è il non-padroneggiabile e la relazione di realtà è ciò che ci mette in contatto con l’altro, “alterandoci” in questo stesso contatto.
Intuiamo forse quanto la ricchezza, l’ipertrofia della nostra connessione sul piano mediatico (che tende a trasformare l’eterogeneo in omogeneo, l’estraneo in familiare) vada di pari passo con una profonda, galoppante miseria della nostra connessione sul piano della realtà. Il film continuo della nostra vita quotidiana, la sua trasformazione in reality ci dissocia in modo “sistematico”, e perciò drammatico, dalla realtà stessa; ci priva di quella rete di relazioni, rischiose ma creative, che ci fanno entrare in contatto con l’alterità, che ci fanno esperire la realtà stessa come e nella sua alterità; e che attraverso il gioco dei conflitti e delle alleanze, rendono possibile la trasformazione di quello che è in qualcos’altro.
Che cosa accade invece quando la realtà diventa la scenografia della nostra vita domestica? Quando è “addomesticata” in un dispositivo mediatico del quale siamo noi stessi gli artefici e i protagonisti? Gli eterni e immutabili padroni di casa? -Succede che la vertigine dell’alterità viene meno. E questo vuol dire che ci disconnettiamo dalla realtà come piano delle relazioni possibili, e cominciamo a coltivare l’idea che la realtà stessa sia come il giardino di casa: la pericolosa illusione che, qualsiasi cosa accada, noi siamo sempre in sella e teniamo saldamente le briglie. Che si tratti di migrazioni o di cambiamenti climatici, di crack finanziari o di epidemie, ci proiettiamo e ci vediamo come gagliardi cowboy che scorrazzano nella realtà. Il che, me lo concederete, più che infantile, è idiota.
L’idiozia del tizio che fa una rapina e poi si spara un selfie con il bottino in mano all’uscita della banca pubblicandolo immediatamente su facebook - è solo un esempio di fantasia, per ridere, cioè per non piangere citando il caso, realmente accaduto, di quei ragazzi di Manduria che per anni hanno vessato e picchiato un anziano, fino a causarne la morte, e che hanno continuato a filmare e diffondere in rete le loro belle gesta. Effettivamente, in questi casi, la dissociazione - dal rapporto con la realtà e dalle connessioni che il piano della realtà rende possibili - si nota con una certa evidenza. Ma sono casi singoli, si dirà. Eccezioni. Derive. D’accordo. Ma che dire allora del film apocalittico di massa, realizzato in tempo reale e intitolato vox populi “Ai tempi del coronavirus” (circa 1.400.000.000 risultati in 0,41 secondi, appena ho lanciato la ricerca, in italiano, di questa frase su Google: oggi 6 aprile 2020)?
Fare presa sul piano di realtà è sempre importante ma, potremmo chiederci, non diventa addirittura decisivo se la realtà ha un aspetto “catastrofico” - nel senso di un evento che, sottraendoci brutalmente alla nostra routine, ci obbliga a porci almeno il “problema” di come sopravvivere? Nel momento in cui la realtà è più altra e alterante del solito, quando la padroneggiamo meno del solito, o magari non la padroneggiamo affatto, non diventa primordiale costruire una serie di relazioni possibili - come per il naufrago diventa primordiale costruire una zattera con quel poco che ha a disposizione - invece di continuare a fare i cowboy?
Forse passeremo alla storia come i passeggeri di un nuovo Titanic, occupati a farci dei selfie mentre l’iceberg, a fauci spalancate, si avvicinava alle nostre spalle.
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ... ***
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli) ! Hai ragione : "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo !
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’« omuncolo » di qualche "uomo supremo" o “superuomo” !) :
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO ?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi ?!
Che vogliamo fare ? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca) ?!
* Discorso sulla dignità dell’uomo.
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
***
Federico La Sala "Fondazione Terra d’Otranto", 01/03/2020).
L’AMORE ("CHARITAS") NON E’ LO ZIMBELLO NE’ DEL TEMPO NE’ DELLA FILOLOGIA. IL SONNAMBULISMO DI HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER (e dell’intera storiografia filosofica, teologica, e filologica):
Martin Heidegger e Hannah Arendt: la storia della fedeltà all’amore
A cura di bea *
Negli anni in cui Martin Heidegger andava elaborando "Essere e tempo" (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni, ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda. Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nel paragrafo 29 di “Essere e tempo”, l’opera più famosa di Martin Heidegger, troviamo due citazioni: la prima è di Pascal
La seconda, più incisiva, è di Agostino di Ippona
Anche se non sono citazioni dell’autore, queste prove bastano ad annullare quanto sostenne K. Jaspers, ovvero che la filosofia di Heidegger fosse “senza amore”.
Se da un lato possiamo capire la sua posizione, in quanto nell’opera i temi principali ruotano attorno all’essere, il Dasein, il tempo e la morte, dall’altra è fondamentale chiedersi il perchè di quelle due citazioni.
La spiegazione la troviamo nella vita reale del filosofo. Negli anni in cui andava elaborando Essere e tempo (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda.
Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nelle ultime lezioni che Heidegger tenne a Marburgo nel semestre estivo del 1928 si fa riferimento alle due citazioni: egli riprende delle riflessioni che aveva scambiato con Max Scheler, per il quale amore e odio fondano la conoscenza, e sulla scia di una frase dell’Ordo Amoris “L’uomo, prima di essere un ente pensante o volente è un ente amante”, costruisce il motore immobile e invisibile che dà vita al suo Dasein, l’essere-nel-mondo.
Se Heidegger si appella ad Agostino e a Scheler, significa che l’amore è per lui un modo di apertura più originario di ogni conoscenza.
In riposta alla teoria delle passioni, la Arendt scrive nel 1953
Essere-nell’amore significa fare in primis esperienza dell’esistenza più “propria” e poi scoprire, in due, che l’essere nell’esistenza significa anche volere l’esistenza dell’altro. Amo, come dice Agostino, significa volo ut sis, ti amo, voglio che tu sia ciò che sei.
scriveva Heidegger alla sua studentessa.
Amare è anche lasciare libero l’altro, amare è cogliere il “tu” pur lasciandolo essere, senza cercare di possederlo: “... lasciar essere l’essere”
scrive il filosofo circa il concetto di libertà ne Lettere sull’umanismo.
Secondo la Arendt l’amore non consiste propriamente solo nei sentimenti verso l’ altro, ma prende una forma propria, che chiede qualcosa a entrambi gli amanti.
Se è fuori da ogni dubbio che Heidegger la amò, spingendola ad essere libera, resta tuttavia il fatto che rifiutò ostinatamente di cambiare per lei il corso della propria vita: non avrebbe mai lasciato il suo “punto fisso”, Elfride.
La concretizzazione del loro amore non avvenne mai. Avevano sì un mondo loro, ma era pur sempre circoscritto a qualche momento fuggitivo.
Hannah decise di chiudere la clandestina relazione, e lui, nonostante l’avesse ritenuta da sempre “molto più di una stella cadente”, non la trattenne, conservando però la speranza di riconquistarla.
In realtà tra i due ci fu sempre un collegamento, una sintonia che si riflette nelle numerose lettere che i due si spedirono anche dopo il primo matrimonio -poi fallito- della Arendt con G.Stern. Qualcosa cambiò nel 1933, quando Heidegger aderì al partito nazionalsocialista.
Nel frattempo la giovane Hannah si era trasferita a Parigi, dove sposò “il suo grande amore”, il filosofo tedesco H.Blucher, con il quale si imbarcò per gli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle i ricordi del tormentato amore con quella “volpe” di Heidegger. Come un vero Don Giovanni, egli passa di donna in donna alla ricerca della Donna, vale a dire una “verità della Donna”, rifacendosi alle teorie filosofiche di Proust e Sartre:
Alla ricerca di questa verità, passa da graziose dottorande a giovani signore eleganti. Inoltre, si può notare che il suo Amore non si mostra affatto platonico, anzi l’amore si manifesta principalmente nell’effervescenza sessuale.
Non è dunque un caso che dedichi un libro su Platone alla sua “moglie-rifugio” Elfride, né che mandi alla Arendt alcuni versi dell’Antigone di Sofocle in cui il coro evoca il dio Eros.
Il 1950 è un anno di crisi per Hannah: se da una parte il secondo matrimonio sembra crollare a causa di un tradimento da parte del marito, dall’altra è un momento di riflessione feconda su un tema molto delicato, la fedeltà. Tra i due non c’erano più segreti, Blucher era al corrente delle lettere che mandava ancora al suo professore-amante, e addirittura la incoraggiava a riallacciare i rapporti.
Ma è nel suo Diario intellettuale che la filosofa trae le conclusioni dei vari episodi della sua vita.
Rispondere all’infedeltà - come è abitualmente intesa - con la gelosia equivale quindi a una perversione della fedeltà. L’infedeltà più grave e terribile che possa esistere, il peccato più grande è per la Arendt l’oblio, poiché spegne la Verità, la verità che è stata.
È per questo motivo che, pur con tutto l’orrore provato per l’adesione di Heidegger al partito nazista, decise di restare sempre in contatto, mentale e non, con lui. Un’affinità elettiva non priva di tormenti e sofferenze, incomprensioni e oscurità.
Più che di perdono, bisognerebbe parlare di una volontà di non rinnegare ciò che era stato “l’evento dell’amore”.
* A cura di bea - 30 Luglio 2014
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
DANTE 2021: DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
Federico La Sala
Carteggi amorosi
Hannah Arendt e Martin Heidegger: le lettere
di Francesca Rigotti *
Con questi toni inizia, nel febbraio del 1925, la corrispondenza amoroso-filosofica di Martin Heidegger - che sarebbe divenuto il filosofo di fama mondiale e all’epoca aveva trentasei anni, una moglie e due figli piccoli - con Hannah Arendt - anch’essa qualche decennio dopo non meno famosa del maestro e amante - mentre entrambi si trovavano nella piccola città universitaria di Marburg nel centro della Germania, tra Kassel e Francoforte. A Marburg l’università vecchia è una specie di costruzione massiccia, sorta di castello-chiesa-fortezza nel cuore della città (la nuova università, un po’ fuori, è di uno squallore e di una bruttezza insostenibili, ma ai tempi per fortuna non c’era). Lì la studentessa venuta dal nord (Königsberg) incontra il docente venuto dal sud (Meßkirch); è colpita dal suo pensiero, pensa che la filosofia sia tornata a vivere, che finalmente qualcuno abbia ridato la parola ai tesori del passato che sembravano morti.
Anch’egli è colpito dall’apparizione di questa ragazza intelligente e attentissima; Arendt si era appassionata alla filosofia fin dagli anni giovanili e già a 14 anni aveva letto la Critica della ragion pura di Kant, e conosceva così bene il greco e il latino da aver fondato un circolo di lettura per la letteratura antica. Aveva anche ascoltato qualche lezione di Romano Guardini, e letto Kierkegaard, prima di iscriversi alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Marburg proprio per sentire le lezioni di Bulmann e Heidegger, già ben conosciuto. La giovane viveva in una camera da studente in una soffitta di Marburg: una decina di anni prima Edith Stein, studentessa di Filosofia iscritta all’Università di Göttingen per seguire le lezioni di Husserl, conduceva una vita analoga, nella sua stanzetta da studente.
Questa l’ho vista con i miei occhi, ci sono passata davanti non so quante volte, sempre pensando che queste studiose erano contemporanee di mia nonna, che non aveva potuto studiare perché era femmina, e anche una delle sue figlie, mia zia, non era stata mandata avanti negli studi perché era donna, eppure era bravissima, la più brava in tutte le materie, e per questo motivo era stata mandata in gita al Cimitero Militare di Redipuglia, in Friuli, che raccoglie molti caduti della Prima guerra mondiale, insieme agli altri bambini bravi d’Italia. Luogo un po’ macabro, per una gita scolastica, ma erano gli anni del fascismo e del suo culto della patria. Ogni volta che penso alle loro vite ammiro l’apertura mentale del nord dell’Europa.
Ma torniamo a Arendt che nel sottotetto della sua cameretta accoglieva Heidegger, un giovane uomo magro, sportivo, asciutto, con i capelli e i baffi scuri, perennemente abbronzato del sole delle sue montagne dove scappava ogni volta gli fosse possibile. Rigidissime erano le regole dei loro incontri, da lui disposte per la loro storia d’amore.
Né la moglie Elfriede né alcuno nella piccola città doveva sospettare alcunché. Accurati segnali davano il via libera o l’altolà. Lampade accese o spente, finestre e porte aperte e chiuse indicavano pericolo o agibilità. Hannah segue le prescrizioni, ben conscia del fatto che questa storia non ha storia, mentre Martin compone per lei poesie e le manda piccoli fiori di caro di montagna.
E però nel loro rapporto Arendt impara da Heidegger, e lo riconoscerà sempre, la cosa più importante per un filosofo ma non soltanto: impara, dalle sue lezioni, a leggere. Noi abbiamo banalizzato la lezione e il suo senso; ma tenere una lezione vuol dire letteralmente leggere davanti a un pubblico generalmente di studenti, interpretare, spiegare, immaginare, a guisa del maestro medievale che commentava le opere di Aristotele. -Come «leggeva» lui, ripete Arendt nelle sue lettere, compresa quella del 25 settembre 1968 dedicata all’ottantesimo compleanno di Heidegger, non l’ha mai fatto nessuno né prima né dopo di lui. Da Heidegger Arendt impara infatti non banalmente «a» pensare, ma «il» pensare; apprende come si pensa proprio dal maestro del pensiero che nella casa del pensiero viveva ogni giorno.
L’epistolario Arendt-Heidegger: una sorpresa
Per me che questo epistolario non avevo ancora letto - è a disposizione del pubblico tedesco dal 1998 nell’edizione curata da Ursula Ludz (Frankfurt, Klostermann) e di quello italiano dal 2007, nell’edizione Einaudi curata da Massimo Bonola - è stata una sorpresa cogliere gli accenti di un amore sincero, di una passione condivisa. Quelli di Heidegger non sono i toni di un vecchio marpione perso per una ragazzetta, anche se nelle prime lettere un po’ di retorica la spende, soprattutto sul «femminile» e sulla caratteristica del donare che gli viene attribuita; sono parole d’amore e di stima per la giovane ebrea - Heidegger era circondato da studenti ebrei per i quali non aveva alcun problema a spendersi, ma soprattutto la sua filosofia non c’entra nulla con le posizioni antisemite da lui assunte per un certo periodo, né con l’antisemitismo dichiarato della moglie -. La giovane risponde con un po’ di timore e tremore, con termini appassionati ma anche contenuti, forse per la soggezione nei confronti dell’età e della posizione dell’amante.
Un’altra sorpresa è stata per me vedere il loro rapporto di intimità, di stima e di reciproca comprensione umana e filosofica correre per l’intero cinquantennio della corrispondenza. Ci furono sì pause, interruzioni, reticenze, riprese, momenti di crisi, di gelosia e di incomprensione politica; l’impressione generale è però che questo sia stato l’incontro più importante delle loro vite, e che abbia continuato a determinarle entrambe, e che questo non sia nemmeno stato indifferente al loro sviluppo filosofico, per dir così. Con Arendt che impara da Heidegger a leggere e Heidegger che riceve impulso dallo sguardo così attento della studentessa, se studente è chi at-tende con sforzo al sapere, a leggere sempre più profondamente.
La ragazza straniera/Das Mädchen aus der Fremde
Entrambi amavano, oltre al pensiero, filosofico e politico, la musica classica, sulla quale si consigliano autori e pezzi: Prätorius, Pachelbel, Buxtehude, Beethoven; l’arte, la letteratura. Forse Arendt non era trascinata dall’amore per la montagna che sprizza dalle pagine di Heidegger e del quale Rüdiger Safranski, nella sua bellissima biografia (Ein Meister aus Deutschland, 1994, tradotto nel 2001 come Heidegger e il suo tempo), racconta narrando del leggendario incontro nel 1929 a Davos con Ernst Cassirer: elegante e raffinato quest’ultimo, il gran signore dell’Umanesimo politico; appena arrivato da una discesa in sci, trafelato e sudato l’altro, con i calzoni alla zuava, scusate ma cito a memoria. Arendt, che veniva dal paese piatto delle regioni settentrionali non sapeva che cosa vuol dire avere nostalgia del profilo delle montagne, anche se si trattava semplicemente del panorama delle Alpi visto dalla finestra di una cameretta da bimba a Milano, la mia, quando la giornata era serena e ventosa.
Arendt non sembra avere preferenze di luogo o di territorio; vive dove riesce a vivere, a pensare, a scrivere. Non si considera una donna tedesca e neanche una donna ebrea: lo scrive a Heideger nel 1950, quando riprende la corrispondenza che si era interrotta nell’inverno del ‘32-33, allorché Arendt era riparata prima in Francia e poi negli Stati Uniti con il secondo amato marito Heinrich Blüchner, che fu tutto, amato, amico, fratello, padre, collega, scrive Safranski; mentre dal primo, Günther Stern, poi Anders, aveva divorziato dopo un breve matrimonio.
Io sono soltanto, scrive di sé Arendt, Das Mädchen aus der Fremde, la ragazza straniera, straniera ovunque, che è di casa soltanto nella sua lingua madre - dirà nella celebre intervista - l’unica lingua nella quale poteva recitare le poesie imparate a scuola, tra le quali sicuramente anche i versi di Schiller sulla fanciulla straniera che distribuiva i suoi doni, fiori e frutta, a tutti, ma specialmente alla coppia di innamorati del finale.
Hannah Arendt è sempre la stessa ragazza dai capelli ricci nei quali lui passava «il pettine delle sue dita», le scrive Heidegger nel 1950, e per la quale il professore scrive poesie, una delle quali porta lo stesso titolo della poesia di Schiller, La ragazza straniera. I versi di Heidegger non sono melodiosi come quelli di Schiller, sono ruvidi, criptici, pesanti, senza bellezza.
Un’altra delle poesie che Heidegger dedica a Arendt si intitola Die Sterblichen, I mortali. Su questo tema, come su altri, le considerazioni di Arendt e Heidegger erano andate in direzioni opposte: all’«essere per la morte» e alla filosofia della mortalità di Heidegger Arendt infatti rispose con la filosofia della natalità, l’«essere per la vita», «essere per la nascita», la filosofia dell’essere non soltanto mortali ma anche, e soprattutto, nascibili.
L’inno filosofico al nascere, che si affaccia alla mente di Arendt mentre ascolta le note dell’Alleluja del Messiah di Händel, fu forse una sorta di compensazione per i figli che Hannah Arendt non ebbe mai, perché «quando poteva non fu possibile e quando fu possibile non poteva», come le fa dire Margarete von Trotta nell’omonimo film (Hannah Arendt, con Barbara Sukowa, Germania, Lussemburgo, Francia 2012).
Ebbe però quell’amore grande, e Heidegger ebbe l’amore di lei, e il loro amore si mischiava con l’amore per il pensiero e il desiderio di comprendere, era un amore che Heidegger espesse nei primi tempi della loro storia con le parole di Agostino, senza sapere che proprio sul concetto di amore in Agostino Arendt avrebbe scritto la tesi di dottorato, non più con lui ma con Jaspers, a Heidelberg e non a Marburg, da cui si era allontana proprio a causa di quell’amore impossibile. «Amo», scrive Heidegger citando per la prima volta il filosofo di Tagaste nella lettera del 13 maggio 1925, significa «volo ut sis». Ti amo, cioè voglio che tu sia ciò che sei, «felice, raggiante e libera come venisti a me», le aveva scritto appena il mese prima, firmandosi non più semplicemente Martin ma «il tuo Martin». Anche Hannah comincerà a firmarsi «la tua Hannah», quella che nel 1929 gli bacia «la fronte e gli occhi».
Poi la lunga interruzione e la ripresa nel 1950, timida, dove le lettere un po’ sostenute di quel periodo, gli anni della gelosia sono stati definiti, vengono firmate semplicemente Martin. Finché negli anni dell’autunno, così chiamati dal titolo di un’altra poesia, Autunno, questa volta di Hölderlin, arriva di nuovo un segnale da parte di lei che si firma «come sempre (wie immer) Hannah». E da allora, dagli anni autunnali fino all’inverno della morte di lei - Heidegger le sopravvivrà per sei mesi, attendendo la fine tranquillo, sereno, rilassato - sarà «come sempre» per entrambi.
* Fonte: Doppiozero, 5 settembre 2020
GIORNO DELLA MEMORIA, PERCHÉ GLI EBREI?
Il dovere morale di preservare i valori moderni
di Francesco Bellusci (Casa della cultura, 24.01.2020)
“Perché gli ebrei?”. È questa la domanda che spesso giunge dal pubblico in coda alle manifestazioni del Giorno della Memoria, a scuola o in altri contesti, oppure rimane taciuta nel retro-pensiero, difficile da esternare, come se la sua imbarazzante e sconcertante semplicità, più che ad appagare una sete di conoscenza, sia diretta a placare l’angoscia che accompagna l’inevitabile senso di “colpa metafisica”, come l’avrebbe chiamata Karl Jaspers[1], cioè la colpa di essere “sopravvissuti” a loro, di avere goduto il privilegio della vita, ingiustamente e violentemente negata ai nostri simili, pur essendo, noi, lontani ed estranei ai soggetti direttamente imputabili della colpa politica o giuridica o morale di quel crimine spaventoso. Perché gli ebrei e non un’altra minoranza etnica o religiosa, allora? Perché la scelta del comodo capro espiatorio su cui polarizzare il risentimento e le frustrazioni di un popolo sconfitto in guerra e sconvolto dalla crisi economica è caduta sugli ebrei? Perché le ideologie del fascismo e del nazismo hanno fatto leva sull’antisemitismo e sulle leggi razziali contro gli ebrei per la loro cinica propaganda?
Hitler o Mussolini non hanno inventato il male, tantomeno l’antisemitismo. Certamente, però, in Germania, un’impressionante e contingente reazione favorita da enzimi ideologici (nazionalismo, darwinismo sociale, scientismo, xenofobia, razzismo), politici (la competizione accesa per il consenso in democrazie “giovani”, con istituzioni nascenti o fragili messe da subito a dura prova dalle conseguenze sociali ed economiche della Grande Guerra e, poi, dalle ripercussioni mondiali del primo “crac” della nuova potenza economica globale: gli Stati Uniti) e materiali e tecnologici (la disponibilità di burocrazie più efficienti, la sperimentazione di nuove armi letali) fece sì che dall’odio, dal disprezzo, dalla discriminazione nei confronti dell’ebreo si arrivasse, per la prima volta, al progetto efferato di un genocidio, concepito come un assassinio industrializzato di massa. E ha portato altri regimi fascisti come l’Italia o la Repubblica di Vichy a collaborarvi. Ma con la fine del nazifascismo, Hiroshima annunciava che l’irrazionale, la psicosi del potere, non si erano affatto ritirati dal mondo, subito piombato nella corsa agli armamenti e sempre sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Un mondo dove la macchinazione tanatocratica di governi, laboratori scientifici e industria militare, in sinergia tra loro, sembravano preparare stavolta l’olocausto dell’umanità, al punto da far dire, provocatoriamente, al filosofo e storico della scienza Michel Serres, in un memorabile pamphlet:
La fine del mondo bipolare, con la disintegrazione dell’Unione Sovietica, ha per fortuna allontanato la minaccia di un olocausto della specie umana, ma se, come ricordava Serres nel suo saggio, la paranoia di Hitler era storica, e non individuale, rimane da chiedersi ancora perché le vittime di quella paranoia, e dell’unico olocausto sinora avvenuto, siano state proprio gli ebrei. -Diventa interessante farlo tanto più che la risposta a questa domanda ci costringe a risalire a un periodo storico, l’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento, con il quale secondo il politologo David Runciman[3], il momento storico attuale con il suo strisciante rigetto diffuso della democrazia liberale, del cosmopolitismo, della multietnicità, intrattiene più analogie.
Allora si consumò, infatti, il più pericoloso cortocircuito culturale della modernità, con il rischio di un inabissamento della civiltà europea stessa, e coincise con il periodo d’incubazione dell’ideologia fascista, che, solo nelle circostanze critiche del dopoguerra, si sarebbe poi trasformata in un movimento politico di estrema destra organizzato e combattivo. Questa pista ci viene acutamente suggerita dagli importanti studi storici di Zeev Sternhell[4]. In quel periodo, infatti, germina e cresce rapidamente un rifiuto dell’Illuminismo, espresso da vari rivoli della cultura europea, che si declina come rifiuto del principio di uguaglianza naturale degli uomini, dell’universalismo, del razionalismo, dell’idea di progresso e che culmina nella scomunica di “materialismo”, indirizzata indistintamente a democrazia, liberalismo, socialismo, con le loro dottrine egualitarie e utilitaristiche, concepito come la malattia europea che era necessario sradicare, quella che più di altre minava l’“organismo vivo” della nazione. Il fascismo e il nazismo, pertanto, non sono tanto figli della reazione al bolscevismo e al comunismo, quanto l’emergenza più vistosa, aggressiva e radicale di quel rifiuto. Il che ne spiega l’appeal che esercitò sia sulle masse sia sull’élite intellettuale.
Si comprende allora la scelta del capro espiatorio ebraico. La “questione ebraica”, ovvero il tema della tolleranza e dell’emancipazione della minoranza ebraica da secoli discriminata o ghettizzata, si era affermata proprio con l’Illuminismo e gli illuministi l’avevano imposta già nell’agenda politica dei “sovrani illuminati”, per essere riconfermata nelle rivoluzioni liberali della prima metà dell’Ottocento (non a caso, La questione ebraica è il titolo di un libro fondamentale nella produzione di Marx, del 1843, dove ai sostenitori dell’emancipazione politica attraverso l’estensione universale dei diritti civili, anche agli ebrei, Marx replica denunciando i limiti intrinseci dell’emancipazione politica, a fronte dello scarto tra gli eguali diritti proclamati in astratto e le concrete condizioni di diseguaglianza presenti nella società).
Questo tema sarà ricorrente per tutto il XIX secolo in Europa, anche se maggiormente in Francia e in Germania rispetto ad altri Paesi europei, e, quindi, uno dei modi migliori per dichiarare morte ai valori dell’Illuminismo sarebbe stato proprio scagliarsi contro gli ebrei e archiviare, con il tema dell’emancipazione degli ebrei, il simbolo essenziale dell’Illuminismo. La presenza nella coscienza collettiva e nel dibattito intellettuale del nesso tra illuminismo e questione ebraica trova peraltro conferma in un articolo[5] di Hannah Arendt, pubblicato sulla Zeitschrift für Geschichte der Juden in Deutschland, alcuni mesi prima della nomina a cancelliere della Repubblica federale di Adolf Hitler, in cui la giovane filosofa ripercorreva il modo in cui gli stessi intellettuali ebrei (Lessing, Mendelssohn, Dohm) si collocavano nella tradizione illuminista, oscillando tra l’invito a mantenere la religione ebraica come “religione della ragione” o a rinunciarvi per una piena “naturalizzazione” e assimilazione nella società tedesca e europea. E certamente, come ci ricorda André Glucksmann, nel suo controverso libro-manifesto dei nouveaux philosophes[6], giocò nella scelta degli ebrei anche l’immagine di “nemico interno” costruita filosoficamente dagli idealisti tedeschi, che vi videro i rappresentanti o di uno “Stato nello Stato” (Fichte), nutrito e compattato dall’ostilità per il resto del genere umano, o peggio ancora, di un “anti-Stato” (Hegel), esempio aberrante di comunità che scardina l’equazione tra popolo, nazione, Stato e, quindi, ancora più inquietante agli occhi un movimento culturale politico come quello fascista e nazista, esplicitamente nazionalista, illiberale e razzista.
Bisogna aggiungere che, in questo attacco all’Illuminismo, che venne quasi naturalmente a combinarsi con l’attacco agli ebrei, il nazismo, rispetto al fascismo, con il suo dogma del Blut und Boden, si spinse oltre, fino a colpire la concezione dell’uomo ereditata dalla tradizione giudaico-cristiana, come aveva intuito Emmanuel Lévinas, in un articolo pubblicato nel 1934 sulla rivista Esprit: “L’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento. Essere veramente se stessi, non significa risollevarsi al di sopra delle contingenze, sempre estranee alla libertà dell’Io: ma, al contrario, prendere coscienza dell’incatenamento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo, significa soprattutto accettare questo incatenamento (...) Da questa concretizzazione dello spirito deriva immediatamente una società a base consanguinea (...) Incatenato al suo corpo, l’uomo si vede rifiutare il potere di sfuggire a se stesso”[7]. Un attacco, quindi, non solo all’Illuminismo e ai suoi valori (l’autonomia, la finalità umana delle nostre azioni, l’universalità morale e giuridica, senza distinzioni di razza, di ceto, di religione), ma anche alle radici spiritualiste da cui quei valori scaturivano nella loro distillazione secolarizzata.
E per avere la sensazione di quale potesse essere la condizione psicologica di un ebreo nel clima plumbeo e “anti-illuminista” in cui la crisi di civiltà europea era precipitata, basterà rileggere il passo di una delle lettere, scritte tra il 1920 e il 1923, di Franz Kafka a Milena Jesenská, che morirà nel 1944 nel campo di concentramento di Ravensbrück: “Per me tutto avviene all’incirca come per qualcuno che, ogni volta che uscisse, dovesse non soltanto lavarsi, pettinarsi ecc. - il che è già abbastanza faticoso - ma venendogli a mancare tutto una volta di più, ogni volta, dovesse anche cucirsi un vestito, fabbricarsi delle scarpe, confezionarsi un cappello, tagliarsi un bastone ecc. Naturalmente non tutto gli riuscirebbe bene, le cose reggerebbero per una strada o due (...) Alla fine, in via del Ferro, si imbatterebbe in una folla che sta dando la caccia agli ebrei”. Ecco, il Giorno della Memoria deve servire anche a ricordarci il dovere morale di preservare i valori moderni che permettono di costruire una società in cui nessuno si senta manchevole per essere uomo, come i suoi simili, e in cui nessuno venga considerato mai un “uomo di troppo”.
[1] Vedi: U. Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2005, cap. 25
[2] M. Serres, Trahison: la thanatocratie (1972), in: M. Serres, Hermès III. La traduction, Le Minuit, Paris 1974, p. 74
[3] D. Runciman, Così finisce la democrazia. Paradossi, presente e futuro di un’istituzione imperfetta, Bollati Boringhieri, Torino 2019.
[4] Storico israeliano di origine polacca, professore di Scienza politica presso la Hebrew University di Gerusalemme, autore di numerosi saggi, tra cui: Nascita dell’ideologia fascista, Baldini & Castoldi, Milano 1993; La destra rivoluzionaria, Corbaccio, Milano 1997; Né destra, né sinistra, Baldini & Castoldi, Milano 1997.
[5] H. Arendt, Illuminismo e questione ebraica, Cronopio, Napoli 2007
[6] A. Glucksmann, I padroni del pensiero, Garzanti, Milano 1977
[7] E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 32, 34
HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER: VITA E FILOSOFIA. IL PROBLEMA DELLA NASCITA... *
Arendt, sempre al di là del dove, e ora stretta in una striscia
Questioni tedesche/Graphic. Dall’infanzia prussiana, all’università con Strauss, Löwith, Marcuse, Lévinas, alla bohème berlinese, all’esilio parigino, a N.Y. «Le tre fughe di Hannah Arendt» di Krim Krimstein, da Guanda
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, Alias Domenica, 13.10.2019)
Nell’opinione comune, i filosofi sono gente reclusa in studi foderati di libri e priva, in sostanza, di biografia e accessi al mondo. Fu Hannah Arendt, per esempio a citare una frase di Heidegger su Aristotele, secondo cui lo stagirita «visse, lavorò e morì». L’immagine del filosofo come essere estraneo alla vita e alla realtà è stata formata nell’Ottocento da un libretto divertente e maligno di Thomas de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, in cui il gran saggio è mostrato come un vecchio un po’ rimbambito che vaga per le vie di Königsberg e si sbrodola a tavola.
In realtà, un buon numero di pensatori ebbe una vita turbolenta e attiva. Pitagora esaltava le pratiche sportive e Platone, oltre che essere esperto di lotta, tentò a più riprese di influenzare il governo di Siracusa, per essere infine venduto come schiavo dal vendicativo tiranno Dionisio il vecchio, con cui era entrato in conflitto. Quanto a Cartesio, si sa che prima di chiudersi in una capanna a meditare sul cogito era stato soldato nella guerra dei trent’anni. E non parliamo di Leibniz, matematico, diplomatico ed esperto di miniere, o di Voltaire che corrispondeva con i principi di tutta Europa e interveniva pubblicamente contro la tortura e la pena di morte.
La rinuncia alla filosofia
È forse pensando alla leggenda grigia dei filosofi maldestri e appartati che il cartoonist Krim Krimstein ha dedicato una storia a fumetti o graphic novel a Hannah Arendt, la filosofa che meno corrisponde all’immagine del pensiero solitario ed estraneo al mondo. In Le tre fughe di Hannah Arendt. La tirannia della verità (traduzione di Antonella Bisogno, Guanda, pp. 233, e 20,00) Krimstein realizza il singolare tentativo di fondere la biografia di Arendt con il suo pensiero. L’aspetto più interessante in questa vicenda è l’estraneità di Arendt alla filosofia in senso stretto. Come si legge nel prologo («Umano troppo umano. Introduzione a una vita»): «Come mai questa persona, probabilmente la più grande filosofa del ventesimo secolo, ha rinunciato alla filosofia, e, nonostante questo, il suo pensiero rimane per l’umanità una via praticabile per progredire?».
La domanda rimane senza risposta, nel romanzo a fumetti, e non poteva essere diversamente. Dagli anni Ottanta in poi, la critica, in centinaia di libri e saggi, si è sbizzarrita sulla questione, cercando la soluzione nel tormentato romance di Arendt con Heidegger, il filosofo che cedette al nazismo, nell’incapacità della filosofia contemporanea di pensare la politica e, spiegazione che mi sembra la più ragionevole, in una personalità poliedrica, che cercava la spiegazione dei problemi che la assillavano nella filosofia, certamente, ma anche nella teoria politica, nella storia, nella letteratura e nella poesia. Più che rinunciare alla filosofia, come certamente la stessa Arendt ha affermato, si può dire che la nostra filosofa si sentiva stretta nella galleria soffocante di pensatori accademici, che pure aveva frequentato e variamente apprezzato, da Husserl a Jaspers e allo stesso Heidegger.
Krimstein riversa in immagini la storia di questo personaggio eccentrico, sempre al di là di dove si cerca di fissarla: ebrea, ma affascinata dal pensiero cristiano, allieva dei tre massimi pensatori di area tedesca, ma soprattutto affine al cugino acquisito Walter Benjamin, l’irregolare per eccellenza, attratta dalla dimensione della politica, ma impossibile da classificare in uno schieramento (anarchica e per certi versi tradizionalista, aristocratica e profondamente democratica, sionista in gioventù e critica di Israele e così via).
Tutta questa complessità, d’altronde era giù iscritta nella biografia, che la vede intellettuale a Berlino e studentessa di filosofia a Marburg, perseguitata dai nazisti e fuggiasca in Francia, esule negli Stati Uniti, accademica onorata e infine rigettata dagli intellettuali ebrei e ignorata dagli amici per avere scritto in modo non convenzionale e assai penetrante del processo a Eichmann nel 1961.
Pensatrice fuggiasca per definizione, può Arendt essere inquadrata in modo appropriato da un romanzo a fumetti? Come può il suo pensiero paradossale, ovvero la supremazia dell’azione rispetto al pensiero, che appare nelle sue opere fondamentali (Vita activa e La vita della mente), essere tradotto in vignette?
Krimstein sceglie di privilegiare la biografia rispetto alla teoria, come è inevitabile. E così ci scorrono davanti le immagini dell’infanzia in Prussia, dell’università - in cui frequentò compagni destinati a diventare famosi (Leo Strauss, Karl Löwith, Herbert Marcuse, Emmanuel Lévinas), della bohème berlinese, dell’esilio parigino, della vita intellettuale di New York e infine della solitudine che precedette la morte. Ecco allora che, attraverso la vita di questa filosofa per certi versi inafferrabile, un pezzo di Novecento, con le sue tragedie immani e le sue illusioni scorre davanti agli occhi (si spera) di gente giovane, curiosa e insoddisfatta delle categorie e dei pregiudizi dell’opinione corrente.
Tra le lenzuola di Heidegger
Resta, nell’operazione di Krimstein, qualcosa che probabilmente Arendt non avrebbe troppo apprezzato, e cioè il rilievo eccessivo attribuito alla sua vita intima e sentimentale. Se c’è un aspetto sul quale Arendt rompe con quasi tutta la filosofia del Novecento è la sua critica radicale dell’interiorità. In Vita activa, appare quasi un gesto di disprezzo nei confronti di una certa filosofia, che pretende di chiudersi nella contemplazione della vita soggettiva e dell’anima, invece che del mondo. In questo Arendt si distacca radicalmente dalla fenomenologia e dal suo amato Agostino (Noli foras ire! In interiore homine habitat veritas). Forse Krimstein avrebbe dovuto rammentarlo mentre si accingeva a disegnare Arendt e Heidegger che si scambiano effusioni a letto discettando di morte e verità...
Ma non dovremmo fargliene una colpa. A un periodo di critica, giusta o sbagliata, aspra o apologetica, del pensiero di Arendt è seguita una serie di libri che, in nome della verità biografica, si soffermano sulla sua relazione con Heidegger, ai limiti del gossip filosofico. È mettendo da parte questo genere letterario francamente scadente che il discorso su Arendt può ripartire.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LA VITA DELLA MENTE. Conclusioni" (H. ARENDT): AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO"
"NICODEMO O DELLA NASCITA": LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
VITA E FILOSOFIA: METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
STORIA E STORIOGRAFIA: MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! *
UNA BOLLA SPECULATIVA. “[...] Perché parlare di un libro pubblicato nel 1954? [...] Credo che la domanda e la risposta che Lukács scrive all’inizio del lungo volume parli ancora di noi. La domanda era “Perché a un certo punto la gnoseologia, la teoria della conoscenza, diventa la forma filosofica dominante?” La risposta (circa 800 pagine) aveva appunto a che fare con l’intento ideologico della borghesia di soggettivizzare la Storia al fine di immobilizzarla [...] Per Lukács l’irrazionalismo, che ha “come intento principale [...] la radicale soggettivizzazione della storia”, trova piena espressione fra gli ultimi anni dell’800 e i primi del ‘900 attraverso “la riduzione della gnoseologia kantiana alla gnoseologia di Berkeley”, così come prima sviluppata nell’ambito dell’epistemologia scientifica da autori quali Mach e Avenarius. La pretesa inconoscibilità della realtà oggettiva trasferisce l’oggettività medesima all’interno della soggettività, e questa è presentata dalla gnoseologia come soggetta alle oscillazioni della psicologia, le quali necessariamente inficiano (la psicologia di un soggetto è ovviamente mobile) ogni possibile e stabile approdo conoscitivo: “il cancellare i confini fra gnoseologica e psicologia fa parte delle caratteristiche essenziali dell’irrazionalismo moderno” [...] (M. Cangiano, “Il libro insostenibile: breve difesa di La distruzione della ragione”, Le parole e le cose, 14.01.2019).
* NOTE:
A) HEGEL, HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI .
B) KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
DIO, UOMO, E MONDO: TEOLOGIA, "ANDROPOLOGIA", E COSMOLOGIA. IL "PECCATO" DI MARTIN HEIDEGGER E LA "DIFESA" DI ROMANO GUARDINI... *
"QUANDO GUARDINI DIFESE HEIDEGGER. Si conobbero all’inizio del ’900 e con pause di anni rimasero sempre in contatto. Il pensatore cattolico scese in campo contro le censure per l’adesione Al nazismo" (cfr. Simone Paliaga, "Avvenire", 18 settembre 2019). Allegato:
Il "niente" del filosofo è quello generato dal peccato di Adamo
L’uomo «non era Dio; ma stava in quell’unità della grazia con Dio. Partecipava alla vita divina. Tutto ciò è stato superato. Le ralazioni sono disgregate e ora la finitezza è mera finitezza; staccata da Dio»
di Romano Guardini (Avvenire, 18 settembre 2019)
L’angoscia di cui parla Heidegger si presenta soltanto dopo il peccato, poiché soltanto dopo il peccato si presenta quel niente di fronte a cui nasce quest’angoscia - perché soltanto dopo il peccato si presenta quel genere di Esserci (l’uomo, ndr) per il quale il niente è una minaccia.
L’Esserci creato da Dio era finito; stava però nel riferimento alla grazia e all’amore. Non era Dio; ma stava in quell’unità della grazia con Dio, superiore a ogni categoria del pensiero decaduto. Partecipava alla vita divina. Era abbracciato da Dio e stava in movimento verso di Lui, dentro di Lui. Tra questo finito e Dio non vi era un aut aut: assoluto o condizionato; infinito o finito. Qui vi era piuttosto una relazione di genere diverso, appunto quello della grazia (...).
Tutto ciò è stato superato. Le relazioni si sono disgregate, Solo ora la finitezza è diventata nera finitezza; staccata da Dio. Ora vale l’affermazione: essere finito, non Dio. Adesso è presente anche il niente. Anzitutto il niente circostante: quello che si trovava intorno a questa finitezza separata. Il niente he è espressione mitologica della ribellione contro Dio e, di conseguenza, dell’abbandono da parte di Dio, anzi dell’ira di Dio. questo è il niente del vuoto. Poi l’altro niente, quello interiore (...).
La rottura della relazione fondata nel «riferimanto a (grazia e amore, ndr)» implica dunque l’inversione del movimento verso Dio, dirigendosi quindi verso il controvalore, verso il male. E dunque verso il niente. Questo è il niente interiore che, nell’uomo, lo minaccia a partire dalla direzione del suo movimento esistenziale.
Questo niente - quello circostante dell’abbandono e quello interiore a partire dal movimento verso il controvalore - è il niente di cui parla Heidegger. Ma questo è presente solo dopo il peccato.
Fa parte dell’inganno del peccato il fatto che tutti questi fenomeni - finitezza, essere, niente, movimento, morte, coscienza, che sono fenomenni della deiezione, di ciò che non dovrebbe essere - vengano resi fenomeni normali. Pascal dice: poiché la prima natura era distrutta, se ne stabilì una seconda, falsa, fondata sul peccato (...).
Ciò che il Nuovo Testamento chiama "conversione" non è soltanto la conversione d’animo, la disponibilità a credere e a cambiare vita, ma è anche un cambiamento di pensiero - per cui i criteri del vero e del falso non sono più tratti da quella "seconda natura" che si è stabilita dopo il peccato, ma dalla rivelazione, più precisamente dall’esistenza di Cristo.
(Testo inedito e non datato, tratto dal corso berlinese di antropologia di Romano Guardini. Traduzione di Claudio Bonaldi).
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TEOLOGIA, ANDROPOLOGIA, E COSMOLOGIA DELLA CHIESA CATTOLICO-IMPERIALE! "De domo David"?!: Gesù, Maria, e Giuseppe! *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo") .. *
Neonazismo e libertà accademica
di Andrea Mariuzzo (Il Mulino, 09 dicembre 2019)
Ha suscitato scalpore il caso di Emanuele Castrucci, professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Siena che per anni ha sostenuto tramite i suoi profili social posizioni esplicitamente neonaziste, razziste, antisemite e negazioniste della Shoah . Il rettore senese e gli organi rappresentativi dei suoi colleghi, spinti dal montare della polemica mediatica, hanno preso le distanze da lui e stanno promuovendo provvedimenti che possono preludere a un licenziamento, aperti da una denuncia alla Procura.
A fronte di questi sviluppi, alcuni studiosi e accademici hanno sollevato dubbi sull’opportunità e sulla legittimità di un atteggiamento repressivo verso il docente da parte dell’ateneo di appartenenza. In particolare Biagio De Giovanni, pur condannando fermamente l’opinione del collega, ha rigettato l’ipotesi di un licenziamento richiamando la qualità della sua attività intellettuale e l’illegittimità di provvedimenti di totale ostracismo in un ambiente, quello della ricerca universitaria, che si fonda sul libero confronto e dibattito e sulla battaglia delle idee, non sulla loro repressione. È stato del resto proprio Castrucci a difendersi facendo rientrare le sue esternazioni nell’ambito della piena libertà di parola e di espressione che caratterizzano il libero confronto.
Il tema è interessante e merita di essere affrontato fino in fondo, anche per trarre da un caso singolo alcune linee di comportamento generali. Iniziamo facendo chiarezza: la libertà di esprimersi accordata a un professore universitario è molto più solida e strutturata della semplice libertà di parola riconosciuta a tutte e a tutti nelle democrazie liberali: si tratta infatti di libertà accademica. Essa consiste, a dirla brutalmente, nella possibilità di essere pagati e accedere alle fondamentali strutture professionali dell’insegnamento e della ricerca anche per sostenere posizioni ritenute sbagliate, pericolose, potenzialmente catastrofiche se diffuse e messe in pratica nella società. Non è un caso se, nel senso comune così come negli aspetti più noti della legislazione in materia, la libertà accademica quasi si identifica col mantenimento della posizione lavorativa e stipendiale dello studioso. È così di fronte alla sostanziale inamovibilità maturata per i docenti nei Paesi in cui la “corporazione” universitaria è stata più largamente inglobata nell’impiego pubblico, e nell’ambito della tenure riconosciuta in sistemi contrattuali come quello statunitense.
Molto spesso però si dimentica un altro elemento nell’attribuzione di quello che è, a tutti gli effetti, un privilegio professionale strettamente legato alla funzione culturale e sociale di docenti e ricercatori universitari. Ai ruoli a cui viene riconosciuta la libertà accademica si accede dopo che la comunità degli studiosi ha potuto prendere in esame per un congruo periodo di tempo l’attività scientifica dell’aspirante docente, riscontrandovi un adeguato livello di competenza disciplinare e la maturazione di un’adeguata etica professionale. Questo passaggio è esplicito nelle norme che, ad esempio negli Stati Uniti, regolano il tenure track, e in fondo si ritrova alle radici della formazione stessa delle istituzioni universitarie nell’Europa medievale, quando appunto la licentia ubique docendi costituiva un fondamentale accesso alla possibilità di insegnare rilasciata dopo attento esame da parte di alcuni tra i massimi esperti della disciplina.
Una volta chiarito questo quadro generale, quali conclusioni possiamo trarre sul caso Castrucci? In primo luogo, se coi suoi tweet antisemiti e filohitleriani il docente ha esercitato il proprio inalienabile diritto alla libertà di espressione o ne ha abusato violando la legislazione sull’apologia del nazismo e del fascismo e quella (a mio parere, e anche secondo l’opinione della principale associazione culturale italiana di storici contemporaneisti, piuttosto scivolosa e non del tutto condivisibile) sul negazionismo, spetta alla magistratura e non all’università.
Detto questo, occorre chiedersi se le sue prese di posizione sono difese dalla libertà accademica, che quindi lo mette al riparo da provvedimenti sul piano professionale. Ed è questo il punto a mio parere interessante. Se infatti, come abbiamo visto in precedenza, l’attribuzione del privilegio della libertà accademica si regge sulla dimostrazione di aver acquisito e di mantenere competenza disciplinare ed etica professionale, bisogna ammettere che chi esprime pubblicamente le opinioni che ha espresso convintamente Castrucci forse non possiede più, se mai effettivamente è giunto ad averle, né l’una né l’altra.
Da un lato, le idee sul “complotto ebraico”, sulla politica monetaria “sovranista” di Hitler e Mussolini e sulla veridicità dei Protocolli dei Savi di Sion, prima di essere aberranti, sono fondate su dati falsi e ampiamente smentiti, e possono essere credute solo da una persona ignorante della storia, sciatta nell’analisi critica delle sue fonti, priva dei filtri culturali alla propaganda più trita che ci si aspetterebbe da un uomo di cultura, per di più specializzato nella storia delle idee e del pensiero. Dall’altro, è doveroso chiedersi se chi esprime così apertamente il disprezzo per interi gruppi umani ha poi dato seguito alle parole con comportamenti più o meno velatamente discriminatori e ostruzionistici nei confronti di studentesse e studenti, colleghe e colleghi, in un mondo universitario in cui tra molte difficoltà si affacciano minoranze di cui andrebbero tutelate le pari opportunità.
Dunque, alla luce di un comportamento così evidentemente lesivo di qualsiasi codice etico di condotta fondato sulla convinzione che un professionista intellettuale non smette le sue funzioni professionali alla fine dell’orario d’ufficio e che la comunicazione pubblica del personale universitario è parte integrante della “terza missione” di divulgazione e public engagement, avrebbe senso se l’ateneo senese indagasse da vicino sui comportamenti tenuti da Castrucci nelle proprie relazioni di lavoro, ponendosi il problema del perché finora non è emerso nulla dai canali di tutela e di valutazione degli studenti o da rimostranze di colleghi, e se ripercorresse con attenzione le tappe di carriera del docente e le sue valutazioni successive per individuare come e perché nella lettura critica della sua produzione da parte di commissari ed esperti valutatori non siano emersi gli elementi di sciatteria, pressapochismo e vero e proprio errore metodologico che non possono non caratterizzare, almeno da un certo punto in poi, gli scritti di chi sostiene in coscienza posizioni come le sue. Questa indagine retrospettiva, oltre a mettere in discussione il posto di professore ordinario di Castrucci, potrebbe e dovrebbe chiamare in causa i responsabili della sua carriera, e far loro rendere conto di procedure di selezione e conferma chiaramente inadeguate.
In questo modo si otterrebbe il risultato di non fare di Castrucci un autoproclamato “martire” del libero pensiero con una sanzione esclusivamente individuale; si darebbero radici eminentemente professionali alle sanzioni conseguenti ai suoi gesti; si farebbe luce sul sistema di collusioni e di silenzi che ha permesso a una figura così inadeguata di restare in cattedra per anni, chiarendo che le responsabilità non sono soltanto sue.
Più in generale, poi, riflettere sui caratteri fondamentali della professione accademica e sulla necessità di una verifica continua della loro soddisfazione potrebbe far bene al sistema universitario nel suo complesso. Se i meccanismi di valutazione dell’idoneità professionale e della qualità della ricerca e della didattica si concentrassero, piuttosto che su astratti livelli di “eccellenza” spesso concepiti in senso puramente quantitativo, su come individuare più prontamente casi di palese inadeguatezza come questo, si sarebbe fatto un passo avanti per offrire un ambiente universitario più vivibile. Allo stesso modo, se i codici etici delle università venissero concepiti non tanto come manuali di buone maniere per non offendere il potente di turno e non mettere in cattiva luce i propri vertici impegnati nella competizione per i finanziamenti ministeriali, quanto per tracciare un insieme di comportamenti da cui risultino le qualità professionali richieste ai docenti per la loro funzione, le possibilità di produttiva interazione tra alta cultura e società sarebbero decisamente più significative.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
LA COSTITUZIONE (LA LEGGE, IL "NOMOS") E IL PARADOSSO DELLA GIUSTIZIA TRA DIRITTO E PENA .... *
Filosofia.
Da Edipo a Simone Weil: il dilemma della giustizia tra pena e diritto
Dal mondo greco a oggi, passando dalla lettura cristiana della società, lo storico Curi indaga sul dramma filosofico del far coincidere il diritto con la giusta pena
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 15 novembre 2019)
È nota la posizione di Pascal, che possiamo definire pessimista o realista, sulla relazione tra forza e giustizia. In alcuni dei suoi Pensieri, il grande filosofo che volle morire in un ospizio dei poveri sostiene che l’ideale sarebbe che i due poli potessero convivere per il bene dell’uomo. Ma poiché in questo mondo la giustizia non ha possibilità di affermarsi e di utilizzare la forza per questo scopo, è inevitabile che la forza abbia la preponderanza. «La giustizia senza la forza è impotente, la forza senza la giustizia è tirannica», sentenzia il pensatore che inventò la prima macchina calcolatrice, ammettendo alfine con desolazione: «La giustizia è soggetta a discussione, la forza è molto riconosciuta e indiscussa. Così non si è potuto dare la forza alla giustizia perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha affermato che solo lei era giusta. E così, non potendo ottenere che ciò che è giusto sia forte, si è fatto sì che ciò che è forte sia giusto».
Il Seicento era ancora un secolo dell’assolutismo e solo successivamente si è imposta una concezione della giustizia meno disfattista, quella che è arrivata sino a noi con lo Stato di diritto e la moderna democrazia. Eppure anche nel XXI secolo qualcosa non torna quando si parla di colpa, pena, legge, diritto, giustizia. Lo rileva Umberto Curi, professore emerito di Storia della filosofia all’Università di Padova, nel suo ultimo saggio, Il colore dell’inferno, La pena tra vendetta e giustizia (Bollati Borlinghieri) che prende l’avvio da una citazione folgorante di Simone Weil: «A causa dell’assenza di Cristo, la mendicità in senso lato e l’atto penale sono forse le due cose più atroci di questa terra, due cose quasi infernali. Hanno il colore stesso dell’inferno».
Secondo la pensatrice francese che rimase sempre sulla soglia della conversione, nel dare il castigo al colpevole la giustizia si comporta come nel gesto dell’elemosina: presta attenzione allo sventurato «considerandolo un essere umano e non una cosa». Ma non può fare questo se prescinde da un’impostazione religiosa: senza un riferimento a Dio, la prospettiva che si delinea non può che essere infernale.
Si sa che Simone Weil aveva un culto particolare per la civiltà greca, che considerava premessa al cristianesimo, e forse non è un caso che anche Curi nella sua analisi prenda spunto dal mondo della poesia e della tragedia antica, a partire proprio dalla domanda cruciale: che cos’è una pena? Ragionando sull’etimologia, egli chiarisce come il termine poiné (da cui il latino poena, l’italiano e lo spagnolo pena, il francese peine e l’inglese penalty) abbia il significato di "riparare" e "compensare" da una parte, e di "punire" dall’altra. È ciò che viene dato "in compenso" di qualcos’altro e indica la riparazione e il castigo. Non solo, essa riveste un significato sacrale ed è un corrispettivo della colpa commessa solo se provoca sofferenza, in un modo che sia proporzionale fra colpa e pena.
C’è insomma nella logica della pena l’affermarsi di un’espiazione in senso religioso, che sarà via via accentuata dal cristianesimo con il concetto di contrappasso, mirabilmente esemplificato da Dante. Ma cosa succede se una persona viene punita, ma non ha colpa? La vicenda di Edipo in questo senso è paradigmatica: egli paga il fio delle sue azioni senza esserne fino in fondo responsabile. È un eroe tragico che ben raffigura la visione greca dell’uomo e del mondo illustrata da un frammento del giovane Aristotele pervenutoci tramite Giamblico: «Siamo stati costituiti per natura» come se «fossimo tutti destinati a una punizione».
Per i Greci c’è un’infelicità di fondo nella condizione umana che accomuna tutti i mortali e che sarà risolta solo dal cristianesimo che ha reso possibile la redenzione. Come Edipo, anche Oreste si macchia del sangue dei genitori e a differenza del re di Tebe egli è ben consapevole di dare la morte alla madre Clitennestra, ma poiché commette il matricidio per vendicare l’assassinio del padre viene prosciolto al termine del processo che si svolge davanti al tribunale dell’Areopago. In questo senso egli assomiglia più ad Amleto che a Edipo.
Giustamente in un altro passo Curi richiama alla memoria un frammento di Pindaro, considerato il testo fondativo del diritto occidentale: «La legge è re di tutte le cose, mortali e immortali. Essa le guida con la sua mano sovrana e rende giusta la cosa più violenta». Versi che in realtà testimoniano, come avrebbe scritto Pascal, l’irriducibilità totale fra giustizia e diritto. Anzi, l’esistenza stessa del diritto sembra essere prova dell’impossibilità per l’uomo di realizzare la giustizia.
L’incapacità della nostra cultura, giuridica ma non solo, di fare i conti con questi temi fondativi è testimoniata dalla sfasatura evidente fra le risposte insufficienti che vengono date allo statuto della pena e l’attività giurisdizionale, che procede come se tutto fosse già stabilito.
Il modello correzionalista e quello preventivo sono in scacco, in balia di quella che Nietzsche definì l’origine economica e contrattualista della legge e della pena, da ricercarsi nel rapporto fra creditore e debitore e nella promessa della restituzione. Una ricostruzione genealogica che alla fine si basa sul piacere della sofferenza dell’altro, nel momento in cui chi contrae il debito offre come pegno il proprio corpo, la propria donna o la propria libertà e finanche la propria vita.
Un’idea assai materiale e non etica del debito e perciò della colpa e della pena, che certo ha il suo fascino ma che per Curi può essere ribaltata solo da un’altra logica, quella della sovrabbondanza. È la logica del surplus e dell’eccesso contenuta nell’Epistola ai Romani, ove Paolo supera l’economia della corrispondenza proporzionale fra colpa e pena.
Sulla scia di pensatori contemporanei come Jankélévitch, Derrida e Girard, si affaccia la chance del perdono, che talora è stata applicata alla giustizia in anni recenti, come nella Commissione Verità e riconciliazione in Sudafrica o nei processi sul genocidio del Ruanda. In entrambi i casi si è infatti constatato che la sola punizione può alimentare la sete di vendetta. Chance che si ripresenta pure nella formula della cosiddetta "giustizia riparativa", un modello che coinvolge i colpevoli, le vittime e la comunità intera alla ricerca non solo di una riparazione del danno ma di una soluzione ai conflitti e di una riconciliazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA LEZIONE DI NELSON MANDELA: GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE. Tracce per una svolta antropologica ... *
NELLA DIMENSIONE CHE ESIGE ERACLITO
di Federica Montevecchi (su: Alias, 17/07/2010)
Martin Heidegger volle che la sentenza di Eraclito, «il fulmine governa ogni cosa», fosse incisa sull’architrave della porta della sua baita a Todnauberg nella Selva Nera. Le stesse parole, che costituiscono il frammento 64 dell’edizione Diels-Kranz, aprono il celebre colloquio seminariale, su Eraclito appunto, che si svolse nel semestre invernale 1966/67 all’Università di Friburgo fra Martin Heidegger e Eugen Fink. Il testo del seminario fu pubblicato in italiano nel 1992 da Coliseum, nella versione di Mauro Nobile introdotta da Mario Ruggenini, con il titolo Dialogo intorno a Eraclito. A circa venti anni di distanza da questa prima edizione, esaurita da qualche tempo, il colloquio fra Heidegger e Fink è ripresentato - corredato dalle annotazioni di Heidegger - dall’editore Laterza, nella collana «I Libri dell’Ascolto» diretta da Vittorio Tamaro, con il titolo Eraclito (a cura di Adriano Ardovino, pp. 234, € 20,00).
Il seminario, suggerito da Fink, che voleva mettere alla prova la propria interpretazione di Eraclito, fu l’ultima attività didattica di Heidegger e avrebbe dovuto includere, stando al progetto iniziale, anche una lettura dei frammenti di Parmenide. Nei fatti, invece, non fu completata neppure la lettura dei frammenti di Eraclito, tanto che Fink, nel 1970, presentando l’edizione del seminario, affermerà che il testo dato alle stampe è «un torso, un frammento su frammenti».
Le tredici sessioni in cui si articolò la discussione, alla quale parteciparono tredici persone fra studenti e invitati, vennero trascritte volta per volta, senza l’ausilio di alcun registratore, letteralmente e integralmente.
Il risultato non è tanto un confronto fra due diversi interpreti, ma, dice Heidegger, un ‘parlare con Eraclito’ e, attraverso di lui, con un’intera tradizione che, già dall’antichità, non si è sottratta alla provocazione rappresentata dai Greci. Esempi degli interrogativi di fondo dell’esistenza e dell’enigma riguardante la nascita della ragione, i pensatori greci più antichi - Presocratici o sapienti, a seconda che si voglia adottare le espressioni rispettivamente di Hermann Diels o di Giorgio Colli - sono specchi: quanto più ci avviciniamo a loro tanto più vediamo il nostro riflesso. A seconda della ‘storia razionale’ nella quale li integriamo - e questo accade già a partire da Aristotele - essi assumeranno significati molteplici, restando comunque sempre altro da ciò che di loro possiamo dire: essi costituiscono il momento inaugurale del pensiero della civiltà occidentale, nel quale la ‘verità’ della nostra origine diventa inscindibile dall’origine della nostra ‘verità’, l’ambito del conoscere non facilmente distinguibile dalla sfera del riconoscere, cioè della proiezione retrospettiva.
Tutto ciò vale particolarmente per Eraclito le cui parole, stando a Diogene Laerzio, avrebbero fatto dire a Socrate che ci sarebbe voluto un tuffatore delio per poterle riportare alla luce dalle oscure profondità. E su queste parole si sono cimentati, nei secoli, in molti: basti pensare, fra gli altri, a Platone - che nel Sofista annovera Eraclito fra quelle Muse ioniche capaci di mostrare la connessione fra l’uno e i molti -, a Hegel - che nelle Lezioni sulla storia della filosofia afferma: «non c’è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica» -, a Hölderlin - che, attraverso Eraclito, legge l’inscindibilità di unione e separazione -, e ancora, a Nietzsche - che nei frammenti eraclitei vede l’espressione della visione tragica del mondo, del conflitto sotteso a ogni creazione e allo stesso logos.
Va da sé che pure Heidegger e Fink, in sintonia con la tradizione filosofica tedesca, che affronta il pensiero più antico proiettando nella Grecia anzitutto se stessa, la propria specificità filosofica, accolgono la sfida di Eraclito ben prima di questo seminario. L’eco eraclitea, infatti, è costante nell’opera di entrambi e si mostra, ad esempio, nell’idea heideggeriana dell’intermittenza di qualcosa che apparendo come mondo al tempo stesso si nasconde come senso. Se in questa idea è implicita la nota sentenza eraclitea «la natura ama nascondersi», nella metafora di Fink del gioco che gioca con l’uomo e il mondo, ossia con coloro che lo stanno giocando, sono evidentemente sottintese le parole di Eraclito «il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo».
Queste rispettive posizioni filosofiche si riflettono naturalmente nel seminario, dove Heidegger e Fink, tuttavia, cercano di assumere ruoli ben definiti. È lo stesso Fink a caratterizzare il ruolo di Heidegger nei termini di una ‘direzione spirituale’, che si declina in interventi brevi, chiarificatori, interrogativi, ma anche ammonitori rispetto a tutto ciò che potrebbe limitare la possibilità di giungere «nella dimensione che esige Eraclito», come ad esempio approcci di tipo esclusivamente filologico e storiografico, oppure l’uso di termini ritenuti troppo risonanti, quali diradamento e tempo, se non ormai inadeguati, come il temine essere. Fink, invece, assume il compito di presentare una provvisoria interpretazione dei frammenti eraclitei che garantisca una base di discussione e possa essere idonea a collocare i partecipanti al seminario «entro una certa comunione nel linguaggio interrogante». E tuttavia il tentativo di recuperare Eraclito è destinato a fare i conti con una distanza storica e ontologica abissale, come mostrano le frequenti domande di Heidegger - destinate a contenere, nei partecipanti, le cristallizzazioni concettuali, che sono da ricondursi, come viene ricordato, alla filosofia successiva di Aristotele -, oppure l’affermazione che nel seminario si sta presentando un’interpretazione non più metafisica di testi non ancora metafisici: fra il ‘non più’ e il ‘non ancora’ è tuttavia possibile sentire l’eco dell’esperienza di pensiero di Eraclito, che obbliga continuamente a riflettere sui criteri attraverso i quali si è articolato il pensiero occidentale, quindi a considerare la possibilità di pensare in altro modo.
L’andamento del seminario è scandito soprattutto dal tema dell’unità fra opposti, che ricorre in tutti i frammenti eraclitei e rimanda al problema fondamentale dell’appartenenza (Verhältnis) di uno e molti-tutto, en e panta. I numerosi esempi di fenomeni descritti da Eraclito - come pace e guerra, fame e sazietà, giovani e vecchi, mortali e immortali - mostrano a un tempo l’opposizione fra diversi e la loro unità, e cioè il fatto che lo stesso sia anche altro, i molti-tutto siano anche uno: «la difficoltà - dice Heidegger - consiste nello scorgere in che modo lo en mostri all’improvviso un altro carattere», nel capire come Eraclito possa vedere, nell’esperienza comune a tutti basata sull’opposizione e sulla distinzione, sempre l’uno e un unico logos.
Detto altrimenti, la convivenza degli opposti, che caratterizza l’universo greco più antico già a partire dalle prime cosmologie fino ad arrivare all’opposizione delle proposizioni nell’argomentazione dialettica, rilancia costantemente l’enigma della polarità o, stando al seminario, l’enigma di come il determinato sia ad un tempo «l’unità che riunisce».
La risposta di Heidegger e Fink si concentra sul legame fra l’uno e i molti-tutto, legame che viene inteso appunto come Verhältnis, giustamente tradotto con appartenenza, intendendo con tale termine non una relazione di possesso fra due oggetti né un rapporto di reciprocità, ma il trattenersi dell’uno e dei molti-tutto nella «stabilità dell’apertura», la «tenuta (Verhalt) dell’essere e del mondo». È la stessa cosa infatti che, nella separazione da se stessa, si tiene unita e si custodisce perché - viene precisato nella sessione undicesima - appartenere e tenere «significano in primo luogo il custodire, tenere in serbo e accordare nel senso più ampio»: questo è del resto il logos nel suo significato proprio di raccolta e di presenza di ciò che è stato raccolto. E evidente che tutto ciò permette di aprire lo spazio a un pensare che contrasti la concezione ingenua secondo la quale l’uno viene pensato come un contenitore in cui sono racchiusi i molti-tutto e soprattutto l’idea, che diventerà una delle matrici del pensiero occidentale, secondo la quale il molteplice è un dispiegarsi e un decadere del semplice.
Nell’ultima sessione del seminario Heidegger chiede a Fink qual era il senso dell’affermazione con cui aveva aperto il loro colloquio comune con Eraclito, e cioè che i Greci «significano per noi un’immane provocazione». Fink risponde che si tratta della provocazione «a capovolgere, una buona volta, l’orientamento del nostro pensiero», a disfarsi di tutto l’apparato concettuale costruito sul bisogno, che Hegel ha incarnato in maniera paradigmatica, del pacificante appagamento di ciò che è pensato e conciliato per tornare a pensare, vale a dire a sentire, secondo Heidegger, «l’assillo dell’impensato nel pensato» e, come esorta Periandro di Corinto, ad avere cura del tutto in quanto tutto.
* SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE?!: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
IL "POLEMOS" DI ERACLITO, "LA SANTA VIOLENZA" DEL CARDINALE RAVASI, E IL "PADRE NOSTRO" ("CHARITAS") DEL MESSAGGIO EVANGELICO....*
Il nuovo libro di Ravasi.
Quando il sacro fa i conti con la violenza
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, sembra essere il basso continuo della storia umana: la Bibbia non ignora questa realtà, fino al radicale rovesciamento operato da Cristo
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, giovedì 17 ottobre 2019)
Sembra una ripresa cinematografica; è, invece, la descrizione di un poeta ebreo, il profeta Nahum, che nel 612 a.C. sta “sceneggiando” quasi in presa diretta la caduta di Ninive, la detestata capitale della superpotenza orientale, l’Assiria, sotto l’irruzione congiunta di Ciassare, re dei Medi, e di Nabopolassar, re della dinastia neobabilonese. Ecco la scena affidata a una sequenza impressionistica di azioni militari, costruita sulla secchezza di un elenco: «Sibilo di frusta, fracasso di ruote, scalpitìo di cavalli, cigolìo di carri, cavalieri incalzanti, lampeggiare di spade, scintillare di lance, feriti in quantità, cumuli di morti, cadaveri senza fine, s’inciampa nei cadaveri». Le pagine dell’Antico Testamento sono spesso striate dal sangue delle battaglie e si affacciano su rovine e devastazioni causate da eventi bellici. Una lingua lessicalmente povera come l’ebraico classico (5.750 vocaboli in tutto) si mostra sorprendentemente ricca quando deve designare la violenza
Tanto per esemplificare, ecco la radice hms «fare violenza» (donde hamas «violenza»), o šddhrm «sterminare » (donde herem, la strage sacra), hrg «uccidere», rsh «assassinare», ‘nh «violentare, opprimere», hrs «distruggere », lhm «combattere » (donde milhamah «guerra»), nqm «vendicare», mhs «abbattere, fracassare», šht «mandare in rovina» e altri ancora.
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, che per altro sembrano essere il basso continuo della storia umana, come pessimisticamente dichiarava Eraclito nel suo frammento 53: «La guerra (pólemos) è madre di tutte le cose e di tutte la regina (basiléus). Gli uni rende dèi, gli altri uomini; gli uni fa schiavi, gli altri liberi».
Anche il Nuovo Testamento, che pure inalbera il vessillo dell’amore ed eredita l’aspirazione messianica biblica allo shalôm «pace», non ignora questa realtà aspra che costella le strade della vita dei popoli.
Lo stesso Gesù, ad esempio, ricorrerà a un modello di strategia militare applicandolo all’esistenza cristiana da vivere con intelligenza e sapienza: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per chiedere pace».
La scelta radicale per il Regno di Dio, vero Leitmotiv della predicazione di Cristo, sarà da lui espressa con una dichiarazione paradossale, anche se evidentemente metaforica per indicare la natura “esplosiva” del suo messaggio: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» [...].
