"CHARISSIMI" .... DIO e’ AMORE ("CHARITAS") non MAMMONA ("CARITAS" - "CARO-PREZZO")!!! Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo...
UN FALSO FILOLOGICO E TEOLOGICO. Così "il Dio del denaro" inganna Papa Ratzinger, e Papa Ratzinger inganna gli uomini.... e rende cieco anche Enzo Bianchi.
Enzo Bianchi sa che, pur usando la parola "caro" per esprimere il valore economico e quello affettivo, l’unica salvezza è nell’amore del prossimo, ma non riesce a ricordare - manca la grazia ("charis") e l’amore ("charitas") - e resta nella confusione
a cura di Federico La Sala *
Così il Dio del denaro inganna gli uomini
di Enzo Bianchi *
«Pecunia, l’argent, il denaro: il motore dell’economia? Il mezzo di scambio per eccellenza che si è imposto come standard universale? Misura non solo per il mercato dei beni e dei servizi, ma anche misura sul mercato del lavoro?
Il denaro mi spinge a esprimere il valore economico mediante l’aggettivo “caro” (Questo prodotto è più o meno caro...), in parallelo all’affetto che induce a dire a un altro “caro” (Mio caro...). Caro, cher, dear: una stessa parola per misurare il denaro e per misurare l’affetto.
Ma il denaro è un mezzo o un fine? Dipende per chi. Non è certamente un fine per l’economia, che insegue la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi. Non è un fine neppure per l’impresa, la quale vuole creare una ricchezza, un utile. E per l’individuo? Il fine è la felicità che dipende dall’amare e dall’essere amato, dal senso trovato del vivere, da un certo benessere materiale, dunque anche dal denaro. Sì, per alcuni il denaro è percepito come la chiave per accedere alla felicità. [...]
Nel cristianesimo, inoltre, il rapporto con il denaro va letto nello spazio della possibile idolatria (“La cupidigia è idolatria”), e “l’idolo prima di essere un falso teologico è un falso antropologico” (Adolphe Gesché), un’alienazione dell’uomo. [...]
Il denaro, infatti, chiede fede-fiducia in sé e diventa sicurezza, falsa sicurezza contro la morte, saturazione dei bisogni più veri che abitano il cuore dell’uomo, presenza potente che induce a vedere solo lui, il denaro, e a non vedere gli altri, ad agire senza gli altri e, se necessario, anche contro gli altri. [...]
* la Repubblica, 28.05.2009 (ripresa parziale - alcuni passi).
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
* Sul tema, in rete, si cfr.:
Papa Ratzinger inganna gli uomini: un falso filologico e ... un falso antropologico e teologico!!!
* Il Dialogo, Giovedì 28 Maggio,2009
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
FLS
Il caso.
Bianchi ha lasciato Bose: trasloco sofferto
L’annuncio dato dallo stesso fondatore ed ex priore con un tweet. La sua nuova residenza a Torino. Nel maggio 2020 la decisione vaticana di allontanarlo da Bose
di Riccardo Maccioni (Avvenire, martedì 8 giugno 2021)
Enzo Bianchi ha lasciato Bose. Ad annunciarlo lo stesso fondatore ed ex priore della comunità monastica con un tweet postato nella tarda serata di ieri. «Cari amici/e - scrive - per alcuni giorni sono stato silente e non vi ho inviato i pensieri emersi nel mio cuore ma un faticoso, sofferente trasloco me lo ha impedito: per noi vecchi migrare è uno strappo non pensabile anche perché ci prepariamo all’esodo finale, non a cambiar casa e terra». Nessuna conferma sulla nuova residenza, anche se l’ex priore sarebbe andato a vivere a Torino in un appartamento ristrutturato messo a disposizione da amici. Il trasferimento di Bianchi è l’atto (forse) conclusivo di una lunga dolorosa vicenda seguita all’elezione di fratel Luciano Manicardi come nuovo priore nel 2017. Le incomprensioni tra vecchia e nuova guida e le crescenti tensioni all’interno della comunità avevano portato, su richiesta della stessa fraternità, a una visita apostolica vaticana, condotta dal 6 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020. Alla base, come segnalava un comunicato diffuso al termine della visita, «una situazione tesa e problematica per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno». A svolgere la visita erano stati padre Guillermo León Arboleda Tamayo, abate presidente della Congregazione Benedettina Sublacense-Cassinese, padre Amedeo Cencini consultore della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, e madre Anne-Emmanuelle Devêche abbadessa di Blauvac.
Drastiche le conclusioni rese note il 13 maggio 2020 con la decisione di allontanare dalla comunità monastica di Bose, lo stesso Bianchi, fratel Goffredo Boselli, fratel Lino Breda e suor Antonella Casiraghi. L’applicazione della misura tuttavia per quanto riguarda il distacco dall’ex priore dalla comunità che egli stesso ha fondato nel 1965, è stata fortemente contrastata. Nel febbraio scorso sembrava imminente il trasferimento a Cellole di San Gimignano, comunità in provincia di Siena e diocesi di Volterra, ma fratel Bianchi aveva poi deciso di non accettare quella soluzione. È del 18 marzo scorso invece la Lettera di papa Francesco alla Counità monastica di Bose in cui il Pontefice nel sostenere la decisione presa nel maggio 2020 con il decreto firmato dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, invita la fraternità stessa a salvaguardare il proprio carisma, a «perseverare nell’intuizione iniziale di una vita fraterna nella carità e di una testimonianza di ricerca della radicalità evangelica nella preghiera, nel lavoro e nell’ospitalità. La dimensione ecumenica che vi caratterizza e il vostro anelito operoso per l’unità dei cristiani - prosegue il Papa - sono tesoro prezioso che la Chiesa vuole custodire, vegliando sulla sua autenticità e fecondità».
Ieri sera infine il sofferto annuncio di Enzo Bianchi. Poche righe amare a sottolineare la durezza di un distacco difficile per lui, per l’intera comunità di Bose e per quanti nel corso degli anni ne hanno accompagnato il cammino e condiviso l’impegno al servizio del dialogo, dello studio della Parola e dell’approfondimento spirituale.
LA RELIGIONE CATTOLICA DEL "PADRE NOSTRO", DEL "DEUS CARITAS", E IL CAPITALISMO... *
Oikonomia /10.
Ambiguo è il sacrificio
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 marzo 2020)
Sacrificio è parola della religione, dell’economia, di ogni crisi. I sacrifici sono nati o si sono sviluppati durante le grandi crisi collettive - le guerre, le carestie, le pestilenze. Nel mondo antico, quando la vita diventava dura e un male minacciava le comunità, i nostri progenitori iniziarono a pensare che offrire qualcosa di valore alla divinità potesse essere l’essenziale strumento di management delle catastrofi e delle crisi. Il sacrificio agli dèi di animali e, in certi casi, di bambini e di vergini divenne un linguaggio per legare cielo e terra, la speranza collettiva di poter agire sui nemici invisibili. I sacrifici si nutrono di speranza e di paura, di vita e di morte. È una esperienza radicalmente comunitaria, che cura, ricrea e nutre i legami dentro la comunità e tra la comunità e i suoi dèi.
Il sacrificio è luce e buio insieme. Le luci sono chiare. Le comunità non nascono, non durano né crescono senza sacrifici - continuiamo a scoprirlo, e mai abbastanza. Abbiamo imparato a praticare il dono e la generosità in millenni di offerte sacrificali. Ogni dono vero porta intrinseco una dimensione di sacrificio (nel senso più comune della parola). Quei doni che non ci costano nulla non valgono nulla - una delle leggi sociali più antiche -, perché il dono vero è sempre dono della vita. Amiamo molto i doni, soprattutto da parte delle persone più care, perché sono sacramenti del loro amore per noi. Per i nostri ragazzi i giorni della pandemia che stiamo vivendo tra l’inverno e la primavera di questo anno 2020 possono essere anche un tempo meraviglioso per imparare il misterioso e decisivo rapporto tra sacrificio, dono, vita.
Venendo al suo lato oscuro, il sacrificio ha una intrinseca dimensione verticale e asimmetrica. Non si offre qualcosa a un pari grado, ma a una entità sentita superiore. Le comunità sacrificali sono sempre gerarchiche, perché il rapporto uomo-dio diventa immediatamente il paradigma dei rapporti politici e sociali, quindi del potere. La comunità che offre sacrifici e doni agli dèi deve anche offrire sacrifici e doni ai potenti e al re - che in certe religioni è di natura divina. Il dono fatto al re è il regalo (da rex: re), che si fa perché non lo si può non fare.
Se poi guardiamo le stesse parole che abbiamo appena usato per descrivere la luce del sacrificio (“costano”, “valgono”, “care”), ci ritroviamo subito dentro un’altra sua dimensione buia, legata ancor più direttamente all’economia. Il sacrificio non è un atto isolato, è un processo che si svolge nel tempo. All’inizio c’è in genere una aspettativa di ritorno che troppo facilmente diventa pretesa. La grazia desiderata nei sacrifici è oggetto di commercio. In genere il sacrificio si trova prima della grazia. E anche quando il sacrificio arriva dopo, quando torneremo al tempio per fare un’altra offerta sacrificale saremo già dentro un rapporto commerciale con il dio.
È possibile che molte comunità abbiano iniziato la pratica del sacrificio di oggi come riconoscenza per un dono ricevuto ieri dagli dèi, e che dal secondo sacrificio in poi sia prevalso il registro commerciale, e il sacrificio sia diventato il prezzo pagato in anticipo per lucrare una nuova grazia. Ciò che manca (o che è fortemente sfidata) nei sacrifici è proprio la gratuità.
Attraverso la mediazione del cristianesimo il sacrificio è entrato direttamente nell’economia medioevale e poi nel capitalismo, diventandone uno dei pilastri etici. Economia e sacrificio hanno entrambi a che fare con la dimensione materiale della vita. Nei sacrifici non basta offrire preghiere e salmi di lode: occorre offrire qualcosa di materiale, sacrificare cose o vite alla cose assimilate. I primi beni economici della storia umana sono stati gli animali offerti, i primi mercati quelli con gli dèi, i primi commerci quelli tra cielo e terra, i primi mercanti i sacerdoti dei templi.
Il sacrificio lo incontriamo oggi in molti luoghi del capitalismo. E non solo nei fenomeni più evidenti, quali i crescenti sacrifici chiesti dalle grandi imprese ai dipendenti, che oggi prendono spesso la forma di veri olocausti (distruzione totale dell’offerta) della vita intera, perché spesso inutili alla produttività dell’azienda, ma puri segnali di devozione totale e incondizionata.
La presenza più interessante del sacrificio nel capitalismo è però quella meno evidente. Nelle religioni il sacrificio non vuole solo cose: vuole cose vive che muoiono mentre le offriamo. Il sacrificio consiste proprio nel trasformare ciò che vive in qualcosa che muore perché vivo (solo le cose vive possono morire: gli oggetti non muoiono perché non sono vivi). Le monete, ad esempio, si trovano nei santuari di tutto il mondo, ma non sono usate come materia del sacrificio - servono per comprare animali da offrire, o si lasciano come accessori complementari al sacrificio vivo. Nei sacrifici quegli animali o quelle libagioni (vegetali), che come tutte le cose vive sarebbero destinate necessariamente e naturalmente alla morte, grazie al sacrificio riescono, paradossalmente, a sconfiggere la morte, ad acquistare una dimensione che le sottrae al ritmo naturale della vita. Perché se da una parte l’agnello muore prematuramente perché sacrificato quando è ancora vivo, mentre muore sull’altare diventa qualcosa di diverso che vince le leggi naturali. Entra in un altro ordine, acquista un altro valore. Non morendo naturalmente diventa, in un certo modo, immortale.
Anche l’economia vive e cresce trasformando cose destinate alla morte in beni che acquistano valore proprio in questa trasformazione. Ogni giorno le imprese prendono cose vive (materie prime, animali, grano, cotone, le nostre energie...), destinate in quanto vive alla morte, e creano valore aggiunto facendole “morire” trasformandole in merci. Quel valore che si aggiunge alle cose nel trasformarle somiglia molto al valore che gli animali e le piante prendevano mentre venivano offerte sull’altare.
