DIO E RAGIONE, IL MONITO DI PASCAL
di SERGIO GIVONE (Avvenire, 18.02.2010)
Non il Dio dei filosofi, sosteneva Pascal, ma il Dio che è amore e tenerezza è il vero Dio. Da una parte, dunque, la filosofia e la ragione, dall’altra la fede. Mentre la fede attinge alla verità di Dio per una via tutta sua, misteriosa e luminosa come la certezza del cuore, la ragione ha ben poco da dirci in proposito, brancola nel buio, tutt’al più insegue un fantasma. Eppure, nel momento stesso in cui opera un taglio tanto netto, Pascal reimposta il problema filosofico di Dio con una radicalità ignorata dalla tradizione metafisica e da Cartesio in particolare. Problema che resta filosofico: si tratta pur sempre di pensare Dio. E di rispondere alla domanda: che cosa intendiamo con questo nome e con gli infiniti altri con cui lo designiamo? Che cosa significa questa figura, la più grande che si possa pensare, e soprattutto quella che può apparire per un verso necessaria e per l’altro superflua?
In margine al dialogo fra credenti e non che «Avvenire» sta sollecitando, va detto che c’è oggi chi dice, all’interno di una tradizione risalente all’empirismo e all’illuminismo, che di Dio possiamo benissimo fare a meno, non solo perché la scienza non ne ha bisogno, ma prima ancora perché non sapremmo come definire tale concetto. E c’è anche chi risponde, appellandosi invece a una tradizione di stampo idealistico, che Dio altro non è che il logos scientifico e cioè la sostanza razionale di tutte le cose. Queste due posizioni sono speculari. In fondo poggiano sullo stesso presupposto: che Dio sia tutt’uno con la ragione. Per cui è inevitabile trarre la conseguenza che se Dio è la ragione, Dio non è Dio. Con ciò, evidentemente, il problema posto da Pascal è aggirato ed eluso.
Chiede Pascal: come posso pensare Dio, fermo restando che Dio non è cosa della ragione ma del cuore? Pensare Dio significa interrogarsi sulla sua verità, sul senso che ha per me credere o non credere, sulle conseguenze per la mia vita di una decisione da prendere in assenza di prove ma impegnativa come nessun’altra. A sua volta che Dio sia cosa del cuore e non della ragione significa che non posso dedurlo ma neppure escluderlo su basi puramente razionali.
Pascal in altre parole ci invita a prendere atto dei limiti della filosofia. Tanto da affermare che «la vera filosofia si fa beffe della filosofia». Presuntuosa e ridicola è la filosofia che pretende di dire non solo l’ultima parola, ma anche la prima. Miope è la filosofia che ritiene impossibile dire alcunché su ciò che sta prima e ciò che viene dopo, sulle cose prime e sulle cose ultime.
Queste, le cose prime e le cose ultime, non appartengono alla filosofia, bensì alla religione. Mai e poi mai la filosofia potrebbe ’inventarle’, produrle razionalmente. Esse sono tramandate non sappiamo come ma certamente ex alto. Se non altro nel senso che esse ci trascendono e noi vi apparteniamo come apparteniamo alla nostra storia più profonda e al nostro linguaggio più autentico: ciò che per l’appunto è religione.
Ma se le cose prime e le cose ultime sono intime a noi più di quanto noi non lo siamo a noi stessi, come può la filosofia ignorarle? Il pensiero deve essere al tempo stesso molto umile e molto audace. Umile perché i contenuti su cui riflettere gli vengono da fuori, e lo sorprendono, proprio come ’ladro nella notte’. Audace perché capace di spogliarsi di tutti i pregiudizi e ’farsi libero’ nella verità. Secondo il più schietto insegnamento pascaliano.
CHARITÈ: BERLINO RICORDA A PAPA RATZINGER IL NOME ESATTO DELL’OSPEDALE E DELLA FACOLTÀ DI MEDICINA.
MEMORIA SU PASCAL *
«Circa due mesi prima della sua morte accadde che Pascal, avendo raccolto in casa sua
parecchie persone per conferire sullo stato presente degli affari della Chiesa, dopo aver loro
presentato le difficoltà su certe cose, trovò che quelle persone non erano così decise come
avrebbe voluto, e cedevano su qualche cosa che egli credeva importante per la verità.
Ciò lo
colpì in tal modo, che cadde svenuto e perse la conoscenza e la parola. Rimase molto tempo
in quello stato, e quando lo si fu fatto rinvenire con molta fatica, e mia madre che era
presente gli chiese il motivo che gli aveva causato tutto ciò, disse: “Quando ho visto tutte
quelle persone che io consideravo come le colonne della verità che si piegavano e
mancavano in ciò che esse dovevano alla verità, ne fui colpito, e non potei sopportarlo, ed è
stato necessario soccombere al dolore che ho provato”».
* Memoria su Pascal scritta da Marguerite Périer.
LA #CIBERNETICA DELLA CIBERNETICA, L’#ANTROPOLOGIA E LA #FILOLOGIA: UNA #QUESTIONE DI #GOVERNO E DI #TEOLOGIA-#POLITICA, E DI #DIVINACOMMEDIA.
#SAPEREAUDE! (ORAZIO - KANT): UNA HAMLETICA "QUESTION". SE SI PARLA DI CIBERNETICA - il κυβερνήτης [kybernetes] era il timoniere, colui che sa guidare le navi (o, come dirà di sé Christine De Pizan, colei «capace di condurre le navi», forse, non si parla dell’arte (#techne) del #governare (dal gr. #κυβερνάω «reggere il timone»), del guidare una nave, sia in senso fisico, sia in senso metaforico - #metafisico (e politico, in generale)?
CRITICA DELLA #RAGIONE "PURA" (PLATONICO-PAOLINA). ESSENDO, TUTTI E TUTTE, IMBARCATI ED IMBARCATE nella stessa #Nave, il #PianetaTerra (come già aveva capito e diceva il filosofo e matematico Blaise #Pascal), forse, non è meglio andare più a fondo nello scandagliare le profondità del mare (anche della lingua), per non naufragare (sia personalmente, come #individuo, sia umanamente, come #specie), e uscire dall’orizzonte del #geocentrismo (come dall’#androcentrismo -"patriarcato", così dal "ginecentrismo" - dal "matriarcato"), e, dare il via a una seconda "rivoluzione copernicana"? Se non ora, quando?
LA COSMOTEANDRIA E LA QUESTIONE COSMOLOGICA (COSMO), TEOLOGICA (DIO), E ANTROPOLOGICA (UOMO). BLAISE PASCAL, PER PENSARE "TROPPO" SUL COME FARE AFFARI («DEUS "CARITAS" EST») CON LA «SCOMMESSA», SI LASCIO’ MOLTO AFFASCINARE DALLA CALCOLATRICE «PASCALINA», E, INFINE, NON RIUSCI’ NE’ A CONOSCERE BENE SE’ STESSO E NEMMENO A CAPIRE (COME COMPRESE EINSTEIN, CON DANTE) CHE LA "DEA" «#CHARITE’» (LA "CHARITAS"), L’AMORE "CHE MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE", "NON GIOCA A DADI".
STORIA E LETTERATURA: LA "SCOMMESSA" DI DON RODRIGO (A. MANZONI, "I PROMESSI SPOSI" [1628], III) E LA "FEDE" DI PASCAL (1623 - 1662):
"[...] Come non so di dove vengo, così non so dove vado; so soltanto che, essendo che uscendo da questo mondo, cadrò per sempre o nel nulla o in potere di un Dio sdegnato, senza però conoscere quale di queste due condizioni mi toccherà in sorte per l’eternità [...]". Paradossalmente, alla "soluzione" fideistica di Pascal, come di ogni altra soluzione simile (cattolica o no), può ben dirsi quanto poco oltre, egli stesso scrive: "Chi vorrebbe avere come amico uno che discorresse in siffatto modo? Chi lo sceglierebbe tra tanti per metterlo a parte delle cose sue? Chi ricorrerebbe a lui nelle afflizioni? E insomma, a qual uso della vita si potrebbe destinarlo?" (B. Pascal, "Pensieri", n. 180, Mondadori 1976).
LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI" (DANTE ALIGHIERI) E LA "CHIMERA" DEL "POST-UMANO".
A) LA #QUESTION DI #SHAKESPEARE,
NOTA:
#FILOSOFIA, #FILOLOGIA, #MATEMATICA E #ANTROPOLOGIA (#CRISTOLOGIA): MESSAGGIO EVANGELICO
Nota a margine (*)
L’interrogativo di Pascal sul senso della vita
di Massimo Borghesi (insula europea, 11 Luglio 2023
È stata una felice iniziativa, promossa da Massimo Morelli e dal Centro Culturale di Roma, quella di ricordare i 400 anni della nascita di Blaise Pascal all’Institut Français - Centre Saint Louis di Roma[1]. Una commemorazione, moderata da Silvia Guidi, che ha visto la partecipazione di Ana Millán Gasca, François-Xavier Bellamy, Jean de Saint-Chéron, Maria Vita Romeo curatrice dell’Opera omnia di Pascal per Bompiani, del sottoscritto.
Nato a Clermont Ferrand il 19 giugno 1623 Pascal è stato matematico, geometra, fisico, teologo, filosofo. Una vita intensa che si conclude precocemente nel 1662 a 39 anni. L’ultimo anno di vita aveva fondato a Parigi, con de Roannez, una società per le carrozze, la prima società di servizi pubblici, i cui proventi servivano per l’assistenza di alcuni poveri di Blois. Lui stesso aveva ospitato nella propria abitazione una famiglia povera. Nonostante il suo genio nelle scienze la sua figura costituirebbe solo una breve voce in una enciclopedia se non fosse per i suoi Pensieri, l’opera che consacrerà la sua fama e lo consegnerà alla storia. Un’opera mai portata a compimento il cui tema di fondo era dato dall’apologia della religione cristiana di fronte agli atei ed i libertini. Il testo, così come ci è pervenuto, è dato da un insieme di appunti, di affermazioni folgoranti, scritti su mazzetti di strisce di carta. Una croce per gli interpreti che devono ricostruire il piano complessivo immaginato da Pascal. Siamo così di fronte ad un caso unico, quello della rilevanza di un pensatore fondata su un mazzo di frammenti! Le ragioni del suo successo? Più di una. Innanzitutto il suo stile. Splendido. Noi diremmo: moderno! Non scolastico. Da questo punto di vista tra Pascal e Kant corre un abisso. Si tratta di una modernità particolare perché non basta dire che Pascal non è scolastico. Anche Cartesio non lo è ma la sua prosa non suscita alcuna emozione. Lo stile di Pascal è vibrante, esistenziale. Occorre arrivare a Kierkegaard per trovare lo stesso pathos. Come suggerisce Romano Guardini, uno stile simile sorge nella storia quando si hanno cambiamenti d’epoca. È il caso delle Confessioni di Agostino, nella crisi del mondo antico, di Pascal nel tramonto del Medio Evo. Momenti di crisi, etico-politico-religiosa, in cui il tema del senso della vita viene a costituire la domanda fondamentale. Ciò che turba Pascal è l’umanesimo piatto, quello stoico-epicureo, quello di Michel de Montaigne a proposito del quale scrive: <
Distrazione. Gli uomini, non avendo potuto liberarsi della morte, della miseria, dell’ignoranza, hanno deciso, per essere felici, di non pensarci[3].