È indubbio che, sia a livello biblico sia nella storia della cristianità, questo intreccio tra guerra e religione è paradossalmente forte. Per stare alla Bibbia, basti solo pensare alle stragi sante - il cosiddetto herem o «sterminio sacro» - che accompagnano la conquista della Terra pro- messa da parte del popolo ebraico, oppure alle centinaia di testi violenti presenti nelle Scritture e alla stessa simbologia bellica usata per rappresentare il «Dio degli eserciti» (che, però, era originariamente un rimando all’armata astrale del Creatore, anche se poi applicata alle battaglie di Israele col palladio dell’Arca santa) [...]. Ci sono alcuni elementi di natura ermeneutica che dovremo costantemente ribadire [...]. Innanzitutto è da sottolineare la qualità storica della Rivelazione ebraico-cristiana, che nella Bibbia si presenta non come un’astratta serie di tesi teologiche speculative ma appunto come una concreta «storia di salvezza». All’interno degli eventi umani, spesso segnati dal peccato, dall’ingiustizia, dalla violenza, dal male, passa la presenza e l’opera di Dio che progressivamente e pazientemente cerca di condurre l’umanità verso un livello più puro, giusto e pacifico di vita. Il vertice è proprio - tenendo conto dell’unità «canonica » (cioè nell’unico Canone cristiano) dei due Testamenti - nella proclamazione: «Beati gli operatori di pace», formulata secondo lo spirito della citata «pace» messianica anticotestamentaria. La stessa tradizione giudaica successiva con rabbì Meir di Gher dichiarerà che «Dio non ha creato nulla di più bello della pace» [...].
Gesù, poi, nella sua proposta procederà fino alla scelta radicale dell’amore per il nemico così da trasformare quasi l’hostis in hospes e da introdurre il principio della non-violenza: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano».
L’apostolo Paolo, in un passo della Lettera agli Efesini, ove elenca una completa attrezzatura militare (cinturone, corazza, calzature, scudo, frecce, elmo, spada), la trasfigura in una simbologia spirituale: «Attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace; afferrando lo scudo della fede col quale si possono spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno, prendendo l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio». Introduce, dunque, nel cuore dell’apparato militare, evocato già in chiave metaforica, il «vangelo della pace» come meta da raggiungere. Egli parla per due volte della panoplía, cioè dell’«armatura » di Dio che non è aggressiva contro gli altri ma solo contro il male diabolico: «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo [...]. Prendete l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Antropologia.
La modernità? Per Dumont è il primato della proprietà sull’uomo
Esce l’integrale di “Homo aequalis” di Louis Dumont, esame del passaggio dalle società tradizionali, regolate dal rapporto tra gli uomini, a quelle moderne dove vince quello tra uomini e cose
di Simone Paliaga (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Nella maggior parte delle società e in primo luogo nelle civiltà superiori o, come dirò più spesso, nelle società tradizionali, i rapporti fra gli uomini sono più importanti e hanno un valore più alto dei rapporti fra gli uomini e le cose. Questo primato è capovolto nel tipo moderno di società, dove invece i rapporti fra gli uomini sono subordinati a quelli fra gli uomini e le cose». E queste sono le società che «valorizzano innanzitutto l’essere umano individuale» afferma Louis Dumont in quell’immane tentativo di ricostruzione della genealogia delle idee e valori sottesi alle società moderne.
Gli esiti della sua ricerca trovano la definitiva (anche se purtroppo non conclusa) formulazione in Homo aequalis. I Genesi e trionfo dell’ideologia economica - II L’ideologia tedesca (pagine 642, euro 36,00), che raccoglie sia la prima tappa di questo percorso di studi, già tradotta trent’anni fa, sia la seconda, per la prima volta pubblicata in italiano, entrambi nei prossimi giorni in libreria per Adelphi in un unico volume.
A Louis Dumont (1911-1998) non spetta certo l’alloro dei maître à penser con cui si sono agghindati tanti intellettuali del Novecento. Eppure, mentre la perspicuità di questi s’è estinta nel volgere degli eventi che speravano di orientare, il lavoro di Dumont è una bussola ancora oggi indispensabile per comprendere dove vanno le società occidentali.
Nato a Salonicco, Dumont, durante gli studi universitari, ha modo di frequentare non solo le lezioni di etnografia tenute da Marcel Mauss al Collège de France ma anche gli incontri al Collège de sociologie du sacré incrociando figure come Michel Leiris e Roger Caillois. Poi arriva la Seconda guerra mondiale e il campo di prigionia tedesco nei pressi di Amburgo dove però studia il tedesco e il sanscrito. Alla fine del conflitto, deluso dalle esperienze politiche novecentesche, riprende i suoi studi a Parigi.
Nella seconda metà degli anni Quaranta comincia a lavorare al Musée de l’Homme dedicandosi inizialmente alle tradizioni popolari francesi come la Tarasque e aiutando Claude Lévi-Strauss a trascrivere a macchina la bozza delle Strutture elementari della parentela.
La svolta però avviene a partire dal 1949 quando mette a frutto la conoscenza del sanscrito e cominciano i suoi frequenti soggiorni in India per occuparsi del sistema delle caste. Il frutto sarà nel 1955 l’imponente Homo hierarchicus, la prima tappa di quell’immane tentativo di comparazione tra le società tradizionali improntate all’olismo e le società moderne, le sole nel corso della storia a provare a organizzarsi intorno ai valori individualisti. Da qui nasce Homo aequalis, il tentativo di «chiarire il nostro tipo moderno di società, la società egualitaria, partendo dalla società gerarchica».
«La maggior parte delle società valorizza - sostiene Dumont - innanzitutto l’ordine, e dunque la conformità di ogni elemento al suo ruolo nell’insieme, in breve, alla società come un tutto unico; io chiamo questo orientamento generale dei valori olismo». Eppure a partire dal XVIII secolo prende piede un tipo diverso di società che «valorizza innanzitutto l’essere umano individuale: ai nostri occhi ogni uomo è un’incarnazione dell’intera umanità e come tale è eguale a ogni altro uomo, e libero. Questo è ciò che io chiamo individualismo».
Nelle società tradizionali i bisogni dell’uomo sarebbero subordinati al tutto mentre nelle società moderne i bisogni della società si trovano sottomessi alle esigenze dell’individuo. «Nella maggior parte delle società - abbiamo già visto come annoti Dumont - in primo luogo nelle civiltà superiori o, come dirò più spesso, nelle società tradizionali, i rapporti fra gli uomini sono più importanti e hanno un valore più alto dei rapporti fra gli uomini e le cose». Nel Settecento però la situazione si capovolge e si arriva al primato della proprietà sulla relazione con gli altri uomini.
Nella lunga carrellata che da Quesnay e i fisiocrati passa per Adam Smith e John Locke e arriva fino a Marx, l’antropologo francese fa emergere i passaggi intellettuali che consentono la nascita del moderno tipo di società, dove il rapporto con la proprietà prevale sul rapporto con gli altri uomini. Eppure l’ideologia moderna, pur essendo il sostrato culturale diffuso nei paesi europei, si declina in modo diverso a seconda della realtà dove attecchisce.
Ovunque l’individualismo non viene assorbito allo stato puro. Subisce un processo di acculturazione generando un ibrido particolare. In particolare nella ideologia tedesca Dumont riscontra questa ibridazione attraverso «la forte predominanza dell’olismo, la decisiva influenza formatrice della riforma luterana e la sopravvivenza sino ai giorni nostri dell’idea di sovranità universale».
Per quanto presente in tutti i fenomeni culturali tedeschi la contaminazione tra olismo e individualismo diventa dirompente nel 1933 quando «emersero un partito e un capo singolari, i quali avevano trovato una via d’uscita alla crisi, che consisteva nel fondare la rivendicazione al dominio non più sullo Stato, bensì sulla razza, subordinando lo Stato al principio razzista e correlativamente ogni legittimità alla pura forza».
Se il totalitarismo è visto da Dumont come una «malattia moderna» nata da una contaminazione deforme di individualismo e olismo, sarebbe interessante oggi capire come continuerebbe la sua diagnosi e come leggerebbe il frangente di storia che attraversiamo in cui «la diffusa confusione tra diritto e fatto, tra moralità e diritto istituzionalizzato, tra giustizia e tirannia, tra pubblico e privato equivale a un ritorno alla barbarie».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
Becker a Heidegger, distrutti gli assunti della coscienza
Lettere inedite. A metà degli anni Venti, molto precocemente interessato alla psicoanalisi, Oskar Becker non solo riconosce il genio di Freud, ma indica a Heidegger la necessità di applicare le dinamiche psichiche alla «psicogenesi» di ogni filosofare
di Oskar Becker e Romano Mádera (il manifesto, "Alias", 04.08.2019) *
Al momento sono immerso negli scritti freudiani. Ne sono ancora profondamente colpito. È stupefacente vedere come ogni volta Freud riesca a dire cose nuove per mezzo di concetti apparentemente già molto sfruttati, che provengono dal milieu medico-scientifico degli anni Novanta del secolo scorso o, perlomeno, come riesca a elevare al rango della conoscenza scientifica certi aperçus psicologici tipo quelli che si trovano in Schopenhauer e Nietzsche o anche in altri «psicognostici» più antichi.
Lo sfondo filosofico, il sistema delle sue «anticipazioni concettuali» dipende fortemente da Schopenhauer, benché Freud non sembri esserne consapevole (...) nel bene e nel male. Nel «bene» l’emergere del momento emozionale, della tendenza e del motivo, il pensiero di una dinamica psichica (qui non scevro di pensieri fuorvianti sul modello di quelli delle scienze della natura, soprattutto, quello della libido come «energia psichica», concepita in modo del tutto simile a quello della fisica) - l’idea che la conoscenza non è il motivo primario della vita, e così via. «Nel male» negli ultimi scritti di Freud (in particolare in Al di là del principio di piacere) il ruolo giocato da concezioni biologico-fisiologiche.
Anche Freud non è del tutto sfuggito alla tentazione tipica della vecchiaia di costruire alla fine un sistema. Qui c’è qualche analogia con la concezione schopenhaueriana della conoscenza come funzione del cervello, con la sua teoria del «genio della specie». Ma oltre a questo, Schopenhauer (e ancora più direttamente Nietzsche) è , in molti temi particolari, un precursore della psicoanalisi: nelle sue osservazioni sul sogno, sulla follia, sull’associazione di idee («l’intuizione»), la teoria del ridicolo, la metafisica dell’amore sessuale.
Ma c’è anche una certa parentela con la psicologia descrittiva e delle distinzioni di Dilthey (...)A me interessano, oltre al problema al quale ho accennato, due ulteriori questioni da porre alla psicoanalisi: le premesse delle scienze della natura sono per Freud il fondamento che sostiene il suo pensiero e nel quale, per così dire, egli finisce per trovare la soluzione di tutto. Infatti, la sua teoria delle pulsioni si dimostra, sottoposto a critica, dogmaticamente vincolata alla determinazione di processi e scopi molto specifici delle pulsioni stesse (tra l’altro proprio come accade in Schopenhauer e in Nietzsche, fatte salve le differenze che caratterizzano la fisiologia e la biologia delle diverse epoche nelle quali hanno vissuto).Se dunque le cose stanno così, se alla teoria freudiana (la psicoanalisi non è una teoria in senso proprio, piuttosto una tecnica medica, un fenomeno fattuale sui generis) viene meno il terreno su cui poggia - cosa ne prende dunque il posto? (..)
Siamo a un passo dal cercare un surrogato nella relazione con il mito, via già intrapresa da Jung. Al posto di un dogma se ne mette un altro, ancora più difficilmente comprensibile, e in questo modo si sacrifica molto della psicoanalisi.
Se essa mostra come la vita psichica cosciente è «determinata» (o forse meglio «motivata») dall’inconscio, non si potrebbe dire lo stesso per la genesi fattuale di una filosofia? Non ci possiamo più permettere oggi di distinguere in modo sommario «psicogenesi» e fondazione «logica o trascendentale», o «dialettica».Il filosofare non pertiene soltanto a una determinata situazione della storia dello spirito , ma a «ognuno» con tutte le sue particolari preferenze e avversioni, i suoi punti ciechi e gli spostamenti e le altre attitudini della cui profondità normalmente non è consapevole. Non dovrebbe appartenere, questa specie di auto-psicoanalisi, ai requisiti necessari al filosofare «critico», proprio come distruzione di ciò che appare come un mero dato della storia della spirito?
La lettera di Becker è datata 1923, dunque tre anni dopo l’uscita di quell’opera capitale di Freud che è Al di là del principio di piacere, e quattro anni prima della pubblicazione di Essere e tempo di Heidegger, con il quale Becker, che frequenta i suoi primi corsi a Friburgo, insieme a Löwith e ad altri, ha scambi intellettuali così intensi da lasciarne indovinare le influenze. Nel frattempo, legge e rilegge Freud. A quel tempo assistente di Husserl, Heidegger cerca di dare un impronta più decisamente esistenziale alla sua ricerca: filosofia e vita sono un tutt’uno, la filosofia è una scelta di vita e questa va compresa nella sua concretezza, nella sua storicità fattuale.
Nella prima parte della lettera Becker traccia una sorta di genealogia filosofica della psicoanalisi - da Schopenhauer a Nietzsche con un accenno a Dilthey: se oggi è scontato che un professore di filosofia si interessi anche di psicoanalisi, nel 1923, la critica alle pretese di Freud, che voleva far rientrare le sue scoperte nella «concezione scientifica del mondo», sono tutt’altro che ovvie.
Per Becker, manca alla psicoanalisi la struttura logico-formale capace di reggere un nuovo orientamento conoscitivo. Tuttavia, egli riconosce come il pensiero di Freud porti a scoprire quanto la nostra vita cosciente sia influenzata dall’inconscio e - qui sta la sorpresa e il pungolo per Heidegger, destinatario delle sue riflessioni - sostiene che si dovrebbero riprendere queste dinamiche psichiche anche per la «psicogenesi» di ogni filosofare, per la determinazione «biografica» di ogni attività di pensiero, approfondendo i condizionamenti della storia della cultura fino ad arrivare all’individualità che pensa.
Di questa «fatticità» che è la vita concreta del filosofo e dei suoi moti psichici profondi, non ci si può liberare rifugiandosi frettolosamente nei fondamenti logici, trascendentali o dialettici. Anzi, Becker ipotizza che una sorta di psicoanalisi filosofica possa aiutare a distruggere le assunzioni date per scontate dalla sola coscienza circa la «storia dello spirito».
Molti anni dopo, nei testi su Nietzsche del 1961, Heidegger dichiarerà il suo categorico disprezzo per la «fatticità» biografica in filosofia: e lo farà proprio parlando di Nietzsche, che potrebbe passare per antesignano di una filosofia della biografia e dell’autobiografia. Scrive Heidegger: «la condizione preliminare sta nel prescindere dall’ “uomo”, nel fare astrazione dall’ “opera” nella misura in cui essa viene vista come espressione dell’umanità, cioè alla luce dell’uomo... Né la persona di Nietzsche né la sua opera ci interessano fintanto che facciamo di entrambe, nella loro coappartenenza, l’oggetto di un resoconto storiografico e psicologico».
Dunque, rispetto a quel che la lettera pubblicata in questa pagina sembrerebbe prefigurare, Heidegger avrebbe preso, poi, una direzione esattamente opposta.
Quanto a Becker, egli avrebbe cercato di applicare suggestioni heideggeriane nei suoi lavori «esistenziali», abbandonando però l’ermeneutica per una sorta di «mantica», di divinazione fenomenologica, che porterebbe a intuire, nelle esistenze individuali, così come in estetica, la presenza di forme ideali. In questa direzione così brutalmente antistorica e antibiografica, si potrebbe comunque cogliere un contro-movimento alla «filosofia critica» che da Fuerbach, a Marx, a Stirner, a Nietzsche (e anche alla psicoanalisi), sebbene in forme molto diverse, cercava di trovare il terreno ideale sul quale far poggiare le astrazioni del pensiero, alla ricerca di pratiche, collettive e individuali, capaci di provarne la consistenza.
In questa prospettiva, Heidegger incarna l’acme di una gigantesca «regressione»: di una «reazione» che, dietro la nebulosa del suo linguaggio gonfio di enfasi destinali, lascia trasparire la cancellazione dei conflitti storicamente determinati, interni alla società e ai singoli individui.
* Fonte: https://ilmanifesto.it/becker-a-heidegger-distrutti-gli-assunti-della-coscienza/
Etica. Pubblicato il ciclo di conferenze tenute a Friburgo dal 1920 al 1924
di Ermanno Bencivenga (Il Sole-24 Ore, 11.08.2019)
Triste è il destino dei grandi filosofi. Per capirli sarebbe necessaria una mente alla loro altezza, rara come una mosca bianca; di solito, rimangono ostaggio degli «studiosi» che in ogni occasione citano libro e versetto ma sul senso di quelle sacre scritture ne sanno quanto i sei ciechi della parabola su come è fatto un elefante. Ogni tanto compare all’orizzonte un altro grande filosofo, e capita pure, magari, che voglia dire la sua sul collega; ma le grandi menti hanno poco tempo per i dettagli altrui, impegnate come sono ad articolare i propri. E poi sono ambiziose: se parlano di un collega, è per usarlo come trampolino di lancio per i loro voli, come ombra sullo sfondo della quale far risplendere i loro bagliori.
L’Introduzione all’etica comprende un ciclo di lezioni tenute da Edmund Husserl nel 1920 e ancora nel 1924, a Friburgo, davanti a un pubblico d’eccezione che comprendeva Norbert Elias, Karl Löwith, Herbert Marcuse e Hans Jonas. Tratta il suo argomento storicamente, il che è insolito in Husserl, seguendo un percorso cronologico che va dai sofisti a Kant. Ci sono scelte idiosincratiche: Aristotele viene appena menzionato ma si presta attenzione ad Aristippo; nella modernità la Gran Bretagna è meglio rappresentata (con Hobbes, Locke, Hume e Mill) del continente europeo.
Ma il confronto più teso e sostenuto è con il personaggio culmine della vicenda: il saggio di Königsberg, al quale Husserl dedica in chiusura una quarantina di pagine ma la cui figura incombe su tutto il testo. Viene introdotto con rispetto: due interi paragrafi sono dedicati a un sommario di alcune parti della Critica della ragion pratica. E gli viene riconosciuto il grande merito di aver combattuto l’edonismo (definito «la negazione dell’etica»). Ma tali concessioni servono solo a indorare l’amara pillola: precedute da un minaccioso «Passiamo ora alla critica», gli vengono riversate contro le accuse più severe, senza appello. I suoi sono «meri concetti, significati morti, estranei agli atti della vita originariamente conferente senso»; le sue dottrine sono assurde, incomprensibili, fallimentari e perfino impensabili.
Qual è l’oggetto del contendere? Ce ne sono vari, ma accomunati da una cruciale differenza di tono. Kant ci consegna un mondo indeterminato e pericolante, in cui gli oggetti sono fragili aggregazioni di dati, tenuti insieme da misteriosi atti sintetici e pronti a disfarsi quando meno dovrebbero, o a esplodere in antinomie se facciamo troppe domande. In ambito etico, dichiara che è la ragione a dare ordini, ma la lettura dei nostri comportamenti alla luce delle sue ingiunzioni formali sarà sempre aperta al dubbio: potremo solo sperare di aver fatto la cosa giusta, la nostra perfezione morale va perseguita «con timore e tremore».
Husserl, invece, è pieno di certezze: basta che mi concentri sul contenuto della mia coscienza e «posso cogliere verità generali in una certezza assoluta, posso vederle in atti di una perfetta comprensione evidente». «Come sempre, solo l’indagine fenomenologica può fare chiarezza su tali questioni.»
Perché dunque porsi tanti problemi con le entità instabili, fenomeniche che popolano la nostra quotidianità? Non ci sono forse oggetti ideali, per esempio matematici, che possiamo cogliere con perfetta evidenza? E non è il bene un oggetto di questo tipo? Kant esitava a riconoscere uno statuto cognitivo indipendente alla matematica, e non aveva tutti i torti: qualche anno dopo queste lezioni di Husserl, il teorema di Gödel avrebbe dimostrato che delle teorie matematiche non siamo in grado di conoscere non dico la verità, ma neanche la coerenza.
Kant attribuisce il giudizio morale alla ragione, e per Husserl è «impensabile un volere che non abbia basi motivazionali» sensibili. Kant però lo sapeva, e infatti dice: «La legge morale contiene senza dubbio delle prescrizioni, ma non dei moventi; essa manca di quella forza esecutiva, che costituisce il sentimento morale». Basterebbe leggerlo. Che io sappia che cosa dovrei fare non implica che lo farò; posso solo sperare, dicevo, che l’educazione che ho ricevuto, la società che mi circonda e i sentimenti che entrambe mi hanno ispirato siano efficaci al proposito.
La bella sicurezza ostentata da Husserl ha fatto il suo tempo; oggi a darle credito sono rimasti pochi fedeli (e, si capisce, gli «studiosi»). Rimane il rimpianto per l’incomprensione e l’arroganza testimoniate in queste pagine e ingiustificate sulla base del reale rapporto tra i due filosofi. Lasciando al loro destino le sciocchezze di verità ideali percepite con assoluta evidenza, la fenomenologia ha fatto molto per sviluppare l’idealismo trascendentale, che Kant aveva iniziato e abbozzato ma non aveva completato. La faticosa costruzione dell’impianto «copernicano» continua in Husserl e nella sua scuola, con le incertezze e i dubbi che naturalmente le si accompagnano, ed è opera di innegabile valore. Se solo le grandi menti la smettessero di darsi addosso e imparassero a lavorare insieme!
LA COMUNE DI PARIGI, IL DESIDERIO DI RIVOLUZIONE, E IL “LADRO DI FUOCO”. Cento anni dopo (!971), una “risposta” alla “Lettera del Veggente” di Arthur Rimbaud *
mi dispiace ma l’offerta di un’ora di letteratura nuova non mi interessa. Sarò esecrabile ma Io non posso risponderti. Se lo facessi mi malediresti per tutta la vita... Ti ‘salverei’ ma tradirei me stesso e te pure. Non ti spedirò queste mie considerazioni-risposte. Le ragioni stanno soprattutto in chi fa l’offerta.
Io non ho bisogno di veggenti-preti, né voglio essere un poeta-prete. Non ho dato incarichi a nessuno.
Potrei pure considerare la Lettera un prodotto-merce e venderla bene, ma Io cosa ne otterrei, altre ore di letteratura, un po’ di soldi per te... e lo snaturamento del discorso stesso. I vecchi imbecilli continuerebbero a trovare dell’Io il significato falso, e tanti egoisti a proclamarsi autori. No, non ti risponderò!
Non mi importa dei tuoi ragionati esercizi di s-regolamento. L’ignoto è ignoto, non si vende né si compra. Sì, la proprietà è un furto! E il poeta-veggente è un ladro! Viva la lotta rivoluzionaria! Viva viva la Comune!
Per i nostri tempi non serve più il ladro di fuoco. Lo sai. Perché continui con vecchie teorie? “Il poeta è un ladro di fuoco” ... ma non è il fuoco, non produce fuoco. E noi oggi abbiamo bisogno di fuoco o, almeno, di scintille che diano fuoco alla pianura... Né di ladri, né di sognatori. La Comune insegna come si fa l’assalto al cielo. Fare come Prometeo rende schiavi e colpevoli, non libera.
Tu proponi una vecchia pratica, ricadi nella trappola dell’autore-egoista, anche se cambi il segno al movimento: l’Io è un altro! Chi parla non è qui, chi è qui non parla. Il linguaggio è votato allo scacco, tu all’impotenza. Il resto è sempre là fuori altrove inattingibile, laggiù-lassù. La muda del serpente: una pelle vuota e senza vita.
Lo so, lo so, caro Arthur, quanto bruci, ma la tua-mia lettera - dobbiamo rendercene conto - agli altri non fa né caldo né freddo. Perché? Perché a bruciare bruci da solo e poi mandi la cenere agli altri. Tutt’al più si possono riscaldare, ma come possono accender-si? Come vuoi che ti rispondano? È chiaro che essi - anche se saranno esecrabili - non ti daranno (come non ti darò Io) risposta.
È inutile che fai il disperato presuntuoso buffone: “Davanti a molti uomini, parlai a voce alta con un istante di una delle loro altre vite. - Fu così che amai un porco” (“Alchimia del Verbo”). La tua pretesa universalizzante di essere anima del mondo danna e pretifica. Il silenzio degli uomini è la severa condanna: l’aquila rode il fegato a Prometeo...
Per bruciare bisogna bruciare insieme. Per nascere bisogna nascere insieme. E per avere risposte bisogna porre domande... Ma, ma... ora capisco! Tu mi chiedi di risponderti! Tu poni domande! E io che non capivo... io che vedevo solo risposte. Sì, sì, ho capito! E’ possibile “trovare una lingua”: è possibile bruciare-nascere insieme!
Legato al mio-tuo piccolo-io, non vedevo il tuo-mio Io, di tutti e di nessuno: il Logos, il Verbo - il cerchio e la linea di Langue e Parole (Saussure)! Non ponevo a me stesso la domanda “dove sono Io?” e non riuscivo a venir “fuori testo”! In quel “Je est un autre” non ho visto esser-ci insieme la trappola-soluzione. Quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito. Nel capire che dinanzi a un altro occorreva porsi la domanda dov’ero, dove sono Io, ho trovato l’uscita e la soglia, la soluzione e la liberazione. Sono divenuto veggente-veggente, ho visto dov’ero, dove sono Je, tutt’intero. Scusami, non avevo capito, non mi conoscevo! Ti risponderò...
*
Federico La Sala (Salerno, 1971).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
(...) Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici (...)
La poesia ha forse un occhio di troppo
di Adriano Ercolani (Nazione Indiana, 28 Giugno 2019)
A chiunque sia nato dopo il 15 maggio 1871 l’accostamento dei concetti “poesia” e “veggenza” non può non evocare la celebre lettera scritta in quel fatidico giorno dal sedicenne Arthur Rimbaud all’amico Paul Demeny; per l’appunto, la celeberrima “Lettera del Veggente” in cui la mente incendiaria del giovane poeta, destinato a divenire icona universale del maudit, sancisce un comandamento inciso nelle coscienze di molti autori a venire: “«Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, - e il sommo Sapiente! - Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all’ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste!».
Eppure c’è molto altro da dire a riguardo, prima e dopo delle memorabili parole del poeta ribelle per antonomasia.
Stefano Riccesi, nel suo Veggenza - le radici spirituali della creatività (Edizioni Porto Seguro) lo fa, e lo fa molto bene, cercando, trovando e offrendoci in tutto il suo splendore il Filo d’Oro di una conoscenza occulta, che va da l’Orfismo a Yeats, da Giamblico a Jung, da Pitagora a Hillman, attraverso giganti della spiritualità come Rumi e William Blake, messaggeri illuminati come Giordano Bruno e Jacob Böhme; un percorso di rivelazioni, condotto sulle orme sapienti di Elémire Zolla (che considerava Rimbaud “la parodia di una sapiente”) e Henry Corbin (e la sua fondamentale nozione di mundus imaginalis) fino a risalire alle sorgenti vediche.
Non è facile riassumere e divulgare correttamente due millenni e mezzo, almeno, di tradizione esoterica, senza inciampare in trappole consuete: un borioso pontificare, una vaghezza urticante direttamente proporzionale, un richiamo continuo quanto generico a una nebulosa Tradizione (concetto nobile ma spesso preda di pericolose deformazioni ideologizzanti).
Riccesi compie un’opera notevole: comporre un discorso coerente e progressivamente rivelatorio attraverso un mosaico armonioso di spunti illuminanti, realizzando un testo dalla eccezionale scorrevolezza, considerata la profondità non comune dei temi affrontati.
Ma, chiariamoci, il testo non è solo un Bignami godibile dell’esoterismo classico; l’autore, certo, non è il primo a esplorare e collegare con intelligenza diverse tradizioni, dal Sufismo al Neoplatonismo, dalla Gnosi alla Qabbalah: i riferimenti a Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Giordano Bruno sono espliciti.
Ciò che è originale, o meglio fresco, vivo, appassionante è l’approccio a questi abissali ambiti di riflessione.
Nessuna pedanteria a soffocare la meraviglia, nessuna presunzione a uccidere lo stupore: l’evocazione del maestro del dubbio Jorge Luis Borges è garanzia dell’assenza di ogni esaltazione fanatica.
Dal mito di Diana alla potenza archetipica dei simboli nei Tarocchi fino al Libro Rosso di Jung, il fiume carsico della conoscenza esoterica prorompe in superficie nelle fonti maestose dei grandi iniziati, tra cui amiamo menzionare William Blake, definito nel libro “l’incarnazione perfetta dell’archetipo del veggente”. Sarà Yeats a rendere giustizia al poeta mistico, e alla poesia mistica in sé.
Il più grande pregio del libro è condurre il lettore, procedendo per paradossi illuminanti, al riconoscere come Tutto sia una costante teofania, una ininterrotta manifestazione di Verità e Bellezza da contemplare.
Ecco un brano significativo, che distingue tra immaginazione come fantasia (nel senso negativo conferito da Gurdjieff, ad esempio) e visione: “Corbin introduce la distinzione tra immaginario e immaginale: il primo è il luogo dell’invenzione che segue i capricci dell’ego, il secondo è il piano delle creazioni teofaniche, dell’intuizione dei princìpi, quello in cui i visionari di ogni luogo ed epoca collocano l’esperienza delle forze che tutto guidano. Un simbolo vivo, dotato di carica magica, di numinosità, ci cattura e si lascia riconoscere in profondità quando accettiamo di seguire una visione dove essa vuole condurci e non dove noi dovremmo andare. L’immaginario, o fantasia, è in sintesi autoreferenziale. La visione è invece un riflesso dei misteri dell’essere nella percezione soggettiva”.
In tutto ciò la poesia è la forma di conoscenza, prima che artistica, intimamente connessa alla veggenza, “un sentiero di ritorno alla divinità”, citando una frase di Riccesi riferita a Blake, che è però perfetta descrizione dell’itineriarium dantesco ne La Divina Commedia; rifacendosi agli studi di Tonelli Sulle tracce della sapienza, che mostrano le evidenti “origini greche della poesia occidentale e mediterranea, che sorge come azione rituale, mescolandosi con la musica e la danza, e si intreccia col mito”, l’autore giunge a conclusioni importanti: “La veggenza, la himma, è vita che nell’unità del cuore divino e umano si compie. Per questo la magia e la poesia sono intrinsecamente risanatrici della nostra sensazione di separazione dall’infinito: esse ci insegnano che il piano personale trova la sua strada quanto torna ad accogliere e onorare quello transpersonale. Ma anche che c’è un bisogno di ispirazione che non tollera ordini precostituiti e va oltre ogni modello con il quale vorremmo forzare la vita”.
E il pensiero va commosso, à rebours, a Dino Campana, all’ultimo Nietzsche, al sublime Hölderlin e al suo commento sul Re Edipo, cieco, che “forse ha un occhio in più”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
Qualcuno, nel commentare la Lettera di Rimbaud, ha scritto: “Questa volta il ‘rubare’ del poeta rende l’uomo alla sua fonte, nel movimento (inverso al furto dominante) di andare verso il basso rianimando il linguaggio elementare - “i p a e s a g g i d e l p o s s i b i l e” (Alchimie du Verbe)” (cfr. R. Giorgi, Alla ricerca delle nascite (lingua e manìa), La Nuovo Foglio editrice, Pollenza-Macerata 1978, p. 82).
Io non sono d’accordo. Il fuoco rubato “la-bas” è un furto ‘capovolto’ ma ancora furto e ancora dominante! Il fuoco laggiù è preso ancora con lo stesso movimento metafisico. Se Dio è morto ... resta il Diavolo (da santificare). Ed è il Diavolo che Rimbaud trova “la-bas”. Altro che paesaggi del possibile. Perciò la distruzione, la morte, e la non risposta degli uomini... L’operare del poeta-veggente è ancora un operare mistificatorio e dominante. La pretesa idealistica-pretesca dell’universale, a carico degli uomini degli animali delle pietre, trapassa immediatamente - ove è sottoposta a critica - nella rabbia (auto-)distruttiva del dannato-mercante (di armi, in Africa): dagli idealismi autoritari di società perfette alla realtà infernale della società civile, della lotta di tutti contro tutti. La tentazione e il furto (appropriazione-produzione ‘privata’) del fuoco, la perdita-cacciata dal paradiso (pretesa universalizzante), la caduta all’inferno (disperazione, distruzione, e morte) sono le figure di questo ‘movimento’ oscillante tra Dio e Diavolo.
Il poeta-veggente è la maschera del prete. È l’illusione-mistificazione di uno svuotamento-sregolamento totale per lasciar parlare l’altro - lasciar affiorare la lingua di “la-bas”. Ancora il dominio ‘nascosto’ dell’uomo sull’uomo, l’appropriazione-espropriazione del fuoco-possibile dell’altro uomo. Il ‘prete’ è una figura del dominio: un ladro e un parassita. A chi ruba? Dove ruba? Cosa ruba? - A tutti. A tutti noi. All’intero sociale: il desiderio e il corpo, la forza e la gioia. Figura alienata e dominante il poeta-veggente produce l’estraneazione e, al contempo, l’espropriazione della parola di tutti: il silenzio di ognuno.
Guai al tempo senza poesia, ma chi ha bisogno dei poeti-preti? La ‘religione’ della poesia come la “religione della libertà” (di crociana memoria) rende l’impresa impossibile! “L’emancipazione del proletariato sarà opera del proletariato stesso” - o non sarà. Fare la rivoluzione significa (anche e soprattutto) “realizzare la ragione stessa per cui è necessario farla: realizzare la felicità, fare in modo, cioè, che ciascuno possa dire io” (J.-P. Dollé, “Desiderio di rivoluzione”, Edizioni Dedalo, Bari 1975) - significa proprio e finalmente cominciare “a ruotare attorno a se stesso” (E. Bloch, “Karl Marx”, Il Mulino, Bologna 1972, p. 159).
Rimbaud, pur nel suo prometeico fallimento - svolgentesi tra i poli di una esaltazione e disfatta terribile - ci ha posto di fronte alla nostra alienazione totale. La domanda che egli pone a ognuno è: dove sono Io?, dove siamo noi? È, diversamente, la stessa di Nietzsche: “chi siamo noi, in realtà?”. A questa domanda occorre rispondere, se davvero “vogliamo essere uomini” (sulle fabbriche occupate nel maggio ’68). Non angeli, non demoni, né bestie: uomini.
Se Dio è morto, resta il Diavolo... Questa ‘logica’ si ritrova (e agisce sotterranea) identica e negli avvii e negli esiti dell’opera di Freud. Il motto in esergo a “L’interpretazione dei sogni” lo dichiara a chiare lettere e ad alta voce, prometeicamente: “Se non riuscirò a piegare le divinità celesti, muoverò l’Acheronte”, ossia le potenze infernali, il Diavolo; e la teorizzazione della pulsione di morte , nei modi in cui l’ha fatta (“il principio di piacere sembra essere in realtà al servizio delle pulsioni di morte”), portano Freud allo stesso risultato di Rimbaud, impotenza e scacco.
Geza Roheim, analizzando l’articolo di Freud sulla possessione diabolica e chiarendo il tipo di dinamica sottesa alle componenti psichiche in gioco, rileva che “il patto con il Diavolo è perciò realmente un patto con il superio inteso non ad aiutare gli esseri umani a ottenere queste cose ma a impedire loro di ottenerle (cfr. D. Bakan, “Freud e la tradizione mistica ebraica”, Comunità, Milano 1977, pp.213-214). E ricorda quanto sugli inizi della psicoanalisi pesi fortissima la preoccupazione da parte di Freud di risolvere il problema del guadagnarsi da vivere, di risolvere i suoi problemi finanziari: “la psicoanalisi come strumento di guadagno” (op. cit.)!
In una lettera dell’11 marzo del 1902, all’amico Fliess, Freud è esplicito come mai più lo sarà in seguito: “[...] Tornato da Roma, trovai che dentro di me la voglia di vivere e di operare era aumentata, quella del martirio, in vece un po’ diminuita. La clientela un po’ striminzita... Volevo rivedere Roma, curare i miei malati e conservare ai miei figli la serenità. Così decisi di farla finita con il rigorismo morale e di compiere i passi necessari, come fanno le altre creature umane... Sono diventato una persona rispettabile... Ho imparato che questo vecchio mondo è retto dall’autorità, come il nuovo dal dollaro. Ho fatto il mio primo inchino all’autorità, dunque mi è lecito sperare di essere ricompensato... Se avessi fatto questi pochi passi tre anni fa, sarei stato nominato allora, e mi arei risparmiato diverse amarezze. Altri sono ugualmente furbi senza bisogno di andare a Roma... “ (S. Freud, “Le origini della psicoanalisi: lettere a Wilhelm Fliess 1887-1902”, Boringhieri, Torino 1968). L’oro del Diavolo - come si sa - diventa regolarmente escremento. La psicoanalisi non è diventata, forse, più che scienza, ideologia, strumento di dominio?!
Il ‘discorso’ sin qui fatto ruota unitariamente sul modo di produrre conoscenze e, in particolare, sul lavoro intellettuale. Aprire gli occhi su questo è altrettanto quanto sul modo di produzione delle altre ‘cose’, tanto più che le forme della produzione culturale - anche in campo marxista, al di là di indicazioni generiche - non sono state mai decisamente analizzate e radicalmente viste all’interno della forma di produzione sociale dominante (per un primo tentativo in tale direzione, cfr. A. Sohn-Rethel, “Lavoro intellettuale e lavoro manuale”, Feltrinelli, Milan 1977).
Questa ‘dimenticanza’ non è casuale: è servita e serve ancora da una parte a non mettere in discussione il ruolo del produttore di conoscenze e dall’altra a perpetuare forme di dominio borghese sul proletariato stesso. “ Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi intellettuali” (Marx): in tale ‘paradigma’ a “filosofia” è stato sostituito “marxismo”, ma la “struttura” è rimasta identica fino a oggi. Essa rimanda all’ideologia prometeico-illuministica dell’intellettuale ladro-portatore di fuoco, ideologia che ha come sua ‘faccia nascosta’ la considerazione del proletariato come “massa” - materia bruta da redimere-reprimere - o, come “masso” - pietra da lanciare contro ‘qualcosa-qualcuno’! Non indebitamente - come ormai si va acquisendo nella coscienza critica generale - hanno dedotto i vari Kautskij, Lenin, ecc. (riguardo al problema dell’organizzazione, del Partito, e della coscienza), riconfermando così tutte le tradizioni autoritarie del passato.
Marx, non avendo fatto chiarezza sul modo di produzione del suo stesso lavoro, ha lasciato irrisolti problemi di estrema rilevanza (di cui ora cominciamo a vederne tutta la portata e tutte le conseguenze). Uno dei fondamentali, se non il fondamentale, è proprio quello della formazione della coscienza: come si ‘produce’ la coscienza-conoscenza critica? La “critica dell’economia politica” spiega la determinazione della coscienza da parte dell’essere sociale, ma non spiega il contrario, il capovolgimento essere-coscienza. I “filosofi” hanno [finora] solo diversamente interpretato il mondo! Ma [ora] si tratta di trasformarlo. E questo è un altro problema!
Federico La Sala (Milano, 1978).
CAMBIARE IL MONDO, TRASFORMARE LA VITA. Desiderio di rivoluzione ... *
“Abbiamo bisogno di cambiare il mondo, ed è urgente”
di Rachel Kushner (Alfabeta-2, 30 giugno 2019)
Un mio amico di Milano, il primo italiano con cui mi è capitato di parlare di Nanni Balestrini, ha detto: “Nanni? Quando stava per essere arrestato, l’ho portato in macchina in val d’Aosta per aiutarlo a scappare. È passato in Francia con gli sci e io l’ho ripreso a Chamonix”. Con questo amico pensavo che avremmo semplicemente discusso la poesia di Nanni, la sua arte, i suoi romanzi. Forse la sua politica, non una vita in fuga. Ma la vita, e la politica, e l’arte, sono in qualche modo perfettamente fuse nello spirito di Nanni, per cui sentire che il mio amico lo aveva aiutato a salvarsi in Francia nel giro di vite dei tardi anni ’70 non avrebbe dovuto sorprendermi.
In realtà a colpirmi davvero è stata l’idea che Nanni sapesse sciare abbastanza bene da passare il Monte Bianco in sci. In seguito ho saputo che insieme a lui c’era un istruttore. Più volte con Nanni ho cercato di sapere di più su questo fatto, ma a Nanni non sempre piacevano le domande. Una domanda per lui era spesso una scorciatoia per la banalità. Quando l’ho incontrato la prima volta, l’ho subissato di domande sulle persone che aveva conosciuto, sulla sua scrittura, sulla politica dell’autonomia, ma lui mi ha posato una mano sul braccio e ha detto: “Ascolta, parliamo del vino da scegliere. Questo è un pranzo. Siamo a pranzo. Siamo in un ristorante. Comportiamoci da persone civili. Decidiamo cosa mangiare, cosa bere, magari parliamo del tempo. Il resto può aspettare”.
In quel pranzo, quando alla fine siamo arrivati a parlare di politica, è stato molto serio, e astuto, e si è concentrato sulla vita oggi, e sulla vita nel futuro, senza nostalgia, anche se non ha avuto esitazioni nel parlare del passato. Come mi ha detto in seguito, quando l’ho intervistato in modo più formale: “Più che nostalgico, mi considero fortunato per essere vissuto in un periodo straordinario e felice. Ma sarebbe insensato cercare in quel periodo qualcosa che anticipi o qualcosa che possa servire oggi, in una situazione completamente diversa quale è quella in cui ci troviamo, quarant’anni dopo. Tutto è diverso, tutto è cambiato. A servirci sono nuove idee, ed è un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Quegli anni ci offrono solo uno stimolo, o meglio un imperativo: che abbiamo bisogno di cambiare il mondo, e che questo è possibile, necessario, urgente”.
Quel giorno, dopo che abbiamo finito di mangiare, siamo andati nel suo studio per guardare i suoi lavori, i suoi libri. Diverse ore più tardi, mi ha accompagnato a piedi alla stazione. Ci siamo salutati al varco che possono superare solo i passeggeri muniti di biglietto. Ho continuato a voltarmi e Nanni era lì, fermo dove ci eravamo congedati. È rimasto finché il mio treno è arrivato e io sono salita. In qualche modo, in quel momento prolungato in cui lo osservavo fermo a guardarmi, sapevo che non lo avrei più rivisto e mi sono sentita molto triste, e insieme fortunata.
Nanni non ha mai risposto alla domanda per me più importante su Vogliamo tutto. Volevo saperne di più su Alfonso, la persona che ha ispirato quella voce. Ora, guardandomi indietro, non so bene perché lo considerassi così importante. Il punto, credo, è che non riuscivo a capire come Nanni avesse scritto un romanzo così perfetto, un’epopea che assume una voce che canta con tanta forza e comicità e rabbia, e tuttavia ci dà il senso di migliaia, di moltitudini di Alfonso. Chi era questo tizio, Alfonso, com’era davvero? In un certo senso, pensavo che leggere Vogliamo tutto significava immergersi nello spirito di quest’uomo speciale, il leggendario Alfonso. E più ne avessi saputo, più mi sarei calata in lui. Ma Nanni è stato molto cocciuto nel suo rifiuto di dirmi qualcosa su Alfonso. Ha detto: “Tu cerchi di costringermi a ridare ad Alfonso la sua individualità. Questo è l’opposto di quello che io volevo fare nel libro, dove lui non ha nome. Non posso farlo”. Pure, io mi stupisco all’idea che un imperativo artistico sia un imperativo assoluto. Per Nanni Balestrini, non c’è differenza e non c’è compromesso.
CAMBIARE IL MONDO, TRASFORMARE LA VITA....
BRILLANTISSIMO testo e brillantissima "testimonianza" di Rachel Kushner. La scrittrice statunitense, nata nel 1968, mette coraggiosamente il dito su un’operazione artistica e politica tragica: fa emergere ora (2019) ciò che era già chiaro allora, qualche anno dopo la sua nascita, nel 1971, quando fu pubblicato "Vogliamo tutto".
"QUARANTA ANNI DOPO", sollecitato dalla scrittrice, Nanni Balestrini a quanto racconta ( “Più che nostalgico, mi considero fortunato per essere vissuto in un periodo straordinario e felice. Ma sarebbe insensato cercare in quel periodo qualcosa che anticipi o qualcosa che possa servire oggi, in una situazione completamente diversa quale è quella in cui ci troviamo, quarant’anni dopo. Tutto è diverso, tutto è cambiato. A servirci sono nuove idee, ed è un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Quegli anni ci offrono solo uno stimolo, o meglio un imperativo: che abbiamo bisogno di cambiare il mondo, e che questo è possibile, necessario, urgente”) e, contro il suo stesso "cocciuto" rifiuto a rispondere alla domanda su "Vogliamo tutto" ("Volevo saperne di più su Alfonso, la persona che ha ispirato quella voce"), alla fine, è "costretto" ad aggiungere e ad ammettere: “Tu cerchi di costringermi a ridare ad Alfonso la sua individualità. Questo è l’opposto di quello che io volevo fare nel libro, dove lui non ha nome. Non posso farlo”.
La risposta è chiara, ma Rachel Kushner resta "ipnotizzata" e finisce per condividere: "Pure, io mi stupisco all’idea che un imperativo artistico sia un imperativo assoluto. Per Nanni Balestrini, non c’è differenza e non c’è compromesso"!!! E se, invece di Alfonso, "la voce" fosse stata di Rachel?! Dov’è l’imperativo assoluto e l’imperativo artistico di Alfonso e di Rachel - e quello di Adamo ed Eva, e di Maria e Giuseppe?! Ma che "Dio" era quello di Balestrini?! E che "Dio" è quello di Kushner?! E’ un "desiderio di rivoluzione" questo o che?! Boh e bah?!
P. S. Ricordando di Nanni Balestrini, non posso non ricordare anche di Primo Moroni. Sul tema, mi sia lecito, cfr. "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam).
Lo scontro in atto tra la Weltdemokratie e il neofascismo
di Stefano Jorio (Alfabeta-2, 16 Giugno 2019)
Al Deutsches Historisches Museum di Berlino è aperta fino al 22 settembre la mostra «Weimar: l’essenza e il valore della democrazia». Con l’intento dichiarato di celebrare valori democratici oggi nuovamente in pericolo, la mostra racconta la storia della Repubblica di Weimar dalla sua nascita al successo elettorale del Partito Nazionalsocialista nel 1930: la storia di una Repubblica parlamentare progressista, democratica e tollerante, insidiata e poi abbattuta dalla destra autoritaria hitleriana. Questo quadro storico, assai semplificato, sembra indicare un doppio obiettivo di politica culturale da parte del museo.
«La democrazia liberale oggi non è più scontata ed è anzi in pericolo,» viene spiegato all’inizio del percorso. «Partiti autoritari vanno rafforzandosi anche in paesi di lunga tradizione democratica. Anche in Germania la fiducia nella democrazia liberale sembra diminuire.» Dopo avere diviso in due metà la storia della Repubblica di Weimar (prima e dopo il 1931, la fase progressista e la fase del collasso) i curatori annunciano che al pubblico verrà raccontata solo la prima parte: «i suoi inizi, le basi che pose nella politica e nella società, le idee e le azioni di chi costruì la prima democrazia tedesca. Con grande passione vennero allora negoziati compromessi, fu elaborato il diritto alla libertà e all’uguaglianza, furono avverate visioni sociali.» Foto e testi raccontano le campagne elettorali, le alleanze tra partiti, la disoccupazione e il riconoscimento sociopolitico delle donne; ricordano che la Repubblica istituì con faticosi compromessi l’assicurazione per i disoccupati ed emanò nel 1922 la Legge per la protezione della Repubblica che proibiva organizzazioni «ostili alla costituzione» e istituiva un tribunale speciale. La mostra spiega che giudici antirepubblicani usarono la legge con clemenza verso la destra eversiva e con severità verso i comunisti; menziona il grande successo nazionalsocialista alle elezioni del 1930 e ricorda Carl Von Ossietzky, caporedattore della «Weltbühne», condannato nel 1931 a diciotto mesi di prigione per aver denunciato il riarmo in corso (verrà arrestato nel 1933 dai nazisti e morirà dopo la detenzione in diversi campi di concentramento). A questo punto, conformemente a quanto annunciato, la cronaca degli eventi politici si interrompe; nelle sale finali viene illustrato il cosiddetto fermento culturale dell’epoca weimariana. La mostra ha evocato l’immagine di una democrazia viva ed entusiasta che soccombe alla violenza nazionalsocialista, ha raccontato la storia di una Repubblica inizialmente progressista, poi conservatrice e infine travolta dal successo della destra mistico-nazionalista e antidemocratica. È quanto potremmo l’obiettivo esplicito di politica culturale: evocare la Repubblica di Weimar per sensibilizzare il pubblico sul pericolo della situazione attuale e sul valore della democrazia.
Si tratta però di un’immagine parziale, perché nella Germania del primo dopoguerra anche i governi socialdemocratici sperimentarono soluzioni autoritarie. Fin dai suoi primi anni la Repubblica di Weimar - pur nell’entusiasmo progressista che diede voce alle donne e varò importanti misure sociali - vide l’antisemitismo rappresentato in parlamento, ebbe ministri antisemiti e si avvalse più volte dell’articolo 48 che sospendendo i diritti civili conferiva poteri eccezionali al Presidente. Nel 1919 il governo socialdemocratico di Scheidemann represse nel sangue la Lega di Spartaco facendosi aiutare dalle formazioni paramilitari dei Freikorps (Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg vennero uccisi dai sicari del ministro Noske).
«È bene non dimenticare,» ha scritto Giorgio Agamben, «che i primi campi di concentramento in Germania non furono opera del regime nazista, bensì dei governi socialdemocratici, che non soltanto nel 1923, dopo la proclamazione dello stato di eccezione, internarono sulla base della Schutzhaft migliaia di militanti comunisti, ma crearono anche a Cottbus-Sielow un Konzentrationslager für Ausländer che ospitava soprattutto profughi ebrei orientali.» La mostra sottace che l’autoritarismo hitleriano attecchì in un’epoca autoritaria, e che la classe dirigente della Repubblica di Weimar esprimeva già, nel suo insieme, un diffuso desiderio di governo forte. Il parlamento era stato sciolto tre anni prima che il presidente Hindenburg - uomo della destra conservatrice non nazionalsocialista - incaricasse Hitler di formare il governo; quella che venne chiamata “dittatura costituzionale”, apparentemente intesa a proteggere la Repubblica, fu in realtà la premessa del suo tramonto («nessuna costituzione della terra come quella di Weimar aveva così facilmente legalizzato un colpo di stato», poté scrivere Carl Schmitt).
Il Deutsches Historisches Museum di Berlino, nato nel 1987 per volere di Helmut Kohl, è il museo di storia nazionale della Germania. Viene attualmente amministrato e sovvenzionato con cinquanta milioni annui dalla Staatsministerin für Kultur und Medien, Monika Grütters, che risponde direttamente alla Cancelliera Merkel.
Le iniziative del museo sono dunque espressione immediata della politica culturale del governo tedesco che nel caso specifico di questa mostra evoca - grazie al parallelo storico - l’idea di una conflittuale ma autentica democrazia odierna che difende i diritti, vive del dibattito tra le parti, tutela i deboli e viene minacciata dalla nuova destra autoritaria come la democrazia liberale di Weimar fu minacciata (e poi distrutta) dal nazionalsocialismo. È l’obiettivo culturale implicito: opporre alla minaccia del neofascismo europeo il sistema aperto, tollerante e democratico della Weltdemokratie sorta a partire dagli anni Ottanta sull’alleanza tra il nuovo blocco industriale e i partiti di centro, i partiti conservatori e la socialdemocrazia. Questa rappresentazione lascia in ombra che anche l’odierna democrazia neoliberale, come la Repubblica di Weimar negli anni Venti, esprime dirette e genuine tendenze autoritarie.
Restiamo alla sola Germania. Nel luglio 2017 la legge bavarese sulla Gewahrsam Haft ha istituito - in una configurazione giuridica simile a quella realizzata dagli Stati Uniti a Guantanamo - una custodia cautelare prorogabile ad infinitum per ragioni di «pericolo incombente»; la riforma della polizia approvata nella stessa Baviera nel maggio 2018 consente di intercettare telefonate e aprire lettere senza autorizzazione della magistratura. Altri Länder tedeschi - tra i quali la Renania Settentrionale, la Bassa Sassonia e la Sassonia - intendono conformarsi alla normativa bavarese; la Sassonia-Anhalt e il Mecklenburg-Vorpommern hanno introdotto l’uso di cavigliere elettroniche per sorvegliare soggetti ritenuti «pericolosi» senza contestazione di reato né condanna. Dall’agosto 2018 sono attivi in Germania nove centri di «Arrivo, Distribuzione, Decisione ed Espulsione» definiti da più parti come campi di concentramento intesi a isolare i profughi dalla popolazione tedesca; alla società civile non è permesso entrare, i giornalisti in visita non possono restare soli con gli internati, tutto - anche le consulenze giuridiche - avviene sotto la regia delle autorità.
Nel luglio 2017 l’Oberlandesgericht di Amburgo ha tenuto in custodia cautelare per oltre quattro mesi un cittadino italiano accusato di «concorso psichico» al reato di disturbo della quiete pubblica (era puramente presente a una manifestazione di protesta durante la quale erano state lanciate pietre contro la polizia); il tribunale ha motivato la custodia cautelare con «lacune nell’educazione che in assenza di un percorso educativo lasciano sussistere il pericolo fondato di ulteriori reati».
Questa lista di cose tedesche rispecchia un processo globale. Al termine della sua fase progressiva, durata dal dopoguerra agli anni Settanta, la democrazia occidentale si è gradualmente evoluta in una forma politico-spettacolare in cui le funzioni storiche dello Stato nazionale, gradualmente dismesse, diventano funzioni di polizia interna e internazionale, e le tendenze autoritarie vengono giustificate con l’appello all’emergenza economica e alla sicurezza. Giorgio Agamben ha osservato e descritto in più libri questa configurazione politica nuova e ambigua, già legiferante, che in una crescente inerenza reciproca tra democrazia e totalitarismo moltiplica i campi di concentramento e sussume in toto la società civile sottoponendola alla sorveglianza economica, poliziesca e militare. All’estero conduce una guerra neo-imperialista globale permanente; all’interno prende le impronte digitali di tutti i cittadini, ha da tempo affidato al governo anche il potere legislativo, fa pattugliare le piazze dall’esercito (in Italia l’operazione «Strade sicure» è stata autorizzata dalla legge 125 del 24 luglio 2008) e si avvale del condizionamento subliminale nel quadro di un neo-consumismo di massa («La pubblicità è una droga, non per metafora, e gli spacciatori sono i media,» ha scritto Walter Siti).
Se da un lato la mostra al Deutsches Historisches Museum palesa lo scontro in atto tra la Weltdemokratie e i movimenti neofascisti, dall’altro indica che la democrazia neoliberale è cieca rispetto alle tendenze autoritarie diffuse ma anche a quelle tradottesi in legge nel corso degli ultimi decenni, tendenze che in Italia hanno reso possibile, ad esempio, il passaggio disinvolto di tanti elettori del Partito Democratico prima al “populismo” antiparlamentare del M5S, apertamente insofferente verso la funzione critica della stampa, e oggi a quello esplicitamente neofascista della Lega. Se i nuovi fascismi dovessero vincere lo scontro, procederanno sulla strada della militarizzazione, della sicurezza, dei campi di concentramento e del controllo totale. Rispetto a questo scontro, rispetto al pericolo di un regime autoritario esplicito, il governo centrista e socialdemocratico tedesco (di nuovo una Große Koalition, come negli anni Venti i due governi Stresemann e il secondo governo Müller) reagisce come reagirono i governi della Repubblica di Weimar e come sta reagendo l’ordine neoliberale europeo: senza la capacità o la volontà di ricondurre la marea montante della ribellione neofascista di massa a un clima politico già autoritario, e a un’attività legislativa che da decenni sospende i diritti fondamentali e smantella lo stato sociale riclassificando autoritariamente da vittima a parassita chi appartiene alle fasce più deboli della popolazione.
L’establishment tedesco guarda spaventato l’ascesa di un autoritarismo nazionalista sostenuto dagli strati più involuti della plebe e del ceto medio, ma non riesce a raccontare per intero la Repubblica di Weimar né il suo trapasso graduale, senza scosse, dalle misure di emergenza alla sospensione dei diritti, dall’autonomia decisionale del presidente al fascismo.
MARGINI della filosofia. Intervento libero. In memoria di Jacques Derrida...
Siccome orientarsi nell’infinito è un problema meta-fisico e costituzionale, e - dopo Kant e la sua "rivoluzione copernicana" - non sappiamo ancora distinguere "dewey"anamente tra "prima di Cristo" e "dopo Cristo", tra Tolomeo e Copernico, tra il tutto e la parte, tra antropologia e andrologia - e ginecologia, tra Italia e "Italia", tra Costituzione e Partito, tra forza Italia e "Forza Italia", mi è sembrato opportuno fornire un piccolo banale (comune!) elemento per uscire dal sonnambulismo e dalla confusione! Siamo o non siamo "Dopo Dewey" !? O no?!
P. S. - SUL TEMA, MI SIA CONSENTITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA ...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
A) Il 9 Aprile 2019, in una nota (dal titolo “CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!: https://www.alfabeta2.it/2019/03/31/marcel-detienne-memorie-felici-e-concetti-indelebili/#comment-639227), così scrivevo:
B) Il 12 maggio 2019, “recensendo un volume - come scrivono gli studiosi e le studiose del CNR - dell’epistemologo statunitense Alex Rosenberg, in un articolo dal titolo Questa storia è davvero molto falsa apparso sul supplemento domenicale del “Sole - 24 ore” il 12 maggio scorso, il professor Gilberto Corbellini ne ha preso spunto per asserire, in polemica con un recente appello in difesa dell’insegnamento della storia, l’assenza di scientificità e di utilità sociale della disciplina stessa”.
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA L’ITALIA!
Federico La Sala
Il filo tra Martin ed Emanuele
Scoperte. Severino aveva dedicato ad Heidegger la sua tesi di laurea pubblicata nel 1950. Testi e testimonianze dimostrano che il filosofo tedesco seguì il lavoro del pensatore italiano
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12.05.2019)
Heidegger ha riflettuto sul pensiero di Emanuele Severino, e non sporadicamente, dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. O meglio, una prima nota reca la data 1958. Altre annotazioni sul filosofo italiano risalgono agli anni Sessanta (1968-69). Ora sono stati diffusi testi e testimonianze che provano tale interesse.
La notizia è stata resa nota in una conferenza stampa a Milano il 10 maggio, dedicata appunto alle «Nuove scoperte nei manoscritti inediti di Martin Heidegger», dai quali sono emersi passaggi in cui il pensatore tedesco commenta l’italiano. Altro si saprà in occasione del convegno di Brescia, dal 13 al 15 giugno, intitolato «Heidegger nel pensiero di Severino».
Il celebre e discusso maestro tedesco, che morì il 26 maggio 1976 (e nel necrologio Nicola Abbagnano lo ricordò come «Il pastore dell’essere»), negli anni in cui prende in considerazione Severino è riferimento di primo piano della filosofia. Basterà ricordare un evento che cambiò gli atteggiamenti nei suoi confronti: lo straordinario successo che riscosse la conferenza «La questione della tecnica», che Heidegger tenne all’Accademia Bavarese di Belle Arti il 18 novembre 1953.
Tutta l’élite colta di quel periodo lo applaudì entusiasta, da Werner K. Heisenberg (Nobel per la fisica nel 1932) a Ernst Jünger a José Ortega y Gasset. Heinrich Wiegand Petzet, autore di una dettagliata biografia del pensatore tedesco (Auf einen Stern zugehen. Begegnungen mit Martin Heidegger 1929 bis 1976), pubblicata a Francoforte nel 1983, scriverà dell’avvenimento: «Quando concluse con la frase divenuta famosa “Il domandare è la pietà del pensiero” dalla marea di bocche si levò un’ovazione senza fine. Ebbi la sensazione che finalmente il muro di sfiducia e di astio che si erigeva davanti al maestro e amico si fosse infranto. Fu forse il suo più grande successo pubblico» (tali parole si leggono alle pagine 81-82).
I periodi in cui il filosofo tedesco si occupa di dell’italiano seguono la pubblicazione dell’opera Heidegger e la metafisica, tesi di laurea di Severino (prefata da Gustavo Bontadini, suo maestro all’Università di Pavia), pubblicata dall’Editrice Giulio Vannini di Brescia nel 1950; e poi quella del saggio Ritornare a Parmenide, uscito nella Rivista di filosofia neoscolastica nel 1964. Del resto, di quel periodo va tra l’altro ricordato il viaggio che Heidegger compie in Asia minore nel 1965: visita le rovine di Troia, Efeso, Pergamo, raggiunge Istanbul.
A questi due testi di Severino ha fatto dunque riferimento Heidegger; inoltre in una lettera che Friedrich-Wilhelm von Herrmann, ultimo assistente del pensatore tedesco, ha scritto al filosofo italiano e che è stata letta all’incontro del 10 maggio, si ricorda con precisione quanto accadde.
Usiamo direttamente le parole di von Hermann: «Posso affermare che il nome di Emanuele Severino era costantemente presente nella mente di Martin Heidegger, quando negli anni ’60 fui l’assistente di Eugen Fink prima e di Martin Heidegger poi». E ancora, tra significativi ricordi: «Le visite di lavoro settimanali a casa di Martin Heidegger mi permisero non solo di conoscere le sue opere non ancora pubblicate, ma anche il suo modo di rapportarsi con le opere di altri pensatori. Il fatto che Heidegger abbia inserito nelle sue Annotazioni tre osservazioni sul percorso di pensiero di Emanuele Severino, è secondo me eloquente. Inoltre, durante i suoi incontri con il fratello Fritz, Heidegger parlava spesso di Emanuele Severino - e anche il figlio di Fritz, il reverendo Heinrich Heidegger, ricorda molto precisamente quelle menzioni, perché partecipava spesso agli incontri tra i due fratelli».
C’è di più. Von Hermann in questa lettera aggiunge precisazioni che mostrano la stima della filosofia tedesca nei confronti dell’italiano. Vale la pena lasciargli di nuovo la parola: «Ma il nome di Emanuele Severino era ben noto anche nella cerchia attorno al filosofo Hans-Georg Gadamer, con cui intrattenni un contatto molto confidenziale sino alla morte di Gadamer. Poiché fui scelto da Martin Heidegger quale responsabile scientifico dell’edizione integrale delle sue opere, intrattenevo una fitta corrispondenza con Gadamer e lo incontravo spesso personalmente.
Tra i fenomenologi di Friburgo le opere Heidegger e la metafisica e Ritornare a Parmenide erano ben note, e Heidegger era molto impressionato da entrambe. Ciò significa che l’originalità del percorso di pensiero di Emanuele Severino s’inserisce a pieno titolo nella serie dei grandi pensatori del XX secolo, assieme a Husserl, Heidegger, Fink e Gadamer».
È il caso di aggiungere che Heinrich Heidegger (sacerdote, figlio del fratello Fritz), in una missiva scritta a Severino e ora resa nota aggiunge altre conferme: «Mio padre, che aiutava suo fratello trascrivendo a macchina i suoi manoscritti, ripeteva spesso il Suo nome e non si stancava di evidenziare quanto era impressionato Martin Heidegger del modo in cui lei interpretava i suoi testi».
Padre Francesco Alfieri, già collaboratore di Oriana Fallaci (da cui ha ereditato la tenacia), vero segugio di archivi e assistente personale di von Hermann (c’è un loro libro, a quattro mani, Martin Heidegger. La verità sui Quaderni neri, edito da Morcelliana) ha partecipato alla conferenza stampa parlando di Heidegger interprete di Severino. Ci ha confidato: «Le tre frasi riguardano sia l’opera sulla metafisica sia il saggio su Parmenide. In particolare colpisce la frase di von Hermann, in calce alla lettera a Severino, nella quale dichiara che “Lei è riuscito dove molti hanno fallito”». Che dire? Innanzitutto che la prima nota inedita di Heidegger è questa: Überwindung, das Nichts eröffnet die mataphysische Frage. - Severino über die Metaphysik (1958); ovvero: Oltrepassamento, il nulla apre alla domanda metafisica - Severino sulla Metafisica (1958). Le altre due si conosceranno al convegno di giugno.
Aggiungiamo che nella ricordata prefazione di Bontadini a Heidegger e la Metafisica, dell’agosto 1950 e non può ripubblicata, si legge: «La fatica del Severino, anche indipendentemente dai suoi interessi e dalle sue convinzioni teoretiche, dovrà essere apprezzata da ogni studioso di Heidegger».
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI....*
La sinistra e le dimissioni dei filosofi dal secolo dei diritti
Sinistra. Le Dichiarazioni universali, le Costituzioni post-belliche, le Carte europee dei diritti.
La ragion pratica, almeno riconosciuta sulla carta, è stata poi abbandonata
di Roberta De Monticelli (il manifesto, 30.04.2019)
II Che un filosofo si metta a ragionare di politica, per di più in termini di vasti orizzonti contemporanei, e sollevando problemi effettivi dell’oggi, è solo ammirevole: tanto più se il problema principale che affronta è precisamente la mancanza di idee, oltre che di ideali, della sinistra di oggi, italiana ed europea. Grazie dunque a Maurizio Ferraris di averci provato (Dovrebbero essere i Big Data a pagare il Welfare del futuro, il manifesto” 19/04). Aiuterà, il suo consiglio?
Credo che Ferraris abbia soprattutto inteso lanciare un’intelligente provocazione a pensare. Credo si possa essere d’accordo sulla tesi che la sinistra è (almeno in parte) in difficoltà non perché abbia mancato i suoi obiettivi, ma perché li ha conseguiti. Anche se certamente non una volta per tutte: e per amor di verità bisognerebbe aggiungere che il welfare oggi soffre terribilmente, a partire dalla sanità pubblica, che la scuola pubblica italiana è in via di smantellamento in ciò che aveva di buono, che la ricerca in Italia è finanziata sotto qualunque livello di decenza, che in troppi dei posti in cui un po’ di lavoro è rimasto, è proprio (anche se non solo) la sinistra (di governo e amministrazioni locali) che ha accettato di farlo pagare a tutti in termini di devastazione dell’ambiente e della salute; che al problema dell’integrazione dei migranti la sinistra non ha dedicato lo straccio di una proposta nazionale, e infine che evasione, corruzione e mafie gravano sul paese come e più di sempre, con qualche aiutino in termini di modica quantità di truffa fiscale, e se non è un obiettivo di “sinistra” quello di estirpare questi tre cancri allora non ha senso dire che i pochi elettori della cosiddetta élite rimasti a votare a sinistra lo fanno per ragioni etiche. Il che invece è verissimo.
Ma a questo bisogna aggiungere che - come i fatti evocati dovrebbero provare - i fini stessi in funzione dei quali, anche, il welfare doveva esistere, e cioè l’accesso dei più all’istruzione, alla consapevolezza dei propri doveri e diritti di cittadino, direi addirittura all’età adulta e alla responsabilità morale e civile, oltre che a una vita più libera e migliore, non sembrano affatto conseguiti. E del resto perché e come avrebbero dovuto esserlo, se prima di tutto hanno smesso di crederci - a proposito di etica - quei pochi o molti per i quali “sinistra” era il nome politico di un nucleo umanistico, universalistico e cosmopolitico di pensiero, cresciuto insieme con la modernità nell’età dei diritti e di tutte le loro generazioni - civili, politici, sociali, culturali, che erano andati a furia di battaglie e di tragedie a formare la cosa di tutti, la res publica che valeva la pena di difendere.
E allora, veniamo al dunque. La sinistra non ha perso gli ideali perché è rimasta a cercarli nei campi e nelle officine. Li ha persi perché quelli che di idealità si occupavano - cioè i filosofi, comunque vogliate chiamarli: intellettuali, scrittori, e poi la minoranza pigra e grigia degli accademici, noi insomma - hanno smesso di occuparsene. Maurizio Ferraris stesso ne è testimone, sia nella veste giovanile che in quella matura del suo postmodernismo. Ma abbiamo smesso proprio nel momento in cui la migliore eredità dei Lumi, e insieme la dolorosa cognizione dei valori sofferta nella prima metà del secolo scorso, fra guerre e totalitarismi, si fondevano nella ragion pratica incarnata dei grandi documenti normativi: le Dichiarazioni universali, le costituzioni postbelliche, le Carte europee dei diritti. I filosofi diedero le dimissioni dalla ragione pratica nel momento stesso in cui i migliori fra i nostri padri e madri erano riusciti miracolosamente a incarnarla in embrioni di istituzioni e norme, a provarla, per la prima volta nella storia, universalmente riconosciuta, almeno sulla carta.
Ma la lettera è morta, senza lo spirito. E lo spirito è evaporato quasi subito. Sono rimasti un pugno, fra i filosofi, gli spiriti liberi che non si fecero incantare dai cupi, feroci miti della guerra fredda: i Camus contro i Sartre, i Milosz contro i Lukacs, gli Spinelli e gli Olivetti contro i Banfi e i Kojève... e poi? Poi i francesi sdoganarono il Pastore dell’Essere, quello che prima aveva affidato ai carri armati di Hitler la guerra dell’Essere conto l’ente, e poi aveva fatto spallucce ai campi di sterminio (tanto gli ebrei, questi paradigmi della modernità capitalistico-finanziaria e sradicatrice, “si erano sterminati da soli”).