La lettura della morte e risurrezione di Gesù è stata anche letta da questa prospettiva: il suo “sacrificio” sconfigge l’ordine naturale della morte e lo rende, con la risurrezione, immortale. Anche il martirio, o più tardi la verginità, furono lette nel cristianesimo come un’alchimia della morte in una vita diversa e superiore.
Il rapporto tra cristianesimo e sacrificio è però pieno di equivoci. Anche se la vita e le parole di Gesù si muovono dentro una logica anti-sacrificale («Misericordia voglio, non sacrifici»), il cristianesimo da subito ha interpretato la passione e morte di Gesù come un sacrificio, come l’«agnello di Dio» che con la sua morte toglie, definitivamente, il peccato dal mondo. Un nuovo e ultimo sacrificio (Ebrei 10), che sostituisce gli antichi e reiterati sacrifici nel tempio. Il sacrificio di Gesù, del Figlio, sarebbe stato il prezzo pagato a Dio Padre per estinguere l’enorme debito che l’umanità aveva contratto. Gesù il nuovo sommo sacerdote che offre in sacrificio non animali ma se stesso (Ebrei 7).
Questa teologia sacrificale ha attraversato e segnato l’intero Medioevo, ribadita dalla Controriforma, e ancora oggi molto radicata nella prassi cristiana. L’idea sacrificale informa molta liturgia cristiana, e ha trasmesso al cristianesimo anche la visione gerarchica tipica del sacrificio. Per tutto il Medioevo (e oltre) la cultura del sacrificio si è espressa infatti in pratiche sociali di sacrificio dove erano i sudditi, i figli, le donne, i servi, i poveri a doversi sacrificare per i padroni, per i capi, per i preti, per i padri e per i mariti. Il sacrificare a Dio divenne facilmente sacrificarsi per altri uomini che, come Dio, si trovano sopra e più in alto dei sacrificanti.
Il contesto teologico sacrificale ha offerto a rapporti di potere asimmetrici e feudali una giustificazione spirituale, chiamando sacrificio ciò che era, semplicemente, sfruttamento.
Il sacrificio sta finalmente uscendo dalla teologia più recente (grazie a una comprensione più biblica del mistero della Passione), ma sta entrando sempre più nella nuova religione capitalista. Infatti, il processo creativo delle cose vive che muoiono, e “morendo” aumentano il loro valore, è diventato particolarmente forte e centrale nel capitalismo del XXI secolo, dove, diversamente da quanto avveniva nel passato, le prime cose vive che acquistano valore morendo sono diventati i lavoratori.
Marx ci aveva spiegato che solo le persone sono capaci di creare valore aggiunto in economia - non bastano le macchine. Questa antica verità ha subìto recentemente una importante trasformazione. Fino a qualche decennio fa, il “sacrificio” richiesto dalle fabbriche non era eccessivo, tantomeno totale: era soltanto quello inquadrato nel contratto di lavoro e custodito dai sindacati.
Il sacrificio della vita lo si riservava solo alla fede, alla famiglia, alla patria. La mutazione in senso religioso del capitalismo e l’eclissi degli altri ambiti “sacrificali”, ha fatto sì che le grandi imprese siano diventate i nuovi luoghi del sacrificio totale. A questo capitalismo non basta più né interessa consumare la nostra forza-lavoro. Sono i lavoratori che devono offrirsi, spontaneamente, sull’altare. Il loro culto ha bisogno delle persone intere - in ogni religione l’offerta più gradita è quella intera, giovane e senza macchia -, che valgono tanto più quanto più grande è il loro sacrificio. È crescente e impressionante, ad esempio, il numero di manager single o senza figli nelle posizioni apicali delle grandi imprese, un numero che aumenta molto nelle capitali del capitalismo (da Singapore a Milano). Una nuova forma di celibato e di voto di castità, essenziali alla nuova religione. E, come nel Medioevo, la bella parola sacrificio copre la brutta parola sfruttamento. Questo capitalismo sta manipolando troppe parole.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL VANGELO DI PAPA RATZINGER E DI TUTTI I VESCOVI E IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", VENDUTO A "CARO PREZZO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Profezia è storia / 15.
L’infinito valore del «no»
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 settembre 2019)
Nella Bibbia, e nella grande letteratura, ogni tanto si incontrano pagine che hanno la stessa forza morale di una lapide. Le storie di Uria l’Ittita, della figlia di Iefte, di Agar, Dina, Rispa, Tamar, Giobbe, Abele, il servo di YHWH, il crocifisso. Spesso passiamo oltre in cerca di pagine più edificanti. Qualcuno invece prova misericordia. Si ferma, si raccoglie, ricorda, prega, piange, se ne prende cura. La storia di Nabot e della sua vigna è una di queste pagine-lapide, un monumento eretto a una vittima innocente. La vigna di Nabot è un esercizio etico, sociale, economico, spirituale che nei secoli ha generato sentimenti morali, leggi, costituzioni. Ci ha insegnato lo sdegno, ci ha fatto gridare "non è giusto!", "ah, scellerato, scellerata", "ci deve essere giustizia in questo mondo", "perché, Dio? dove sei?", "mai più". Ha migliorato l’uomo, ha migliorato Dio.
«Nabot di Izreèl possedeva una vigna vicino al palazzo di Acab. Acab disse a Nabot: "Cedimi la tua vigna; ne farò un orto, perché è confinante con la mia casa. Al suo posto ti darò una vigna migliore di quella, oppure, se preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale". Nabot rispose ad Acab: "Mi guardi YHWH dal cederti l’eredità dei miei padri"» (1 Re 21,1-3). Acab vede la terra di Nabot, la desidera, vuole averla per farne un orto. Parla con Nabot e gli propone un contratto. Un contratto apparentemente equo e vantaggioso, al prezzo di mercato. Ma Nabot rifiuta, in nome di un valore diverso da quello economico: quella vigna è eredità dei padri.
La Legge di Mosè aveva una legislazione speciale per la terra: «Le terre non si potranno vendere per sempre perché la terra è mia» (Lv 25,23). La terra non era una merce come le altre. Se alienata per bisogni economici, poteva essere riscattata da un parente (goel), e nell’anno giubilare tornava al vecchio proprietario. La terra ereditata dalla famiglia, poi, era sottoposta a vincoli ancora maggiori. Nabot rispetta YHWH e la sua Legge e non accetta l’offerta. Inoltre, il re gli annuncia la volontà di cambiare la destinazione d’uso di quel terreno - vuole smantellare la vigna per piantare un orto.
Nella Bibbia la vigna non è un terreno qualsiasi. È simbolo profetico dell’alleanza (Isaia), è immagine del popolo di Israele. Per queste ragioni, e magari per altre, Nabot non accetta il denaro del re. Non vende, non cede, decide che quella terra non è sul mercato. Quel bene per lui è inalienabile, è un valore non negoziabile. Non vendendo dice che la sua dignità non è in vendita.
«Acab se ne andò a casa amareggiato e sdegnato per le parole dettegli da Nabot di Izreèl, che aveva affermato: "Non ti cederò l’eredità dei miei padri!". Si coricò sul letto, voltò la faccia da un lato e non mangiò niente» (21,4). Il re Acab di fronte a quel rifiuto ha una reazione a dir poco esagerata. Entra in uno stato depressivo che ricorda quello di Elia sotto la ginestra (cap.19).
La Bibbia conosce anche le depressioni sbagliate. La crisi di Elia, generata dalla persecuzione di Gezabele, fu causa di due incontri con l’angelo e poi del sussurro dell’Oreb. Questa depressione di Acab, originata da un rifiuto legittimo, produrrà solo menzogna e morte. Chi, per compito o per vocazione, si trova ad aiutare persone in crisi deve assolutamente distinguere la depressione di Elia da quella di Acab. Hanno una fenomenologia simile, ma la natura, le ragioni e le conseguenze sono completamente diverse.
Se al posto di sua moglie Acab avesse avuto un consigliere onesto, questo gli avrebbe dovuto suggerire di accettare la realtà del rifiuto, elaborare il suo (piccolo) lutto e trovare un altro luogo per il suo orto. Ma, purtroppo per lui (e per Nabot), accanto ad Acab abbiamo sua moglie Gezabele, la figura più torbida di questa storia: «Entrò da lui la moglie Gezabele e gli domandò: "Perché mai il tuo animo è tanto amareggiato e perché non vuoi mangiare?"». Acab le racconta del rifiuto di Nabot. Allora Gezabele gli disse: «Tu governi così su Israele? Àlzati, mangia e il tuo cuore gioisca. Te la farò avere io la vigna di Nabot» (21,5-7).
In queste parole della regina rivediamo Erodiade, Lady Macbeth, e altre donne di potenti che, in quelle frequenti inversioni di ruoli,
prendono saldamente in mano la situazione e cercano rapidamente una soluzione per i mariti deboli. Una Abigail all’incontrario, un comandante Ioab al femminile.
Gezabele, forse per salvare l’onore del marito ("Tu governi così su Israele?"), in nome di una concezione di potere molto diverso da quello voluto da YHWH per i suoi re, trova la peggiore via d’uscita: «Ella scrisse lettere con il nome di Acab, le sigillò con il suo sigillo, quindi le spedì agli anziani e ai notabili della città. Nelle lettere scrisse: "Bandite un digiuno e fate sedere Nabot alla testa del popolo. Di fronte a lui fate sedere due uomini perversi, i quali l’accusino: ’Hai maledetto Dio e il re!’. Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia"» (21,8-10).
Con un solo atto vìola tre comandamenti della Legge - non uccidere, non desiderare la roba d’altri, non dare falsa testimonianza. Una immagine nitida della peggiore faccia del potere, mai scomparsa dalla terra.
In queste pagine rivive il peccato di Davide con Betsabea, quello dei due anziani che cercarono di violentare Susanna, e tutti i peccati e i delitti dei potenti che interpretano il loro potere come eliminazione della barriera che separa la loro parte dal tutto. Il vizio più profondo e tremendo del potere è pensare che non esista nessun limite invalicabile, che tutto diventi possibile.
La Bibbia ha combattuto questa idea di potere. La sua polemica verso la monarchia è una critica sistematica verso questa idea di potere come onnipotenza, che diventa immediatamente critica all’idolatria; perché ogni volta che un potente si comporta da onnipotente si auto-proclama dio. Ecco perché Gezabele è idolatra, uccide i profeti di YHWH, e uccide Nabot che aveva osato porre un limite al potere suo e del marito.
Nabot dicendo il suo no, aveva detto ad Acab: tu non sei Dio. È questa la lotta più vera tra ogni potere assoluto e Dio. I poteri assoluti combattono le religioni perché vogliono essere loro dio. E uccidono profeti e uomini giusti perché essi negano la loro divinità - Nabot nel NuovoTestamento rivive anche in Giovanni Battista, e l’uno e l’altro ci dicono che la vera ragione della loro morte non è di tipo etico né economico ma teologico, perché si oppongono all’onnipotenza dei potenti che quindi li uccidono.
In questo racconto colpisce, poi, la complicità degli "anziani e notabili" della città, silenti di fronte alla lettera della regina che esplicitamente contiene peccati e delitti - «Gli anziani e i notabili che abitavano nella sua città, fecero come aveva ordinato loro Gezabele» (21, 11). Quei notabili e quegli anziani, che fino all’attimo prima di ricevere la lettera e poi di mettere in pratica le sue raccomandazioni potevano essere persone per bene (e forse lo erano), nel momento in cui eseguono quell’ordine diventano immediatamente complici e colpevoli, al pari di Gezabele. Quante volte lo abbiamo visto e lo vediamo. La Bibbia, sottolineando questa complicità, ci dice che chi obbedisce agli ordini sbagliati dei potenti condivide la loro stessa colpa. Se è vero che chi aiuta i profeti ha la stessa ricompensa del profeta (come la vedova con Elia), è altrettanto vero che chi aiuta un potente assassino condivide la sua stessa colpa.