Il divertimento (divertissement), la distrazione, è la terapia di vivere dell’uomo mortale. Terapia inevitabile all’infuori della fede nel Cristo risorto. Pascal non è Heidegger che pretende per l’uomo “autentico” la ossessiva consapevolezza della morte di contro alla distrazione della massa persa nella chiacchiera. Solo i filosofi possono avere questa pretesa mentre l’uomo comune sa che la morte è innaturale. L’uomo comune, nella sua rimozione, è più saggio del filosofo: sa che il pensiero della morte è orribile e può bloccare il desiderio di vivere. Nondimeno anch’egli è stolto poiché non pensando al suo destino, senza mai prendere posizione, corre a capofitto verso il baratro che lo attende. Come scrive nei suoi Pensieri:
Miseria. L’unico sollievo delle nostre miserie è il divertimento, e tuttavia esso è la nostra più grande miseria. Infatti, è soprattutto il divertimento che impedisce di pensare a noi stessi e ci porta insensibilmente alla perdizione. Senza di esso saremmo immersi nella noia, e questa ci spingerebbe a cercare un mezzo più consistente per uscirne. Ma il divertimento ci diletta e ci fa giungere insensibilmente alla morte[4].
L’uomo non può che rifuggire il pensiero della morte e, al contempo, l’uomo deve pensare alla sua morte. Siamo di fronte ad una contraddizione apparentemente insolubile che solo Cristo può risolvere. Personalmente Pascal diffida tanto della filosofia, nella sua dialettica tra razionalisti e scettici, quanto del punto di vista dell’uomo comune.
Io biasimo egualmente e coloro che prendono il partito di lodare l’uomo e quelli che prendono quello di biasimarlo, e coloro che prendono quello di divertirsi; e io non posso approvare se non quelli che cercano gemendo[5]
Cercare, lottare per il senso della vita, è l’unica posizione ragionevole. <
Ma per quelli che trascorrono la loro vita senza pensare all’ultimo termine della vita [...] ho una considerazione del tutto diversa. Questa negligenza su una questione su cui si tratta di loro stessi, della loro eternità, del loro tutto, mi irrita più che non mi rattristi: essa mi stupisce e mi sgomenta: è per me una mostruosità. Non dico questo per il pio zelo di una devozione spirituale. Penso, al contrario, che si debba avere questo sentimento per un principio umano e per un interesse di amor proprio[8].
Interrogarsi sul proprio destino è amarsi, dimenticarsi è odiarsi. L’uomo non può amare la morte, né riconciliarsi con essa. Deve trovare il senso della vita senza rinnegare la vita. Deve conoscersi, stimarsi, e non semplicemente odiarsi. Con ciò siamo oltre l’immagine del Pascal rigorosamente giansenista, dell’autore per il quale <
[1]Confronti con l’infinito. I 400 anni di Blaise Pascal, Institut Français - Centre Saint Louis, 13-06-2023.
[2]B. PASCAL, Pensieri, in Pensieri Opuscoli Lettere, a cura di A. Bausola, Milano 1978, p. 424, fr. 77 [425].
[3]Ivi, p. 482, fr. 213 [121].
[4]Ivi, p. 483, fr. 217 [48].
[5]Ivi, p. 517, fr. 333 [487].
[6]Ivi, p. 532, fr. 364 [61].
[7]Ivi, p. 520, fr. 335 [C. 209-217].
[8]Ibidem, pp. 520-521.
[9]Ivi, p. 454, fr. 136 [75].
*
NOTA A MARGINE:
#FILOSOFIA, #FILOLOGIA, #MATEMATICA E #ANTROPOLOGIA (#CRISTOLOGIA): MESSAGGIO EVANGELICO. Ringraziando Carlo Pulsoni per la condivisione di questa nota di Massimo Borghesi e, plaudendo a questa "felice iniziativa, promossa da #MassimoMorelli", forse, è bene ricordare anche che con #Pascal (nato il 19 giugno 1623) è ancora possibile comunicare senza equivoci (ricordiamo il "Vicisti, Galilaee!" del 1611 di #Keplero a #GalileoGalilei): la sua #parola - #chiave (la #password antropologica) del #messaggioevangelico non ha perso la "h" e ha ancora la memoria dell’antica #charitas": in francese, se non sbaglio, è (ancora) #charité. 🌞👏🙏
#Antropologia, #Giustizia, e #Carità (#Charité, #Charitas, #Charidad, #Charity).
#Storia e #memoria: #Dante2021, #Pascal, e la #Bibbia civile d’#Europa...
#FILOSOFIA E #MESSAGGIO EVANGELICO. Nel secondo dei "Tre Discorsi sulla condizione dei grandi" di #BlaisePascal c’è un sottile e importante richiamo all’indicazione evangelica di "dare a #Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (non "#Erode" né "#Mammona" e "#Mammasantissima") e una implicita consonanza con la proposta di #Dante (#Monarchia) relativa al #riconoscimento reciproco dei #Due Soli (#potere temporale e #potere spirituale - le ragioni del #corpo e le ragioni del #cuore). Ovviamente, è un generale invito all’#essere umano a uscire dalla #claustrofilia (#ElvioFachinelli, 1983) e a coniugare la #duplicità strutturale della propria condizione alla #luce dell’#amore "che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145) e a ripensare la #questioneantropologica ricollegando il tema delfico del «#conosci te stesso» alla #domanda di «#come nascono i bambini». Uscire dallo #statodiminorità (#Kant - 1784, #Miche lFoucault - 1984), forse, è proprio #ora....
#FILOLOGIA #ANTROPOLOGIA CULTURALE E #SCIENZA POLITICA.
RIPRENDERE IL #DISCORSO DA #CAPO E DAL #CAPO. Nel rileggere le pagine di #Pascal sulla "condizione dei grandi", sul piano delle #Istituzioni (sia laiche sia religiose, sia temporali sia spirituali), forse, è anche bene e giusto #ricordare che la parola "#carisma" è una parola che ci viene dal #greco antico: "#chàrisma", e richiama la "#Charis" ("#Grazia"), le "#Chàrites" (le tre "#Grazie") del mondo greco, legate alle #arti e alla #bellezza, e poi la "#Charitas" (il Dio pieno di #grazia del #messaggio evangelico: "Deus #charitas est": 1 Gv.: 4.8).
Federico La Sala
Luoghi dell’Infinito.
È Dante il grande filosofo dell’amore
In tutti i suoi scritti Alighieri dimostra rimarchevoli competenze filosofiche e riflette, con notevole autonomia, sulla forza che governa l’uomo e l’universo intero Omar Galliani, “De Sidus (da Sandro Botticelli)”, 2021, particolare. Opera realizzata per “Luoghi dell’Infinito”
di Sergio Givone (Avvenire, domenica 30 maggio 2021).
Nel Paradiso Dante incontra «quelli ardenti soli» (X, 76), e cioè quelle intelligenze che non solo vogliono conoscere Dio, ma ardono di sommo amore per il vero-bene-bello, per l’Uno e Trino. Tra di esse, prima di ogni altra intelligenza, Tommaso d’Aquino e il maestro di lui, Alberto Magno, ma poi anche Dionigi l’Areopagita, forse scolaro del neoplatonico Proclo, inoltre Boezio, il cui contributo alla trasmissione del pensiero classico al medioevo cristiano fu grande, Riccardo di San Vittore, alla cui teologia trinitaria sono ispirate le prime due terzine di questo canto, Sigieri di Brabante, docente a Parigi, sospetto di eresia, fedele ad Aristotele non meno che a Platone. «Guardando nel suo Figlio con l’Amore / che l’uno e l’altro etternalmente spira, / lo primo e ineffabile Valore / quanto per mente e per loco si gira / con tant’ordine fé, ch’esser non puote / sanza gustar di lui chi ciò rimira».
Sono queste le due terzine con cui il canto inizia: in esse Dante fa sua la teologia trinitaria di Riccardo, e anche la dottrina riccardiana del Filioque, infatti fa procedere lo Spirito sia dal Padre sia dal Figlio. Ma soprattutto stabilisce un’equivalenza fondamentale: fra lo Spirito e l’Amore. Sì, perché la sapienza cui aspirano gli spiriti sapienti (“gli ardenti soli”) del quarto cielo, il cielo del Sole che sta sopra al terzo, il cielo di Venere, altro non è che filosofia: e dunque non già sapienza ma ricerca inesauribile, passione infinita per la sapienza, secondo il celebre dettato platonico circa un sapere che è anzitutto amore per il sapere.
Abbiamo a che fare in questo quarto cielo con gli autori che Dante custodisce in una sua ideale biblioteca filosofica. La quale appare tanto più rappresentativa se si pensa che tutti questi autori sono accomunati dall’appartenenza alle due grandi correnti dell’epoca, allora percepite come una sola, secondo l’insegnamento di Plotino: platonismo e aristotelismo.
Al che vien fatto di chiedere: che cosa sapeva davvero Dante di Platone e di Aristotele? Che cosa sapeva di Plotino? Troppo facile rispondere: poco o nulla. In realtà Dante sapeva di filosofia, eccome se sapeva! Basta considerare, per esempio, come traduce in modo esattissimo san Tommaso in merito alla fede: «Fede è sustanza di cose sperate / et argomento delle non parventi » (Par XXIV, 64-65). O come fa parlare lo stesso Tommaso: «Quando / lo raggio de la grazia, onde s’accende / verace amore e che poi cresce amando, / moltiplicato in te tanto risplende, / che ti conduce su per quella scala / u’ senza risalir nessun discende» (Par X, 82-87). Dove Dante mostra di essere perfettamente consapevole che il razionalismo tomistico si sposa con una mistica di stampo neoplatonico, in cui alla verità piena si giunge per grazia divina e quindi per un gesto sovrano d’amore.
Pretendere che Dante leggesse e affrontasse i suoi autori come facciamo noi oggi, in modo sistematico e con metodo storico- filologico, è puro anacronismo. Intellettuale del suo tempo, Dante si serviva di compilazioni, regesti, florilegi, thesauri, insomma, fonti che noi giudicheremmo sprezzantemente di seconda o di terza mano, ma che nondimeno gli permettevano di ancorare saldamente le sue concezioni filosofiche alla tradizione.
Vedi il nucleo fondamentale della sua filosofia, l’idea-cardine, l’idea dell’amore, ossia «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Dante la riprende da Platone. La mette alla prova nel contesto della poesia cortese. Ne ricava una sua prospettiva originale. Ne fa addirittura la scaturigine da cui sgorgano (e in cui rifluiscono) tutti i cento canti della Commedia. Platonico è il titolo dell’opera - il Convivio - in cui Dante delinea la sua filosofia d’amore. Ma platonico è anche il suo contenuto. È l’amore sensibile, l’amore carnale a dirci che cosa sia veramente Amore. Ma perché questo si mostri in quello, bisogna che quello gli ceda il passo e venga meno. «Di necessitate convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia»: così Dante aveva osato scrivere nella Vita nuova, a imitazione di quanto Socrate aveva detto nei confronti di Alcibiade.
Salvo pervenire al più stupefacente capovolgimento di Platone che si possa immaginare. Nel XXXIII del Paradiso Dante giunge al punto più alto della sua ascensione. Come ammutolito e quasi accecato di fronte all’epifania della divinità, tuttavia gli è dato di cogliere l’essenziale: «l’imago al cerchio». Se Platone aveva insegnato a trovare l’eterno nel contingente e nel mortale, Dante viceversa scopre nel volto di Dio il volto dell’uomo, e in Dio si rispecchia, trovando in Lui il suo stesso volto. Attraverso il cristianesimo la metafisica delle idee diventa teologia dell’incarnazione. «O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi! / Quella circolazion che sì concetta / pareva in te come lume riflesso, / da li occhi miei alquanto circospetta, / dentro da sé, del suo colore stesso, / mi parve pinta de la nostra effige: / per che ‘l mio viso in lei tutto era messo» (Par XXXIII, 124-132).