Con la modernità illuminista ce l’avevano anche gli eredi di Hegel e Marx (l’Illuminismo conduce ai campi di sterminio, copyright Horkheimer). E da questo felice incontro della più nera Selva nera con la dialettica hegeliana nacque il canone della filosofia cosiddetta continentale, quella che per cinquant’anni abbiamo continuato a insegnare perfino nelle scuole. Come sia andata a finire in Italia, per quel po’ di idealità (di filosofia) senza la quale la sinistra annaspa e muore, è cosa nota: ci fu la Coscienza Sprezzante, più realpolitica e decisionista di Carl Schmitt, che poi andò sfumando in teopolitica e teologia negativa. E ci fu la Coscienza Danzante, per le cui maschere senza volto valori e verità sono violenza, tutto è gioiosamente relativo e i fatti cosa da talebani: e Maurizio Ferraris ne è testimone. Così la sinistra rimase senza ragioni. Anzi senza ragione. Altro che campi e officine.
Adesso, nel ventunesimo secolo, all’umanità intera, liberata dal lavoro ceduto agli automi e ben nutrita dalla socializzazione del capitale documentale (qualunque cosa esso sia) potrebbe aprirsi la prospettiva “di una vita dedicata interamente alla produzione di valore”: cioè al consumo, al turismo, alla scrittura, perché ormai il valore si produce così, poi basta socializzarlo e il gioco è fatto.
Supponiamo che sia vero e possibile: sarebbe diverso da un incubo alla Brave New World, la Repubblica dei Felici, liberati da ogni angoscia di dover fare qualcosa di sé stessi senza per questo annichilire gli altri? Che poi è la questione che starebbe al fondo di tutto l’umanesimo e l’idealità e la ragione pratica e la filosofia. Meglio dimenticarsene. Intanto ci stiamo portando avanti: complice il nostro silenzio, si abolisce per decreto lo studio della storia, e in primo luogo del Novecento, obsoleto, che poi tanto non si fa in tempo a farlo. Senza memoria, il pensiero forse è più intelligente, chissà. Certo è un pensiero spensierato.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"NUOVO REALISMO", IN FILOSOFIA. DATO L’ ADDIO A KANT, MAURIZIO FERRARIS SI PROPONE COME IL SUPERFILOSOFO DELLA CONOSCENZA (QUELLA SENZA PIU’ FACOLTA’ DI GIUDIZIO).
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
"ANDRAGATHIA" (’NDRANGHETA). IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DEL MACROANTROPO ("UOMO SUPREMO", "SUPERUOMO", "DOMINUS IESUS"): FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
Federico La Sala
CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!
Una nota *
Nel 1929, in un breve saggio dedicato a "Hugo Hofmannsthal. In memoriam" (op. cit., pp. 165-176), Curtius scrive: "La regalità era la figurazione più interiore nel rapporto tra Hofmannsthal e il mondo. La funzione di poeta non era per lui che una delle forme in cui essa si manifestava [...] tutte le opere di Hofmannsthal tendono verso la forma ideale di un theatrum mundi, un poema cosmico allegorico-simbolico che eleva il caso dell’esistenza all’ordine delle grandi leggi, che nel temporale, fanno apparire l’eterno. L’allegoria non è qui indebolita ricchezza di vita e la maschera non è apparenza, al contrario, soltanto quando riusciamo a vedere la deformazione, la maschera della nostra esistenza, ne comprendiamo il senso e la verità più profonda".
E poco oltre, condividendo il programma e lo spirito della sua “rivoluzione conservatrice”, così prosegue : "La nostra poesia ha molto sentimento del mondo (Weltgefuhl), ma poco mondo: ha molte visioni del mondo (Weltanschauungen), ma mediocre ne è la sua conoscenza. In Goethe esisteva la possibilità di unire i due aspetti e ristabilire le giuste proporzioni. Ha dovuto condurre il suo Faust alla corte dell’imperatore: era anzi ancora legato all’impero e colorate feste d’incoronazione avevano illuminato la sua infanzia. Non ha sentito più battere il cuore dell’impero [...] L’orizzonte universale del vecchio impero asburgico era stato dato in eredità a Hofmannsthal. Vienna e Madrid non ne facevano meno parte [...]". E, così chiude: “Hofmannsthal ha raccolto nel suo tesoro reale, i beni più preziosi del linguaggio e dell’anima dei paesi latini: noi lo conserviamo come la sua eredità, come «munus Austriacum»”.
Nel 1932 fa il passo “decisivo”: pubblica “Deutscher Geist in Gefahr “ (“Lo spirito tedesco in pericolo”), un libro (una raccolta di articoli di quegli anni), e nella postfazione, confidando nella “metafisica dello spirito”, chiude con il richiamo al “Veni creator spiritus” - “l’inno del franco-renano Rabano Mauro” (“Mille anni più tardi un altro franco-renano, Goethe, ha tradotto questo “splendido canto religioso” e lo ha definito un “appello al genio”) - e con l’auspicio che “sotto questo segno la fede nella Germania e la fede nello spirito possono trovarsi legate e confermate” (cfr. Ernst R. Curtius, “Lo spirito tedesco in pericolo”, in Annamaria Bercini, “Il discorso politico culturale del «Deutscher Geist in Gefahr» di Ernst Robert Curtius”, Bologna 2015)
Le illusioni di Curtius di diventare una guida spirituale della “rivoluzione conservatrice” sono infondate e vengono spazzate via in un baleno: “Il 24 marzo del 1933, subito dopo l’ascesa al Reichstag di Hitler, sul Beiblatt del «Völkischer Beobachter», il giornale ufficiale del partito nazista sin dal 1920, comparve un durissimo articolo di Hermann Sauter (che di lì a qualche anno diverrà direttore della Stadtbibliothek di Monaco), Deutscher Geist in Gefahr? , che era in effetti una stroncatura senza appello del libro di Curtius. L’assenso di Curtius alla missione tedesca è, come si può vedere, in realtà una negazione del nuovo, potente volere tedesco. Ma questo è il nostro credo: che il vero spirito tedesco otterrà nuovamente onore, e sarà capace di avere valenza mondiale, quando sarà ripulito dal peso accumulato nella cosiddetta libertà spirituale del decennio passato. Sauter concludeva con quello che appare un vero avvertimento da mafioso. Curtius può avere ancora un ruolo importante nella nuova Germania, ma a patto di non tentare più di fare il Kulturpolitiker, perché non capisce nulla dei fondamenti autentici - cioè biologici - della cultura tedesca.” (cfr. Carlo Donà, “Lo spirito tedesco e la crisi della mezza età: «Deutscher Geist in Gefahr» (1932)” ).
Dopo la catastrofe della Germania del “Terzo Reich”, Curtius ancora non capisce: continua il suo “sogno” calderonico e la “vacanza” nel suo “illuminato” (contro e) pre-illuministico “stato di minorità” (I. Kant, 1784). E nel 1947, come se niente fosse successo, alla fine del primo capitolo di “Letteratura europea Medio Evo latino”, intitolato “Letteratura europea”, con un “occhiolino” a Benedetto Croce (e alla memoria di Hegel), riprende il lavoro per il “nuovo ordine culturale”, già proposto nel “Deutscher Geist in Gefahr” del 1932, e ricomincia: “Della letteratura europea l’eroe fondatore (heros ktistes) è Omero, l’ultimo autore universale è Goethe. Ciò che questi rappresenta per la Germania lo ha riassunto Hofmannsthal [...] La letteratura del secolo XIX e dell’inizio del XX non è stata ancora scandagliata, in essa non è stato ancora distinto ciò che è vivo e ciò che è morto. Ciò potrà dare materia per molte dissertazioni, la parola decisiva sarà però pronunciata non dalla storia della letteratura, ma dalla critica letteraria. Per questo compito noi, in Germania, abbiamo Friedrich Schlegel - e seguaci” (op. cit., p. 24)!
Purtroppo, per Curtius, che è vissuto e cresciuto all’interno di coordinate storico-culturali da Sacro Impero (romano, spagnolo, e germanico), e nelle cui orecchie risuona ancora l’ordine dato a Maria Antonietta dalla Madre-Imperatrice (“Rimanete un buon tedesco!”), “la vita è sogno” e non c’e alcuna possibilità di riconsiderare critica-mente né il lavoro di Ernst H. Kantorowicz (anch’egli vicino al “cerchio” di Stefan George) sulla figura dell’Imperatore Federico II (1927/1931), né tantomeno “l’autunno del Medio Evo”, il “declino del simbolismo” e la lezione su Dante di Johan Huizinga ("L’autunno del Medio Evo" [1919, 1921, 1928]): “[...] per indicare il rapporto fra l’autorità spirituale e quella temporale il Medioevo si serviva costantemente di due similitudini simboliche [...] La forza del simbolo è tale da intralciare l’indagine sullo sviluppo storico dei due poteri. Dante, avendo riconosciuto la necessità e il valore decisivo di tale indagine, si vede costretto, nel suo Monarchia, a spezzare prima la forza del simbolo, contestando la sua applicabilità, ed aprendosi così la strada alla ricerca storica".
La totale incomprensione del “relazionismo” proposto di Karl Mannheim in “Ideologia e Utopia” (1929), esaminato e rigettato nel capitolo quarto dello “Spirito tedesco in pericolo”, impedisce a Curtius di aprire gli occhi su stesso e sul mondo, di uscire dal relativismo-assolutismo dogmatico in cui naviga, e di smetterla di sognare il “sogno dei visionari” (sul tema, mi sia lecito, cfr.: “Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi”).
“Sogno o son desto?”: a che gioco si continua a giocare? Non è meglio cambiare gioco!? Per l’Europa - e per l’intero Pianeta? Boh? e bah!?
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Federico La Sala
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
METAFISICA. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.... *
Martin Heidegger
Così la metafisica lavora al proprio annientamento
Filosofia. Nessuna concessione all’antisemitismo nazista nel IV dei «Quaderni neri»: a metà anni ’40, l’avversario è piuttosto il «monoteismo ebraico-cristiano», responsabile, tra l’altro, dei «sistemi della dittatura totale»: da Bompiani
di Lucio Cortella (il manifesto, 27.01.2019)
Chi pensava di trovare la teorizzazione del supposto antisemitismo di Martin Heidegger nel quarto volume dei suoi Quaderni - Note I-V. Quaderni neri 1942-1948 (traduzione di Alessandra Iadicicco, Bompiani, pp. XVIII-700, euro 30,00) rimarrà deluso. Alla «questione ebraica» il filosofo tedesco dedica in tutto una quindicina di righe. Per le restanti 700 pagine, a parte un rapido accenno al «profetismo», nient’altro.
Anche questa quarta puntata dei Quaderni neri si conferma come un «diario filosofico», una meditazione pensante di Heidegger su se stesso, sui grandi temi della propria filosofia, in particolare sulla questione che, a partire dalla «svolta» avvenuta alla fine degli anni Venti, era diventata per lui centrale e cruciale, la questione dell’essere e della sua «storia». Per Heidegger l’essere non va confuso con gli «enti»: non è né una cosa del mondo né una sostanza trascendente e sovrasensibile al di fuori del mondo, come l’ente «supremo» della tradizione metafisica cristiana. L’essere non è identificabile con una «sostanza», è invece un essenziale sottrarsi (e nascondersi) a ogni tipo di «entificazione», a ogni oggettivazione. Ciò che noi comprendiamo dell’essere emerge solo dalla storia, dalla «sua» storia che è poi anche la «nostra». Ma al tempo stesso questa è la storia del suo tradimento, della sua perdita, del suo abbandono.
L’efficienza del fare
Già la filosofia degli inizi, in Grecia, aveva trattato l’essere come un ente, come una «presenza», anche quando lo ha pensato come un’entità trascendente (le idee di Platone, il motore immobile aristotelico, il Dio cristiano), ma così ha annullato e rimosso quella che Heidegger chiama differenza ontologica, la differenza essenziale tra «essere» ed «ente». Riducendo l’essere all’ente lo ha reso disponibile all’oggettivazione, alla manipolazione, alla strumentalizzazione, aprendo le porte all’età della tecnica. La modernità diventa così la realizzazione estrema di quella metafisica che ha dimenticato l’essere a favore dell’ente. Quella dimenticanza, tuttavia, non è un errore umano. Al contrario, è proprio il modo in cui l’essere stesso si è reso «presente» nella storia. L’oblio sta inscritto in quella ambivalenza per cui l’essere è al tempo stesso un nascondersi e un presentarsi. La sua riduzione a ente e la stessa civiltà della tecnica sono perciò il destino che l’essere stesso ci ha riservato.
La nozione fondamentale che Heidegger usa in questi anni, e che ricorre spesso nei quaderni, è quella della «macchinazione», un termine che veniva spesso impiegato dalla propaganda antisemita contro il presunto disegno di «dominio ebraico» sul mondo. Ma la «Machenschaft» assume in Heidegger un significato che va ben al di là, perché indica la caratteristica fondamentale dell’età della tecnica, in cui centrale è l’efficienza del fare (machen) e del produrre. La «macchinazione» si rivela, perciò, come il destino che l’essere ci ha riservato facendoci dimenticare la sua differenza dall’ente e presentandosi come ciò che può venire infinitamente prodotto, trasformato e manipolato. La conseguenza è la «desertificazione» (Verwüstung), la cancellazione del mondo e lo sradicamento dell’essere umano.
È in questo contesto che Heidegger colloca la sua comprensione della «ebraicità» (Judenschaft). Nelle poche righe contenute nel primo dei cinque quaderni che compongono il volume, riconduce l’essenza dell’ebraismo all’essenza della tecnica. Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, durante l’estate del 1942, e la distruzione dell’Europa avanza, con i suoi massacri, i bombardamenti, le devastazioni. Heidegger definisce tutto ciò «l’anti-Cristo», ma questo spirito di distruzione - aggiunge - non può che derivare dal suo stesso fondamento, cioè dal «Cristo».
Un destino delle origini
È il Cristianesimo, dunque, il responsabile, insieme alla metafisica, della distruzione cui sta andando incontro l’Occidente. Ma ecco che - con una mossa inaspettata - Heidegger riconduce anche il «Cristo» a una radice più profonda: quella della «ebraicità». Cristianesimo, metafisica ed ebraismo vengono coinvolti in una comune responsabilità di fronte alla distruzione di quei tempi. Nel momento del suo massimo dispiegamento, la metafisica produce il proprio stesso annientamento: questo il destino che attende anche «ciò che è essenzialmente ebreo». Teorizzare l’autoannientamento (Selbstvernichtung) del popolo ebraico proprio negli anni in cui la Germania nazista portava a compimento la barbarie dell’olocausto desta indubbiamente sconcerto e una legittima indignazione, tanto più se si pensa che dieci anni prima Heidegger aveva aderito entusiasticamente al nazismo, salvo poi ricredersi e ritirarsi dalla vita pubblica.
Tuttavia, la tesi dell’autoannientamento esprime una concezione ben più generale e riguarda il destino della metafisica e della tecnica, destino in cui l’ebraismo viene coinvolto solo tangenzialmente. Secondo Heidegger infatti, quella parabola di autodistruzione era già inscritta nel pensiero aurorale greco, pensiero che fin dagli inizi aveva obliato l’essere a favore dell’ente. E se negli anni della sua adesione al nazismo Heidegger aveva creduto alla possibilità di un «nuovo inizio» nella storia dell’essere, ora guarda a quell’adesione come a un errore di prospettiva: «L’errore fu la fretta precipitosa, fu solo un errore di tempo. Fu il non vedere ancora chiaramente che quel tempo era “lungo”».
Non ci sarà un nuovo inizio ma l’inesorabile autoannientamento della Germania, dell’Europa e dello stesso esserci. Da queste pagine non sembra dunque emergere alcuna concessione all’antisemitismo nazista, che, anzi - in un veloce passaggio del diario di qualche anno dopo - viene giudicato da Heidegger «folle e riprovevole». In quel periodo, l’avversario non è tanto l’ebreo quanto il «monoteismo ebraico-cristiano», al quale vengono ricondotti anche «i moderni sistemi della dittatura totale». La polemica più dura è rivolta al cristianesimo e alla sua «teologia clericale»: «io non sono un cristiano», scrive Heidegger, «e unicamente per la ragione che non posso esserlo». Tra pensiero e fede c’è «fessura», inconciliabilità assoluta: se esiste una «filosofia cristiana», bisogna chiedersi «fino a che punto una tale filosofia pensi», dato che «per il pensiero non vi è nessun Dio».
Un interrogativo, tuttavia, rimane: come mai - dopo che alla fine della guerra era diventata evidente a ogni tedesco la mostruosità dell’olocausto - Heidegger insiste, sebbene tramite pochi accenni, con la sua critica filosofica nei confronti di «ciò che è ebreo» invece di fare i conti seriamente con lo sterminio perpetrato dai nazisti? La risposta non può che essere intrinseca alla sua ontologia, incapace di interrogarsi sull’enormità di quell’evento. Agli occhi di Heidegger, il destino dell’essere sembra decidersi più sul terreno, per lui nefasto, della democratizzazione verso cui si sta avviando la Germania del dopoguerra, sotto il segno della perdita per lui incolmabile dell’identità, e come un «macchinario omicida» che conduce al «completo annientamento», piuttosto che sull’atroce sterminio di un intero popolo.
La sofferenza delle vittime, la meditazione sull’orrore e la negazione estrema dell’umano che l’olocausto rappresenta finiscono, dunque, per non avere alcuna rilevanza davanti al punto di vista anonimo e imperscrutabile della storia dell’essere.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
La spettrale presenza. Hitler, la radiografia e l’inconscio ottico
di Marco Senaldi *
[Foto] Antonello Fresu. Der Körper, still da video. Palazzo dei Pio, Carpi 2019
In un brano indimenticabile de La montagna incantata di Thomas Mann, pubblicato nel 1924 ma ambientato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, il protagonista Hans Castorp è oggetto di una radiografia.
“E Castorp vide [...] in anticipo, grazie alla potenza della luce, la futura opera della decomposizione, la carne, che lo rivestiva, dissolta, distrutta, sciolta in una nebbia evanescente, e dentro a questa lo scheletro della sua destra finemente tornito, dove intorno alla falange dell’anulare era sospeso, nero e isolato, il suo anello col sigillo ereditato dal nonno [...] e per la prima volta in vita sua si rese conto che sarebbe morto. Behrens disse: ‘Spettrale, vero? Eh, una punta di spettralità c’è davvero’”.
Si tratta di un passaggio sintomatico per diverse ragioni. Sia pur attribuendola a Castorp, esso descrive, con grande precisione, una delle prime immagine a raggi X realizzata da Röntgen, quella della mano dell’amico Albert von Kölliker, in cui, attorno allo scheletro “finemente tornito” delle dita, spicca un anello maschile. La meraviglia dell’eroe di Mann testimonia che, ai suoi esordi, lungi dall’essere considerata un semplice dispositivo clinico, la radiografia a raggi X rivestiva ben altri significati che toccavano la consapevolezza e la fisicità del soggetto. E, in effetti, la diffusione delle immagini radiografiche fu all’inizio accolta non tanto come un avanzamento nella scienza medica, quanto come una curiosità scientifica, e anche una tecnica artistica, in grado di far vedere l’invisibile, in un periodo in cui le innovazioni nel campo della riproduzione delle immagini si succedevano l’una all’altra con grande rapidità.
L’anno della scoperta di Röntgen, il 1895, infatti, coincide con quello dell’invenzione del cinematografo, ma anche con la prima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (antenata della futura Biennale d’arte) e con uno straordinario articolo di Georg Simmel sulla psicologia della moda. Moda, cinema, arte, sono altrettanti fenomeni legati alle immagini, intese non solo come rappresentazioni del reale, ma anche come rappresentazioni di noi stessi, e dunque della nostra identità. Possiamo perciò intendere queste invenzioni come altrettanti dispositivi, cioè strumenti che ci permettono di amplificare le capacità umane, ma, consentendoci di modificare la nostra visione del mondo, contemporaneamente modificano modo in cui vediamo e consideriamo noi stessi.
È questo il motivo per cui tutte queste invenzioni evidenziano un carattere ancipite e fortemente antinomico. Da un lato il cinema, come nota ottimisticamente Walter Benjamin, risponde al diritto di ogni uomo ad essere ripreso, dall’altro introduce una drammatica spaccatura all’interno del soggetto, come testimonia Varia Nestoroff, l’attrice russa protagonista del romanzo di Pirandello Si gira!, del 1913, che non si riconosce nelle immagini di se stessa sullo schermo. Allo stesso modo l’arte moderna - inaugurata appunto dall’esposizione veneziana - intesa come “evento temporaneo”, da un lato libera dal giogo della tradizione, ma dall’altro avvia un processo di destabilizzazione permanente nel fare creativo dell’artista; e infine, suprema contraddizione è quella che Simmel attribuisce alla moda, che, tramite la manipolazione dell’immagine offerta dall’abito, da un lato promette all’individuo di distinguersi dalla folla, e dall’altro risponde esattamente al bisogno opposto, quello di uniformarsi con la massa.
Questa discordanza diventa esplosiva nel caso dei raggi X. Scoperti quasi casualmente nel corso di una ricerca sui raggi catodici, solo in seguito vennero utilizzati per scopi diagnostici, in quanto in grado di osservare la struttura ossea al di sotto della pelle, ma quasi subito ci si rese conto della loro pericolosità per la salute. In pratica, i raggi X rendono evidente il paradosso epistemologico della modernità, la quale, nello sforzo di conoscere l’essenza al di là delle apparenze, finisce col contaminarla o persino per distruggerla. Questa ambiguità radicale riaffiora in un altro grande romanzo sul destino delle immagini, cioè L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, apparso non per caso nel 1940.
Il dispositivo di Morel consiste infatti in una macchina da presa e da proiezione in grado di restituire non solo l’apparenza visiva delle cose riprese, ma la loro consistenza, generando per così dire dei doppioni “tangibili” identici agli originali. Il solo difetto della macchina - ma è un difetto fatale - è che gli esseri viventi che ne subiscano le riprese patiscono effetti devastanti, e sono destinati in breve tempo a una morte certa.
Il valore politico della metafora di Bioy Casares, concepita alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, è evidente: la massima riproducibilità dell’esistente è anche ciò che ne cancella l’esistenza; la duplicazione perfetta della vita non è che un modo inconsapevolmente perfetto per creare un universo di morte. In un certo senso, la parabola del nazismo corre lungo binari paralleli a questi: la sua esaltazione inconsulta della vitalità superomistica, dell’agonismo estetico e della kalokagathia olimpica (così ben raffigurati nelle immagini sublimi dei film di propaganda di Leni Riefenstahl, come appunto Olympia, 1936) non è che l’altra faccia, la proiezione splendente e solare, dell’oscuro desiderio di morte, di distruzione e di annientamento che viene simbolicamente rappresentato, nelle uniformi dei dittatori, dall’icona del teschio.
E torniamo così alle ossa, il residuo incancellabile che viene messo in evidenza per la prima volta dai raggi X. Si dice che la moglie di Röntgen, Bertha, che fu in effetti la prima persona ad essere sottoposta a una radiografia dal marito, abbia mormorato, osservando l’immagine radiografica della propria mano, “ho visto la mia morte”. Aveva ragione - salvo che non si trattava della morte in senso tradizionale, come termine delle funzioni vitali, distacco del corpo dall’anima o semplicemente dissolvimento della materia nei suoi componenti atomici: ciò a cui la radiografia ci mette di fronte è piuttosto l’enigmatico carattere inorganico della nostra natura animale, il suo residuo ancestrale, quasi l’impronta scheletrica di un fossile, il sigillo della morte catturato però dentro un essere vivente. Questa presa di coscienza della nostra inconsapevole origine minerale ha effetti devastanti: ci si rende infatti conto non solo della nostra fragile natura mortale, ma anche del fatto contrario - reso possibile solo da una tecnica essenzialmente moderna come i raggi X - cioè dell’esistenza in noi stessi di qualcosa di alieno che ci sopravvivrà. Da qui l’elemento fantasmatico, ossia non-del-tutto-mortale, testimoniato dalla radiografia, cioè la “punta di spettralità” così ben individuata da Behrens, il medico di Castorp.
Il fatto che anche Hitler sia stato sottoposto, come milioni di altri pazienti, ad una indagine radiografica, potrebbe essere preso come un fatto del tutto normale. Ma cessa immediatamente di esserlo se pensiamo che lo stesso individuo è stato anche uno dei primi personaggi storici ad essere filmato e fotografato con una tale frequenza e una tale assiduità che non hanno precedenti. Tuttavia, mentre le fotografie e i filmati ci restituiscono un Hitler sempre presente a se stesso, sempre attentissimo a interpretare un ruolo pubblico divenuto in lui come una autentica “seconda natura”, le sue radiografie colgono un aspetto inedito e sconcertante della sua personalità. Guardarle è come osservare il fossile di un temibile Tirannosaurus Rex, il mostruoso dinosauro predatore del giurassico, il cui scheletro, anche se ridotto a una curiosità da Museo di scienze naturali, incute ancora timore. In esse cogliamo un Hitler che nemmeno Hitler sapeva di possedere, il suo estremo residuo umano, la struttura inorganica che testimonia due cose: sia il fatto che anche lui apparteneva - che gli piacesse o no - alla nostra specie -, sia il fatto che non ne era al corrente. Se c’è un’immagine che rappresenta il concetto benjaminiano di “inconscio ottico”, questa è certamente la radiografia di Hitler - cioè non la descrizione del suo inconscio psicologico (fin troppo scandagliato), ma l’istantanea del suo inconscio per così dire antropologico, la sua essenza “umana”, troppo umana, da cui certamente avrebbe desiderato liberarsi.
Non è un caso che uno dei più implacabili satireggiatori del regime nazista, cioè quel Helmut Herzfeld che cambiò il suo nome in John Heartfield in dispregio alle sue origini germaniche, abbia rappresentato nel 1932 il “vero” Hitler, utilizzando una radiografia in cui, sotto il volto del Fürher si vede il suo busto pieno di monete d’oro, in un fotomontaggio dall’ironico titolo Hitler Superuomo - ingoia oro e sputa schifezze.
Allo stesso modo, nell’operazione di Antonello Fresu, le riproduzioni ingigantite delle radiografie del Fürher e i suoi esami medici ci mettono di fronte a un enigma che certamente era enigmatico per Hitler stesso: come può un superuomo simile condividere con la vile razza umana la stessa misera impalcatura scheletrica?
L’aspetto spettrale che promana da queste gigantografie è fantasmatico in un duplice senso: da un lato perché accende in chi guarda la sensazione di un morire incompleto, che si lascia dietro il resto ineliminabile dello scheletro osseo; dall’altro perché questo scheletro appartiene veramente a un fantasma, anzi al peggior incubo possibile, quello dell’individuo più disumano di sempre, Adolf Hitler. Il sottile senso di inquietudine che ne promana è anch’esso quindi duplice perché da un lato riguarda genericamente la paura della morte, ma dall’altro concerne una paura ancor più radicale, cioè che lo spettro qui radiografato non sia veramente morto, e che la sua scheletrica presenza possa ancora, in un dato momento, rianimarsi.
Si dice che, poco prima di morire, Hitler abbia affermato che “bisogna eliminare l’ebreo che è in noi”. Un’affermazione ambigua e inquietante, che sembra far presagire il vero futuro dell’antisemitismo “classico” - cioè non tanto e non più solo lo sterminio di una “razza” considerata inferiore, e tuttavia esterna a quella superiore, ma la cancellazione dell’ultima traccia di altruismo all’interno del soggetto “superiore” stesso, la distruzione dell’umano all’interno del superuomo. La visione dell’installazione di Antonello Fresu fornisce una possibile risposta alla sconcertante affermazione di Hitler: ciò da cui egli avrebbe voluto liberarsi, senza per questo riuscirci, era proprio ciò che le sue radiografie ci permettono invece di vedere: il suo scheletro, il suo teschio, i suoi organi interni, così miseramente identici a quelli di chiunque. D’altra parte, queste immagini ricordano a tutti noi che liberarsi dal fantasma di Hitler ci è altrettanto impossibile che per lui liberarsi dal fantasma dell’ebreo interiore: lo spettro di questo “Hitler interiore” è dentro di noi come le nostre ossa e i nostri organi interni, ci appartiene più di quanto noi stessi non ci apparteniamo e incarna quel fantasma del Male da cui, anche nei nostri sogni più radiosi, continuiamo a essere ossessionati.
* Marco Senaldi (Artribune, 25,01,2019)
Radiografie e battiti del cuore va in mostra il corpo di Hitler
Si inaugura a Carpi il controverso allestimento curato dallo psicoanalista Antonello Fresu
di Marco Belpoliti (la Repubblica, 26.01.2019)
Hitler a Carpi? Cosa ci fa la radiografia del capo nazista nella Sala dei Cervi dell’antico Palazzo dei Pio insieme al battito tambureggiante del suo cuore?
Hitler è morto suicida il 30 aprile 1945 nel bunker della Cancelleria di Berlino. Il suo corpo fu cosparso di benzina e bruciato, quindi la salma carbonizzata sepolta insieme ai resti di altri cadaveri irriconoscibili. I soldati sovietici cercarono il corpo del dittatore, fino a che rinvennero un osso mandibolare e due ponti dentari; presentati al suo odontotecnico, Fritz Echtmann, furono identificati grazie alla cartelle cliniche. Nonostante questo, restò l’ipotesi che fosse ancora vivo e nascosto da qualche parte, una leggenda che circolò negli anni ’50 e ’60. Nel 1945 l’esercito americano realizzò un dossier sul capo nazista utilizzando le cartelle cliniche del suo medico, Theodor Morrell: 47 pagine che contenevano la radiografia del cranio del leader e alcuni elettrocardiogrammi, intitolate Investigation into whereabouts. Nel 1983 sono state rese accessibili insieme alle ricerche dell’Fbi per "ritrovare" il dittatore.
Antonello Fresu, psicoanalista junghiano, ha usato quelle pagine e realizzato l’installazione Der Körper che s’inaugura oggi nello spazio del castello di Carpi sotto l’egida della Fondazione Fossoli (fino al 31 marzo). Nella prima stanza buia appaiono le imponenti radiografie del cranio di Hitler, alte tre metri, retroilluminate: sono fantasmi neri su fondo bianco, e insieme impressionanti opere grafiche, il cui significato luttuoso appare subito evidente.
Nella seconda sala i referti clinici analizzati da specialisti medici di oggi, come si trattasse di un paziente qualsiasi, mentre sulla volta appaiono parate naziste, Hitler che arringa la folla e raduni militari. Nella terza stanza sono riportati i documenti del dossier americano, mentre nella quarta, e ultima, su uno schermo compare la simulazione del battito del cuore e un elettrocardiografo dell’epoca emette il tracciato di quell’esame clinico in presa diretta: si attiva appena le persone entrano nella sala come un misterioso saluto di benvenuto.
L’idea di Fresu, attento indagatore dell’Ombra, per dirla con Jung, ha qualcosa d’inquietante: stende un mantello di nere tenebre in questo luogo e obbliga i visitatori a incontrare, come scrive Marco Senaldi in un testo che apparirà nel catalogo della mostra, a guardare il fossile di un Tirannosaurus Rex, il cui scheletro è stato conservato e trasformato in curiosità espositiva da Museo di Scienze Naturali. Già di per sé le radiografie sono qualcosa di conturbante, e queste di grandi dimensioni, anche senza sapere che appartengono al cranio di Hitler, inquietanti. Pare che la moglie dell’uomo che ha inventato questo metodo d’indagine, Wilhelm C. Röntgen, dopo essere stata sottoposta alla prima radiografia, abbia detto: ho visto la mia morte. Questi light box contengono una doppia morte: quella del paziente Adolf Hitler e quella del dittatore che ha provocato la più immane catastrofe del XX secolo. Un uomo e insieme il peggior criminale della storia. È come se, per una nera magia, il doppio corpo del Re, per dirla con Ernst Kantorowicz, corpo materiale e corpo sacrale, corpo che muore e quello che invece si trasmette sotto forma di regalità, si fossero ricongiunti per un imponderabile maleficio. Fresu, nel suo doppio ruolo di psicoanalista e di artista, ha messo in mostra un’ombra e il suo fantasma. Come se i fantasmi potessero avere un’ombra. Batte il cuore di uno spettro mentre i soldati camminano a passo dell’oca sulle volte ricurve del Castello.
Spettro perché, mentre i fantasmi sono bianchi, Hitler è nero, anzi nerissimo. Il capo nazista è stato e resta un enigma. Il suo maggior biografo, l’inglese Ian Kershaw, s’è chiesto come un uomo così bizzarro abbia potuto prendere il potere in uno Stato moderno com’era la Germania dell’inizio del XX secolo. Dotato di grandi abilità demagogiche e di una capacità straordinaria di sfruttare le debolezze dei suoi avversari, Hitler resta un mistero per chi l’ha indagato: di quali poteri era dotato per riuscire a trascinare le classi dirigenti tedesche in un’avventura così nefanda e disastrosa? Risposta non c’è. Salvo ricorrere alla metafisica del Male, o a spiegazioni che esorbitano dalla nostra comprensione razionale. Der Körper bordeggia quello spazio irrazionale, lo lambisce e per questo scuote il visitatore, lo mette in allerta. Persegue questo scopo e anche quello di indicare che Hitler era un uomo come noi, che aveva un corpo simile al nostro: era normale. Non era un mostro?
Possibile? Il concetto di "mostro" non è facile da maneggiare; fa vacillare, perché spiega qualcosa d’inspiegabile. Primo Levi, al termine del suo I sommersi e i salvati, sostiene di non aver mai incontrato dei mostri nel lager, solo degli uomini che erano stati educati male. L’arcano di Hitler resta irrisolto.
La mostra è elegante e la sua provocazione colpisce. Tra tutti i dittatori del XX secolo, Hitler era quello che sembrava avere meno corpo di tutti; lo nascondeva persino ai propri intimi: nessuno l’ha mai visto a torso nudo. Come aveva detto Jung, intervistato da un giornalista americano, poco dopo la sua ascesa al potere, quello che colpiva era prima di tutto la voce del dittatore, la vibrazione isterica che conteneva, una voce che stregava milioni di tedeschi e li coinvolgeva. Come controcanto a questa ostensione fantasmatica della testa e del cuore del dittatore funziona la voce tremenda di Hitler che echeggia nelle sale, una voce uscita da un corpo così piccolo e modesto, che non riusciamo a dimenticare, e che come uno spettro circola ancora oggi per l’Europa dei suoi tardi, assurdi e fanatici ammiratori.
Letteratura.
La poesia indaga l’abisso della Shoah
Giovanni Tesio raccoglie un’ottantina di poesie dedicate al dramma dello sterminio ebraico
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, sabato 19 gennaio 2019)
Una donna ha i capelli d’oro, l’altra ha capelli di cenere: le parole non possono raccontare quello che c’è in mezzo, non riescono a popolare il vuoto che separa Margarete, perduta all’amore per Faust, da Sulamith, la sposa del Cantico dei Cantici. Le parole possono però testimoniare, anche con il silenzio e con la reticenza, specialmente con il pudore. Sono versi famosissimi, questi di Paul Celan in Fuga di morte, e non stupisce ritrovarli nell’antologia di «voci poetiche sulla Shoah» allestita da Giovanni Tesio per Interlinea con il titolo Nell’abisso del lager (pagine 292, euro 18,00).
Un libro che in un certo senso esisteva già, ma in forma invisibile, disperso in altri libri e in altre antologie. Solo adesso viene finalmente in superficie grazie al lavoro attento e appassionato di Tesio, italianista e poeta a sua volta, oltre che narratore con il recente Gli zoccoli nell’erba pesante (Lindau).
A parte l’inedito di Gianni D’Elia riprodotto in questa pagina, i testi di Nell’abisso del lager erano già disponibili per il lettore italiano, talvolta in sedi non immediatamente accessibili. Mancava però un inquadramento complessivo che permettesse di ricostruire la storia di questo che non è affatto un genere letterario: semmai un avvenimento che attraversa la letteratura del Novecento e la trasforma per sempre, travolgendo anche chi dall’esperienza storica dei campi nazisti non è stato toccato di persona. È la distinzione, fondamentale nella struttura del volume così come Tesio l’ha concepito, tra le «voci dal lager» e le «voci del lager» (il corsivo è mio), tra quelli che a Buchenwald o a Birkenau ci sono stati veramente e quelli che, pur senza esservi stati imprigionati, hanno ugualmente bevuto il «latte nero dell’alba», per citare ancora una volta Celan. Il punto di partenza è una pietra d’inciampo, e non potrebbe essere altrimenti.
Che dopo Auschwitz fare poesia andasse considerato un atto di barbarie era, com’è noto, la posizione di Theodor Adorno, alla quale Primo Levi contrapponeva la necessità di permettere che la poesia sopravvivesse all’“ora incerta” dello sterminio e dell’orrore. Lui stesso, Levi, era diventato scrittore (e poeta) proprio ad Auschwitz, rispondendo a un’urgenza tutt’altro che letteraria. «Se ne scrivono ancora» è l’incipit di una celebre poesia di Vittorio Sereni, I versi, nella quale si ammette che «No, non è più felice l’esercizio».
Ancora più perentorio è il francese Mathieu Bénézet, nato nel 1946, fuori dai limiti cronologici della Shoah. In Quel che dice Euridice dimostra come la convinzione che la poesia non sia più « possibile » si fonda su un equivoco, dato che «non esiste poesia possibile» (questa volta i corsivi sono dell’autore): «Non dimenticare sempre la poesia / conobbe / l’Inferno», ripete Euridice, che qui diventa figura di ogni vittima e di ogni sopravvissuto. Sono, questi che abbiamo citato, solo alcuni dei poeti presenti in Nell’abisso del lager. Tesio ne accoglie un’ottantina, non senza qualche rinuncia, considerato che l’ombra della Shoah si proietta a lungo e in contesti spesso imprevisti.
Non mancano, anche in ambito italiano, le occasioni per riconsiderare la consistenza di un canone che rimane mobile e contraddittorio, drammatico per definizione. Una sola, per esempio, è l’occorrenza del dialetto ( Donne di Ravensbrück del piemontese Carlo Regis), mentre colpisce il ricorso a soluzione auliche come «Deh taci» da parte di Bruno Lodi, autore di un autobiografico Voce del “Lager” andato in stampa già nel 1946. Da parte sua, Quinto Osano - i cui «ricordi e pensieri di un ex deportato» usciranno solo all’inizio degli anni Novanta - fa tesoro della lezione di Palazzeschi adoperando come ritornello un verso onomatopeico, «Tu tum, tu tum, tu tum, tu tum», che rimanda al rumore del treno diretto a Mauthausen.
Testimoni anche loro, in ogni caso, al pari di poeti più grandi e riconosciuti, da Giorgio Caproni a Pier Paolo Pasolini, da Franco Fortini ad Antonella Anedda, da Mariangela Gualtieri a Mario Luzi, fino all’indimenticabile «preghiera trafitta dall’elevazione» intonata da Elsa Morante: «Per il dolore delle corsie malate / e di tutte le mura carcerarie / e dei campi spinati, dei forzati e dei loro guardiani, / e dei forni e delle Siberie e dei mattatoi / e delle marce e delle solitudini e delle intossicazioni e dei suicidi / e i sussulti della concezione /e il sapore dolciastro del seme e delle morti, /per il corpo innumerevole del dolore /loro e mio...».
Non meno vasto e accidentato è il paesaggio che si apre al di fuori dei confini italiani. Nell’abisso del lager dà spazio a Nelly Sachs e a Else Lasker-Schüler, a Jean Cayrol e a Yves Bonnefoy, a Hilde Domin e alla Sylvia Plath di Lady Lazarus, dalla «pelle / splendente come un paralume nazista», ma a fianco di questa costellazione già nota e si avvistano autori non ancora abbastanza apprezzati, come l’israeliano Dan Pagis, al quale si deve il fulminante Scritto a matita in un vagone piombato: «Qui in questo convoglio / Io sono Eva / Con Abele mio figlio / Se vedete il mio figlio maggiore / Caino figlio d’Adamo / Ditegli che io».
La poesia non racconta, appunto. La parola non può dire. Ma dopo Auschwitz è necessaria più che mai, come la «farfalla di Buchenwald» cantata da Zoka Velichova, visione che «si libra spensierata nell’abisso». «I miei ricordi sono solo cenere - aggiunge la poetessa - sull’ali iridescenti della polvere».
Figura del Macello
Come il diretto che risfiora il mare
Ripreme il passo la terra contro sé
Ma non può fare a meno d’inquadrare
Il tufo giallo che insegue chi non è
O chi se c’è di là non riappare
Dai carri piombati nel fosco rullare
Rugginoso a zaffate d’un treno bestiame
Ecco rifrana il Fosso Seiore e traspare
E sa di musi nebbiosi incollati alle rare
Sbarre ai cigolanti cerchi ai rinchiusi
Mugli in vapori d’un macellar secolare
Che già bastò puerili castelli a spazzare
E dunque non è vero che il bello è sempre
Nelle care cose che ci calmano
La cattedrale di foglie di un albero
O le squame di luce del mare largo
Se un lento treno merci a agosto esausto
Basta a evocare il più infame olocausto?
(1991) (2016)
Gianni D’Elia
Donatella Di Cesare
La filosofia come vocazione a rompere il silenzio
di Francesca Rigotti (Il Sole Domenica, 02.12.2018)
«Quando il gallo canta, solo o in un’orchestra solitaria e distante, sembra che voglia rompere qualcosa...Il canto del gallo irrompe e spalanca, in modo decisivo, le porte e il cammino della storia». Le parole di María Zambrano (in Dell’aurora, 1986) mi risuonano nella testa, pensando a questo libro di Donatella Di Cesare, insieme a quelle di Max Weber (ne La scienza come professione, 1919): «Una voce grida da Seir in Edom: sentinella quanto durerà la notte? Verrà il mattino - risponde la sentinella - ma è ancora notte». Entrambi gli autori evocano infatti situazioni di veglia e la veglia, commenta a sua volta Di Cesare, è «il preludio della filosofia».
Nella veglia, nell’attesa della luce chiara del giorno, che desta stupore, canta il gallo: quel gallo che Socrate dopo aver bevuto la cicuta chiede venga sacrificato ad Asclepio, come riportano le ultime battute del Fedone. Il gallo, animale di sacrificio da immolare allo scopo di celebrare la guarigione dalla malattia del vivere. Il gallo, animale della soglia tra oscurità e chiarezza, veglia e sonno, animale del limite dunque, come le domande-limite della filosofia, che stanno sul punto del limite per valicarlo e uscirne fuori.
La filosofia - dice l’intenso saggio di Donatella Di Cesare, proponendo una riflessione sul ruolo di tale forma e disciplina del pensiero e cercando di darne una definizione - si affaccia sulla soglia e guarda oltre, per esempio nelle «profezie del salto» di Marx e Kierkegaard, filosofi divergenti quanto speculari nel loro salto, verso l’esteriorità Marx, rivolto all’interiorità Kierkegaard.
Anche se il titolo potrebbe trarre in inganno, lasciando immaginare filosofi sulle barricate, Di Cesare non sostiene certamente la coincidenza tra filosofia e politica, né quella tra filosofia e democrazia e nemmeno la priorità della democrazia sulla filosofia, come suona il titolo di un saggio di Richard Rorty. Ciò cui qui si dà luogo, si apre spazio, è il tema della vocazione la quale è chiamata, voce, invocazione, canto, canto del gallo che con la sua potenza sonora rompe il silenzio, apre la porta ed e-voca, ovvero, letteralmente «chiama fuori».
Serve a qualcosa questo richiamo, ha utilità pratica, porta profitti e guadagni, risolve problemi? A quest’ultimo aspetto provvede lo scienziato, commenta Di Cesare, riconoscendo alle scienze capacità e ruoli precisi. Cortesia non ricambiata da Edoardo Boncinelli che invece nella sua requisitoria dal titolo La farfalla e la crisalide (Milano 2018) infierisce crudamente (e gratuitamente) sulla filosofia, accusandola di rifiutarsi di capire che a partire dalla nascita e dall’affermarsi della scienza sperimentale il suo ruolo si è esaurito, anzi è diventato frenante, negativo, tossico.
La scienza, riconosce Di Cesare, percorre la via regia verso la soluzione dei problemi e l’appagamento progressivo della conoscenza. Ma la filosofia precede la scienza, e non certo per tirarsi indietro e autodistruggersi nel momento di separarsi da quella, come la crisalide che, dopo essersi aperta per lasciar uscire la farfalla, si secca e perde la sua funzione. Che l’analogia proposta da Boncinelli non sia valida, proprio come non fu valida, ce lo illustra lui stesso, l’analogia della struttura dell’atomo con quella del sistema solare, dal momento che troppe specificità atomiche trascurava e oscurava?
La filosofia di cui Di Cesare parla con passione e trasporto ha un movimento alato, verticale, lungo il quale si muovono quei «sublimi migranti del pensiero» che sono i grandi filosofi persino, nonostante Boncinelli, post-galileiani. Eppure da quella posizione eretta la filosofia riesce pure a inclinarsi - sia reso omaggio a Adriana Cavarero - con un gesto di attenzione e cura, verso la polis, per risvegliare la comunità assopita nel sonno individuale, e qui Di Cesare segue le intuizioni e le immagini mentali di Walter Benjamin.
Non è un caso dunque che l’autrice affidi il compito politico della filosofia alla poesia, come fu il caso di Dante, poeta e pensatore dell’impegno politico che prese partito e si espose pubblicamente. Come non è un caso il fatto che il poetare e l’impegnarsi politicamente si incontrino e si fondino nella etimologia dei termini in gioco tedeschi, latini e greci. Comporre poesia in tedesco, commenta Di Cesare, si dice dichten (dal latino dictare), ma dichten sta anche per condensare, addensare.
Lo stesso significato, aggiungo, del termine impegno (dal lat. pignus), legato ai significati del verbo latino pango e di quello greco pègnymi, vale a dire addensare, consolidare, coagulare; che è quel che fa la parola politica quando si incarna nell’impegno o introduce il patto e la pace. Questo mentre i filosofi non dovrebbero fare a meno di intervenire politicamente nel mondo, eventualmente dalla posizione anarchica, quella di Di Cesare, svincolata dal potere e dal comando - uno dei significati del greco archè - ma non dagli altri suoi non meno pregnanti significati, origine e principio.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ALL’OMBRA DELL’UOMO DELLA PROVVIDENZA -- «La farfalla e la crisalide», Edoardo Boncinelli, e l’Accademia del Cimento.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
FILOSOFIA, ARITMETICA, E ANTROPOLOGIA. I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE ... *
Discussioni
Il lato matematico di Platone
Così Reale recuperò i Greci
Esce una raccolta di studi del grande antichista italiano, difensore dei classici contro la visione scientista e il disprezzo diffuso per la teoria. La concezione delle idee come principi numerici, il primato della dottrina non scritta
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 25.11.2018, p. 11)
Nel corso degli anni Novanta, quando la filosofia analitica, quella che si concepisce come analisi logico-formale, aveva raggiunto il suo apice, c’era chi aveva cominciato a gettare discredito sul pensiero antico, nonché ovviamente sullo studio della lingua greca e di quella latina. A che pro studiare quel capitolo chiuso e concluso? Perché perdere tempo con Platone anziché risolvere i problemi attuali?
In quel delicato frangente, che ha lasciato segni evidenti altrove, Giovanni Reale (scomparso nel 2014) ha svolto in Italia un ruolo decisivo a difesa della filosofia classica. Ne è testimonianza il volume Storia della filosofia greca e romana che, appena pubblicato da Bompiani, raccoglie gli studi del grande antichista in un percorso suggestivo che va dai primi frammenti, risalenti almeno al VI secolo a.C., fino al decreto con cui l’imperatore bizantino Giustiniano chiuse nel 529 d.C. tutte le scuole dell’Impero guidate da pagani. Oltre mille anni di storia della filosofia narrati con perizia, sapienza, semplicità.
Reale ha lavorato a quest’opera per quattro decenni, intendendola quasi come un commento e un supporto alla fortunata collana del «Pensiero occidentale», dove sono usciti in edizione italiana, con testo a fronte, numerosissimi classici.
Il richiamo a Martin Heidegger è significativo. L’inizio greco non è destinato ad essere superato in grandezza dalle altre epoche. Al contrario: la filosofia dei Greci è la più grande. E la filosofia è prettamente greca. Perciò è peculiarità dell’Occidente; non esiste in altre tradizioni nulla di paragonabile. Da un canto Reale punta l’indice contro lo scientismo, che pretenderebbe di misurare la filosofia con i criteri della scienza, dall’altro denuncia il dilagante disprezzo per la «teoria» che non servirebbe alla vita pratica. Occorre guardare alla filosofia greca dove la teoria è una forma di prassi. Come sostiene Aristotele nella Politica, attivi al più alto grado sono coloro che esercitano un’attività di pensiero; tanto più che theoreîn non significa solo «vedere», ma anche «partecipare».
Reale si riconosce nell’ermeneutica di Hans-Georg Gadamer che, rilanciando l’insegnamento di Heidegger, ribadiva l’attualità del pensiero greco. Erano gli anni in cui il conflitto con la filosofia analitica veniva letto secondo il paradigma: «Noi greci, loro moderni». Ma la ripresa della riflessione antica non è antiquaria. Se la filosofia è indissolubilmente legata alla sua storia, questa storia non segue la freccia del progresso. Ecco perché, nell’apertura circolare di un dialogo, ammette e, anzi, sollecita la partecipazione. Al contrario di quel che avviene nella scienza, le domande della filosofia sono sempre le medesime, solo poste in modo differente. In tal senso l’incontro con la filosofia greca è «l’incontro con noi stessi».
Nata nelle vie e nelle piazze della pólis, dove il cittadino è chiamato alla vita politica, la filosofia si sviluppa lungo il filo conduttore del lógos, del discorso, dell’argomentazione, della ragione. Ma per Reale ciò che contraddistingue la tradizione greca è la metafisica, quel modo di pensare oltre i dati sensibili della realtà presente. Ne scorge le tracce già nell’orfismo, in quella iniziale religiosità ascetica, che per la prima volta parla di un che di «divino», che alberga nel corpo umano, cioè l’anima, la psyché. La morte è una liberazione dalla prigione del corpo, un ritorno all’origine dopo le sofferenze patite in terra. Questa potente dottrina della trasmigrazione delle anime, scaturita dalla fantasia orfica, capace di dischiudere l’aldilà, si sarebbe poi innestata nel cristianesimo.
Protagonista del volume è Platone, in cui Reale riconosce il «vertice del pensiero antico». È stato infatti il primo filosofo a guardare la realtà con «nuovi occhi», quelli dell’anima. Reale ricorda la «seconda navigazione» descritta da Platone nel dialogo Fedone. A parlare è Socrate, deluso dall’indagine sui fenomeni naturali; il suo timore è che, seguendo coloro che si volgono immediatamente alle cose, pretendendo di coglierle con i cinque sensi, finisca per accecare la propria anima. Si prepara allora alla «seconda navigazione», metafora del linguaggio marinaresco, che indicava il caso in cui, non essendoci più vento, la nave poteva essere spinta solo dai remi.
Questo è il passaggio decisivo dal sensibile all’intellegibile, dalla conoscenza che si accontenta dei sensi a quella che si innalza alle idee, intese da Platone come le «forme» delle cose. In questo varco metafisico sta per Reale il vero inizio della filosofia. Le idee sono principi formali, numerici, sono anzi numeri ideali.
Vale la pena ricordare che Reale aderì alla Scuola di Tubinga, le cui figure più significative furono Konrad Gaiser, Hans Krämer, e in seguito Thomas A. Szlezák. L’insegnamento di Platone non può essere confinato agli scritti, ma va ricercato piuttosto nella dottrina «non scritta» trasmessa, fra gli altri, anche da Aristotele.
Ne risulta una filosofia sistematica e fortemente matematizzata, dove assume rilievo la riflessione sull’uno, ma soprattutto sul due - che cosa significa due? - sulla diade infinita, «principio e radice della molteplicità degli esseri».
Anche chi non ne condivida i contenuti, dovrà ammettere che questa interpretazione, di cui Reale è stato il maggior esponente in Italia, ha aperto nuove vie di ricerca.
L’ammirazione per Platone, il grande pioniere del soprasensibile, non impedisce a Reale di scrivere pagine eccellenti su Aristotele, dalla fisica all’etica, dalla logica alla poetica, ricostruendo la portata epocale del suo pensiero. Ma a segnare una cesura, capace di ripercuotersi sulla filosofia, è il tramonto definitivo della pólis nel tempo di Alessandro Magno. Al cittadino subentra il suddito e, mentre vengono meno le antiche passioni, ciascuno è rinviato a se stesso e alla propria individualità in un mondo dove l’etica si scinde dalla politica, come attestano le scuole filosofiche successive.
Il volume contiene un’ultima parte in cui, da Filone d’Alessandria ad Agostino d’Ippona, viene delineato l’incontro fra tradizione ebraica e filosofia platonica, da cui sarebbe scaturito il cristianesimo. Particolare risalto assumono anche le figure di Plotino e di Proclo.
Viene prospettata allora una «terza navigazione», quella che non si ferma all’oltresensibile delle idee, alle forme immutabili, ma si apre agli imponderabili misteri della fede.
Si legge qui in filigrana il cammino sia intellettuale sia autobiografico di Reale, molto improntato, in particolare negli ultimi anni, a un’ispirazione religiosa. L’oltre della metafisica, che riteneva di non trovare più nel mondo attuale, ha improntato la vita contemplativa di questo grande maestro.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.... *
Alle radici della crisi attuale
Quando Nietzsche seppellì l’Occidente
Come in biologia ogni civiltà è un organismo che nasce cresce e muore
E il canto del cigno della nostra ha un volto:quello del filosofo tedesco
I primi sintomi di malessere collettivo si ebbero a metà ’800, con le tesi di Feuerbach, Stirner e Marx
Ma fu l’autore della "Gaia scienza" e di "Ecce homo" a fare piazza pulita di fedi, sistemi, tradizioni e istituzioni
di Sossio Giametta (la Repubblica, 17.11.2018)
Quest’anno si è celebrato il centenario della fine della Prima guerra mondiale (1914-1918). Su questo sono fioriti, in aggiunta alla pletora che già c’era, articoli, servizi, saggi e studi di ogni tipo; sono state rinnovate le analisi delle cause lontane e vicine, delle occasioni scatenanti e delle funeste, ramificate conseguenze, coi prodromi, gli appigli e gli agganci alla Seconda guerra mondiale. Tuttavia nessuno storico è stato in grado di pervenire alla causa originaria delle due guerre e di tutto lo scatafascio che esse hanno comportato. E ciò per la ragione fondamentale che questa causa è metastorica, affonda le radici nella biologia e richiede la partecipazione della filosofia.
L’indagine storica non basta a far capire quello che l’Europa e il mondo hanno fatto e subito in tale periodo: le due più grandi catastrofi della storia.
Un organismo è un’unità in cui il principio vitale - una forza unificante di natura sconosciuta e inconoscibile - stringe insieme una pluralità di forze individuali contrastanti, tendenti ciascuna alla supremazia, in un’unità superiore. Si immagini il nostro organismo, con le cellule che lo compongono. Ogni organismo ha nascita, sviluppo, decadenza e morte. Nelle prime fasi di vita, cioè nella parabola ascendente, la forza unificante, che è forza collettivizzante (strumentalizza gli individui in funzione della collettività) è al suo massimo, come la forza vitale stessa, con cui si identifica. Nella parabola discendente, allenta la sua presa, mentre aumenta la forza individualizzante, cioè la forza dei singoli individui tra loro contrastanti. Ne consegue una tendenza dell’organismo a disgregarsi. Alla fine la forza unificante cede, e nell’organismo si crea una polarizzazione tra le tendenze opposte, che si compattano agli estremi. È il preludio della fine.
Le civiltà, le religioni sono soggetti storici al di sopra degli individui che ne fanno parte. I membri di questi grandi soggetti storici sono organizzati in funzione dell’organismo di cui fanno parte allo stesso modo degli organi del corpo umano. Più sono i membri che li compongono e più ampia è l’articolazione e diversificazione della civiltà o della religione.
Dunque il numero dei loro membri (gli individui) è importante. Che le civiltà, le Kulturen, siano organismi, è stato teorizzato da Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente, coevo alla Prima guerra mondiale. In quanto organismi, le civiltà sono soggette al nascere e al perire, come tutto ciò che esiste, compreso l’universo che conosciamo, e tendono a vivere e a svilupparsi secondo la loro legge interna. Cioè pur essendo condizionate dalle circostanze storiche e geografiche, esse non ne sono determinate e si sviluppano in maniera autonoma, come gli uomini stessi, che possono vivere la loro vita negli ambienti più disparati, e in mezzo alle circostanze storiche più svariate, obbedendo soprattutto alla loro legge interna.
Il grande organismo storico alla cui agonia e fine a noi anziani è toccato assistere, è la civiltà occidentale, cioè la civiltà cristiano-europea fondata dal cristianesimo in contrasto dialettico con la civiltà antica, ma in seguito integrata dagli Stati laici, figli del Sacro Romano Impero. Le Kulturen hanno una gioventù, una maturità e una vecchiaia. In vecchiaia diventano, detto nel tedesco di Spengler, Zivilisationen, detto in italiano, civiltà stramature. Esse brillano un’ultima volta prima di sprofondare nella morte e nella decomposizione. Ma ciò non per colpe e vizi, come si crede, ma per compiutezza e sazietà.
Rispetto alle altre nazioni europee, la Germania, divisa e arretrata, esplose in ritardo. Nell’alta marea che ne seguì Hegel, con lo spirito assoluto e un sistema che comprendeva tutti i sistemi e dava senso divino (umanizzato) alla storia, diede la carica ai tedeschi, come «parte razionale dell’Europa».
L’Uebermut, un senso titanico di forza e di superiorità, salì alle stelle, grazie anche all’apporto di Fichte e Schelling. Sarebbe cresciuto sempre più, fino al delirio nazista. Hegel era amico e protetto di Goethe, ma ne tradì il messaggio di misura (nella poesia Prometeo, Goethe si vanta di aver sconfitto der Titanen- Uebermut, la superbia dei titani). Per lui «classico è ciò che è sano e romantico ciò che è malato».
Hegel mise il romanticismo al di sopra della classicità. Goethe predicava la natura, di cui l’uomo è piccolissima parte, Hegel lo spirito. Goethe censurò la troppa importanza data all’individuo e disse che senza la morale lui non era niente. Hegel negò la morale per dare risalto all’etica. Ma quando si arriva al vertice, è prossima la caduta. Già negli anni Quaranta dell’Ottocento esplose, nel segno dell’antihegelismo, la più grande avvisaglia della crisi della quasi bimillenaria civiltà europea, con i giovani hegeliani di sinistra: Feuerbach, Ruge, Marx, Stirner, Bauer, poi Schopenhauer; in Danimarca Kierkegaard. La crisi raggiunse l’acme nella seconda metà dell’Ottocento e fu incarnata soprattutto da Nietzsche.
Contrariamente a quello che credeva di essere: il pensatore più indipendente e inattuale della sua epoca, Nietzsche era inconsapevolmente tutto e solo attualità, una creatura della crisi.
Trasferì verso la Grecia arcaica e dionisiaca le correnti selvagge della sua epoca, sicché alla fine la Grecia risulta essere soprattutto un alibi. Nietzsche fece piazza pulita di sistemi e costumi, morali e religioni, tradizioni e istituzioni, per cui gli rimase solo la natura col suo vitalismo selvaggio. In tal modo costruì nell’empireo della filosofia quello che sarebbe diventato il cuore del fascismo-nazismo. Questo fu l’ultimo colpo di coda dell’Occidente prima di perdere il primato alla fine della Seconda guerra mondiale.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI... *
L’inversione della colpa
Heidegger dopo Hitler
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 04.11.2018)
Fra qualche giorno sarà finalmente disponibile anche nelle librerie italiane il volume Note I-V dei Quaderni neri, edito da Bompiani. Si tratta delle pagine più discusse e controverse di Martin Heidegger, che vanno dall’estate del 1942, quando sul fronte orientale comincia a profilarsi la sconfitta della Germania, ai difficili anni del dopoguerra, fino al 1948.
La pubblicazione di questo volume, che è il numero 97 delle opere complete nell’edizione tedesca, si deve alla competenza e alla tenacia di Alessandra Iadicicco, eccellente traduttrice di letteratura tedesca, ma anche profonda conoscitrice della filosofia, capace di rendere con fedeltà estrema anche le parole e i composti più complicati, senza per questo deturpare l’italiano - come purtroppo fanno alcuni. Il risultato è un testo elegante, leggibilissimo, che ha al contempo il pregio di essere per così dire trasparente, rinviando di volta in volta il lettore all’originale tedesco, ai suoi echi semantici, alle suggestioni concettuali, che altrimenti andrebbero perduti.
Tanto più sorprendenti appaiono le polemiche sorte intorno alla traduzione di alcune parole tedesche, polemiche che, oltre a ritardare l’uscita di questo volume dei Quaderni neri, stavano per metterne a repentaglio la pubblicazione. L’esempio più eclatante è Judentum, «ebraismo». Come altrimenti si dovrebbe rendere? Christentum si traduce «cristianesimo». E dunque?
L’accusa mossa a Iadicicco è quella di essersi prestata ad una sorta di «falsificazione». Meglio sarebbe stato - evidentemente al fine di edulcorare il testo - scegliere per Judentum la parafrasi «carattere ebraico», o addirittura (ma non è molto più grave?) «spirito giudaico». Casi analoghi sono Judenschaft, reso giustamente con «ebraicità», Verwüstung, «desertificazione» (Wüste in tedesco vuol dire «deserto»), Reinigung, «purificazione», e infine il composto oramai famoso Selbstvernichtung, quella nuova figura politica introdotta da Heidegger proprio nel volume 97 per definire la Shoah (ma non solo). Dato che selbst è il pronome che indica «sé», «da sé», «stesso» e Vernichten significa «annientare», come si dovrebbe tradurre Selbstvernichtung se non «autoannientamento»?
Si tratta di polemiche pretestuose, riprese da una stampa che talvolta esprime giudizi grossolani, senza mai entrare nel merito delle questioni. A che pro studiare i Quaderni neri? E perché poi darsi pena di considerare Essere e tempo? Basta farsi paladini di un Martin Heidegger fantasmatico e inesistente, ridotto a mero alibi, appiglio per colpire quegli «intellettuali» che continuano ad esercitare la cultura nel segno della critica e della riflessione. La filosofia non è affatto una partita di calcio. E il gioco del pro e del contro serve soltanto a non pensare.
Coloro che avranno la pazienza e l’umiltà di leggere le pagine dei nuovi Quaderni neri saranno proiettati negli anni più bui della storia tedesca. Lo spaccato è tanto più coinvolgente, in quanto a narrarlo e a descriverlo è il grande filosofo del Novecento. Quasi rivolgendosi alle generazioni future Heidegger raccoglie sentimenti, pensieri, ansie di un popolo sconfitto di cui, a suo modo, interpreta il risentimento, articola i timori e le aspirazioni. Numerosissimi sono i temi che si succedono con ritmo incalzante.
Nelle Note I, che comprendono l’ultimo tragico periodo bellico, e quindi la sconfitta, prevalgono le valutazioni politiche, rese più ardue dallo «smarrimento» che assale anche Heidegger. Tra le righe si leggono gli effetti di Stalingrado. La storia sembra aver preso un corso imprevisto e forse irreversibile. Che ne sarà della Germania? «Vegliare e proteggere»: sono i verbi che Heidegger suggerisce nel periodo del lutto. Ma di questo è certo: «Il tempo dei tedeschi non è ancora trascorso», sebbene non sia chiaro quale sarà il loro futuro. Il pericolo più grande, sottolineato con forza, è il «tradimento» dell’essenza tedesca. Quel popolo ferreamente coeso, che fino all’ultimo ha combattuto senza mai capitolare, rischia di autodistruggersi per via di una forma subdola e ignobile di infedeltà a sé stesso indotta dalla rieducazione a cui gli Alleati vorrebbero costringerlo. Così i tedeschi potrebbero finire per credere di essere dalla parte della colpa. Heidegger fa corpo con il suo popolo, senza nessuna distanza. Il naufragio della Germania è il suo naufragio.
L’atteggiamento è opposto a quello assunto da Karl Jaspers, l’amico di un tempo, che già nel 1946 con il suo pamphlet La questione della colpa denuncia la responsabilità criminale, politica, morale, metafisica della Germania. Nelle Note I e II Heidegger mette addirittura sotto accusa Jaspers. «Come può un uomo, fosse pure un affermato erudito di filosofia - presumere di ragionare sulla “colpa”»? Jaspers tradisce e induce al tradimento. Alla Schuldfrage, la «questione della colpa», Heidegger replica con la Weltschande, la «vergogna mondiale», che minaccia il popolo tedesco, additato a vera «vittima» in una strategia difensiva che mira a invertire i ruoli.
D’altronde Jaspers appare ai suoi occhi doppiamente colpevole. È stato lui a scrivere nel dicembre del 1945 una lettera che, anziché aiutarlo, ha contribuito in modo decisivo a impedire la sua riabilitazione e a sancire anzi, il 19 gennaio 1946, l’allontanamento dall’università. Heidegger ricostruisce l’intera vicenda con toni spesso esasperati. Si indovina il suo disappunto. Si sente finito e con rabbia parla di «estromissione» organizzata. Il crollo è inevitabile. Nel marzo 1946 viene ricoverato in una clinica psichiatrica a Badenweiler, vicino a Friburgo, dove è curato da Victor von Gebsattel, uno psichiatra appartenente alla scuola di Ludwig Binswanger, a sua volta ispirato dalla lettura di Essere e tempo.
I quaderni che vanno dal 1946 al 1948 - corrispondenti alle Note III-V - sono di grande interesse perché testimoniano un incessante lavoro autocritico grazie a cui Heidegger riesce ad andare oltre quella cesura, che avrebbe potuto essere definitiva. Sente infatti di essere giunto a un punto di non ritorno. Il ripensamento della sua opera è indubbiamente anche una sorta di autodifesa. Si rivolge espressamente agli intellettuali francesi che - da Alain Resnais a Frédéric de Towarnicki - già dall’autunno del 1945 vanno a trovarlo nel suo rifugio di Todtnauberg, nella Foresta Nera. Ma l’interlocutore a cui mira è Jean-Paul Sartre, più volte citato. Non ne ha molta stima; lo giudica un filosofo non originale, che si è indebitamente appropriato di molte sue idee. Strategicamente, però, intuisce che proprio la cultura francese degli occupanti può salvare la sua opera dall’oblio al quale in patria sembra condannata. E sarà in effetti così. Tradotto in francese, Heidegger è destinato a una nuova ricezione, questa volta mondiale.
Si premunisce dai fraintendimenti scrivendo la celebre Lettera sull’«umanismo», pubblicata nel 1947. Nei quaderni osserva che, dopo quella lettera, nessuno dovrebbe più chiedergli la seconda parte di Essere e tempo. Proprio quest’opera è al centro del volume 97. I rimandi sono numerosissimi. Si tratta di pagine e pagine in cui Heidegger ritorna sul suo capolavoro, divenuto nel frattempo un classico, per ripercorrere il proprio cammino. Rivendica quel che ha scritto. «Il solo pensiero della mia vita, che mi resta fedele, è “essere e tempo”». Con ciò non intende solo il libro, bensì quel complesso di temi su cui non ha mai smesso di meditare. Non senza una certa irritazione biasima la letteratura critica che frettolosamente attribuisce a Essere e tempo l’etichetta «esistenzialismo», senza scorgere la radicalità della sua «distruzione».
Certo, quell’opera è rimasta incompiuta. Da accorto escursionista Heidegger ha cercato di scalare un monte, lungo le cui pareti nessuno si era mai avventurato. Pur precipitando qui e là, è andato avanti, fra burroni e tornanti; d’improvviso si è accorto, però, di essersi smarrito, non perché non ci fossero sentieri, ma perché era lui a non riuscire più a scorgerli. Il pensiero è «naufragato “in cammino”»; ma un pensiero che naufraga non è un pensiero sul naufragio.
Alla luce della continuità che lo stesso Heidegger rivendica nel dopoguerra, sempre più grotteschi si rivelano i tentativi di quanti oggi vorrebbero da un canto conservare Essere e tempo, dall’altro sbarazzarsi dei Quaderni neri. La sfida per il futuro consisterà piuttosto nel trovare i collegamenti tra quelle pagine, seguendo le indicazioni che Heidegger fornisce esplicitamente. La ricostruzione del confronto con Essere e tempo nel volume 97 sarà dunque il compito di una seria ricerca.
Proprio sulla base di queste Note ultime si ripropone la questione dei nessi e dei fili che si dipanano da Essere e tempo e che potrebbero motivare filosoficamente le scelte politiche successive. La novità dei Quaderni neri è che Heidegger scrive a chiare lettere che il suo «errore non è stato solo “politico”». Se non ha riconosciuto il «nazismo» reale è per via di un’errata valutazione filosofica che lo ha spinto a precorrere i tempi, a immaginare finita un’età, quella della tecnica, che ancora era lontana dal tramontare.
Sono molti i temi che in Essere e tempo preludono al cammino percorso negli anni Trenta: una certa analisi dell’esistenza, gettata nel mondo e inchiodata, quasi per destino, al suo qui ed ora, lo spettro dell’inautenticità, la decisione, a tratti monacale o soldatesca, che anticipa la morte, la tonalità apocalittica che incombe. Non c’è dubbio che l’impegno politico scaturisca dalla sua filosofia. Era un’epoca in cui era necessario essere radicali. Heidegger lo era.