La Bibbia è coronata da molti, splendidi sì: quelli dei profeti, quello di Maria. Senza questi sì non avremmo avuto la storia della salvezza, non avremmo vocazioni, non avremmo alcune delle cose più sublimi sotto il sole. Nabot però ci ricorda il grande valore del no, e il disvalore dei sì sbagliati. Questo racconto è abbuiato da molti sì perversi, e illuminato da un solo no giusto. Quante persone salvano e salvano sé stesse perché hanno la forza di pronunciare un no. Potrebbero dire sì, la virtù della prudenza e il calcolo costi-benefici spingerebbero a vendere quel campo. Vedono chiaramente novantanove ragioni per vendere, e trovano quella sola ragione imprudente per dire no. Perché quella sola ragione è di un’altra qualità, vola in un’altra traiettoria, ha un altro timbro di voce nell’anima. Se fossero mancati i no dei molti Nabot della storia, se mancassero i no dei Nabot presenti ancora oggi in mezzo a noi, la terra sarebbe un luogo indegno dove vivere. I no dei Nabot sono il lievito e il sale della terra, senza di essi avremmo solo pane azzimo e sciapo.
Nabot fu ucciso: «Giunsero i due uomini perversi... Costoro accusarono Nabot davanti al popolo affermando: "Nabot ha maledetto Dio e il re". Lo condussero fuori della città e lo lapidarono ed egli morì» (21,12-13). Ecco la lapide.
Mentre Acab scende nella vigna per prenderne possesso, il profeta Elia riceve questa parola di Dio: «Su, scendi incontro ad Acab..., è nella vigna di Nabot. Poi parlerai a lui dicendo: "Così dice YHWH: Hai assassinato e ora usurpi!". Gli dirai anche: "Nel luogo ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue"» (21,18-19).
I profeti sono anche questo: in un mondo dove Nabot continua a essere ucciso, dove nessuno denuncia i delitti perché tutti complici e correi, loro - Elia o Natan - per vocazione gridano: "Hai assassinato". Compito meraviglioso. Ma Nabot è morto. La parola di Elia e la punizione che YHWH promette per Acab, sua moglie e la sua stirpe non riescono a far risorgere Nabot. Resta solo la sua lapide, che è lì per noi, e continua a chiamarci.
Geremia, in una delle sue pagine più belle, dà un grande messaggio profetico comprando un campo; qui Nabot ci dà un altro grande messaggio rifiutandosi di vendere un campo. Anche oggi ci sono contratti che salvano e ci sono non-contratti che salvano ancora di più.
Il nostro capitalismo per troppo tempo è riuscito a comprare ogni vigna desiderata in cambio di denaro. Non ha trovato Nabot a dirgli di no. E il nostro pianeta sta cambiando destinazione. Ci salveremo se saremo capaci di fare del nostro tempo il tempo di Nabot. Se impareremo presto a dire di no ai nuovi potenti che oggi più che mai col loro denaro infinito si sentono onnipotenti. Perché tutta la terra è eredità: «Nabot rispose ad Acab: "Mi guardi YHWH dal cederti l’eredità dei miei padri"».
Preti o ladri travestiti da samaritani? *
Caro Pietro,
scrivo a te, vescovo di questa diocesi di Avezzano, ma è come se gridassi al mondo intero per denunciare pubblicamente lo scandalo.
Non posso continuare a tacere o a glissare o a far finta che!
Il silenzio si configurerebbe come complicità, se non addirittura come correità.
Edotto dai miei maestri di sempre, don Tonino Bello, secondo il quale “delle nostre parole dobbiamo rendere conto agli uomini, ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto a Dio”, don Mazzolari che amava ripetere che “certi silenzi sono omicidi” e M. L. King il quale confessava: «Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti», ho deciso di denunciare a Lei e alla pubblica opinione l’impudenza vergognosa di sacerdoti che oltre a farsi pagare puntualmente ogni servizio (messe, matrimoni, funerali, battesimi e benedizioni varie), pretendono, da quelle comunità che dovrebbero “servire”, ulteriori corrispettivi per benzina, luce, gas e cellulare!
Noi già portiamo sulle nostre coscienze il peso di un mensile che viene dallo Stato, attraverso l’8 per mille, e che ci degrada a “stipendiati”. Oltre ciò, la stragrande maggioranza dei preti si fa pagare, profumatamente, sotto il falso nome dell’offerta, ogni prestazione; sarebbe come se un funzionario dello stato, nello svolgere le sue funzioni, prendesse soldi anche dai singoli utenti! Il che ci rende ladri!
Ultimamente, si sta diffondendo il malcostume di parroci che pretendono il “rimborso spese”!
Autodegradandosi ancor di più da ladri a tangentisti e pizzettari.
Oggi, con Papa Francesco, un rinnovato Spirito aleggia sul mare tempestoso della storia come aleggiava agli inizi sul caos primordiale; ma questo Spirito Innovatore sembra trovare tra il clero ottusità refrattarie ad ogni impulso di dignità. Sordi e muti, voraci e venali, impietriti dal potere, dall’abitudine e dal danaro, stanno facendo della chiesa una multinazionale dell’abuso e della corruzione.
A voi vescovi spetta il compito di fare pulizia di questa gente, onde evitare che la Chiesa diventi una spelonca di ladri. Meglio una chiesa vuota di preti che una chiesa infestata da ladri travestiti da samaritani.
Sento già la critiche cui andrò incontro con questa mia pubblica denuncia. Soprattutto mi si rimprovererà di non seguire il consiglio evangelico della correzione fraterna, rivolta in privato e al singolo. Ma qui non siamo di fronte ad un’offesa personale che possa essere risolta in una “trattazione” privata. Qui siamo davanti ad un comportamento pubblico e di “ruolo”, che va pubblicamente denunciato!
Risolvere privatamente problemi pubblici è da mafiosi, non da cristiani!
Don Milani, altro maestro del mio sentire, in una lettera del 5 Luglio 1964 a mons. Capovilla scriveva: «Ho sempre pensato che lo stare in silenzio sia un’elevata funzione ecclesiastica. Mi domando solo se sia giusto seguitare a santificarsi nel silenzio quando sul piano terreno questo non fa che aumentare il già tanto profondo sdegno dei poveri verso la gerarchia ecclesiastica. Fino all’anno scorso pensavo che fosse santità. Da qualche tempo in qua temo che sia correità».
Che Dio ti dia luce e coraggio per il necessario tuo intervento.
Aldo Antonelli (prete)
Post Scriptum
Copia di questa lettera la invio, tramite Raccomandata, anche a Papa Francesco, nella speranza che la legga e la prenda in seria considerazione.
*
Aldo Antonelli (9-gen-2016)
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?". Una nota di Antonio Thellung, da"mosaico di pace"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
Enzo Bianchi, il priore di Bose si racconta: “Tutti i governi sono inginocchiati al mercato”
"L’atteggiamento oscillante della politica italiana è una manifestazione di incapacità, serve un azione condivisa". Nominato come esperto da Benedetto XVI dal Sinodo dei vescovi e da Francesco consultore del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, nel 1965 ha fondato la comunità in provincia di Magnano di Biella. "Bisogna rifondare la grammatica umana".
di Silvia Truzzi (il Fatto, 24 dicembre 2015)
La strada sembra fatta apposta per prepararti a Bose. Dal casello si attraversano solo campi, boschi umidi di nebbia e paesi deserti di tapparelle abbassate. Negozi con insegne scolorite chiusi chissà da quanto, strade strette che passano sotto ponti di pietra. A parte un trattore, non incroci nessuno, né a piedi né in auto. L’autoradio l’hai spenta quasi subito dopo l’autostrada. Poi l’hai riaccesa e di nuovo spenta: alla pace ci si abitua con difficoltà, ma a un certo punto bisogna arrendersi. Dunque è soprattutto silenzio, fino alla radura che ospita il monastero che ospita tutti: pellegrini, migranti, fedeli e infedeli, affamati, amici e persone smarrite.
Enzo Bianchi ha una faccia conosciuta: occhi limpidi e chiari, rughe scolpite; ingannevole invece la mitezza. Il file audio dell’intervista è pieno di picchi: tutte le volte che qualcosa lo fa arrabbiare il tracciato s’impenna. È nato il giorno prima di Gesù Bambino, 3 marzo ’43. Non c’è un porto in questa storia, ma il bric di Zaverio, le colline del Monferrato. E ci sono le bombe. “Quando sono nato, mio papà non c’era: stava in montagna con i partigiani. Faceva il magnan, lo stagnino. Ma anche il barbiere, il vetraio e l’elettricista per tirar su qualche soldo. Mia madre soffriva di una malattia al cuore, che si sarebbe potuta curare: dal 1952 hanno cominciato a fare gli interventi per operare la valvola mitralica. Ma lei è morta nel ’51, a trent’anni, io appena otto. Già da piccolo sapevo che se ne sarebbe andata presto. Sono nato in casa e fu una nascita difficile: i medici avevano sconsigliato a mia madre, così malata, di avere figli. Mio padre, che veniva da una famiglia rossa di anticlericali, voleva per me un nome che non fosse di un santo, e scelse ‘Enzo’. Ma mia madre, che invece era una donna piena di fede, volle chiamarmi ‘Giovanni’: con questo nome fui battezzato di notte, portato al parroco da una vicina di casa, amica di mia madre. Quando lei se n’è andata, siamo rimasti io e mio padre, pieni di debiti per le spese mediche: vita misera, ma dignitosa. Riuscii, con l’aiuto economico di due donne vicine di casa e le borse di studio, a iscrivermi a Economia. Poi abbandonai tutto per la vita monastica che iniziai a Bose”.
Com’è successo?
Ero impegnato in politica: fanfaniano, ero il segretario dei giovani democristiani in provincia di Asti. Poi, nel 1965, sono stato tre mesi alla periferia di Rouen, insieme all’abbé Pierre. Vivevo con ex legionari, ex alcolizzati, ex carcerati, passavo tra le case a raccogliere stracci e ferraglia. Quei tre mesi mi hanno dato un insegnamento enorme. Ho capito che i poveri non sono i destinatari della carità, ma soprattutto maestri. Se c’è qualcuno degno di una cattedra sono i poveri: sanno insegnare tante cose che di solito s’ignorano. Vedere la capacità di amore e di cura che avevano questi poveri tra di loro mi ha profondamente cambiato. Ha modificato la mia idea di cattolicesimo, fino a quel momento legata all’azione cattolica, al ‘fare il bene per dare testimonianza’.
Lì ha capito che voleva diventare monaco?
Fin da giovane sono stato legato alla religione: come ho detto, mia madre era profondamente cattolica. Due donne si sono prese cura di me: mia madre e una maestra che mi ha dato in mano San Basilio a 13 anni. Tenevo le Regole sul tavolino da notte ed ero solo un ragazzino.
E dopo Rouen?
In quel periodo ero stato sospeso dal partito: avevo firmato un manifesto dei comunisti contro la tortura e la condanna a morte di Julián Grimau, il leader del Partito comunista spagnolo perseguitato da Franco. Intanto avevo costituito a Torino un gruppo ecumenico - cattolici, valdesi, battisti, ortodossi - che si riuniva nel mio alloggio: tutte queste circostanze insieme e l’apertura ecumenica del Concilio vaticano II, mi fecero maturare l’idea della vita monastica. Così arrivai qui a Bose.
Come la scoprì?
Tramite amici che mi fecero conoscere la chiesa romanica adiacente alla frazione. Le case erano tutte disabitate e, con alcuni del gruppo, abbiamo pensato di affittarle. Anche se all’ultimo momento di quelli che avevano risposto sì alla mia proposta, non venne nessuno: due ragazze avevano trovato il fidanzato, un ragazzo aveva avuto una crisi di fede e si era iscritto a Sociologia a Trento. Poi entrò nelle Brigate rosse e fu condannato. Il cardinal Pellegrino, che era il mio riferimento spirituale, mi disse di continuare la vita iniziata a Bose.
Per quanto tempo ha vissuto qui da solo?
Quasi tre anni: non c’era l’acqua corrente e nemmeno la luce elettrica. Ma non ho mai trascorso un sabato e una domenica da solo: amici e conoscenti venivano a trovarmi, facevamo giornate di meditazione su alcuni temi di vita spirituale. Poi, nel ’68, quattro persone sono venute a vivere qui, due uomini e due donne. I voti li abbiamo presi nel ‘73, eravamo in sette. Da allora la comunità ha continuato a crescere: ogni anno arrivano tre-quattro persone nuove. Di solito finiscono per fare l’itinerario monastico: tre anni di noviziato, quattro di probandato. Dopo sette anni si può fare la professione monastica definitiva. I monaci sono laici che devono vivere lavorando con le proprie mani. Il vescovo mi aveva chiesto di diventare prete, ma io volevo restare un semplice cristiano, marginale nelle istituzioni perché la Chiesa può fare a meno dei monaci. Sant’Antonio diceva: ‘Noi monaci abbiamo le sante Scritture e la libertà’.