È l’“intelletto d’amore” - come Dante lo chiama nella Vita nuova - a rendere possibile quella comprensione amorosa della realtà che è una prerogativa tipicamente femminile (non a caso la filosofia s’incarna in una “donna gentile”) e che assurge a vera e propria ipostasi, nel senso plotiniano del termine, ossia a figura archetipica del tutto, a rivelazione dell’essere. «Donne ch’avete intelletto d’amore », dice Dante, perché sono le donne a vivere e a capire nel profondo questo sentimento. Ma dice anche: «Maraviglia ne l’atto che procede / d’un’anima che ’nfin quassù risplende».
Nell’intelletto d’amore il genitivo ha valore soggettivo e valore oggettivo. L’amore è non soltanto oggetto di conoscenza, ma anche soggetto, perché non c’è conoscenza vera dove non ci sia uno sguardo al tempo stesso illuminante e appassionato, lucido e caritatevole. Principio e fondamento della realtà, ma anche supremo organo conoscitivo, l’intelletto d’amore tiene insieme la totalità delle cose che sono e attraversa i tre regni: proviene dal Paradiso, dove sfolgora, sosta in Purgatorio, nella cui luce chiaroscurale è possibile intravedere in opera la sua potenza redentrice, e addirittura giunge a squarciare le tenebre dell’Inferno. Sì, perché l’amore di cui siamo capaci si mostra in tutta la sua verità proprio là dove sembrerebbe non aver più corso, né ragion d’essere, né niente. Si mostra nell’Inferno. E verrebbe quasi da dire: nell’Inferno si mostra perfino più inequivocabilmente che altrove.
Nel girone infernale dei lussuriosi rendono testimonianza all’amore - che è sempre amore, e non importa se amore carnale o spirituale - i più sventurati degli amanti, Paolo e Francesca. È con amore che Dante guarda a loro. Ed è in nome dell’amore che Francesca accoglie il suo invito a intrattenersi con lui. Non è che amore, sempre: «amor, ch’a nullo amato amar perdona ». Com’è possibile allora che proprio amore sia la causa di tanta rovina? «Amor condusse noi ad una morte». Per giunta morte eterna. C’è mistero più grande di questo, più crudele, più sconvolgente? Dante è colpito come da un urto tremendo. Stramazza e - per la prima e unica volta - cade «come corpo morto cade».
È questo un punto cruciale per la filosofia di Dante. La domanda è: se l’amore resiste anche nel profondo dell’Inferno, e anziché esserne sconfitto ne riemerge come principio e fine di tutto, non sarà che l’Inferno non è un che di ultimo, ma a sua volta destinato a essere superato? Soglia, questa, dove non c’è pensiero che non sia costretto ad arrestarsi, anche il più vertiginoso. Però la filosofia di Dante se ne lascia sfiorare. Sarà pur vero che in essa non c’è traccia di un vero e proprio pensiero dell’apocatastasi e quindi di un superamento dell’Inferno, essendo l’apocatastasi la “reintegrazione” del negativo nel positivo e una risoluzione finale di ogni cosa separata nell’Uno, mentre l’Inferno dantesco resta inesorabilmente ed eternamente chiuso al Purgatorio e al Paradiso. Ma vero è anche che nella sua opera ci sono i presupposti di un pensiero - pensiero della reintegrazione al di là della divisione e dell’opposizione - che ha la sua più autentica origine nella profonda teologia dei Padri orientali, di cui nel mondo occidentale si sarebbe persa la memoria.
Filosofia.
Dopo Steve Jobs meglio tornare a Pascal e alle ragioni del cuore
Edizione completa per l’opera omnia del grande pensatore del Seicento. Il digitale doveva liberare l’uomo ma oggi vediamo che bisogna ripartire da lontano
di Giuseppe Bonvegna (Avvenire, mercoledì 30 dicembre 2020)
Il primo ventennio del XXI secolo sta per chiudersi con la notizia di fine ottobre che il Trattato del 2017 delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari ha raggiunto i 50 Stati firmatari, cioè la soglia necessaria per entrare effettivamente in vigore: a settantacinque anni da Hiroshima assistiamo dunque a una nuova battuta d’arresto alla cosiddetta “Storia forte” con l’iniziale maiuscola, dopo lo stop impostole il 26 dicembre 1991 con la fine dell’Unione Sovietica. Se non fosse che nella stanza dei bottoni di quella Storia, occupata fino a inizio anni Novanta del Novecento dalle vecchie ideologie e partiti politici, si trovano adesso la globalizzazione e i suoi effetti negativi che stiamo attualmente pagando col Covid. Nonostante il crollo del primo e principale regime socialcomunista e la conseguente fine di quell’era di grandi cataclismi che fu il “secolo breve”, l’uomo non ha insomma smesso di tentare di superare sé stesso con la propria ragione, volendo a tutti i costi conferire un significato agli eventi a prescindere dalla Rivelazione.
Eppure, la recente pubblicazione per Bompiani della prima traduzione italiana delle Opere complete di Blaise Pascal, a cura di Maria Vita Romeo (pagine 3200, euro 70,00), consente, adesso anche nel nostro Paese, di riaccostarsi alla riflessione di colui che Augusto Del Noce considerava una delle pietre miliari della filosofia spiritualista cristiana europea del XVII secolo e di tutta l’epoca moderna (e non solo). Vale a dire di quel filone culturale della modernità che diede vita non al sogno razionalistico e idealistico di trasformare il mondo attraverso la ragione e la tecnica, ma piuttosto al tentativo di continuare a comprendere il mondo sulla scia dell’insegnamento degli antichi e dei medioevali: anche a costo di dover rinunciare a cambiare il mondo. E nella convinzione non certo di una totale inutilità o persino nocività dei cambiamenti tecnici in quanto tali, ma piuttosto del fatto che, prima di cambiare le cose, bisogna almeno tentare di capirle. Nella loro sostanza, diceva Aristotele. Nel loro limite, ci dice Pascal, molto probabilmente volendo esprimere un concetto simile a quello della sostanza aristotelica... I nomi dei moderni Nicolas Malebranche, Giambattista Vico, Antonio Rosmini, John Henry Newman hanno quindi adesso la possibilità, anche grazie all’edizione italiana degli scritti pascaliani, di essere riproposti, dopo Chernobyl e durante il Covid, nella loro veste di grandi commentatori di una delle più note frasi di Pascal: «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce».
Riprendendo Paul Ricoeur, uno dei filosofi contemporanei che può essere considerato l’erede di quelle riflessioni, quando scriveva che la filosofia consiste nel «ricordarsi per incominciare», possiamo affermare che l’odierna società globalizzata ha sconfitto la memoria del tempo che passa. E quindi ha sconfitto anche il cuore, che, come diceva sant’Agostino, è il luogo del tempo inteso come misurazione degli eventi passati e futuri. Possiamo viaggiare ovunque con lo smartphone, ma senza più sapere chi siamo, perché siamo rimasti senza memoria e senza cuore... Con buona pace di Steve Jobs che, lanciando l’i-Pod nel 2001 e dando avvio alla quarta rivoluzione industriale del cosiddetto “digitale”, pare abbia affermato trattarsi di uno strumento che mirava al cuore delle persone. Se infatti già la terza rivoluzione industriale, partita verso la fine degli anni Settanta del Novecento dai primi personal computer, aveva un volto problematico, ciò vale soprattutto proprio per la quarta: è quello che Michel Foucault, ancora all’avvio della terza, aveva descritto come la riduzione del cuore a collettore di informazioni provenienti dalla società comunicativa dell’enorme spazio del mondo fatto entrare facilmente nella propria camera. Tuttavia, questo scacco che la razionalità postmoderna ha dato a se stessa può forse essere superato, lasciandosi alle spalle (anche solo per un attimo) gli autori del problema: tornando quindi da Steve Jobs a Pascal e ad Agostino. In fondo, il libro cartaceo è uno di quei prodotti che sembra non temere la concorrenza di qualunque altro tipo di industria. Ormai da secoli, ma anche (e forse soprattutto) oggi, quando pare avere la meglio anche con l’ebook...
Un «salto» verso le contraddizioni dell’esistenza
Filosofia. Sergio Givone: “Quanto è vero dio”, Solferino editore
di Sonia Gentili (il manifesto, 29.08.2018)
Con Quanto è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino editore, pp. 186, euro 16) Sergio Givone, noto e importante filosofo contemporaneo, affronta il grande tema dell’irrinunciabilità del pensiero religioso per la tradizione filosofica occidentale che ha affermato la morte di Dio. È una grande questione «russa» (in Tolstoj, Dostoevskij, Bulgakov il mistero del finalismo cristiano segna il limite dialettico del fine comunista progettato dall’uomo e per l’uomo) del tutto attuale: la lettura apocalittica di regimi novecenteschi intesi come occasione di svelamento di una verità e di un fine diversi, quando non opposti, rispetto a quelli previsti e programmati dalla ragione umana è stata resa in anni recenti da Massimo Cacciari e da Giorgio Agamben. Givone si richiama a questa lettura del momento politico, e siccome essa presuppone e non risolve il problema del male nella storia, sorretto da secoli di teologia razionalistica il filosofo affronta il rapporto tra Dio e il male risolvendolo col principio di non contraddizione: poiché Dio è amore, dire che Dio vuole il male significherebbe dire che «è l’Amore a odiare, il che è palesemente contraddittorio», scrive l’autore.
L’ARGOMENTO chiede e merita di essere preso sul serio; propongo dunque qualche spunto per future discussioni. È ammissibile l’applicazione al divino di categorie logiche umane? Davvero Dio è costretto - cioè «necessitato» - dal principio di non contraddizione? Il più geniale interprete novecentesco del mistero divino, Karl Barth, ci ricorda che la trascendenza di Dio è anzitutto radicale irriducibilità alla ragione umana.
IL CARATTERE anti-logico o alogico o paradossale del mistero divino comporta il suo essere non sintesi ma simultanea coesistenza: in questo senso Dio, spiega Gregorio di Nazianzo (sec. IV d.C.), Dio è pelagos ousìas, cioè «mare di essere» (di qui Dante in Paradiso, I, 112-13: «onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar dell’essere»). Il mistero di Dio è insomma anche quello della compresenza di opposti che si fondano reciprocamente recando in questo fondamento non solo il principio della reciproca sussistenza ma anche quello della reciproca negazione. Inoltre, anche ammettendo l’applicazione a Dio di categorie logiche, proprio sul piano logico l’essenza correlativa di due termini che si negano a vicenda e non sussistono l’uno senza l’altro costituisce il punto debole del principio di non contraddizione: il concetto non sussiste se non autocontraddicendosi, cioè implicando nel suo sussistere ciò che lo delimita e lo nega. Applichiamo il ragionamento a Dio: se è amore, implica in sé il principio di delimitazione del bene, cioè comporta e permette il correlativo sussistere del male.
CONCLUSIONE: la relazione tra Dio e il male o è, a norma di logica, positiva e sostanziale, o è, a norma di irriducibilità divina alla ragione umana, inconoscibile. È solo questa seconda opzione a lasciar spazio al «salto» della fede, cioè all’accettazione del mistero e alla «scommessa» sul bene, oppure al «salto» etico e laico di Albert Camus: poiché la sostanzialità del male è innegabile, combatterlo è una inconcludente fatica di Sisifo eppure è necessario per l’uomo «immaginare Sisifo felice»: agire e combattere come se il male fosse eliminabile. Alla possibilità generale - e perciò, in sostanza, astratta - che il male sia nell’uomo e coincida con una sua colpa, quella cioè del peccato originale ripresa da Luigi Pareyson con la celebre domanda sul perché «un essere malvagio e meschino come l’uomo dovrebbe avere un qualche diritto alla felicità», Camus avrebbe risposto che di fronte alla sofferenza concreta di un singolo innocente - di questo o quel bambino, per dire - non c’è ragionamento che tenga. Conoscere attraverso la sofferenza significa riconoscere la propria colpa, dice Givone (è l’intuizione di Antigone secondo cui «poiché soffriamo, capiamo che abbiamo sbagliato»), ma quanto si è detto comporta una conclusione opposta e non meno tragica, in base alla quale Antigone direbbe: poiché soffriamo essendo innocenti, capiamo che c’è un errore, e non è il nostro.