Mentre ci sono argomentazioni e analisi in Essere e tempo sulle quali resterà un’ombra, per molte altre è insensato cercare a tutti i costi implicazioni. Talvolta, perfino in una stessa frase, mentre delinea una nuova idea, nello stesso tempo Heidegger la inficia, la scredita, la compromette, con una modulazione azzardata, una cadenza rovinosa. Perciò è indispensabile una lettura critica, che sappia discernere e distinguere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
E già nel 1942 Guido Calogero smontava Heidegger
di Alfonso Berardinelli (Avvenire, venerdì 12 gennaio 2018)
Buone notizie, secondo me, dal numero di “MicroMega” intitolato “Gli intellettuali giudicano la religione”. La sezione su tale tema richiederebbe un resoconto critico per il quale non basterebbero una ventina di pagine. Vi è riportato un questionario del 1950 che l’americana “Partisan review” propose a scrittori, filosofi, critici e studiosi. “MicroMega” pubblica le risposte del grande poeta e saggista Auden (credente) e del filosofo analitico Ayer (non credente): due punti di vista opposti sui quali si potrebbe ragionare a lungo.
Ma quella che in particolare ho considerato subito la buona, ottima notizia è un’altra. È un saggio di Guido Calogero (1904-1986), studioso di storia della logica e della dialettica dai Presocratici al Novecento, filosofo del dialogo come strumento insuperabile del pensiero, teorico e animatore con Aldo Capitini del movimento liberal-socialista e tra i fondatori del Partito d’Azione.
In questo scritto del 1942, Calogero offriva una tempestiva, precoce analisi critica del pensiero e del linguaggio di Martin Heidegger, filosofo vicino al nazismo (mai esplicitamente rinnegato) che ha esercitato un’influenza magnetica su filosofi francesi e italiani di fine Novecento tuttora in attività. Benché Heidegger sia stato notoriamente discusso, criticato, demolito già da Adorno, Löwith e Anders, i nostri heideggeriani, per evitarsi dei fastidi, non hanno mai voluto prendere in considerazione i loro argomenti. Calogero (filosofo a sua volta oggi ciecamente trascurato) in questo scritto di settant’anni fa notava subito il punto debole della filosofia di Heidegger: la sovrapposizione, l’identificazione impropria e arbitraria fra il problema della conoscenza (gnoseologia) e il problema dell’essere (ontologia). Heidegger usa un linguaggio metafisico lì dove dovrebbe usare un linguaggio logico e metodologico.
Dire “essere” e dire “ente”, ripetere queste parole come una giaculatoria o un mantra, non significa dire qualcosa della cui realtà si possa dare conoscenza e discorso, poiché si tratta di una terminologia arcaica ormai priva di contenuto determinato e determinabile, un “modo di dire” generico e vuoto la cui pensabilità è nulla. Provate a pensare l’essere e vedrete che equivale a pensare il nulla, cosa altrettanto impensabile. Il linguaggio di Heidegger è una disonesta parodia verbalistica dell’esperienza mistica. Teologizza la filosofia, evitando il problema della religione.
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
PAURA DELLA LIBERTA’... FASCISMO, STORIOGRAFIA, E COSTITUZIONE: "Vi fu chi accondiscese al giuramento, tra questi Guido Calogero e Luigi Einaudi, seguendo l’invito di Benedetto Croce, «per continuare il filo dell’insegnamento secondo l’idea di libertà»".
I POLITICI SI SONO FATTI TEOLOGI E LA TEOLOGIA, IN SENSO PROPRIO, NON PARLA PIU’. Una riflessione di Paolo Prodi.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Storia.
Processo Eichmann: Fu solo «banalità»? Un saggio corregge Hannah Arendt
Il corposo studio di Bettina Stangneth riporta le parole inedite del gerarca latitante in Argentina: ne emerge un quadro ben più complesso di quello delineato dalla Arendt
di Riccardo De Benedetti (Avvenire, giovedì 20 luglio 2017)
Il libro di Bettina Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme (Luiss University Press, pagine 604, euro 24,00) è di quelli che si fa fatica a dimenticare. Innanzitutto per la scrupolosità con la quale è stato scritto e l’attenzione a ogni pur piccolo dettaglio di una storia piena di trabocchetti e dissimulazioni. Il lettore, dopo ogni pagina di lettura, sa di avere a che fare con una ricerca scientifica e non con una delle tante ricostruzioni più o meno scandalistiche sul nazismo e la sua opera nefasta. Il libro (1.215 note), ricostruisce gli anni argentini dell’Obersturmbannführer (tenente colonnello) delle SS Adolf Eichmann, fuori servizio. Uno dei responsabili diretti della Shoah, coordinatore dello sterminio, fu catturato dal Mossad l’11 maggio del 1960 a Buenos Aires e impiccato la notte tra il 31 maggio e il 1 giugno del 1962 a Gerusalemme dopo un processo che attirò l’attenzione del mondo.
Perché Eichmann in Argentina? Il titolo corregge il sottotitolo del famosissimo saggio di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963). Prima del processo al criminale nazista c’è l’Argentina, luogo di rifugio per centinaia di nazisti in fuga, nella quale il male non era banale ma rivendicato e, se possibile, analizzato, scrutato nel profondo.
Eichmann, improvvidamente, in quegli anni parla, scrive, registra, con la collaborazione di altri rifugiati nazisti, descrivendo una realtà che non ha nulla a che fare con la burocrazia esecutrice, ma al contrario, con la piena e convinta adesione all’ideologia razzista e antisemita e alla sua più consapevole esecuzione. I nastri e le carte di quella rivendicazione di responsabilità seguirono percorsi tortuosi e allora non riuscirono a raggiungere nella loro completezza i giudici del processo e, soprattutto l’opinione pubblica mondia-le, anche quella più informata e consapevole.
Durante gli anni della detenzione a Gerusalemme Eichmann volle dare di sé l’immagine del mero esecutore di ordini. La sua non era una mossa per ottenere clemenza, che infatti non ebbe, era un modo per proseguire la guerra contro gli ebrei. L’autrice descrive il tortuoso ragionamento con il quale i nazisti, sconfitti nella guerra ma non annientati, contavano di proseguire in un lavoro, così lo chiamavano, che non essendo stati capaci di portare a termine gli sarebbe stato per sempre rimproverato. Dopo la sconfitta in guerra si trattava di ripiegare in ciò che poi sarebbe apparso come negazionismo: la Shoah era un’invenzione e se si era verificata era perché qualcuno, non loro, aveva intrapreso l’azione di sterminio per giustificare la nascita dello Stato di Israele. Apparire banali esecutori di ordini di una gerarchia sconfitta era un modo per ridare una parvenza di legittimità a un programma che doveva proseguire.
Il libro della Stangneth riporta le parole, inedite, pronunciate alla fine delle estenuanti riunioni di nazisti che si svolgevano a casa di Eichmann in Argentina. In particolare la rivendicazione dello sterminio come parte integrante di un dovere morale ed etico (se è lecito usare questi termini per qualcosa che è pura criminalità) da compiersi rigorosamente se si voleva ottenere la vittoria contro il nemico assoluto:
«Non cerchi di confondermi dopo 12 anni, che si chiamasse Kaufmann, o Eichmann, o Sassen o Morgenthau, non me ne importa nulla, a un certo punto mi sono detto: bene, devo smetterla di farmi scrupoli. Prima che il mio popolo tiri le cuoia devono tirare le cuoia tutti gli altri, poi il mio popolo. Ma solo a quel punto! Io ero così [...]. Io, “il burocrate prudente”, ecco cos’ero, sissignore. Ma vorrei ampliare il concetto di “burocrate prudente”, anche se a mio sfavore. Questo burocrate prudente si accompagnava ad un fanatico combattente per la libertà del mio sangue, dal quale discendo, e qui dico, proprio come le ho detto poco fa, il pidocchio che la sta pungendo, camerata Sassen, non mi interessa. A me interessa il mio pidocchio sotto il mio colletto. Quello lo schiaccio. Lo stesso vale per il mio popolo. Ma da quel burocrate prudente che ero, perché certamente lo sono stato, sono anche stato ispirato e guidato: ciò che è utile al mio popolo, per me è un ordine sacro e una legge sacra [...]. Mi si contorcono le budella a dire che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. No. Devo dirle in tutta sincerità che se dei 10,3 milioni di ebrei stimati da Korherr, come sappiamo oggi, ne avessimo uccisi 10,3 milioni, allora sarei soddisfatto e direi “bene, abbiamo sterminato un nemico”. Ora che per un tiro mancino del destino la maggior parte di quei 10,3 milioni di ebrei è rimasta in vita, mi dico: il fato ha voluto così. Devo assoggettarmi al destino e alla provvidenza. Sono solo un piccolo uomo e non è in mio potere contrastarli, né tantomeno posso o voglio farlo. Avremmo compiuto il nostro dovere per il nostro sangue».
Hannah Arendt si è sbagliata? Sì e no. Certamente per quanto riguarda Eichmann, che non corrisponde affatto al ritratto che lui stesso ha fatto in modo che uscisse dal processo, da abile manipolatore qual era. Non del tutto quanto al significato che possiamo dare alla “banalità del male”. Il processo Eichmann è stato solo un punto di avvio per un’analisi approfondita della storia del nazionalsocialismo e la Arendt non aveva a disposizione ciò che con fatica hanno sotto mano gli studiosi di oggi.
Cosa c’è di davvero banale nell’azione di Eichmann e di quelli come lui? C’è la mancanza assoluta di distanza tra la formulazione di un’idea, di un pensiero, di una tesi, e la sua realizzazione. Il pensiero è banale, errato e criminale, ma la sua realizzazione è tragicamente seria. C’è quella che Eric Voegelin, nel suo Hitler e i tedeschi, poco letto, purtroppo, chiamava la stupidità di un intero popolo, insieme alla capacità manipolatoria di attivarla. Una concezione rozza del formarsi e trasformarsi di un popolo attraverso il sangue e la razza, concetto che affonda in profondità nel pensiero scientifico illuminista prima e darwinista poi, con l’accento totalizzante posto sulla lotta per la vita e per la morte di un gruppo umano contro un altro.
Il libro della Stangneth è un libro di filosofia, più di tanti altri che sull’argomento hanno intinto per infiniti, e in molti casi pedanti e stucchevoli, esercizi ermeneutici. Una filosofia che lascia al lettore il compito di rintracciare la triste filiera del formarsi di un orrore e del suo realizzarsi. Non fu l’unico nel Novecento, ma fu quello al quale dobbiamo un obbligo di spiegazione razionale che ha rischiato, e il caso dell’abbaglio di Hannah Arendt sta a dimostrarlo, di sfuggirci.
Vergogna firmata a San Rossore
Le leggi razziali fasciste sono un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi applicati a partire dal 1938, con l’obiettivo di colpire soprattutto la minoranza ebraica residente in Italia. Benito Mussolini le annunciò il 18 settembre di quell’anno durante un comizio a Trieste; il 5 settembre, il re Vittorio Emanuele III aveva firmato la prima legge in difesa della razza nella tenuta regia di San Rossore, a Pisa.
Con queste norme la popolazione ebraica fu gradualmente estromessa dai diritti sociali e civili: insegnanti, impiegati e dirigenti della pubblica amministrazione furono licenziati; gli studenti vennero esclusi dalle scuole e si stabilì il divieto, per tutti gli ebrei, di sposare persone “di razza italiana”. Le leggi impedivano anche agli imprenditori discriminati di possedere aziende con più di 100 dipendenti, oltre che di avere la proprietà di terreni e fabbricati che superavano certe dimensioni. Le leggi razziali, precedute, come contesto culturale, dal Manifesto della Razza, restarono in vigore fino al 1944.
* Il Fatto, 29.10.2018
Gentile: il pavido tentativo di salvare Paul Kristeller
Alle preoccupazioni del 28enne tedesco già fuggito dal nazismo il professore replicava: “Vi esorto a non pensarci troppo”. Ma gli dispiaceva
di G. Me. (Il Fatto, 29.10.2018)
“Carissimo, ho parlato giorni addietro a Gabetti di un valentissimo giovane, il Dott. Cristaller [sic] che accetterebbe volentieri un lettorato tedesco in Italia. (...) È ebreo, ma appoggiatissimo da Heidegger, di cui è allievo”.
È il 2 ottobre 1933, mancano cinque anni alle leggi razziali ma - con buona pace del partito “non volevano ma Hitler...” - essere ebreo in Italia è già un dannato problema.
Paul Oskar Kristeller ha 28 anni e ha lasciato la Germania: uno dei primi atti del nazismo è cacciare gli ebrei dall’Università. È un raffinatissimo studioso di filosofia. È ebreo ma bravo. Cinque anni dopo sarà bravo ma ebreo. Il professor Ernesto Codignola segnala il giovane al suo maestro Giovanni Gentile che se lo prende alla Scuola Normale di Pisa, di cui è direttore. Gentile è un fascista della prima ora, ministro dell’Istruzione e artefice della riforma della scuola. Un grande intellettuale che naviga nella dura realtà politica. Non condivide le teorie razziste ma tace. Aderirà alla repubblica di Salò e nel 1944 sarà ucciso da partigiani comunisti.
Kristeller, secchione patologico, a Pisa sembra felice. “Posso constatare, non senza commozione, che il suo paese mi dà un’ospitalità e un aiuto amichevole che mi ha rifiutato la mia propria patria”, scrive a Gentile, ma forse è solo diplomazia. Un collega della Normale, Luigi Baccolo, lo intuisce: “Tutti vedevamo nascere l’alba di una nova epoca, ma solo Kristeller vedeva il sangue di quell’alba”. Si prepara per Kristeller un nuovo esilio, e Laura Grazioli, studentessa di chimica alla Normale, ricostruisce la sequenza drammatica di paura e vigliaccheria.
Gentile incita Kristeller a ottenere la cittadinanza italiana, va a Roma per intercedere presso il Duce che gli dice no. Il 14 luglio 1938, viene pubblicato il Manifesto della razza. Kristeller è angosciato: “Sono parecchio preoccupato per ciò che leggo adesso sui giornali, Vi sarei grato di sentire il vostro parere in proposito”. Il filosofo dell’attualismo minimizza: “Vi esorto a non pensarci troppo”. Ma al vicedirettore della Normale Gaetano Chiavacci scrive: “Vedi come cresce la marea antisemita? Mi dispiace pel povero Kristeller”.
Ad agosto l’editore Sansoni respinge la monografia di Kristeller su Marsilio Ficino perché è arrivato il divieto di pubblicare autori ebrei. Chiavacci pone a Gentile la questione delle teorie razziali: “Dovremo assistervi passivi?”. Gentile risponde con l’attualismo. Il 29 agosto ottiene udienza da Mussolini, gli chiede di chiudere un occhio sul filologo ebreo. Si illude. Scrive trionfante: “Per intanto Kristeller non si tocca. Ho parlato anche con Mussolini”.
Ma arrivano le leggi razziali. L’8 settembre Gentile scrive al Duce: “Eccellenza, nel colloquio che lunedì scorso Vi compiaceste di accordarmi, mi diceste di non toccare a Pisa il Kristeller. Questi invece mi pare ricada sotto il decreto di ieri, che espelle dal Regno tutti gli stranieri di razza ebraica (...). Vi prego vivamente, per mia norma, di farmi sapere se posso o no trattenere, e nel caso positivo in che modo, questo povero diavolo come lettore di lingua tedesca nella Scuola Normale Superiore. Vogliate scusarmi. Vostro Giovanni Gentile”.
Gli risponde il sottosegretario all’Interno Guido Buffarini Guidi, pisano: “In relazione alla lettera da Voi diretta al DUCE in data 8 settembre u.s., Vi comunico che, giusta Superiori disposizioni, è stato consentito al Prof. Kristeller, israelita straniero, di risiedere in Italia fino alla scadenza del termine massimo stabilito dal R.D.L. 7.9.1938, n° 1381. Il DUCE, inoltre, ha disposto che al medesimo venga elargita la somma di L. 5000 per metterlo in condizione di sostenere più agevolmente le spese di trasferimento”.
Kristeller va in America. Gentile pensa alla Normale e cerca un docente che lo sostituisca. Scrive a Codignola: “Spero bene che non sia né israelita, né antinazista. Mi premerebbe avere un altro Kristeller, ma senza il punto nero che mi diede sempre tanto da fare”.
Kristeller se ne va col suo punto nero a insegnare alla Yale e alla Columbia. Morirà a 94 anni lasciandoci una negazione quasi beffarda dell’attualismo gentiliano: “Il passato resta reale anche dopo che è scomparso dalla scena. È compito dello storico tenerlo vivo e dare giustizia anche a sconfitti e dimenticati”.
PLATONE E NOI, OGGI. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!.... *
Nel buio della «notte politica» la sfida di una filosofia militante
Esce giovedì il nuovo saggio di Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri)
Un forte richiamo alla funzione pubblica del pensiero critico
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 22.10.2018)
Un giovane filologo italiano, Max Bergamo, si accinge a pubblicare gli appunti che, alle lezioni di greco di Friedrich Nietzsche professore a Basilea, prese, e conservò, nel semestre invernale 1871-1872, un allievo d’eccezione, Jacob Wackernagel, destinato a diventare uno dei maggiori storici delle lingue classiche. Il corso di quel semestre verteva su Platone. Abbiamo dunque sia gli appunti dell’allievo, sia il molto ricco dossier preparatorio del maestro (ne è imminente la traduzione presso Adelphi), che ormai si integrano a vicenda e si completano.
Scrive Nietzsche: «Non è lecito considerare Platone come un sistematico in vita umbratica, ma come un agitatore politico che vuole scardinare il mondo intero e che è, a questo scopo, tra le altre cose anche scrittore (...) Egli scrive per fortificare nella lotta (bestärken im Kampfe) i suoi compagni dell’Accademia (da lui fondata)». L’allievo annotò le parole del maestro così: «L’Accademia non è per lui che un mezzo. Indirettamente scrittore. (A noi invece appare in primo luogo scrittore). Un politico che vuole scardinare il mondo intero». Notare che «scardinare» appare in entrambi (aus den Angeln heben). Dunque Nietzsche disse proprio così: «Scardinare il mondo intero».
Al centro della lotta per cambiare il mondo c’è Platone.
Ed è questo uno dei centri motori - insieme ai «casi» Marx e Heidegger - del nuovo saggio di Donatella Di Cesare Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati Boringhieri). Scrive Donatella Di Cesare nel capitolo da cui prende avvio il suo saggio: «Guardiano della città, già prima di Platone e della sua politeia, Eraclito denuncia la notte politica». L’immagine della «notte» viene da un paio di frammenti dell’opera perduta di Eraclito, che paragonano la cecità impolitica dei suoi concittadini (di Efeso, metropoli greca sulla costa asiatica) al torpore del sonno.
A significare che la vocazione politica è inerente al filosofare, e ne costituisce l’avvio o anche la premessa, la Di Cesare parte da ben prima di Platone e segue quel filo fino al nostro presente. L’autrice potrebbe, credo, riconoscersi nelle parole con cui Togliatti tratteggiò il cammino di Gramsci: «Nella politica è contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia, e per il singolo, che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale» (Convegno Gramsci, Roma, gennaio 1958).
Ma il filo conduttore è: «scardinare» l’esistente (Platone secondo Nietzsche) ovvero «trasformarlo», secondo la insopprimibile «tesi su Feuerbach» di Marx ventisettenne (1845). Il libro della Di Cesare è una battaglia in favore di questa concezione della filosofia, in antitesi rispetto a tutti i benpensanti (da Aristotele alla Arendt) secondo cui la politicità totale del filosofare sarebbe «passo falso» o «tentazione di intervenire».
Per Aristotele (nel secondo libro della Politica) le fondamenta e i presupposti della Kallipolis (città verso cui tendere) di Platone - superamento della proprietà, della famiglia etc. - sono devianze teoretiche e (forse anche) cadute immorali. La Arendt si riferisce a Heidegger. È chiaro che l’impegno a fianco del nazionalsocialismo fu un pauroso andare fuori strada, ma non lo fu il fatto stesso dell’impegnarsi. E questo vale anche per Gentile. Nel concreto dell’esistenza si sta «o con Lutero o con il Papa».
Il caso Heidegger e il suo gigantesco abbaglio sono ben noti alla Di Cesare: soprattutto, vien da dire, a lei, che ne ha attraversato il pensiero come - diceva l’ex coraggioso poeta Orazio all’amico Asinio Pollione - in una traversata «sui carboni ardenti».
Anche Platone, precoce, si era coinvolto nel governo più demonizzato che Atene abbia mai visto nella sua drammatica storia: quello dei Trenta cosiddetti «tiranni», capeggiati da Crizia, socratico e allucinato riformatore, di cui Platone era nipote. E Platone non lo nasconde affatto, al principio della lettera settima (che già per questa «confessione» sofferta e moralmente elevata, è ovviamente autentica!): perché - afferma - quel governo si proponeva come portatore di una rifondazione radicale della politica in nome di alcuni «princìpi». Platone ne descrive anche il fallimento e la sconfitta ma gli rende omaggio, del tutto controcorrente, rispetto al perbenismo della cosiddetta democrazia restaurata. E nel Timeo, al principio del dialogo - dove Socrate viene sollecitato da Timeo a riassumere «ciò che ha detto il giorno prima» (cioè il nocciolo della Repubblica) - Crizia dice a Socrate, rendendogli omaggio: «La città che tu ieri ci hai descritta come una favola (la città riordinata secondo la radicale proposta riformatrice illustrata nella Repubblica) noi la trasferiremo nella realtà e la porremo qui» (Timeo, 26E).
Platone fa, qui, dire a Crizia, cioè al capo dei Trenta, parole che rivendicano orgogliosamente la genesi socratica del tentativo (pur abortito) dei Trenta e la coincidenza di quel tentativo (per lo meno nelle intenzioni) col progetto «utopistico» contenuto nella Repubblica. La «leggenda nera» gravante su Crizia viene così cancellata. Ma nell’Atene democratica queste erano parole indicibili. E come dimenticare, a questo punto, l’appropriazione nazionalsocialista di Platone (Hitlers Kampf und Platons Staat di Bannes)?
Donatella Di Cesare, che ripercorre in questo saggio il cammino di alcuni grandi filosofi che «si sporcarono le mani», e descrive con efficacia l’esito di Marx come studioso che - dopo reiterate sconfitte - «si ritirò sempre più in sé stesso per scoprire anzitempo la legge della storia che avrebbe portato sino all’ultimo salto prima del regno della libertà», lancia al termine una sfida inattuale a chi predica (da qualche decennio) la fine della storia, la fine del pensiero («delle ideologie» dicono i pappagalli semicolti), cioè (suprema stupidità) la fine del moto perenne della storia. E propugna in un «poscritto anarchico» una via d’uscita di rifiuto indomito dell’arché, del comando. È certo consapevole del rischio di ridurre così i filosofi a «testimoni», sia pure emozionanti. E approda, a mio avviso, a un esito tolstoiano. Non è superfluo ricordare qui, conclusivamente, che quel gigante del pensiero e dell’arte europea che fu Tolstoj - il quale a lungo rifletté sul «moto storico» incessante - diede impulsi profondi sia a Lenin che a Trotsky.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
BENEDETTO CROCE, Recensione 1934*:
I1 prof. Heidegger non vuole che la filosofia e la scienza siano altro, per i tedeschi, che un affare tedesco, a vantaggio del popolo tedesco. Gli studenti tedeschi, a suo dire, hanno tre «Bindungen», tre obblighi, il primo e fondamentale dei quali è la «Volksgemeinschaft», il nazionalismo. Ma se egli si ripiegasse davvero sulla sua coscienza morale (l’ha ogni uomo e l’avrà anche lui), direbbe piuttosto che il primo obbligo, di studenti e di professori, è il timor Dei, come sta scritto sul frontone della Sapienza di Roma.
Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante a un Proust cattedratico, egli che nei suoi libri non ha dato mai segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia, dell’etica, della politica, della poesia, dell’arte, della concreta vita spirituale nelle sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri filosofi, tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto deila storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico e vero attore, l’umanità.
Scrive nel bello stile che ci è già noto dai suoi libri filosofici: «Der Wille zum Wesen der deutschen Universitat ist der Wille zur Wissenschaft als Wille zum geschichtlichen geistigen Auftrag des deutschen Volkes als eines in seinem Staat sich selbst wissende Volkces. Wissenschaft und deutsche. Schicksal mussen zumal in Wesenswillen zur Macht kommen» (p. 7). E così si appresta o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la filosofia, senza con ciò recare nessun sussidio alla soda politica, e, anzi, credo, neppure a quella non soda, che di cotesto ibrido scolasticume non sa che cosa farsi, reggendosi e operando per mezzo di altre forze, che le son proprie.
Ben diverso atteggiamento è quello del teologo Karl Barth, che dice il fatto loro ai «Deutschen Christen», ai tedesco-cristiani, pronti a gridare che la chiesa evangelica deve servire alla fortuna del popolo tedesco e del terzo Impero, a richiedere un capo, una sorta cli papa, che fermamente li governi nella nuova vita cominciata con la primavera del 1933, e ad escludere, per intanto, dal loro seno i cristiani di sangue giudaico o a trattarli come cristiani di second’ordine, e via per simili turpitudini.
«Noi - scrive il Barth - abbiamo l’ufficio di portare al popolo tedesco la parola di Dio; e pecchiamo non solo verso Dio, ma anche verso questo popolo stesso se perseguiamo altri ideali e fini, che non sono cominessi a noi. Nella natura del nostro ufficio è che esso non possa essere subordinato o coordinato ad alcun’altra istanza; e di nuovo peccheremmo verso Dio e verso il nostro popolo, se lasciassirilo scuotere anche solo menomamente quest’ordine gerarchico!».
Il Barth degnamente tutela l’indipendenza della teologia, mentre il prof. Heidegger si è affrettato a far getto di quella della filosofia.
B. C.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
VENI, CREATOR SPIRITUS: LO SPIRITO DELLA VERITA’. Lo Spirito "costituzionale" di Benedetto Croce, lo spirito cattolico-romano di Giacomo Biffi, e la testimonianza di venti cristiani danesi (ricerca scientifica)
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Testimoni.
Barth «politico». La rivoluzione è cristiana
Per la prima volta in volume la conferenza tenuta nel 1911 dal teologo protestante morto 50 anni fa e dedicata al rapporto tra cristianesimo e socialismo “politico”. La rivoluzione è cristiana
di Karl Barth (Avvenire, sabato 20 ottobre 2018)
Il socialismo è il movimento di coloro che non sono indipendenti sul piano economico, di coloro che in cambio di un salario lavorano per un altro, un estraneo; è il movimento del proletariato, come lo si chiama nei libri. Il proletario non è necessariamente povero, ma nella sua esistenza è necessariamente dipendente dalle possibilità economiche e dalla buona volontà di colui che gli dà il pane, il padrone della fabbrica. È qui che interviene il socialismo: esso è e vuole essere un movimento proletario. Esso vuole rendere indipendenti coloro che non lo sono, con tutte le conseguenze che ciò può comportare per la loro esistenza materiale, morale e spirituale.
Non possiamo sostenere che anche Gesù si sia impegnato precisamente su questo punto, già semplicemente per il fatto che duemila anni fa non esisteva ancora un proletariato nel senso moderno del termine, non essendovi ancora le fabbriche. Tuttavia, chiunque legga senza pregiudizi il Nuovo Testamento, dovrebbe restare colpito dal fatto che ciò che Gesù è stato, ha voluto, e ha ottenuto, considerato da un punto di vista umano, era esattamente un movimento dal basso. Egli stesso proveniva da uno dei ceti più umili del popolo ebraico di quel tempo.
Vi ricorderete certamente del racconto di Natale e della mangiatoia di Betlemme. Suo padre faceva il carpentiere in un angolo sperduto della Galilea, e lo stesso mestiere ha fatto anche Gesù stesso, tranne che nei suoi ultimi anni di vita. Gesù non era un pastore, non era un parroco, era un operaio. Giunto al trentesimo anno di età, ha appeso al chiodo i suoi arnesi, e ha cominciato a girovagare da una località all’altra perché aveva qualcosa da dire agli uomini. Ma anche allora la sua posizione è stata completamente diversa da quella di un pastore dei nostri giorni. Noi pastori dobbiamo essere a disposizione di tutti, di chi sta in alto e di chi sta in basso, dei ricchi e dei poveri, e la nostra personalità spesso soffre di questa duplice faccia della nostra professione. Gesù si sentiva inviato ai poveri, agli umili: questo è uno dei dati più indiscutibili che ricaviamo dalla storia del vangelo.
Il senso della sua attività si riassume in una frase, nella quale sentiamo ancora oggi ardere il fuoco di un’autentica sensibilità sociale: «Vedendo il popolo, si commosse, perché erano come pecore senza pastore» (Mc 6,34). Talvolta leggiamo anche che gli si sono accompagnati dei ricchi, ma se pure non si sono tirati indietro, dopo un breve momento di entusiasmo, come il giovane ricco (Mt 19,16-22) - e aveva le sue buone ragioni per farlo - costoro facevano parte della sua cerchia come ospiti, piuttosto che essere veramente legati a lui. Un esempio tipico in questo senso è offerto da quel Nicodemo (Gv 3,2-1), «un capo dei Giudei», che si recò da lui nottetempo.
Certo, nelle ultime settimane di vita egli si è rivolto con il suo messaggio anche ai ricchi, alle persone colte: si è spostato dalla Galilea a Gerusalemme - ma sapete bene che questo tentativo s’è concluso con la croce, sul Golgota. Quello di cui era portatore era un lieto annuncio ai poveri, al popolo dei dipendenti e degli incolti: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli» (Lc 6,20). «Il più piccolo fra tutti voi diventerà il più grande» (Lc 9,48). «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10). Queste affermazioni non possono essere interpretate come parole consolatorie pronunciate da un filantropo con tono di condiscendenza. Gesù ha affermato: «Vostro è il regno dei cieli», e con questo ha inteso dire: rallegratevi di rientrare nel novero della gente minuta: voi siete più vicini alla salvezza degli altolocati e dei ricchi.
«Ti ringrazio, Padre del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). Gesù stesso si è comportato in questo modo: egli ha scelto i suoi amici tra i pescatori del lago di Galilea, tra i pubblicani al servizio dei romani, sospettati da tutti, addirittura tra le prostitute delle città di mare. Nella scelta dei propri compagni non si può scendere verso il fondo della scala sociale più di quanto abbia fatto Gesù. Per lui, nessuno si trovava troppo in basso o contava troppo poco.
Lo ripeto: non si trattava di una sussiegosa compassione dall’alto al basso, ma nell’esplosione di un vulcano dal basso verso l’alto. Non sono i poveri ad aver bisogno di compassione, ma i ricchi, non i cosiddetti “senza Dio”, ma gli uomini pii. Queste inaudite parole: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31), e: ’Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione» (Lc 6,24), Gesù le ha pronunciate rivolgendosi verso l’alto, mentre rivolgendosi verso il basso ha detto: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Lo spirito che ha valore agli occhi di Dio è lo spirito sociale. E l’aiuto prestato sul piano sociale è la strada che conduce alla vita eterna.
Gesù non ha soltanto parlato, ma ha anche agito in questo modo. Se si legge il vangelo con attenzione, non si può non restare stupefatti di come sia stato possibile fare di Gesù un pastore o un maestro, il cui scopo sarebbe stato quello di insegnare agli uomini una fede e una vita corrette. «Da lui usciva una forza che sanava tutti» (Lc 6,19).
Questa era la sua attività essenziale. Sia che si interpretino queste guarigioni come eventi soprannaturali o naturali - resta il fatto che egli ha operato delle guarigioni e che questa sua capacità sta al centro della sua vita molto più di quanto abitualmente si pensi. «Egli passò beneficiando e risanando» (At 10,38). Troviamo molti altri episodi del genere.
Guardando a questi dati noti a chiunque abbia letto la Bibbia, credo che nessuno abbia il diritto di dire che la socialdemocrazia è non cristiana e materialista per il fatto d’essersi posta come obiettivo l’introduzione di un ordinamento sociale più favorevole agli interessi materiali del proletariato. Gesù si è opposto alla miseria sociale affermando, con le parole e con i fatti, che essa non deve esistere. Certamente, egli ha fatto ciò infondendo negli uomini lo spirito, che trasforma la materia. Al paralitico di Cafarnao ha detto per prima cosa: «Ti sono rimessi i tuoi peccati»; e, dopo: «Alzati, prendi il tuo letto e cammina». Egli ha operato dall’interno verso l’esterno. Ha creato uomini nuovi, per creare un mondo nuovo.
Le frustrazioni di un nazionalista piccolo borghese
Martin Heidegger. Dallo studio dei «Quaderni Neri» Eugenio Mazzarella mette in luce i nessi tra le posizioni teoriche e le scelte pratiche, tra la filosofia e la politica
Tra l’impianto della storia dell’essere e il nazismo c’è un legame non episodico.
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21.10.2018)
Il libro di Eugenio Mazzarella su Heidegger e i Quaderni neri è interessante anzitutto per la nettezza con cui si contrappone a coloro che si sono serviti di questi testi per riaprire in termini distruttivi il problema dei rapporti tra Heidegger e la politica, Heidegger e il nazismo, Heidegger e l’antisemitismo.
L’«antisemitismo ontologico-destinale di Heidegger dei Quaderni» - scrive Mazzarella - «non aggiunge niente alla comprensione che potevamo avere del suo pensiero, e del corto circuito con la comprensione del suo tempo che ne è venuto». Anche se, aggiunge, «dà il tocco finale alla pochezza dell’uomo comune, del piccolo borghese nazionalista (frustrato anche dal nazismo) che era; e che resta anche nei panni, in questi Quaderni, del commentatore storico-destinale del suo tempo».
È un giudizio in cui culmina la serrata analisi su quella che è l’alternativa posta, a giudizio di Mazzarella, nei Quaderni: quella tra grecità e cristianesimo, espressa dalla opposizione dell’onto-storia di Heidegger al messianesimo ebraico-cristiano. Sintetizza Mazzarella: non cristianità ovvero Europa, come Novalis; ma cristianità oppure Europa. È il cristianesimo dunque «l’antagonista dello spirito greco-germanico sulla scena della decadenza europea», ed è in questo contesto che vanno considerate le osservazioni di Heidegger sugli Ebrei: essi sarebbero gli «agenti destinali» dell’autoannientamento dell’Occidente nella ragione strumentale della tecnica moderna. In conclusione, secondo Mazzarella, l’avversione alla ebraicità «è fondamentalmente l’avversione al tratto “nichilistico” della civilizzazione europea, nietzscheanamente messo in capo al cristianesimo». E con questo riferimento si concretizza anche sul piano delle fonti la prima parte del libro, che ha quindi il merito di rovesciare il punto di vista corrente, proponendo una diversa - e interessante - visione del problema: merito non da poco. Muovendo di qui, nella seconda parte, Mazzarella analizza lo svolgimento della posizione di Heidegger, mostrando come, dopo il fallimento dell’esperienza politica, si dilegui la «storicità» propria di Essere e tempo e si imponga una prospettiva di tono apocalittico, che consegna tutto il presente all’abisso di un «anatema di tipo gnostico» al quale non è possibile sfuggire...
Il libro è denso di osservazioni importanti, ma a mio giudizio è interessante anche per un altro motivo di ordine generale: pone, e affronta, il problema dei rapporti tra filosofia e politica nei regimi totalitari di massa che noi, in Italia, conosciamo assai bene, perché se ne è discusso lungamente a proposito di Giovanni Gentile. Del resto, è stato Croce a stabilire, proprio su questo punto, un nesso diretto tra Heidegger e Gentile, già in una lettera a Vossler del 10 agosto del 1933; e con parole assai aspre, spiegabili, certo, alla luce del momento in cui sono state scritte, e anche della concezione crociana del rapporto tra prassi e teoria.
Ma il problema resta, e continua a interrogarci. Valga, per fare un solo esempio, il caso di un eminente filosofo italiano del Novecento, Cesare Luporini. Fu presente al famoso discorso che Heidegger tenne nel 1933 assumendo la carica di rettore della Università di Friburgo; e, turbato («fu un grosso colpo»), lasciò il suo seminario, ben consapevole della responsabilità politica di Heidegger. Ma ne riconobbe sempre la statura filosofica, pur essendo lontano, fin dall’inizio, dal suo ontologismo. Allo stesso modo, si distaccò da Gentile; ma proprio quando aderì al PCI (agosto del ’43) gli scrisse una lettera in cui gli riconobbe di avergli insegnato a «credere nel libero futuro degli uomini e ad operare per esso».
Allo stesso modo Mazzarella è consapevole dei limiti di Heidegger, della sua natura piccolo borghese, e del «legame non episodico, ma strutturale e motivato tra l’impianto della storia dell’essere heideggeriana [...] e il nazismo». Ma questo non gli impedisce di riconoscere la grandezza di Heidegger e di liquidare la propaganda riesplosa con la pubblicazione dei Quaderni neri, imperniata - e questo è il punto generale che il suo libro mette a fuoco - su una interpretazione meccanica, immediata, dei rapporti tra filosofia e politica.
I filosofi sono politicamente responsabili e devono essere giudicati in modo severo per le loro compromissioni con regimi come il fascismo e il nazismo, e Mazzarella lo fa mettendo anche in luce i nessi, se e quando ci sono, tra posizioni teoriche e scelte pratiche. Ma la filosofia, quando è grande filosofia - e lo è nel caso di Gentile e Heidegger - è tale perché, nonostante i suoi limiti «empirici», «ideologici» (e su quelli di Heidegger ci sono battute fulminanti della Arendt), è capace di sporgere oltre le barriere del proprio tempo storico. Dimenticare questo, non comprendere la complessità dei livelli dell’esperienza di un grande filosofo, serve solo a precipitarci nella notte in cui tutte le vacche sono nere. Mentre per comprendere, anche la storia della filosofia, è necessario distinguere i livelli del discorso.
Comprendere un testo, e questo vale anche per i Quaderni neri, significa considerare il genere cui appartiene, gli interlocutori ai quali si rivolge, il lessico di cui si serve, come stravolge - e in che modo - l’universo ordinario delle parole e dei concetti. E considerare se entra in circolazione subito, oppure in situazioni storiche e politiche profondamente diverse (come avviene, per fare un altro caso a noi ben noto, con i testi di Gramsci). E se è un testo pubblico o privato, come è il caso dei Quaderni neri: distinzione essenziale, anche quando si consideri importante, per la comprensione di un testo, entrare nell’officina di un filosofo. Se non si fa questo è difficile, anzi impossibile «leggere» un testo; si rischia solo di fare propaganda - operazione interessante, ma diversa dal comprendere storico. Si intende: se e finché si ritenga che «leggere» i testi abbia ancora un senso.
DIALOGHI. Wolfram Eilenberger denuncia il declino del pensiero del suo Paese colpa della pretesa di farne una scienza, dell’influenza «dannosa» della tradizione analitica, dell’invasione della lingua inglese che appiattisce la stessa elaborazione intellettuale
Il guinzaglio anglosassone alla filosofia tedesca
conversazione di Donatella Di Cesare con Wolfram Eilenberger (Corriere della Sera, La Lettura, 30.09.2018)
DONATELLA DI CESARE - Già alcuni anni fa è stata «la Lettura» a interrogarsi per la prima volta sulla sorte della filosofia tedesca, passata ormai del tutto in secondo piano. Da allora si può dire che la questione sia diventata persino più acuta. Se si prescinde da Peter Sloterdijk, a suo modo un outsider, molto popolare nei media ma rimasto ai margini della vita accademica, nella Germania di oggi mancano figure filosofiche di rilievo. Ben pochi libri riescono a varcare i confini e a risvegliare l’interesse internazionale. Il saggio di Wolfram Eilenberger Il tempo degli stregoni, di recente pubblicato in italiano da Feltrinelli, è un’eccezione. Lei parla di Wittgenstein, Heidegger, Cassirer, Benjamin, del periodo magico del primo Novecento - davvero altri tempi! Dato che lei attualmente non ha un posto all’università, questo successo mi sembra una conferma della chiusura della filosofia accademica, incapace di parlare al grande pubblico. Com’è possibile che una grande tradizione si esaurisca a tal punto? Quali sono a suo avviso i motivi di questa crisi così profonda e drammatica?
WOLFRAM EILENBERGER - La filosofia tedesca appare oggi condannata all’irrilevanza. Il motivo è chiaro: è diventata una professione universitaria, una materia tra le altre. Anche i giovani finiscono per intenderla in tal modo. Persino quelli che hanno più talento, vedono in questa disciplina solo lo strumento per avviarsi alla carriera accademica. A prevalere sono allora i carrieristi e gli sgobboni. Molto presto si restringono gli interessi e si richiede una specializzazione. Regna sovrano l’ottuso imperativo di pubblicare e pubblicare: sempre le stesse questioni rimasticate nello stesso formato dell’articolo specialistico. Il tutto per di più in inglese. Chiunque voglia arrivare al vertice, deve subire già a trent’anni queste imposizioni. La ricerca viene così deformata e, anzi, bloccata da necessità esterne e del tutto fittizie.
DONATELLA DI CESARE - Questo vale, però, anche per l’Italia. Il capitalismo accademico sta ormai stravolgendo non solo l’università, ma lo studio e la ricerca. I criteri di valutazione, buoni forse per le materie scientifiche, hanno effetti devastanti sulle materie umanistiche. La libertà di pensiero e la critica sono minacciate dal bieco calcolo del punteggio.
WOLFRAM EILENBERGER - È esatto. Così vengono tirati su bravi pensatori aziendali - non spiriti liberi! Certo è antico il conflitto tra la filosofia ridotta a professione e quella concepita invece come vocazione. Ma adesso si può dire con chiarezza che il più grande nemico della filosofia è la volontà di essere una «scienza» e una disciplina accademica come le altre.
DONATELLA DI CESARE - Aggiungerei almeno altri tre fra i motivi della profonda crisi in cui versa la filosofia tedesca. Il primo è l’influenza dannosa esercitata dalla «filosofia analitica». Si tratta di una corrente di stampo normativo e formale che, pur avendo esordito nell’area linguistica tedesca - con Gottlob Frege prima, con Ludwig Wittgenstein poi - si è sviluppata e articolata nelle accademie angloamericane. In tal senso è una filosofia che ha ben poco a che fare con la tradizione europea. Il secondo motivo riguarda invece la lingua tedesca, ormai inspiegabilmente quasi espulsa dalle università. La questione diventa qui culturale: la Germania ha puntato quasi esclusivamente sulle materie scientifiche, privilegiando gli accordi con la Cina e con gli Stati Uniti. Interi dipartimenti di filologia antica o di orientalistica sono stati enormemente ridimensionati, se non chiusi del tutto. Il criterio è sempre l’utilità per il mercato. Eppure era lì il cardine della tradizione tedesca. Ciò ha avuto conseguenze anche per la filosofia, costretta o a essere solo «storia della filosofia» oppure a improvvisarsi ancella dei nuovi studi che vanno così di moda: le scienze dei media e quelle della cultura. Questo terzo motivo viene spesso taciuto. Certo che la filosofia deve intervenire nello spazio pubblico. Ne sono più che convinta. Ma senza concedere troppo al mercato.
WOLFRAM EILENBERGER - Si deve ammettere che oggi la filosofia tedesca ha toccato il punto più basso degli ultimi 300 anni. Nel contesto internazionale non offre più alcun impulso né esercita il fascino d’un tempo. Sembra non avere voce neppure in una prospettiva interdisciplinare. Dall’ermeneutica filosofica di Gadamer alla teoria dei sistemi di Luhmann, dall’etica del discorso di Habermas alla metaforologia di Blumenberg, gli ultimi grandi progetti filosofici risalgono oramai a cinquant’anni fa. Il pensiero sembra oggi ripiegato su di sé, al contrario di quel che avvenne invece all’inizio del Novecento, nella Berlino e nella Vienna degli anni Venti. Un motivo di crisi è certo anche la lingua. Diminuisce nel mondo il numero di persone che parlano o anche solo capiscono il tedesco. L’inglese è diventato egemone ormai anche nella filosofia. Questo dominio della lingua va di pari passo con quello del metodo. Grazie alle logiche della classifica e al criterio della valutazione il paradigma della filosofia analitica, importato dagli Stati Uniti, domina il mercato in Europa e in Germania. Per il panorama filosofico i contraccolpi sono gravi. Ormai negli Istituti di Filosofia, anche in quelli più rinomati, si tengono corsi in inglese (sui filosofi tedeschi!) e si spingono gli studenti a pensare e scrivere in quella lingua. È davvero grottesco! Come se la propria lingua madre fosse un semplice strumento esteriore per esprimere il pensiero, non un mezzo che articola e condiziona modi e contenuti del pensare. Sarebbe come se, ad esempio, per salvare la letteratura tedesca, oppure quella italiana, si consigliasse ai giovani talenti di scrivere soltanto in inglese. Sennonché i filosofi analitici in Germania vanno decantando questi esiti, come un cane che gira sfoggiando pieno d’orgoglio il proprio guinzaglio. Quasi che si trattasse di un progresso decisivo, di una sprovincializzazione, di un’apertura globale.
DONATELLA DI CESARE - Ho l’impressione che la riunificazione abbia giocato un ruolo molto importante. Non credo che la Germania abbia elaborato davvero il passato. Dopo il 1989 la filosofia è stata dichiarata e si è autodichiarata colpevole - al contrario della scienza, ben più direttamente coinvolta nel nazismo. Che cosa c’era di meglio, per rimuovere Auschwitz, che ricominciare con la filosofia americana? Non importa, poi, che si buttasse via anche il bambino con l’acqua sporca.
WOLFRAM EILENBERGER - Lei ha ragione quando afferma che, dopo la frattura della Shoah, l’accesso alla storia tedesca sembra diventare sempre più problematico. E lo è tutt’oggi. Posso parlare per esperienza personale: già per la mia generazione aveva un che di liberatorio immergersi solo nel pensiero americano. Era possibile aggirare così del tutto anche quel grande ambito, complesso e per certi versi inquietante, costituito dall’idealismo tedesco. Basta con Fichte, basta con la muffa speculativa, basta soprattutto con il pessimismo culturale alla Nietzsche o alla Heidegger! In questo senso mi convince la sua tesi interpretativa: la riunificazione tedesca ha indubbiamente contribuito a rafforzare un’avversione già profonda verso la propria storia, la propria cultura, la propria tradizione. Ciò è connesso anche con una certa sopravvalutazione della filosofia, peculiarità tutta tedesca. La filosofia sarebbe il centro, la fonte originaria di ogni sapere e di ogni scienza. Quando nel bel mezzo della civiltà si arriva alla barbarie, allora la filosofia, secondo questo modo di vedere, non può non essere la prima accusata, non può non avere la colpa maggiore. Heidegger mi è testimone! D’altra parte è pur vero che un pensiero vivo può svilupparsi solo grazie a un dialogo serrato con la tradizione. Non a caso quest’idea ha improntato la filosofia tedesca del dopoguerra e ha avuto grande rilievo fino a pochi anni fa. Gadamer e Blumenberg hanno in fondo costruito la loro riflessione intorno a questo cardine. Proprio contro la filosofia analitica, così certa del suo metodo, così astorica e al contempo così unidimensionale, è indispensabile mantenere il dialogo con la tradizione.
DONATELLA DI CESARE - A me pare, tuttavia, che anche la filosofia classica non riesca, in Germania, a dire gran che di nuovo. Il pensiero politico è molto normativo; non ha più né una dimensione critica né, tanto meno, un afflato utopico. Quanto è andato perduto del passato! Un esempio eloquente è la Scuola di Francoforte. È difficile scorgere un sia pur esile nesso con Benjamin o persino con Adorno. Si può dire che proprio nel contesto tedesco abbia avuto la meglio quello strano motto di Richard Rorty che afferma la priorità della democrazia sulla filosofia. In fondo anche Habermas, a ben guardare, è un filosofo di Stato. La filosofia normativa, soprattutto in Germania, si presenta come una ripresa, se non una riedizione, del neokantismo, quella filosofia accademica che regnava a Marburgo prima che Heidegger la spazzasse via. Eppure lei sembra avere un’alta opinione di Cassirer e dei neokantiani, quei filosofi che, a loro volta, rileggevano Kant con il proposito onesto, ma decisamente vetusto e per alcuni versi miope, di delineare un’etica, una teoria della conoscenza, un’ontologia. Riproporre oggi un «neokantismo» come stile e modalità della filosofia vuol dire presentarsi come bravi liberali, in grado di democratizzare la democrazia, superare gli ostacoli della comunicazione, mitigare le sofferenze umane, fornire qualche viatico per essere un po’ meno infelici.
WOLFRAM EILENBERGER - È impossibile mettere in dubbio l’assenza di ogni impulso nonché, aggiungerei, una certa mancanza di coraggio. Questo vale in particolare per la Scuola di Francoforte che ha toccato l’apice dell’irrilevanza nei suoi epigoni, ad esempio nella figura di Axel Honneth. Politicamente ciò si traduce nel ripetuto auspicio, né coraggioso né efficace, che il capitale finanziario perda finalmente il potere. Come se a tal fine fossero necessari i filosofi! Si capisce perché da questa corrente non viene alcun contributo che possa aiutare a riflettere sulle grandi questioni di oggi, ad esempio sulla dinamica della migrazione, o sull’ancoraggio culturale di una nazione, un tema che finisce per venire usurpato dalla destra. Che errore! Occorre poi parlare di Jürgen Habermas, l’ultima grande figura di filosofo ancora attivo. Il suo influsso sulla filosofia tedesca, sia dal punto di vista istituzionale, sia da quello dei contenuti, è stato enorme; ma non sempre gli effetti sono stati positivi. Com’è noto, dal consenso alla conformità, e al conformismo, il passo è breve. Si deve rimproverare a Habermas non solo di aver addomesticato e ammansito l’ambito del pensiero politico, ma anche di averlo recintato e chiuso ideologicamente. Diciamolo pure: ormai da diversi anni Habermas è il filosofo di Angela Merkel.
In Germania l’assenza di idee nei filosofi e nelle filosofe di sinistra è ormai quasi istituzionalizzata e va ricondotta in gran parte a questo stallo. Per superarlo sarebbe forse auspicabile ricollegarsi al primo Novecento mondiale e riscoprire la vitalità di quegli anni. Il pensiero di Benjamin, con la sua radicalità, può ancora essere d’ispirazione.
A mio avviso, però, è Cassirer il filosofo che può essere il punto di riferimento per temi che oggi ci stanno a cuore, dall’importanza dell’Europa al significato decisivo della cultura. È attingendo a queste fonti ancora così vive che la filosofia tedesca potrà forse rifiorire. Non si può escludere che ciò stia già avvenendo. Si deve infine ammettere che è sempre difficile giudicare la propria epoca dalla prospettiva del presente. Solo questo si può dire con certezza: se qualcosa di nuovo nascerà nella filosofia tedesca, ciò avverrà fuori dai percorsi accademici. Non sembra che si possa attendere molto dal mondo universitario.
Le cause del declino: la politica culturale di Berlino e la «sbornia analitica»
La filosofia tedesca è morta. Dopo 300 anni
La recente scomparsa di Pöggeler e di Theunissen ha segnato la fine del Novecento. Non bastano Sloterdijk (sempre brillante) e Gabriel (molto meno)
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura)
La filosofia tedesca contemporanea non è che una pallida controfigura di quella del Novecento. I motivi che hanno contribuito a questo declino sono molteplici. Negli ultimi vent’anni è cambiata anzitutto la politica culturale della Germania, che ha preferito puntare sulle materie scientifiche piuttosto che su quelle umanistiche. A farne le spese è stata la filosofia il cui pur forte prestigio non ha arginato il discredito in cui è caduta. Ma la vera novità è che la «filosofia continentale » è stata soppiantata dalla «filosofia analitica», importata dai Paesi anglosassoni. Interi dipartimenti, roccaforti dell’idealismo tedesco, della fenomenologia, dell’ermeneutica, sono caduti nelle mani degli analitici, in un conflitto senza esclusione di colpi.
A Tubinga, patria di Hegel e Schelling, vengono oggi offerti anonimi corsi di teoria della scienza; a Heidelberg, sulla cattedra che è stata di Jaspers prima, di Gadamer poi, siede un analitico che insegna in inglese «filosofia della mente».
A nulla sono valsi gli appelli che i filosofi da tutto il mondo hanno inviato alle autorità tedesche. Come a nulla è servita la petizione, lanciata il 9 marzo scorso e firmata da oltre tremila filosofi - da Jean-Luc Nancy a Judith Butler - per evitare che, sull’onda del dibattito suscitato dai Quaderni neri, venisse soppressa la cattedra di Friburgo intitolata a Martin Heidegger; con la scusa di introdurre una Juniorprofessur, cioè un posto per un giovane studioso, che peraltro si occupi di filosofia analitica, la celebre cattedra di fatto è già stata eliminata.
La difficoltà in cui si dibatte oggi la filosofia tedesca, nella sua affannosa ricerca di una nuova identità, ha a che fare con Heidegger. Incapace di uscire dal cono d’ombra proiettato dal suo pensiero, prova a demolirne la figura. Così diventa molto più facile cancellare con un colpo di spugna non solo Heidegger, ma anche il passato recente che pesa sempre di più: la fine dell’ebraismo tedesco, le leggi di Norimberga, la Shoah.
Al contrario di quel che è avvenuto altrove, la filosofia ebraica non ha mai fatto davvero breccia, e questi temi non sono stati considerati filosofici. Che cosa c’era di meglio, dunque, che ricominciare tutto da zero, aprendo le porte dell’università a un pensiero angloamericano, refrattario alla storia e poco propenso a intervenire nel dibattito politico? L’oculata regia di accademici come Jürgen Mittelstraß non basterebbe altrimenti a spiegare il successo delle correnti analitiche.
Quando, nel 2002, è morto Gadamer, allievo di Heidegger, fondatore dell’ermeneutica, la situazione era già mutata. Oggi che, dopo la scomparsa recente di Otto Pöggeler, il 10 dicembre 2014, e di Michael Theunissen, il 18 aprile 2015, si può dire concluso il capitolo del Novecento, c’è da chiedersi se abbia giovato alla filosofia tedesca quell’atteggiamento autodistruttivo che ha finito per nuocere non solo all’ermeneutica - ne sono rimasti coinvolti anche personaggi come Hans Blumenberg - ma anche alla fenomenologia.
Se i ponti costruiti da Ernst Tugendhat tra ermeneutica e filosofia analitica restano solidi, più pericolanti sono quelli gettati da Bernhard Waldenfels che ha tentato di sganciare la fenomenologia dall’ermeneutica e di rileggerla alla luce della tradizione francese. Certo sono ben pochi i nomi dei filosofi tedeschi che superano i confini nazionali. Non mancano figure di rilievo, come Julian Nida-Rümelin o Volker Gerhardt, pressoché sconosciuti, però, al grande pubblico europeo.
Nel complesso il paesaggio appare molto frastagliato. È sopravvissuta la «Scuola di Francoforte» grazie a Jürgen Habermas e ai suoi allievi, come Axel Honneth. Ma è difficile rinvenire nei loro scritti quell’afflato che aveva ispirato Horkheimer e Adorno nella loro critica radicale alla ragione.
Le opere di politica hanno in genere un carattere molto normativo. Accanto alla filosofia pratica, sono molto diffuse la bioetica, l’etica applicata, l’etica dell’ambiente, nonché tutte quelle specializzazioni con cui il pensiero si sforza di essere un’utile prassi. La ricerca teoretica, per quanto rigorosa e accurata, sembra incapace di aprire nuove prospettive, mentre mantengono un alto profilo la storia della filosofia e lo studio dei classici, greci e tedeschi, spesso dettato tuttavia da un interesse antiquario.
Costretta a misurarsi con il modello vincente della scienza, la filosofia tedesca del XXI secolo, quando non ha vestito i panni dell’epistemologia, ha finito per rifugiarsi nell’estetica. Di qui la grande mole di pubblicazioni nell’ambito della riflessione sull’arte e sull’immagine. A questo proposito si parla di Neuromantik, un «nuovo romanticismo», in cui si inscrive anche Peter Sloterdijk, l’unico filosofo tedesco che abbia raggiunto fama internazionale.
Dopo lo spettacolare successo del suo libro Critica della ragione cinica, uscito nel 1983, Sloterdijk ha mantenuto un ruolo di primo piano sulla scena filosofica tedesca grazie alle sue doti comunicative e a una brillante critica della globalizzazione, di stampo, però, fortemente conservativo. Oltre al poliedrico racconto dell’umanità, affidato ai tre volumi di Sfere (i primi due sono stati tradotti da Cortina), Sloterdijk ha pubblicato numerosi saggi, libri, pamphlet, che hanno suscitato accese polemiche. Hanno fatto scalpore alcune sue tesi, come quella in cui sostiene che lo «Stato finanziario», basato sulla tassazione, è una sorta di «saccheggio».
Erede di Nietzsche e Heidegger, ne accentua il risentimento in modo talvolta parossistico. Viviamo in un’epoca post umana, nella quale riemerge la «bestialità» dell’uomo e diviene tangibile il fallimento dell’umanismo. Paradigmatico è il titolo di una raccolta: Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger. Nostalgia del passato e una certa aspirazione all’ordine attraversano il suo ultimo libro Die schrecklichen Kinder der Neuzeit («I terribili figli della modernità») pubblicato da Suhrkamp nel 2014.
Se le pagine di Sloterdijk sono sempre coinvolgenti, non si può dire altrettanto per quelle di Markus Gabriel, anche lui ospite del Salone internazionale del Libro di Torino. Perché il mondo non esiste si intitola il suo bestseller, appena pubblicato in Italia da Bompiani. Il libro di Gabriel ruota intorno alla tesi che il mondo, inteso come un insieme di oggetti, non esiste. Ma non l’aveva già detto Heidegger? Il mondo è piuttosto un esistenziale, viene cioè tratto alla luce dall’essere umano che vi soggiorna.
L’intento di Gabriel, che si serve di Heidegger leggendolo attraverso le lenti riduttive della filosofia analitica, è però ben diverso: si tratta di dimostrare che il mondo esiste al plurale e che gli oggetti possono essere colti in sé, nei molteplici «campi ontologici» in cui si rendono accessibili. Contro Kant, contro il postmodernismo, contro Derrida, sarebbe questa la via per salvare la «realtà». È difficile credere che - come auspica Gabriel - attraverso queste speculazioni, a dir vero molto antiche, la Germania possa tornare a essere di nuovo leader sul «mercato». L’impressione è, al contrario, che volge al termine un predominio di quasi trecento anni. I protagonisti del dibattito filosofico parlano ormai altre lingue.
Eilenberger e la filosofia in Germania
di Francesca Rigotti (Doppio Zero, 11.09.2018)
La filosofia di lingua tedesca è molto cambiata nell’ambito degli ultimi due decenni: da una parte la filosofia accademica universitaria; dall’altra, la filosofia «popolare» che incide su un folto pubblico con la sua presenza mediale. Diversamente che in Italia però, i due campi sono occupati da personaggi differenti. In Italia partecipano ai festival filosofici, sempre più diffusi da un ventennio a questa parte, gli stessi personaggi che esercitano la loro professione di docenti nelle università. Le medesime persone, in Italia, occupano anche le pedane mediatiche. Ma soprattutto, i pensatori accademici vengono, sempre in Italia, proposti, se magari non perfettamente recepiti e compresi, anche al pubblico generico televisivo. Non tutti allo stesso modo: alcuni hanno la brandina su cui dormire dietro le quinte dello studio, tanto la loro presenza è assidua; altri ci capitano di rado (le donne per esempio), ma non è questo il punto.
In Germania è stato così ancora per Habermas, Popper o Jaspers: i loro libri trovavano grossa attenzione ovunque, le loro teorie venivano assorbite ed elaborate da un pubblico non necessariamente specialistico. Oggi invece le direzioni sono diverse. Da una parte la filosofia accademica universitaria si orienta agli Stati Uniti, parla e scrive in inglese, pubblica non più libri, trattati o altro, ma articoli e saggi su riviste specializzate in lingua inglese. I «libri» di filosofia sono a questo punto le pubblicazioni di tesi di master e di dottorato che nessuno legge ma che servono per andare in cattedra. I professori universitari non scrivono praticamente più libri diretti a un grosso pubblico intellettuale.
Dall’altra parte troviamo la filosofia popolare, i cui protagonisti sono Peter Sloterdijk - con le sue esortazioni a praticare una filosofia che esca dal «grembo delle università», per entrare «sugli schermi, nelle scuole e nei festival popolari»; David Precht, e ora anche Wolfram Eilenberger e Barbara Bleisch, malvisti dalla filosofia accademica.
Oltre a ciò già da tempo è stata abolita, in Germania, l’obbligatorietà della materia scolastica della filosofia dalle scuole superiori, come pure è stato da tempo soppresso un corso preparatorio alle discipline scientifiche, chiamato Philosophicum, che introduceva gli studenti alle problematiche etiche e alle dimensioni umanistiche in genere. In Germania la filosofia come materia scolastica è sì presente in alcuni licei ma non è obbligatoria. Dove è insegnata, in genere da un insegnante di religione o di tedesco immolatosi alla causa, è disciplina facoltativa e insegnata sovente con poco rigore, slegata dal contesto storico e proiettata sulla libera discussione di alcune idee, prevalentemente dilemmi morali in linea con la tradizione protestante. Ancora una differenza con l’Italia, dove «filosofia» resiste (non sappiamo fino a quando) in molti licei come materia obbligatoria, per quanto in forma di storia della filosofia (il che non è poi da buttar via...).
Insomma in questa situazione Wolfram Eilenberger, pur sempre fondatore e ex capo-redattore della più diffusa rivista tedesca di filosofia popolare, Philosophie Magazin, che si vende nei chioschi delle stazioni e in città in numeri molto alti (60.000 esemplari!), e ora conduttore della trasmissione televisiva zurighese Sternstunde Philosophie della quale dirò qualcosa in seguito, ha iniziato un dibattito sui giornali nei quali dichiara il suo livello di stima nei confronti della filosofia accademica: zero.
Dove è finito il paese di Leibniz e Kant, Hegel e Schopenhauer, Nietzsche e Arendt? Vedi su questo l’illuminante saggio di Donatella De Cesare, “La filosofia tedesca è morta, dopo 300 anni”.
Il vuoto del pensiero tedesco lo si può rilevare, sostiene Eilenberger, nel fatto che la filosofia si è messa a correre dietro al modello delle scienze naturali: così la costrizione a pubblicare in lingua inglese e soltanto in determinate riviste (a pagamento) per entrare nel ranking e ricavare un numero alto di citazioni, il conformismo, la spasmodica ricerca di costruirsi una carriera con questi mezzi fanno sì che si producano prevalentemente quelli che Hannah Arendt chiamava «pensieri congelati», parole aride e senza vita per quanto precise e meticolose. Parole in inglese però, e prive di carattere nazionale: non si può e non si deve parlare di filosofia tedesca (o di pensiero italiano) più di quanto non si può parlare di fisica o di chimica di questo o quel paese, affermano gli avversari di Eilenberger e in genere i filosofi analitici, i quali a loro volta accusano Eilenberger di romanticismo e di falsa esaltazione del genio e della magia (si pensi al titolo originale del libro di Eilenberger, Die Zeit der Zauberer, Il tempo dei maghi, più che degli stregoni) e del carisma dei filosofi.
Immagino che Eilenberger concorderebbe con la posizione di Protagora. Nelle battute iniziali del dialogo platonico Protagora, l’omonimo sofista è sollecitato a dimostrare che la virtù è insegnabile. Spiegando la sua posizione Protagora aggiunge:
«Socrate, non mi rifiuterò; preferite però che ve lo dimostri raccontando un mito, come gli anziani ai più giovani, o con un ragionamento» (mython legon epideixo e logo diexelthon)? Molti dei presenti risposero che scegliesse lui. «Mi sembra più piacevole - disse - raccontarvi un mito». E via col mito della nascita dell’uomo animale nudo e indifeso. Secondo Protagora - ma la posizione è condivisa dallo stesso Platone - ci sono due modalità, perfettamente equivalenti, di sostenere una dimostrazione: col logos, il ragionamento astratto, la raccolta e il calcolo (léghein); oppure col mythos, non favola destituita di verità, ma racconto, narrazione. Dimostrazione mythica o dimostrazione logica, in alternativa dunque, ma dove la prima ha una carica di piacevolezza sconosciuta alla seconda: è infatti più aggraziata (chariesteron), contiene maggior piacevolezza e diletto. Troppo facile rispondere alla domanda su quale stile filosofico preferisca Eilenberger. Il quale immagino non abbia nulla nemmeno contro l’uso dell’associazione di pensiero che si pratica con analogie, metafore e metonimie, demonizzato spesso dalla corrente logico-analitica e dai critici - mettiamoci dentro anche loro, dài - del politicamente corretto.
Dicevo che Elenberger conduce una trasmissione filosofica, notizia con la quale concludo questa breve esposizione: la perla dei programmi cultural-filosofici svizzeri di lingua tedesca, la trasmissione Sternstunde (L’ora delle stelle) Philosophie.
Si tratta dell’unico luogo in cui, sui media della Svizzera tedesca, viene esplicitamente usata la parola «filosofia», assente dalle rubriche dei quotidiani e dei settimanali o di altri programmi radiotelevisivi, in cui si discute magari, e anche spesso, di filosofia, ma senza usare esplicitamente il termine. Gli ospiti della Sternstunde Philosophie, che viene trasmessa alle 11 del mattino della domenica come una specie di messa laica, non sono soltanto filosofi ma anche personalità del mondo della cultura, dell’arte, della scienza, della politica e/o dell’economia. Quel che è decisivo tuttavia è che le persone vengono interrogate in maniera approfondita, intorno al generale e al particolare del loro pensare e operare, si chiede loro di riflettere sul perché questa o quella situazione vengono presentate così e non in un altro modo. Nel rispetto del pubblico televisivo si pongono questioni accurate con cui si richiedono risposte profonde e dettagliate sul senso e sul fine, sulle cause e sulle speranze, sui desideri e le utopie. Insomma si fa filosofia. Condotti e moderati (anche) da Eilenberger.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo). *
Così Hannah Arendt descrisse (nel ’51) i populismi del Terzo millennio
L’inquietante attualità di “Le origini del totalitarismo”
di Christian Rocca (La Stampa, 23.08.18)
Le origini del totalitarismo, il saggio scritto nel 1951 dalla politologa Hannah Arendt, è considerato uno dei libri più importanti del XX Secolo per l’analisi dei movimenti politici totalitari d’inizio ’900, in particolare del nazismo e dello stalinismo (secondo Arendt, il fascismo era invece un movimento nazionalista e autoritario). All’indomani dell’elezione di Donald Trump, i giornali internazionali segnalarono la ritrovata popolarità del saggio di Arendt, assieme a 1984 di George Orwell, e rileggendo l’ultima parte del saggio, quella dedicata alla trasformazione delle classi in masse, al ruolo della propaganda e all’organizzazione dei movimenti, si capisce bene perché.
Arendt descriveva il nuovo soggetto politico come «la folta schiera di persone politicamente neutrali che non aderiscono mai a un partito e fanno fatica a recarsi alle urne».
Fuori e contro il sistema dei partiti, indifferenti agli argomenti degli avversari
Secondo Arendt, i movimenti totalitari europei «reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida. Il risultato fu che in maggioranza furono composti da persone che non erano mai apparse prima sulla scena politica. Ciò consentì l’introduzione di metodi interamente nuovi nella propaganda e un atteggiamento d’indifferenza per gli argomenti degli avversari; oltre a porsi al di fuori e contro il sistema dei partiti nel suo insieme, tali movimenti trovarono un seguito in settori che non erano mai stati raggiunti, o “guastati”, da quel sistema».
Se l’analisi è familiare, è proprio perché ricorda il reclutamento popolare e di classe dirigente dei nuovi partiti populisti occidentali di questo scorcio di secolo. Allora come adesso, prendendo a prestito le parole di Arendt, questi movimenti «misero in luce quel che nessun organo dell’opinione pubblica aveva saputo rilevare, che la costituzione democratica si basava sulla tacita approvazione e tolleranza dei settori della popolazione politicamente grigi e inattivi non meno che sulle istituzioni pubbliche articolate e organizzate».
Arendt elenca gli errori dei partiti politici tradizionali e la complicità delle élite borghesi tra le concause del successo dei movimenti totalitari ma, di nuovo, è impressionante quanto la fotografia del risveglio delle masse di allora rimandi a quella attuale: «Il crollo della muraglia protettiva classista trasformò le maggioranze addormentate, fino allora a rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganizzata e amorfa, di individui pieni d’odio che non avevano nulla in comune tranne la vaga idea che (...) i rappresentanti della comunità rispettati come i suoi membri più preparati e perspicaci fossero in realtà dei folli, alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla rovina».
Una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico guidato dalla postverità
Anche le pagine dedicate all’organizzazione dei movimenti totalitari degli Anni Trenta sembrano cronaca dei nostri giorni: «Sono organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui, in confronto degli altri partiti e movimenti, esigono una dedizione e fedeltà incondizionata e illimitata; ciò da prima della conquista del potere, in base all’affermazione, ideologicamente giustificata, che essi abbracceranno a tempo debito l’intera razza umana» e, per questo, «sono stati definiti società segrete operanti alla chiara luce del giorno» perché, come queste, «adottano una strategia di coerenti menzogne per ingannare le masse esterne di profani, esigono obbedienza cieca dai loro seguaci, uniti dalla fedeltà a un capo spesso sconosciuto e sempre misterioso».