Qui cosa producete?
Ci sono un grande orto e un frutteto, grazie ai quali abbiamo verdura e frutta tutto l’anno. Abbiamo le api, una falegnameria, un laboratorio di ceramica, un panificio, facciamo confetture e marmellate. Produciamo icone, c’è la tipografia e le nostre edizioni Qiqajon molto apprezzate.
Quante persone passano da Bose?
Quindici-diciassettemila all’anno, più o meno. C’è chi viene per pregare, chi per pensare, chi per parlare perché è in difficoltà, chi cerca il silenzio. E poi ci sono anche quelli che vengono a chiedere da mangiare. Ormai ci chiedono pasta, pane, olio perché non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Una volta venivano più zingari e girovaghi, senza casa. Dal 2000 hanno cominciato a bussare gli extracomunitari e adesso - da circa cinque anni - si sono aggiunte povere famiglie e pensionati che non ce la fanno. Arrivano da Biella, Vercelli, Ivrea. Da settembre abbiamo quattro migranti dall’Africa. Gli abbiamo dato una casa e li stiamo aiutando a imparare l’italiano: ci sembra giusto condividere con loro. Se non lo facciamo noi qui, chi lo deve fare?
“Accoglienza” non è una parola di moda oggi.
Purtroppo no. Abbiamo spiegato ai nostri concittadini di Magnano che noi garantivamo per loro, che li accoglievamo in una bella casa, seguendoli in un percorso di integrazione vero: mi pare che il clima sia più disteso. Pesa, e molto, la burocrazia: capisco che le istituzioni ci vogliono, che servono garanzie. Il rischio però è che questo sia un processo completamente disumanizzato, che dimentica di avere a che fare con persone: se si vuole una conoscenza vera, reciproca, culturalmente stimolante, non si può passare solo da luoghi separati dalla vita comune.
Adesso c’è paura per il rischio terrorismo.
Ma è esagerata, esasperata dagli imprenditori della paura. Forze politiche che da un lato istigano la paura, dall’altro aumentano il risentimento dei migranti e dei popoli arabi verso di noi. Anche loro sono responsabili della violenza, che è una risposta - ingiusta perché contro gli innocenti - ad altra violenza.
L’emergenza “sicurezza” è più generale. A Vaprio d’Adda un pensionato ha ucciso un ladro che era entrato, disarmato, nella sua abitazione. E sarà candidato con Forza Italia.
La paura va presa sul serio: nei paesi qui intorno sono tutti vecchi, che spesso abitano da soli. Ma bisogna anche aiutare a razionalizzare. Le forze sociali dovrebbero contenere la paura, non usarla come macchina macina voti. Spesso si esagera: allora ecco il giustificare sempre - a qualunque costo - chi si difende, a prescindere dalle situazioni. Ecco che s’invoca una maggiore diffusione delle armi: il far west porta alla barbarie, che è iniziata già da anni. Prima la gente non era così cattiva, adesso è solo diffidente, chiusa. La responsabilità se la devono prendere i coltivatori di odio. E attenzione: questi signori hanno quasi sempre la scorta, quasi sempre vivono protetti da sette cancelli, dieci telecamere di sicurezza e non hanno nulla da temere.
Cosa manca ai nostri governanti, secondo lei?
Una vera politica dovrebbe prendersi cura degli ultimi, anche di quelli che arrivano alle nostre frontiere. Avere un atteggiamento oscillante, per cui ogni tanto bisogna mitragliare i barconi e ogni tanto si appare disposti all’accoglienza, mi sembra sia una manifestazione d’incapacità, una mancanza di visione. Anche a livello europeo. Bisogna sollecitare un’azione condivisa: ma se nessuno alza la voce, continua tutto come adesso.
La politica è subordinata al potere finanziario?
Il grande idolo è il mercato. Tutti i governi sono inginocchiati di fronte a questo potere idolatrico. Non c’è un governo, uno, che porti avanti un vero discorso di giustizia sociale, necessario in un momento in cui il divario tra i pochissimi che hanno tanto e i tantissimi che hanno poco o nulla è sempre, tragicamente, maggiore. La libertà e l’uguaglianza hanno bisogno della fraternità. Se prima non c’è il valore fondante della fraternità - tutti uguali, tutti fratelli, tutti con lo stesso diritto a una vita degna, a partecipare alla tavola del mondo - allora anche la libertà e l’uguaglianza sono deboli. Ogni uomo che viene al mondo ha diritto di vivere, di essere, per quanto possibile, felice e amato. Anche se per tutti la vita è un duro mestiere.
È la prima parte della Costituzione.
La Costituzione non è mai stata completamente applicata. Negli ultimi vent’anni si è addirittura teorizzato di abbandonarla perché ‘invecchiata’. È stato possibile dirlo, e in parte farlo, senza la resistenza di nessuno. Nemmeno delle forze di sinistra che hanno sposato la peggior ideologia radicale, portandoci a una situazione d’illegalità diffusa in cui è sempre più difficile affermare i diritti. Ormai c’è un individualismo imperante, la parola d’ordine è meritocrazia. Non si tiene conto della realtà più semplice: la vita fa i disgraziati. La morte, la malattia, la miseria fanno gli ultimi. O a questi ci pensa lo Stato o sono persone perdute.
Le reti sociali sono scomparse.
Si tratta di rifondare la grammatica umana nell’educazione. È un lavoro a lungo termine. Amartya Sen ha ragione quando rilegge la giustizia in termini nuovi: avere tutti gli stessi mezzi di sviluppo e affermazione. Non basta nemmeno una redistribuzione dei beni che tolga la fame. Su queste strade chi cammina? Le forze politiche sono sorde.
Quando lei era ragazzo era diverso?
Una volta per le forze politiche - sia quelle socialiste-comuniste sia quelle cattoliche - la giustizia sociale era un valore fondante. Oggi non conta nulla, non c’è nessuna possibilità di affermarla. Contano la produzione, lo sviluppo economico e poi che la distribuzione avvenga secondo i meriti. Ma cos’è il merito? Per gli ultimi non c’è nessuna possibilità di attenzione. È una vertigine di egoismo, di filautia. Il benessere è solo personale, tutto è lasciato al gioco del mercato che da solo sarebbe in grado di calmierare le disuguaglianze. Ma guardi come abbiamo ridotto la Grecia, umiliata dall’Europa con l’aiuto dell’Italia. È più grave che un povero umili un altro povero, come ha fatto l’Italia in crisi con la Grecia, una terra dove abbiamo portato una vergognosa guerra nel 1940. Non hanno capito che dove c’è la guerra tra poveri, i più ricchi ne approfittano.
Cosa ha pensato il giorno delle stragi a Parigi?
Ci saranno di nuovo i cortei, le manifestazioni e il grande sdegno, com’è capitato per Charlie Hebdo. Ma crescerà l’odio verso i Paesi arabi e nessuno si interrogherà sulle nostre responsabilità.
Ne abbiamo?
Noi abbiamo portato la guerra nel Golfo, in Iraq, in Libia. Se un uomo come Blair - che non è proprio un giusto - fa un mea culpa sull’Iraq vuol dire che è un dato di fatto. Abbiamo degli amici monaci in Iraq che provano a resistere alla guerra, qualche volta riusciamo a parlarci. Certo non ci vedono come i liberatori. Ci dicono: è colpa vostra.
Natale che cosa vuol dire?
Il Natale è l’occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera; in questo senso tutti noi sappiamo benissimo ‘cos’è’ il Natale. Dovrebbe voler dire che al centro di tutto c’è un uomo. La nascita di quel bambino è la nascita di una creatura che ha un diritto di vivere. Abbiamo diritto a vivere: pensiamo a quante persone stanno morendo sotto le bombe dei francesi, dei russi, degli altri che stanno facendo la guerra per procura.
Ha delle speranze?
Ne avevo di grandi, fino alla fine degli anni Novanta. La caduta del Muro di Berlino ci aveva dato speranza... Invece guardiamo oggi, quanti muri continuano a essere eretti!
La sua fede nell’uomo ha mai vacillato?
Ho avuto una grande crisi quando l’Italia è andata a fare la guerra nell’ex Jugoslavia: una vergogna su cui tutti tacciono. È stata una resa alle ragioni delle armi, del potere, del denaro. Ho capito che l’Europa non mi dava più speranze: a otto anni mi hanno dato la tessera dei ‘giovani per l’Europa’, per noi era un grande mito.
Il futuro?
Per ora manca un’insurrezione delle coscienze. Ma non c’è più nessuna mobilitazione: dopo il G8 non c’è stato più nulla. Neanche tra i giovani c’è interesse a mobilitarsi per la pace, la giustizia sociale, il lavoro che non c’è. Questo è grave, si passerà subito all’insurrezione violenta. Prima o poi i poveri si ribelleranno.
*
Da il Fatto Quotidiano del 24 dicembre 2015
di Silvia Truzzi | 24 dicembre 2015
CHIESA
COMUNITA’ DI BOSE
Enzo Bianchi e il Libro blu della preghiera ecumenica
di Marco Galloni *
Prima del Concilio Vaticano II un’avventura come quella della comunità di Bose sarebbe stata impensabile: lo ha detto Enzo Bianchi, priore di Bose, martedì 1 dicembre 2015 durante una conferenza sulla vita monastica interconfessionale organizzata dal centro “Alberto Hurtado” della Pontificia Università Gregoriana.
L’unico esperimento preconciliare di vita comunitaria tra cristiani di confessioni diverse, ha aggiunto Bianchi, è quello realizzato da Maria di Campello, una missionaria francescana che negli anni ’20 del secolo scorso costituì, insieme ad alcune sorelle tra cui due anglicane, una fraternità di vita semplice in un piccolo convento vicino alle fonti del Clitunno.
Il vescovo di Spoleto si oppose, condizionando pesantemente la vita della comunità. Una comunità peraltro dotata di straordinarie capacità profetiche e di dialogo: Maria riuscì a tessere relazioni con Albert Schweitzer, George Tyrrell, Ernesto Bonaiuti, don Primo Mazzolari, padre Balducci e perfino con il Mahatma Gandhi.
Nei suoi scritti si scopre un notevole spessore spirituale. Non c’è nulla di devozionale, nessuna traccia di proselitismo camuffato da ecumenismo.
Maria afferma che ognuno deve restare fedele alla via in cui lo ha posto il Signore, ma che è possibile camminare insieme per «cercare Dio e vivere sulle tracce di Gesù».
Le difficoltà di pensare una vita comunitaria ecumenica
Fu attraverso l’amicizia con un sacerdote molto legato a lei, don Michele Do, che Enzo Bianchi conobbe i pensieri e gli scritti di Maria di Campello. Un certo interesse per l’ecumenismo, tuttavia, è sempre stato presente nel priore di Bose.
Bianchi ha ricordato di quando a 17/18 anni, reo di aver frequentato una chiesa avventista del settimo giorno, fu privato dell’eucaristia dal suo parroco per due mesi consecutivi.
Poi vennero gli anni dell’università, la breve esperienza nella Fuci di Torino e il gruppo ecumenico di via Piave, frequentato da padre Eugenio Costa, da alcuni battisti, da valdesi e da un ortodosso greco.
Siamo nel 1963: il Vaticano II è aperto da poco e Bianchi, soprattutto dopo una lunga permanenza presso l’Abbé Pierre, il quale gli ricordava sempre che «i poveri sono per noi una cattedra, non i destinatari della carità», sente crescere la vocazione monastica.
Enzo Bianchi comincia a vivere a Bose e a coltivare legami di amicizia con Roger Schutz, il priore di Taizé. A quell’epoca Schutz guidava una comunità di circa 40 membri, tutti protestanti, e voleva aprire ai cattolici: una novità assoluta.
A Taizé c’erano già dei francescani belgi e francesi che facevano da nucleo di accoglienza per i cattolici in visita alla comunità, ovviando così al problema dell’eucaristia celebrata da pastori protestanti.
Schutz chiese a Bianchi di trasferirsi a Taizé ma quest’ultimo, su suggerimento del card. Pellegrino, suo padre spirituale, declinò l’invito.