La necessità del sacro nell’età del disincanto
I nodi dell’etica e del rapporto tra fede e vita: nel saggio «Quant’è vero Dio» (Solferino) Sergio Givone riflette sull’insopprimibile ricerca del trascendente
di Umberto Curi (Corriere della Sera, 22.06.2018)
«È più vicino a Dio chi fa professione di ateismo, ma tiene ferma la verità, di chi nega la verità in nome di Dio». È questa - in estrema sintesi - la tesi principale che è alla base del libro di Sergio Givone, appena uscito presso la casa editrice Solferino, Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione. Un testo strano e affascinante.
Strano per il coraggio, ai limiti della temerarietà, con il quale argomenta la necessità di Dio, in controtendenza rispetto a una fase storica caratterizzata dall’abusiva identificazione del disincanto con l’ateismo.
Affascinante per il rigore e la freschezza di un modo di condurre il ragionamento, insensibile alla moda deteriore che vorrebbe imporre l’equazione fra oscurità criptica del discorso e profondità del pensiero. Con un valore aggiunto, tutt’altro che trascurabile, soprattutto in confronto alla sciatteria di tanta saggistica pseudofilosofica: una scrittura sapida e limpida al tempo stesso, evidentemente filtrata dalle non poche felici esperienze narrative dell’autore, al quale si devono alcuni romanzi rivelativi di un sicuro talento (Favola delle cose ultime, 1998; Nel nome di un dio barbaro, 2002; Non c’è più tempo, 2008; tutti editi da Einaudi).
Ma queste pur non pleonastiche annotazioni relative allo «stile» del libro non devono trarre in inganno. Nelle pagine scritte da Givone non vi è alcun indugio meramente «letterario», né alcuna concessione a una variante «debole» dell’interrogazione filosofica, così come è totalmente assente, d’altra parte, ogni concezione «reazionaria» del rapporto fra la permanenza del sacro e l’età della secolarizzazione. Piuttosto, l’autore dimostra - e in maniera particolarmente convincente - che è possibile aver imparato la lezione di Kierkegaard e Nietzsche, essersi misurati con la sfida della morte di Dio, aver attraversato il deserto della trasvalutazione di tutti i valori, non cancellando, ma al contrario recuperando l’ineliminabilità del sacro, inteso come quell’originario «sì», che resiste quale fondamento inconcusso all’offensiva concentrica di agnosticismo, scetticismo e fideismo - di quel «fideismo irreligioso» che poco o nulla ha a che fare con la laicità autentica.
In questo quadro generale (qui inevitabilmente ridotto a uno schema ipersemplificato), si collocano alcune questioni di grande rilievo strettamente filosofico, che Givone affronta per così dire a viso aperto, senza alcuna remora puramente tattica, in maniera perfino imprudente: il rapporto fra legge e giustizia, il confine mobile e reversibile fra bene e male, i limiti della manipolazione tecnica (e biotecnologica) della natura, al di fuori di ogni moralismo ecologistico, il transito apparentemente inesorabile dall’umano al postumano.
Come risulta dai titoli stessi dei capitoli che compongono il libro (fra gli altri: «Un pensiero di altri mondi», «Tempo intermedio e Apocalisse», «Potere spirituale e potere temporale»), Givone affronta i nodi teoretici decisivi per una riflessione sul sacro che, come accade in questo testo, risponda all’ambizione esplicitamente dichiarata di non riproporre ipotesi speculative già dissolte dall’irrompere della modernità, preferendo la strada certamente più arrischiata, ma anche incomparabilmente più feconda, della ricerca di un vero e proprio «nuovo inizio».
Impossibile dar conto in termini analitici, come pure sarebbe necessario, del ricco ordito di problemi sapientemente annodato da Givone. Ma almeno alcuni spunti, suggeriti senza alcuna arroganza, ma anche senza alcun preventivo accomodamento diplomatico, meritano di essere citati: l’impossibilità dell’etica, certamente nella versione kantiana, ma anche nella variante utilitaristica, in un orizzonte dal quale Dio sia scomparso, e dunque perda ogni senso l’essere o il non essere al mondo.
Un modo di concepire la laicità secondo il quale laico non è chi rivendica la sua indifferenza alla religione, ma proprio al contrario chi prende la religione sul serio, riconoscendo che i contenuti essenziali con cui è chiamato a fare i conti vengono proprio dalla religione. Un approccio ai problemi della vita - della nascita e della fine - affrancato dalle pretese prescrittive della bioetica di stretta osservanza confessionale, immobile nell’astratta rivendicazione della sacralità della vita, e ricondotto piuttosto al più maturo contesto concettuale di una riflessione libera da impacci dottrinari.
Pur trattandosi di temi di indubbio rilievo, le questioni ora semplicemente accennate (e altre ancora, qui necessariamente espunte), nel libro di Givone sono riportate all’interrogativo di fondo, richiamato anche dal titolo. Si incontra Dio, in queste pagine, non come ciò che residua dalla devastazione indotta da un pensiero refrattario a ogni idolo, quale è il pensiero contemporaneo, né come conclusione di un freddo e astratto sillogismo, bensì come approdo e insieme come presupposto, senza il quale «dovremmo riconoscere che il nulla ha vinto».
Sergio Givone sarà a Milano giovedì 28 giugno alle 18 nella sede del «Corriere» (Sala Buzzati, via Balzan 3) per un incontro organizzato dalla Fondazione Corriere della Sera. Con lui, Remo Bodei e Armando Torno (ingresso libero con prenotazione a rsvp@fondazionecorriere.it).
Sil tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA E MESSAGGIO EVANGELICO. IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA (LOGOS): AMORE ("Charitas"), NON "MAMMONA" ("Caritas")!!!
IL MONITO DI PASCAL A SERGIO GIVONE: NON CONFONDERE IL NOME DEL MIO DIO ("charité") CON IL NOME DEL DIO ("caritas") DEI VESCOVI E DI PAPA RATZINGER.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Scalfari intervista Francesco: "Il mio grido al G20 sui migranti"
Colloquio con il Papa a Santa Marta: "Temo il pericolo di alleanze pericolose tra Potenze. Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d’oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi"
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 08 luglio 2017)
GIOVEDÌ scorso, cioè l’altro ieri, ho ricevuto una telefonata da Papa Francesco. Era circa mezzogiorno e io ero al giornale, quando è squillato il mio telefono e una voce mi ha salutato: era di sua Santità. L’ho riconosciuta subito e ho risposto: Papa Francesco, mi fa felice sentirla. "Volevo notizie sulla sua salute. Sta bene? Si sente bene? Mi hanno detto che qualche settimana fa lei non ha scritto il suo articolo domenicale, ma poi vedo che ha ripreso".
Santità, ho tredici anni più di lei. "Sì, questo lo so. Deve bere due litri d’acqua al giorno e mangiare cibo salato". Sì lo faccio. Sono seguiti altri suoi consigli ma io l’ho interrotto dicendo: è un po’ che non ci parliamo, vorrei venire a salutarla, vado in vacanza tra pochi giorni ed è parecchio che non ci vediamo. "Ha ragione, lo desidero anche io. Potrebbe venire oggi? Alle quattro?". Ci sarò senz’altro.
Mi sono precipitato a casa e alle tre e tre quarti ero nel piccolo salotto di Santa Marta. Il Papa è arrivato un minuto dopo. Ci siamo abbracciati e poi, seduti uno di fronte all’altro, abbiamo cominciato a scambiare idee, sentimenti, analisi di quanto avviene nella Chiesa e poi, nel mondo.
Il Papa viaggia incessantemente: a Roma, in Italia, nel mondo. Il tema principale della nostra conversazione è il Dio unico, il Creatore unico del nostro pianeta e dell’intero Universo. Questa è la tesi di fondo del suo pontificato, che comporta una serie infinita di conseguenze, le principali delle quali sono l’affratel-lamento di tutte le religioni e di quelle cristiane in particolare, l’amore verso i poveri, i deboli, gli esclusi, gli ammalati, la pace e la giustizia.
Il Papa naturalmente sa che io sono non credente, ma sa anche che apprezzo moltissimo la predicazione di Gesù di Nazareth che considero un uomo e non un Dio. Proprio su questo punto è nata la nostra amicizia. Il Papa del resto sa che Gesù si è incarnato realmente, è diventato un uomo fino a quando fu crocifisso. La " Resurrectio" è infatti la prova che un Dio diventato uomo solo dopo la sua morte ridiventa Dio.
Queste cose ce le siamo dette molte volte ed è il motivo che ha reso così perfetta e insolita l’amicizia tra il Capo della Chiesa e un non credente.
Papa Francesco mi ha detto di essere molto preoccupato per il vertice del "G20". "Temo che ci siano alleanze assai pericolose tra potenze che hanno una visione distorta del mondo: America e Russia, Cina e Corea del Nord, Putin e Assad nella guerra di Siria".
Qual è il pericolo di queste alleanze, Santità?
"Il pericolo riguarda l’immigrazione. Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d’oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi, dei quali gli emigranti fanno parte. D’altra parte ci sono Paesi dove la maggioranza dei poveri non proviene dalle correnti migratorie ma dalle calamità sociali; altri invece hanno pochi poveri locali ma temono l’invasione dei migranti. Ecco perché il G20 mi preoccupa: colpisce soprattutto gli immigrati di Paesi di mezzo mondo e li colpisce ancora di più col passare del tempo".
Lei pensa, Santità, che nella società globale come quella in cui viviamo la mobilità dei popoli sia in aumento, poveri o non poveri che siano?
"Non si faccia illusioni: i popoli poveri hanno come attrattiva i continenti e i Paesi di antica ricchezza. Soprattutto l’Europa. Il colonialismo partì dall’Europa. Ci furono aspetti positivi nel colonialismo, ma anche negativi. Comunque l’Europa diventò più ricca, la più ricca del mondo intero. Questo sarà dunque l’obiettivo principale dei popoli migratori".
Anch’io ho pensato più volte a questo problema e sono arrivato alla conclusione che, non soltanto ma anche per questa ragione, l’Europa deve assumere al più presto una struttura federale. Le leggi e i comportamenti politici che ne derivano sono decisi dal governo federale e dal Parlamento federale, non dai singoli Paesi confederati. Lei del resto questo tema l’ha più volte sollevato, perfino quando ha parlato al Parlamento europeo.
"È vero, l’ho più volte sollevato". E ha ricevuto molti applausi e addirittura ovazioni. "Sì, è così, ma purtroppo significa ben poco. I Paesi si muoveranno se si renderanno conto di una verità: o l’Europa diventa una comunità federale o non conterà più nulla nel mondo. Ma ora voglio farle una domanda: quali sono pregi e difetti dei giornalisti?".
Lei, Santità, dovrebbe saperlo meglio di me perché è un assiduo oggetto dei loro articoli.
"Sì, ma mi interessa saperlo da lei".
Ebbene, lasciamo da parte i pregi, ma ci sono anche quelli e talvolta molto rilevanti. I difetti: raccontare un fatto non sapendo fino a quale punto sia vero oppure no; calunniare; interpretare la verità facendo valere le proprie idee. E addirittura fare proprie le idee di una persona più saggia e più esperta attribuendole a se stesso. "Quest’ultima cosa non l’avevo mai notata. Che il giornalista abbia le proprie idee e le applichi alla realtà non è un difetto, ma che si attribuisca idee altrui per ottenere maggior prestigio, questo è certamente un difetto grave".