E se non fosse chiaro, anche in tempi di fake news e post verità, Arendt continua così: «Forse il massimo servizio reso alle società segrete come modello ai movimenti totalitari è l’introduzione della menzogna coerente come mezzo per salvaguardare il loro mondo fittizio. L’intera gerarchia dei movimenti, dall’ingenuo simpatizzante al membro del partito, alle formazioni d’élite, all’intima cerchia intorno al capo, e al capo stesso, può essere descritta dal punto di vista del curioso miscuglio di credulità e cinismo in varie proporzioni con cui ciascun militante, secondo il suo rango, deve reagire alle mutevoli affermazioni menzognere dei dirigenti e all’immutabile finzione ideologica centrale».
In un passaggio, citato anche dal recente libro di Michiko Kakutani, The Death of Truth, Arendt scrive: «In un mondo in continuo mutamento, e sempre più incomprensibile, le masse erano giunte al punto di credere tutto e niente, da pensare che tutto era possibile e niente era vero».
La grande novità degli Anni 30, che pare non sia servita da lezione al mondo contemporaneo, era che «la propaganda di massa scoprì che il suo pubblico era pronto in ogni momento a credere al peggio, per quanto assurdo, senza ribellarsi se lo si ingannava, convinto com’era che qualsiasi affermazione fosse in ogni caso una menzogna. I capi totalitari basarono quindi la loro agitazione sul presupposto psicologicamente esatto che in tali condizioni la gente poteva essere indotta ad accettare le frottole più fantastiche e il giorno dopo, di fronte alla prova inconfutabile della loro falsità, dichiarare di aver sempre saputo che si trattava di una menzogna e di ammirare chi aveva mentito per la sua superiore abilità tattica».
Pensando al nazismo e al comunismo, Arendt ha spiegato perché sono falliti i tentativi di neutralizzarli, e la spiegazione è più che mai attuale: «Uno dei principali svantaggi del mondo esterno nei rapporti coi regimi totalitari è stato costituito dal fatto che, ignorando tale sistema, esso confidava che la stessa enormità delle menzogne ne avrebbe causato la rovina o che, prendendo in parola il capo, sarebbe stato possibile costringerlo a rispettare gli impegni, a dispetto delle intenzioni ordinarie. -Il sistema totalitario è purtroppo al sicuro da queste conseguenze normali; la sua ingegnosità sta appunto nell’eliminazione di quella realtà che smaschera il bugiardo o lo obbliga ad adeguarsi alla sua simulazione». Quella di Arendt, insomma, è l’analisi storica sulle origini del totalitarismo, ma riletta oggi suona anche come una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico che non si basa più sui dati di fatto e che si lascia guidare dalla post-verità.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
L’arcisenso secondo Aldo Masullo
di Sossio Giametta («la Repubblica - Napoli», 06 aprile 2018)
Chi vuol sapere che cos’è la filosofia, in particolare la filosofia contemporanea (ma a partire da Fichte), chi vuole partecipare ai suoi misteri gaudiosi e dolorosi, provare su di sé la sua forza demoniaca, ed è disposto a farsi invadere perquisire violentare per essere affiliato alla ristretta, ma universale e sempiterna setta dei vedenti, raccolga le forze, si compri “L’arcisenso. Dialettica della solitudine” di Aldo Masullo (Quodlibet, pagine 190, euro 20), si liberi dalle incombenze quotidiane e si sprofondi nella lettura del libro. Se tutte queste condizioni non ricorrono e si preferisce rimanere nella beata ignoranza (Ignorance is Bliss), giacché non si tratta di babà e di gattò, anche se si rimane tra le eccellenze napoletane, allora: estote longe profani, statevene lontani, brava gente: si può vivere anche senza filosofia, sebbene non con la stessa larghezza, scialo e dignità.
Alle prime otto pagine mi sono spaventato. Sopra di me un oracolo, un medium, un mago, uno sciamano o non so quale personaggio sovrumano, dettava una dopo l’altra, in uno stile veloce conseguente perfetto ma a cui è arduo tener dietro, verità misteriche sulla vita e sull’uomo, sul soggetto, sulla soggettività, che “non è né essere né divenire, ma il sempre ricominciante “venire-a-sé”, sull’intersoggettività e sulla comunità che ne scaturiscono e sulla solitudine invincibile di fondo: un bagno freddo in un gelo ardente. Solo da pagina nove in poi, a cominciare da una bella citazione di Croce, ho ricominciato a respirare, a trovare un discorso più umano, più alla mia portata.
Ma la distruzione iniziata prima di nozioni e verità consolidate, idola di tutti i tipi, ma in particolare dell’uomo e del soggetto, continua. Si salva la “paticità”. Tutto comincia da essa anche se non finisce con essa. Che cos’è la paticità, “l’intoccabile tocco”? Be’, conoscete l’antipaticità? Il pathos, l’apatia? Sì? E allora ricavatevi anche quella. Tanto, se vi dico che è l’arcisenso, non vi aiuto molto. Ma vediamo se ci può aiutare invece quello che ne dice l’Autore, nel primo e nell’ultimo degli otto esplosivi capitoli del libro.
“Patico è il modo umano della coscienza. Esso è in atto in ogni momento del sentir-si. Le emozioni vi si umanizzano ed entrano nella e-sistenza”. Avete capito? Non ancora? Be’, pensateci sopra, finirete col capire più o meno, come più o meno ho capito io, anche grazie alle tante altre cose che l’Autore aggiunge. Per esempio: “la paticità è il nucleo intimo del vissuto, la fenomenalità di ogni fenomeno, l’Arcisenso”. “Il patico è il sentir-si che accompagna inseparabilmente ogni sentire”. Questa cosa fondamentale non è tuttavia né rappresentabile né comunicabile, e ciò rende la vita “radicalmente autocentrata”, cioè la solitudine di ognuno radicale e insuperabile. Non cominciate a vedere píù chiaro? Non c’è proprio un lume, ma un barlume sì.
L’uomo “non è un ente inerte, apatico”, ma “un e-sistente... esposto alle inquietanti relazioni con gli altri”. Insomma l’apatico è il sordo sentir-si di ognuno, un’oscurità, ma un’oscurità che porta alla luce dell’e-sistenza e della intersoggettività, giacché non c’è un Io senza almeno un altro Io, è un fatto naturale che si rigenera in prove umane. Qual è la sua fonte? È “la tensione dell’assoluta differenza (tra l’essere e il nulla) al cui irrompere si usa dare il nome di tempo”. Sul tempo se ne sentono delle belle nell’apposito capitolo “Durata”, che ha come sottotitolo Eraclito. Il desiderio eroico. Dove il desiderio eroico dell’uomo è il solo garante della durata nel tempo che distrugge tutto e in ogni istante anche se stesso.
Il discorso sulla paticità, che è centrale, è ripreso, come abbiamo detto, nell’ultimo capitolo. Questo è una Appendice. Nel labirinto della soggettività. Appunti per una autobiografia filosofica. Uno magari bada all’autobiografia e non al “labirinto” e pensa di trovare un’autobiografia come quella di Croce, di Vico, di Cartesio o di Spinoza.
Ma invece no, è proprio un labirinto, un labirinto di concetti, soprattutto della soggettività, in cui a forza di scavare la filosofia contemporanea, a partire da Fichte, si è intrappolata per la sua logica intrinseca, scovando alla fine interessanti passaggi e vie di uscita. Il risultato è la negazione di “essenze, strutture, metaempiriche, universalità, o qualche sovrana architettura logico-ontologica, trascendente o trascendenta-le”: bye bye (se funziona) filosofia classica! Quella contemporanea porta al post-Dove moderno e si basa sulla fattuale e irriducibile differenza vissuta, sempre il patico, che porta alla reciprocità affettiva e al sin-patetico riconoscimento - “riconoscimento della pluralità [nella comunità] in cui consiste l’unità dell’umano”.
Insomma, cari amici, ho cercato to put you in the picture, di introdurvi un po’ nell’atmosfera del libro, ma di più qui non posso dire, salvo che questo “Arcisenso” è un libro avventurioso, ricchissimo di “scandalose novità”, alle quali hanno contribuito quasi tutti i filosofi contemporanei, che hanno agito in questa impresa rivoluzionaria di concerto allo stesso modo in cui agisce nella scienza la collettività degli scienziati. Ma tutte queste novità sono magistralmente portate a unità con agilità da scoiattolo e piglio giovanile da un uomo che il 12 aprile ha compiuto 95 anni, che invera il detto di chi sostiene che il corpo invecchia solo per far ringiovanire lo spirito. Qui lo spirito è giovanissimo, lucidissimo, e l’Autore, come filosofo, non è affatto pronto per la “pensione”. Lo contrarierebbe infatti chi pensasse che questo libro, una sì vasta silloge, possa essere il “testamento spirituale” di Aldo Masullo. Molto bolle ancora in pentola e fra non troppo ci sorprenderà. Forse ci sconvolgerà. Se qualcosa si può timidamente obiettare ai suoi grandi capitoli (sul Dolore, sulla solitudine - magistrale saggio su Leopardi - sul silenzio, sulla sapienza e sulla grazia, è l’incredibile impetuosità, che lo porta a un’audacia capace di trasformarsi in temerarietà (accadde anche a Nietzsche). Molte sue soluzioni infatti sono così spinte che, pur ammirevoli come frutto di una felicissima inventività filosofica, non è facile, almeno immediatamente, far proprie. Quello che ci sentiamo di dire per un così geniale e illustre filosofo napoletano, che è anche un grande oratore, è quello che del filosofo dice un autore che spicca, rispetto a lui, per la brevità della sua vita, Pico Della Mirandola: “Se vedrai un filosofo discernere ogni cosa con netta ragione, veneralo; è animale celeste, non terrestre”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
Federico La Sala
FILOSOFIA
Heidegger, i «Quaderni neri» 1948-51
Quando rivide il suo amore mancato
Dopo tre anni di sosta riprende la pubblicazione dei taccuini inediti. Qui Donatella
Di Cesare analizza il nuovo volume che parla anche della relazione con Hannah Arendt
di DONATELLA DI CESARE (Corriere della Sera, 10.07.2018)
Dopo una pausa durata più di tre anni, riconducibile al clamore suscitato in tutto il mondo dai primi volumi, riprende la pubblicazione dei Quaderni neri di Martin Heidegger. È appena uscito dall’editore Klostermann il volume 98 delle opere complete, curato da Peter Trawny, che contiene le Annotazioni VI-IX e un inserto intitolato Der Feldweg («Il sentiero interrotto»). Si tratta dei quaderni che vanno dal 1948 al 1951, un periodo cruciale per la storia tedesca, e per quella di Heidegger, già interdetto dall’insegnamento universitario. Le pagine degli Schwarze Hefte restituiscono pensieri, dubbi, interrogativi del filosofo - tanto più notevoli, perché Heidegger parla liberamente. Come se si rivolgesse a un futuro lettore. Si conferma così che i Quaderni neri sono un prezioso taccuino filosofico, laboratorio della sua riflessione.
A partire dal 1948 gli echi delle vicende politiche si fanno sempre più flebili. Vale la pena sottolineare che non appaiono né riferimenti né allusioni agli ebrei o all’ebraismo, mentre qui e là non cessano gli attacchi al cristianesimo. Solo all’inizio affiorano due rinvii sarcastici a Hitler (pp. 21, 77). «Tutto il mondo non fa che gridare ai crimini commessi da Hitler. E questi sono nefandi quanto basta. Ma pochi considerano che nessuno dei grandi vincitori ha saputo vincere. Questa incapacità è ancora peggiore. Non perché gli effetti ci colpiscano, ma perché investono l’intera condizione del mondo ben più dei furori di Hitler». Il giudizio riguarda il corso della storia entrata stabilmente nell’età del «planetarismo» (oggi si direbbe globalizzazione). Osservazioni sparse sul nuovo equilibrio occidentale, mutato dal Patto atlantico, si alternano ad appunti sulla sorte dell’Europa che rischia la scomparsa, non per il superamento degli Stati nazionali, bensì per l’incapacità, filosofica prima che politica, di progettarsi.
Sono gli anni del ritiro. Si prolungano i mesi trascorsi nella sua baita a Todtnauberg, nella Foresta Nera. Il professore, costretto anzitempo a essere emerito, è diventato un «eremita» (p. 264). Il silenzio, la solitudine, la rinuncia sono i temi che scandiscono le pagine dei quaderni, in particolare quelli che precedono la pubblicazione, nel 1950, della celebre raccolta Sentieri interrotti.
Per pensare quel tempo notturno, «tempo di povertà», di dispersione giornalistica e attesa meditativa, Heidegger ricorre a nuove parole: l’Unter-schied, la differenza, l’Ereignis, l’evento, ma anche il Ge-stell, il dispositivo della tecnica, che forse proprio qui compare per la prima volta. La tecnica non è uno strumento neutrale che si possa impiegare a vantaggio dell’umanità emancipata. Concepita in vista del dominio, si rovescia nell’opposto. Quel produrre incessante, che della natura fa una riserva da impiegare, diviene un meccanismo incontrollabile. Il soggetto moderno, che crede, attraverso la tecnica, di poter disporre di tutto, viene scalzato. Il progettista diventa il progettato. Scopre di essere l’oggetto di una produzione illimitata, un fondo di riserva, un vuoto a perdere.
Non si esagera dicendo che la riflessione sulla tecnica inizia nei Quaderni neri. Ma un tema interessante è anche il ritorno alla «filosofia dell’esistenza» (p. 150), provocato non tanto dal dialogo mancato con Jean-Paul Sartre, quanto dalla continua e aspra polemica con Karl Jaspers, lo psichiatra e filosofo di Heidelberg, l’amico del passato, il cui giudizio, nel 1945, era stato decisivo per l’epurazione.
Nelle Annotazioni VIII si trova invece la testimonianza velata del primo incontro, nel dopoguerra, con Hannah Arendt, avvenuto a Friburgo, nel febbraio del 1950. L’incipit è una citazione di Agostino: «Nessun invito ad amare è maggiore di questo: prevenire amando». E poi ancora un’altra citazione, questa volta di Meister Eckhart: il «fuoco dell’amore» alimenta il pensiero. L’amore è il motivo di fondo. Heidegger si schermisce non senza imbarazzo: «Si dice che nel mio pensiero l’amore non sia pensato. Lo si può forse pensare?» (p. 233). E ancora: «Amare vuol dire privarsi nell’evento; sostenere l’espropriazione» (p. 235). Nessun possesso dell’altro, dunque. L’amore irrompe inatteso.
Nella lontana primavera del 1925 Arendt aveva spezzato l’ordo amoris di Heidegger che da quella passione era fuggito, incapace di far fronte alla presenza di lei nella sua vita. Contrario all’«amore borghese», quello dei «viaggi insieme», aveva mancato la chance che si sarebbe rivelata l’unica autentica. Senza Hannah era rimasto spaesato, tra la provincia asfittica e l’erranza spensierata. L’aveva abbandonata con un augurio apparentemente rispettoso: «amore è la volontà che l’amata sia (...); non desidera, né pretende nulla». Ma che amore è quello che non pretende nulla? Dietro quell’augurio si celava a stento la sua fuga. Il sé lasciava andare l’altro, per non esserne a sua volta toccato. Heidegger era tornato alla filosofia. Dopo quei cinque lustri, il tempo che «ti ha ingiunto di andar via, che mi ha lasciato errare» (così le aveva scritto in una lettera, subito dopo l’incontro del 1950), emergono le inibizioni, gli impedimenti che lo avevano reso prigioniero nel regno della possibilità. L’evento, nella sua vita, non aveva saputo accoglierlo.
Durante il dopoguerra Heidegger teorizza il «passo indietro» («La somma del mio pensiero», p. 57). Nel caleidoscopio dell’amore viene alla luce quell’abbandono che verrà elevato a categoria filosofica, ma anche una rassegnazione amara che lo accompagnerà sino alla fine.
Uscirà il 19 settembre in libreria per Bompiani l’edizione italiana del quarto volume dei Quaderni neri di Martin Heidegger, intitolato Note I-V (traduzione di Alessandra Iadicicco, pagine 704, euro 28). Si tratta della parte stesa dal filosofo tedesco negli anni tra il 1942 e il 1948, pubblicata in Germania nel 2015.
In questo volume dei Quaderni neri, che riguarda un periodo particolarmente tragico della storia europea, si trovano fra l’altro le impressionanti osservazioni di Heidegger sulla Shoah vista come «autoannientamento» degli ebrei, che vennero segnalate in anteprima da Donatella Di Cesare in un articolo uscito su «la Lettura» l’8 febbraio 2015.
Finora sono usciti nel nostro Paese da Bompiani tre volumi dei Quaderni neri di Heidegger: il primo Riflessioni II-VI, che copre il periodo 1931-1938, è comparso nel 2015, mentre Riflessioni VII-XI, con le note stese tra il 1938 e il 1939, è uscito nel 2016, così come Riflessioni XII-XV, che riguarda la fase 1919-1941. Tutti sono stati tradotti da Alessandra Iadicicco. Nato nel 1889 e scomparso nel 1976, Heidegger è considerato uno dei pensatori più importanti del Novecento, ma è molto controverso per via dei suoi rapporti con il nazismo.
Idee
Ebraismo. Il sale dell’umanesimo
di Massimo Giuliani (Avvenire, Agorà, 08.07.2018)
Non è un caso che l’ormai ottuagenario filosofo e rabbino Emil Fackenehim avesse suggerito, per le sue memorie autobiografiche (pubblicate dopo la sua morte una decina di anni fa), il titolo secco di Epitaffio. Un epitaffio per il giudaismo tedesco, anzi una pietra tombale sull’ ultimo e forse il più grandioso esperimento di simbiosi tra i valori della tradizione ebraica e una cultura moderna, un tempo chiamata "germanesimo", che per rigore scientifico e creatività artistica era divenuta un faro della coscienza europea.
Oggi, in mezzo a una profonda crisi di identità europea, nella quale la Germania svolge ancora un ruolo centrale sull’ onda di quell’ emergenza epocale che chiamiamo "flussi migratori" dal Sud verso il Nord del mondo, cosa possiamo imparare dalla parabola degli ebrei tedeschi e dal loro sforzo di "integrarsi" e di "contribuire" all’ umanesimo europeo? Due volumi, editi da Morcelliana nella collana voluta da Paolo De Benedetti, stimolano la nostra rivisitazione di quel "dialogo interculturale".
Il primo, curato da Irene Kajon, raccoglie i Dialoghi filosofici di Moses Mendelssohn (pagine 86, euro 10,00), il padre dell’ haskalà o illuminismo ebraico, amico di Kant, Lessing e Jacobi, come a dire il meglio della cultura europea di fine XVIII secolo. Mendelssohn può essere considerato l’ apripista, l’ inizio della simbiosi ebraico-tedesca in un duplice senso: aprì gli ebrei alla lingua e alla cultura di Lutero e soprattutto all’ amore per la filosofia, per la matematica e per l’ estetica; ma insieme aprì le élite culturali di lingua tedesca all’ apprezzamento dell’ umanesimo ebraico della Torà, contribuendo ad abbattere pregiudizi inveterati e mostrando che gli ideali di integrazione sociale e di tolleranza politica verso le "minoranze" avrebbero ben servito la causa che Kant chiamava della "pace perpetua".
Il secondo volume, curato da Roberto Bertoldi, si intitola Kant e l’ebraismo (pagine 116, euro 12,00), ed è proprio del maggior cultore della filosofia kantiana della seconda metà del XIX secolo, Hermann Cohen, il primo ebreo ad avere una cattedra nell’ accademia tedesca senza doversi convertire al protestantesimo (cosa che persino i figli di Mendelssohn si sentirono di dover fare, per non deludere quell’ élite berlinese di cui volevano far parte).
Cohen, che muore emblematicamente nel 1918, cent’ anni fa, è il canto del cigno dell’ ebraismo tedesco: crede con tutto se stesso che i valori insegnati da Mosè e dai profeti di Israele non siano sostanzialmente diversi o altri rispetto ai valori dell’ umanesimo filosofico europeo. Anzi, vede molti fili di continuità tra il razionalismo ebraico di Maimonide e gli ideali di Kant e di Goethe. Emblema di questa sintesi sarà il suo testo La religione della ragione dalle fonti del giudaismo, dove cercherà di mostrare l’ intrinseca convergenza tra questi due mondi. Ma tale convergenza ideale, se mai è davvero esistita, sarebbe implosa di lì a poco, sarebbe stata spazzata via da un’ ondata di irrazionalismo filosofico e di idolatria razziale e nazionalistica, che nel giro di un quarto di secolo avrebbe dissolto non solo quello sforzo simbiotico ma anche gli individui che avrebbero dovuto incarnarlo.
Mendelssohn e Cohen sono dunque i due poli, l’ incipit e lo zenit, nonché l’ inizio della fine di una parabola di feconda integrazione, non senza rischi di assimilazione e a volte perdita di identità, tra mondo ebraico e cultura cristiana europea, tra etica biblico-rabbinica e filosofia occidentale. E tutto ciò non in astratto, sui libri e in austere aule universitarie, ma nella vita quotidiana.
Come mostra il primo dei due saggi di Cohen qui tradotti, che è la commemorazione di un tipico ebreo berlinese, Salomon Neumann. Chi era costui? Un medico ma anche uno studioso di fonti ebraiche, che rivestì il ruolo di assessore nella giunta comunale di Berlino per circa cinquant’ anni, dunque un amministratore pubblico che però si dava da fare affinché gli ebrei potessero avere le loro istituzioni di studio, dove coltivare la propria identità "illuminata" dal metodo storico-critico delle scienze umanistiche del suo secolo.
Agli occhi di Hermann Cohen, Neumann incarna il meglio del germanesimo e il meglio dell’ ebraismo, e costituisce l’ evidenza che non vi è contraddizione di valori tra le due civiltà; di più, decidendo di curare gratuitamente i poveri di Berlino, il medico Neumann - che sembra uno dei personaggi del romanzo La famiglia Karnowsky di Israel Joshua Singer - addita nella generosità filantropica e nel cosmopolitismo religioso-culturale gli orizzonti più alti della stessa cultura europea, l’ esatto contrario di quell’ egoismo etnico- nazionalista che sarebbe diventato l’ inconfessato idolo della propaganda nazista. E il pionere della medicina sociale Neumann non era solo, se si pensa al medico e pedagogista polacco Janusz Korczak, che sacrificò la sua vita per difendere gli orfani del ghetto di Varsavia.
Scrive esplicitamente Hermann Cohen: «È l’ opposizione all’ egoismo, all’ amor proprio e in generale all’ orizzonte dell’ individuo, ad essere caratterizzata e fondata da Dio e dalla sua legge. E questa opposizione, nel significato della legge, accomuna Kant all’ebraismo. È, in ultima analisi, l’ antichissimo pensiero dell’ uguaglianza degli uomini davanti a Dio, che trova espressione metodica nel concetto della legge universale».
La crisi dell’ identità europea, alla luce di questa parabola, è una crisi di fede nelle sue radici religioso-umanistiche; è sfiducia nel valore della legge; è l’ oblio della lezione etica che sempre bilancia o si sforza di compendiare i diritti dell’ io con i diritti del tu, le istanze dell’ individuo con il bene comune, in un’ ottica di pietas universale che per la filosofia ebraica è l’ essenza della Torà e di ogni etica umana: ama il tuo prossimo. Il testo biblico in ebraico aggiunge kamoka, ossia "come te stesso".
Cohen suggerisce di tradurre, altrettanto bene e forse meglio così: "perché è come te", è uguale a te. Se poi la lezione non fosse chiara e qualcuno interpretasse che, in fondo, si tratta pur sempre di un altro ebreo, di un correligionario, di uno della tua tribù, ecco l’ intervento del Talmud e dei maestri di Israele, che correggono quest’ interpretazione (pur legittima) sostenendo che nella Torà c’ è un versetto ancor più importante: «Questo è il libro della storia dell’ uomo ».
Lo spiega ancora Hermann Cohen, in queste pagine: «La Torà, la Bibbia, la rivelazione sono la storia dell’ uomo, scritta dalla legge dell’ uguaglianza degli uomini e dell’ amore per il prossimo. È il preambolo di ogni storia, o costituisce il suo poscritto». I trattati europei possono essere rivisti e riscritti, ma se si nega l’ethos comune, il preambolo etico che li ispira e la pietas che li illumina, non resta che preparare un epitaffio.
Gianni Vattimo. Le geniali provocazioni d’un ottantenne dall’indomabile spirito
Vade retro sionista di un metafisico!
di Maria Bettetini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.06.2018)
«Se la risposta è no, vuol dire che è un problema metafisico, tipo religioso, quindi non vale manco la pena pensarci» dice Secco a Zero Calcare, che disegna entrambi. La domanda era sulla possibile soluzione di un problema con l’uso di un paio di bombe. Il tono ironico e intelligente di questa striscia mi è tornato alla mente leggendo l’ultimo libro di Gianni Vattimo, una raccolta assai godibile di trentuno brevi interventi, alcuni inediti, altri pubblicati in libri o giornali, in italiano o altre lingue, tutti scritti in anni recenti.
Il tono in certo senso leggero del volume, senza note, con brevissime bibliografie alla fine, contrasta con i contenuti che ci si aspetta da uno dei filosofi italiani più noti all’estero: antisionismo, anticlericalismo, la difesa di Heidegger e Marx, le accuse all’occidente, e quell’essere «contro ogni tentativo di metafisica» che lo accomuna a Secco, se mi è consentito l’azzardato confronto. Non sarà la metafisica a intervenire sulla storia, sostengono entrambi. Ecco perché alla filosofia (ai filosofi) oggi tocca interrogare il presente, proporre prassi, non scrivere trattati ma romanzi da cui il lettore possa trarre indicazioni per il qui e ora. Anche se “non si arriva da nessuna parte e ci si aggira sempre nei dintorni”, come ricorda il titolo della raccolta (che si legge proprio come un romanzo).
Piaccia o no, questo è il portato di quel pensiero debole che nel 1983 arrivava a sconvolgere la filosofia italiana e poi tedesca e francese. Studiare Nietzsche e Heidegger, lavorare con Gadamer, che sempre grazie a Vattimo divenne noto e poi amato in Italia, aveva condotto il filosofo torinese a pubblicare con Pier Aldo Rovatti una famosa antologia intitolata, con fortunata intuizione, al pensiero debole. Uno scardinamento di ogni sistema, di ogni certezza incontrovertibile, di ogni vittoria della razionalità impositiva, contro i totalitarismi e le chiese di qualsivoglia genere. Si eclissavano le ideologie, si scopriva l’importanza di riconoscersi piccoli di fronte a una storia infine non gestibile da parte di alcun potere “forte”, non giustificabile, non comprensibile a partire da concetti certi e immutabili.
Al di là degli estremismi e dei gusti personali, questo è stato un grande regalo per chi senza accorgersene stava per essere trascinato nella liquidità di cui oggi tanto si parla, ma che allora ebbe origine. Gli strumenti di un’ermeneutica che non è relativismo, bensì comprensione di come ogni interpretare lavori sull’essere di ciò che ha interpretato, non sono inutili mentre tutto sembra sgretolarsi, si tratti della fiducia nella politica, nella solidità di una Chiesa che oggi per esempio a molti sembra essere messa in discussione da questo papa (e invece solo dal suo scardinare si potrà fortificare), nel benessere o nella famiglia.
Come si sa e come si ritrova in queste pagine, il pensiero di Vattimo è sempre anche autobiografico, anzi, meglio, forse è la biografia che si adegua al pensare e al sentire. L’occasione del libro, per esempio, è il resoconto della crisi sopravvenuta con la pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger. Vattimo non nega le parole (abbastanza poche, peraltro) in cui si vede negli ebrei e nella loro cultura l’origine di ogni male. Certo non per questo - e sarebbe davvero assurdo - si permette di invocare una censura su tutto quello che Heidegger ha scritto, oppure giustifica i decenni di silenzio che la Germania sconfitta impose al più grande dei suoi filosofi del Novecento.
Vattimo si proclama, con la pervicacia di chi sa di provocare ed è contento di scandalizzare, antisionista, non antisemita. Israele - afferma Vattimo - è uno stato fondato sulla religione (lui parla di razza, ma mi rifiuto anche solo di trascrivere quelle sue parole), per questo non potrà mai convivere pacificamente con altri, per questo cerca di eliminare i palestinesi, per questo è strettamente legato al potere economico statunitense e a Hollywood che mantiene viva l’epopea della nascita di Israele come novella resistenza, nonché rinfocola il senso di colpa dell’intero occidente per l’Olocausto.
Non è la prima né sarà l’ultima sortita dell’indomabile ottantenne, che in queste pagine mostra come sempre fortissimo il legame con una spiritualità ufficiosa, che molto sa di cattolicesimo della nonna, con tutto il rispetto per le nonne. Gli hanno dato del marcionita, lui si dice credente, chissà. Ricordo che si era candidato, lui, figlio di un poliziotto calabrese, a sindaco di San Giovanni in Fiore, il paesino della Sila sorto dove Gioacchino da Fiore fondò il primo monastero. Amato da Dante e dai papi, Gioacchino dopo la morte fu alternativamente giudicato eretico e santo, oggi siamo in fase di processo di beatificazione. Sic transit quella gloria mundi di noi deboli umani.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI ... *
Vattimo a Teheran per salvare Heidegger
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 3 Giugno 2018)
Il nuovo libro di Gianni Vattimo Essere e dintorni (La nave di Teseo) comprende 31 saggi che sono altrettanti tentativi di interpretare l’attualità. Ecco perché il volume non è un trattato metafisico, bensì un «breviario teologico-filosofico», o meglio, il «diario di una crisi», quella provocata dalla pubblicazione dei Quaderni neri di Martin Heidegger.
In tempi in cui si parla di un «ritorno» della filosofia al centro dello spazio pubblico, le pagine di Vattimo sono esempio di stile, chiarezza, accessibilità. Perché se i filosofi vogliono contribuire a riflettere sulla situazione presente, bisogna che parlino e scrivano in modo comprensibile.
Il «breviario» ruota intorno al nesso stretto fra interpretazione ed emancipazione. Si ricorderà la celebre frase di Karl Marx contenuta nelle Tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno finora solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di cambiarlo». Ebbene, questa tesi - così commenta Vattimo - va presa con la dovuta cautela. Perché interpretare è già cambiare. Lo mostra l’ermeneutica, che non è un relativismo tradizionalista. Chi la fraintende in tal senso, presume che ogni interpretazione rispecchi in modo imperfetto e mutevole la «verità oggettiva» del mondo là fuori.
Al contrario, l’interpretazione - come insegna già Aristotele - è l’apertura in cui, di volta in volta, la verità si costituisce articolandosi. Ogni interpretazione è un contributo alla verità condivisa. Si intuisce il valore democratico dell’ermeneutica. Perché il totalitarismo attecchisce là dove una sola interpretazione vorrebbe imporsi come la verità. Meglio, dunque, diffidare di chi sostiene di possederla.
D’altronde già all’epoca de Il pensiero debole, nel 1983, Vattimo aveva avanzato l’esigenza di un pensiero in grado di farsi carico della dissoluzione di princìpi e strutture forti.
L’ultimo Vattimo rilancia: se non c’è emancipazione senza interpretazione, ogni interpretazione porta sempre con sé una carica liberatoria. E suggerisce: «Finora i filosofi hanno creduto di descrivere il mondo, ora è venuto il momento di interpretarlo...». Per essere coerente il pensiero debole non potrà rivendicare una «posizione di sovranità», tanto meno nella prassi politica. Ma l’ermeneutica è emancipazione anche perché racconta un’epoca che sa di essere ineluttabilmente contingente, profondamente storica. Sulle orme di Heidegger, Vattimo ripercorre la storia del lungo addio all’Essere, che può restare solo nel ricordo. Così l’ermeneutica si aggira «nei dintorni dell’Essere» - come suggerisce il titolo.
Che avviene, però, all’indomani dei Quaderni neri? Negli ultimi saggi Vattimo ricostruisce l’intenso dibattito esploso non tanto sull’adesione al nazismo, quanto sull’antisemitismo e sull’interpretazione della Shoah. Evita le due scorciatoie più frequenti: quella di coloro che vorrebbero gettare l’opera di Heidegger alle ortiche e quella di chi banalizza fino a negare persino l’antisemitismo.
Chiaro è tuttavia il suo tentativo di «salvare» Heidegger. Come? Facendone un «teologo cristiano». A Vattimo non interessa tanto la politica di Heidegger, che pure emerge da quelle pagine. Risuona allora la sentenza che suggella l’intervista allo «Spiegel» uscita postuma: «Ormai solo un dio ci può salvare».
La via di salvezza sarebbe quella di un cristianesimo paolino. Ma a parlare è Vattimo oppure Heidegger? Le parti sembrano confondersi. Tanto più che l’ultimo Vattimo, fulminato sulla via di Damasco, interpreta l’emancipazione in chiave religiosa. Questo sostanzia anche le sue scelte politiche, più che discutibili. Con un salto mortale nella metafisica il pensiero debole si fa pensiero dei «deboli», una categoria reificata senza considerare che debole rinvia a una relazione - si è deboli sempre rispetto a qualcun altro e i deboli non hanno sempre ragione.
La Siracusa di Vattimo si chiama Caracas, se non addirittura Teheran. Per un verso le lodi a Chávez, fulgido esempio di socialismo, per l’altro l’apprezzamento per Ahmadinejad nonché il giudizio su Israele: «Tra i peggiori danni prodotti dalla politica hitleriana e dall’Olocausto».
L’antisionismo di Vattimo - è bene dirlo a chiare lettere - si nutre di un vecchio antiebraismo marcionita, che la Chiesa ha già più volte condannato, si alimenta di una teologia della sostituzione - bandire la vecchia legge per far trionfare lo spirito - che tanti danni ha prodotto nella storia.
L’ermeneutica viene sacrificata sull’altare di un cattolicesimo che vorrebbe cancellare il messianismo ebraico, tradita in nome di forti prese di posizione, che hanno tratti categorici e assiomatici. In futuro bisognerà chiedersi come salvare Vattimo dopo aver salvato Heidegger.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’Espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo.
Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti.
Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile.
Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni.
Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”.
La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
La critica radicale del presente: l’eredità di Marx
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 28.04.2018)
Non saprei dire quanti altri giovani della mia generazione misero in soffitta Karl Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello Stato? che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su Mondoperaio, e ripubblicò nel 1976 nel libro Quale socialismo?, ma sospetto siano stati molti.
La risposta di Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Friedrich Engels, “una vera e propria teoria socialistica dello Stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito comunista per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello Stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a guidare lo Stato democratico?
Messo da parte Marx, cercammo altri maestri che potessero aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del 1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione [...] Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire.”
Rosselli capì che il Manifesto del Partito comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899 (che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non trovarono più né conforto né guida nella profezia ormai irrigidita in stanche formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici, elementi per una teoria dell’emancipazione sociale.
La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro - scrive Marx - e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non con dogmi, bensì con l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, in qualunque modo si presenti (religioso o politico)”.
L’emancipazione politica e sociale non era per il giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro”.
Nello stesso fascicolo (l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un’Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, dove sostiene che il proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”. Due illusioni nobili, queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni.
Il proletariato, allora come oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale, ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua celebre critica dell’alienazione religiosa: “L’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. [...] Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. Sarebbe facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale.
Ma dalla critica alla religione, Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale e politico: la prima consiste nel principio che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Un principio e un imperativo da riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche la speranza, dell’emancipazione sociale.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.... *
Discussione
L. Steffens, Moses in Red. The Revolt of Israel as a Typical Revolution Dorrance and Company 1926
di Guido Bartolucci ( Lo Sguardo - rivista di filosofia, "Rivoluzione: un secolo dopo", N. 25, 2017.)
Non sempre gli anniversari sono occasioni per pubblicare e recensire nuovi libri, sono anche momenti utili per riscoprire vecchi autori e testi. È il caso di Lincoln Steffens (1866-1936) e del suo Moses in red, un libro unico nel suo genere, perché fu il primo a riconoscere nel racconto biblico dell’Esodo, le tracce di una ‘teoria’ della rivoluzione che aveva trovato la sua realizzazione negli eventi russi del 1917. «Il libro che ho appena finito», scriverà all’amico Gilbert Roe nel 1925, «è la storia di Mosè raccontata alla luce della rivoluzione, un classico esempio di come la rivolta di un popolo avviene. Jehova simbolizza la natura; Mosè, il riformatore e il leader; il faraone, il re o il padrone capitalista; Aronne l’oratore e gli ebrei sono il popolo. Il parallelo con la Russia o ogni altra rivoluzione è strettissimo».
Quando il libro uscì, nel 1926, Steffens era stato in Russia già tre volte, spettatore degli eventi e intervistatore dei principali protagonisti, come Lenin: una prima, nell’estate del 1917, dopo la rivoluzione di aprile; la seconda, nel 1919 a seguito della missione di pace guidata da William C. Bullitt; la terza nel 1923, durante il periodo della NEP. Fino a quel momento egli era stato quello che negli Stati Uniti si chiamava un muckrakers, cioè un giornalista d’inchiesta che aveva aperto il fronte, nella società americana, della aperta critica al sistema liberale. Ma Steffens non era rimasto chiuso nei confini statunitensi, aveva allargato i suoi orizzonti intellettuali in Europa alla fine dell’800, studiando teoria sociale e psicologia, e assistendo ai primi tentativi di costruire una scienza dell’organizzazione e del comportamento umano. Egli era convinto che la società fosse soggetta a leggi che potevano essere studiate come quelle che regolavano la natura.
Se in un primo momento della sua carriera Steffens aveva creduto nella possibilità che bastasse rendere evidente il legame corruttivo tra politica e affari per riformare la società, dopo l’incontro con la rivoluzione bolscevica si fece strada in lui l’idea che l’unico modo per trasformare la comunità degli uomini era la rivoluzione, che in Messico, in cui era stato tra il 1915 e il 1916 aveva avuto un suo primo momento, ma che in Russia aveva trovato la sua piena realizzazione.
Il libro dell’ Esodo agli occhi di Steffens, rappresenta la possibilità di raccontare a un pubblico che conosce bene gli avvenimenti narrati nel testo veterotestamentario, le tappe attraverso le quali si è sviluppata la rivoluzione russa e le ragioni che hanno mosso i suoi leader a specifiche azioni e politiche.Dopo una lunga introduzione e un breve capitolo preliminare, Steffens articola la sua trattazione in nove parti, che seguono gli avvenimenti narrati nel libro dell’ Esodo.
Il secondo capitolo è dedicato alla figura di Mosè e alla sua trasformazione in leader del popolo oppresso (pp. 51-59). Gli ebrei erano schiavi in Egitto dopo le politiche di Giuseppe, che avevano provocato l’odio degli egiziani verso il suo popolo. Fu necessario, dunque, che sorgesse un leader capace di guidare gli ebrei fuori dalla schiavitù e quest’uomo si impose perché poteva contare su una formazione unica. Scrive Steffens: «Mosè, nato schiavo, divenne un aristocratico nei sentimenti, nel comportamento e nell’aspetto. Egli era libero, impulsivo, fiero, diretto, audace, e senza legge. Egli si liberò della psicologia servile del suo popolo, ma non perse il senso della razza, che, nel suo caso, era la coscienza di classe. E fu l’unione di questi due tratti, la nobiltà egiziana e la lealtà alla razza che fecero di lui un grande leader ebreo dei lavoratori». (p. 57).
Dopo la formazione del leader, Steffens descrive la strategia, che passa attraverso la cospirazione contro il padrone, il faraone. Mosè si comporta come un classico agitatore politico, un leader dei lavoratori: invece di pretendere qualcosa d’irrealizzabile e difficilmente ottenibile, si limita a domandare un piccolo miglioramento, apparentemente facilmente realizzabile. È Dio, che per il giornalista americano rappresenta la natura, che propone a Mosè di andare dal faraone e chiedere di lasciare andare il popolo nel deserto per tre giorni per organizzare un sacrificio in onore della propria divinità. I leader, scrive Steffens, muovono i lavoratori a chiedere una minima riduzione dell’orario o un piccolo aumento della paga, ma in realtà «gli agitatori vogliono tutto ciò che il lavoratore produce» (p. 63). Allo stesso modo, prima della grande rivoluzione, nel 1907 il popolo fu spinto a chiedere allo zar una modesta partecipazione in un governo costituzionale.
La ragione di tutto ciò è evidente, scrive Steffens: uno dei problemi centrali per un movimento rivoluzionario è convincere e muovere le masse. Le piccole richieste a cui le autorità normalmente rispondono con un netto rifiuto e una violenta reazione hanno la funzione di innescare la rivolta: il primo esempio di questa strategia fu la cospirazione organizzata da Dio e Mosè. Steffens scrive: «I rivoluzionari che hanno studiato la storia, dichiarano che i rivoluzionari non possono fare una rivoluzione, solo il governo e i faraoni possono provocare un tale stato di crisi, e così accadde nella rivoluzione russa» (p. 88).
Ma uno degli aspetti più misteriosi del racconto dell’Esodo, continua il giornalista americano, è la ragione per cui gli ebrei, una volta usciti dall’Egitto non entrarono direttamente nella terra promessa, ma vagarono per quarant’anni nel deserto; la stessa cosa accadde anche in Russia: il popolo non ‘entrò’ direttamente nel nuovo stato comunista, ma si fermò, si voltò indietro, vagò per il deserto del dubbio e del compromesso. I leader della rivoluzione, infatti, sostennero che era necessario un cambio radicale nelle persone, perché la vecchia generazione che aveva conosciuto gli antichi mali dello zar doveva necessariamente essere superata.L’attraversamento del deserto, dunque, contiene al suo interno i passaggi più drammatici della fase rivoluzionaria. Il primo è la strage di parte degli adoratori del vitello d’oro ai piedi del monte Oreb: «c’è una certa legge naturale che governa i terrori. Quando una grande massa di persone ha paura, è incline a diventare crudelissima; quando una nazione sta organizzando un nuovo sistema di leggi e costumi, ecco che si ha un terrore rosso; quando sta difendendo un vecchio sistema ecco che c’è un terrore bianco. Ciò non è bene, ma è chiaramente naturale, e dunque è divino, come Mosè sapeva, o pensava» (p. 108).
Questo momento conferma che il popolo uscito dalla schiavitù, dimostrando di essere ancora legato alla vita in Egitto ha ancora paura e non accetta facilmente i cambiamenti imposti da Dio. È per questa ragione che dopo la strage si afferma la dittatura di Mosè, attraverso la quale si impongono le nuove leggi. Ma non è sufficiente, la paura continua a stringere il popolo, tanto che, una volta che gli esploratori mandati da Mosè sono tornati dalla terra promessa e hanno raccontato ai capi tribù che il paese è occupato da popolazioni bellicose, la maggior parte degli ebrei si rifiuta di entrare e pretende di tornare in Egitto. È in questo momento che l’ultimo insegnamento esodico si rivela ai rivoluzionari: la vecchia generazione deve morire affinché la nuova sia pronta a costruire la nuova nazione.
Sta in questa ragione l’errare degli ebrei per quarant’anni nel deserto, un momento che fu un periodo di transizione e di selezione della nuova generazione. La dittatura di Mosè e il terrore rosso sono necessari per la rivoluzione e per la costruzione di un nuovo popolo, capace, una volta attraversato il Giordano, di fondare una nuova nazione. È questo, secondo Steffens, l’insegnamento dell’ Esodo e che ne fa nelle sue varie tappe, una storia esemplare per tutti i rivoluzionari. Ma non basta: il libro di Mosè ha anche un’altra funzione. Sfeffens fu un ‘pragmatista’, il suo interesse per la rivoluzione doveva passare necessariamente per l’esperienza, sia messicana, che russa, ma al fine di costruire una teoria universale.
L’esaltazione delle politiche leniniste, della dittatura e del terrore, della rivoluzione bolscevica in cui egli riconosceva il futuro del genere umano, non certificano un’adesione acritica al comunismo. Il suo scopo era di indagare e isolare i modi attraverso i quali la rivoluzione operava, come esempio di una nuova strategia di configurazione del potere all’interno della società. Le ‘leggi’ che egli aveva riconosciuto nella storia russa erano ora riproposte al pubblico attraverso un racconto che era alla base di molte delle narrazioni fondative della società americana, come dimostrava, per esempio, l’uscita in quegli anni (1923) del film The Ten Comandments di Charles B. DeMille. Il libro dunque era sì un’operazione propagandistica, ma non esclusivamente rivolta all’esaltazione del bolscevismo (o almeno non solo), ma piuttosto a riconoscere nella rivoluzione l’unica strada per cambiare radicalmente la società americana.
Il libro, pubblicato nel 1926, non ebbe alcun successo e non circolò per il paese, anche se Lincoln Steffens non cessò mai di propagandare nei suoi articoli e nelle sue conferenze tenute in ogni angolo degli Stati Uniti la forza della rivoluzione russa. Ma nonostante la scarsa circolazione, il testo di Steffens conquistò lungo i decenni un ruolo di rilievo nelle riflessioni politiche attorno al testo biblico.
Il primo a riattivare le riflessioni del giornalista americano fu Aaron Wildavsky nel suo The Nursing Father: Moses as a PoliticaL Leader, (1984), ma il testo riacquistò un ruolo centrale nel 1985, quando uscì Exodus and rivolution di Michael Walzer. Proprio questo lavoro parte dalla riflessione di Steffens, ne amplia l’esemplarità storica, riconoscendo il ruolo del racconto esodico per la rivoluzione inglese, e per l’analisi della tradizione politica ebraica.
Il binomio Esodo e rivoluzione, dunque, è diventato un classico della riflessione politica, anche se declinato in prospettive diverse, e ha trovato in Steffens un interprete di rara efficacia interpretativa. «I have seen the future, and it works», scriverà Steffens nel 1919 al ritorno dal secondo viaggio in Russia, e attraverso la storia di Mosè e del popolo ebraico voleva accompagnare il popolo americano proprio nel futuro che aveva pensato di intravedere durante la rivoluzione.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
A Mikhail Gorbaciov e a Karol J. Wojtyla ... per la pace e il dialogo, quello vero!!!
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
E’ MEZZOGIORNO... L’ ORA DEI VAMPIRI
di PAOLO MAURI (la Repubblica, 14 ottobre 1988)
SE AI TEMPI di Cenerentola non ci fosse stato l’orologio, un orologio in grado di battere le ore, di renderle esplicite per tutti, a mezzanotte non sarebbe successo proprio nulla. Perché il prodigio si compia, infatti, è necessario che scocchi l’ora fatidica, cioè che un segnale particolare la renda reale e sia pure relativamente ad un luogo e ad una comunità universale. L’ora fatidica dei fantasmi e dei vampiri non viene dunque, come comunemente si crede, da molto lontano: è un effetto speciale legato alla misurazione del tempo, una certezza tutto sommato abbastanza moderna.
Anticamente, cioè prima dell’ orologio, la scansione del giorno riguardava soprattutto le ore di luce, con un momento privilegiato: il mezzogiorno. Per quanto oggi possa apparire incredibile, fu proprio il mezzogiorno l’ ora fatidica dei prodigi e dei fantasmi, dei vampiri e dei demoni, delle apparizioni misteriose e del manifestarsi della follia. Il parallelo mezzanotte-mezzogiorno ci dice intanto una cosa fondamentale: che l’uomo ha bisogno di segnare nettamente i confini tra il regno della normalità e quello soprannaturale; colonne d’Ercole mentali, le ore fatidiche segnano il punto di passaggio tra ciò che si conosce e ciò che si teme, perché ignoto e quindi insieme terrifico e fascinoso.
E’ facile intuire perché l’uomo antico scegliesse il mezzogiorno come ora fatidica: intanto era un’ora riconoscibile anche a occhio e determinabile con una certa precisione, badando ad alcuni fenomeni alla portata di tutti. Il sole raggiunge il punto massimo nel cielo e le ombre sulla terra si accorciano fino a scomparire: una sorta di orologio rudimentale, lo gnomone, consiste proprio di un’asta che proiettando un’ombra consente di verificare l’ ora meridiana.
Proprio a I demoni meridiani dedicò uno studio, poco oltre la metà degli anni Trenta, Roger Caillois, ancora oggi ben noto e presente per i suoi lavori sul sacro e sul mito, nonché per le sue teorie sul gioco.
Era un momento delicato, in Europa, per dare spazio all’ irrazionale; e giustamente Carlo Ossola, che ha provveduto oggi a trasformare quello studio disperso in un libretto che esce tra pochi giorni (I demoni meridiani, Bollati Boringhieri, pagg. 128, lire 20.000) si sofferma nell’ introduzione sul clima culturale del tempo e sulle intenzioni del Collège de Sociologie dove Roger Caillois si trovava ad operare.
Il programma di Caillois (e naturalmente del Collège de Sociologie) è assai complesso: si tratta di illuminare i comportamenti degli uomini (anzi dell’ intero regno animale) attraverso i miti, che ne sono una rappresentazione. Devo qui, necessariamente, prendere una scorciatoia, non potendo (come fa Ossola nella sua introduzione) ricapitolare i principali passaggi di un’operazione culturale fascinosa e rischiosa insieme. Non appena il mito tocca il contemporaneo, l’analisi cede il posto alla volontà di fare. La passione di fare diventa bruciante.
Quando, dopo essersi occupato dei demoni meridiani, Caillois si mise a studiare il moderno mito di Parigi, con tutti i suoi corollari di superamento della mediocrità borghese verso una divina (o diabolica) volontà di potenza, il reale (in questo caso il nazismo) ha già fatto largo uso dell’irrazionale per porre le basi del suo progetto di dominio.
Sarà Marcel Mauss ad avvertire gli studiosi del Collège che stanno rischiando grosso: credo che siate tutti in questo momento sbandati, probabilmente sotto l’influsso di Heidegger, bergsoniano attardato nell’ hitlerismo, che legittima l’hitlerismo invasato d’ irrazionalismo....
Di fronte all’hitlerismo, inaccettabile perché razzista, Caillois fa marcia indietro, ed è probabilmente questo uno dei motivi per cui il suo studio sui demoni meridiani non venne da lui più tardi recuperato. Non tanto perché in esso trattasse questioni immediatamente pericolose: in fondo si tratta di una eruditissima ricognizione rivolta al recupero di una dimensione trascurata eppure anticamente assai attiva, ma soprattutto perché in esso stavano due chiavi comportamentali che potevano tranquillamente essere resuscitate anche nell’Europa moderna.
Da un lato, infatti, l’ora meridiana è l’ora dell’acedia, una forma di depressione, di taedium vitae, di spaesamento, che colpisce si tramanda i monaci e gli anacoreti del deserto portandoli a ripudiare il proprio essere monaci, a non capire più, o addirittura a non sopportare più, la propria condizione. L’acedia è la perdita del sacro.
D’ altra parte, a far da contraltare alla passività indotta dall’acedia, c’è la volontà di potenza e di immortalità favorita dall’ allucinazione che il calore meridiano provoca. Nella sua ambiguità la potenza del sole distrugge e feconda, sconfigge i deboli ed esalta, in senso proprio, i forti. C’ è dunque un messaggio di morte e contemporaneamente un accredito vitale nell’ ora fatidica.
Caillois ripercorre passo passo le situazioni topiche dell’ora meridiana: ora centrale del giorno che divideva in due zone ben distinte le cose lecite (o favorevoli) da quelle illecite. Racconta Plutarco, per esempio, che nessun condottiero romano avrebbe mai firmato un trattato o un atto importante dopo mezzogiorno. Sotto altri cieli (in Messico, presso gli aztechi) il mezzogiorno era un’ ora privilegiata per i sacrifici ed è sempre a mezzogiorno che le divinità si manifestano. Caillois ricorda che Pan, il più importante dio dell’Arcadia, era solito comparire appunto a mezzogiorno.
LA LETTURA del lavoro di Caillois mi ha fatto venire in mente un’ altra remota lettura, il libretto di Franz Altheim dedicato al cristianesimo e ai culti solari: si intitolava Il dio invitto e in Italia lo tradusse nel 1960 Feltrinelli. Anche il cristianesimo, che pure ha molto contribuito ad attribuire la luce al bene e le tenebre al male, ha le sue implicazioni con il sole e con i culti solari.
Risfogliandolo dopo tanto tempo ho letto che Costantino ebbe la visione della croce all’ ora meridiana del sole e che alla stessa ora la sua anima salì al cielo. Dunque il mezzogiorno è anche (o meglio soprattutto) l’ora dei morti, non fosse altro che per il fatto dell’ accorciamento e scomparsa dell’ ombra, che presso alcuni rappresentava l’ anima. (L’avventura di Peter Schlemihl ha dunque radici assai remote). L’ora dei morti (seguo sempre Caillois) era riservata alle libagioni in onore dei morti: anche in Sofocle è mezzogiorno quando Antigone viene ad offrire il sacrificio per il fratello. Di qui la credenza, abbastanza diffusa, che si trattasse di un’ora sacra e quindi pericolosa: nei templi si tiravano le tende a quell’ ora fatale, bambini e donne erano invitati a non uscire di casa e i morti senza pace ne approfittavano per manifestarsi. Particolarmente nutrita quest’ultima categoria, come attestano numerose fonti: la guardia forestale con la testa sotto il braccio, il cavaliere senza testa che è stato impiccato, l’uomo senza testa attorniato dai cani... Anche il cadavere che non ha ricevuto gli onori funebri appare a mezzogiorno: lo ricorda anche Stazio nella Tebaide.
Ancora: mezzogiorno è l’ ora della malia incantatrice. L’autore si rifà qui alla leggenda delle sirene, già nell’antichità messe in relazione con Sirio, la stella più brillante del Cane, foriera di spossatezza, di lascivia e quindi di mortale abbandono. Si mescolano qui due temi di lunga durata: il piacere e la morte, sicché s’introduce l’elemento sessuale, nella doppia accezione della fecondazione e dell’ abbandono ai sensi.
MA IL VIAGGIO non è finito: ancora molte sorprese attendono il lettore, che verrà condotto, nell’ora accidiosa della calura, a spiare i pastori emuli di Pan (o Pan ricalcato sulle abitudini lascive dei pastori); sfinito dal canto delle cicale, già immortalate da Platone; sbarcato nella pericolosa terra dei lotofagi, dove le sirene, che reggono un loto, ritornano, quasi a chiudere il cerchio dell’ incantesimo. Si toccheranno, ancora, le spiagge del sonno pericoloso e popolato (in senso classico) di incubi, si toccheranno le soglie della furia allucinata, con l’ apparire delle Ninfe, anch’esse meridiane, protettrici del sacro.
Nella catastrofe finale l’ora fatidica e terrifica sarà ulteriormente gravida di eventi eccezionali: è il terremoto di mezzogiorno, l’oscuramento del sole. Non c’ è bisogno, per questo, di allontanarsi troppo da testi assai noti anche oggi: non è forse il sacrificio di Cristo, consumato tra mezzogiorno e le tre, annunciato da un oscuramento e da un terremoto? A mezzogiorno appaiono gli angeli ad Abramo per annunciargli la nascita di Isacco; a mezzogiorno Giovanna d’ Arco sente le voci; la tradizione ebraica racconta il demone di mezzogiorno come un mostro fatto di scaglie e di capelli, con un occhio solo situato a livello del cuore.
Che il fascino un po’ morboso e misterioso delle ore della massima calura non sia finito con gli antichi, lo testimonia molta letteratura a noi vicina. Caillois aveva sottomano, allora, un romanzo di Paul Bourget, Le démon de midi, ma ben prima di lui Montale s’ era cimentato col sole che abbaglia, nell’ accidia del meriggiare che lo induce a riflettere con triste meraviglia sul significato del vivere; e come non ricordare, pescando un esempio a caso tra quanti vengono alla mente, l’ora della calura, con i suoi corollari di sonno, sesso e indolenza propiziata dal frinire delle cicale, nel film di Tavernier, Una domenica in campagna? Per dire, in buona sostanza, che il viaggio nel sole non è certo finito, ma anche che certi miti bisogna guardarli di traverso e non cedere, supini, al loro culto. La storia ha già dimostrato, meglio della medicina, come siano nefasti certi colpi di sole.
Archivio "la Repubblica", 14 ottobre 1988.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
DELLO SPIRITO DI ALEXANDRE KOJÈVE (Mosca 1902 - Parigi 1968). PORTARE LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DI "DUE IO" AL DI LA’ DELLE MAGLIE DELLA DIALETTICA HEGELIANA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Karl Löwith
Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche
di Maurizio Schoepflin (Il foglio, 21 Marzo 2018) *
Che cosa è successo alla filosofia nei quattro secoli che separano la nascita di Cartesio dalla morte di Nietzsche? Si tratta di una domanda tanto difficile quanto importante per comprendere un periodo decisivo della storia del pensiero occidentale che ha lasciato all’epoca contemporanea un’eredità drammaticamente complessa.
Si può considerare una fortuna che a rispondere a questo interrogativo ci abbia pensato, tra gli altri, uno studioso del calibro di Karl Löwith, le cui teorie interpretative sono sicuramente opinabili ma non certo trascurabili, essendo egli, che nacque a Monaco di Baviera nel 1897 e morì a Heidelberg nel 1973 e fu allievo di Husserl e di Heidegger, una delle voci più interessanti della filosofia novecentesca.
La risposta löwithiana è contenuta in un denso lavoro, del quale recentemente Orlando Franceschelli ha tradotto e curato per la prima volta l’edizione italiana della versione definitiva risalente al 1967. E proprio nel titolo stesso del libro - Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio e Nietzsche - è contenuta una parte significativa di ciò che l’autore vuol dire al lettore, ovvero che per cercare di comprendere l’evoluzione del pensiero moderno bisogna indagarne la componente metafisica, quella che, come ha insegnato Immanuel Kant, ha al centro proprio Dio, l’uomo e il mondo.
A giudizio di Löwith, il pensiero metafisico della modernità è caratterizzato dalla “caduta di Dio”, un evento dal quale il sapere filosofico è rimasto gravemente vulnerato, tanto da non essere in grado di fare a meno del creazionismo e dell’antropocentrismo di ascendenza biblica e da concludere la sua corsa nel devastante nichilismo di Max Stirner.
Secondo Löwith, tuttavia, nell’epoca moderna ha preso forma anche un altro percorso che, pur prendendo atto della fine della metafisica tradizionale, non ha finito per incagliarsi nelle secche del nulla: tale percorso ha avuto come guide Feuerbach, Nietzsche e Spinoza.
Il primo sarebbe stato il maestro di un’antropologia naturalistica non più bisognosa di una divinità creatrice, il secondo avrebbe sconfitto sia Dio che il nulla rinunciando, come afferma Franceschelli, “a tutti i retromondi metafisici e alle speranze sovrannaturali”, il terzo si presenterebbe come colui che, liberandosi dall’antropocentrismo e dal finalismo, sarebbe riuscito a fare a meno del creazionismo biblico.
Interpretato in questi termini, il testo di Löwith diventa una specie di manuale contenente le istruzioni per un saggio svezzamento dall’eredità teologica, nel quale giocano un ruolo decisivo una concezione naturalistica del mondo e una buona dose di scettico disincanto.
Il mezzo secolo che ci separa dalla pubblicazione di questo bel libro ci dice che non tutto è andato “tranquillamente” nella direzione auspicata da Karl Löwith.
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Karl Löwith,
DIO, UOMO E MONDO NELLA METAFISICA DA CARTESIO A NIETZSCHE,
a cura di O. Franceschelli, Donzelli, 200 pp., 23 euro.
ORIENTARSI NEL PENSIERO:"SAPERE AUDE!". KANT, NIETZSHE, E "UN GRANDE GENIO SENZA CORAGGIO" ... *
Il metodo di Heidegger per imparare a pensare
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 23.02.2018)
Adelphi ha ristampato in una “nuova edizione ampliata” il saggio che Martin Heidegger intitolò “Nietzsche” (pp. 1040, euro 28). La prima traduzione italiana risale al 1994 [pp. 1034], l’edizione originale è del 1961.
A dire il vero, questo libro non è una monografia del più grande filosofo del Novecento sul pensatore-chiave del mondo contemporaneo. L’opera, composta da testi scritti tra il 1936 e il 1946, utilizza come titolo il nome di Nietzsche ma indica - usiamo le parole dello stesso Heidegger - “la cosa in questione nel suo pensiero”. Dove “cosa” va intesa come la metafisica dell’Occidente, la gabbia speculativa che è stata adoperata per secoli e che in Nietzsche si manifesta in una sua ultima espressione. O, meglio, in una forma esasperata.
Queste pagine non contengono quindi l’analisi di un particolare sistema utilizzando uno schema tradizionale ma, pur esaminando parti del lascito di Nietzsche (e anche di altri, quali Platone, Protagora, Descartes, Schelling o Kierkegaard), intraprendono una sorta di lotta per svincolarsi dalla ricordata metafisica. Heidegger, insomma, combatte una battaglia ricorrendo al filosofo che per primo l’aveva tentata.
In una nota Roberto Calasso pone in evidenza il fatto che Heidegger, che non ha nulla da condividere con i manipoli dei critici di Nietzsche, sia l’unico che gli “risponda”.
Del resto, come scriveva nella postfazione Franco Volpi, nel secolo scorso Nietzsche ha suscitato al tempo stesso “entusiasmi e attirato anatemi”; ha inoltre ispirato “atteggiamenti, mode culturali e stili di pensiero, ma al tempo stesso provocato reazioni e rifiuti altrettanto risoluti”.
Heidegger, è il caso di aggiungere, non è stato da meno. Se si consultano le tante storie della filosofia che circolano, in ciascuna di esse si può trovare una definizione che lo riguardi; ma tutte, ci si accorge ben presto, gli stanno strette.
Anche la recente polemica, che si fondava su un presunto antisemitismo di Heidegger, non ha tenuto conto del fatto che tra i suoi allievi vi sono stati alcuni tra i migliori intellettuali ebrei del secolo scorso, come prova il caso di Karl Löwith; o, guardando oltre, basterà ricordare Leo Strauss, anch’egli esule dalla Germania per le leggi razziali, che applicò il metodo heideggeriano di decostruzione storica in alcuni suoi importanti scritti. Entrambi, insieme a molti altri, tra cui il cattolico Romano Guardini, furono affascinati da Heidegger.
E anche chi leggerà, meditandolo, il suo “Nietzsche” difficilmente potrà restare indifferente. Vi troverà non la descrizione di un pensiero (anche se non manca) ma un metodo per imparare a pensare. Cosa che non si nota in molti filosofi dei nostri talk show.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’APOLOGIA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO E LA FILOSOFIA ITALIANA. Nella scia di Constant, Kant, Hobbes e Mendiola. Una nota di Armando Torno su "una questione oziosa e irrisolta"
ULTIMA CENA ED ECONOMIA VATICANA: LA CARESTIA AVANZA!!! Benedetto XVI "cambia la formula dell’Eucarestia"! «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»!!! Note di Gian Guido Vecchi e di Armando Torno
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA
La collana in edicola con il «Corriere»
Primo Levi e il suo monito eterno: Auschwitz, spettro che può tornare
Esce il terzo volume della serie dedicata allo scrittore sopravvissuto alla Shoah.
Il naufragio dell’etica occidentale nell’orrore dei campi di sterminio
di Donatella Di Cesare (Corriere Sera, 11.02.2018)
Fu un tonfo sordo e inatteso. Quel sabato mattina una volante della polizia e un’autoambulanza raggiunsero in fretta Corso Re Umberto 75, al centro di Torino. Era di Primo Levi il corpo esanime, ai piedi delle scale. Quell’11 aprile 1987 la notizia del suicidio fece il giro del mondo e lasciò tutti attoniti, i lettori, ma anche gli amici. Pur sapendo della sua depressione, si rifiutavano di credere che avesse compiuto quel gesto. La lucidità di pensiero, l’altezza intellettuale, che avevano contrassegnato figura e opera di Levi, stridevano con quella spirale di ringhiere in cui era precipitata la sua vita. Molti dubitarono, vollero credere a un incidente. Il suicidio sembrava cancellare ogni scintilla di speranza inscritta nelle sue parole. Il «New Yorker» espresse questo timore apertamente. Molti altri, però, indicarono in quella morte la fine di una tenace sopravvivenza al lager.
Solo un anno prima, nel maggio 1986, era uscito I sommersi e i salvati, l’opera fondamentale di Levi. In quelle pagine la testimonianza personale, affidata ad altri libri precedenti, si coniuga con una riflessione profonda, un’analisi implacabile e un monito severo. «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire». Le parole della conclusione sono il suggello di un libro pervaso dall’amarezza, a tratti dalla disperazione, ma sostenuto dall’esigenza di una denuncia senza compromessi. I sommersi e i salvati è scritto per i giovani; sono loro i destinatari. E perciò in ogni scuola dovrebbe oggi essere studiato, meditato.
Non basta leggere Se questo è un uomo , oppure La tregua. Perché è come se quella narrazione trovi una nuova luce. È a partire dall’attualità che viene infatti ripercorsa l’esperienza del lager. Auschwitz non è un mito lontano, ma uno spettro del futuro. Levi prende la parola per combattere, con le ultime forze, contro revisionisti e negazionisti.
Non si comprenderebbe il suo pensiero se non lo si interpretasse nel contesto di quei giorni. Nel giugno 1986 lo storico tedesco Ernst Nolte aveva articolato una tesi, già diffusa in Germania, con cui pretendeva di mettere sullo stesso piano il gulag e il lager, lo stalinismo e il nazismo, e vedeva anzi in quest’ultimo null’altro che una risposta al primo. Qualche tempo dopo, quel «laido conato» trovò spazio anche sulla stampa italiana. Levi fu implacabile: i due sistemi non erano paragonabili. Le camere a gas, quell’invenzione tutta tedesca, era la cifra ineguagliata dello sterminio.
La Germania che tentava invano di discolparsi, di «sbiancare il suo passato», gli faceva orrore. «Nessun tedesco dovrebbe dimenticare». Attento a non pronunciare un verdetto su un’intera nazione, con il tempo modificò il giudizio. La colpa era stata enorme: «Quasi tutti i tedeschi di allora» sapevano e non avevano avuto il coraggio di parlare. I sommersi e i salvati è un libro durissimo che mira a decostruire molti stereotipi. Ad esempio l’idea, ancora ben radicata, che Auschwitz sia il risultato della barbarie nazista.
Le cose sono ben più complicate. A quel progetto politico hanno aderito - occorre riconoscerlo - molti intellettuali. Ma sulla scia di Hegel, che aveva deificato lo Stato, l’intellettuale tedesco «tende a farsi complice del Potere». «Le cronache della Germania hitleriana - osserva Levi - brulicano di casi che confermano questa tendenza: vi hanno soggiaciuto Heidegger il filosofo, il maestro di Sartre; Stark il fisico, premio Nobel; Faulhaber, il cardinale, suprema autorità cattolica in Germania, ed innumerevoli altri».
Qualcuno ha scritto che in queste pagine Levi si rivela un grande moralista. Ma la definizione è fuorviante. Piuttosto, senza smettere di essere testimone, Levi veste i panni del filosofo per criticare la filosofia, per sfidarla, indicando temi rimasti fuori dall’inventario filosofico, come quello di vergogna, o mostrando i concetti che, come quello di morte o di libertà, vanno rivisti. Perché Auschwitz è il naufragio dell’etica occidentale. La responsabilità è stata frantumata. Levi ritorna sulla «zona grigia» dove alla vittima, per la prima volta, non è concesso più neppure il ruolo di vittima, al punto da renderla semicarnefice. È questo il «delitto più demoniaco del nazionalsocialismo».
Splendido, e forse sottovalutato, è il capitolo «Comunicare» . Auschwitz appare una nuova versione della Torre di Babele. Capire o non capire, sapere il tedesco, segna lo spartiacque tra la vita e la morte. La disumanizzazione dell’altro passa attraverso la lingua ridotta a crudele strumento di potere. La parola lascia il posto all’offesa e poi al nerbo. È il segnale che non si è più considerati umani. E Levi commenta: «Dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio». Nel lager, però, si muore per mancanza non solo di informazione, ma anche di dialogo, quando nessuno «ti parla» più. Dove viene meno il vocativo dell’altro finisce la vita. Perciò scrive Levi rivolto ai suoi destinatari futuri: «Rifiutare di comunicare è colpa»
Inediti.
Hans Jonas, la ricerca della vita buona
Secondo il pensatore tedesco l’uomo si realizza in un sano pensiero filosofico, evitando gnosticismo e storture scientiste. Per non diventare «formiche tecnologiche»
di Simone Paliaga (Avvenire, venerdì 9 febbraio 2018)
«Che l’immagine dell’uomo non vacilli, si offuschi e sbiadisca, che gli uomini non si riducano a formiche tecnologiche o edonisti senza anima o marionette frastornate dal nostro furibondo potere». A cosa attingere per evitare questa deriva? All’uso adeguato della filosofia che instrada verso la vita buona e all’esercizio della virtù? Sono dilemmi che hanno il sapore dell’attualità benché sollevate da Hans Jonas nel 1955. Potrebbe d’altro canto essere diversamente se «le questioni filosofiche - puntualizzava il pensatore sei anni prima - si ripropongono ad ogni nuova epoca tanto daccapo, quanto alla luce della loro intera vicenda storica antecedente?». Le citazioni provengono dalle annotazioni del filosofo appartenenti alla sua stagione canadese, dal 1949 al ’55.