I ritiri a Taizé tuttavia non mancarono, come quello di oltre tre mesi durante il quale Bianchi fu convocato dal vescovo di Autun, Le Bourgeois, che gli disse: «Mi raccomando, lei viene qui a Taizé ma non si sogni di far parte della comunità: noi cattolici non possiamo perché l’eucaristia dei protestanti non è un ministero valido; non è possibile la vita comune».
Ci furono tensioni anche con i francescani del gruppo di accoglienza, che vedevano in Bianchi il cavallo di Troia inviato per introdurre i cattolici a Taizé.
Questo per dire quanto fosse difficile, a quel tempo, pensare una vita comunitaria interconfessionale.
Le ire episcopali
Nel ’68 ecco arrivare a Bose un giovane pastore protestante di Neuchâtel, poi un altro da Novara e una ragazza da Ivrea, tutti desiderosi di darsi alla vita monastica.
Ma la comunità che andava costituendosi era formata da un cattolico, due protestanti e, cosa ancor più problematica, da una donna.
«Nella mia follia - ha raccontato Bianchi - andai a Grandchamp, una comunità di suore protestanti vicino a Neuchâtel, e chiesi alla priora Minke de Vries: “Mi manda una sorella? Perché sto mettendo su una comunità mista e non voglio che la ragazza che si trova a Bose sia sola”».
La priora pregò e rifletté tutta la notte, poi il mattino seguente affidò a Bianchi suor Christiane perché rimanesse a Bose per un anno. È l’ottobre del ’68. Un mese dopo il vescovo di Biella, allarmato per la presenza di protestanti nella comunità, dà l’interdetto all’intera frazione di Bose, cioè il divieto di celebrare i sacramenti. A nulla valgono i tentativi di mediazione di p. Eugenio Costa e del provinciale dei cappuccini di Torino.
Il divieto dura alcuni mesi. Poi, un giorno, il card. Pellegrino - che nel frattempo era diventato responsabile della comunità - arriva a Bose con la bella notizia: l’interdetto è terminato, si può celebrare. Pellegrino rimarrà responsabile della comunità fino alla morte, dopodiché lo seguiranno il card. Ballestrero e p. Eugenio Costa: «Fu in particolare quest’ultimo a proteggerci dalle ire episcopali», ha sottolineato Bianchi.
Il problema della preghiera comune e dell’eucaristia
La preghiera comune costituisce il primo grande problema per una comunità di natura interconfessionale.
Come comportarsi con i nomi dei santi, per esempio, se nella comunità ci sono dei protestanti?
A Bose si trovò una soluzione con un libro, o meglio un ciclostilato di colore blu che già nel ’69 veniva utilizzato come testo per la preghiera comune. Si trattava in sostanza di una liturgia delle ore cattolica arricchita da collette e preghiere litaniche raccolte un po’ da tutto il mondo cristiano: dagli orazionari anglicano, mozarabico, siriaco, bizantino, luterano, dei fratelli murabi...
Quel testo, che ben rappresenta lo spirito ecumenico di Bose, fu poi pubblicato dalla Morcelliana nel ‘72 e ripubblicato in versione estesa nel ‘93 e nel 2010. Oggi è un libro di 1.700 pagine grazie al quale tutti i cristiani possono pregare insieme senza sentire la propria confessione ferita o minacciata.
Ma il problema della preghiera comune è poca cosa di fronte allo scoglio dell’eucaristia. Una comunità interconfessionale può pregare insieme, fare professione monastica sulla stessa regola, condividere i beni, ma di fronte all’eucaristia inevitabilmente si divide.
Il card. Pellegrino risolse la questione facendo riferimento al decreto sull’ecumenismo, che in casi particolari consente l’accesso all’eucaristia cattolica a chi cattolico non è: così i riformati cominciarono a partecipare alla celebrazione officiata dai cattolici.
La cosa non piacque a un grande liturgista, che sporse denuncia a Roma: seguì un richiamo del Segretariato dell’unità e la comunità dovette interrompere la pratica.
Fu grazie a don Giustetti - un sacerdote conosciuto da Bianchi nel ‘66, poi divenuto vescovo di Biella - che la celebrazione comune poté riprendere.
È chiaro tuttavia che non può esserci reciprocità: se l’eucaristia è celebrata da pastori protestanti i cattolici non possono parteciparvi. Il problema è che nel mondo protestante non c’è un’unica comprensione dell’eucaristia.
Con gli ortodossi le cose non vanno meglio, anche se alcuni igumeni sarebbero lieti di ammettere i cattolici alla loro celebrazione eucaristica, il che del resto è consentito dalla Chiesa di Roma.
L’unità perfetta è ancora lontana
Altro problema: la comunione tra le Chiese. Le difficoltà più serie si incontrano con le Chiese riformate, perché queste non hanno nessun principio né istituto giuridico per dichiarare la comunione.
È Bose a cercare di coinvolgerle, facendo tuttavia attenzione a non sconfinare nel proselitismo: è fondamentale che ciascuno resti fedele alla propria confessione.
I monaci della comunità cercano la sinfonia, non vogliono imporsi; sarebbe assurdo fare un cammino comune portando la divisione all’interno delle Chiese. Ognuno deve rispettare la propria vocazione, le proprie radici: solo così è possibile fare un dialogo reale, serio.
L’ultimo problema riguarda l’aspetto giuridico. All’epoca del Sinodo sulla vita religiosa, con Giovanni Paolo II, fu chiesto a Enzo Bianchi di redigere una possibile costituzione per comunità interconfessionali, ma poi non se ne fece nulla. Il priore di Bose riprese l’argomento con papa Ratzinger, ma Benedetto XVI rispose che la faccenda non era così semplice, che occorrevano i giuristi.
Papa Bergoglio ha costituito una squadra di esperti in diritto canonico per studiare la situazione: con lui tutto sembra più promettente, ma occorre ancora lavorare.
Di comunità ecumeniche nel senso stretto del termine, oggi, ne esistono solo due: Taizé e Bose, la prima costituita da protestanti e cattolici, la seconda da cattolici, riformati e ortodossi.
Il diritto canonico non è ancora in grado di dire come integrare in una stessa comunità cattolici e non cattolici: la stessa Taizé ha avuto serie difficoltà in questo senso.
Con gli ortodossi le cose sono ancora più difficili: Bose ha buoni rapporti con i monaci dell’Athos, ma è anche l’unica comunità che ha il permesso di ospitarli quando vengono in occidente e di essere ospitata nei loro monasteri.
Siamo insomma ancora lontani dalla piena unità tra cristiani. Enzo Bianchi lo ha detto chiaramente al termine della conferenza: «Noi di Bose preferiamo non parlare di unità perfetta. Questo “vocabolario del perfetto” non ha nessun senso, anche se lo troviamo nei documenti magisteriali. Tutt’al più si può parlare di comunione, di un’unità visibile tra le Chiese. L’unità perfetta l’avremo solo nel Regno, è una cosa che troveremo di là».
* Marco Galloni, giornalista, socio fondatore di Dimensione Speranza Onlus, sito di spiritualità, teologia, geopolitica ed economia (www.dimensionesperanza. it)
* Adista - Segni nuovi, 6 FEBBRAIO 2016 • N. 5
Il Santo Padre nomina fr. Enzo Bianchi come esperto al Sinodo dei Vescovi *
Il Santo Padre Papa Benedetto XVI ha nominato quale esperto al Sinodo dei Vescovi su La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana (ottobre 2012) il priore fr. Enzo Bianchi. Il Papa Benedetto XVI aveva già nominato il priore quale esperto al Sinodo dei Vescovi su La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa (ottobre 2008).
Il priore e la comunità ringraziano il Papa per questo suo gesto di fiducia e di affetto.
* http://www.monasterodibose.it/content/view/4619/135/lang,it/
Riscoprire la gratuità
di Enzo Bianchi (Rocca, n. 15, 1 agosto 2012)
La crisi economica che stiamo attraversando - crisi dai risvolti umani e sociali pesantissimi per così tante persone - ha però tra le sue conseguenze anche un’inversione di tendenza rispetto al progressivo rarefarsi della capacità di percepire cosa davvero conti nella verifica di questi ultimi decenni.
Assistiamo oggi a una sorta di schizofrenia etica: da un lato confermiamo l’ormai ultrasecolare intuizione di Oscar Wilde secondo il quale «oggi si conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna», ma d’altro lato constatiamo la diffusione della pratica del dono. Dalle associazioni di volontariato di ogni tipo alle banche del tempo, da quanti usano ogni momento libero per condividere sulla rete conoscenze e progettualità a quanti continuano a dedicarsi al miglioramento delle condizioni di vita della collettività, troviamo sempre più persone capaci di «donare» gratuitamente risorse e capacità.
Così quello che a prima vista sembrerebbe il pensiero dominante - cinismo del mercato, ricerca del proprio interesse, volontà di cavarsela a dispetto degli altri, monetizzazione di ogni attività, valutazione degli altri in base alla ricchezza posseduta... - è contestato silenziosamente da chi fa spazio alla gratuità, al prevalere del bene comune sul vantaggio personale. Apparentemente non c’è spiegazione alla logica del gratuito: «la rosa è senza perché», osservava già il poeta mistico Angelo Silesius nel XVII secolo. Così nel nostro mondo di dilagante dominio della redditività, dell’ottimizzazione dei profitti, la rosa custodisce la memoria attiva dell’essere senz’altra ragione che l’esserci.
Oggi questo senso della gratuità sembra smarrito: non riusciamo più a vederla come ricchezza nelle nostre vite e nelle nostre relazioni, convinti di essere noi gli unici protagonisti di ogni cosa, coloro che determinano l’evolversi delle vicende e delle società.
Eppure non manca chi ci ricorda che, come la vita, il dono è qualcosa che ci precede, che esula dai diritti-doveri, che non può mai essere pienamente ricambiato, che nasce da energie liberate e origina a sua volta capacità inattese. La gratuità non è tale solo perché non comporta un prezzo, ma più ancora perché suscita gratitudine e, più in profondità ancora, perché sgorga da un cuore a sua volta grato per quanto già ha ricevuto.
Nel dono autentico non si riesce mai a tracciare un confine certo e invalicabile tra chi dà e chi riceve: non perché vi sia il calcolo di chi pesa il contraccambio, ma perché, come dice Gesù, «c’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Chi dona, infatti, gode a sua volta della gioia che suscita in chi riceve. D’altronde, il fondamento dell’amore è la rinuncia alla reciprocità e alla sicurezza che ne deriva: occorre indirizzare l’amore verso l’altro senza essere sicuri che l’altro ricambierà.
Da tempo vado anche ripetendo che non dovremmo pensare al dono solo come a una possibile forma di scambio tra le persone: riscoprire la gratuità come istanza anche sociale costituisce un’esperienza liberante e arricchente per ogni tipo di convivenza. Lo ha ricordato con parole forti Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate: «La gratuità è presente nella vita dell’uomo in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza... Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità». Se a livello personale e relazionale possiamo riscoprire la libertà profonda che il donare richiede e la gioia che suscita sia in colui che dona che in colui che riceve, a livello sociale ci è dato di prendere coscienza di come, anche nell’ottica mercantile ormai dominante, si possano concretamente immettere istanze di gratuita fraternità: la solidarietà umana, uno stile di vita più sobrio ed essenziale, una ritrovata dimensione di fratellanza universale non sono alternative alle ferree leggi economiche o all’esercizio della giustizia, ma sono anzi correttivi preziosi per una più equa distribuzione di quei doni naturali che sono intrinsecamente destinati a tutti.
Come cristiani testimonieremo così l’unicità del Signore, dono sceso dall’alto che non ha cercato né atteso il nostro contraccambio per portare a tutti le ricchezze della sua grazia, il volto divino della gratuità. Senza il concetto di dono e di dono gratuito non sarebbe possibile un parlare cristiano perché, non lo si dimentichi, nel cristianesimo persino l’alleanza, che di per sé è bilaterale, è diventata alleanza unilaterale di Dio offerta all’uomo nella gratuità.
Quando la teologia diventa un network
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 13 giugno 2012)
«È la ricerca inesausta di senso che mi ha fatto capire il valore del cavo Usb che ho in mano. E so che il mio iPad ha a che fare con il mio inestinguibile desiderio di conoscere il mondo, mentre il mio Galaxy Note mi dice (anche quando è in silenzio) che io sono fatto per non stare da solo. Ma è la poesia di Whitman che mi dà il gusto del progresso. Ed è Eliot che mi fa attento a non cadere nei suoi tranelli. Ma è anche Flannery O’Connor che mi fa capire che “la grazia vive nello stesso territorio del diavolo” e pian piano lo invade».