Santità, se me lo consente ora vorrei io porle due domande. Le ho già prospettate un paio di volte nei miei recenti articoli, ma non so come Lei la pensa in proposito. "Ho capito, lei parla di Spinoza e di Pascal. Vuole riproporre questi suoi due temi?".
Grazie, comincio dall’Etica di Spinoza. Lei sa che di nascita era ebreo, ma non praticava quella religione. Arrivò nei Paesi Bassi provenendo dalla sinagoga di Lisbona. Ma in pochi mesi, avendo pubblicato alcuni saggi, la sinagoga di Amsterdam emise un durissimo editto nei suoi confronti. La Chiesa cattolica per qualche mese cercò di attirarlo nella sua fede. Lui non rispondeva e aveva disposto che i suoi libri fossero pubblicati soltanto dopo la sua morte. Nel frattempo però alcuni suoi amici ricevevano copie dei libri che andava scrivendo. L’Etica in particolare, arrivò a conoscenza della Chiesa la quale immediatamente lo scomunicò. Il motivo è noto: Spinoza sosteneva che Dio è in tutte le creature viventi: vegetali, animali, umani. Una scintilla di divino è dovunque. Dunque Dio è immanente, non trascendente. Per questo fu scomunicato.
"E a lei non sembra giusto. Perché? Il nostro Dio unico è trascendente. Anche noi diciamo che una scintilla divina è dovunque, ma resta immune la trascendenza, ecco il perché della scomunica che gli fu impartita". E a me sembra, se ben ricordo anch’io, su sollecitazione dell’Ordine dei Gesuiti. "All’epoca di cui parliamo i Gesuiti erano stati espulsi dalla Chiesa, poi furono riammessi. Comunque, lei non mi ha detto perché quella scomunica dovrebbe essere revocata".
La ragione è questa: Lei mi ha detto in un nostro precedente colloquio che tra qualche millennio la nostra specie si estinguerà. In quel caso le anime che ora godono della beatitudine di contemplare Dio ma restano distinte da Lui, si fonderanno con Lui. A questo punto la distanza tra trascendente e immanente non esisterà più. E quindi, prevedendo questo evento, la scomunica si può già da ora dichiarare esaurita. Non le sembra, Santità?
"Diciamo che c’è una logica in ciò che lei propone, ma la motivazione poggia su una mia ipotesi che non ha alcuna certezza e che la nostra teologia non prevede affatto. La scomparsa della nostra specie è una pura ipotesi e quindi non può motivare una scomunica emessa per censurare l’immanenza e confermare la trascendenza".
Se Lei lo facesse, Santità, avrebbe contro di sé la maggioranza della Chiesa?
"Credo di sì, ma se solo di questo si trattasse ed io fossi certo di ciò che dico su questo tema, non avrei dubbi, invece non sono affatto certo e quindi non affronterò una battaglia dubitabile nelle motivazioni e persa in partenza. Adesso, se vuole, parliamo della seconda questione che lei desidera pormi".
Porta il nome di Pascal. Dopo una gioventù alquanto libertina, Pascal fu come improvvisamente invaso dalla fede religiosa. Era già molto colto, aveva letto ripetutamente Montaigne e anche Spinoza, Giansenio, le memorie del cardinale Carlo Borromeo. Insomma, una cultura laica e anche religiosa. La fede a un certo punto lo colpì in pieno. Aderì alla Comunità di Port-Royal des Champs, ma poi se ne distaccò. Scrisse alcune opere tra le quali i "Pensieri", un libro a mio avviso splendido e religiosamente di grande interesse. Ma poi c’è la sua morte. Era praticamente moribondo e la sorella l’aveva fatto portare nella propria casa per poterlo assistere. Lui voleva morire nell’ospedale dei poveri, ma il suo medico negò il permesso, gli restavano pochi giorni di vita e il trasporto non era fattibile. Chiese allora che un povero tratto da un ospedale che gestiva i poveri pessimamente, anche in fin di vita, fosse trasportato nella casa dove stava e con un letto come quello che aveva lui. La sorella cercò di accontentarlo ma la morte arrivò prima. Personalmente penso che uno come Pascal andrebbe beatificato.
"Lei, caro amico, ha in questo caso perfettamente ragione: anch’io penso che meriti la beatificazione. Mi riserbo di far istruire la pratica necessaria e chiedere il parere dei componenti degli organi vaticani preposti a tali questioni, insieme ad un mio personale e positivo convincimento".
Santità ha mai pensato di mettere per iscritto un’immagine della Chiesa sinodale? "No perché dovrei?". Perché ne verrebbe un risultato abbastanza sconvolgente, vuole che glielo dica? "Ma certo mi fa piacere anzi lo disegni".
Il Papa fa portare carta e penna e io disegno. Faccio una riga orizzontale e dico questi sono tutti i vescovi che Lei raccoglie al Sinodo, hanno tutti un titolo eguale e una funzione eguale che è quella di curare le anime affidate alla loro Diocesi. Traccio questa linea orizzontale poi dico: ma Lei, Santità, è vescovo di Roma e come tale ha la primazia nel Sinodo perché spetta a Lei trarne le conclusioni e delineare la linea generale del vescovato. Quindi il vescovo di Roma sta sopra la linea orizzontale, c’è una linea verticale che sale fino al suo nome e alla sua carica. D’altra parte i presuli che stanno sulla linea orizzontale amministrano, educano, aiutano il popolo dei fedeli e quindi c’è una linea che dall’orizzontale scende fino a quello che rappresenta il popolo. Vede la grafica? Rappresenta una Croce.
"È bellissima questa idea, a me non era mai venuto di fare un disegno della Chiesa sinodale, lei l’ha fatto, mi piace moltissimo".
Si è fatto tardi. Francesco ha portato con sé due libri che raccontano la sua storia in Argentina fino al Conclave e contengono anche i suoi scritti che sono moltissimi, un volume di centinaia di pagine. Ci abbracciamo nuovamente. I libri pesano e li vuole portare lui. Arriviamo con l’ascensore al portone di Santa Marta, presidiato dalle guardie svizzere e dai suoi più stretti collaboratori.
La mia automobile è davanti al portico. Il mio autista scende per salutare il Papa (si stringono la mano) e cerca d’aiutarmi a entrare in automobile. Il Papa lo invita a rimettersi alla guida e ad accendere il motore. "L’aiuto io" dice Francesco. E accade una cosa che secondo me non è mai accaduta: il Papa mi sostiene e mi aiuta a entrare in macchina tenendo lo sportello aperto. Quando sono dentro mi domanda se mi sono messo comodo. Rispondo di sì, lui chiude la portiera e fa un passo indietro aspettando che la macchina parta, salutandomi fino all’ultimo agitando il braccio e la mano mentre io - lo confesso - ho il viso bagnato di lacrime di commozione.
Ho scritto spesso che Francesco è un rivoluzionario. Pensa di beatificare Pascal, pensa ai poveri e agli immigrati, auspica un’Europa federata e - ultimo ma non ultimo - mi mette in macchina con le sue braccia.
Un Papa come questo non l’abbiamo mai avuto.
Un genio dei numeri. Ma adatto agli altari?
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 13.07.2017)
Scalfari si è rivolto a un papa che sembra poco interessato alle questioni dottrinali e ai pronunciamenti ex cathedra, e che per le sue dichiarazioni estemporanee è stato appunto spesso accusato o elogiato, a seconda dei gusti, di «essere protestante».
Anzitutto, parlando di Pascal bisogna ricordare di avere a che fare con un genio, che all’età di soli sedici anni rivoluzionò la geometria dimostrando un teorema su una strana configurazione che egli stesso chiamò “esagramma mistico”, rivelando fin da subito una singolare propensione a mescolare fra loro il diavolo della matematica con l’acqua santa della spiritualità.
Un’attitudine che trovò in seguito la sua migliore espressione nella famosa “scommessa”: l’idea, cioè, che conviene credere, perché si rischia di meno che a non credere. Se infatti Dio non esiste, si spreca una vita terrena di durata finita, ma se Dio esiste, si guadagna una beatitudine eterna.
Ma bisogna anche considerare che Pascal è ricordato in Francia come un padre della prosa, per quel capolavoro che sono le Lettere provinciali: un testo che metteva alla berlina i gesuiti, criticandoli raffinatamente su due fronti. Da un lato, emergeva il loro pensiero contraddittorio e compromissorio a proposito del pentimento, la confessione, l’assoluzione, la penitenza e la comunione. E, dall’altro lato, veniva avanti il loro esplicito tentativo di blandire gli intellettuali di riferimento dell’epoca per arruolarli dalla loro parte.
Riletto oggi, quel pamphlet di Pascal appare applicarsi quasi alla lettera alle posizioni del gesuita Bergoglio sulla comunione ai divorziati, da un lato, e al suo rapporto con i media, dall’altro, e difficilmente passerebbe il vaglio degli “organi vaticani preposti”. Infatti, saggiamente, Scalfari fa riferimento nella sua proposta non alle meno note Lettere provinciali, ma ai più famosi Pensieri di Pascal, che definisce «un libro splendido e religiosamente di grande interesse».
La cosa è sorprendente, da un punto di vista letterario e intellettuale. I Pensieri non sono infatti un’opera autografa di Pascal, ma una raccolta postuma che stupì e imbarazzò persino i suoi più intimi amici e i suoi più appassionati difensori. Il discepolo Pierre Nicole li definì «un’accozzaglia di materiali indistinti, di cui non sono riuscito a intuire l’uso che volesse farne l’autore». E lo storico ufficiale del giansenismo Sainte-Beuve si domandò: «Non è che semplicemente ci troviamo di fronte a un malato, un visionario, un allucinato? Pascal, insomma, non ha, nei suoi ultimi anni di vita, smarrito la ragione?».
I Pensieri contengono alcuni noti aforismi sparsi, ma presentano nell’insieme una visione dell’uomo come un mostro incomprensibile a sé stesso, tormentato dalla propria incomprensibilità, che cerca inutilmente di comprendersi mediante le filosofie e le religioni non cristiane, e trova conforto solo nell’interpretazione letterale e superficiale della Bibbia: una visione integralista che, come notò già Voltaire, scandalizza i moderni.
Il Pascal delle Lettere provinciali e dei Pensieri è l’antitesi di Bergoglio. I matematici continueranno a mantenerlo sui piedistalli della matematica e a ricordare i suoi geniali risultati di geometria, calcolo infinitesimale e teoria della probabilità. Ma dubito che un papa gesuita e la sua Chiesa gli permetteranno mai di salire sui loro altari, e di venir additato ufficialmente come un esempio di ortodossia e di santità.
Pascal, la scommessa del «ben pensare»
di Edgar Morin (Avvenire, 11 febbraio 2013)
La coscienza razionale accresciuta dai limiti della ragione, compresi quelli scientifici (Popper, Gödel e altri) lo conferma. Il sorgere delle aporie in tutti gli avanzamenti del pensiero scientifico ci fanno ritrovare spontaneamente l’idea di Pascal (e di Niels Bohr) secondo cui il contrario di una verità profonda non è un errore bensì un’altra verità profonda.
Pascal ci ha situati tra due infiniti, il che è stato ampiamente confermato dalla microfisica e dall’astrofisica del XX secolo. Quando scrive: «Che cos’è un uomo nell’infinito? Chi può comprenderlo?», presume già la nostra vertiginosa piccolezza in seno a un sistema solare lillipuziano e a una galassia nana, in un cosmo che si estende su miliardi di anni luce. Scrivendo che l’uomo è come smarrito «in questa regione fuori mano della natura», immaginava quasi la marginalità della nostra terra, terzo satellite di un sole, astro perduto in una galassia periferica fra miliardi di galassie di un universo in espansione.