A lungo conservate all’Hans Jonas Nachlass dell’università di Konstanz sono state ripescate e raccolte in anteprima mondiale da Fabio Fossa in questo libro (Sulle cause e gli usi della filosofia e altri scritti inediti, Ets, pp. 120, euro 10). Hans Jonas non è tra gli autori più conosciuti al grande pubblico eppure il suo curriculum scintilla. Dopo gli studi con Rudolf Bultmann e Martin Heidegger nella Germania degli anni Trenta, prende la via dell’esilio, lontano dall’Europa.
La sua vita però non si riduce a studio e contemplazione. Anzi l’agire ne costituisce una cifra di rilievo. Lo prova, nel corso della Seconda guerra mondiale, la scelta di arruolarsi nella Jewish Brigade, inquadrata nell’esercito britannico e operativa sul suolo italiano. I rapporti con la penisola scandiscono la vita di Jonas. Sarà proprio al rientro dall’Italia, nel 1993, dopo avere ricevuto il Premio Nonino dedicato ai maestri del nostro tempo, che il filosofo tedesco naturalizzato americano si spegnerà a New York all’età di novant’anni.
Il nome di Jonas comincia a uscire dai cenacoli dotti appena pubblica Il principio responsabilità, dove traccia un’etica all’altezza della civiltà tecnologica. Siamo, con Jonas, lontani anni luce dalle prefiche apocalittiche. La Guerra fredda imperversa (è il 1979) e molti continuano a gridare al pericolo rosso, pronto a sbarcare in Afghanistan. Pochi invece si curano dei potenziali sviluppi distruttivi della civiltà a più alto tasso tecnologico mai esistita. Eppure la riflessione sul ’Prometeo scatenato’ occhieggiava già da tempo tra le note di Jonas. Lo testimoniano gli scritti del soggiorno canadese che sono tutt’altro che una parentesi nel cammino di pensiero di Jonas. Già con il breve Introduzione alla filosofia e con Virtù e saggezza in Socrate prepararti nell’inverno del 1949 per i corsi del Dawson College della McGill University, emerge la costante attenzione all’uomo e alla vita buona, medicina per non trasformarsi in «formiche tecnologiche».
«L’uomo è il risultato delle sue azioni passate - scrive nel 1949 in Introduzione alla filosofia -. Intendo il passato culturale della stirpe, custodito nella memoria storica; e solo fintantoché questo passato è realmente ricordato l’uomo è davvero consapevole del proprio esistere presente e, di conseguenza, dell’autentico significato attuale dei propri problemi esistenziali». È questa dimensione storica che gli consente di porsi di là del dualismo tra intelletto e vita, tipico della filosofia greca. Ma la sua storicità non garantisce nulla se non un punto di partenza. Occorre, all’uomo, inseguire la vita buona e praticare la virtù, rovello dello sforzo teoretico di Jonas. Agire eticamente nel mondo storico perseguendo la virtù consente di evitare le spirali dello gnosticismo o le storture del sogno scientista che «promuove la massima realizzazione di tutti i fini desiderabili attraverso la semplice messa a disposizione dei mezzi».
Occorre ricucire lo strappo tra intelletto e vita. «L’approccio dualistico alla costituzione sostanziale dell’uomo - scrive già nel 1950 - rende conto del fatto che tanto la comprensione quanto la realizzazione del fine dell’uomo non dipendono da un processo di sviluppo spontaneo, ma dall’esercizio della virtù etica». Virtù che non può rimanere chiusa nell’autosufficienza dell’intelletto e che nello Jonas maturo assume i tratti della responsabilità nei confronti delle generazioni a venire. Responsabilità che faticherebbe a farsi largo senza la «fatica della filosofia, che deve sempre ripartire da capo, fondata com’è sulla ragione; e la ragione non è il freddo, impersonale intelletto, ma è pervasa dalla passione dell’amore o dell’onestà».
QUELLA COTTA PER LA ARENDT DI HANS JONAS
A dieci anni dalla sua scomparsa esce la sua autobiografia
di Paola Sorge (la Repubblica, 29 luglio 2003)
La notorietà arrivò tardi per Hans Jonas: il filosofo aveva 75 anni quando «Il principio responsabilità - Un’etica per la civiltà tecnologica» - un libro che ebbe una diffusione rapida e vastissima come pochi altri nel mondo del pensiero - gli diede fama internazionale; da allora, era il 1979, il pensatore originario di Monchengladbach che aveva studiato con Husserl e Heidegger, l’ insegnante entusiasta e appassionato che faceva della filosofia qualcosa di vivo e affascinante, divenne estremamente popolare, onnipresente nei dibattiti sul futuro del mondo.
La sua intensa vita che abbraccia quasi tutto il Novecento (dal 1903 al 1993) la racconta lui stesso in maniera semplice e disarmante in un volume uscito ora in Germania (Hans Jonas: Erinnerungen, ed. Insel,pagg. 500); nulla di accademico né di costruito nelle memorie di questo grande filosofo che paiono piuttosto le confidenze di un amico che sente il bisogno di confessarsi, di rivelare con estrema franchezza non solo le tappe del suo iter intellettuale - dalla analisi della spiritualità antica a quella della tecnologia moderna fino alla preoccupazione per il futuro dell’ umanità - , ma anche le sue vicende personali, gli aspetti meno conosciuti della sua formazione e della sua carriera, i lati oscuri della sua personalità. Jonas rievoca con dovizia di particolari la sua infanzia, il rapporto con il padre, un agiato fabbricante tessile che stenta a capire le aspirazioni e le tensioni spirituali del figlio e il suo impegno per il sionismo, il tenero legame con la madre e la ferita sempre aperta per la sua tragica morte a Auschwitz; come la maggior parte dei suoi compagni di studi, Hans prova una forte attrazione per Hannah Arendt, conosciuta a Marburg nel 1924, ma lei gli confessa subito la sua relazione con Heidegger per non illuderlo e ne fa il suo confidente e amico per la vita.
La descrizione dell’ ambiente universitario di Friburgo e poi di Marburg e delle lezioni tenute dai due grandi, allora mitici maestri di Jonas, Husserl e Heidegger, è a dir poco disincantata. Il primo, fondatore della fenomenologia, riteneva che tutti i pensatori dell’ era moderna, da Descartes in poi, non erano riusciti a risolvere certi problemi della consapevolezza o della teoria della conoscenza perché non conoscevano il suo metodo, l’ unico che dava soluzioni. Tra l’ altro, si diverte a ricordare Jonas, era presente alle lezioni la moglie di Husserl che, come un cerbero, controllava che gli studenti fossero attenti e prendessero appunti.
Quanto a Heidegger, il giovane Hans ne riconosce il grande valore e la suggestione esercitata dalla sua personalità, ma non esita a dichiarare che spesso non lo capiva: il suo messaggio era cifrato, destinato a pochi iniziati e inoltre, intorno a lui, si avvertiva un’ atmosfera «malsana» dovuta agli adoratori del filosofo. «Non riuscivo a sopportare quella congrega di cultori di Heidegger dall’ atteggiamento bigotto e altezzoso» - osserva Jonas ricordando i seminari frequentati a Marburgo dal 1924 - «essi credevano di possedere la verità rivelata: quella non era filosofia ma qualcosa di settario, quasi una nuova fede...».
Queste prime, sgradevoli impressioni saranno poi rafforzate dal celebre discorso tenuto da Heidegger nel ’33 in favore di Hitler e dal suo vergognoso comportamento nei riguardi di Husserl. In realtà per il giovane studente pieno di ideali, che credeva che la filosofia dovesse proteggere l’uomo da errori, migliorarlo e nobilitarlo, l’inaspettata adesione del grande filosofo al nazismo non significa solo il crollo di un idolo, ma anche il fallimento catastrofico della filosofia stessa, «la bancarotta del pensiero filosofico».
Dopo la guerra Hans Jonas si distaccherà definitivamente dalla filosofia dell’ esistenzialismo contrapponendole la «filosofia della vita»; a differenza della Arendt, non perdonerà mai colui che ritiene il più profondo pensatore del suo tempo, anche se accetterà di incontrarlo brevemente nel 1969, in occasione del suo ottantesimo compleanno. «Ma tra noi ci fu solo uno scambio di ricordi del tempo di Marburg», nota Jonas.
Dopo la notizia dell’ avvento di Hitler al potere appresa durante un’ allegra festa in maschera, Hans si rifugia a Gerusalemme, partecipa alla seconda guerra mondiale arruolandosi nell’ esercito inglese, combatte in Italia, a Taranto, a Forlì, a Udine, e rimane piacevolmente sorpreso nel constatare che la popolazione protegge e nasconde gli ebrei in barba alle leggi razziali.
Quando nel ’45 torna in Germania e vede le città tedesche rase al suolo - città fantasma che sembravano paesaggi lunari, piene di crateri e di rovine - , prova una gioia incontenibile per la vendetta che si è compiuta: «E’ qualcosa che non vorrei mai più provare», confessa Jonas, « ma che non voglio tacere». E, senza remore aggiunge che per molti anni quello è stato per lui il momento di più intensa felicità. «Oggi non lo potrei più dire «, nota il filosofo « perché nella mia vita ho vissuto momenti ben più felici».
A New York, dove dal 1955 ha la cattedra di filosofia, ritrova Hannah Arendt e frequenta la sua cerchia di amici a Manhattan fino a quando la pubblicazione degli articoli della scrittrice sul processo di Eichmann a Gerusalemme lo sconvolge profondamente: Jonas non crede ai suoi occhi, non riesce a capacitarsi delle dure critiche mosse dalla Arendt agli stessi ebrei, del tono tagliente e sarcastico da lei usato nei loro confronti, della sua posizione antisionista. Lo scontro fra i due amici di un tempo è inevitabile: Hans rimprovera a Hannah - che non ha mai letto la Bibbia - la sua ignoranza sulla religione e sulla storia ebraica antica, tenta inutilmente di farla desistere dalle sue posizioni, si rifiuta infine di vederla. Solo dopo due anni riprenderà i contatti con la donna da lui stesso definita «un genio dell’ amicizia».
Uno spettro si aggira per l’Europa: Carl Schmitt
di Roberto Esposito (la Repubblica, 01.02.2018)
La traduzione del saggio di Carl Schmitt su Legalità e legittimità, curata e introdotta magistralmente da Carlo Galli per il Mulino, presenta più di un motivo di interesse. Pubblicato nel 1932, subito dopo le ultime elezioni tedesche, prelude al collasso della Repubblica di Weimar e alla vittoria nazista. Se non si può dire che prepari la svolta totalitaria - pure accettata di buon grado dall’autore l’anno successivo - coglie tutti gli elementi della crisi che avrebbe portato al crollo della democrazia in Germania. Il tramonto dello Stato legislativo apre un varco nell’ordinamento che spezza l’equilibrio costituzionale tra legalità e legittimità, norma e decisione, diritto e politica.
Schmitt, almeno in linea di principio, non contrappone i due termini. Anzi tenta di articolarli, collocando il potere costituente nella volontà del popolo tedesco. In questo modo resta all’interno del quadro democratico, ma lo spinge all’estremo limite arrivando a richiedere un Custode della Costituzione capace di incarnare la volontà popolare. Ciò che in sostanza Schmitt propone è una democrazia plebiscitaria che modifichi in senso autoritario il regime di Weimar. Il secondo motivo di interesse è l’attitudine camaleontica dell’autore a “ripulire” a ritroso la propria storia, ampiamente compromessa col nazismo.
Nella postfazione, scritta nel 1958, Schmitt individua in Legalità e legittimità il «tentativo disperato di salvare» la Costituzione di Weimar dall’attacco concentrico delle forze antisistema di destra e sinistra. Ora è vero che Schmitt non fuoriesce formalmente dalla cornice costituzionale. Ma schierandosi per un rafforzamento senza bilanciamento dei poteri del presidente, apre la strada allo strappo del 1933, quando si passa dalla possibile dittatura commissaria di Hindemburg alla reale dittatura sovrana di Hitler: la legge sul conferimento dei pieni poteri e l’abrogazione dei partiti sono l’esito controfattuale del tragico tentativo di stabilizzare la Repubblica, lacerandone il tessuto istituzionale.
Eppure l’interesse del saggio di Schmitt non è circoscrivibile a una vicenda storica fortunatamente chiusa. Nonostante la distanza che ci separa, sono troppi gli echi che risuonano in queste pagine.
A cos’altro richiamano la crisi di legalità e il deficit di legittimità, l’impotenza del Parlamento e il conflitto dei partiti, le forzature della costituzione e il rischio di ingovernabilità, se non alle ferite delle nostre democrazie?
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VOLONTÀ DI POTENZA E DEMOCRAZIA AUTORITARIA. CARLO GALLI NON HA ANCORA CAPITO CHE, NEL 1994, CON IL PARTITO "FORZA ITALIA", E’ NATO ANCHE IL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA.
LA BRUTTEZZA DI UNA DIPINTURA: "FABULA LEMURUM". In memoria di Giambattista Vico
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME: COME L’ITALIA, UN PAESE E UN POPOLO LIBERO, ROVINO’ CON IL "GIOCO" DEI "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
Le leggi razziali compimento del fascismo
di Enzo Collotti (il manifesto 27.1.2018)
Quest’anno il Giorno della Memoria coincide con la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi contro gli ebrei dell’Italia fascista. Promulgazione ad opera di quel sovrano Vittorio Emanuele III al quale, se non altro per questa ragione, devono essere precluse le porte del Pantheon.
Come giustamente ricorda una importante pubblicazione edita l’anno scorso in Germania per gli ottanta anni dalle leggi di Norimberga, fu una iniziativa tutta italiana senza che vi fosse alcuna pressione da parte del Reich nazista, come si ostina a ripetere qualche tardo estimatore di Benito Mussolini.
Tutto quello che si può dire in proposito è che nell’Europa invasa dall’antisemitismo, l’Italia fascista non volle essere seconda a nessuno, ossessionata come era, fra l’altro, dallo spettro della contaminazione razziale.
Frutto avvelenato dell’appena conquistato impero coloniale e della forzata coabitazione con i nuovi sudditi africani.
Come tutti i neofiti, anche il razzismo fascista ebbe il suo volto truce. La «Difesa della razza», l’organo ufficiale del regime che ebbe come segretario di redazione Giorgio Almirante, ne forniva la prova in ogni numero contraffacendo le fattezze fisiche degli ebrei o rendendo orripilanti quelle delle popolazioni nere.
Il tentativo di fare accreditare l’esistenza di una razza italiana pura nei secoli aveva il contrappasso di dare una immagine inguardabile delle popolazioni considerate razzialmente impure. L’arroganza della propaganda non impedì che essa facesse breccia in una parte almeno della società italiana e ancora oggi non è detto che essa si sia liberata dall’infezione inoculata dal fascismo, come stanno a dimostrare piccoli, ma numerosi episodi che si manifestano, e non solo negli stadi.
Non bisogna fra l’altro dimenticare che non solo tra il 1938 e l’8 settembre del 1943 l’odio razziale ebbe libero corso, ma che dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca la caccia agli ebrei divenne uno dei principali motivi dell’esistenza della Repubblica Sociale neofascista.
In nome della purezza della razza il regime costrinse a fuggire o mise in campo di concentramento ebrei che in altre parti d’Europa si erano illusi di trovare un rifugio non precario entro i confini italiani; ma costrinse all’emigrazione scienziati e intellettuali italiani, privando il Paese di una componente culturale che, nella più parte dei casi, non avrebbe fatto ritorno in Italia neppure dopo la liberazione anche a causa degli ostacoli non solo burocratici alla reintegrazione di quanti erano stati costretti a espatriare e che per tornare a esercitare il proprio ruolo in patria non avrebbero potuto contare su nessun automatismo.
Le leggi contro gli ebrei costituirono un’ulteriore penetrazione del regime nel privato dei cittadini: il divieto dei matrimoni con cittadini ebrei; l’espulsione degli ebrei come studenti ed insegnanti dalle scuole e dalle università; l’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione.
Di fatto, ma anche di diritto, si venne a creare una doppia cittadinanza con cittadini di serie A e cittadini di serie B, preludio dell’ostracismo generalizzato sancito dalla Repubblica Sociale che proclamò semplicemente gli ebrei cittadini di stati nemici, quasi a dare la motivazione non solo ideologica per la parteicpazione italiana alla Shoah.
Ancora oggi è difficile dare una valutazione sicura delle reazioni della popolazione italiana alle leggi razziali. Le azioni di salvataggio compiute dopo l’8 settembre non devono ingannare a proposito dei comportamenti che si manifestarono prima dell’armistizio.
Gli stessi ebrei non si resero esattamente conto della portata delle leggi razziali. Il fanatismo della stampa, in particolare nella congiuntura bellica in cui gli ebrei vennero imputati di tutti i disastri del Paese, andava probabilmente oltre il tenore dello spirito pubblico che oscillava tra indifferenza e cauto plauso, aldilà del solito stuolo dei profittatori.
Le autorità periferiche non ebbero affatto i comportamenti blandi che qualche interprete vuole tuttora addebitare loro. Il conformismo imperante coinvolse la più parte della popolazione. Il comportamento timido, più che cauto, della Chiesa cattolica non incoraggiò in alcun modo atteggiamenti critici che rompessero la sostanziale omogeneità dell’assuefazione al regime.
A ottanta anni di distanza la riflessione su questi trascorsi è ancora aperta e si intreccia con alcuni dei nodi essenziali della storiografia sul fascismo (per esempio la questione del consenso).
È una storia che deve indurci ad approfondire un esame di coscienza collettivo alle radici della nostra democrazia e a dare una risposta a fatti che sembrano insegnarci come la lezione della storia non sia servita a nulla se è potuto accadere che il presidente del tribunale fascista della razza diventasse anche presidente della Corte Costituzionale della Repubblica.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
COSTITUZIONE E INSEGNAMENTO....
Censurare Céline non ferma il razzismo
di Daniela Ranieri (Il Fatto, 25.01.2018)
La decisione della casa editrice francese Gallimard di non pubblicare più gli Scritti polemici di Louis-Ferdinand Céline dopo la gragnola di polemiche che ne sono seguite non è, a nostro avviso, un coscienzioso atto di profilassi anti-antisemita, bensì un grave sintomo dei tempi.
Gli scritti, che contengono i pamphlet più virulenti di Céline (Bagatelle per un massacro, del 1937, La scuola dei cadaveri del ’38 e La bella rogna del ’41) finora conservati dalla vedova ultracentenaria Lucette e mai pubblicati, sono stati ritenuti troppo scandalosi per essere stampati e venduti nelle librerie di Francia. I sopravvissuti alla Shoah li hanno definiti “un’incitazione all’odio razziale”, e il governo, nella persona del delegato interministeriale contro il razzismo, ha convocato l’editore, che è stato costretto ad annunciare la “mancanza delle condizioni di serenità” per lavorare su una materia tanto incandescente. E così, contrariamente a quanto avvenuto in Germania nel 2016 quando uscì l’edizione critica del Mein Kampf di Hitler, gli scritti odiosi e radicali di Céline non vedranno la luce.
È vero: Bagatelle per un massacro è un libro pieno d’odio. Per Céline, gli ebrei sono “quelli che contano”, “non i decoratori, i giardinieri, i facchini, gli sterratori, i fabbri, i mutilati, i portinai... insomma... la manovalanza... No! Ma tutti quelli che ordinano... che decidono... che intascano... affaristi, direttori, tutti giudei... completamente, semi, un quarto di giudei”. (Come si vede, è facile procurarsi una copia non autorizzata del libro anche senza il permesso dall’alto). La sua è una farneticante rivolta contro “il potere”, scritta tre anni prima che i nazisti annunciassero “la soluzione finale”.
Ma quale logica sottende la scelta di equiparare l’espressione dell’odio, fosse anche la più ributtante, all’azione d’odio, che esistono leggi per perseguire e galere per contenere?
Quale, se non quella di ammettere che le istituzioni democratiche (e in esse la scuola) hanno fallito la loro missione e temono che le parole di uno scrittore possano farle crollare? Che non hanno più gli strumenti per insegnare la Storia se non quello della messa all’indice dei libri sgraditi, versione sterile e “corretta” dei roghi nazisti?
Pensare che inibire la conoscenza di Céline possa frenare i rigurgiti di antisemitismo presuppone la considerazione dei lettori come di eterni fanciulli ai quali vadano vietate le letture oscene. È la pratica preferita dall’Inquisizione, e non ha mai significato progresso. La messa al bando si fonda sulla tesi del contagio: chiunque tocchi il maledetto Céline, ne inala l’infezione e la porta nel mondo.
Sennonché i libri di Céline, da Viaggio al termine della notte a Rigodon, sono di una incontroversa grandezza, veri capolavori di rigore, fantasia allucinatoria, abiezione e cristalizzazione ossessiva. Gli scritti che Gallimard rinuncia a pubblicare sono un documento che appartiene all’umanità, davanti al quale si prova incanto, repulsione e vertigine. Perché privare il lettore dell’esperienza etica e estetica di venire in contatto e se necessario alle mani con esso?
Martin Heidegger, il filosofo tedesco che giurò fedeltà al Terzo Reich, era antisemita. I quaderni neri ne sono una testimonianza agghiacciante. Vietiamo il suo insegnamento nelle università? Richard Wagner organizzava con la moglie Cosima cene con i peggiori editori di fine Ottocento (disprezzati da Nietzsche) per discettare di quanto fossero pericolosi gli ebrei. Distruggiamo il Lohengrin? Lo Shylock di Shakespeare è un usuraio ebreo di fine Cinquecento pronto a tagliare “una libbra esatta della bella carne” dal corpo di Antonio per riscuotere un debito. Chiediamo a Nardella di trasformare Shylock in un norvergese luterano, in un cubano sincretico, in un musulmano? (Dio ne scampi).
Difficile credere che i fascistelli che oggi impestano le città occidentali, per avere forza dei loro non-argomenti, leggano Céline traendo ispirazione dalla sua scrittura sublime e oscena. O che dopo la lettura de La bella rogna una persona sana di mente vada in giro a negare o giustificare i campi di sterminio. O che l’ignorante candidato della Lega Fontana, che farnetica di “razza bianca”, sia un acuto compendiatore di Céline.
La strada per un rifiuto eterno dell’antisemitismo non è la censura, né l’oblio a cui non la scelta libera dei lettori, ma una censura “dall’alto” vuole consegnare le opere antisemite. Al contrario, la strada per formare una coscienza critica nelle generazioni a venire è la conoscenza.
La letteratura non è edificante, non è la somma dei manuali di educazione civica di una società. È sperimentazione, affronto, effrazione; è il tentativo di descrivere l’esperienza del limite, e compito dell’arte più grande è metterci di fronte a ciò che c’è di abissale in noi, proprio perché sia chiaro, anche nel modo più violento, che niente di ciò che umano ci è estraneo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Putin: il Mausoleo resta, «Lenin è come un santo»
Russia. «Comunismo come cristianesimo», dice il presidente. E per i sondaggi il fondatore dell’Urss è ancora il personaggio più popolare
di Yurii Colombo (il manifesto, 16.01.2018)
MOSCA Vladimir Putin in un’intervista concessa per il documentario “Valaam”, andato in onda domenica sera su Rossia1, ha messo una pietra tombale - e metafora non potrebbe essere più calzante - al dibattito sulla rimozione del mausoleo di Lenin. Il mausoleo resta lì e ci resterà, almeno fino a quando ci sarà Putin.
Secondo l’inquilino del Cremlino «Lenin è stato messo in un mausoleo. In cosa ciò è diverso dalle reliquie dei santi per gli ortodossi e in generale per i cristiani? Quando mi dicono che nel cristianesimo non c’è una tradizione simile, non capisco. Guardate il monastero del monte Athos dove sono conservate le reliquie dei santi, anche da noi sono conservate le reliquie dei santi».
La venerazione dei comunisti per il «Capo» sorsero in certe condizioni storiche. «Forse dirò qualcosa ora che a qualcuno non piacerà - ha detto Putin - ma dirò quello che penso. In primo luogo, la fede, ci ha sempre accompagnato. Si rafforzò tra la gente quando nel nostro paese la vita era particolarmente dura... quando i sacerdoti venivano uccisi, quando le chiese venivano distrutte, ma al contempo venne creandosi una nuova religione», quella comunista.
Vladimir Putin non ha evitato di affrontare il tema più scottante, quello del confronto tra comunismo e cristianesimo. Secondo il presidente russo «l’ideologia comunista è sulla carta molto simile al cristianesimo, infatti valori come la libertà, l’uguaglianza, la fraternità e la giustizia si ritrovano nelle Scritture. Il codice del comunismo? È una sublimazione, si tratta di una sintesi di quanto scritto nella Bibbia, non è stato inventato nulla di nuovo».
Parole che hanno provocato, inevitabilmente, molte reazioni. Il partito comunista russo di Zyuganov ha plaudito all’intervista. Il vice presidente del comitato centrale del Pc, Ivan Melnikov, ha sostenuto che «le parole del presidente sono molto corrette e argomentate al fine di smussare gli spigoli più duri sulla questione del mausoleo. A questo proposito, la valutazione di queste tesi non può che essere positiva». Putin si è avventurato in un tema ancora così divisivo in Russia, non certo per ingraziarsi i comunisti. I sondaggi di Pavel Grudinin, stagnano dopo la scoperta che il candidato comunista alla presidenza possiede 5 conti bancari all’estero.
Putin, ha invece sostenuto queste tesi - secondo gli analisti - da «statista super partes», per continuare quel percorso di «riappacificazione» tra russi al di là della storia sovietica. E sicuramente deve aver buttato l’occhio sui sondaggi secondo cui «Lenin resterebbe il personaggio storico più popolare in Russia», ma non già più come capo rivoluzionario, ma come “Dyadya Lenin” (nonno Lenin), fondatore della moderna Russia. E non solo: la maggioranza dei russi considererebbe ancora oggi «l’uguaglianza», il valore più importante da preservare.
Giudizio negativo invece dalla candidata liberale Xenia Sobchak, la quale ha sostenuto che «a Lenin dovrebbe essere data degna sepoltura vicino ai suoi cari» ricordando che il «70% dei russi è favorevole a tale soluzione»; ma anche dal presidente della Cecenia Razman Kadyrov, il quale non ha mai nascosto il suo viscerale anticomunismo.
Il mausoleo venne eretto nel 1924 sulla piazza Rossa ai piedi del Cremlino e contiene la salma imbalsamata del fondatore dell’Urss. Come è noto la moglie di Lenin, Nadezda Krupskaya e alcuni dirigenti bolscevichi allora si dichiararono contrari al mausoleo fortemente voluto invece da Stalin.
Tuttavia, dopo il crollo dell’Unione sovietica, il dibattito sul mausoleo ha assunto tutt’altro significato politico, unificando tutta la sinistra nella sua difesa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
LA COSTRUZIONE DEL SUPERUOMO: POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. L’Italia come volontà e come rappresentazione di un solo Partito: "Forza Italia"!!! Materiali per un convegno prossimo futuro
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
“Il fascismo è eterno: ecco come lo si può riconoscere”
Non pensiero ma azione
di Umberto Eco (Il Fatto, 11.01.2018)
Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. [...] Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’“Ur-Fascismo”, o il “fascismo eterno”. che non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.
1. [...] Il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. [...] tollerare le contraddizioni. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volte per tutte [...] È sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatore tradizionalisti. [...]
2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. [...] Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). [...] L’illuminismo, l’età della ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.
3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione. [...] Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. [...]
4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.
5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. [...] è dunque razzista per definizione.
6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni.
7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del “nazionalismo”. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. [...]
8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. [...]
9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico[...].
10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. [...] .L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte del mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!! NEL 1994 UN CITTADINO REGISTRA IL NOME DEL SUO PARTITO E COMINCIA A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’"
UNA DOMANDA ALL’ITALIA: MA COME AVETE FATTO A RIDURVI COSI’?! UN "BORDELLO STATE": UN PAESE BORDELLO. Una nota di Maurizio Viroli (dagli Usa) - e una risposta (agli americani, dall’Italia)
Federico La Sala
Filosofia
Heidegger sui sentieri interrotti
Nella sua concezione la storia non progredisce in modo lineare ma è scandita da eventi
Esce in italiano per Mimesis, a cura di Giusi Strummiello, un trattato del famoso pensatore tedesco risalente al cruciale biennio 1941-42
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 22.11.2017)
Mentre si continua a discutere, con toni accesi, intorno al ruolo che Martin Heidegger svolge nella filosofia contemporanea, esce in italiano, presso la casa editrice Mimesis, il suo grande trattato L’evento. Pubblicato in tedesco solo nel 2009, il volume, di oltre trecento pagine - corrispondente al numero 71 delle Opere complete -, fa parte della serie di sette trattati esoterici, inaugurata dai Contributi alla filosofia (Dall’evento) , editi in Italia da Adelphi. Lo scenario è quello della storia dell’essere; l’interrogativo riguarda l’inizio. Tutto ruota intorno all’«evento». Si intuisce allora l’importanza decisiva di questo trattato che, insieme agli altri numerosissimi inediti, era stato affidato dallo stesso Heidegger all’Archivio di Marbach am Neckar.
La copia manoscritta porta la data «1941-42». Sono gli anni della Seconda guerra mondiale, quelli in cui la Germania nazista tocca il culmine della vittoria e, sferrando l’attacco alla Russia bolscevica, si prepara al dominio del pianeta. Ma sono anche gli anni in cui d’improvviso tutto può finire nel nulla: la vittoria può mutarsi in sconfitta, l’apice può diventare abisso.
Dal suo angolo di visuale Heidegger scruta la possibilità di un altro inizio. Occorre essere avvertiti e non lasciarsi sfuggire i cenni con cui si preannuncia la nuova era tanto attesa. E, d’altronde, la filosofia non è forse anzitutto attesa? Il rischio sarebbe quello di forzare i tempi, di voler uscire da un’epoca, là dove non vi è uscita, di predisporre, programmare, pianificare. Così verrebbe meno ogni possibilità di interrogarsi e meditare.
Filosofo profondamente storico, tanto contrario alla storiografia erudita e allo storicismo asfittico, quanto attento all’andamento imprevedibile della storia, segnato com’è da svolte repentine, pieghe imponderabili, vie tortuose, Heidegger si chiede che cosa sia un «evento», un Ereignis . Perché la storia non è una marcia trionfale verso il progresso, come viene superficialmente vista nella modernità. Piuttosto è scandita da eventi.
Di volta in volta unico, l’evento si sottrae a ogni dominio e a ogni volontà di definizione. L’evento è ciò che avviene, ciò che accade. Occorre, dunque, vedere finalmente la storia non secondo un disegno globale, bensì come un accadere di eventi, che non sono controllabili a piacimento - al contrario di quel che il progresso tecnico lascia intendere. Di più: proprio perché l’evento scandisce la storia, dischiude un’epoca, siamo noi, nella nostra esistenza storica e finita, ad appartenere all’evento. Perciò l’evento appropria e insieme espropria. Compito della filosofia è pensare l’evento nella sua irriducibile originarietà - e pensarsi dall’evento, cioè come un pensiero che proviene e si dispiega in un orizzonte storico. Non stupisce, dunque, che nella celebre Lettera sull’«umanismo» (Adelphi) , pubblicata nell’immediato dopoguerra, Heidegger scriva: «Dal 1936 “evento” è la parola guida del mio pensiero».
Con toni evocativi, accenti quasi oracolari, uno stile che, fra slanci, inversioni, approfondimenti, si affida a un ritmo rapsodico e segue un percorso capace di aggirare ogni principio, Heidegger guarda all’evento che potrebbe segnare il passaggio dall’evo metafisico a un nuovo inizio della storia. Riprende e sviluppa i temi chiave della sua filosofia. Pagine significative sono dedicate alla verità, al nesso tra pensare e poetare, alla questione della differenza.
Sferzante è inoltre la critica alla modernità, che in tedesco si chiama Neuzeit , quell’epoca che si spaccia per essere nuova, neue Zeit , e che invece, pur essendo «avida di nuovo», non fa che ripetere il passato potenziandolo. Ecco ciò che è tragico: ogni evento viene cancellato sul nascere. Nella modernità una lettura «non-storica della storia» fa tutt’uno con la pianificazione del calcolo e con quell’eccesso della tecnica che si manifesta nella «eccedenza dei dispositivi del volere e nella sovrabbondanza degli armamenti».
Come nei Quaderni neri , scritti nello stesso periodo, anche nel trattato L’evento il paesaggio in cui si muove Heidegger è quello della sera e dell’attesa serale, quando il tramonto si compie, si spengono gli ultimi lumi, la notte incombe. No, nessun timore per la notte. Perché la notte è «la madre del giorno» e solo in quel tempo di oscurità - che la tecnica non tollera, illuminando e accecando 24 ore su 24 - si possono intravvedere i primi bagliori, la fiamma del nuovo inizio. L’Occidente non trapassa, non muore - come vorrebbero alcuni. Piuttosto l’Occidente è «il futuro della storia», purché sia in grado di interpretare la sua storia a partire dall’evento.
Ma nelle ultime pagine il passaggio diventa «divergenza». Così, in un suggestivo ed enigmatico paragrafo, Heidegger celebra i sentieri interrotti, quei percorsi che si addentrano nel fitto del bosco e che si fermano d’un tratto, coperti dalla vegetazione o sbarrati dai tronchi dimenticati dai taglialegna. «Queste vie sono sinistre. La divergenza è sempre su un sentiero interrotto».
Divergenza filosofica? O si dovrebbe anche supporre una divergenza politica dal nazionalsocialismo che si è consegnato alla storiografia della modernità pretendendo di essere il culmine della tecnica. Dal canto suo Heidegger si prepara a fermarsi, a soggiornare sul sentiero dimenticato e interrotto, dove «non “si” va più avanti e non c’è alcun progresso». E si dispone soprattutto a sostenere il peso della divergenza.
Che significhi rivoluzione, svolta epocale o un altro inizio, «evento» è ormai parola chiave della filosofia contemporanea, senza la quale sarebbe inimmaginabile il dibattito degli ultimi anni. Nel pro e nel contro la complessa riflessione di Martin Heidegger resta però ancora da pensare nei suoi profondi risvolti, nelle inattese ripercussioni, nei molteplici effetti.
Andrea Colombo racconta la storia di sedici intellettuali, da Céline a Pound, coinvolti in gradi diversi nell’ideologia razzista e totalitaria dell’estrema destra
di Claudio Gallo (La Stampa, 22.11.2017)
Come l’Angelus novus di Klee, che Benjamin vedeva con lo sguardo rivolto all’indietro, l’inizio del XXI secolo resta ossessionato dagli orrori e dalle passioni del secolo precedente. In questo filone di febbrile rilettura si colloca I maledetti, dalla parte sbagliata della storia di Andrea Colombo (Lindau, pp. 262, € 21) le vicende di sedici grandi e meno grandi intellettuali contaminati dall’ombra demoniaca del ’900. La scelta dell’autore è subito chiara, niente taglio saggistico, niente note: il lettore è affidato al potere delle storie individuali attraverso una scrittura giornalistica che mentre spiega vuole intrigare.
Che cosa accomuna questi personaggi così diversi tra loro (Hamsun, Céline, Benn, Heidegger, Gentile, Lorenz, Riefenstahl, Cioran, Eliade, Sironi, Marinetti, Pound, Wyndham Lewis, Evola, Brasillach, Eliot) è suggerito da Colombo nell’introduzione: «la consapevolezza che l’800, il secolo dei buoni sentimenti, del liberalismo, delle democrazie, della speranza ottimistica in un progresso illimitato, era definitivamente tramontato. Dalle macerie della Prima guerra mondiale doveva sorgere un nuovo mondo completamente trasfigurato».
Illustrano bene quello spirito che aleggiò a più riprese sull’Europa, dall’inizio del ’900 agli Anni 40, le parole di George Valois, passato dall’anarco-sindacalismo al Faisceau, il fascismo francese, e morto anti-nazista nel lager di Bergen-Belsen. Le cita Zeev Sternhell nel classico Né destra, né sinistra: «Fascismo e Bolscevismo sono una stessa reazione contro lo spirito borghese e plutocratico. Al finanziere, al petroliere, all’allevatore di maiali che credono di essere i padroni del mondo e vogliono organizzarlo secondo la legge del denaro, secondo i bisogni dell’automobile, secondo la filosofia dei maiali, e piegare i popoli alla politica del dividendo, il bolscevico e il fascista rispondono levando la spada». Nonostante nel secondo dopoguerra i due movimenti politici siano stati talvolta collocati nella medesima categoria di totalitarismo, l’accostamento tra fascismo e comunismo sembra ancora oggi arduo, ma proprio per questo testimonia bene lo spirito insofferente dell’epoca.
L’irrazionalismo fascista e il culto della razza sfociano nell’antisemitismo che l’autore ritrova in quasi tutti i suoi protagonisti. Non si tratta di un antisemitismo granitico: ci sono sfumature e differenze importanti come faceva notare negli Anni 70 il finlandese Tarmo Kunnas nel suo La tentazione fascista. Non giustificano un’assoluzione, ma rivelano una realtà non facilmente riconducibile e categorie generali troppo nette: apparentemente, il razzismo non fa parte, ad esempio, dell’orizzonte di Ernst Jünger o di Gottfried Benn, mentre è radicato nell’irrazionalismo di Céline (una parola definitiva sul tema l’hanno detta Pierre-André Taguieff e Annick Duraffour in Céline, la race, le juif pubblicato in Francia da Fayard all’inizio dell’anno).
D’altra parte il fascismo, come reazione alla ragione positivista e all’ipocrisia borghese, si appella alla volontà, all’inconscio, a tutto un armamentario irrazionale nemico di ogni misura. Il risultato non cambia, ma talvolta leggendo Céline o Drieu La Rochelle ci si chiede se certe conclusioni aberranti non siano più imposte dal demone dello stile che dal pensiero.
Ripercorrendo le vite dei proscritti di Colombo, si riflette anche sulla consistenza dell’individualità: tutt’altro che definita, nei sedici ritratti sembra un serraglio di personaggi che in ciascuna testa si alternano più o meno imprevedibilmente sul palco della coscienza. Grandezza e meschinità, angeli e demoni.
Come poteva Ezra Pound, geniale architetto dei Cantos, lodare dal manicomio criminale le idee desolanti di John Kaspers, impresentabile suprematista bianco? Eppure, sia Against Usura sia gli apprezzamenti della retorica razzista stile Ku Klux Klan escono dallo stesso cervello, anche se, probabilmente, non dalla stessa persona. Ma tutto questo al giudice non importa, per la giustizia e per la morale ognuno di noi è un individuo e quello soltanto. Dimenticarlo sarebbe come minacciare l’esistenza del nostro mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Rivelazioni
Heidegger filosofo del Reich fino al 1942
Per otto anni partecipò a una commissione ufficiale presieduta dal criminale di guerra Hans Frank
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 17.11.2017)
Durante il Terzo Reich, anche dopo le sue dimissioni da rettore dell’Università di Friburgo il 27 aprile 1934, Martin Heidegger non rimase affatto estraneo al regime. Anzi partecipò per almeno otto anni, fino al luglio 1942, a una commissione per la filosofia del diritto che ebbe un ruolo di rilievo nella nazificazione del sistema giuridico. Un organismo presieduto dal famigerato Hans Frank, futuro governatore della Polonia occupata durante la guerra, di cui facevano parte figure come Alfred Rosenberg, ideologo antisemita, e il famoso giurista Carl Schmitt.
La circostanza non era ignota, ma ora un lavoro della studiosa tedesca Miriam Wildenauer sul nazismo degli accademici, in uscita il prossimo anno, approfondisce la questione. In particolare emerge che Heidegger era ancora membro della commissione (i cui verbali non sono stati reperiti) nell’estate del 1942, quando era già stata avviata la Soluzione finale del problema ebraico attraverso lo sterminio.
«Non si tratta di un dettaglio biografico, ma di una notizia molto rilevante», osserva Donatella Di Cesare, autrice del libro Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri), in cui denuncia l’orientamento antisemita del pensatore analizzando i suoi Quaderni neri , taccuini filosofici rimasti a lungo inediti. La coincidenza tra la stesura di quegli appunti e la partecipazione alla commissione, a suo parere, è assai significativa: «Non si può più descrivere Heidegger come un apolitico, perché emerge chiaramente che era coinvolto appieno nell’ambiente intellettuale da cui vennero elaborate le leggi razziali di Norimberga del 1935, premessa necessaria della Shoah. Le sue responsabilità non sono quindi minori rispetto a quelle di Schmitt, che a differenza di lui venne messo sotto accusa dopo la guerra».
Il problema, secondo Donatella Di Cesare, riguarda anche la storiografia: «Colpisce che un fatto così grave venga alla luce soltanto adesso: mi domando come mai in Germania per tanti anni nessuno abbia svolto ricerche sull’argomento».
KANT E L’ORNITORINCO. La democrazia, l’antinomia istituzionale del mentitore e la catastrofe culturale italiana... *
Nel nome di Eco
di Daniele Trematore (Alfabeta2 , 30 settembre 2017)
Per cominciare bisogna andare a scavare nelle pagine finali di alcuni saggi Sulla letteratura. Lì, in un bellissimo scritto autobiografico intitolato “Come scrivo”, Umberto Eco ci dice che narrare è innanzitutto un fatto “cosmogonico”: ha a che fare con la costruzione di un mondo, e solo dopo che questo mondo è stato costruito le parole verranno quasi da sé: rem tene, verba sequentur. Ed è quello che Eco ha fatto prima di scrivere Il nome della rosa, disegnando personaggi e labirinti di un mondo che già conosceva benissimo grazie ai suoi studi medievali, o Il pendolo di Foucault, le cui pagine finali sono venute di getto proprio perché Eco quel momento lo aveva vissuto: il ragazzino piemontese che suona la tromba a un funerale di partigiani era proprio lui. Ed è anche quello che deve essere successo a Claudio Paolucci (docente di Semiotica all’Università di Bologna e già autore di numerosi saggi sulla semiotica interpretativa) quando si è messo a scrivere il suo ritratto di Umberto Eco. Tra Ordine e Avventura, da poco uscito per la collana “Eredi” di Feltrinelli diretta da Massimo Recalcati.
Quel mondo Paolucci lo ha costruito nel corso del tempo e, in parte, lo ha anche vissuto, visto che per lui Eco è stato “il relatore della mia tesi di laurea, il tutor di quella di dottorato e il maestro di semiotica che avevo sempre sognato”: quel “prof.” che condensava in sé le qualità dei suoi tre più importanti maestri - il rigore e la pedanteria di Pareyson, l’ironia scettica di Abbagnano e la teatralità di Guzzo - e che amava infinitamente stare con i propri allievi anche al di fuori dell’ambiente universitario, magari davanti a un Martini o a un whisky. Che ti poteva addirittura chiedere di tenere un intero corso al suo posto, ma che poi sapeva degnamente ricompensarti con qualche prima edizione, dalla Logica dei Relativi di Peirce alla copia originale della sua tesi sul Problema estetico in San Tommaso d’Aquino. E che, soprattutto, non si tirava mai indietro di fronte alla discussione critica al punto da accettare la tesi “tutta contro di lui” di “un ragazzo di ventiquattro anni con un look che lo disturbava moltissimo” e che smontava punto per punto alcune idee contenute nel suo Kant e l’ornitorinco.
Rem tene, verba sequentur, dicevamo. Ma le pagine di Paolucci (come del resto quelle di Eco) non sono il risultato di una sorta di “magma dell’ispirazione”, bensì di giorni e notti passate a studiare le opere del suo maestro (e dei suoi maestri) che, non a caso, amava insegnare ai suoi allievi che “il talento non porta da nessuna parte senza il lavoro”. Esse, insomma, sono il frutto di quell’“etica lavorativa” che caratterizzava il metodo di lavoro intellettuale e professionale di Umberto Eco (si pensi agli impressionanti ritmi di studio che aveva a Monte Cerignone interrotti soltanto dai pasti o da una nuotata in piscina); e si distinguono per rigore e profondità quando parlano dello studioso - e, aggiungerei, per commozione quando Paolucci rievoca alcuni ricordi e momenti personali dell’uomo.
Facendosi strada tra boschi narrativi e labirinti rizomatici dove incontriamo i temi più cari al nostro, come il riso e la menzogna, la guerriglia semiologica e l’Enciclopedia, questo appassionato ritratto intende offrire una panoramica generale del pensiero di Eco tentando - alla luce della sua autobiografia intellettuale terminata poco tempo prima di morire per la prestigiosa collana “Library of the Living Philosophers” - di fare il punto su un’eredità ancora tutta da valutare.
Innanzitutto Paolucci evidenzia il rapporto tra Teoria e Storia costitutivo dell’opera di Eco - in continua tensione tra Ordine e Avventura, Summa ed Enciclopedia, Forma e Interpretazione - e rielabora completamente quello più tardo tra Teoria e Narrazione che ha impegnato la riflessione di alcuni suoi critici e di cui Eco stesso era da tempo consapevole. Si tratta di due regni metodologicamente separati ma che si nutrono reciprocamente; non a caso, per spiegarne il rapporto, Eco riformulava una famosa frase di Wittgenstein e al posto di “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, diceva “su ciò su cui non si può teorizzare, si deve narrare”. Così, mentre la Teoria è l’arte di risolvere i problemi attraverso lo studio del linguaggio, la Narrazione “mostra” le soluzioni ad alcuni problemi che la Teoria non era in grado di trattare coi propri mezzi. Un esempio di questo rapporto è proprio Il nome della rosa. Per tutta la sua vita Eco ha cercato di scrivere un Trattato filosofico sul Riso, senza mai riuscirci. Il nome della rosa è la versione non teorica di questo trattato. E nelle ultime pagine del romanzo Guglielmo da Baskerville e Jorge da Burgos discutono proprio delle teorie sul riso che Eco mette sì in bocca ad Aristotele, ma che in realtà sono le sue. È quindi dal Nome della rosa e non dai saggi di filosofia che apprendiamo le teorie filosofiche di Eco sul riso. Da qui l’idea centrale del libro: secondo Paolucci la filosofia di Eco è una specie di “ornitorinco filosofico”, nel senso cui secondo Eco l’ornitorinco era un animale fatto “con pezzi di altri animali”. Così è la filosofia di Umberto Eco: una filosofia fatta con pezzi di non-filosofia, che Paolucci smonta in vari pezzi, aiutandoci a fare piazza pulita di alcuni luoghi comuni.
Partiamo da due maschere: quella dell’ironia e dell’erudizione. La prima ci presenta l’immagine di un Eco che scrive filastrocche sulla storia della filosofia e gioca di pastiches letterari (quando non legge i fumetti) e ride della morte, non prima ovviamente di aver tacciato di imbecillità qualche legione di utenti del web. Paolucci vi dedica un intero capitolo (“Il riso e la rosa”) - dando conto appunto di quel Trattato filosofico sul Riso mai scritto, ma già anticipato in saggi come “L’elogio di Franti” - perché l’ironia in Eco è tanto importante quanto l’estrema serietà del lavoro, costituendone quella parte attraverso cui si testano l’Ordine esistente e le teorie consolidate. La seconda, sottolineata sia dai suoi estimatori che dai suoi critici, può essere rappresentata dalla parodia di Fiorello che mostra un Eco coltissimo che finisce per inciampare su errori banalissimi. Ora, è vero che Eco sapeva molte cose, ma non era L’uomo che sapeva troppo e tantomeno quello che sapeva tutto: era semmai l’enciclopedista che sapeva dove andare a cercare le informazioni che gli servivano hic et nunc (di qui si spiega la sua monumentale biblioteca come strumento di lavoro e come raccolta di libri non letti).
Un altro luogo comune smascherato da Paolucci ci porta ad uno dei suoi testi più noti, Apocalittici e integrati del 1964, che molti ancora citano in relazione alle opposizioni più diverse. In realtà in quel libro - che si presentava come il tentativo di giustificare un titolo scelto dal suo editore Valentino Bompiani per una serie di saggi assemblati in fretta per motivi di concorso - non si trattava di spiegare Rita Pavone attraverso Kant né di dire che la filosofia avesse la stessa dignità culturale del fumetto, ma di far vedere come la cultura “bassa” fosse un prodotto di quella “alta” e “di rivoluzionare i prodotti di cultura bassa, criticando le ideologie della cultura alta ed elevandoli a prodotti che abbiano un’effettiva dignità culturale”. Certo, benché intendesse semplicemente “fare il punto su un dibattito ormai maturo”, noi sappiamo che questo libro, analizzando con metodi filosofici e sociologici rigorosi gli oggetti della cultura di massa, ebbe il merito di ridisegnare la geografia della cultura italiana e di allargarne i domini. Ed ecco che arriviamo al luogo comune che riguarda il suo lavoro filosofico, che negli anni è stato “ostracizzato” dai filosofi di professione proprio perché Eco aveva dei rapporti controversi con la cultura ritenuta “bassa” e considerava la semiotica “la forma contemporanea della filosofia” (e non è un caso che nelle celebrazioni seguite alla morte l’Eco filosofo sia stato messo da parte).
Uno dei tanti meriti del libro di Paolucci - che rappresenta una sorta di grande rivoluzione copernicana nella bibliografia su Eco - è quello di restituire giustizia a questo pensiero eminentemente filosofico e, prendendo provocatoriamente a prestito il titolo di un pezzo mai scritto che Eco regalò a Paolucci, diciamo: Occorre rimettere Eco negli scaffali di filosofia.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
UMBERTO ECO E IL POPULISMO DI "FORZA ITALIA". Un’intervista di Marcelle Padovani (2002) e un’intervista di Deborah Solomon (2007).
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE E STRUMENTI DEL COMUNICARE. La Costituzione, le regole del gioco, il paradosso istituzionale del mentitore... e il "popolo della libertà"!!!
A) Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici (Alessandro Dal Lago, si cfr.: "Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790)
B) MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"(si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3539)
C)Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" - "L’Italia è il mio Partito": "Forza Italia"(si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4371)
D) LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan (si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4112).
E) "A un individuo [ma anche a una intera società, fls] può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama “paradossale”. Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico" (SCUOLA DI PALO ALTO (CALIFORNIA): PAUL WATZLAWICK. cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2010)
F)FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO - POPULISMO DIGITALE. “La realtà come costruzione virale” (si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829#forum3131196).
Federico La Sala
LACAN PROPOSE UN “RITORNO A FREUD”, MA A LONDRA, A “20 MARESFIELD GARDENS”, NON ARRIVÒ MAI ... *
LACAN INTERPRETA “KANT CON SADE” E SI AUTO-INTERPRETA CON “L’ORIGINE DEL MONDO” DI COURBET.... **
KANT CON SADE: “Che l’opera di Sade anticipi Freud, foss’anche solo riguardo al catalogo delle perversioni, è una sciocchezza detta e ridetta nelle lettere, la cui colpa, come sempre, va agli specialisti”. Così inizia il testo di J. Lacan, "Kant con Sade", (Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 762).
Sulla “kantizzazione” di Sade e sulla “sadizzazione” di Kant da parte di Lacan, cfr.: E. Fachinelli, “Lacan e la Cosa”, "La Mente estatica", Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195; e, sulla più generale “hitlerizzazione” di Kant, si cfr., mi sia consentito, Federico La Sala, FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA).
LACAN E “L’ORIGINE DEL MONDO” (G. Courbet, 1866): “(...) Jacques Lacan conservava L’origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d’élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur” (Sergio Luzzatto, “L’origine del mondo, storia di un tabù”, Corriere della Sera, 24 maggio 2008).
** PSICOANALISI: LACAN INTERPRETA “KANT CON SADE” E SI AUTO-INTERPRETA CON “L’ORIGINE DEL MONDO” DI COURBET.
Federico La Sala
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ... *
Giorello: il sapere ha un’anima ribelle
Nel libro intervista con Pino Donghi il filosofo elogia le rotture traumatiche che smuovono il mondo. E la lezione di Jünger: la libertà più importante è quella interiore
di ANTONIO CARIOTI *
In alto da sinistra: Giordano Bruno e Baruch Spinoza; in basso da sinistra: Karl Popper e Galileo Galilei (illustrazioni di Fabio Sironi)
Se deve indicare parole capaci di esprimere al meglio L’etica del ribelle, titolo del suo libro intervista a cura di Pino Donghi, edito da Laterza, Giulio Giorello non cita Ernesto Che Guevara, ma neppure i suoi amati filosofi Giordano Bruno e Baruch Spinoza. Le scelte scontate non gli appartengono. Ricorre invece a un autore spiritualista e aristocratico, eroe di guerra tedesco caro alla destra: Ernst Jünger. Dal suo Trattato del ribelle ricava il concetto che la resistenza al dispotismo nasce dalla libertà interiore di chi assegna «più valore al modo di essere» che «alla pura sopravvivenza». Certo, è una visione elitaria, perché «una grande maggioranza non vuole la libertà, anzi ne ha paura». Proprio per questo è necessario creare un contesto istituzionale nel quale andare contro i detentori del potere, politico, economico e culturale, non comporti rischi troppo gravi: solo così si promuove l’innovazione che fa avanzare la conoscenza.
Non stupisce quindi che Giorello indichi nel mondo anglosassone e protestante (apprezza anche Martin Lutero) l’ambiente culturale con cui si sente in maggiore sintonia. E proponga considerazioni piuttosto controcorrente in questi tempi di rinnovato furore antiborghese. Ricorda per esempio che «soltanto col sorgere del capitalismo e con lo sviluppo delle istituzioni scientifiche» l’autonomia della ricerca è riuscita a imporsi e agli studiosi, dopo l’epoca in cui personalità geniali come Galileo Galilei finivano sotto processo, è stata concessa «la libertà di esplorare le ipotesi più bizzarre, persino implausibili dal punto di vista del senso comune e delle loro applicazioni immediate».
In effetti traspare a più riprese nel discorso di Giorello un’evidente analogia tra il progredire del sapere, che introduce rotture traumatiche «nella costellazione delle credenze stabilite» costringendoci a «buttarle a mare», come scriveva Carlo Emilio Gadda, e la «distruzione creatrice», per usare un’espressione pregnante dell’economista austriaco Joseph Schumpeter, generata dal mercato nel campo della produzione di beni e servizi. In entrambi i campi vince chi innova: «Le eccezioni non confermano la regola, diventano una nuova regola». Andrebbe forse riconosciuto che la vera rivoluzione permanente (tutt’altro che morbida e indolore, anzi spesso spietata nel mutare la faccia del mondo) è quella derivante dall’intreccio tra ricerca scientifica, applicazioni tecnologiche e libera intrapresa economica, una vera «macchina da guerra» di fronte alla quale gli strumenti della politica e le teorie filosofiche solitamente arrancano.
Giorello di tutto questo si mostra ben consapevole, ammaestrato dalla consuetudine con il pensiero di autori come Karl Popper, Thomas Kuhn, Paul Feyerabend, ma anche dagli insegnamenti di un marxista decisamente eretico come il suo maestro Ludovico Geymonat. Sa che anche le rivoluzioni tecnologiche e produttive «sono violente, almeno in senso sofisticato», perché cancellano certezze, abitudini, posti di lavoro. Ma ribadisce la sua profonda estraneità all’impostazione dogmatica storicamente maggioritaria nella sinistra italiana (e ancora nient’affatto estinta), che pretendeva di pianificare lo sviluppo scientifico in base a non meglio identificate «istanze più progressive», destinate inevitabilmente a divenire, in un auspicato sistema collettivista, le priorità fissate dal potere della burocrazia. E resta insensibile anche alle sirene del cattolicesimo sociale, divenute più seducenti, per il pensiero di stampo progressista, con l’ascesa di Papa Francesco al soglio pontificio.
Quando Giovanni Paolo II parlava di «verità dell’essere», detenuta dalla Chiesa, e affermava la superiorità della «legge di natura» su quella umana non faceva altro che ribadire una vocazione autoritaria non troppo dissimile da quella che si manifesta in altre forme (per ragioni storiche oggi di gran lunga più violente e deleterie) d’integralismo religioso. E Giorello lo sottolinea con forza, pur non escludendo in linea di principio che Papa Bergoglio sappia «assumere non solo toni diversi, ma atteggiamenti sostanzialmente differenti a livello di prassi».
Del resto tra coloro con cui il filosofo della scienza milanese va più d’accordo c’è un suo collega cattolico come Dario Antiseri, che si è sempre adoperato per coniugare la fede nel Vangelo con la difesa dei diritti individuali. E tra i ribelli che Giorello sente idealmente più vicini troviamo, accanto a «figure indimenticabili come Pancho Villa ed Emiliano Zapata», protagonisti della rivoluzione messicana, i repubblicani irlandesi in lotta contro il dominio della corona britannica. Insorti a più riprese in nome della libertà politica, non certo di un credo religioso, ma nella quasi totalità (sia pure con importanti eccezioni) ferventi cattolici. Non importa tanto quale Dio si prega, ma per quale causa ci si batte: un altro principio ben presente in tutto il dipanarsi del libro di Giorello.
* Corriere della Sera, 27 luglio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Eichmann smascherato
Di banale non ha nulla
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 11 Giugno 20179)
Si dice Eichmann e si pensa al male nella sua versione novecentesca. Ma che genere di male? Hannah Arendt ci ha spinto a parlare di «banalità del male». Questa formula aveva per lei un significato filosofico preciso. In veste di giornalista Arendt aveva seguito per il periodico «The New Yorker» il processo contro l’ex tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann.
Nel maggio del 1963 uscì il suo libro Eichmann a Gerusalemme. Il sottotitolo A Report on the Banality of Evil era destinato a suscitare accese polemiche. Un sinonimo di banalità potrebbe essere stupidità, o «assenza di pensiero», sconsideratezza. Eichmann non era la bestia degli abissi; non aveva nulla di demoniaco, né di profondo o addirittura abissale. A guardarlo da vicino era un piatto e grigio impiegato, una rotella all’interno di un ingranaggio che, anche senza di lui, avrebbe comunque funzionato. Per questa scandalosa banalità Eichmann appariva agli occhi della filosofa il prototipo del burocrate, incapace di «mettersi nei panni degli altri», al quale si poteva imputare l’unica colpa di non aver «pensato» e non aver agito, sottraendosi ai suoi compiti, con la «disobbedienza civile».
Arendt ha avuto il merito di rompere il silenzio sullo sterminio con una riflessione originale. Ma l’impressione che resta, dopo aver letto attentamente il suo libro, è che il ritratto di Eichmann abbia qualcosa di artificioso e sia perciò poco convincente. A spiegare il perché è il prezioso lavoro della storica e filosofa tedesca Bettina Stangneth, La verità del male, pubblicato finalmente in italiano da Luiss University Press.
Il volume imponente, che si legge però con facilità - anche perché ha quasi le caratteristiche di un giallo - è la raccolta meticolosa di prove, testimonianze, documenti inediti, soprattutto le cosiddette Carte argentine, da cui emerge un Eichmann ben diverso da quello descritto da Arendt.
Si capisce perché il libro di Stangneth sia stato un successo sia in Germania, sia soprattutto in America. Ha scritto Steven Aschheim, professore emerito della Università Ebraica e storico della cultura: «Non sarà più possibile in futuro occuparsi del “fenomeno Eichmann” e delle sue implicazioni politiche senza confrontarsi con La verità del male».
Vale la pena ricordare che il titolo del libro in tedesco è Eichmann prima di Gerusalemme (diventato il sottotitolo nell’edizione italiana). Esplicito è dunque il rinvio ad Arendt, verso la quale Stangneth riconosce il suo debito. Ma il suo interesse si concentra sulla figura del gerarca nazista prima di Gerusalemme, cioè nel periodo che va dal 1945 fino al 23 maggio 1960, quando il premier israeliano David Ben Gurion annunciò al mondo che l’architetto della Shoah era stato catturato dagli agenti del Mossad in Argentina e che sarebbe stato presto processato.
Grazie a numerosi appoggi e complicità, Eichmann si era infatti imbarcato a Genova, con il falso nome di Ricardo Klement, ed era riuscito a raggiungere l’Argentina nel luglio del 1950. Aveva cominciato allora una nuova vita grazie alla sua capacità di reinventarsi, senza per questo venir mai meno alla fede nazionalsocialista. Come d’altronde i molti nazisti che avevano trovato rifugio in Sudamerica.
Le Carte argentine sono gli appunti di Eichmann in esilio, nonché i dialoghi e le interviste protocollati, da cui fra l’altro viene fuori l’impressionante rete di rapporti che intratteneva un po’ ovunque nel mondo. Il primo risultato della ricerca di Stangneth è la decostruzione di un mito: quello dell’ex nazista isolato, che cerca di nascondersi, nel tentativo di dimenticare ed essere dimenticato. Nulla di tutto ciò.
La sua vita sociale in Argentina mostra che il grande esperto della «questione ebraica», l’amico del Gran Mufti, il boia che considerava la Shoah il suo «capolavoro», non solo non aveva mai rivisto le sue convinzioni politiche, ma si preparava semmai a realizzarle sotto nuovi cieli e in altre terre.
Bettina Stangneth, nata e cresciuta nella Repubblica federale tedesca, riflette criticamente sul ruolo giocato in quegli anni dalla Germania. Il «fenomeno Eichmann» non si limitava solo all’Argentina. Che il principale stratega e testimone di quei crimini contro l’umanità, che pesavano sul popolo tedesco, fosse ancora in vita, costituiva certo un ostacolo che rendeva difficile, se non impossibile, una rielaborazione del passato.
Eichmann era talmente sicuro di sé che si era persino spinto a scrivere una lettera aperta al cancelliere Konrad Adenauer. Quasi a voler suggellare quella continuità, che molti congetturavano, tra il vecchio regime e la nuova repubblica. E Stangneth denuncia il rifiuto delle autorità tedesche che ancor oggi custodiscono gli atti su Eichmann, preclusi al pubblico con la scusa che potrebbero provocare turbamento. Né isolato, né pentito - ma neppure un burocrate.
Arendt è caduta nella trappola ben congegnata dallo stesso Eichmann che, una volta catturato, scelse intenzionalmente la maschera dell’inetto impiegato, del grigio funzionario. Lui che era considerato più intelligente e astuto di ogni altro, lui che aveva concepito e guidato lo sterminio. Sperava di aver salva la vita attraverso quell’abile manipolazione. Non ci riuscì. Ma ottenne almeno di passare alla storia come esponente di un male banale. È tempo di conoscere la sua storia e il male che ha consapevolmente compiuto.
ABY WARBURG E I PATTI LATERANENSI. Una lettura delle tavole 78 e 79 di "Mnemosyne. L’atlante delle immagini"
di Giuseppe Capriotti *
Nel corso del suo ultimo soggiorno a Roma, avvenuto tra il 1928 e il 1929, Aby Warburg, insieme alla sua infaticabile collaboratrice Gertrude Bing, assiste alla stipula dei Patti Lateranensi, firmati l’11 febbraio del 1929 da Benito Mussolini e il pontefice Pio XI. Nel diario del 1929 della Kulturwissenschaftlichen Bibliothek Warburg, i due studiosi riferiscono le loro impressioni su diversi eventi, anche legati alla sottoscrizione dei Patti, tra cui una processione del papa a San Pietro e uno spettacolo cinematografico che comprendeva un filmato sulla stessa cerimonia dei Patti.
Tali episodi confluiscono infatti nelle due ultime tavole, la 78 e la 79, di quel monumentale tentativo di studiare, attraverso serie di immagini, la storia dei valori espressivi dell’antichità che sopravvivono e informano l’arte del Rinascimento, ovvero di Mnemosyne, l’Atlante della Memoria.
Mentre nella tavola 78, interamente dedicata alla stipula dei Patti, mancano immagini di opere d’arte e compaiono solo foto dell’evento, nella tavola 79, incentrata sul tema del redentivo sacrificio eucaristico, cuore problematico della cristianità europea, spaccata tra chi lo ritiene una metafora (i protestanti) e chi lo considera una realtà (i cattolici), le immagini di opere d’arte (la Cattedra di San Pietro di Bernini, la Messa di Bolsena di Raffaello, la Speranza di Giotto, l’Ultima comunione di San Girolamo di Botticelli) si affiancano, tra le altre, a foto della processione eucaristica di Pio XI in piazza San Pietro il 25 luglio 1929, ad alcuni ritagli di giornale (un articolo del “Berliner Zeitung” del 1929 con la firma del trattato di Locarno e due pagine del supplemento illustrato dell’“Hamburger Fremdenblatt” del 1929 con immagini di atleti trionfanti e ancora della processione eucaristica pontificia), a una foto di seppuku giapponese (il suicidio rituale dei samurai), a due stampe quattrocentesche con ebrei che profanano l’ostia consacrata.
È l’unica volta in cui l’ebreo Warburg, in realtà profondamente angosciato dagli sviluppi politici del suo tempo, dall’incalzare dell’irrazionalismo e dal riattivarsi di sentimenti antisemiti, che egli sperava di combattere con la sua Kulturwissenschaft, affronta direttamente una tematica antiebraica, ricorrendo a due xilografie prodotte in due diverse città, una tedesca, l’altra italiana, ovvero la Germania e l’Italia, il Nord e il Mediterraneo, i due poli geografici di cui egli cerca perennemente di mostrare il fruttuoso scambio dialettico, ma allo stesso tempo le due nazioni che condurranno l’Europa alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.
La prima stampa, realizzata a Lubecca e tratta probabilmente dallo Jüdisches Lexicon, raffigura la presunta profanazione di ostie compiuta da ebrei a Sternberg nel 1492; la seconda, pubblicata a Firenze nell’edizione di una famosa sacra rappresentazione del Rinascimento italiano, la Rappresentatione d’uno miracolo del corpo di Christo, mostra, a sinistra, tre ebrei che restituiscono ad una donna l’abito impegnato, in cambio di un’ostia consacrata che gli stessi ebrei stanno profanando a destra.
Il significato che Warburg attribuisce a queste due stampe quattrocentesche sta nel rapporto con tutte le altre immagini della tavola, a partire da quella più grande, che con ogni evidenza risulta essere l’immagine-guida: la Messa di Bolsena di Raffaello. L’affresco raffigura un importante miracolo eucaristico, che ha come protagonista uno scettico prete boemo, i cui dubbi sulla transustanziazione vengono fugati, durante la celebrazione della messa, dall’ostia stessa che comincia a sanguinare e che macchia il suo corporale. Il papa Urbano IV, che assistette personalmente all’evento, introdusse nel calendario cristiano la festa del Corpus Domini, celebrata anche da Pio XI nelle foto che, nella tavola, affiancano il dipinto. La Messa è preceduta in alto dalla Cattedra di San Pietro, immagine del potere simbolico della Chiesa, e seguita in basso dall’Ultima comunione di San Girolamo, allusiva alla condivisione perpetua del sacramento da parte dei credenti.
Il sacrificio eucaristico è comparato in alto col suicidio rituale giapponese che, soppresso a seguito della diffusione della religione buddista, era stato successivamente reintrodotto in Giappone per rafforzare l’identità nazionale moderna. La celebrazione del corpo eccellente è ancora il filo conduttore che Warburg forzatamente individua nella Bildersalat della pagina illustrata dell’“Hamburger Fremdenblatt”, che compare sulla destra della tavola: la foto dello stesso papa in processione, che non è ritagliata, ma è proposta insieme a tutte le altre del giornale, compare affiancata (e in un caso sovrastata) da immagini di atleti che, grazie alla loro eccellenza corporea, hanno trionfato nell’agonismo. È ancora un esasperato culto del corpo, ma di polarità invertita: nella pagina di giornale “l’allegro hoc meum corpus est viene accostato al tragico hoc est corpus meum”, commenta lo stesso Warburg.
Nell’interpretazione storica proposta dalla tavola, è proprio questo hoc est corpus meum, o meglio l’uso in funzione politica e identitaria del corpus mysticum, che si identifica con l’ecclesia nutrita dal corpo sacrificato di Cristo, ad avere stretti rapporti con le accuse di profanazione dell’ostia, inventate in molte città d’Europa per difendere il dogma della transustanziazione, proclamato nel 1215 al IV Concilio Lateranense, e per giustificare le razzie contro le comunità ebraiche e l’incameramento dei loro beni.
La firma del trattato di Locarno tra Francia, Gran Bretagna e Germania nel 1925 (citato in alto a destra), con la quale ci si aspettava la pace in Europa, e la stipula dei patti lateranensi (presente nella tavola precedente), con la quale la Chiesa rinunciava al potere secolare, alla forza fisica del suo esercito e alle pretese nei confronti dello Stato italiano (in cambio del cattolicesimo come religione di stato e di cospicui indennizzi), potevano essere, secondo Warburg, una concreta possibilità di mettere fine allo spargimento di sangue perpetuato anche a fini religiosi, superando finalmente modalità di costruzione identitaria fondate sul sacrificio cruento.
Il ritorno al seppuku nella cultura giapponese è tuttavia in questo contesto contesto un agghiacciante monito per la cultura europea: una conquista di civiltà non è mai garantita per sempre, l’atavismo può essere sempre e ovunque riattivato dal nazionalismo . Secondo George Didi-Hubermann, il montaggio di immagini della tavola arriva addirittura ad avere quasi un valore profetico: ricorda come la proclamazione del dogma della transustanziazione ha dato avvio ad una sistematica persecuzione degli ebrei d’Europa e rivela, prima dell’apertura dei campi di sterminio, il risvolto pericoloso del patto tra dittatore fascista e pontefice romano.
Anche se Warburg non ha scritto alcun saggio sulle immagini antiebraiche, l’insegnamento che si può dedurre dal montaggio della tavola 79, ovviamente attraverso i suoi tentativi di decodificazione, è duplice: uno di ordine metodologico, l’altro prettamente storico. Dal punto di vista del metodo, la considerazione dell’immagine (di ogni tipo di immagine) come fonte storica e il riconoscimento del suo speciale valore di engramma mnemico, ovvero i principi base della Kulturwissenschaft warburghiana, possono essere un valido antidito alla periodica rinascita di derive irrazionalistiche, nel momento in cui aiutano a smascherare i processi di costruzione storica del pregiudizio e le cause che vi sono dietro. Dal punto di vista dell’analisi dei processi storici, la tavola 79 sembra legare sottilmente l’antigiudaismo cristiano ai risorgenti fenomeni di antisemitismo del primo Novecento, di cui lo studioso amburghese andava raccogliendo tracce e documenti che archiviava con preoccupazione.