Chi scrive queste righe intense potrebbe essere un giovane letterato appassionato di tecnologia. Oppure un poeta capace di affidarsi agli strumenti più moderni della scrittura. O ancora un filosofo in grado di districarsi tanto nella spiritualità quanto nelle frontiere più avanzate dell’innovazione digitale. È, invece, un prete. Un giovane sì, ma già affermato sacerdote, anzi un teologo, che probabilmente come molti altri suoi colleghi è capace di unire la propria ricerca - e l’insegnamento religioso - servendosi delle forme più recenti che la rete offre. A dimostrazione, ancora una volta, che la Chiesa, dalle più sperdute parrocchie di periferia fino agli austeri Sacri Palazzi del Vaticano sta adottando una rivoluzione che ne sta trasformando l’approccio e il linguaggio.
Pioniere di questo sviluppo è di sicuro padre Antonio Spadaro. Un gesuita messinese dallo sguardo attento, da pochi mesi direttore di un quindicinale prestigioso come La Civiltà Cattolica che esce con l’imprimatur della Segreteria di Stato vaticana, e persona i cui interessi spaziano appunto dalla letteratura alla poesia, dalla pittura alla musica. E che trova una sintesi fondamentale dei propri orizzonti nella religione spiegata anche attraverso l’uso della tecnologia.
Il Vaticano, al più alto livello, si è accorto di questo quarantacinquenne docente alla Pontificia Università Gregoriana. E lo stesso Papa Benedetto XVI di recente lo ha nominato consultore in due dicasteri chiave, quello della Cultura affidato alle capacità multiformi del cardinale Gianfranco Ravasi, e quello delle Comunicazioni sociali affidato alle mani sapienti di monsignor Claudio Celli. È stato Spadaro, già nel 2006 a dedicare ai nuovi fenomeni dell’interattività saggi come Connessioni. Nuove forme della cultura al tempo di Internet, e due anni fa l’innovativo Web 2.0. Reti di relazione.
Molto attivo nell’ambito dei network, ha fondato nel 1998 uno dei primi siti di scritture creative, “Bombacarta. it”. Lo scorso anno ha poi inaugurato il blog “Cyberteologia. it”, aprendo infine una pagina Facebook dedicata, un account Twitter e da ultimo un quotidiano online.
Dunque un veterano. E questo suo nuovo libro, Cyberteologia. Pensare il Cristianesimo al tempo della rete (Vita e Pensiero, pagg. 148, euro 14), non è affatto una raccolta di messaggi. Quanto piuttosto una riflessione argomentata sulla questione se la rivoluzione digitale in atto nel mondo contemporaneo tocchi in qualche modo oggi anche la sfera della fede.
E la risposta che il teologo e direttore di Civiltà Cattolica dà in modo tutt’altro che assertivo, ma problematico, è che adesso è forse arrivato il momento di considerare la possibilità di una “cyberteologia”, vista come «intelligenza della fede al tempo della rete» (la rima, probabilmente voluta, è sua). Perché la logica dei network offre spunti inattesi alla possibilità di affrontare temi come la trascendenza, la comunione, il dono. E in tutto questo la teologia può aiutare l’uomo a trovare sentieri nuovi e più appropriati.
Ma pure Spadaro, con la sua passione per le arti e l’indiscusso background tecnologico, ammette che hic sunt leones, si tratta cioè di un territorio ancora inesplorato, selvaggio, poco frequentato. Di fronte al quale lui stesso all’inizio si è trovato a disagio, nel tentativo di spiegare, di fronte allo schermo bianco del suo computer.
Ha poi risolto l’impasse. E la lettura vale il tempo impiegato, fino alle ultime pagine, intessute dal raccordo di grandi pensatori, alcuni già con la mente protesa alle trasformazioni di oggi: «È il poeta Gerard Manley Hopkins che mi ha aiutato a capire il ruolo dell’innovazione tecnologica, è il jazz che mi ha fatto capire il ruolo dei network sociali, sono i teologi - da Tommaso d’Aquino a Teilhard de Chardin - che mi hanno illuminato sulle forze che rendono l’uomo attivo nel mondo, partecipando alla Creazione, e che sollevano l’uomo verso una meta che lo supera, ben al di là di ogni surplus cognitivo».
Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, anche nella Chiesa
di Enzo Bianchi (“Jesus”, marzo 2012)
Come reagire a quanto sta succedendo nella chiesa, in questi ultimi tempi in modo più manifesto di prima? Lamentarci? Già fatto. Denunciare? Pure, sempre cercando di non offendere la carità né di nominare il “peccatore”! Forse, si tratta di fare anche di questi momenti un’occasione per vivere il vangelo e per continuare ad amare la chiesa anche qualora si dovesse concludere che essa è irreformabile perché impermeabile al Vangelo...
Sappiamo che la chiesa non è una realtà atemporale generata dal testamento di un fondatore: è una realtà storica, è storia e fa storia. Sappiamo anche che nel luogo stabilito per il diritto può esserci l’iniquità (cf. Qo 3,16) e che già nel gruppo dei dodici chiamati attorno a sé da Gesù e coinvolti nella sua vita, la pietra di fondamento ha la tentazione di reagire come Satana e i dodici sono lenti a credere ma pronti a rinnegare e qualcuno persino a tradire Gesù! Dalle parole di Gesù sappiamo anche che nel campo, nello spazio ecclesiale, grano e zizzania crescono insieme, che la zizzania non va sradicata ma che occorre attendere, pazientare e volgere lo sguardo verso quello che sarà il frutto della mietitura.
Allora, perché soffrire? Perché lamentarci di quel lamento che è stato profetico sulla bocca e nel cuore dei profeti dell’Antico Testamento, di Gesù stesso che pianse su Gerusalemme, di uomini di chiesa come Basilio il grande o altri padri d’oriente e d’occidente? In questi anni abbiamo osservato il deterioramento che avveniva sotto i nostri occhi: dalla calunnia e la critica feroce attizzate in un sottobosco infido alimentato da blog e giornalisti compiacenti alle diverse fazioni, fino alla denigrazione di uomini e donne che avevano il solo torto di essere leali, non adulatori, non ricercatori di potere e di appoggi nelle diverse curie ecclesiali. Abbiamo notato anche che al grido di alcuni - tra cui lo stesso cardinal Ratzinger a partire almeno dalla Via Crucis celebrata alla vigilia della morte di Giovanni Paolo II - che denunciavano il malessere ecclesiale, il carrierismo, l’avidità del denaro e del potere seguiva subito dopo una serie di eventi che fornivano motivazioni a quei lamenti e a quelle denunce.
E tuttavia: che fare, che dire, di fronte a una chiesa che sembra aver smarrito, in molti suoi responsabili che portano l’onere del servizio a tutti, la tensione verso l’unità e la carità? Se un tempo creavamo atei con immagini distorte di Dio da noi fabbricate e predicate, oggi non siamo più significativi e ci ritroviamo paralizzati dallo spettacolo che offriamo. Gli uomini e le donne non appartenenti alla chiesa si sentono confermati nella loro estraneità rispetto a quanti si dicono impegnati nella nuova evangelizzazione, mentre molti cristiani se ne vanno in modo silenzioso, senza contestazione o tentano di vivere la fede “nonostante la chiesa”, etsi ecclesia non daretur. Benedetto XVI, nel Messaggio per la Quaresima 2012 esorta a riscoprire la dimensione della correzione fraterna come costitutiva della vita cristiana. Di correzione è bisognoso il singolo come la comunità cristiana nel suo insieme, l’ekklesía. E la correzione avviene con parole e opere, così come l’evangelizzazione, la liturgia, la storia di salvezza.
Il degrado della vita ecclesiale è anzitutto abbandono dell’ascolto della Parola di Dio, uscita dalla postura salvifica dell’ascolto, nella quale si raccoglie tutta l’esistenza della chiesa e da cui solo può procede ogni suo atto di parola. Ma il primato della Parola di Dio è tale non solo quando è alla base della predicazione e della parola magisteriale della chiesa, ma anche quando regola e corregge il parlare intraecclesiale, quando diviene ascesi della parola nella chiesa per costruire una comunicazione “evangelica” che sfugga alle doppiezze, alle menzogne, alle manipolazioni, alle adulazioni. La schiettezza, la parresía, la trasparenza e anche la condivisione della parola, la dimensione comunitaria e collegiale della parola, sono la risposta ecclesiale alla Parola di Dio che cerca comunione e la crea convertendo il parlare umano sull’esempio di Gesù, di cui la gente diceva: “Mai un uomo ha parlato così” (Gv 7,46).
Di Gesù, si diceva anche: “Ha fatto bene ogni cosa” (Mc 7,37). All’ascolto della Parola di Dio si affianca il guardare l’agire buono, veramente magisteriale, di molti, moltissimi cristiani anonimi e senza ribalta mediatica, che sono chiesa santa di Dio anche se nascosta come ceppo in terra arida. Ci sono i martiri, i cristiani perseguitati, ci sono uomini e donne che si alzano al mattino per lavorare, che faticano a mettere al mondo figli e a mantenerli, ci sono persone che quotidianamente spendono se stesse piegandosi sui loro fratelli sofferenti con amore, ci sono tanti cristiani che soffrono intimamente per la propria inadeguatezza a essere conformi al Vangelo, ma tutti costoro non fanno notizia, nessuno li discerne e li osserva, nessuno li ascolta...
Del resto, non è accaduto già così a quell’ “ebreo marginale” che fu Gesù di Nazaret? Chi si è accorto di lui durante la sua vita? Chi si è interessato della sua vicenda intessuta solo di amore e di servizio fedele ai fratelli? Solo poche decine di discepoli in mezzo a una folla che accorreva a lui solo per avere del pane e assistere a qualche miracolo...
Che fare dunque in questa amara situazione? Ascoltare di nuovo la Parola Dio, ascoltare il magistero silenzioso dei cristiani quotidiani, e ancora e ancora resistere al diavolo, il divisore, combattendo la buona battaglia della fede ogni giorno, confidando solo in Gesù il Signore e ricordando le parole del profeta Geremia: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo” (Ger 17,5). Ci resta da ricominciare la nostra vita cristiana dicendo a noi stessi: oggi è il primo giorno di vita cristiana che mi resta da vivere!
L’eucaristia, magistero del «ma voi non così»
di Enzo Bianchi (Jesus, n. 7, luglio 2011)
Abbiamo già espresso su queste colonne la nostra sofferenza per la liturgia che dovrebbe essere luogo di comunione ed è diventata luogo di conflitto nella chiesa, ma proprio perché crediamo che l’eucaristia è il dono più grande che il Signore Gesù ci ha lasciato, vogliamo ancora ascoltarla e lasciarci istruire dal suo magistero silenzioso ma eloquente.
In quasi tutte le comunità cattoliche l’eucaristia è celebrata quotidianamente. Nei giorni feriali poche persone vi partecipano: sovente sono donne e anziane - anche loro sempre di meno - pochi gli uomini, praticamente assenti i giovani. Qualcuno potrà lamentarsi che vengono celebrate in modo troppo quotidiano, che manca la ricchezza del canto o della festa, che sono prive di una bellezza capace di meravigliare, che non si impongono e non richiamano spettatori...
Eppure, se celebrate seriamente e con consapevolezza, saranno “umili” eucaristie ma sempre con la verità di “cene del Signore”. Sì, povere e umili celebrazioni, ma il criterio per giudicarle non è la loro capacità di “fascino”, bensì se fanno risuonare per quanti vi partecipano l’“evangelo”, la buona notizia della morte e risurrezione di Gesù Cristo, se sono fonte di fiducia per la vita, fonte di speranza per il futuro, fonte di amore fraterno nella vita di famiglia e negli incontri, nel tessuto sociale dove i cristiani sono collocati, vivendo e lavorando con gli altri uomini. Sì, questa è la vera domanda che ci dobbiamo porre davanti all’eucaristia: la sua celebrazione determina qualcosa nella nostra vita, cambia i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti sempre tentati dalla mondanità, converte le nostre vite?