Scrivendo che un acaro può contenere «un’infinità di universi di cui ciascuno ha il proprio firmamento, i suoi pianeti, la sua terra», già suppone il nostro incredibile gigantismo in rapporto al mondo subatomico, senza ancora sospettare che noi fossimo costituiti da miliardi di miliardi di particelle e attraversati incessantemente da miliardi di neutrini. Così le ultime scoperte della scienza della natura giungono alla situazione paradossale, già annunciata da Pascal, in cui la conoscenza sfocia sul Mistero: «Per quanto gonfiamo le nostre concezioni al di là degli spazi immaginabili, non riusciamo che a partorire atomi in preda alla realtà delle cose»
La razionalità difesa da Pascal è di un carattere superiore rispetto a quella di Cartesio. Introduce una causalità interattiva, retroattiva, e ad anello. Pascal scrive: «Poiché tutte le cose sono causate e causanti aiutate e aiutanti, mediate e immediate, e tutte intrattengono un legame naturale e insensibile che connette le più lontane e le più differenti, ritengo sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto come del pari conoscere il tutto senza conoscere nel dettaglio le parti».
Quando ho ritrovato questa frase, mi sono reso conto che essa esprimeva, nel modo più denso e ammirevole, ciò a cui io ero giunto dopo un lungo lavoro. Ho così scoperto che i pensieri cardinali di Pascal sono germinati dentro di me, che ero loro fedele, talvolta perfino senza saperlo, e che essi hanno chiarito le mie elaborazioni che credevo nuove.
Questa formula di Pascal si oppone a quella di Cartesio che pone la necessità, nel suo Discorso del metodo, di «separare tutte le cose e cogliere ciascuna delle difficoltà che esaminerò in tutte le parti che sarà possibile e che sarà necessario per meglio risolverlo». Ma, di fatto, esse sono complementari. Dobbiamo associare i due procedimenti, di disgiunzione e di congiunzione, di semplificazione e di complessificazione e pensarli come antagonisti e complementari.
Questa formula pascaliana, «poiché tutte le cose sono causate e causanti...», dovrebbe essere inscritta a lettere d’oro sul frontone di tutte le università del mondo. Essa rompe con la causalità lineare e il pensiero semplificatore che regnano ancora nel XXI secolo. Essa illustra e illumina la necessità, divenuta vitale per la conoscenza, il pensiero e l’azione, di superare le compartimentazioni disciplinari e di riscoprire i problemi fondamentali e globali dell’umanità. Pascal ci spinge a concepire un’antropologia complessa in cui homo sapiens è anche demens, homo faber è anche immaginario e mitologico, homo oeconomicus è anche homo ludens, in cui l’uomo non è soltanto prosaico, votato ai compiti utilitaristici, ma anche poetico, votato alla comunione e all’amore.
Infine Pascal ci dà una lezione etica più necessaria che mai. «Applicarsi a ben pensare, ecco il principio della morale», dice. L’etica non può soddisfare le buone intenzioni. Essa deve mobilitare l’intelligenza per affrontare la complessità della vita, il che per me significa «ben pensare». È chiaro che bisogna distinguere la coscienza intellettuale da quella morale, ma è necessario che il loro legame e la loro inseparabilità vengano mantenuti.
«Ben pensare» significa per me abbandonare i punti di vista dei saperi separati che non sanno vedere l’urgenza e ciò che è essenziale; abbattere le barriere tra i saperi, vedere il tutto nelle parti e le parti nel tutto; sforzarsi di concepire delle solidarietà fra gli elementi di un tutto, e da lì tendere a suscitare una coscienza di solidarietà; conoscere i contesti e riconoscere le complessità delle situazioni in cui dobbiamo agire, comprendere in particolare che c’è una «ecologia dell’azione», che può spesso sviare le nostre azioni dal loro senso desiderato e orientarle perfino in senso contrario, per cui le nostre intenzioni morali possono sfociare in risultati immorali; riconoscere e affrontare incertezze morali e contraddizioni etiche, comprendere che il bene e il male non possono essere sempre distinti facilmente, sapere che i nostri doveri etici sono spesso antagonistici, e perfino inconciliabili, poiché abbiamo doveri verso noi stessi, verso i nostri cari, verso la società, verso la specie, verso la nostra Terra-patria; riconoscere le potenze d’accecamento o di illusione dello spirito umano, il che comporta una lotta contro le deformazioni della memoria, le dimenticanze selettive, l’autogiustificazione, l’autoaccecamento; includere nella conoscenza oggettiva la conoscenza soggettiva del soggetto che conosce, nella conoscenza degli oggetti la comprensione umana, cioè il riconoscimento della complessità umana... Ecco un po’ di tutto quel che intendo quando parlo di «ben pensare».
Edgar Morin
LA GLOBALIZZAZIONE È UN FATTO IRREVERSIBILE CHE NOI TENDIAMO A SPIEGARE IN MODO UNIVOCO, E NON INVECE, COME SI DOVREBBE, IN MODO EQUIVOCO.
La sfida. Diventare cittadini
Dialogare con l’«altro» è il primo passo per uscire dalla crisi
Confronto e riconoscimento nutrono la vita collettiva:
la politica non può limitarsi a prendere atto della realtà, deve riprendere la sua centralità e progettare alternative
di Sergio Givone (l’Unità, 14.06.2012)
Il processo in corso produce uniformità: ovunque andiamo ci ritroviamo sempre allo stesso punto, distinguiamo a stento la periferia di Milano dalla periferia di New York. Una tendenza universale all’omogeneità sta cambiando la fisionomia dei luoghi e degli stili di vita, dei modi di produzione e di distribuzione delle merci o di circolazione delle persone: è il caso degli aeroporti che esprimono un modello urbanistico universale. Tuttavia, questa grande tensione all’omogeneità che è sotto gli occhi di tutti e per questo è enfatizzata cela un altro processo in corso di natura opposta, un vero contromovimento: da un fondo nascosto emergono modi di vivere che costituiscono l’esatto contrario dell’uniformità. Nel mondo globalizzato acquistano nuova forza i localismi, i tribalismi e i fideismi, le religioni tornano a essere superstizioni. Insomma, un mondo in cui viviamo tutti la stessa vita e che dovrebbe portare, se non alla pace universale, almeno a una maggiore comprensione degli uni e degli altri, in realtà acuisce i particolarismi, le tensioni e i conflitti.
Come affrontare questo problema? Non esiste un governo mondiale dell’economia e la crisi che stiamo attraversando lo conferma: non siamo riusciti a inventare un governo dei processi economici e dei rapporti tra le nazioni, e neppure dei giudizi da dare sulle tragedie e sulle guerre che insanguinano il mondo.
La strada da percorrere è un’altra. Dobbiamo ripartire dalle persone, dai loro bisogni e dalle loro contraddizioni, e ciò è possibile solo imparando a dialogare, dunque a capire che io non sono tu, ma che solo grazie al rapporto con il tu io sono e posso dire «io». Quando mi guardo allo specchio accade qualcosa di strano, come se non mi riconoscessi, e ciò non avviene perché non mi piaccio o perché mi rendo conto con amarezza di come mi abbia ridotto il passare degli anni: non è questo il punto. Se guardandomi allo specchio accade che io non mi riconosca, che io non veda sulla superficie dello specchio la conferma inoppugnabile e tranquillizzante della mia identità, ciò è dovuto a una ragione molto più profonda: io sono sempre altro rispetto alla mia identità, o meglio, la mia identità si costruisce solo in rapporto all’identità dell’altro. Allora, se le cose stanno così, imparare a dialogare non significa banalmente imparare a sopportarci, bensì capire che io sono solo grazie all’altro, e non solo grazie a quell’altro che conosco e che amo, grazie all’amico, al familiare, al vicino o al concittadino che con me condivide abitudini e esperienze. No, io sono io anche grazie all’altro che mi dà fastidio, all’altro che mi toglie spazi che ritengo miei. Solo grazie a lui io sono io, sono vivo e vado avanti: capire davvero tutto questo, e da qui ripartire, è la vera rivoluzione. Questo è il nodo di quel processo che, con Bauman, possiamo chiamare glocalizzazione.
Rimane da capire in che modo tale processo rivoluzionario di riconoscimento dell’altro, che sposta l’accento sulle persone - cioè su noi cittadini come soggetti attivi del presente - possa influire sulle grandi decisioni politiche ed economiche. Un buon esempio potrebbe essere questo: fare il contrario di quanto sin qui si è fatto con le legge elettorali, che prevedono apparati che di fatto nominano i rappresentanti dei cittadini. Non può essere così: i rappresentanti dei cittadini devono venire dai cittadini stessi.
Il rischio che la parola dei cittadini si disperda attraverso i numerosi passaggi che portano alle grandi decisioni politiche ed economiche, anche per un problema di competenze, è un rischio reale che va affrontato. I greci avevano coniato una parola bellissima: agoreuein, prendere la parola in piazza. È un verbo carico di significato, che non vuol dire solo esporre una certa tesi, ma anche farsi responsabili di quella tesi di fronte ai concittadini. Ovviamente si tratta di un modello di democrazia diretta adatto a una città stato dove parlamento e piazza coincidevano, ma che certo non funziona in uno stato di diecimila città: qui ci vogliono le mediazioni, è chiaro. Ma le mediazioni non sono imposizioni, dunque non devono essere strumenti in mano a chi ha ottenuto il potere e se ne serve imponendo regole e misure dall’alto. Le cose non funzionano così: le mediazioni devono realmente mediare, devono permettere un autentico interfacciarsi dei cittadini e dei luoghi istituzionali in cui si prendono le decisioni.
In questo modo diverso d’intendere le mediazioni si cela la risposta alla grande domanda sul ruolo e sul destino della politica di fronte all’egemonia dell’economia finanziarizzata. La politica ridotta a tecnica gestionale dell’economia in realtà, ormai è chiaro, non gestisce un bel niente. Questa politica ci dice solo: le cose nel mondo vanno in questo modo perché così vogliono le leggi di mercato, i tassi d’interesse o lo spread. La politica ritiene di poter solo prendere atto della realtà e di avere davanti a sé un’unica soluzione. Poi, però, vediamo che la stessa attualità più stringente smentisce l’idea della soluzione unica dettata dal mercato. Il nodo cruciale della Grecia, ad esempio, può essere affrontato in un modo o in un altro, esistono alternative reali la cui portata va ben aldilà del mero fatto economico.
Dobbiamo capire che restituire alla politica la sua centralità ci conviene, anche dal punto di vista economico. Una simile rivoluzione che parte dalla centralità delle persone e dal riconoscimento dell’altro come origine dell’io va perseguita non perché sia una scelta più etica o più gratificante ma perché, di fronte alla crisi, ci prospetta delle soluzioni alternative. Litigare ci conviene. Confrontarci senza sosta e magari confliggere nelle scelte e nelle visioni da realizzare, liberandoci dall’illusione della soluzione unica imposta dal mercato, è l’unica strada che ci conviene percorrere.
Metafisica del contagio
Il nuovo saggio di Sergio Givone spiega come “la peste” diventi, storicamente e socialmente, un’infezione della mente prima che del corpo
Emergenza, caos e malattia: le metafore delle nostre paure
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 14.06.2012)
Chiudo il nuovo libro di Sergio Givone - Metafisica della peste (Einaudi) - con la sensazione che qualcosa, negli ultimi anni, è accaduto nelle nostre teste. È come se il nostro paesaggio mentale abbia inasprito le parti più dolci e reso impervi certi percorsi psichici. I sentimenti si fanno più precari e inquietanti e ci rendono più deboli e più esposti al contagio. A quei focolai di paura e sfiducia che vediamo crescere intorno. In fondo, l’essenza della peste è nell’improvviso insorgere del timore del contagio. Tutto repentinamente muta. L’ordine fin lì esercitato si riscrive in codici impensabili fino a un attimo prima. Il contagio richiama l’emergenza, lo stato d’eccezione, l’enigma. È di questo che ci parla il libro di Givone? Lungo un percorso nel quale tornano le colte letture di questo filosofo - allievo di Luigi Pareyson, professore di Estetica all’Università di Firenze e da pochi giorni assessore alla cultura al comune di Firenze - scopriamo le forti congiunzioni tra il discorso letterario e quello filosofico.