Il quesito storico messo a tema nell’ultima tavola di Mnemosyne, ovvero il rapporto tra antigiudaismo cristiano e antisemitismo novecentesco, è un astioso problema che è ancora al centro di un vivace dibattito. Molta storiografia cattolica tende infatti a differenziare nettamente i due fenomeni: l’antigiudaismo cristiano, che usa come discrimine l’appartenenza religiosa, è un’ostilità nei confronti degli ebrei di stampo teologico, si manifesta per convertire coloro che negano che Gesù sia il Messia e cessa nel momento in cui l’ebreo diviene cristiano; l’antisemitismo, che si appoggia su teorie classificatorie di matrice positivistica e sulla presunta esistenza delle razze umane, esclude invece la possibilità che la conversione cambi lo status di un ebreo, che resta tale e immutabile per questioni di razza e di sangue. L’antigiudaismo è considerato un fenomeno moderato e marginale, chiuso nella religiosità dell’età medievale e moderna, mentre l’antisemitismo, radicale e violento, sarebbe il frutto della mentalità laica dell’età contemporanea.
Le distinzioni proposte da chi sostiene l’incomparabilità tra i due fenomeni, con evidenti finalità autoassolutorie, è stata pesantemente contraddetta dagli studi sulla Spagna che esce dal 1492, annus horribilis dell’inizio della storia moderna e della cacciata degli ebrei dal cattolicissimo regno di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona.
Anche se nel 1492 si prescrive l’espulsione di tutti gli ebrei che non accettavano di convertirsi al cristianesimo, passando attraverso il rito del battesimo, ritenuto valido ed efficace nella trasformazione dell’ebreo in cristiano a prescindere dalla volontà del ricevente, nel 1449, a Toledo, erano già comparsi gli Estatudos de la limpieza de sangre, che impedivano l’ingresso nel capitolo canonicale a coloro che non possedevano il sangue puro del vero cristiano perché aveva ereditato quello impuro di un ebreo battezzato, e a partire dal 1454 il francescano Alonso de Espina nel suo ciclo di prediche, condotte in Castiglia, aveva proposto di escludere i conversos da tutti i corpi istituzionali di maggior potere e prestigio della società spagnola, per poi sostenere con fermezza nel suo Fortalitium fidei, risalente al 1459, la “perfidia” del popolo ebraico, “perfidia” che contraddistingueva anche i convertiti: il battesimo dunque non cancellava un carattere negativo radicato nel sangue, ereditario e indelebile, a prescindere dall’appartenenza religiosa.
Nella lunga durata l’effetto di queste idee e delle pratiche che ne conseguirono, specialmente nei confronti dei conversos, spesso sospettati o accusati di criptogiudaismo, non fu la scomparsa di una religione scomoda, ma la trasformazione della differenza ebraica da religiosa a naturale e l’invenzione di una “razza” dal “sangue impuro”.
Oltre a questa precoce elaborazione in chiave “razziale” del problema ebraico, è anche nelle sue manifestazioni più esteriori che l’antigiudaismo d’età medievale e moderna ha preso delle forme che si ritrovano praticamente immutate nel Novecento, dall’imposizione del segno giallo, introdotto già nel Medioevo, alla stella di Davide prescritta dai nazisti ai cittadini di religione ebraica , dall’istituzionalizzazione del ghetto, avvenuta con la bolla papale Cum nimis absurdum promulgata da Paolo IV nel 1555 , alla righettizzazione novecentesca, dall’invenzione medievale del complotto ebraico per lo sterminio dei cristiani, elaborato a seguito delle prime accuse di omicidio rituale, ai Protocolli dei Savi di Sion e alla loro fortuna.
L’antigiudaismo ha dunque avuto un ruolo sostanziale nel costruire i presupposti culturali del pregiudizio contro gli ebrei e l’antisemitismo, falsamente rinnovato da una pseudoimpostazione scientifica, ha potuto grazie ad essi attecchire in maniera efficace nella popolazione civile: i nazifascisti hanno insomma potuto gestire, secondo le proprie istanze politiche, un sentimento di diffidenza costruito attraverso i secoli proprio dall’antigiudaismo cristiano [...].
* Cfr. Aby Warburg, Mnemosyne. L’atlante delle immagini, a cura di Martin Warnke con la collaborazione di Claudia Brink, edizione italiana a cura di Maurizio Ghelardi, Torino, Aragno, 2002, pp. 130-133.
* Giuseppe Capriotti, , "Lo scorpione sul petto. Iconografía antiebraica tra XV e XVI secolo alla periferia dello stato pontificio", Gangemi editore, Roma 2014, Introduzione - ripresa parziale - e senza note.
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
L’enigma Lacan (guidatore spericolato)
di Sergio Benvenuto (DoppioZero, 03.05.2017)
Il film celeberrimo di Orson Welles Citizen Kane (Quarto potere) si snocciola come una ricostruzione biografica. Un giornalista deve ricostruire la vita del magnate della stampa e tycoon Charles Foster Kane, giusto dopo la sua morte. Il giornalista compone una sorta di puzzle intervistando varie persone che hanno condiviso parte della vita di Kane. Le molteplici testimonianze vengono a comporre un’immagine sfaccettata del personaggio, ma il giornalista vuole capire soprattutto perché prima di morire Kane abbia pronunciato la parola rosebud. Chi o che cosa era questo Rosebud? Questo significante sembra indicare un pezzo mancante nel puzzle.
Rosebud letteralmente significa bocciolo di rosa, ma viene usato anche come bocca di rosa, una bocca con labbra delicate e rosee. Come orifizio con mucosa, il termine evoca anche le piccole e grandi labbra della vagina. Rosebud sembra insomma riferirsi a una donna, ma è anche significante di qualcosa che in francese si chiama béance, ciò che resta aperto come una vena tagliata o una bocca socchiusa. Il giornalista non scoprirà nulla, la rivelazione finale - un MacGuffin come si dice nel cinema - è riservata allo spettatore, una rivelazione che però lascia aperta la domanda sul significato ultimo di quel significante pronunciato sull’orlo della morte.
Mi sono ricordato del film di Welles dopo aver letto Vita con Lacan (La vie avec Lacan) di Catherine Millot (Raffaello Cortina editore). Costei, psicoanalista e scrittrice, negli anni ‘70 fu amante, allieva e compagna di Lacan. Tra loro c’erano 43 anni di differenza, e l’autrice nota che oggi scrive questo libro avendo l’età che aveva Lacan quando lei l’aveva conosciuto, attorno ai 72 anni. Questa di Millot è una testimonianza sulla sua esperienza personale con Lacan. Che si aggiunge a varie altre testimonianze, pubblicate nel corso degli anni da parenti amici allievi o analizzanti di Lacan, da prospettive tra loro diverse, a cui bisogna aggiungere la lunga biografia di Lacan scritta da Elisabeth Roudinesco. Abbondano aneddoti anche gustosi, altri più o meno immaginari, sul personaggio Lacan. Dobbiamo mettere queste testimonianze una accanto all’altra, un po’ come fece il giornalista di Citizen Kane, se vogliamo costruire il puzzle Lacan. Ma ci resta un rosebud a cui dare risposta? Penso di sì. Insomma, per me c’è un enigma Lacan.
Vari amici, che stimo, mi hanno detto che questo libretto secondo loro non vale granché. Mi chiedo che cosa abbia potuto motivare questo giudizio severo. Un libro-testimonianza deve il suo interesse non al fatto che sia scritto più o meno bene, che sia più o meno profondo, ma al fatto che testimoni appunto, che ci informi su aspetti a noi ignoti di una vita. Certi lacaniani aborriscono gli scritti biografici su Lacan in genere, “sono solo pettegolezzi” dicono, ma in fondo ogni storiografia è una forma di pettegolezzo. E la stessa analisi appare in qualche modo un pettegolezzo su se stessi, un tradurre in parola qualcosa di intimo e inconfessabile. Forse alcuni vorrebbero che di Lacan si scrivessero non biografie ma agiografie. Le biografie serie comportano sempre un alone di demistificazione, e posso capire che chi vota a Lacan una forma di culto della personalità non possa accettarle.
A me interessano invece anche i “pettegolezzi” su Lacan perché, come la psicoanalisi insegna, le teorie psicoanalitiche non sono il prodotto di menti disincarnate, ma di soggetti particolari con la loro storia, il loro inconscio, le loro ferite. D’altro canto è vero che ogni biografia fa appello al nostro voyeurismo. Al limite, ci saremmo aspettati che Millot ci parlasse anche dei suoi rapporti sessuali con Lacan, o dei suoi rapporti con la moglie di Lacan Sylvia, perché no? Ma più ne sappiamo di uomini e donne eminenti, più un tarlo, simile a Rosebud, ci assilla: resta sempre qualcosa che ci sfugge, una sorta di buco. Insomma, chi era veramente Lacan?
Di Lacan colpisce un comportamento che i suoi più intimi mettono in evidenza: il suo modo di guidare l’auto. Correva oltre i limiti di velocità, non dava la precedenza, passava col rosso, prendeva anche la corsia d’emergenza pur di superare un ingorgo, insomma metteva a repentaglio la vita propria e di chi gli stava accanto. Anche se un altro guidava, di fronte a semafori rossi si spazientiva subito e talvolta usciva dall’auto. Questo anarchismo automobilistico sorprende perché Lacan è stato, tra tutti gli psicoanalisti, quello che ha dato più peso al ruolo della legge nell’inconscio e nel destino individuale. Per Lacan, come per S. Paolo, la legge non è un ostacolo posto al nostro desiderio, è anzi la condizione del desiderio stesso, ciò che lo costituisce e lo sferra. Ora, come vedere il fatto che il teorico della legge non tenesse in alcun conto la legge più banale, il codice stradale? Cogliamo qui una discrasia tra la teoria e la vita?
La trasgressione, appunto. Non credo sia un caso che Lacan sia venuto in rotta di collisione con l’International Psychoanalytic Association - l’organizzazione ufficiale e più antica degli psicoanalisti - non per il contenuto del suo insegnamento, ma per ragioni direi fiscali: il fatto che facesse sedute a tempo variabile (e non a tempo fisso, di solito 45 minuti, come fanno gli analisti ortodossi) e che queste sedute fossero di solito troppo corte. Non c’è nulla di male in sé nell’ideare una nuova tecnica analitica, nel fare sedute corte, ma trovo significativo che la rottura sia avvenuta perché Lacan non rispettava il codice del setting analitico. Ritroviamo questo suo rapporto problematico con “le regole” in molti altri comportamenti, in particolare nel fatto che abbia preso Catherine Millot come sua amante quando era ancora sua analizzante e allieva.
Lo stesso Lacan racconta quando incontrò il famoso psicoanalista austriaco Ernst Kris al congresso psicoanalitico di Marienbad nel 1936 (“La direzione della cura”, Scritti). Il giovane Lacan gli disse di voler andare poi alle Olimpiadi di Berlino, che si tenevano allora. Il punto è che queste dovevano essere le Olimpiadi di Hitler... E Kris, ebreo, gli disse in francese “Cela ne se fait pas!”, “Questo non si fa!” Lacan ci andò lo stesso.
Appunto, cela ne se fait pas. Non si passa col rosso, non si va a letto con le pazienti, non si fanno sedute eccessivamente corte, si deve dare la precedenza in strada... E dico questo non per gettare l’anatema su Lacan, tutt’altro. Piuttosto per dire che Lacan era un dandy.
Nessun biografo o testimone di Lacan, a quanto io ne sappia, ha presentato Lacan come un dandy. Forse perché i grandi dandies - Baudelaire, Oscar Wilde, Raymond Roussel, ecc. - non ci appaiono eticamente corretti. Essi si escludevano dai valori e dai gusti della massa, vantando la loro libertà rispetto alle regole che valgono per la gente comune, ovvero per i mediocri. Ora, sembra che la fascinosa arroganza del dandy non possa conciliarsi con la psicoanalisi, che è pur sempre, lo si riconosca o meno, un’attività di cura, di aiuto, un servizio alla persona. Può essere il dandy un filantropo, o semplicemente un medico? Millot sottolinea come Lacan facesse sentire la gente comune a proprio agio, come sapesse interloquire bene con gli psicotici; insomma, sapeva aiutare. E poi, quando si ha quel fascino misterioso che oggi chiamiamo carisma, si riesce ad aiutare meglio il prossimo che quando non lo si ha.
Il dandy, dunque, si sente libero. Ora, si dà il caso che Lacan abbia sempre disdegnato di predicare la libertà, cosa che lo separa nettamente da Sartre, il filosofo della sconfinata libertà dell’essere umano.
Quando una giornalista televisiva gli chiese qualcosa sulla libertà, Lacan si mise a ridere e alla fine disse “Io non parlo mai di libertà”. Non ne parlava, ma la praticava, anche a costo di rompersi l’osso del collo.
Millot accenna all’allievo di Lacan Giacomo Contri, traduttore degli Ecrits, e qui lei commette un errore. Dice che Lacan era esasperato dal fatto che Contri avesse chiamato Comunione e Liberazione la sua scuola di Milano. In realtà Contri aveva chiamato il suo gruppo Scuola freudiana (di cui io stesso feci parte per qualche anno), ma era anche membro del movimento Comunione e Liberazione che noi italiani conosciamo bene.
Di fatto Lacan rimproverava a Contri la sua adesione all’integralismo cattolico. In un incontro a Milano con gli allievi di Contri, disse che i due significanti “comunione” e “liberazione” erano profondamente estranei al suo insegnamento, che certamente non era catto-comunista. In particolare, l’analista non è mai libero: “Non si può dire che il mio discorso vi prometta una liberazione da alcunché, perché si tratta, al contrario, di incollarsi alla sofferenza delle persone...” (Lacan in Italia/En Italie Lacan, La Salamandra, 1978, p. 122).
Scrive Millot: “A un transessuale che rivendicava la sua qualità di donna, non smise di ricordare durante il colloquio il fatto che era un uomo, che lo volesse o no, e che nessuna operazione ne avrebbe fatto una donna” (p. 42). Ecco una posizione che oggi apparirebbe retrograda, che il movimento LGBT contesterebbe. Oggi prevale la concezione per cui il proprio gender è qualcosa che ci si assegna, non qualcosa che si è oggettivamente. Ma appunto, egli non compiaceva l’ideologia liberal secondo cui si deve essere liberi di essere quello che si vuole, con l’aiuto anche della chirurgia e della tecnologia. La retorica della liberazione, che all’epoca andava per la maggiore sia a sinistra che a destra - “è proibito proibire”, la teologia della Liberazione, ecc. - gli era del tutto estranea.
In effetti, all’epoca altre teorie si contrapposero a Lacan rivendicando, sulla scia del ’68, una liberazione incondizionata: era il caso dell’apoteosi orgasmica di Wilhelm Reich, o delle macchine desideranti di Deleuze e Guattari, o della critica liberatoria da parte di Jean Baudrillard... Rispetto a queste filosofie di esaltazione della libertà del desiderio, il pensiero di Lacan appare un dolente richiamo al determinismo in cui l’essere umano è preso.
Eppure Lacan si sentiva libero da ogni regola. Quindi, il suo pessimismo sulla libertà era solo una faccia della medaglia, l’altra era quella di una liberazione direi in extremis che nasce proprio da una sorta di sottomissione inaugurale. Lo si può così accostare ad Antigone - su cui tenne bellissimi seminari - l’eroina che si ribella alla legge della città per seguire la propria legge, la legge del proprio desiderio.
Perché le trasgressioni di Lacan erano contro le leggi di Creonte - dalle sedute standard dell’IPA fino ai semafori rossi - per affermare un’altra legge, quella del desiderio. “Ci si sente colpevoli - diceva - quando si cede sul proprio desiderio”. Egli non voleva cedere sul proprio desiderio. “Per lui, non c’erano piccoli desideri, la minima voglia era già sufficiente” dice Millot (p. 69), comprese le voglie delle persone che amava, voglie che doveva soddisfare subito, senza mai rimandare all’indomani ciò che poteva essere fatto immediatamente.
Non a caso in gioventù fu amico di surrealisti, tra i quali Dalì, anche se Millot preferisce definirlo “dadaista”. E forse non a caso sposò la ex moglie di Georges Bataille, che possiamo considerare il massimo filosofo libertario. È proprio negando teoricamente la libertà umana, come fece Lutero (De servo arbitrio), che la si deve praticare, in modo ingenuamente disperato.
Lacan voleva sempre godere di tutto: delle donne, del danaro, del sapere, del pensare. Insomma, di Lacan non si può dire affatto che fosse saggio - in barba al pregiudizio secondo lui l’analista deve essere un campione di saggezza. Lacan esprimeva piuttosto una straordinaria vitalità, una passione quasi futurista per il movimento, gli sport, la velocità, i viaggi. Una vitalità quasi infantile, che Lacan stesso riconosceva quando diceva che aveva l’età mentale di un bambino di cinque anni. In fondo, quel che alla fine decide tra chi è semplicemente intelligente, anche molto intelligente, e il genio è proprio la vitalità, l’energia. Lacan non aveva bisogno di amfetamine, come Sartre che ne prese a bizzeffe, per essere sempre un po’ su di giri. E in effetti, come Erik Porge, potremmo interpretare il titolo del libretto di Millot come “Con Lacan, la vita”.
Questa vitalità si esprimeva anche nell’opposto del movimento: Lacan passava lunghe ore assorto, silenzioso, immobile. Questo vuoto immoto che faceva attorno a sé, in casa, assorbito dalle sue riflessioni, esprime in realtà la vitalità del suo pensare, che, frustato dall’urgenza di una soluzione forse impossibile, lo inchiodava. Un correre veloce per la vita che però si dirigeva dritto verso la morte, e non nel senso che ciascuno di noi deve morire. Dopo aver avuto la diagnosi di cancro all’intestino, Lacan rifiutò di curarsi. E alla figlia che gli chiedeva perché, rispose “Così, per capriccio”. Un’ombra di quasi-suicidio plana così su di lui; e gli stoici dicevano che il suicidio è uno dei pochi atti veramente liberi che l’essere umano possa permettersi.
Chi è molto vitale, non teme la morte. E Millot insiste sulla impavidità di Lacan. Una volta, mentre faceva una supervisione, dei ladri entrarono con le pistole puntate chiedendogli soldi; ma lui si rifiutò assolutamente di darglieli. Quando la morte gli si presentava davanti, non la fuggiva.
Come il dandy, pagava il prezzo di una solitudine di fondo. “Non c’era mai un ‘noi’, c’era lui, Lacan, e c’ero io che lo seguivo... D’altronde se a me il ‘noi’ non è mai stato congeniale, a Lacan era del tutto estraneo... La sua profonda solitudine, il suo apartismo [sentirsi “a parte” rispetto agli altri] rendevano il ‘noi’ qualcosa di fuori luogo” (p. 19). Il ‘noi’ è quella dimensione di comunione che, come abbiamo visto, rimproverava agli emuli di don Giussani. Perciò non credeva nel comunismo, e sono allergici a Lacan quelli che praticano l’analisi di gruppo. Freud si era occupato della dimensione del ‘noi’ in Psicologia delle folle e analisi dell’Io, in cui descrive ogni Mass, ogni collettivo, ogni ‘noi’, come qualcosa di essenzialmente fascista. Perché l’unità nel ‘noi’ presume sempre un Führer, un leader, una sorta di alienazione del desiderio in lui. Come ha potuto Lacan fondare allora una scuola quasi di massa di cui lui era il capo indiscusso? Il fatto che poco prima della sua morte l’abbia sciolta ci dice però che non era fatto per il potere sulle folle. “Aveva con l’esercizio del potere un rapporto che definirei minimalista” (p. 52).
Qual era allora il rosebud di Lacan? Direi proprio averci detto che ogni esistenza singolare - anche la propria - gira attorno al mistero di una bocca socchiusa che si presenta come dolcissima. Egli era a un tempo Kane con il suo buco e il giornalista che lo cerca. Quell’enigma che Lacan è per noi, è il suo modo di girare attorno a quell’enigma che ogni essere umano, anche per se stesso, è. In fondo, ha indicato sempre un buco fondamentale che rompe la coerenza del soggetto-organismo. Una beanza - se mi si permette questo neologismo - nella teoria psicoanalitica, certo, anche nella propria teoria, che però a sua volta esprime una beanza fondamentale dell’essere umano. Come ci ricorda Millot, chiamò l’essere umano “il singolare”, separandolo dal particolare. Egli cercava una singolarità senza senso con cui ciascuno di noi deve confrontarsi.
In fisica si chiama singolarità ogni fenomeno per cui le leggi della fisica normale cessano di valere, come nei buchi neri. Lacan pensava che il fondo di ciascuno è qualcosa di “impossibile” per il quale non valgono le nostre leggi e che lui chiamava il Reale, un buco nero che lo ha polarizzato negli ultimi anni.
Allora Lacan fu completamente assorbito, direi assillato, dai nodi borromei. Si tratta di un numero indefinito di anelli - minimo tre - allacciati in un certo modo che, se se ne taglia uno, tutti gli altri risultano liberi.
Millot ci ricorda che gli spaghi per fare catene borromee avevano ormai invaso le due case di Lacan. Negli ultimi tempi, nei suoi seminari si limitava a disegnare sulla lavagna anelli e nodi sempre più complessi, in silenzio; quasi non parlava più.
Non discuto qui l’eventuale utilità dei nodi borromei nella pratica e nella teoria analitiche; ma certamente la passione di Lacan per essi erano il suo godimento e il suo sintomo. Bisogna psicoanalizzare anche la teoria psicoanalitica, e lo psicoanalista che la elabora. Evidentemente Lacan si interrogava: come mettere assieme il fatto che riusciamo a legare aspetti della nostra soggettività in modo da “chiuderci” felicemente, con il taglio, lo spezzarsi del nodo, che getta tutto nella baraonda della libertà? In quei nodi vedo il tentativo di una risposta a un paradosso fondamentale, quello dell’esistenza umana che la psicoanalisi non fa altro che ricalcare.
Attorno a questo paradosso, il vortice del modo di vivere e di pensare di Lacan. Questo vortice lo rende indigesto a molti, proprio perché non ci si può mai riposare in una definitiva consistenza della teoria. In questo vortice faceva girare insieme gran parte dello scibile, in una bulimia simile a quella speculativa di Hegel: psicoanalisi e opere letterarie, matematica e filosofia, logica arte e linguistica. Questo ciclone girava attorno a un occhio che egli chiamò Reale. Con questo qualcosa che manca al puzzle - e che in qualche modo ci libera pericolosamente da ogni legge - si è confrontato tutta la vita.
Massimo De Carolis, la libertà e il suo doppio
di Paolo Godani *
Nelle ultime pagine delle Origini del totalitarismo, riflettendo sulle condizioni che possono predisporre l’avvento di un regime totalitario, Hannah Arendt individua in particolare quella che chiama loneliness (termine che viene distinto sia da isolation sia da solitude). La desolazione, cioè la situazione in cui un singolo si sente “abbandonato [deserted] da ogni umana compagnia”, è ciò che, se inizia a presentarsi come un sentimento ordinario e diffuso in una società ancora non totalitaria, “prepara gli uomini alla dominazione totalitaria”. Non si tratta semplicemente della solitudine anonima di cui si può fare esperienza per esempio negli spazi, al contempo sempre affollati e sempre deserti, dei centri commerciali o delle tangenziali congestionate dal traffico, bensì della sensazione per cui ogni condivisione, ogni comunanza sembra divenuta per principio impossibile.
Non c’è da stupirsi che un sentimento del genere sia ancora ben presente nelle nostre società contemporanee, se è vero che può essere considerato come il risultato di una serie di dispositivi che, negli ultimi trent’anni almeno, hanno promosso la distruzione sistematica non solo di ogni organizzazione sociale e politica, ma quasi della stessa possibilità di pensarsi in comune. La logica e la strategia di questi dispositivi di individualizzazione è evidente: dissolvere aggregazioni collettive potenzialmente capaci di mettere in discussione l’ordine stabilito, ed evitare che si ricostituiscano. Meno evidente è come tali dispositivi funzionino e, soprattutto, da dove traggano la loro efficacia.
Prendendo sul serio il pensiero neoliberale, evitando cioè di derubricarlo a mera ideologia della classe dominante e considerandolo invece come un vero e proprio progetto di società nato per contrastare la sconfitta del liberalismo classico di fronte al totalitarismo novecentesco, Massimo De Carolis (in un libro della cui ricchezza e profondità di analisi non potremo qui dare interamente conto) mostra con precisione come e perché il neoliberalismo veda nell’atomizzazione sociale un presupposto necessario allo sviluppo di una società libera.
Il principio di fondo del neoliberalismo è che nessuna autorità di sorta possa pretendere di dar luogo al “governo razionale” di una società complessa e pluralista, se non a scapito della molteplicità delle opportunità e delle scelte che costituiscono la potenza di quella stessa società. In questo senso, la decisione politica neoliberale consiste nel negare la legittimità di ogni decisione politica, per lasciare campo libero all’interazione sociale nella sua perfetta autonomia. Quest’ultima, però, ha luogo solo dal momento in cui si mettono in azione tutta una serie di meccanismi capaci di neutralizzare ogni possibile stratificazione che si sovrapponga alla mera interazione tra individui. Ogni singolo deve poter agire esclusivamente in vista dei propri desideri e degli interessi che suppone siano i suoi, senza che alcuna sovrastruttura di sorta venga a impedire o a complicare la possibilità della sua azione. L’ordine sociale migliore - ed è questo il filo di continuità con il liberalismo classico - sarà quello in cui il governo si limiti a garantire questa prassi, eliminando ogni possibile intralcio al suo dispiegarsi.
Questa concezione si fonda su un presupposto antropologico implicito, secondo il quale la vita umana libera, cioè non sottomessa ad alcun potere di coercizione, può implicare un solo genere di relazione tra individui: “il do ut desformalizzato dal mercato”. Oltre questa relazione “mercantile” non ci sarebbe altro che dominio e sottomissione. Conseguentemente a questo presupposto, la governance neoliberale si dà come funzione propria non certo quella di governare o dirigere il mondo degli scambi, quanto piuttosto quella di mettere in atto tutti i dispositivi necessari affinché l’unica relazione sussistente tra gli individui resti quella fondata sul do ut des.
De Carolis spiega con grande chiarezza come sia proprio da qui che discende quel “governo della vita” già individuato da Foucault come cardine della biopolitica neoliberale. La governance mira a dissolvere tutti gli elementi che possono ostacolare il libero dispiegarsi del processo sociale, ma per far questo deve intervenire sulle convenzioni tacite, sulle abitudini sociali, sui modi di vita, sui legami affettivi e sulle modalità di relazione e comunicazione, deve cioè “fare molto di più che limitarsi a ritoccare le singole norme: [deve] prendere come bersaglio la normalità in sé stessa”. Questo tipo di intervento, diversamente da quello sovrano, non si manifesta esemplarmente nei momenti d’eccezione ma, proprio in quanto prende di mira lo stesso costruirsi della normalità sociale nella continuità e nella contingenza del suo divenire, ha necessariamente la forma di un’eccezione che diviene regola. In questo senso, come Il rovescio della libertà sottolinea in maniera molto convincente, il neoliberalismo si distingue dal modello liberale classico per la sua convinzione che l’ordine spontaneo del mercato possa fondarsi su “regole che sono interamente il risultato di una progettazione deliberata”.
I dispositivi di individualizzazione, dunque, funzionano secondo il criterio della riduzione delle relazioni sociali all’unica forma libera di relazione, ricalcata sul modello dello scambio. Ma da dove derivano la loro efficacia? E perché, di conseguenza, il progetto neoliberale è riuscito, in pochi decenni, a imporsi in maniera così assoluta e pervasiva, sino a presentarsi come l’unico modello possibile di convivenza civile? La risposta di De Carolis, a questo proposito, è tanto realistica quanto dubbia: il successo del neoliberalismo, spiega, “è dipeso dalla capacità di intercettare un genere di desiderio, che i processi di dinamizzazione stavano rendendo sempre più profondo e più diffuso: il desiderio di vedere riconosciute e realizzate le proprie potenzialità, esponendo i propri sogni alla prova dei fatti, perché, in un mondo dominato dalla contingenza, è questo l’unico modo di assodarne l’autentico valore”. Al di là delle possibili obiezioni “antropologiche”, il problema - come del resto lo stesso De Carolis non esita a riconoscere - è che i dispositivi di potere del neoliberalismo contemporaneo producono in realtà un contesto sociale a cui “ci si può solo adattare, per non essere esclusi del tutto da una vita sociale la cui dinamicità apparente diventa il velo sottile di una riproduzione sempre più rigida e sempre meno generosa”.
È indubbio, certo, che nel corso degli anni Sessanta e Settanta le società europee e americane manifestassero desideri di liberazione dalle antiche forme del dominio sociale e della sovranità politica e nazionale, ed è possibile sostenere che il neoliberalismo abbia sfruttato queste istanze per altri fini. Ma mi pare altrettanto certo che le ragioni di fondo dell’imporsi del neoliberalismo si trovino piuttosto nel tentativo di impedire che “l’avanzata di una controcultura dai toni minacciosamente rivoluzionari” mettesse in questione non tanto l’ordine “cosmico” quanto, più prosaicamente, l’ordine economico e sociale costituito.
Che il progetto neoliberale sia riuscito vittorioso è evidente, come anche il fatto che “il tramonto del neoliberalismo sia il vero evento cruciale di questa epoca ”. Il dubbio legittimo è che questo tramonto, decretato dal ritorno di aggregazioni neofeudali radicate solo nella paura e nel risentimento, cioè sugli ultimi sentimenti che restano in un contesto di desolazione, sia solo l’altra faccia che lo stesso ordine costituito presenta quando deve affrontare le proprie crisi ricorrenti. E che un’“alleanza politica [...] autenticamente rivolta alla costruzione di un progetto di vita condiviso” non possa darsi riconoscendo come irrinunciabile il fondamento individualista della “nuova idea di civiltà” neoliberale, ma solo a condizione di saltare fuori dall’orizzonte prodotto dai suoi dispositivi.
* Alfabeta2, 2 maggio 2017 (ripresa parziale).
LE MAPPE DELLA CRISI
Missili nucleari e truppe della Russia, il “buco nero” di Kaliningrad preoccupa l’Occidente
di Monica Perosino *
Dieci anni fa, si riteneva che Kaliningrad potesse rappresentare la risposta russa al modello Hong Kong: una piccola regione con un’importante influenza economica e una finestra russa sull’Europa. Una anno fa, lo status speciale economico di cui gode la regione, che aveva lo scopo di fare di Kaliningrad una città economicamente prospera, è terminato. Da allora, con l’annessione della Crimea e la crisi in Ucraina, l’enclave è diventata poco più di un avamposto militare strategico. Nell’ottobre 2016, la Russia ha realizzato il suo obiettivo di lunga data: posizionare missili nucleari Iskander sul territorio, proseguendo così la militarizzazione di Kaliningrad. Le principali città europee, sarebbero dunque ora potenzialmente esposte.
Abbiamo intervistato Gustav C. Gressel*, analista dello European Council on Foreign Relations
Oltre a essere un «campo di battaglia ideologico», avamposto di Mosca nel cuore dell’Europa, cosa rappresenta Kaliningrad da un punto di vista strategico e militare?
«Mosca potrebbe bloccare l’accesso al Baltico in qualsiasi momento: le forze europee e alleate attualmente presenti sono limitate e troppo deboli per offrire una difesa efficace. Se dovesse succedere qualcosa si dovrebbe fare affidamento solo sulle forze aeree che dovrebbero innanzitutto neutralizzare il sistema missilistico di Kaliningrad. Ma un attacco all’“oblast” significherebbe una dichiarazione di guerra alla Russia, con tutte le conseguenze del caso, e significherebbe anche lasciare a Mosca mano libera sul Baltico».
Negli ultimi tre anni il numero di violazioni di Mosca dello spazio aereo europeo è aumentato, così come le esercitazioni militari al confine con l’Europa. È cambiato qualcosa dopo l’annessione della Crimea anche a Kaliningrad?
«I russi sono più forti, più veloci, e più armati. E qui non si parla solo della dislocazione dei missili Iskander. Se si guardano le immagini satellitari - o si ascoltano le trasmissioni radio - sopra Kaliningrad c’è una sorta di buco nero: nessuno sa cosa stia succedendo, per questo i Paesi confinanti sono molto preoccupati».
Qual è la strategia di Putin, sta cercando di alzare la tensione per qualche motivo?
«La Russia ha una percezione molto soggettiva della sicurezza: cercano di difendersi da presunte minacce in arrivo dall’Ucraina e dalla Bielorussia, per esempio, cercano di controbilanciare quello che succede in Occidente. Un esempio: i russi pensano che le proteste anticorruzione ribattezzate “il Maidan di Mosca” siano state organizzate dai Paesi scandinavi e quindi puntano i missili su di loro. Mosca vede la libertà all’occidentale come un fantasma e un pericolo e cerca di combatterla, sono sinceramente convinti che dall’estero cerchino di organizzare azioni contro di loro e la loro cultura».
Perché Mosca sta aumentando esponenzialmente gli armamenti dislocati a Kaliningrad?
«È in parte una mossa politica, ma Mosca si sente davvero minacciata dalla Nato, per questo sente la necessità di continuare ad avere un corridoio di sicurezza in Europa con accesso al Baltico».
* Gustav C. Gressel è un analista dello European Council on Foreign Relations specializzato in Europa orientale e Russia
* La Stampa, 26/04/2017 (ripresa parziale - senza immagini).
WALTER BENJAMIN, IL “PROGRAMMA DELL FILOSOFIA FUTURA”, E “CAGLIOSTRO”: KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIGINI DELL’“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICHMANN.... *
CONDIVIDENDO LA CONCLUSIONE DELLA NOTA DI Iside Gjergji (si cfr.:‘La morte nera’ e il fascista che è in noi - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/12/23/la-morte-nera-e-il-fascista-che-e-noi/3274504/):
MI PERMETTO DI DIRE, SOLAMENTE, CHE “leggere *monotematicamente* Benjamin” e “metterlo al servizio del comunismo” - come chiarisce Fabrizio Denunzio nelle “Memorie di famiglia” (si cfr. l’Introduzione a “La morte nera”, Ombre Corte, Verona, 2016, p. 14) riporta al punto di partenza, nel vicolo cieco - da cui lo stesso Benjamin non è uscito.
Sulla “teoria del fascismo di Walter Benjamin”, Denuzio ha brillantemente messo e rimesso a fuoco il problema, ma non ha visto e non poteva vedere la “CAGLIOSTRO-sità” del problema per essersi collocato con lo stesso Benjamin in un’orizzonte hegelo-marxista (e non più propriamente “kantiano” - alla Kant, e “marxiano” - alla Marx!) e pensare meglio e bene il nesso tra “ragione e religione”, il materialismo - “quel vuoto che si viene a creare quando la ragione abolisce ogni collegamento con la trascendenza”(op. cit., p. 34), e, infine, lo stesso “Messia” delle Tesi “Sul concetto di storia”.
Benjamin (come Freud, Aby Warburg, Kantorowicz) cerca di imitare “Mosè”, pensa il problema dell’”esodo”, ma alla fine non riesce a scappare “dall’Egitto” e, drammaticamente, finisce per restare (e con Goethe!) nella terra e nell’orizzonte del “Grande Copto”, del “Cagliostro” di turno. La “carica rivoluzionaria dell’Illuminismo” (op. cit., p. 11) di Kant è rimasta impensata - e ancora impensabile!
* Sul tema, mi sia consentito, cfr.: FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829: in particolare, HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790
Federico La Sala
Imprigionato nei Quaderni neri
di Peter Sloterdijk (Le parole e le cose, 9 dicembre 2016)
In Fichte si deve scorgere il fondatore della filosofia della storia, sia sotto un profilo cronologico sia sotto un profilo logico. Nella sua opera del 1804 I tratti fondamentali dell’età presente Fichte descrisse lo schema della storia mondial-filosofica come quel processo del mentale perdersi e ritrovarsi, che diventò matrice di tutto ciò che più tardi, in diverse declinazioni, e gradi differenti, fu chiamato filosofia della storia, processo progressivo, storia dello spirito e infine storia dell’essere.
In quell’opera Fichte delinea uno schema della storia spirituale del mondo in cinque gradi. Spetta un rango intermedio all’epoca presente, concepita come terzo atto del grande dramma. Il presente coincide con una crisi di civiltà senza quartiere. Nel terzo stadio dello spirito Fichte vuole riconoscere «l’epoca della piena peccaminosità», cioè l’era della estraneazione assoluta e della sottrazione violenta del singolo da ogni verità unificante. Questo eccesso di critica torna in Heidegger che, in una citazione quasi letterale da Fichte, definisce il proprio presente «l’età del pieno oblio dell’essere». La prossimità di Heidegger a Fichte affiora inoltre nella possibilità, prospettata sia da lui che dal furioso idealista, di pensare il risanamento dell’«oblio» (della «peccaminosità») solo come opera del ricordo. Fichte concepisce ovviamente il ricordo come l’esito del progresso del genere umano: è così che, nel quarto e nel quinto atto del dramma, l’umanità riesce a liberarsi dall’aberrazione. Dopo la discesa sino alla estraneazione estrema, è l’ascesa in programma verso la riappropriazione.
Heidegger, invece, delinea all’orizzonte un ricordo salvifico inteso come evento di cui, da parte umana, non si può disporre. Non siamo noi a ricordarci, quando ci piace e pare di ricordarci. L’Essere si ricorda di noi, mediante noi - o forse no. Questa prospettiva non vale, inoltre, per gli appartenenti a quel genere, cui non è possibile comunque prestare soccorso, bensì solo per quei “pochi” assennati, che chiama anche gli «unici».
Alla fine degli anni Trenta Heidegger sviluppò una forma di critica del presente che non ha quasi precedenti. Dopo il 1933 aveva sperimentato come i suoi interventi dilettanteschi negli sconvolgimenti politici del tempo erano finiti sotto le ruote delle reali battaglie di potere. Fu in seguito che emerse un nuovo modo di discutere la situazione del presente in cui il suo errore avrebbe dovuto divenire la chiave per decifrare la storia del mondo. Si possono leggere i passi corrispondenti dei Quaderni neri come una rimobilitazione delle tesi sul “si”, sul Man, in Essere e tempo. Verso la fine degli anni Trenta si produce nel Man una polarizzazione dove i molti e i pochi si separano, senza cessare per questo di essere Man.
Nelle Überlegungen di Heidegger risuonano le reminiscenze dell’antica distinzione tra hoi polloi e hoi oligoi. Se nel pensiero classico, però, i molti giocano la parte della volgarità e dell’esistenza vegetativa, mentre i pochi rappresentano l’aristocrazia e l’esistenza piena di spirito, con un golpe Heidegger finisce per abrogare questa distinzione. Deluso dalla sua escursione nella “politica”, stabilisce che i pochi (in termini moderni le élites), quanto a smarrimento, non sarebbero da meno dei molti. Al contrario, i pochi - gli oligarchi della modernità - rappresentano la punta della lancia di quel che tradizionalmente si imputa ai molti inconsapevoli. I pochi sono i molti, ma nel modo peggiore.
Per Heidegger l’essenza della modernità, così come si rivela nel bolscevismo, nel nazionalsocialismo, nell’anglicismo o nell’americanismo, è una oligarchia onnicomprendente. Questa nuova tesi sull’oligarchia consente a Heidegger di proporre le sue famigerate equiparazioni tra grandezze ineguali: comunismo e liberalismo sono tutt’uno. L’agricoltura meccanizzata e la produzione di cadaveri nei lager vengono dalla stessa fonte. Fascismo e democrazia sono la stessa cosa. «Gli antifascisti sono gli infimi schiavi di quel grande fascismo che in America e in Russia si chiama democrazia»[1]. Il mondo viene accecato da differenze apparenti e perciò trattenuto dal riflettere su ciò che è propriamente vero.
I Quaderni neri appartengono al patrimonio della de-differenziazione. Gli oligarchi sono per Heidegger non già i ricchi (per i quali il termine adeguato sarebbe plutocrati), bensì tutti coloro che figurano in cima a quelle piramidi di potere dimentiche dell’essere. La moderna oligarchia costituisce un mob ontologico che non si ferma davanti a niente e a nessuno[2]. E non importa che parli inglese, russo, tedesco o francese.
Il dominio dei pochi, democraticamente mascherato, non sarebbe certo praticabile, se la tendenza dell’epoca, l’oblio dell’essere che agisce autorizzando tutto, non gli spianasse la strada. Quel mob di pochi, che governano per lo più in modo anonimo (sebbene di tanto in tanto mandino avanti portatori di nomi di culto come Stalin o Hitler), è a sua volta solo strumento di una tendenza più comprensiva, di qualità “ontostorica” e con ciò destinale. Convenzionalmente viene chiamata “tecnica”. Heidegger germanizza l’espressione traducendola con la parola idiosincratica Machenschaft, macchinazione. Attraverso le accezioni dell’espressione tedesca la tecnica viene stigmatizzata come fenomeno dell’ingiustizia ontologica.
Se la modernità è l’epoca della Machenschaft, senza aggettivi, la questione che si pone è se sia concepibile un tempo “dopo di essa”. Dato che le rivoluzioni sono realizzate, secondo natura, in modo macchinoso, la svolta verso un reale “poi” dovrebbe compiersi senza macchinazione.
Chi sarebbero, però, gli agenti, ovvero i mediatori, e i mezzi, di questa rivoluzione non rivoluzionaria? Anche per questa domanda Heidegger sembra aver pronta una risposta, seppure molto provvisoria e insufficiente. Una volta che la classica distinzione tra i molti e i pochi è divenuta ai suoi occhi inutilizzabile, occorre fare una scelta ulteriore tra i pochi, per trovare quei rari che non sarebbero gli agenti della macchinazione.
I rari, scelti tra i pochi, vengono chiamati nei Quaderni neri gli «unici». Qui Heidegger sembra non darsi insolitamente cura della terminologia, come se non sapesse di calcare, con quella espressione, il terreno sdrucciolevole dello stirnerianismo. Che avesse presente il pericolo? Forse avrà pensato a Kierkegaard piuttosto che a Stirner. Il filosofo danese aveva osato opporre il singolo credente all’universo storico della chiesa, anzi all’intera communio sanctorum, per sganciarlo dal consenso del collettivo. Quel che in Kierkegaard si chiama “fede” è un “salto”, un golpe contro la verosimiglianza e suoi gruppi comunitari d’ausilio. La chiesa danese del 1848 è il prototipo del Man, del “si”.
Sotto questo aspetto Heidegger resta un kierkegaardiano e, come tale, un antisociologo senza speranza. L’unica “società”, a cui può pensare, sarebbe una “contro società” di non-seguaci della macchinazione, fra loro quasi svincolati. Come dovrebbe essere immaginata? Forse come una rete impercettibile di altruisti che, dopo essere stati eletti vescovi, sono andati a rifugiarsi nelle stalle per le oche.
La critica di Heidegger al mondo presente riprende un motivo che originariamente era stato sviluppato da Agostino, il patriarca della critica cristiana all’egoismo. Non è difficile seguire il modo in cui la prima Inquisizione cattolica andò estendendo la critica, rivolta dapprima contro il satana ispirato dall’egoismo, a una critica moderno-scettica della soggettività, in seguito a una critica della razionalità e della volontà di potenza, per sfociare poi in una critica della macchinazione. Si fa strada qui l’idea che il mondo, nel suo complesso, sia una falsificazione.
L’unica maniera per rimetterlo a posto consisterebbe in una conversione integrale dei falsificatori. Hannah Arendt ha certamente ragione quando in Heidegger vede all’opera la tradizione sotterranea della antica gnosi occidentale. Solo che in Heidegger, al posto dello stolto demiurgo, è subentrata la soggettività intramondana. Che la falsificazione del mondo sia da imputare a un dio incompetente (che poteva esercitare la creazione solo come falsificazione di quel che doveva creare) oppure a una civiltà soggettivistica, non è in fondo decisivo per il giudizio sulla falsificazione. Significativo resta invece non divenire succubi del mondo falsificato e mantenere il ricordo del dio estraneo e dell’altro inizio che ha ispirato.
Non voglio mancare qui di onorare Heidegger come autore che ha introdotto nella filosofia lo slapstick[3]. Nelle Überlegungen XIII cita indirettamente Agostino che aveva definito il peccato in senso esistenzial-formale come incurvatio in se ipsum, incurvatura in se stessi. In Heidegger ciò è reso così: «L’avvitarsi della vita su se stessa è lo scatenamento dell’esperire nell’assenza di misura e di rango di un inarrestabile sorseggio»[4].
[...] Vorrei infine aggiungere alcune osservazioni sull’“antisemitismo” di Heidegger. A tal fine occorre muovere dalla sua teoria del linguaggio. Heidegger aveva capito che un segno non equivale a un segno, il linguaggio non equivale al linguaggio. Ai suoi occhi, o alle sue orecchie, c’è un linguaggio prima del linguaggio. Prima della molteplicità delle lingue, in cui si può dire questo e quello, si muove un lógos, che dice quell’Uno, che deve essere detto. Occorre figurarsi ciò nel senso che è necessario distinguere tra la lingua come medium della comunicazione condizionata e la lingua come medium della missione incondizionata.
Se il linguaggio è medium della missione incondizionata, allora ne risulta una conseguenza inquietante. Heidegger si vede proiettato al centro di questa inquietudine, dato che intravede una lotta tra varie assolutezze. Le missioni incondizionate sono inizialmente legate alle culture che impongono ai propri membri di assumerle come tali. In seguito le missioni vengono impartite da programmi spirituali che vanno al di là dei confini delle singole culture.
Tipici commissionari sono da sempre quegli individui, disponibili nella comunicazione mediatica, i quali dalle culture provengono. Si possono in fondo distinguere tre forme di discorso che affida una missione incondizionata. -Anzitutto quello profetico, nel quale il singolo essere parlante viene chiamato a essere mezzo degli interventi di Dio nelle vicende della vita. A questo si aggiunge inoltre il discorso poetico evocativo che si rivolge a coloro che, nelle culture, sono dotati di sensibilità, per comunicare loro una disposizione d’animo comune. E infine vi è il discorso filosofico che mira al consenso degli avveduti (per non trattare qui la loro mediale figura di decadenza, cioè la moderna produzione ideologico-propagandistica di rarefatto etere di menzogne).
I tre lógoi vengono associati a tre ambiti di provenienza, ovvero a tre contesti funzionali. Al modo profetico sono da annoverare i discorsi ebraici, cristiani e islamici. Qui emerge che il monoteismo non è possibile senza collisioni interprofetiche. Al modo poetico corrispondono le opinioni pubbliche nazionali i cui membri sono in grado di comprendere entusiasmanti e spesso intraducibili tonalità musicali della lingua. La parola di Goethe Weltliteratur, “letteratura mondiale”, evoca la concertante coesistenza delle poesie. È la volta, quindi, del discorso filosofico, che pensa di poter essere efficace ovunque. Viene però privato della sua efficacia dalla entropia delle inesauste discussioni laceranti e, alla fine del giorno accademico, svanisce in scepsi.
Su questo sfondo si staglia il personaggio tragicomico di Heidegger. Pronto a fungere da medium dell’Essere, che voleva parlare, fu incapace di distinguere persino i modi contradditori della medialità. Alla fin fine sembrava come se, in un confuso slancio di profetismo, avesse voluto unificare, in un punto focale, filosofia e poesia. Per quel che attiene al rapporto tra profezia e filosofia, la sua ambizione non era del tutto priva di prospettive. In effetti si può intendere la filosofia come una forma di profezia concettuale, altrettanto entusiastica, altrettanto indispensabile, e di regola altresì vana. Sarebbe facile illustrare ciò nella produzione del neokantismo ebraico-tedesco, in particolare nell’opera di Hermann Cohen.
Heidegger rovinò tutto, facendo la caricatura del profetismo ebraico ridotto a una divinazione al servizio della Machenschaft. Non entro qui nel merito della questione se questa cruda e sbagliata concezione vada attribuita al complesso dell’“antisemitismo”. Nel contesto dei Quaderni neri gli ebrei non compaiono come attori, bensì come coloro che danno l’input a fatalità che avrebbero comunque potuto abbattersi sul mondo.
Nel contesto attuale si dovrebbe dire che la scortesia di Heidegger verso «ciò che è ebraico» era espressione di una inesplicabile rivalità profetologica. Se Heidegger fosse stato capace di un confronto aperto, avrebbe dovuto dire e provare che il veggente dello spazio greco-germanico vede e sa più del profeta del Medio Oriente con tutti i suoi discendenti ecclesiali. Heidegger non ne fu capace. Restò lui stesso, da martinista qual era, essenzialmente un profeta cripto-ebraico che reca conforto ai perdenti della storia, agli umili e ai semplici. In questo ruolo gli resta una parola di conforto anche per il proprio esorbitante sé di un tempo, umiliato dal corso del mondo.
L’opera tarda di Heidegger costituisce un’opera d’arte del naufragio. È qui che mette allo scoperto le carte della sua impotenza. Cerca rifugio nella poesia, senza essere poeta. Quel che in ultima istanza postulava, senza poterlo dire esplicitamente, era diventare uno Isaia con la forza di parola di uno Hölderlin e quella di pensiero di un certo professore di Friburgo. Sembra che abbia trovato alla fine una via per perdonarsi il fallimento.
Chi era l’autore che in una poesia autobiografica aveva scritto: «Sappiamo di essere caduchi. Dopo di noi non verrà nulla degno di nota»?
[1] M. Heidegger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), GA 97,
Klostermann, Frankfurt 2015, p. 249. Il passo è forse del 1946.
[2] Mob vuol dire in inglese ressa, moltitudine [nota del traduttore].
[3] Slapstick (abbreviazione di slapstick comedy) è un sottogenere del film comico.
[4] M. Heidegger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), cit. p. 80.
Il nazismo secondo Heidegger: «Hitler risveglia il nostro popolo»
Esce il 17 ottobre in Germania per Herder un carteggio inedito con il fratello Fritz
Il filosofo aveva letto «Mein Kampf» e apprezzava l’istinto politico del Führer
di DONATELLA DI CESARE (Corriere dlla Sera, 13.10.2016)
-***Il filosofo Martin Heidegger (1889-1976, a sinistra) con il fratello Fritz nel luglio 1961 presso la canonica di Schwandorf (archivio Heinrich Heidegger)
Lieber Fritz, «Caro Fritz, sembra che la Germania si risvegli, che comprenda il suo destino. Desidero che tu legga il libro di Hitler, che è debole negli iniziali capitoli autobiografici. Nessuno può ormai contestare che quest’uomo possieda, e abbia sempre posseduto, un sicuro istinto politico, quando noi tutti eravamo ancora obnubilati. Il movimento nazionalsocialista si arricchirà, in futuro, di nuove ulteriori forze. Non si tratta più di meschina politica di partito - ne va piuttosto della salvezza o del tramonto dell’Europa e della cultura occidentale».
Questa lettera del 18 dicembre 1931 fa parte del carteggio tra Martin Heidegger e il fratello minore Fritz, che esce il 17 ottobre in Germania dalla casa editrice Herder. Il volume, curato da Walter Homolka e Arnulf Heidegger, contiene anche una raccolta cospicua di interventi firmati da filosofi, scrittori, intellettuali sul tema dell’antisemitismo. Il carteggio, che occupa più di cento pagine, è la grande novità editoriale che farà certamente discutere. Le lettere vanno dal 1930 al 1949 - un periodo decisivo per la Germania, per Heidegger, per il suo pensiero. Anche se il carteggio non è completo (si può però leggere il resto nell’Archivio di Marbach), la pubblicazione ha grande rilievo perché, dopo i Quaderni neri, diviene accessibile un’altra significativa fonte che può far luce sull’impegno politico di Heidegger.
Oltre a offrire uno spaccato della vita privata, le lettere fanno emergere lo stretto rapporto tra i due fratelli, che si rivela un forte sodalizio intellettuale. Sorprende la figura di Fritz, del quale si sapeva poco: soltanto che era rimasto sempre a Messkirch, il villaggio natìo, che una balbuzie gli aveva impedito di proseguire gli studi, che ciò aveva paradossalmente acuito il suo senso per la lingua, al punto che si era fatto una certa fama per i giochi di parole e le arguzie. Il ritratto del saggio giullare, che di mestiere faceva, suo malgrado, l’impiegato di banca, viene corretto dal carteggio.
Fritz Heidegger appare una figura di primo piano. A lui Martin affida i manoscritti delle sue opere, affinché vengano riletti, rivisti, ricopiati e messi al sicuro. Fritz ammira il fratello, ne segue con orgoglio il successo, lo difende. È il suo migliore amico. Già Hannah Arendt aveva scritto: «L’unica persona che ha realmente è il fratello». Ma Fritz è anche un interlocutore nei temi filosofi e politici.
L’ulteriore grande sorpresa del carteggio sta nell’importanza che riveste Hitler. Fin qui non si sapeva se Heidegger lo avesse letto e molti negavano. Ora è chiaro che dal 1931 al 1933 Hitler diventa addirittura tema di dibattito tra i due fratelli. Fritz si mostra poco convinto. Resta perplesso quando Martin gli spedisce in regalo Mein Kampf; ma promette che lo leggerà. Gli confessa tuttavia il suo «disgusto» per la politica volgare, l’esigenza di giudicare autonomamente gli eventi. I fratelli concordano, però, nel considerare ineluttabile la fine della Repubblica di Weimar e della socialdemocrazia. Solo che Fritz vede nel tracollo finanziario della Germania, oberata dai debiti, l’occasione colta dal nazionalismo di Hitler. La sua analisi politica è più prudente. Martin invece insiste; gli spedisce lo scritto propagandistico di Beumenburg La Germania in catene e gli consiglia la lettura del romanzo di Hans Grimm Popolo senza spazio. E commenta: «Chi non lo sa, può imparare qui che cosa vuol dire patria per il nostro popolo». Di fronte alle «inibizioni» del fratello verso il nazismo, Martin prende una posizione netta. Nel 1932 afferma che, nonostante tutti gli errori, «occorre essere dalla parte dei nazisti e di Hitler. Ti manderò il suo nuovo discorso».
La novità delle lettere sta proprio nella fermezza che Heidegger mostra. E in una adesione che appare incondizionata. Divenuto rettore a Friburgo, racconta in una lettera del 4 maggio del 1933: «Sono entrato ieri nel partito, non solo per intima convinzione (...). In questo momento è necessario pensare non tanto a se stessi, quanto al destino del popolo tedesco». E rivolto al fratello: «Se non ti sei ancora deciso, vorrei che ti preparassi interiormente per fare il tuo ingresso».
Negli anni successivi affiorano le delusioni e le amarezze di Heidegger. Più cauto, più pacato, Fritz guarda gli eventi con una certa distanza. Nel luglio del 1941 giudica «problematica» la vittoria tedesca, mentre qualche mese dopo Martin calcola la distanza dell’esercito da Mosca: «Solo 30 chilometri!». Quando l’isolamento politico, filosofico, soprattutto umano, tormenta e angustia il filosofo, Fritz gli resta accanto. Lo sostiene; legge i suoi scritti. «Ho iniziato a studiare la Storia dell’essere, frase per frase». Si capisce perché Heidegger vada spesso a Messkirch e, quando è lontano, spedisce al fratello una lettera dopo l’altra. Ricorda la loro infanzia, apprezza quel forte legame fraterno, parla delle loro passeggiate lungo il sentiero di campagna.
A lui si rivolge nel febbraio del 1946 da Badenweiler, vicino Friburgo, dove è ricoverato nella clinica psichiatrica. Non è chiaro che cosa lo «spirito del mondo» intenda fare dei tedeschi, né perché voglia servirsi, per i suoi disegni, degli americani. Lieber Fritz - gli scrive - «nell’epoca della spaesatezza», in cui nessuno più è a casa, nel tempo della «piattezza planetaria», resta la possibilità di una dimora. Per lui è quel rapporto con il fratello. «La dimora resta, Fritz; siamo noi a rifondarla».
La storia del diario ritrovato del gerarca nazista che teorizzò la mistica del sangue e l’Olocausto. E che anche Hitler temeva
di Wlodek Goldkorn (la Repubblica, 30.09.2016)
Capita che il male non rasenti la banalità, anzi, che proprio quando si tratta di un nazista, il Male non sia una serie di procedure burocratiche o stupidità (come invece ipotizzava Hannah Arendt parlando di Eichmann), ma assuma le sembianze di una persona e diventi pensiero egemone. È il caso di Alfred Rosenberg, architetto di mestiere, classe 1892, nato in Estonia a Reval, oggi Tallinn, studente a Riga in Lettonia, laureato a Mosca, innamorato della letteratura classica russa e che a partire dagli anni Venti diventa il principale ideologo del nazismo, teorico dell’antisemitismo radicale e inventore di una di mistica alternativa al cristianesimo.
Condannato a morte a Norimberga e impiccato, alla storia è passato (si fa per dire) per Il mito del ventesimo secolo dove tre anni prima dell’arrivo di Hitler al potere, affascinato dalla lettura dei Protocolli dei savi di Sion e traumatizzato dalla rivoluzione bolscevica (lui all’epoca era a Mosca), narrava di un presunto complotto giudeo-comunista ai danni dell’umanità e della Germania. Ma poi andava oltre: teorizzava appunto la mistica del sangue e della razza ariana e sosteneva che Gesù non era ebreo e che siano state le chiese cristiane a falsificare la “vera storia”.
Questa mitologia, per quanto oggi possa sembrare ridicola, ai tempi era di forte richiamo, anche perché attingeva a fonti potenti come Wagner, Fichte, Schopenhauer, Nietzsche e via elencando. Tanto che Il mito del ventesimo secolo fu il secondo libro più venduto del Reich (dopo il Mein Kampf).
Il radicalismo di Rosenberg era tale da suscitare una certa diffidenza da parte dello stesso Führer (diffidenza dettata dalla tattica, i valori erano condivisi) e l’inimicizia di gerarchi come Goebbels, Himmler e Goering. Per sfogare le frustrazioni (non divenne mai il numero due del regime) e probabilmente per tramandare un insegnamento alle future generazioni, Rosenberg, a partire dal 1934 tenne un diario. Che, finita la guerra andò disperso. È in un uscita in questi giorni Il diario perduto del nazismo. I segreti di Adolf Hitler nei diari inediti di Alfred Rosenberg e del Terzo Reich, scritto da Robert K. Wittman, un ex agente del Fbi, e da David Kinney, giornalista premio Pulitzer (Newton Compton).
Al centro della trama, oltre al nazista e alle sue carte c’è l’uomo che portò alla sua condanna a morte, Robert Kempner. Kempner, a sua volta, era un ebreo tedesco, avvocato intelligente e spregiudicato, fuggito nel 1936 dalla Germania, approdato negli Stati Uniti, collaboratore dei servizi segreti americani e infine procuratore al celebre processo dei gerarchi del Terzo Reich. Affascinante, spietato (negli interrogatori era durissimo con gli imputati, al limite del lecito), Kempner aveva un certo successo con le donne; le sue assistenti diventavano le sue amanti.
Non si tratta di un pettegolezzo in un libro che in apparenza potrebbe risultare sensazionalistico - e non lo è grazie alla buona ricostruzione storica - ma di un dettaglio fondamentale. Le carte di Rosenberg, finito il processo, Kempner le ha portate negli Usa. Ma non lo sapeva nessuno.
La storia del ritrovamento è una specie di thriller e raccontarla toglierebbe gusto alla lettura. Per sommi capi: le carte le ha scoperte, con l’aiuto di un archivista del Museo dell’Olocausto, negli anni Novanta, l’agente del Fbi Wittman (uno degli autori del volume). Non erano tutte, erano disordinate ed erano gestite dall’ex-assistente di Kempner. E lì sono sorte le prime difficoltà nella trasmissione del tesoro al Museo.
Successivamente, e diversi anni dopo, Wittman, ormai pensionato, ritrovò altre carte, in modo da completare il diario sparito. Che dal 2013 è a Washington, a disposizione degli studiosi. Detto così, sembra semplice, ma nel frattempo i documenti finirono in mano a un altro personaggio strano che ebbe una grande influenza sulla ex assistente, e che tentò di portarle in Canada.
La storia di quel diario, circa 400 cartelle ci dice alcune cose. La prima: era interessante per gli storici entrare nelle stanze segrete della cerchia ristretta di Hitler. Rosenberg racconta infatti, dal suo punto di vista, le motivazioni di certe decisioni prese dal Führer, nonché le dinamiche di potere degli uomini al vertice del Reich. La seconda cosa che mettono in rilievo gli autori è la personalità controversa di Kempner. Il più famoso tra gli accusatori di Norimberga non solo nascose in casa sua documenti che avrebbe dovuto depositare negli archivi delle istituzioni statali, ma aiutò pure, in quanto avvocato, la vedova di Goering. Insomma, l’uomo non era l’incarnazione del Bene.
E Rosenberg? Cresciuto in città periferiche e multiculturali Tallin e Riga, dove abitavano tedeschi, estoni, lettoni, russi, ebrei e che appartenevano all’Impero zarista, decise che la purezza della razza era l’unico valore assoluto, quasi a rinnegare la propria infanzia e gioventù, quasi a cercare di essere più tedesco dei tedeschi: capita ai neofiti. Cercava di muovere la guerra a oltranza contro le chiese, ma Hitler non lo seguì (o meglio gli diede retta solo parzialmente), tanto che il Mito del ventesimo secolo finì sull’Indice dei libri proibiti dalla Santa Sede, mentre Mein Kampf, no. Durante la guerra fu ministro per i territori occupati dell’Est, ma si occupava anche della razzia delle opere d’arte all’Ovest, soprattutto a Parigi e in Francia.
Il libro racconta bene la natura profondamente corrotta dei gerarchi nazisti in lite tra di loro su come accaparrarsi i tesori delle vittime. Su una cosa erano unanimi e Rosenberg lo narra nel suo Diario. In una riunione un anno prima dell’invasione dell’Urss, discutevano degli ebrei. Lui, Rosenberg parlava di futuri e terribili pogrom in terre russe e ucraine. Hitler ipotizzò che di fronte ai massacri l’Europa tutta si sarebbe levata in difesa degli ebrei. I nazisti risero fragorosamente: capirono che quella del Führer era una barzelletta. Avevano ragione.
Ultima annotazione: gli autori più volte usano il termine “razza ebraica”. Nel contesto di un libro sull’ideologo della razza non è elegantissimo.
DIBATTITI. Pubblicato un rovente scambio epistolare tra Kristeller e Lowinsky, entrambi studiosi del Rinascimento colpiti dalle leggi antisemite, sul coinvolgimento di intellettuali e professori con il regime di Hitler Due giudizi storici diversi, tra responsabilità collettiva e scelte individuali
Nazismo, fu colpa o pregiudizio?
di Paolo Simoncelli (Avvenire, 28.09.2016)
La colpa della Germania, la Shoah, la vita universitaria tedesca..., d’improvviso appaiono come fotogrammi spericolatamente divaricanti dall’incontrovertibile immagine politico-morale dei fatti. La sorpresa viene da un breve, intenso carteggio tra due grandi intellettuali ebrei tedeschi rifugiati negli Stati Uniti: il grande storico della filosofia rinascimentale, Paul Oskar Kristeller (Berlino 1905 - New York 1999), e l’altrettanto famoso musicologo rinascimentalista, Edward Lowinsky (Stoccarda 1908 - Chicago 1985).
Più noto Kristeller che, allievo di Heidegger, nel ’33 poté rifugiarsi nell’Italia fascista al pari di altri ebrei suoi connazionali grazie a Gentile e insegnare tedesco alla Normale di Pisa fino al ’38. Lowinsky lasciata parimenti la Germania nel ’33, si trasferì in Olanda, da dove nel ’39 emigrò in America. Vite diverse congiunte dal conseguimento del dottorato a Heidelberg (rispettivamente nel ’29 e ’33), dal rifugio e poi dall’insegnamento universitario negli Stati Uniti.
Il loro lungo carteggio, avviato nel ’43 e concluso alla morte di Lowinsky, testimonia un’amicizia salda improvvisamente a rischio di una traumatica lacerazione politica.
Ce la indicano alcune loro lettere straordinarie scambiate tra il dicembre 1982 e l’aprile 1983, ora edite da uno storico statunitense del Rinascimento, Antony Molho, in una miscellanea di studi offerta a Riccardo Fubini ( Il laboratorio del Rinascimento, a cura di Lorenzo Tanzini, Le Lettere, pagine 294, euro 28.00).
Kristeller ebbe l’onore d’essere invitato a Heidelberg a festeggiare il cinquantesimo del suo dottorato; una cerimonia ufficiale cui presero parte le massime autorità accademiche, durante la quale tenne la lezione Philosophie und Gelehersamkeit [erudizione].
Prestigiosa, normale cerimonia universitaria; ma a distanza di alcuni anni Lowinsky, avuto già il testo della lezione dell’amico, il 17 dicembre ’82 gli scrisse garbatamente eccependo che vi mancava il ricordo dei tanti ebrei che non erano sopravvissuti, che non si poteva né doveva dimenticare il tracollo morale delle Università tedesche al- l’avvento del nazismo, e che gli sarebbe sembrato doveroso un pubblico ringraziamento agli Stati Uniti per quanto fatto per tutti loro.
Una settimana dopo Kristeller rispondeva essere vicende note a ognuno e che non aveva mosso accuse ai nazisti non essendovene alcuno presente a quella cerimonia; comunque il suo primo libro del dopoguerra (voluto pubblicare in italiano, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino) l’aveva dedicato alle vittime del nazismo; infine, in merito all’atteggiamento delle Università tedesche, Kristeller evocava il cedimento, senza alcun rischio, dei professori americani alla pressione (e alla moda) della contestazione degli anni ’60: come fatto sì dai professori tedeschi nel ’33, ma di fronte a ben gravi rischi. Il diverbio sale di tono e s’allarga a temi diversi e connessi.
Lowinsky replica il 5 gennaio ’83, profilando una responsabilità collettiva tedesca (un popolo coraggioso militarmente, non civilmente), ricordando per contro il rettore dell’Università di Leida, Johan Huizinga che, occupata l’Olanda dai tedeschi, piuttosto che subirne controlli e norme discriminatorie, preferì chiudere l’Università finendo (e morendo) in prigione a De Steeg (Arnhem); invece Karl Jaspers nel ’33 aveva iniziato i suoi corsi di filosofia ad Heidelberg col saluto a Hitler (finendo comunque sollevato dalla cattedra nel ’37).
Il 13 seguente, la replica di Kristeller, noto liberal-conservatore, è platealmente not politically correct: glielo consentiva la sua drammatica storia personale e familiare (morti i genitori nel lager di Theresienstadt nel ’42, ad Auschwitz i parenti della moglie). Rievoca allora un caleidoscopio di intellettuali tedeschi che avevano marcato la vita culturale europea negli anni ’20 e ’30, weimariani, nazisti e non nazisti, noti e meno noti, giovani studiosi o professori affermati, affollando la lettera di richiami a Cassirer e Panofsky, Nussbaum e Klibansky, ebrei abilitati all’insegnamento negli anni ’20, poi Walter Bulst, Ernst Hoffmann, Herbert Dieckmann che addirittura recensì il Supplementum ficinianum dell’ebreo Kristeller sulle ’Romanische Forschungen’ del ’39.
Lo stesso Heidegger, ricorda Kristeller, lo aveva ripetutamente aiutato. E in proposito aggiunge un’attendibile testimonianza (« good testimony ») che dava Heidegger distaccato dal nazismo ai primi del ’36 se non già nel ’35; nel dopoguerra, dopo lunghe esitazioni, Kristeller aveva quindi ripreso i contatti con lui.
Kristeller procedeva dunque contro un’inaccettabile genericità di giudizi, in particolare da parte di intellettuali e ricercatori: la cultura tedesca non aveva prodotto il razzismo, né quindi lui credeva in una “colpa collettiva” della Germania. Il che non significava ridurre il portato delle atrocità commesse dai nazisti; i civili tedeschi accampavano improbabili scuse di non sapere dei lager e di ciò che vi accadeva, pure, in qualche caso, davvero non sapevano.
Ma altrettanto vere e inescusabili erano le atrocità occorse che, scrive Kristeller, non avevano avuto uguali né precedenti; paragoni recenti per Kristeller potevano essere il trattamento inferto dai turchi ad armeni e greci, e quello subìto dalle popolazioni tedesche orientali alla fine della guerra.
E tornando a parlare ancora della vita universitaria americana (e della sottostima delle scienze umanistiche) ricordava la confidenza di un suo collega che di fronte alla contestazione studentesca riteneva opportuno adeguarsi per salvare il salvabile: parli come i professori tedeschi nel ’33, era stata la replica.
Nell’ultima lettera ora edita, Kristeller volle testimoniare in modo bruciante come la sua inesausta battaglia per tenere la filosofia e la storia lontane dalle falsificazioni indotte dall’ideologia, fosse stata persa quando in America, la new left aveva introdotto la politica nelle aule e con essa la pretesa di sostituirsi alla serietà degli studi. Aveva conosciuto e combattuto invano la sostanza di ogni totalitarismo, brutale o sofisticato: il conformismo della cultura.