È certamente molto importante, anzi decisivo, interessarsi sul “come” l’eucaristia è celebrata, ma non dobbiamo mai dimenticare che tutto ciò che noi predisponiamo o operiamo per la celebrazione può avere un solo fine: immergerci nella dinamica del mistero pasquale, quell’evento che Gesù ha raccontato con parole e gesti sul pane e sul vino.
Ricordiamoci allora che partecipare all’eucarestia è innanzitutto accogliere l’invito alla “tavola del Signore” (1Cor 10,21): è il Signore vivente che invita noi, poveri e peccatori bisognosi della sua misericordia, malati assetati di guarigione, affaticati e stanchi in cerca di riposo, umiliati e ultimi che anelano a essere riconosciuti e accettati senza doverlo meritare... Tutti diciamo: “Signore, non sono degno...”. Così il pane è dato a tutti, icona della condivisione, ispirazione e comando di condivisione di tutti i frutti della terra e del lavoro umano, affinché non ci siano bisognosi nella comunità in cui si vive (cf. At 4,32).
Ma partecipare all’eucarestia significa anche essere coinvolti nel sacrificio di un uomo, il servo del Signore, che ha speso e dato la sua vita per gli altri fino ad accogliere la morte violenta, la morte del giusto in un mondo ingiusto, la morte dello schiavo in un mondo di padroni e di potenti, la morte di un uomo di pace in un mondo violento...
Non a caso, secondo il Vangelo di Luca, proprio nel contesto dell’ultima cena, dopo l’istituzione dell’eucaristia, Gesù ha detto: “Ma voi non così!” (Lc 22,26), non comportatevi come accade ogni giorno nel mondo, non come fanno tutti, non come viene spontaneo fare in base all’istinto della conservazione e della difesa di noi stessi fino a far prevalere l’amore per noi stessi senza gli altri e anche contro gli altri!
L’eucaristia è il magistero del “ma voi non così!”, della differenza cristiana, perché vuole plasmarci in uomini e donne eucaristici, capaci cioè di vivere e spendere la vita a servizio degli altri, amando gli altri fino all’estremo, fino al nemico stesso: corpo spezzato, sangue versato, sacrificio di una vita offerta e consumata nell’amore autentico dei fratelli.
E affinché comprendessimo che l’eucaristia è questo - altrimenti non è, ma si riduce a scena religiosa, sontuosità e falsità - Gesù ha anche affidato ai discepoli un gesto che la spiega e la interpreta: la lavanda dei piedi. In quel curvarsi di Gesù, in quel compiere il gesto dello schiavo nei confronti dei fratelli, Gesù ha detto parole che risuonano anche per noi oggi: “Avete capito ciò che vi ho fatto?”, avete capito che lo spezzare il pane e bere al calice è servizio ai fratelli, servizio quotidiano assunto come stile, lo stile del Signore e del Maestro?
L’eucaristia è questo! E se lo è autenticamente, allora può solo essere fonte di riconciliazione, di comunione, di amore fraterno. Se invece essa è intesa e vissuta soltanto come celebrazione, rito, come un’occasione di identità e appartenenza culturale e religiosa, se in essa si cerca la solennità come spettacolo che seduce e abbaglia, allora purtroppo è vero che noi ci dividiamo e di fronte all’eucaristia entriamo in conflitto gli uni con gli altri... Ma quello che celebriamo non è più l’eucaristia di Gesù, la cena del Signore (cf. 1Cor 11,21)! Non si può rispettare il corpo di Cristo, fissandolo nel pane e nel vino, e poi non riconoscere il corpo di Cristo che è la comunità, la chiesa, insieme di malati, poveri e peccatori che cercano di trovare senso nelle loro vite per poter pregustare la salvezza che viene dal Signore!
I guasti del denaro, ultimo totem
di Salvatore Bragantini (Corriere della Sera, 19 febbraio 2011)
Il libro di Vittorino Andreoli, Il denaro in testa (Rizzoli), fa ripensare al peso di questo fattore, nefasto ma sempre mutevole. Tutta la storia dell’uomo narra le violenze fatte e le angherie subite, nel nome dei suoi grandi totem: il denaro e le religioni. Dio e Mammona hanno sempre trovato nel potere i loro modi di sontuosa convivenza; nel reciproco interesse. Alla fine, Andreoli elenca i bisogni veri dell’uomo: la sicurezza, l’amore, la continuità della vita attraverso i figli, la serenità e la gioia (più necessarie della libertà, scrive, e viene in mente l’arringa a Gesù del Grande Inquisitore) e così via.
«Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli meglio». È questo, però, il problema. Certo, le società moderne sono tanto disossate da far dire a Margaret Thatcher (che ci ha messo del suo): «La società non esiste». Non credo però che, neanche in quell’era dorata che ci pare il nostro Rinascimento, si vivesse come in un’orchestra nella quale, «se tutti sono adeguatamente coordinati e danno il loro contributo all’insieme, la vita può diventare l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven».
Da tempo, certo, il denaro deborda ben oltre i limiti propri di una convivenza ordinata. Da quando la società anonima ha circoscritto le responsabilità degli investitori, sono partite innovazioni che hanno rivoluzionato la vita; la ricchezza mobiliare fa a meno della terra, onde l’aristocrazia traeva potere e ricchezza. Ciò aumenta il numero dei ricchi, quindi la paura di diventare poveri; è chi sta male a sperare di stare meglio. I guadagni sono celati, le perdite lamentate in pubblico.
La finanza ha messo il turbo ai guadagni privati e alle perdite che le crisi finanziarie addossano al contribuente; se si può anticipare l’incasso anche di anni lontani, la tentazione di vendersi il vitello in pancia alla vacca mina il futuro. Ma il passato, aureo o no, non tornerà. Fra il 1950 e la metà degli anni Settanta gli eccessi del denaro non erano così visibili e dannosi. Le disuguaglianze erano minori. Le paghe dei megamanager avevano un rapporto con il loro lavoro, erano cinquanta volte quelle dei loro dipendenti, non cinquecento o mille; la deontologia professionale reggeva. Ciò costava nell’immediato, ma la reputazione era fonte di guadagni futuri; gli auditor non certificavano bilanci falsi per tenersi il cliente, le banche - settore sonnolento - non concedevano mutui farlocchi da rifilare a sprovveduti, vogliosi di strappare un lacerto di carne. La fine dello spauracchio comunista allentò le difese del capitalismo, mostrandone il volto peggiore; gli incassi immediati contarono più della reputazione.
I giudizi di Andreoli su finanzieri e imprenditori paiono a volte troppo tranchant; se (quasi tutti) sono mossi dalla maledetta fame di denaro, accostarli ai criminali è un po’ forte. E magari non è il mondo a essere mutato, ma la maggior esperienza di vita a mettere a nudo la realtà. Poco praticabili sono poi alcune sue ricette: sarebbe sì desiderabile che la psicologia dettasse all’economia la «giusta distribuzione dei compiti e dei mezzi... tenendo conto delle differenze, degli impegni e delle necessità di ognuno».
I tanti tentativi in tal senso della politica, tuttavia, pur ispirati alle migliori intenzioni, dicono che l’economia di mercato è il peggior allocatore delle risorse, a parte gli altri sistemi: come quella democrazia che con lei si è sviluppata, ma che dai suoi eccessi è messa a rischio. Ignoriamo gli esiti di una grave crisi che di quelle disuguaglianze s’è nutrita e deve ancora dispiegare le sue conseguenze economiche, sociali e politiche; la difesa, coltello fra i denti, della ricchezza impaurita ci darà forse brutte sorprese.
La direzione presa dal sistema negli ultimi trent’anni - più economia di business che di mercato - può farci tornare al punto di partenza; con la democrazia che conserva le forme ma trasmuta in aristocrazia, non della terra ma del denaro. Se per essere eletti servono troppi soldi, vince il più ricco o chi meglio si vende ai vested interest; con l’aiuto, troppo ignorato, di una tv che ha prima unito l’Italia, poi sfibrato gli italiani.
Le parole di Andreoli evocano nel lettore la sapienza laica - per cui è sventurato l’uomo che non dona e muore ricco - e religiosa: dalla «preghiera semplice» di Francesco - «È dando che si riceve» - al Vangelo: «Eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutto il suo splendore fu mai vestito come i gigli del campo». Se hai bisogno di aiuto, si dice, chiedilo a un povero, lui ti aiuterà.
La ricchezza ci chiude, invece di aprirci al dono; fortunato chi per la cruna dell’ago sfugge a questa morsa. La povertà oggi diviene peccato, dice l’autore; peggio, il governo la considera spesso reato. Chi nasce povero ha più probabilità di restarlo oggi che nello scorso secolo breve.
La meta dell’uguaglianza dei punti di partenza, topos della democrazia liberale, che è morta con la tassa di successione, va risuscitata; deve però cessare l’atomizzazione dei saperi, deprecata dall’autore, per cui gli intellettuali più non leggono i libri di economia. Le colpe sono equamente ripartite, ma ricordiamolo: Adam Smith insegnava filosofia morale, non econometrica.
di Marino Nola (la Repubblica, 10 agosto 2010)
Uno nessuno centomila volti per l’inventore della tentazione. Il diavolo non è mai uguale eppure resta sempre lo stesso. Serpente infido, angelo caduto, caprone volante, dragone sulfureo. Ma anche eroe maledetto, libertino irredimibile, mercante d’anime. E ancora anormale, marginale, deviante. Bel tenebroso oppure brutto sporco e cattivo. E perfino terrorista e serial killer. Dalla Genesi ai nostri giorni il maligno ne ha cambiate di facce.
A dirlo è Daniel Arasse, storico dell’arte della Sorbona, in un libro appena uscito in Francia per le Edizioni Arke. Titolo Il ritratto del diavolo. Argomento, le mille sembianze con cui la nostra civiltà nel corso della storia ha cercato di rappresentare il principio attivo del male. Finendo per fare del signore delle tenebre il mutaforma per antonomasia. Proprio come quelli che oggi popolano il cinema e la letteratura fantasy. Ma in realtà ad essere veramente diabolico è proprio questo trasformismo gattopardiano. Cambiare tutto perché nulla cambi, mimetizzarsi per continuare ad indurci in tentazione.
Sin dai primi secoli del Cristianesimo la vera arma del diavolo è proprio la sua capacità di trucco e di travestimento. Tertulliano, uno dei padri della Chiesa, sosteneva che gli angeli ribelli scacciati dal paradiso rivelarono alle donne arti diaboliche come l’uso della “polvere nera con cui si prolungano gli occhi”. Quello che oggi non a caso si chiama mascara. Seduzione uguale tentazione. Come quella cui viene sottoposto sant’Antonio da un sexy-diavolo in sembianze femminili. Simile alla sensualissima Anita Eckberg che Fellini, in “Le tentazioni del dottor Antonio”, trasforma in una prorompente diavolessa bionda che sulle note di “bevete più latte” fa perdere la testa a Peppino De Filippo nelle vesti del bacchettone di turno. Di fatto Tertulliano, oltre a riaffermare che la tentazione è femmina, condanna la cosmetica in quanto mascheramento che snatura il modello divino di cui il volto umano è la copia rivelatrice. E in molte incisioni medievali il demonio viene riconosciuto proprio quando si toglie la maschera. Finendo letteralmente smascherato. Proprio come Diabolik. E come Arlecchino, la maschera per antonomasia, che in origine è anche lui un diavolo. Lo dice il nome stesso che viene dall’antico germanico hölle könig, che in inglese diventa hell king, ovvero re dell’inferno.
Ma questa capacità illusionistica non è solo uno strumento del mestiere, è anche la storica ragion d’essere del maligno. Che riesce, ieri come oggi, a rendere il male pensabile e soprattutto rappresentabile solo a condizione di restare un’icona a bassa risoluzione cui la Chiesa stessa non ha mai dato un volto definitivo. Ed è proprio grazie a questa indefinizione che il diavolo è rimasto un evergreen. Capace di un morphing perpetuo che ne fa sempre il profilo più aggiornato del male, la sua ultima versione.