Non teme una certa confusione di generi?
«E perché mai? I grandi testi che hanno preso a tema la peste non fanno differenza fra filosofia e letteratura. Cos’è Lucrezio - che della peste è il massimo poeta - filosofo o letterato? E Camus che al tema ha dedicato uno straordinario romanzo? Se guardo poi alla nostra tradizione penso che la Storia della colonna infame di Manzoni è probabilmente il più importante libro di filosofia morale del nostro Ottocento ».
La peste è un evento che proprio Manzoni riconduce a un disegno divino. Mentre Lucrezio ha un’idea opposta.
«Intendiamoci: la peste è un’infezione del corpo, una malattia che oggi sappiamo definire con precisione. Ma quando ho citato Lucrezio è perché nessuno come lui ci spinge a liberarci dalla superstizione che la peste ingenera e cioè dalla credenza che essa venga dal cielo. Non c’è nessun disegno divino che ci riguardi. Il mondo è il mondo e basta. Ma proprio questa assenza di trascendenza, questo vuoto nel quale versiamo, è la colpa».
La peste, come tutto quello che rappresenta la regressione estrema, ci trova impreparati. Non pensa che una catastrofe ha sempre qualcosa di inaudito?
«Ogni disastro epocale ci fa entrare in una desolazione primordiale. È vero: prima che accada, la catastrofe è impensabile. Per questo è difficile prendere delle precauzioni. La peste è un fenomeno della natura. Ma la natura non basta a spiegarla».
La peste scatena sia i meccanismi mentali che quelli fisici del contagio. Quali sono i più temibili?
«I meccanismi del contagio sono stati scoperti nell’Ottocento. Ma in fondo, già Omero parlava delle frecce che appestano, scagliate da Apollo nel campo degli Achei. Di solito però gli scrittori, i poeti, i filosofi sono stati attratti più dai meccanismi mentali ed emotivi che non dal carattere meccanico del contagio. Ipotizzando che i primi fossero più importanti del secondo. Artaud sosteneva che la peste è un fenomeno virtuale, ma aggiungeva che il virtuale è più reale del reale».
Oggi il contagio assume forme diverse: le pandemie, l’Aids, i virus nella Rete, il contagio finanziario. C’è in queste espressioni odierne qualcosa di diverso rispetto alle narrazioni che in passato si sono fatte della peste?
«La differenza è che oggi abbiamo occhi solo per la peste qual è veramente e non come la immaginiamo che sia. È chiaro che la medicina combatte la peste in modo più efficace della metafisica. Però allora come oggi la peste è un tremendo carro allegorico che irrompe nelle nostre città e travolge ogni cosa. Solo se ci rendiamo conto che sempre di contagio si tratta, anche se solo in senso traslato, possiamo sperare di scamparla».
Questa relazione che lei stabilisce tra metafisica e peste non rischia di essere equivoca? «In che senso?»
Dopotutto, siamo inclini a pensare che la metafisica debba risalire a una causa prima. In realtà la peste è esattamente l’opposto: un’irruzione del caos, dell’inspiegabile, l’assenza di un fondamento che non sia una spiegazione scientifica. «Dipende da cosa vogliamo intendere con l’espressione “metafisica”. Secondo Aristotele essa è la scienza dell’essere in quanto tale. Dopo di lui si è pensato che in questione fosse appunto il fondamento, la ragione delle cose. Ma questo schema conoscitivo è assai più convincente se è svolto dalla scienza piuttosto che dalla metafisica. Quest’ultima ritengo debba occuparsi non tanto della ragione delle cose, ma del loro senso».
Con quali effetti?
«È la metafisica a dirci che la peste non ha nessun senso e questa insensatezza è il senso dell’essere».
A proposito di insensatezza come giudica l’idea che ci siano in Europa paesi come la Grecia, la Spagna e forse domani l’Italia che minacciano di contagiare il resto del mondo?
«Da un lato digrigno i denti perché trovo eccessivo il tentativo da parte dei paesi che si presumono sani o immuni di colpevolizzare i paesi appestati. Dall’altro mi domando se davvero non abbiamo colpa. E penso al nostro paese e a quegli allegri monatti che per quasi vent’anni hanno distribuito a piene mani intrugli malefici. Chi li ha voluti? Chi li ha eletti democraticamente?»
Anche la politica è vista oggi come un luogo di appestati.
«È un mondo chiuso in se stesso, autoreferenziale, poco incline a farsi tramite delle istanze dei cittadini».
E perché lei ha accettato di farne parte?
«È la prima volta in vita mia che assumo un incarico politico, per la precisione, come assessore alla cultura. Penso, o mi illudo, che ci sia ancora lo spazio per la correttezza del linguaggio del fare e delle parole chiare e coerenti».
La lingua è proprio l’organismo più esposto al contagio.
«Appestata è la lingua che ci ritroviamo a parlare per inerzia, per imitazione: la lingua di Facebook, di Twitter, figlia della televisione, a confronto della quale quella del vecchio e glorioso Bar Sport mi appare salutarmente ironica. La verità è che chi parla male pensa male. E chi pensa male, prima o poi il male lo fa».
Il male, come la peste, produce il disordine?
«L’arrivo della peste produce caos. Ma c’era chi, come Boccaccio, pensava che il crollo di ogni realtà civile fosse già la peste. In ogni caso, la peste è un’occasione per il pensiero: invita a pensare dall’impensabile, dal nulla che ci minaccia».
Caos, disordine, stato d’eccezione. Il tempo della peste sospende il tempo della normalità?
«Daniel Defoe, che scriveva sulla peste di Londra intorno alla metà del XVII secolo, in anni non lontani dal Leviatano di Hobbes, pensava così. Ma sapeva anche che la sospensione del tempo della normalità, in cui ciascuno attende ai suoi doveri, mette capo a un’alternativa. O la rinuncia alla libertà e a tutti i diritti, tranne quello di aver salva la vita. O l’assunzione di una libertà totale, grazie alla quale farsi responsabili di tutto nei confronti di tutti. Anche di ciò che non abbiamo voluto».
Non le pare che è chiedere un po’ troppo a questa fragile creatura che è l’uomo? Non le pare che viviamo ormai immersi nel tempo del colera?
«Penso che si viva sempre nel tempo del colera. E se questo è vero, allora hanno senso quelle vite che, nonostante la fragilità, si fanno carico del problema. Non hanno senso quelle che il problema lo ignorano, come se vivessero nel tempo della beata innocenza».
Donne e violenza problema politico
di Sergio Givone (Il Messaggero, 6 marzo 2012)
Come ci ricordano i più recenti fatti di cronaca, non solo il mondo dell’economia, ma anche il mondo dell’etica, il mondo dove leggi non scritte regolano i rapporti tra gli uomini, ha il suo sommerso. La violenza sulle donne serpeggia tra di noi, nelle famiglie, nella società civile, ma viene tenuta nascosta, taciuta, come cosa di cui non si vorrebbe né parlare né sentire. Eppure è sempre lì, non meno presente che in epoche in cui il diritto ben poco diceva in proposito. Nel frattempo la famiglia si è profondamente trasformata. La sua legislazione si è uniformata a costumi più civili e più consoni alla dignità di questa fondamentale istituzione. Vedi ad esempio la legge sullo stalking: che è una buona legge, a protezione di chi prima neppure si immaginava dovesse essere difeso dall’ira o dalla furia del proprio coniuge o dei propri familiari.
Ma è rimasta come una zona d’ombra, un lato oscuro, dove si susseguono gli episodi di una saga dell’orrore. L’altro ieri a Brescia, ieri a Verona. I comportamenti di tanta brava gente «normale» sembrano governati da una sorda e cupa irrazionalità, da un folle impulso distruttivo, da una sete di vendetta e di sangue. Di fronte alla separazione, c’è chi letteralmente impazzisce. E anziché trovare un compromesso e costruire un nuovo ponte verso la vita che continua (quando un legame si spezza, resta sempre qualcosa, a volte qualcosa di molto importante e prezioso), preferisce annientare la vita altrui e la propria.
Che dire? Evidentemente quel rapporto non era un rapporto tra due persone, ma una forma di possesso e di dominio dell’una sull’altra. Da una parte il padrone, dall’altra una sua proprietà inalienabile, un oggetto, una cosa, che non appena rivendica la sua autonomia, viene ridotta a nulla, poiché agli occhi del padrone non è più nulla. Lui stesso a quel punto non sa più chi è. E si ammazza o tenta di farlo. Accecato dalla gelosia, si dice. Spinto a un gesto insano dal proprio demone e cioè dal bisogno di affermazione, dalla prepotenza, dall’egotismo. Tutto ciò - si aggiunge - sarebbe in fondo una caratteristica di un popolo come il nostro, popolo passionale, votato al melodramma, e comunque poco propenso all’autocontrollo e all’esercizio delle virtù civili.
Spiegazione, questa, che in realtà non spiega niente. Perché qui non si tratta di melodramma o non melodramma. Si tratta di sapere o non saper gestire una situazione autenticamente drammatica come per l’appunto una separazione (che è sempre tale, anche quando si vorrebbe bastasse il buon senso e una stretta di mano), dal momento che niente è così difficile come essere all’altezza del dramma che la vita prima o poi ci costringe a recitare.
E chissà se anche oggi gli uomini politici si fanno domande di questo genere. In agenda le questioni economiche e finanziarie prevalgono sulle altre, ma sempre lì si va a parare. Prendiamo l’evasione fiscale. Sarà pure una tendenza incoercibile degli italiani. Ciò non toglie che il sommerso possa essere portato alla luce e sanzionato di conseguenza. Magari nella prospettiva di una educazione al bene comune.
Lo stesso vale per la violenza sulle donne. È anch’esso un mondo del sommerso, mondo dove ciò che non si vede e non si sa prevale di gran lunga su ciò che è noto. Ma perché non esplorare questo mondo sciagurato e maledetto con tutti i mezzi di cui si dispone? Perché non approntare una legislazione che faccia giustizia, per quanto è possibile, di un crimine tanto odioso?
Lo spirito di Port-Royal
Tra Sant’Agostino e Pascal, storia del pensiero forte
Ripubblicato il capolavoro di Sainte-Beuve che racconta idee e protagonisti di un’epoca d’oro
Da Montaigne a Voltaire, radici e influenze della filosofia nata nell’abbazia francese
Un’opera vastissima dove ogni lettore può trovare il suo alimento
Il cuore sta nella famiglia Arnauld e nella Grazia come illuminazione radiosa e dono
di Pietro Citati (la Repubblica, 10.03.2011)
È uscito da Einaudi il PortRoyal di Sainte-Beuve (a cura di Mario Richter, vol. I-II, pagg. XCI-2100, euro 150), da molto tempo esaurito nelle librerie italiane, e nella Pléiade di Gallimard. Parlare di evento è poco. Il Port-Royal è uno dei rarissimi capolavori della storiografia di ogni tempo e di ogni paese; e va posto accanto ai libri supremi; Erodoto, Tucidide, Senofonte, Curzio Rufo, Ammiano Marcellino, Beda, Liutprando, Guicciardini, Gibbon.