I 12 professori che 85 anni fa rifiutarono il giuramento fascista
Sulla Gazzetta Ufficiale del 28 agosto del 1931 apparve il regio decreto n. 1227 che all’articolo 18 obbligava i docenti universitari a giurare devozione «alla Patria e al Regime Fascista». Su 1225 professori solo 12 rifiutarono il giuramento pur sapendo di dover subire, quale inevitabile conseguenza, il licenziamento.
di Marcello Ravveduto *
Nella vulgata nazionale sono molti i passaggi storici del fascismo noti al grande pubblico: dalla marcia su Roma, all’assassinio di Matteotti e dei fratelli Rosselli, dalla guerra d’Etiopia alle leggi razziali, dall’alleanza con Hitler alla caduta del regime, dalla Repubblica di Salò alla fucilazione di Mussolini, con l’esposizione del cadavere a Piazzale Loreto.
Non da tutti, invece, è conosciuta una vicenda minore (paragonata ai maggiori misfatti) accaduta 85 anni fa. Sulla Gazzetta Ufficiale del 28 agosto del 1931 è pubblicato il regio decreto n. 1227. Il dispositivo è stato voluto dal ministro per l’Educazione nazionale, Balbino Giuliano, ispirato dal filosofo Giovanni Gentile, a cui il dittatore ha affidato il compito di edificare le fondamenta culturali del fascismo. In apparenza è “solo” uno dei tanti provvedimenti del regime fascista che vuole imporre nuove regole di controllo all’ordinamento universitario. Ma se leggiamo l’articolo 18 ci rendiamo conto che si tratta di un vero e proprio attacco all’autonomia dell’accademia:
«I professori di ruolo e i professori incaricati nei Regi istituti d’istruzione superiore sono tenuti a prestare giuramento secondo la formula seguente: Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio».
S’impone a tutti i docenti un giuramento di fedeltà al fascismo. In precedenza esisteva un giuramento di fedeltà al re e allo Statuto, mai rifiutato dai professori, salvo che nella Roma del 1870, in polemica con la conquista da parte dei Savoia. Già nel 1925, agli esordi della dittatura, c’era stato uno scontro tra fascisti e antifascisti in merito all’autonomia delle Università. Il 21 aprile (nel giorno del compleanno di Roma) Giovanni Gentile, su esplicita richiesta di Mussolini, si fa promotore di un manifesto degli intellettuali organici in cui si afferma la volontà di superare tramite il fascismo - che si presenta come azione, ma anche come «atteggiamento spirituale» - l’idea di un’Italia decadente, dal dilagante individualismo e dalla vita pubblica asservita al “particulare”. Duecentocinquanta sono i sottoscrittori del manifesto fascista.
La risposta degli intellettuali antifascisti è immediata: il 1˚ maggio su "Il Mondo", Benedetto Croce pubblica il suo "Manifesto”, in sintonia con le più importanti voci della cultura europea, esprimendo preoccupazione e sdegno verso chi tradisce l’autonomia della cultura e «pretenderebbe piegare l’intellettualità a funzioni di instrumentum regni». Il gruppo dei firmatari dell’appello crociano sarà molto ampio e, come riconosce la stessa stampa fascista, ben più autorevole di quello avversario. Ma soprattutto, gli atenei di tutta Italia sottoscriveranno compatti la protesta.
Dopo sei anni, con l’avanzare della fascistizzazione dello Stato e del conformismo sociale e civile, la situazione è completamente mutata. Quando nell’ottobre dello stesso anno i docenti saranno chiamati a rispettare la cogenza del giuramento non vi sarà nessun moto di indignazione: solo 12 professori su 1225 rifiutano l’atto di sottomissione al regime (in realtà qualcuno ne conta 16 o 17).
Chi erano questi coraggiosi scienziati? Francesco Ruffini, Mario Carrara, Lionello Venturi, Gaetano De Sanctis, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Ernesto Buonaiuti, Giorgio Errera, Vito Volterra, Giorgio Levi della Vida, Edoardo Ruffini Avondo, Fabio Luzzatto.
«Ho un’invincibile ripugnanza per il bel gesto! (...) Se potessi scivolare via con un qualsiasi pretesto, la cosa mi sarebbe assai più facile». Così scrive Edoardo Ruffini, il più giovane tra i professori che respingono il giuramento, nel momento in cui prende la drammatica decisione. Nessuno di loro è un pericoloso sovversivo, né hanno la stessa estrazione sociale, fede o cultura: gli altoborghesi si mescolano ai figli di commercianti, gli ebrei agli anticlericali e ai cattolici devoti, i repubblicani ai monarchici. Sono nient’altro che uomini dal radicato civismo, dalla forte moralità e dotati certamente, questo sì, di un’indole ribelle e poco incline al conformismo imperante. A cominciare da Gaetano De Sanctis che - come il padre ufficiale papalino renitente a dichiararsi fedele a una Roma ormai capitale d’Italia - ritiene il giuramento una menomazione della sua libertà interiore. O come l’anziano Bartolo Nigrisoli, che all’età di 73 anni non si scompone all’idea di essere allontanato dalla cattedra di chirurgia: «Giuramento simile io non mi sento di farlo e non lo faccio», esclamerà in piena coscienza.
Eroica è la figura di Mario Carrara, assistente e genero di Cesare Lombroso (di cui eredita la cattedra di antropologia criminale), che con imperturbabile purezza intellettuale scrive al ministro: «Abituato all’attribuire al giuramento la serietà dovuta, non ho sentito di potermi impegnare a dare intonazione, orientamento, finalità politiche alla mia attività didattica». Il rifiuto di aderire all’articolo 18 del regio decreto è il primo manifestarsi di un crescente sentimento antifascista che in seguito lo porterà in carcere. Il prestigioso docente festeggerà il suo settantesimo compleanno nel carcere "Nuove" di Torino dove per tanti anni i detenuti lo hanno visto impegnato nella sua attività scientifica.
Nei giorni successivi la propaganda fascista commenta beffarda il gesto di diniego. “Il popolo toscano”: «Undici su milleduecentoventicinque. Fa ridere! Sinceramente vorremmo che fossero altrettanti i malati in confronto ai sani, i rachitici a paragone con i fisicamente robusti, i deficienti con gli intelligenti, i disonesti di fronte ai virtuosi...». “Il Bargello”: «Fuori dalle nostre Università, fuori dai nostri laboratori, fuori dall’Insegnamento Italiano, fuori, fuori!». “Il Popolo di Lombardia”: «Confidiamo nell’erompente fede fascista dei gruppi universitari. È fatale che i giovani, nel campo della passione politica, siano all’avanguardia e insegnino moltissime volte la strada agli anziani».
La conseguenza per tutti è l’allontanamento dalla cattedra universitaria. Alcuni vanno all’estero, altri rimangono e saranno reintegrati dopo la caduta del fascismo. Se volessimo trovare un minimo comune denominatore tra i 12 ribelli dovremmo notare che 9 su 12 sono di origine piemontese e hanno vissuto o insegnato all’Università di Torino. Hanno invece origine ebrea (o vivono in ambiente di cultura ebraica) 5 dei 12. Le discipline interessate sono: Diritto (Ruffini padre e figlio, Luzzatto); Storia del cristianesimo e antica (Buonaiuti, De Sanctis); Filosofia (Martinetti); Storia dell’arte (Venturi); Orientalistica (Levi della Vida); Medicina (Carrara, Nigrisoli); Chimica (Errera); Matematica (Volterra).
Gaetano Salvemini, che dopo l’arresto nel ’25 lascia l’Italia rinunciando alla cattedra di Storia moderna all’Università di Firenze con una lettera molto dura nei confronti del Rettore («la dittatura fascista ha soppresso ... quelle condizioni di libertà, mancando le quali l’insegnamento universitario della Storia ... perde ogni dignità perché deve cessare di essere strumento di libera educazione civile e ridursi a servile adulazione del partito dominante ...»), rimarrà molto deluso sia della scarsa adesione al rifiuto, sia della modesta reazione internazionale, sia del fatto che fra i 12 non ci sono professori di Storia contemporanea o di Italiano, e nemmeno socialisti. Eppure, come tanti altri faranno, anche lui cercherà di giustificare quelli che hanno piegato il capo.
Del resto sulla questione del giuramento si apre immediatamente un dibattito contrastante che coinvolge professori, intellettuali e politici. Per esempio, pur da posizioni antifasciste distanti fra loro, Croce e Togliatti esprimono la stessa opinione: i professori devono giurare per non lasciare le Università in mano ai fascisti. L’orientamento espresso dal capo del comunismo italiano e dal massimo esponente del liberalismo spinge molti docenti non fascisti o apertamente antifascisti ad accettare l’esercizio di sottomissione. Concetto Marchesi (Letteratura latina all’Università di Padova), militante comunista, dopo una prima decisione negativa, pubblicamente annunciata, accetta con dolore (e vergogna) di giurare, seguendo l’indicazione di Togliatti. Piero Calamandrei (Diritto all’Università di Firenze) e Luigi Einaudi (Economia all’Università di Torino) giurano per non abbandonare l’Accademia ai fascisti. Giuseppe Levi (Anatomia all’Università di Torino) dopo un primo annuncio negativo, decide con dolore di giurare per non abbandonare gli allievi.
Molti provano a separare la pratica burocratica dal proprio sentire come se fossero in uno stato di sospensione mentale. Alessandro Levi (Filosofia del diritto all’Università di Parma) e il cugino Tullio Levi Civita (Meccanica Razionale all’Università di Roma) si consultano e concludono di accettare perché il giuramento non tocca il loro insegnamento. Anche Edoardo Volterra (Diritto romano all’Università di Parma - figlio del matematico Vito che non ha giurato) specifica che l’atto dovuto non inciderà sul suo insegnamento. Giacomo Devoto (Glottologia all’Università di Padova) dichiara, invece, che il giuramento non ha valore per lui ma gli serve per continuare a lavorare. Gioele Solari (Filosofia del diritto all’Università di Torino, maestro di Norberto Bobbio) e Arturo Carlo Jemolo (Diritto canonico all’Università di Bologna) giurano con dolore per motivi economici.
E la Chiesa? Come si comporta il Vaticano nei confronti del giuramento che costringe anche i professori cattolici ad «adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista»?
Pio XI, contrario al giuramento, concepisce un’interessante proposta di compromesso: i professori cattolici possono giurare, ma con riserva (non è chiaro se mentale o esplicita e dichiarata) di non contraddire i principi cattolici. Dà quindi incarico al rettore della Cattolica di Milano, padre Agostino Gemelli, di trattare con Balbino Giuliano e Mussolini l’esclusione dal giuramento dei soli professori dell’Università Cattolica. La deroga è concessa, ma con un’altra riserva (da parte del regime fascista): si proponga a tutti i professori della Cattolica un giuramento volontario. Tutti giurano volontariamente (con la riserva indicata da Pio XI), tranne quattro professori, fra i quali spicca lo stesso padre Agostino Gemelli.
Tra i ribelli solo Mario Carrara e Francesco Ruffini provano ad organizzare due tentativi di protesta. Il primo giunto a Ginevra nel novembre del 1931 stende, con il cognato Guglielmo Ferrero (che ha sposato l’altra figlia di Lombroso), un appello di protesta indirizzato all’Istituto internazionale di cooperazione intellettuale operante a Parigi nell’ambito della Società delle Nazioni. Grazie all’ampia rete di relazioni che i due mantengono all’estero, in pochi mesi si raccolgono numerose adesioni. Quasi milletrecento i firmatari tra insegnanti, giornalisti, intellettuali. Tra essi Miguel de Unamuno, docente a Salamanca, John Dewey della Columbia University, Bertrand Russel. Le condanne sono nette. Il filologo Albert Dauzat parla di «una ignominia», "The Economist" del 26 dicembre riguardo i dodici scrive che «il mondo deve portare ad essi gratitudine per la testimonianza agli ideali di libertà e dell’onestà intellettuale».
La stampa fascista contrattacca. La petizione degli intellettuali è definita «ridicola», «illecita», «arbitraria ingerenza», «infantile insolenza». "Il Messaggero" considera le reazioni internazionali «un’intrusione molesta» nelle «cose di casa nostra». "La Gazzetta del Popolo" vede nella difesa dei dodici obiettori l’adesione tenace ad antiche e superate tradizioni «secondo cui le università statali sono luoghi dove ancora sopravvivono i diritti medievali dell’immunità, dell’asilo e della libertà per studenti in sciopero e professori contestatori». Alla fine la Società delle Nazioni, nonostante le molteplici sollecitazioni, decide di non intervenire dichiarandosi incompetente.
Il 6 novembre 1931 Albert Einstein, sollecitato dall’amico Francesco Ruffini (il più illustre dei renitenti - già ministro dell’Istruzione), scrive al responsabile del dicastero della giustizia italiano Alfredo Rocco: «(...)la ricerca della verità scientifica, distaccata dagli interessi pratici della vita quotidiana, dovrebbe essere sacra per qualsivoglia potere statale, ed è sommo interesse di ognuno che gli onesti servitori della verità vengano lasciati in pace. È senz’altro nell’interesse dello Stato italiano e della sua reputazione nel mondo». Rocco, invece di rispondere personalmente, incarica uno dei suoi allievi. Ad Einstein non resterà che annotare nel suo diario: «Eccellente risposta in tedesco, ma la cosa resta comunque una idiozia da gente incolta», e poi profeticamente: «Bei tempi ci aspettano in Europa».
Cosa rimane oggi di quel gesto epico ed eretico? Quanti docenti delle nostre Università, dopo la lezione del fascismo, si comporterebbero allo stesso modo dei dodici antenati di fronte a una dittatura? Una cosa è certa i dodici assunsero sulle loro spalle le insipienze, le paure e le velleità dei colleghi silenti e lo fecero con estrema modestia al punto da convivere con la disperante sensazione di non essere stati all’altezza della situazione, di avere vissuto un momento importante da uomini normali, anzi «mediocri», dirà Levi Della Vida. Avrebbero potuto fare di più? Date le condizioni storiche non credo. A mio avviso proprio perché non hanno vissuto quella scelta come un gesto pubblico esemplare, ma come una volontà intima di non svendere la propria dignità personale, dovendo rinunciare all’insegnamento (e al reddito), rappresentano un’anticipazione di quella rivolta morale, individuale prima che collettiva, che usiamo chiamare Resistenza; per questo oggi e sempre è giusto tramandarne con rispetto i nomi e il ricordo.
Fichte e la superiorità tedesca
di Giuseppe Bedeschi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21.08.2016)
Da molti anni Johann Gottlieb Fichte non è più al centro degli studi e delle dispute filosofiche. Eppure la sua opera merita ampiamente di essere ripresa e discussa, se si vuole intendere davvero la storia etico-politica tedesca dalla fine del Settecento all’unificazione bismarckiana della Germania e oltre. Nel pensiero di Fichte, infatti, sono presenti molti motivi statalistico-nazionalistici, che avranno sviluppi drammatici nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle: il Novecento.
Questa mia affermazione può forse stupire. Il pensiero di Fichte non si forma infatti a contatto con la Rivoluzione francese, e non inizia con una ferma difesa di essa? Fu lo stesso Fichte, del resto, a sostenere un’affinità globale e profonda tra la Grande Rivoluzione e la propria filosofia: «il mio sistema - scrisse in una lettera a Baggesen del 1795 - è il primo sistema della libertà: come quella nazione [la Francia] scioglie l’uomo dalle catene esterne, così il mio sistema lo scioglie dalle catene delle cose in sé, dall’influenza esterna, e lo pone nel suo vero fondamento primo come essere indipendente».
Del resto, l’influsso di Rousseau è ben percepibile nella costruzione politica di Fichte. Lo Stato nasce da un contratto di unione di tutti con tutti, che dà vita a una totalità in cui il singolo è legato stabilmente all’insieme. È vero che Fichte non teorizza la separazione dei poteri, in quanto per lui il potere esecutivo comprende in sé anche il potere giudiziario e quello legislativo, poiché, se il governo dovesse sottomettersi ai verdetti dei giudici, sarebbe loro sottoposto; mentre il potere legislativo ha come suo compito non quello di creare nuove leggi, bensì quello di applicare la legge fondamentale, che è data dalla coesistenza giuridica degli individui.
È evidente che in questo modo il potere esecutivo viene ad avere una enorme forza (governa, emette ordinanze, controlla la giustizia), e si configura di fatto come un governo assoluto. Ma il potere esecutivo trova un significativo contrappeso nell’eforato, che emana direttamente dalla comunità. Gli efori, infatti, possono sospendere un procedimento giudiziario, così come possono sollevare dal loro incarico tutti o alcuni membri dell’esecutivo. Gli efori, poi, convocano la comunità, e affidano a essa il giudizio ultimo: questo giudizio è infallibile, perché il popolo riunito è il depositario della razionalità politica.
Si avverte chiaramente, in questa costruzione fichtiana, un impasto, per così dire, di motivi autoritari e di motivi democratici. Ma successivamente, nell’evoluzione del filosofo tedesco, saranno i motivi autoritari ad avere la prevalenza. Il testo decisivo, in questo senso, è Lo Stato commerciale chiuso (1800), che viene ora riproposto da La Vita Felice. In questo famoso saggio Fichte delinea uno Stato che interviene assai largamente nella vita economica. Le classi che costituiscono tale Stato (i proprietari terrieri, gli artigiani e i commercianti) si impegnano, con il controllo statale, a usare e a consumare i loro prodotti. E se i produttori o proprietari terrieri finiscono per avere una posizione di vantaggio rispetto alle altre classi, lo Stato ristabilisce subito l’equilibrio. Allo stesso modo lo Stato stabilisce i prezzi delle merci, decide il numero di coloro che si dedicano ai mestieri, fornisce strumenti di lavoro agli agricoltori, abitazioni, vestiario, eccetera.
Lo Stato commerciale chiuso (che è tale perché in esso i governanti devono porsi come obiettivo una piena autarchia, e di conseguenza i privati non possono commerciare con l’estero) è chiaramente uno Stato interventista-autoritario, in cui la libera iniziativa dei cittadini è pressoché annullata.
Questo modello autoritario si carica di motivi nazionalistici nei celebri Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808). Naturalmente, non bisogna perdere di vista il fatto che con tali Discorsi Fichte reagiva alla dominazione francese sulla Germania. Ma in essi svolge un ruolo prepotente un popolo (Volk), anzi un «popolo originario» (Urvolk), il popolo per eccellenza: ovvero i Germani, che furono il ceppo originario delle nazioni dell’Europa post-romana. Qui ogni spunto democratico-liberale è scomparso, e Fichte incomincia un cammino che darà tristi frutti nella storia tedesca. Utilizzando alcuni risultati della linguistica romantica, il filosofo si propone di dimostrare la potenziale superiorità del popolo tedesco e la missione rigeneratrice che la storia gli ha assegnato. Infatti le popolazioni di stirpe germanica parlano una lingua «viva», mentre i popoli neo-latini si esprimono in lingue morte. Solo i Tedeschi producono una cultura autentica, fondata sull’unità di pensiero e azione, capace di estendersi a tutto il popolo; i popoli non germanici, invece, producono una cultura astratta e formale, limitata ai ceti più elevati. In altri termini - come ha osservato giustamente Massimo Mori nel suo libro La ragione delle armi - per Fichte soltanto i Tedeschi costituiscono un vero popolo e una vera nazione.
La questione Heidegger. Jean-Luc Nancy riapre il dossier
di Luigi Azzariti-Fumaroli (Alfabeta-2, 30 luglio 2016)
In un saggio apparso nel 1969 Iris Murdoch osservò che «in filosofia è difficile capire se si sta dicendo qualcosa di sensato e obiettivo o se si sta solamente erigendo una barriera, adatta al proprio temperamento, contro le proprie paure personali». L’affermazione, una volta sottratta a labili letture esistenzialiste, sembra introdurre a un piano che non può essere compreso concettualmente, poiché esso è appena illuminato da una luce fioca ed incerta, che lascia soltanto cogliere l’ombra sfuggente che «dorme addosso e ferisce il fianco» d’ogni pensiero. La biografia di Martin Heidegger, a dispetto di quanti vorrebbero mantenerla avvolta in un’olimpica perfezione aliena a ogni tremito, è, nel Novecento, fra quelle che maggiormente tradiscono fragilità alla luce delle quali un’intera filosofia si rivela racchiusa in un disperato solipsismo.
A questo riguardo, se le congetture a proposito di un tentativo di suicidio che si sarebbe verificato fra il 1937 e il ’38 non sono mai state suffragate da prove certe, è però senz’altro vero - come ha documentato anni fa Michele Ranchetti - che nell’estate del ’45 Heidegger fu ricoverato in una clinica psichiatrica a seguito di un crollo nervoso. Nel diario ch’egli tenne in quei giorni si rinvengono alcune affermazioni decisive per provare a condurre un’analisi che non si risolva nell’accertamento dell’evidenza frontale della sua riflessione, ma tenti di cogliere ciò che in essa giace sul fondo, trasversalmente. Vi si fa riferimento, in particolare, a una «situazione di smarrimento, di stallo, di disperazione», che parrebbe «del tutto consueta»: è - scrive - «la descrizione della mia normalità», «e forse della mia filosofia».
Prestando fede a tale confessione, e dunque accedendo all’idea che il pensiero heideggeriano smarrisca ogni punto di riferimento, procedendo alla deriva sino al definitivo naufragio, si può meglio riflettere sul perché a partire dai Contributi alla filosofia del 1936-1938, quasi non vi sia pagina - ha osservato Franco Volpi - non intrisa «dalla triste luce dell’esaurimento», mentre l’Essere sarebbe rimasto «l’ultima chimera che valesse la pena sognare», lasciandosi ogni volta sorprendere dalle sue mutazioni sempre eccedenti l’essere-sé o l’essere come sé.
Tale era stata l’immagine di Heidegger che maggiormente si era imposta nel corso della seconda metà del Novecento; suscitando, specialmente in ambito francese e italiano, una sorta di attrazione onirica, sospesa fra coscienza e incoscienza. Il progresso «inedito e irreversibile» aperto nella storia della filosofia dall’autore di Essere e tempo, specialmente negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si volle rinvenire nel considerare l’essere «non come ciò che non può non essere, bensì come ciò che diviene, che nasce e muore, che ha una storia»: un essere «tarlato», secondo l’icastica definizione di Gianni Vattimo.
Ancora di recente Jean-Luc Nancy, in un saggio tempestivamente tradotto da Antonella Moscati per Cronopio, scrive al riguardo: «non possiamo non riconoscere che proprio da Heidegger sono venuti gli slanci e gli sforzi che avrebbero aperto nuove strade», percorrendo le quali si sarebbe pervenuti a concepire l’essere al di fuori di qualsiasi sua esatta determinazione, inducendo non da ultimo a profilare la possibilità di un’affinità segreta fra la sua filosofia e «un certo ebraismo». Ma tale ultima evenienza - avverte lo stesso Nancy - si rivela ormai insostenibile: troppo acuto è il suo stridere con quanto, a mano a mano che la loro pubblicazione procede, si evince in modo inconfutabile da alcuni passi dei Quaderni neri (pubblicati in Italia, fra rumorose polemiche, da Bompiani: di quest’anno il secondo volume, che comprende i quaderni del 1938-39), nei quali le proposizioni di chiaro segno antisemita, e le conseguenti affinità e sincronie ideologiche con le politiche naziste, frangono ogni silenzio, vanificando ogni tentativo di voler dedurre proprio da questa sigetica, da questa strategia del silenzio - come, nel 1988, suggerì Derrida -, un retaggio ancora da pensare.
Nancy lo osserva con amaro disincanto, incapace di trovare una spiegazione per l’abiezione con la quale una filosofia, ch’era parsa svettare per originalità e rigore su tutte le altre, si mostra sempre più frammista. È, quello di Nancy, un travaglio segnato da un’ideale agnazione tradita, da un’eredità guasta che, fino all’ultimo, si vorrebbe riscattare: ravvisando una giustificazione plausibile a ciò che l’evidenza condanna come osceno, quale modo d’essere che «appartiene a ciò che è totalmente privo di grazia».
Quanto emerge dai Quaderni inficerebbe infatti proprio quel richiamo alla grazia che Heidegger in più luoghi della sua opera non manca di compiere, certo consapevole che il greco «charis» a sua volta traduce il nome ebraico (chen) nel quale si condensa «l’ingiustificabile giustificazione che può venire dal completamente-fuori».
Sarebbe sotto questo profilo riduttivo ricondurre - come voluto dal curatore dell’edizione originale dei Quaderni, Peter Trawny, in Heidegger e il mito della cospirazione ebraica (Bompiani 2015) - la portata delle annotazioni redatte nell’arco di un quarantennio, dal 1930 al 1970 (e consegnate agli Schwarze Hefte, con l’espressa volontà di non renderle pubbliche fino a quando non fosse terminata l’edizione delle Opere complete), a un istupidirsi del pensiero del filosofo tedesco, quasi suo malgrado trascinato «nella peggiore e più malevola banalità» dal torbido vaniloquio fomentato dai Protocolli dei Savi di Sion. Occorre piuttosto tornare a considerare l’intero precipitato heideggeriano, senza indulgere in ammirazioni supine, né in transfert a occhi aperti.
Ed è a questo approdo che, con formidabile capacità d’analisi, invita la lezione di Nancy, nel soffermarsi a considerare la palinodia che Heidegger di nascosto parrebbe aver costantemente compiuto rispetto a un pensiero che dichiarava e rivendicava, con mirabile persuasione illusionistica, definitive differenze rispetto a ogni altra ontologia della pura presenza, ma che nelle sue latebre era affetto da un’inesorabile sclerosi autarchica, unita alla più bigia e greve xenofobia.
Come, in Da fuori (Einaudi 2016), ha con lucidità osservato Roberto Esposito, il tratto precipuo delle analisi di Heidegger è da considerarsi dominato da un assoluto accentramento: l’intera sua semantica non può infatti che dirsi dominata da un «centro raddoppiato su se stesso». È dunque a cospetto di tale egotismo che deve porsi l’interrogativo già avanzato da Derrida e rilanciato da Nancy: se una metafisica razzista e in particolare antisemita, che, contrariamente a quanto sostenga una certa «filologia col botto», i Quaderni neri attestano in diversi passi, sia più o meno grave di un naturalismo o di un biologismo razziali. Le risposte che al riguardo sono provenute hanno voluto sottolineare il nesso che legherebbe Heidegger a una lunga serie di filosofi, cominciando da Agostino e proseguendo fino a Nietzsche, accomunati da un inquietante spregio nei confronti del popolo ebraico.
In questo senso secondo Donatella Di Cesare, autrice di Heidegger e gli Ebrei e di Heidegger & Sons (Bollati Boringhieri, 2014 e 2015), più che al nazionalsocialismo, per spiegare l’avversione che il pensiero heideggeriano nutre nei confronti degli ebrei, occorrerebbe far riferimento al loro essere un popolo senza radici, e per questo scisso, separato da un Essere che Heidegger, contrariamente a quanto tentato in Essere e tempo (1927), pare sottomettere sempre più a un ordine di discorso concluso e rigidamente determinato.
Ma il limitarsi a ritenere, assecondando il dettato dei Quaderni, che l’antisemitismo sorga in Heidegger in ragione di una possibile equivalenza fra ebraismo ed entificazione dell’essere, come si trae dai contributi recentemente raccolti in Reading’s Heidegger’s Black Notebooks (MIT Press 2016), se dà ragione di un progressivo coincidere della sua ontologia con le coercizioni omologanti proprie di un universo concentrazionario, non è sufficiente. Seguendo questo indirizzo interpretativo, si mancherebbe infatti di considerare che il pensiero ebraico produce una desostanzializzazione dell’«indogermanico essere» nella misura in cui lo immette in un divenire, in un avvenire, in un incontro, così da introdurre a una dimensione in cui è dato pensare - nelle parole di Nancy - un esistere «senza denominazione e senza destinazione».
La massima distanza fra l’ontologia heideggeriana e l’Être juif sarebbe pertanto da far risalire all’apertura di quest’ultimo a quella paradossale insecuritas di cui Abramo, chiamato a essere straniero abitando, appare la più emblematica incarnazione. «Al mito di Ulisse che torna ad Itaca», il pensiero ebraico - ha scritto in un’intensa pagina Emmanuel Levinas - «contrappone la storia di Abramo che abbandona per sempre la propria patria per una terra ancora sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre perfino suo figlio a quel punto di partenza».
All’opposto, in Heidegger l’idea di erranza è sempre destinata a un compimento, a una meta, a una risposta. Aver creduto il contrario, ritenendo che nella sua riflessione gli estremi dell’ebreo-greco e del greco-ebreo potessero incontrarsi, è forse l’errore con il quale - ammette anche Nancy - occorre misurarsi, non tanto per chiarire il peso che la «questione ebraica» riveste in Heidegger, quanto perché il suo antisemitismo comporta l’«aggravarsi» di un pensiero che, movendo dall’esegesi heideggeriana, aveva inteso verificare le condizioni di possibilità per un superamento del nostro vivere nella e della differenza fra l’Ebreo e il Greco, onde consentire «il movimento della significazione» al di là dell’ontologia. «Non basta» - scrive risoluto Nancy - «che essere non si sottometta ad alcuna “ontologia”», occorre assumere il rischio di ricominciare a pensare senza ambire ad alcuna conclusione, ad alcuna identità che non sia, insieme, alterità, ad alcuna presenza che non sia anche assenza. Solo «per questo - notava Fëdor Tjutčev - deve esserci la notte paurosa».
Heidegger e la traduzione di Alfieri che ristabilisce la verità.
di Alfredo Marini (Barbadillo. 10 luglio 2016)
Come forse è noto, le opere complete di Martin Heidegger sono in stampa da decenni per la cura del professor von Herrmann, suo collaboratore di piena fiducia all’Università di Friburgo in Brisgovia. L’ultimo gruppo di testi - tenuti per 46 anni, dal 1930 alla morte - è costituito da taccuini personali: comuni quaderni per appunti e brogliacci, dalla copertina di tela cerata nera. I pensieri qui registrati si susseguono senza un piano né una selettività tematica: non sono «un libro». Se di un diario si trattasse, sarebbe di eventi del tutto speciali: qualcosa che appartiene alla «storia dell’essere». Un concetto originale, questo, esclusivamente heideggeriano.
La heideggeriana storia dell’essere, infatti, non è quella dei fatti quotidiani (di cui i giornali fanno la cronaca) e neppure quella dei fatti storici (quelli di cui si occupa la cosiddetta storiografia).
Tutti i «fatti» di questo tipo, compresi gli uomini in carne e ossa (ad esempio le società storiche), sono concepiti dalla nostra cultura come degli enti (cose, appunto) e anche i nessi che venissero stabiliti tra questi enti sarebbero per Heidegger di nuovo degli enti: sempre «cose», dunque! Fatti «atomici»! Sia pure di tipo diverso perché, a suo parere, nella nostra civiltà il pensiero che li pensa è pur sempre un pensiero di tipo «calcolante» (che in ultima analisi riduce ogni ente, e perfino se stesso, a un «sassolino» o un insieme di sassolini). Invece l’essere corrisponde a un altro pensiero (che Heidegger chiama poetante o rammemorante).
Se c’è una cosa antiheideggeriana è proprio quella di filosofare su base ideologica (per esempio a partire da «Hitler» o dagli «ebrei», o dalla «classe operaia» o dal ceto medio borghese, o dal «vero credente» che dir si voglia), cioè mitizzando un ente: non sarebbe che una forma raffinata dell’antica idolatria.
Il suo pensiero è l’opposto! Ma «tanto opposto» che non consiste neppure nel tagliare l’erba sotto i piedi (er-örtern) all’idolatria o alla mitologia quali armi e strumenti di controllo delle masse perché, al limite, anche il divieto di nominare - «invano» come dice il Vangelo, o «per fini politici» come fa la gente, o «per definizione» come fanno i teologi - il nome di Dio, può fare di Dio un idolo. Detto questo, veniamo ai fatti.
Primo. Il dottor Peter Trawny, lo studioso tedesco al quale von Herrmann aveva affidato l’incarico di redazionare questi testi (nove volumi in tutto), si sarebbe rivelato inadatto allo scopo. Egli avrebbe approfittato dell’incarico per scrivere, e lasciar trainare dalla scia del testo heideggeriano, un proprio tendenzioso saggio interpretativo parallelo (cosa già interdetta per contratto da Heidegger stesso). Ma, peggio, avrebbe strumentalizzato il testo di Heidegger utilizzando indegnamente, su circa 1.250 pagine, quegli scarsi quattordici passi relativi agli ebrei e all’ebraismo, dove l’autore sembra estendere genericamente anche agli ebrei un modo di pensare che gli ideologi esistenzialisti, marxisti o nietzscheani critici della modernità europea avevano considerato tipico di questa modernità (il cosiddetto pensiero calcolante), facendo credere all’ingenuo lettore che proprio la critica degli ebrei fosse la pietra angolare della sua filosofia (a parte il fatto che Heidegger ha dichiarato di non essere un filosofo ma solo un ermeneuta) e costituisse, insieme, la famosa «prova» del suo antisemitismo.
Dai tempi delle antiche voci (calunnie) circa l’antisemitismo di Heidegger, tale «prova» era stata sempre di nuovo invocata da un odio pari alla stupidità che lo nutriva - ma mai trovata. Va notato che Trawny avrebbe dapprima proposto questa tesi in termini dubitativi, ma poi (dato che lo scandalo avrebbe prodotto un aumento delle vendite) si sarebbe spinto o sarebbe stato spinto a fomentare un proselitismo frenetico fondato su falsi presupposti di appartenenza politica o morale.
Secondo punto. Il 12 maggio scorso all’università di Pavia, von Herrmann, Alfieri e altri appassionati studiosi hanno presentato il volume Martin Heidegger. La verità sui «Quaderni neri». Nel libro, attraverso una discussione dettagliata e competente, si chiariscono analiticamente i termini e i contesti in cui essi compaiono. Ciò che emerge dalla magistrale traduzione alternativa di Alfieri (quasi duecento di pagine dei Quaderni) e dalla sua analisi stratificata e comparata di diversi nuclei di senso riportabili a decine di termini-chiave («nazionalsocialismo», «questione dell’essere», «Hitler», «lotta») è la possibilità di prendere le misure delle omissioni e delle forzature operate sia nella redazione tedesca dei testi che nella traduzione italiana che vi si aggiunge.
Lo scopo è ristabilire la verità circa il testo e il senso autentico degli scritti di Heidegger e rispetto a quei quattordici passi, in alcuni dei quali gli ebrei sono inclusi in un giudizio negativo che li accomuna ai tedeschi e a tutta la civiltà occidentale. Alla fine, con una traduzione corretta, l’impressione è che i testi non possano dare adito ad alcuna delle supposizione pseudofilosofiche di cui si vocifera. Si tratta di un contributo tecnicamente di eccezionale valore. Eroico, aver dedicato tanta esattezza e passione solo per togliere fiato a quelle fesse trombette la cui vera natura, a un orecchio abbastanza esercitato e cólto, sonitu ipso patet!
Secondo Dilthey e il conte Yorck von Wartenburg (per restare in Germania) la «ragione» dell’Occidente è costituita dall’intreccio essenziale tra grecità (intelletto), romanità e giudaismo (volontà), germanesimo (sentimento). Ma qualche sepolcro imbiancato crede sempre ancora di poter insorgere stracciandosi le vesti e gridando al reato di leso ebraismo per le proprie vendette private (che, da megalomani, credono «politiche»).
Paradossalmente, dopo i delitti di Hitler la parola giudeo è stata abbassata a puro insulto, come ladro o negro (bisogna dire non-ariano? Diversamente onesto? Non si può più dire che negro-è-bello perché questi logici rigorosi vi ravvisano un’insanabile contraddizione?). Dire, sia pure di passata e dopo gli stoici e Filone, che gli ebrei abbiano mai avuto qualcosa in comune con la metafisica occidentale - questo sarebbe antisemitismo? E se Heidegger è un filosofo, questo sarebbe introdurre il nazismo nella filosofia?
Storia. Mentre compone una cartografia del discorso nazista, Johann Chapoutot sottrae a quel crimine e a quella colpa ogni pretesa di eccezionalità: «La legge del sangue»
di Massimiliano De Villa (il manifesto, 17.07.2016)
«La poiana non avrà mai il suo nido insieme al pipistrello»: perentoria, anzi apodittica, la sentenza si affaccia dalle Fonti del diritto tedesco di Walter Buch, giudice supremo del partito nazionalsocialista. Dentro questa sola immagine, la più secca smentita dei Lumi e della Rivoluzione francese: è chiaro che l’egualitarismo orizzontale, uscito dalle fucine del pensiero illuminato e rivoluzionario, non incontra il favore delle camicie brune. «L’essenza, non solo degli uomini ma anche di ogni cosa, è la differenza», seguita l’autore imboccando la strada del paradosso. Che di paradosso si tratti è evidente al lettore odierno, che conosce le conseguenze e le ricadute storiche di questo pensiero, ma non lo era a chi scriveva queste parole o ai destinatari del messaggio, immersi in un quadro culturale coeso e inossidabile. Questo che inneggia alla differenza come valore aggiunto sembrerebbe uno slogan multiculturale, non fosse per il richiamo all’«essenza», concetto fermo e stabile, che traccia il perimetro di una costituzione originaria, non negoziabile e legata alle cose nel loro primo manifestarsi.
Un’essenza che, percorrendo il filo di questa logica, fonda la differenza e chiede di essere salvaguardata a ogni costo. Un’essenza che alberga nel sangue. E il sangue è - sempre seguendo da vicino l’argomentazione compatta e legnosa del nazipensiero - concetto passe-partout e vera testata d’angolo: strato oscuro e pesante che chiama alla vita, che scorre nella catena dei padri e delle madri, che nutre l’individuo, nel discendere delle generazioni.
È per le vie del sangue che si strutturano l’identità e l’appartenenza, nel legame con i gangli dell’esistere, con i nuclei biologici primari. Nel sangue si determinano la volontà e il pensiero, si cementa una comunità di uomini. Uomini del passato, del presente e del futuro, che dividono la stessa sostanza biologica. Quella tedesca - recitano monocordi gli scritti di diffusione del discorso nazista - è una «comunità del sangue», il cui vincolo si rinsalda lì dove la vita, la vita pura, trae origine e che congiunge anello ad anello nella continuità della discendenza, facendo della comunità popolare germanica un grande, secolare organismo.
In gioco è dunque lo ius sanguinis, e della specie più scura, che unisce i fratelli di stirpe nel rifiuto di quanti a questo sangue non partecipano. La sostanza germanica è, prima di ogni costruzione culturale, l’evidenza di un sangue che è necessario isolare, analizzare nella sua purezza, proteggere da contaminazioni e misture: da qui l’esclusione dei corpi estranei, gli ebrei prima di tutto, ma non solo. Sono questi i fondamenti della giurisprudenza nazista e della sua legislazione razziale. Niente di nuovo fino a qui, soprattutto nelle strettoie della sintesi.
Nella pioggia di studi sul nazismo composti in mille chiavi - storica, sociologica, politica, filosofica, antropologica, teologica - e nella gamma qualitativa che naturalmente accompagna la quantità, il libro di Johann Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti (traduzione di Valeria Zini, Einaudi, pp. 463, euro 32,00) si distingue per taglio e accuratezza, essendo tutto fuorché sintetico e semplificatorio. Tema fondante del volume è la ricostruzione dell’universo mentale che unisce, in un unico orizzonte di riconoscibilità, tutti gli attori del discorso nazista, dagli ideologi, ai quadri, ai militanti, agli sgherri, ai criminali senza ulteriore sfumatura.
Le coordinate del pensiero nazista sono nette, percorse dalla forza e dalla rigidità dell’assioma, e descrivono la «coerenza rassicurante di un sistema chiuso, che si basava su alcuni postulati particolaristici e sulla deduzione implacabile delle loro conseguenze». Il merito del saggio di Chapoutot è nel disegno di una geometria del discorso nazionalsocialista, nella ricostruzione di un quadro di riferimento comune, il cui universo di significati, di principi e di (dis)valori viene scandagliato in modo reticolare, a partire dai nodi concettuali e lungo i rami delle loro molteplici variazioni e modulazioni.
Data per acquisita la sempre necessaria riflessione sulla dialettica tra cultura e barbarie, sul fondamento distruttivo di ogni umanesimo; bandita ogni scorciatoia che derubrichi il pensiero e soprattutto le pratiche del nazismo a figli di un’aberrazione vertiginosa o a esiti di un folle calcolo - la famosa «lucida follia», sintagma che, passando di bocca in bocca, si è da tempo logorato - lo studio di Chapoutot attinge a un serbatoio documentale di amplissima portata: un corpus di scritti - più di un migliaio - che vanno dalla scrittura pubblica a quella privata e passano per pagine di carattere informativo o divulgativo, per volantini ad usum militis, opuscoli, colonne di quotidiano, pamphlet, discorsi pubblici, stralci di diario o di lettere fino alle immagini squadrate e icastiche dei filmati didattici di regime.
Su queste testimonianze si struttura l’orientamento culturalista al nazismo di Chapoutot che, stazione dopo stazione, attraversa tutti i cardini del discorso bruno: la battaglia ingaggiata contro il giudaismo e il cristianesimo, colpevoli di avere instradato la serena e luminosa naturalità germanica verso una sterile antinatura, gravata dalla colpa e dal peccato, segnata dalla condanna del corpo e, va da sé, porta d’accesso di ogni stortura figlia della repressione. E ancora, per conseguenza, la paganizzazione della religione o, come minimo, la sua degiudaicizzazione per consentire a un tedesco di ceppo sano e di pura razza di seguire un profeta nato in Giudea. Resta comunque il fatto che «Gesù ha più familiarità col lago di Tiberiade che con le dune di Rügen».
Poi il rifiuto del diritto romano, soprattutto nella sua versione tarda e bizantina, e la rifondazione di un diritto germanico ancorato alla vita e alla forza, al senso buono del contadino che vive in accordo con le leggi della terra e con i cicli delle stagioni. Un’archeologia normativa, dove l’arcaico è la cellula primordiale per una rifondazione giuridica della nuova Germania.
Ancora, di capitolo in capitolo, Chapoutot descrive le politiche razziali, con gli inviti alla procreazione e la selezione, su base eugenetica, dei più forti e dei migliori, la sterilizzazione dei soggetti la cui prole sarebbe indesiderata, lo sbarramento della via patologica per una comunità dove lo spazio è riservato, in esclusiva, ai puri e ai sani. In una parola, ciò che il pensiero nazista pretende è la revoca risoluta della dottrina della pietà, frutto avvelenato offerto da rabbini e preti, da sempre nemici della vita, alla nobile semplicità delle stirpi germaniche.
Il transito dalla biologia alla storia avviene poi, per estensione concettuale, sulle cadenze della legge del conflitto, la guerra razziale che apre, per ineludibile necessità storica, gli spazi dell’Est all’eterno popolo germanico, costretto in una terra insufficiente che ne frena la propulsione. Di qui, il tempo storico si squarcia verso l’escatologia del Regno, raggiunge la frontiera del millennio e va oltre, stabilendo il governo sul mondo, in un compiersi del tempo che è nient’altro che una rimasticatura, in chiave politica, di un messianesimo depurato dalla grammatica giudaico-cristiana.
All’avanzare degli anni e al restringersi degli spazi di libertà, la pretesa del sangue è sempre più imperiosa e, dal 1939 al 1945, si riversa nell’eliminazione di quella sub-umanità esclusa dal tocco aureo della purezza biologica: malati ereditari, individui asociali, nemici del popolo, fino alla creazione dell’universo concentrazionario, nella logica d’acciaio di un umanitarismo inverso: «Esigere che individui difettosi non possano più generare altri scarti», infatti «è l’atto più umano dell’umanità» perché «là dove regna veramente la volontà di Dio, nel cuore della natura, non si trovano tracce di pietà per il debole e per il malato».
Questo è ciò che si ritrova nel volume di Chapoutot: un’esatta cartografia del discorso nazista nella sua coerenza interna e, allo stesso tempo, una tessera significativa di storia sociale e intellettuale che toglie al crimine ogni manto di eccezionalità: recingere l’orrore dentro lo steccato della mostruosità e dell’incomparabilità è, infatti, operazione tra le più pericolose e facile via alla rimozione. «Facendo dei criminali soggetti estranei alla nostra comune umanità» - questo è il rischio che Chapoutot addita in ogni sua pagina, l’avvertimento che trapela dietro ogni stralcio documentale - «noi ci esoneriamo da ogni riflessione sull’uomo, l’Europa, la modernità, l’Occidente, su tutti i luoghi che i criminali nazisti abitano, dei quali partecipano, e che noi abbiamo in comune con loro».
Mosè va dallo psicologo
Da Freud agli esegeti più recenti questa figura continua a suscitare interesse e interrogativi sulla sua storicità
di Gianfranco Ravasi s.j. (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.07.2016)
«Questo lavoro che prende le mosse dall’uomo Mosè sembra al mio spirito critico una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». Questa confessione di Freud riguardo al trittico di saggi raccolti sotto il titolo L’uomo Mosè e la religione monoteistica è condivisa dalla maggioranza degli esegeti che hanno letto quelle pagine; anzi, essi sono per lo più convinti che la ballerina abbia alla fine perso l’equilibrio e sia piombata a terra.
Tuttavia è indubbio il fatto che, come spesso accade, non si possa del tutto uscire indenni da una lettura provocante e provocatoria. È ciò che suggerisce di sperimentare il libretto che raccoglie un’analisi succinta di quello scritto freudiano approntata da Pier Cesare Bori, un noto docente di storia delle dottrine teologiche, morto nel 2012 a Bologna ove insegnava. A lui, tra l’altro, dobbiamo (con Giacomo Contri ed Ermanno Sagittario) la migliore versione del Mosè freudiano, edita da Boringhieri nel 1977.
Bori, anche se più anziano di cinque anni, era stato mio compagno di studi teologici presso l’Università Gregoriana di Roma. Poi le nostre strade si erano divaricate, non solo per ragioni topografiche (lui era di Casale Monferrato e forse alla sua fine, sia pure tardivamente, ha contribuito l’inquinamento da Eternit), ma anche religiose. Egli era, infatti, successivamente approdato all’«Associazione religiosa degli Amici», i cosiddetti Quaccheri (da quake, “tremare” davanti al Signore), una confessione fondata nel 1649 dall’inglese George Fox, priva di ogni predicazione, rito, sacramento, ministri, affidata solo al silenzioso incontro personale con Dio. Ritrovo ora la sua acribia e finezza ermeneutica in questo breve testo, ampiamente introdotto da Gianmaria Zamagni che ci conduce, però, con acutezza anche nell’orizzonte della particolare e “ballerina” esegesi di Freud.
Come riassume lo stesso Bori, tre sono le tesi centrali: l’origine egizia di Mosè; la sua sorte tragica, simile a un parricidio operato dagli stessi Ebrei (su questo il padre della psicanalisi si appoggiava a un’interpretazione ipotetica di un noto esegeta tedesco, Ernst Sellin, riguardo a un passo oscuro del profeta Osea); infine il dualismo tra il culto e il legalismo jahvista, da un lato, e il monoteismo puro, propugnato poi dai profeti, dall’altro.
La questione della dipendenza del monoteismo ebraico da quello professato dal faraone Akhnaton, attraverso la fede nell’unico dio solare Aton, connessione fieramente dibattuta e controversa, permette però di affrontare indirettamente un quesito più generale, quello del rapporto complesso e rilevante tra storia e religione. Non per nulla il titolo del saggio di Bori è emblematico: È una storia vera? Ed è facile immaginare quanto sia arduo discernere i due fili nel groviglio del loro intrecciarsi, annodarsi e ingarbugliarsi.
Gli stessi interrogativi, puntati soprattutto sul monoteismo, hanno coinvolto la ricerca anche di uno dei più famosi egittologi contemporanei, Jan Assmann, che però ha allargato il ventaglio delle sue analisi oltre il perimetro storico-filologico per inoltrarsi nell’orizzonte più fluido del nesso tra cultura e religione. Tra l’altro, la sua analisi si è incrociata con quella dello studioso bolognese, tant’è vero che ne è nata una Lettera a Pier Cesare Bori che si può leggere nello scritto di Assmann Monoteismo e distinzione mosaica, edito dalla Morcelliana nel 2015. A tradurre quella lettera era stata Elisabetta Colagrossi alla quale dobbiamo ora una suggestiva intervista all’egittologo, autore lui pure di un Mosè l’egizio (Adelphi, II ed. 2007). Il dialogo permette di ricomporre la mappa dei «sentieri teorici e autobiografici» percorsi da questo “archeologo” della memoria e dei popoli, divenuto noto per la sua rovente (e contestata) tesi sulla radice violenta dei monoteismi.
In queste pagine vengono ovviamente affrontati in modo sintetico i tanti itinerari di ricerca assmanniani. Noi ne vogliamo segnalare due in particolare. Il primo concerne la cosiddetta “distinzione mosaica” formulata dallo studioso nel 1995, riguardante la distinzione tra vero e falso.
Sentiamo lo stesso autore: «La mia tesi afferma che essa non appartiene alla religione. Nella religione si tratta di ciò che puro e impuro, santo e profano, giusto o sbagliato nello svolgimento dei riti, ma non di ciò che è vero e falso. Questa distinzione appartiene alla scienza, che lavora per dimostrazioni, come la logica, la matematica, la storia, la giurisprudenza, ma non alla religione. In tale dominio essa è penetrata per la prima volta col monoteismo, che delimita il vero Dio rispetto ai falsi dèi e il vero credo rispetto alla falsa credenza e all’eresia».
L’altra tesi di Assmann che segnaliamo è quella della cosiddetta religio duplex. In pratica si confrontano, per contrappunto o per dialettica, in duello o in duetto secondo i casi, una verità religiosa rivelata e una di indole più naturale e universale. Si delinea così, nella storia dell’umanità una sorta di doppia verità che spesso si polarizza, pur avendo talora tangenze e convivenze personali e sociali. Si configura in tal modo «una sovra- o inter-religione, una religione naturale, comune a tutti gli uomini, al di là delle loro religioni positive ereditate». La declinazione di questa dualità si attua nel contrasto o confronto tra fede popolare e religione codificata, affidata a una rivelazione, a misteri e riti, tra una spiritualità personale e una religiosità pubblica, tra una epifania cosmica, essoterica cioè aperta a tutti, e una teofania circoscritta ed esoterica.
È facile intuire in quale linea prevalentemente si collochi, secondo Assmann, il monoteismo all’interno della religio duplex. Significative sono le ultime battute dell’intervista, in cui lo studioso rimanda alla famosa parabola dei tre anelli di Lessing per concludere - con una punta di relativismo faticosamente esorcizzato dallo stesso autore - centrando ancora una volta la sua batteria contro il monoteismo: «Il problema del monoteismo della verità risiede nel suo pretenzioso concetto di rivelazione, con la sua paradossale connessione di esclusività e universalità. Ci sono molte religioni, ma non può esistere più di una verità assoluta e universale».
La cosiddetta “teologia fondamentale”, interpellata da tempo su questa aporia, ha elaborato una serie di repliche che non trovano, però, eco nelle pagine di Assmann e questo è un po’ dovuto anche all’autoreferenzialità che relega spesso la teologia sistematica nell’hortus conclusus delle accademie teologiche.
Il congedo magistrale
«Banalità di Heidegger», edito da Cronopio in libreria da domani
Un’anticipazione tratta dal nuovo libro di Jean-Luc Nancy
La questione dell’antisemitismo non lascia dubbi: c’è un legame insostenibile con il pensiero e con il suo impianto
di Jean-Luc Nancy (il manifesto, 29.06.2016)
La sfida della lettura di Heidegger, e soprattutto dei suoi testi più esposti alla condanna o all’anatema, è quella di condurci ancora una volta, ma con una potenza tutta particolare, di fronte all’esigenza di interrogare ciò che, con «il mondo moderno», è accaduto al mondo - e al mondo in quanto tale, al mondo, cioè, come presunta configurazione di una o più possibilità di costituire, ricevere e condividere senso (qualunque cosa s’intenda con questo termine). Ed è stato proprio Heidegger che ha operato la prima metamorfosi della questione filosofica del senso, definendola come la questione del «senso dell’essere».
Che il suo modo di porre la questione l’abbia condotto, non verso il nazismo come «visione del mondo» (espressione che rifiuta per motivi filosofici), bensì verso qualcosa che si può caratterizzare come «archi-fascismo», secondo un’espressione di Lacoue-Labarthe, o come una specie di rivelazione iperbolica di una verità dell’essere destinale e «in popolo» (uso la parola «rivelazione» con un’intenzione che preciserò più avanti) - ecco ciò che merita di essere analizzato da vicino, di essere smontato e sconfessato. Ma che si sia trattato di un gesto filosofico, è innegabile.
Questo non fa che rendere ancora più drammatiche le questioni che i suoi Quaderni ci mettono di fronte senza ambiguità. È evidente innanzitutto che la definizione di «antisemitismo storico-universale» è pienamente giustificata. Essa riassume ciò di cui la frase che abbiamo citato costituisce il primo nucleo: il popolo ebraico, in quanto tale, svolge un ruolo determinante, per non dire primordiale, nello «sradicamento dell’essere». Abbandonato a se stesso - «totalmente liberato» o «affrancato» - questo popolo si rivela particolarmente appropriato e dedito al compito dello sradicamento. È l’attore privilegiato del tramonto dell’Occidente o perlomeno ne presenta la figura più caratteristica.
Sorge una prima domanda: perché mai un movimento così ampio come quello che s’incarna contemporaneamente nell’americanismo, nel bolscevismo, nella democrazia, nella tecnica, nella razionalità e nell’oggettività deve fare ricorso a una figura particolare - se è vero che non sono tutti ebrei gli attori di questa storia catastrofica?
Questa necessità risponde al principio secondo il quale è necessario un popolo per mettere in opera ogni disposizione decisiva della storia-destino, la quale non è un semplice processo, ma un impegno, una decisione presa e ripresa sotto forma di figure determinate e dai portatori di tali figure.
Questa necessità prende qui una piega molto precisa e singolare: il popolo ebraico fa appello per se stesso a un principio razziale. Un tale principio proviene anch’esso da una «sottomissione della vita alla macchinazione». Ora la macchinazione che fa sorgere un tale principio naturalista conduce in direzione della «de-razzializzazione» (Entrassung) integrale di un’umanità ridotta all’uguaglianza indifferenziata di tutti gli enti.
È interessante notare che l’argomento non è molto lontano da quello usato da Marx per definire il denaro come «equivalente generale», nel quale viene alienata e livellata tutta l’umanità produttrice della propria esistenza e dunque del proprio valore o senso. Questo parallelismo nella percezione di un livellamento e di un’indifferenziazione si accompagna a un parallelismo di natura molto diversa: quello di una classe destinata a rovesciare i rapporti di classe e quello di un popolo destinato ad annullare le distinzioni di razza. Ciò che è comune a queste due prospettive è il ricorso a un’istanza determinata e privilegiata - di un privilegio che ogni volta si avvale della sua negatività: il proletariato e il popolo ebraico sono esclusi entrambi dall’umanità.
OPINIONI E CONFUSIONI
Sono entrambi dotati di un’identità tutta negativa e/o negatrice. Ciò che questo parallelismo, di cui non pretendo di approfondire l’analisi, suggerisce è un certo regime escatologico e figurale del pensiero: si avvicina una fine - una fine, quindi anche un inizio - e questo avvenimento richiede una figura, l’identificazione della forza annientatrice. Per Heidegger - che in questo caso non fa che confermare un topos che data almeno dal Rinascimento - il primo inizio è greco. La fortuna (Glück) dei Greci è stata quella di aver osato «determinarsi a partire dall’essere». Ed è per questo motivo che i Greci sono stati un popolo, il popolo dell’inizio.
Va notato che questa singolarità greca appare sola, priva di ogni rapporto con l’ambiente storico, mentre la storia che si apre a partire da quel momento si presenta subito, se non come cosmopolita, almeno come mescolanza e volgarità, di cui Roma fornisce la prima figura («dispotismo dell’opinione e confusione [Mischmasch]»), e che in seguito non faranno che aumentare. L’inizio si fa attraverso un popolo (nel senso forte del termine) e il declino attraverso la mescolanza, la confusione e l’indistinzione dei popoli in un’umanità che non pone abbastanza in alto l’humanitas dell’uomo come affermerà la Lettera sull’umanismo.
Il precipitarsi del declino che precede e annuncia la venuta dell’altro inizio si segnala, invece, mediante una figura - un popolo? Forse, ma allo stesso tempo anche il rovesciamento o addirittura la caricatura di un popolo - che concentra in sé i tratti e le disposizioni del declino. Da dove Heidegger prende questa figura? Semplicemente dal più banale, volgare, triviale e torbido discorso che da molto tempo vaga per l’Europa e da una trentina d’anni si avvale della miserabile pubblicazione dei Protocolli dei Savi di Sion.
La prossimità fra i discorsi di Heidegger e quel testo (il tema del calcolo, della democrazia, della manipolazione, dell’internazionalismo) non lascia dubbi. E non occorre nemmeno indagare se Heidegger abbia o meno letto quel falso grossolano e grottesco, la cui esistenza era semplicemente l’effetto e il riflesso di un’opinione ampiamente diffusa, accolta dappertutto e con sempre maggior interesse, via via che crescevano in Europa le ragioni di quel «disagio» di cui Freud aveva parlato nel 1930.
Già dal 1921 era stata riconosciuta la falsità dei Protocolli: nel mondo universitario e colto lo si poteva sapere. Nel 1940 restare vicini ai discorsi di quel testo, senza citarlo direttamente ma senza neanche prenderne le distanze, non poteva essere un caso. Heidegger sa bene quello che fa. Raccoglie la spazzatura banale per fini superiori. E questo vuol dire anche riconoscere una verità superiore dell’antisemitismo. Una verità talmente superiore da non poter diventare pubblica senza essere associata alle critiche al nazismo e al cristianesimo (diverse, certo, ma congiunte), di cui abbonda il testo delle Überlegungen che resta perciò privato e riservato a una pubblicazione lontana. Questa verità superiore è quella di cui ho appena tratteggiato lo schema. Tale schema merita di appoggiarsi sulla volgarità più diffusa, più odiosa e ottusa, perché tale volgarità dice a modo suo la verità dell’essere-ebreo, dello Judentum, entità e identità ben individuabili del precipitare del mondo nella volgarità, appunto, e in tutti i sensi del termine.
DEL RIFIUTO DI SÉ
Si potrebbe dire che Heidegger condivide la banalità di uno spirito pubblico per il quale gli ebrei incarnano un’insaziabile banalizzazione del mondo - la perdita dello spirito dei popoli nell’universale (all-gemein, come talvolta scrive) volgare. È il dispositivo di pensiero che va a cercare il tema dell’antisemitismo o è, invece, l’antisemitismo che suggerisce una parte del dispositivo? È difficile, probabilmente impossibile, dare una risposta. Per Heidegger l’antisemitismo non è soltanto un’atmosfera diffusa, perché a questa atmosfera appartiene tutta una vena di pensiero per certi versi già tradizionale: il pensiero del popolo, di una storia i cui momenti e le cui inflessioni appartengono ai popoli definiti come soggetti singolari o eccezionali. Nei primi venticinque anni del Novecento si è prodotta una congiunzione tra i temi del declino, della massa, della democrazia e le volontà di sussulto, rigenerazione ed eliminazione dei fattori morbosi dell’Occidente.
Heidegger collega strettamente la decostruzione (Abbau) dell’ontologia metafisica - grande gesto filosofico che prolunga e rilancia le premesse di Nietzsche, Kierkegaard e Husserl - e la distruzione (Zerstörung) di tutto questo e di coloro che gli paiono appunto distruggere il mondo e la storia. Come, per esempio, a proposito dell’interpretazione di Hölderlin che esige «anzitutto superare la storiografia (Historie)», cosa che richiede a sua volta «la distruzione dell’assenza di storia (o d’invio destinale, Geschichtslosigkeit)». Ora questa assenza di storia è un tratto distintivo dello Judentum, che d’altronde è caratterizzato dalla mancanza di tutto ciò che permette l’apertura al Seyn (suolo, invio, decisione, popolo). Si tratta quindi di decostruire la metafisica e distruggere le forze che portano a compimento la sua opera deleteria. Occorre distruggere la distruzione - che è già essa stessa una curiosa distruzione di sé (dello spirito dell’inizio).
La logica e l’economia di questa decostruzione/distruzione della distruzione propongono un intrico abbastanza curioso di auto-affermazione e auto-distruzione. L’Occidente si distrugge, compiendo così una necessità del suo invio iniziale e richiede la distruzione della propria distruzione al fine di liberare un altro inizio che, pur essendo altro, deve tuttavia essere il suo nella maniera più vera e autentica.
E se si trattasse di un rifiuto di sé all’interno dell’Occidente? È intorno a questo tema - presagito, ma mai sviluppato come tale - che qui s’intrecciano, con un legame tuttavia insostenibile, il pensiero e l’antisemitismo.
(la traduzione del libro è di Antonella Moscati)
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.06.2016)
Dopo la recente affermazione della destra xenofoba in Austria, a un passo dal vincere le elezioni, ho ripensato a ciò che scriveva Paul K. Feyerabend nella sua splendida autobiografia, intitolata Ammazzando il tempo e uscita per Laterza nel 1994, anno della sua morte, a 70 anni di età. Esordiva fin dalle prime pagine avvertendo degli strani scherzi che può fare la memoria: quelli in forza dei quali magari oggi ci si stupisce del rinascere di certe idee che pensavamo del tutto tramontate.
Aveva deciso di scrivere quel libro nel 1988, durante il cinquantenario dell’unificazione tra Austria e Germania. «Ricordavo che gli austriaci avevano accolto Hitler con straordinario entusiasmo, ma ora mi ritrovavo ad ascoltare condanne secche e toccanti appelli umanitari. Non che fossero tutti in malafede, eppure suonavano vuoti: lo attribuii alla loro genericità e pensai che un resoconto in prima persona sarebbe stato un modo migliore di fare storia. Ero anche piuttosto curioso. Dopo aver tenuto lezioni per quarant’anni in università inglesi e americane, mi ero quasi dimenticato dei miei anni nel Terzo Reich, dapprima come studente, poi da soldato in Francia, Iugoslavia, Russia e Polonia».
Persino lui, Paul K. Feyerabend, dunque, già allora quello spirito libero che poi sarebbe divenuto famoso come l’epistemologo dell’anarchismo metodologico, aveva subito una forma di attrazione per il regime, e aveva anche meditato di entrare nelle SS. «Perché? Perché un uomo delle SS aveva un aspetto migliore, parlava meglio e camminava meglio di un comune mortale: le ragioni erano estetiche, non ideologiche». Finalmente un libertario, un democratico capace di non cadere nelle trappole dell’ipocrisia! ho pensato ai tempi leggendo Ammazzando il tempo. E che ci fa capire meglio perché il nazismo potesse attrarre le giovani generazioni. Anche rivedere l’immagine stereotipata di Hitler era per Feyerabend un modo per capire meglio la realtà. Abbiamo visto mille volte spezzoni di documentari che ce lo mostrano come una macchietta in preda all’ira. Si tratta di una precisa scelta della propaganda post-bellica. Feyerabend descrive invece così la sua arte oratoria: «Hitler accennava ai problemi locali e a quanto era stato fatto fino ad allora, faceva battute, alcune abbastanza buone. Gradualmente cambiava il modo di parlare: quando si riferiva a ostacoli e inconvenienti aumentava il volume e la velocità del parlare. Gli accessi violenti che sono le uniche parti dei suoi discorsi conosciute in tutto il mondo erano preparati con cura, ben interpretati e utilizzati con umore più calmo una volta finiti; erano il risultato di controllo, non di rabbia, odio o disperazione».
Ancora oggi, se del nazismo non cerchiamo di capire le ragioni interne, e magari non ci spaventiamo a rileggere Mein Kampf, non sapremo mai perché esso ha appassionato così tante persone. E sarà anche più difficile difendere i nostri valori più cari: libertà, pluralismo, democrazia. Benché l’intelligenza critica di Feyerabend fosse già piuttosto acuta, al punto da commentare la lettura di Mein Kampf (ad alta voce alla famiglia riunita) come un «modo ridicolo di esporre un’opinione», «rozzo, ripetitivo, più un abbaiare che un parlare», egli stesso, pochi giorni dopo, avrebbe concluso un tema scolastico su Goethe legandolo proprio a Hitler. Non solo la memoria collettiva può fare brutti scherzi: anche la nostra attenzione critica è qualcosa di quanto mai fragile. Ma lo è ancora di più se ci rifiutiamo di rileggere senza ipocrisia le pagine più buie della nostra storia.
I confini del Mein Kampf
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 16.06.2016)
HO LETTO la prefazione che lo storico contemporaneista Francesco Perfetti (Luiss, Roma) antepone per una dozzina di pagine al volume. Nonostante le dichiarate simpatie politiche del professor Perfetti, la presa di distanza dallo scritto di Hitler è abbastanza netta anche se un tema così sanguinoso avrebbe meritato ben altro approfondimento. Una cautela editoriale comunque fragile. Il volume riproduce in anastatica l’edizione fascista pubblicata (Bompiani) tra il 1934 e il 1937.
C’è la breve prefazione allora scritta ad hoc dal Fuhrer e una “Vita di Adolf Hitler” redatta con molta enfasi. Il tono di questi contributi stabilisce la vera temperatura del volume delineando la figura di un eroe, come del resto l’asservimento dell’Italia fascista al Reich imponeva. Nulla quindi a che vedere con le cautele storico-critiche di ben altra serietà adottate in Germania dopo lungo dibattito.
Non so perché il direttore de Il Giornale abbia preso una decisione di tale gravità. Sono state fatte molte ipotesi che vanno dalla simpatia personale per quei giorni al calcolo elettorale in vista dei ballottaggi. Si tratta di illazioni e non ho elementi per commentarle. So per certo che pubblicare un volume che ha avuto un tale peso criminale nella storia umana comporta una responsabilità morale (come sottolinea anche la signora Heymann) che la frettolosa edizione italiana, a voler essere benevoli, ignora: il 1937 è l’anno che precede la promulgazione delle leggi razziali il cui fondamento si trova in queste pagine.
Leggere il Mein Kampf apre gli occhi
Il volume è utile per capire che il centro delle emozioni dell’estrema destra non è essere forti, ma la paura di essere deboli. Il senso di inferiorità spinge a voler dominare gli altri anche attraverso il terrore
di Carlo Rovelli (Corriere della Sera, 14.06.2016)
Il Giornale propone in edicola copie del libro di Hitler, Mein Kampf. Ci sono ragioni per essere offesi o disgustati da questa scelta, e Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale, lo dico apertamente, non è persona che mi piace. Eppure mi sono trovato d’accordo con lui quando, forse un po’ goffamente, ha provato a difendere la sua provocazione dicendo che per combattere un male bisogna conoscerlo.
Ho letto Mein Kampf qualche tempo fa, e effettivamente mi ha insegnato delle cose: cose che non mi aspettavo. Provo a riassumerle. Il nazismo è stato un feroce scatenarsi di aggressività. Dalla notte dei lunghi coltelli alla disperata difesa di Berlino, ha cavalcato la violenza estrema. La giustificazione ideologica immediata per la brutalità e la violenza era la superiorità della razza e della civiltà germanica, l’esaltazione della forza, la lettura del mondo in termini di scontro invece che di collaborazione, il disprezzo per chiunque fosse debole.
Questo pensavo, prima di leggere Mein Kampf. Il libro di Hitler è stato una sorpresa perché mostra cosa c’è alla sorgente di tutto questo: la paura. Per me è stata una specie di rivelazione, che mi ha d’un tratto fatto comprendere qualcosa della mentalità della destra, per me da sempre difficile da cogliere. Una sorgente centrale delle emozioni che danno forza alla destra, e all’estrema destra sopratutto, non è il sentimento di essere forti: è la paura di essere deboli.
In Mein Kampf, questa paura, questo senso di inferiorità, questo senso del pericolo incombente, sono espliciti. Il motivo per cui bisogna dominare gli altri è il terrore che altrimenti ne saremo dominati. Il motivo per cui preferiamo combattere che collaborare è che siamo spaventati dalla forza degli altri. Il motivo per cui bisogna chiudersi in un’identità, un gruppo, un Volk, è per costruire una banda più forte delle altre bande ed esserne protetti in un mondo di lupi. Hitler dipinge un mondo selvaggio in cui il nemico è ovunque, il pericolo è ovunque, e l’unica disperata speranza per non soccombere è raggrupparsi in un gruppo e prevalere.
Il risultato di questa paura è stata la devastazione dell’Europa, e una guerra con un bilancio totale di 70 milioni di morti. Cosa ci insegna questo? Penso che quello che ci insegna è che ciò da cui bisogna difendersi per evitare le catastrofi non sono gli altri: sono le nostre paure degli altri. Sono queste che sono devastanti. È la paura reciproca che rende gli altri disumani e scatena l’inferno. La Germania umiliata e offesa dall’esito della prima guerra mondiale, spaventata dalla forza della Francia e della Russia, è stata una Germania che si è autodistrutta; la Germania che, imparata la lezione sulla sua pelle, si è ricostruita come centro di collaborazione e di resistenza alla guerra è una Germania che è fiorita. A me questo insegnamento suona attuale. Forse ora nel mondo la paura reciproca sta aumentando, non lo so, ma a me sembra che noi siamo i primi ad alimentarla. Chi si sente debole ha paura, diffida degli altri, difen