Il Port-Royal è un libro straordinariamente vasto. Comincia con Montaigne e finisce con Voltaire: discorre volubilmente di tutto: storia politica, guerre, storia morale, letteratura, eloquenza, religione, psicologia, paesaggio; e non si arresta mai senza aver esaurito le sue innumerevoli forme. Appaiono i grandi della letteratura e della religione; e centinaia di piccoli ritratti: figure in movimento, devote, profonde, solenni, frivole, drammatiche, avventurose. Alla fine, Port-Royal basta a tutti. Ogni lettore possibile vi trova il suo alimento definitivo.
Il libro comincia, o finge di cominciare, nel cuore del sedicesimo secolo, con Montaigne e San Francesco di Sales. Da principio, Sainte-Beuve sembra vicinissimo a Montaigne: mobile, frivolo, cangiante, multiforme, fluttuante, morbido, frantumato, molle, analogico, onnipresente: parla come Montaigne, conserva fedelmente nella memoria i libri che egli amava - e poi, all’improvviso, abbandona il suo meraviglioso modello. Solo alla fine comprendiamo che il romantico profondamente cristiano che abita in Sainte-Beuve non sopporta il profondo acristianesimo degli Essais. Verso San Francesco di Sales e la sua "dolce devozione interiore", Sainte-Beuve ha una simpatia intensissima: ama quella piacevole abbondanza di parole, quella fioritura graziosamente famigliare di immagini, quelle "siepi profumate di similitudini": ma presto si rende conto che la strada verso Port-Royal lo porterà in luoghi diversi. Sono le diverse "famiglie naturali" degli spiriti, tra le quali Sainte-Beuve muove, oscilla, guizza con una versatilità colorata.
***
Per Sainte-Beuve, Port-Royal des Champs e Port-Royal de Paris sono due paesaggi della natura e dello spirito: due Gerusalemmi celesti, che occupano un posto unico in terra. Port-Royal des Champs era un monastero medioevale cistercense, fondato nel 1204 nella valle della Chevreuse: mentre il secondo Port-Royal era stato costruito nel faubourg Saint-Jacques, a Parigi. Sainte-Beuve ama questi due luoghi: inquieto, sofferente, curioso dei fiori nascosti dell’anima, vi era penetrato da giovane, visitando i boschi, gli edifici, gli stagni, i chiostri, e camminando lungo le navate: aveva ascoltato le preghiere, i pianti, gli inni dei monaci mentre guardava commosso la loro folla raccolta attorno a lui, per trovare finalmente una voce. Era la sua voce: la sua morbida e inquieta voce; la sola che poteva prestare a tutti i fantasmi di Port-Royal.
Il cuore di Port-Royal era, per Sainte-Beuve, la famiglia Arnauld, con tutti i parenti vicini e lontani, e gli amici e gli affini. Come amava dire, si trattava di una vasta famiglia d’anime, segnata da un timbro inconfondibile. Era, in primo luogo, una tribù di patriarchi borghesi, profumati di Bibbia, con la devozione di una dinastia cinquecentesca. Possedevano un’autorità naturale: una eloquenza che preferiva la parola orale a quella scritta: una moderazione rigorosa: la grandezza romana o spagnola del gesto. Avevano un coraggio guerriero: nessun timore dei potenti: pervicacia: urbanità: ardore; e un’ironia sottilissima, lo spirito di Port-Royal, che comunicarono al più spiritoso di tutti i solitari: Pascal.
Qualcuno dei loro amici, e dei loro nemici, scrisse che gli Arnauld, in qualsiasi momento della loro esistenza, erano posseduti da un pensiero unico, da una parola misteriosa, la Grazia. Ma cos’era la Grazia? Ne aveva parlato Sant’Agostino; e Giansenio. La Grazia era un’illuminazione radiosissima: un dono inesplicabile, che scendeva da chissà dove; ma anche un lavoro, una fatica dura e persistente, che impregnava le giornate degli Arnauld. Se si guardavano attorno, nei campi e nelle chiese di Port-Royal, tutto era grazia: innumerevoli scintille di grazia. Armati con questo strumento dolcissimo e terribile, essi distinguevano e classificavano le vocazioni, i talenti, le ispirazioni di Dio: educavano le famiglie degli spiriti. Così nascevano le grandi menti, ardenti e insaziabili, nutrite di religione: la grandezza e la follia cristiana, il vero argomento di Sainte-Beuve. Più ancora dei monaci, Sainte-Beuve amava le Madri di Port-Royal; e la più grande di tutte, Madre Angélique. Ne parlava incessantemente e ne trascriveva le lettere, con una passione che non finiva di esaurirsi, come se soltanto in una monaca potesse calarsi l’occulto e manifesto spirito di Cristo. Quale grandezza, quale dolcezza, quale devozione, quale rispetto, quale timore di Dio; e anche quale grazia ironica, perché, come disse una volta Cristina Campo, solo le sante sono (o erano) spiritose. Così queste donne austerissime, perennemente in preghiera, avevano un immenso successo mondano. Intorno a Madre Angélique svolazzavano le spiritose e graziose dame gianseniste: madame de Sablé, madame de Sévigné, madame de La Fayette, madame de Longueville, coi loro sterminati epistolari.
Port Royal ha un culmine: Pascal, rappresentato con una complessità e una tensione grandiose. Non c’è niente di più terribile delle nevrosi e dei traumi di Pascal: durante un incidente, Pascal perde i sensi e pochi giorni dopo viene illuminato da una visione: le lunghissime insonnie, appena alleviate dai notturni esercizi di geometria; l’angoscia dell’abisso, aperto come una ferita vertiginosa al suo lato sinistro. Sainte-Beuve adorava la leggera, irrispettosa, insolente ironia delle Provinciales: la tremenda forza di volontà che nelle Pensées assoggettava la facoltà di ricerca: la percezione netta e sottile del reale; e la perfezione sovrana dell’intelletto, che conosceva soltanto ciò che è puro e distinto.
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Sainte-Beuve non amava, in Port-Royal, tutto ciò che di solito veniva definito giansenista. Non poteva dimenticare di essere un figlio di Rousseau, un fratello di Lamartine e di Lamennais, un futuro parente di Nerval e di Baudelaire. Leggendo le pagine di Arnauld, di Giansenio e di Nicole, le trovava troppo rigide, troppo contratte, e soprattutto senza colore, linfa e sangue. Mancavano di quella vita, che affluiva così liberamente negli Essais di Montaigne e negli scritti di Pascal.
Port-Royal fu ucciso da questa sterilità, oltre che dalle paurose persecuzioni politiche. La furia della menzogna e del male, l’orgoglio di Luigi XIV e dei vescovi si scatenarono sopra la piccola chiesa e i cori, che con voci celestiali ed austere avevano invocato Dio. L’autunno scese rapidamente. Port-Royal diventò una fortezza assediata, che il potere voleva conquistare per inedia. Le monache diminuirono. Le converse scomparvero. Durante i primi anni del diciottesimo secolo, sul Journal di Port-Royal si leggevano soltanto uffici di defunti, brevi commemorazioni funebri. L’antico monastero cistercense si trasformò in una necropoli sacra. Le salme dei monaci e delle monache venivano esumate e trasportate in altre chiese. La valle di Port-Royal diventò un immenso ossario, dove le zappe dei becchini rimuovevano incessantemente un terreno arido, dal quale un tempo tanta vita spirituale era sgorgata.
L’ncontro con il clero di Roma
Richiamo del Papa: «Rubare e mentire non è umano» *
Rubare o mentire non può essere giustificato come una debolezza umana: è quanto ha detto papa Benedetto XVI, parlando oggi a braccio davanti al clero di Roma. «Non si dica più - ha affermato il Papa, che ha parlato a braccio - ha mentito, è umano; ha rubato, è umano». «Questo - ha aggiunto - non è il vero essere umani. Essere umani vuol dire esseri generosi, volere la giustizia, la prudenza, la saggezza essere a immagine di Dio», perchè «il peccato non è mai solidarietà è sempre assenza di solidarietà».
Il sacerdote, ha spiegato ancora papa Ratzinger, «deve essere uomo, vivere la vera umanità, il vero umanesimo, avere formazione delle virtù umane, sviluppare la sue intelligenza, i suoi affetti. Sappiamo che l’essere umano è ferito dal peccato, ma con l’aiuto di Cristo esce da questo oscuramento della propria natura».
Proseguendo ha parlato dell’obbedienza «è una parola che non piace nel nostro tempo», perchè al giorno d’oggi la si assimila ad «alienazione», «atteggiamento servile», sottomissione alla «volontà di un altro», mentre «l’autodeterminazione sarebbe la vera esistenza umana».
Tuttavia, ha aggiunto, la «libertà» e la «obbedienza» sono «due cose che vanno insieme», perchè «l’obbedienza a Dio, cioè la conformità alla verità del nostro essere, è la vera libertà, è la divinizzazione».
Il pontefice ha tenuto questa mattina una Lectio divina al clero di Roma su ad alcuni passi della Lettera agli Ebrei.
* Avvenire, 18 Febbraio 2010
Se l’uomo si fa lupo
di Enzo Bianchi (La Stampa, 19 febbraio 2010)
Mentire, rubare «non è il vero essere umano». Certo, solo gli esseri umani mentono e rubano, è proprio della nostra natura ferita cadere in comportamenti deprecabili, ma l’efficace uscita di Benedetto XVI contiene un senso ben più profondo.
Rubare, mentire e più in generale trasgredire uno dei dieci comandamenti - le dieci parole che narrano la verità intima dell’uomo - non è solo questione di commettere un peccato, di infrangere un precetto religioso, vuol dire anche e soprattutto tradire la propria e l’altrui dignità umana.
Umano, infatti, non è ciò che fan tutti, cedendo al proprio istinto, assecondando il proprio egoismo o usando in modo distorto delle proprie capacità intellettive. Umano, invece, è ciò che rende l’uomo degno di tal nome, ogni gesto e parola che crea comunione, che accresce la vita, che manifesta solidarietà verso i propri simili. Homo homini lupus recita l’antichissimo adagio ma, appunto, così facendo l’uomo si mostra lupo non uomo!
In questo senso il messaggio biblico, e quello evangelico in particolare, sono una «buona notizia» innanzitutto antropologica: ci aiutano a capire, svelano ai nostri occhi l’autentica qualità dell’uomo.
«Ecce homo!» ha esclamato Pilato di fronte a Gesù: un’espressione che da parte sua voleva solo additare l’imputato, l’uomo che si stava giudicando. Ma l’evangelista che narra la scena va più in profondità e fa di quell’esclamazione di un pagano l’annuncio che l’uomo secondo il pensiero e il volere di Dio è quel condannato ingiustamente, che non ha mai mentito né rubato ma, al contrario, ha proclamato e vissuto la verità fino a identificarvisi e ha donato tutto se stesso agli altri, nulla trattenendo per sé.
Quando diciamo che certi comportamenti appartengono alla «natura umana», che sono inevitabili, quando ne sminuiamo la gravità chiamando tutti a correi, quando ci rifugiamo nell’«errare humanum est», noi in realtà offendiamo la dignità umana, sviliamo l’uomo che invece è capace di pensare, agire, vivere secondo una volontà di bene e non di male. Del resto, quando alcuni gesti malvagi vengono portati all’estremo, la nostra reazione non è forse proprio quella di considerarli disumani, bestiali, estranei all’uomo come lo concepiamo idealmente? Il Vangelo ci dice - e Benedetto XVI ce lo ha ricordato - che in ciascuno di noi alberga l’uomo vero, creato a immagine e somiglianza di Dio, una persona capace di rapportarsi con gli altri e con le cose non nello spazio della preda e della menzogna, ma in quello della condivisione, della solidarietà, della verità che è carità, attenzione agli altri e alla vita piena.