Diceva Dostoevskij che in realtà l’uomo ha creato il diavolo a sua immagine e somiglianza. Come dire che ogni epoca ha il Lucifero che si merita. Lo mostra a chiare lettere la storia dell’arte occidentale che registra puntualmente le metamorfosi del grande nemico. Sin dalle prime raffigurazioni altomedievali dove Satana e Belzebù hanno facce da turchi, da mongoli, da africani. Tratti etnici per significare un male straniero, un pericolo che viene dall’esterno. Fino a quel tornante decisivo che sta fra medioevo ed età moderna quando il demonio perde le ali di pipistrello, la coda di dragone, gli zoccoli da satiro pagano, per lasciare il posto a un maligno dal volto umano.
Un diavolo politico, seppur cornuto, come quello che Ambrogio Lorenzetti mette al centro della celebre allegoria del cattivo governo, dipinta per il palazzo pubblico di Siena. Un tiranno, circondato da una squallida consorteria di vizi, che si mette sotto i piedi la giustizia, raffigurata con le mani legate (ogni riferimento al presente è puramente casuale). O addirittura un diavolocardinale, come quello del Michelangelo della Sistina che nel Giudizio universale dà al signore dell’inferno il volto del potentissimo Biagio da Cesena, maestro di cerimonie del pontefice Paolo III. Non più ibridi con gli occhi verdi di ramarro ma uomini dallo sguardo luciferino e dalla crudeltà mefistofelica.
Così il diavolo cede il posto al diabolico che è in ciascuno. Come diceva Paul Valéry, il diavolo diventa come Dio. Entrambi esistono, ma solo in noi e insieme formano una coppia inseparabile di divinità latenti. Come dire che la modernità lascia all’uomo la scelta tra bene e male. Tra resistere alle tentazioni del peccato o al contrario cedere deliberatamente cancellando così l’idea stessa di peccato. Una rivoluzione che finisce per fare del diavolo il simbolo della vittoria del piacere e della libertà. O, addirittura, della forza vindice della ragione, per dirla con Giosuè Carducci. Un eroe bello e impossibile. Come il Satana di William Blake del Victoria and Albert Museum di Londra, uno Spartaco venuto dagli inferi che guida gli angeli ribelli all’assalto del trono di Dio. E come il Satana di Milton che preferisce essere re all’inferno piuttosto che servo in paradiso.
Ma proprio perché si è fatto umano, troppo umano, il diavolo sparisce progressivamente dalla pittura e dall’iconografia. Che hanno bisogno di forconi, di artigli, di squame e di occhi fosforescenti da incubo. Se è facile dipingere dei mostri è difficile rappresentare la mostruosità. E così l’agente del caos esce dai manuali di storia dell’arte per entrare in quelli di criminologia e di psichiatria. E a dargli la caccia sono gli scienziati come Cesare Lombroso che fa dell’antropometria una demonologia positivista popolata di delinquenti, anormali, briganti, mattoidi e “pazzi morali”.
Uno zoo umano affollato di poveri diavoli come il “falsario piemontese”, il “ladro napoletano”, “l’anarchico lucano”. Più demonizzati che demoni in verità. Oggi, scacciato dalla morale religiosa Satana si delocalizza e si scioglie nel sociale. Entra nei moderni tribunali della coscienza laica con un look tutto nuovo. Un diavolo che veste Prada. Terziarizzato, immateriale, interiorizzato. E soprattutto medicalizzato. Un maligno da psicologi e dietologi più che da teologi. Un demonio interinale microfisicamente nebulizzato in mille piccole tentazioni e altrettanto piccole demonizzazioni che ci aiutano ad orientarci tra un bene e un male ad assetto variabile, più mutevoli degli indici della borsa. Dal colesterolo ai radicali liberi, dai grassi idrogenati ai raggi UVA. Dal sovrappeso agli inestetismi. Dalla mucca pazza all’effetto serra. E così il simbolo del male diventa sintomo di malessere. È tutto quel che resta del diavolo nell’era della flessibilità. Che ha tolto il posto fisso anche a Belzebù.
“Le portrait du diable”, un saggio di Daniel Arasse, ed. Arke
Meditazione su una moneta da due euro...
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “Témoignage chrétien” n° 3398 del 27 maggio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
I miliardi di euro o di dollari volano a squadriglie sopra le nostre teste. Inquietanti come i bombardieri dell’ultima guerra. È per il nostro bene, si dice. Bisogna salvare l’Europa. Bisogna salvare la Francia. Da molto tempo hanno superato il muro del suono. Adesso vanno alla velocità della luce. Un clic, e sono qui. Un clic, e sono là. Chi li governa? Chi li conduce? Non si sa bene: è lui, sono io, sei tu... Tutt’a un tratto qui una fabbrica chiude, il cacao non vale più niente e il rame vale oro, una regione è senza lavoro, degli Stati minacciamo fallimento e i miliardari sono sempre più numerosi.
Ma chi mai ha inventato questo denaro che ci fa tanto male e di cui non possiamo fare a meno? Come la parola, come la scrittura, come la cultura, l’uomo ha inventato la moneta ed è la moneta che lo fa. Gli scambi necessari vi trovano la loro misura e vi cercano la loro giustizia. La moneta permette la scelta e apre alla libertà. Nel Vangelo, Gesù non chiede al giovane ricco di di dare i suoi beni ai poveri, ma di venderli e di darne ai poveri il ricavato. La moneta è incontestabilmente il passaggio in un mondo più umano. Si ha torto di parlare del materialismo del denaro. Esso appartiene all’ordine dello spirito.
Prima di essere chiamato Mammona da Gesù, il soldo che paga la giornata di lavoro, la dracma che viene perduta dalla donna, il talento che il servo riceve dal suo padrone, la doppia dracma che bisogna pagare al tempio o le monetine offerte dalla vedova ottengono la sua approvazione e il suo interesse.
Quando l’oro si mette a brillare per se stesso facendo dimenticare il sudore, la gioia, la fatica, la solidarietà, la riconoscenza, la sicurezza, la carità che gli danno il suo valore umano, comincia il suo ruolo di ingannatore. L’oro, diventando moneta, sfugge alla saturazione degli appetiti, al tempo necessario alla raccolta o alla produzione, al ritmo delle stagioni e alla diversità dei climi. Tende a diventare un al-di-là autonomo, paradiso e inferno, luogo di salvezza o di perdizione. Si divinizza.
Ecco allora il denaro nel suo orribile ruolo di Mammona, il divoratore di vita. È presente fin dall’inizio, nelle prime conchiglie che si sono scambiati gli uomini. È presente come Satana nelle prime parole pronunciate da Adamo ed Eva. Perché tale è la condizione dell’uomo che entra nell’universo dei segni: ciò che significa può ingannare, ciò che manifesta può nascondere, ciò che promette può deludere, colui che parla può essere un bugiardo. E grande è la tentazione di usare il denaro per comprare, per dominare, per spogliare, per possedere il concorrente a cui si fa credere di essere suoi amici. Diventa il nervo della guerra e spesso il suo movente. È il vitello d’oro delle nostre liturgie mondane. È il dio dai mille volti dei nostri panteon.
Prendiamo in mano una moneta. Come ha fatto Gesù per mostrarci ciò che dovevamo a Cesare. Se vi vediamo la fatica di una giornata di lavoro sotto il sole africano, il cibo quotidiano di un bambino bengalese o ciò che manca al nostro giovane vicino per arrivare alla fine del suo corso di studi, vedremo anche la fiducia collettiva che permette a quel gettone di metallo di acquisire valore, l’energia di tutto un popolo senza la quale la sua moneta sarebbe solo polvere, la solidarietà che distribuisce così a ciascuno un po’ della dignità umana. Il denaro è troppo prezioso per perderne il controllo.
IL TRUCCO DELLA PAROLA, PER CONTINUARE IL GIOCO!!!
Per i cristiani è l’ora dell’umiliazione
di ENZO BIANCHI (La Stampa, 04/7/2010)
Per i cattolici e per la loro Chiesa questa è un’ora segnata da fatica e sofferenza. Se negli anni del postconcilio era sembrato che tra Chiesa e mondo non cristiano - nella sua pluralità di espressioni religiose, filosofiche, ideologiche ed etiche - fosse finalmente sbocciato il dialogo e fosse possibile un ascolto reciproco nel rispetto e nell’accoglienza, ora invece dobbiamo costatare la contrapposizione, spesso la sordità e a volte l’inimicizia.
Molti non credenti, che sembravano aver accettato un dialogo franco con i cattolici, ora delegittimano la Chiesa non riconoscendole neppure la capacità di stare nello spazio democratico delle nostre società. Ormai nelle librerie non è raro incontrare un’apposita sezione dedicata a libri anticlericali e più spesso anticristiani: testi dove viene negata e a volte ridicolizzata la vicenda storica di Gesù di Nazareth, in cui il cristianesimo viene letto storicamente come una presenza intollerante e aggressiva in Occidente e invasiva nelle altre terre. È in questo clima di «attacco» e di «polemica» che la vicenda degli scandali di pedofilia ha ulteriormente aggravato la situazione, giungendo a una «umiliazione» della Chiesa.
Basterebbe l’immagine della polizia che presidia la sede dell’arcivescovado di Malines-Bruxelles tenendo in situazione di fermo per una giornata l’intera conferenza episcopale belga per chiedersi con sgomento come questo sia stato possibile, in particolare in una nazione come il Belgio. Sì, com’è possibile che in Belgio - una nazione che fino a quarant’anni fa ha dato alla Chiesa universale il maggior numero di missionari, monaci e religiose; una nazione dove la Chiesa ha avuto una forte connessione con la corona regale e ha accompagnato tutta la storia coloniale del Paese - venga misconosciuta la funzione educativa, caritativa e culturale svolta dalla Chiesa e questa sia trattata come una qualsiasi associazione per delinquere, senza che questo desti reazioni nell’opinione pubblica? Una Chiesa, quella belga, che è stata tra le protagoniste della stagione di dialogo e di apertura conciliare e che ora vede le tombe dei suoi primati trattate alla stregua di nascondigli per corpi di reato...
Bisogna riconoscere che in Occidente la Chiesa è diventata una minoranza, davvero esigua in alcuni Paesi: la Chiesa è diventata debole perché ha perduto - anzi, a volte ha liberamente rinunciato - la posizione che occupava nell’epoca della cristianità. Non solo, ha anche mostrato di non essere irreprensibile, come molti si erano illusi che fosse, ha mostrato che il male, il peccato la abita come abita il mondo. E tuttavia si deve constatare che c’è a volte anche cattiveria nel dare notizia delle colpe, quasi una rivalsa che si nutre di accuse enfatizzate e che giunge fino alla delegittimazione della Chiesa in quanto tale. Del resto le polemiche sono anche state stimolate da quanti, senza l’esercizio di una prudenza minima, hanno esternato accuse o sono intervenuti con poco buon senso, ottenendo l’effetto di scatenare altre polemiche. Né ci dobbiamo stupire se molti di quelli che erano soliti osannare Giovanni Paolo II ora lo contrappongono a Benedetto XVI, giungendo fino a denigrarlo: uno spettacolo davvero poco cristiano e poco umano!
Ma quale atteggiamento possono assumere i cristiani in questa situazione? Quanti tentano seriamente di essere cristiani non dovrebbero meravigliarsi di questo «incendio» che si è manifestato in mezzo a loro e tra loro e il mondo. È l’apostolo Pietro a scrivere così ai primi cristiani in diaspora: «Non siate sorpresi dell’ostilità, della persecuzione... non avete ancora subito persecuzioni fino al sangue!». Il cristiano sa, deve sapere, che la sua missione e il suo messaggio non sono facilmente riconosciuti: in un mondo «ingiusto», qualunque messaggio sulla «giustizia», qualunque iniziativa di giustizia desta reazioni anche violente. È una necessitas umana, storica, che il vangelo cerca di raccontare nella vicenda di Gesù di Nazareth: una vicenda innanzitutto umana.
Quindi il cristiano deve accettare in questo momento l’umiliazione, sapendo che solo quando si è umiliati si inizia a conoscere l’autentica umiltà, che altrimenti resterebbe una virtù troppo soggetta all’astrazione e all’ipocrisia. Questa è un’ora di purificazione per la Chiesa: non solo purificazione della memoria come volle profeticamente Giovanni Paolo II con la confessione dei peccati dei cristiani in occasione del Giubileo, ma anche purificazione nel presente, nel qui e ora della storia. Da questa contrizione, da questa sofferenza può scaturire una «riforma» della Chiesa, perché questa è semper reformanda, non è infatti il regno dei cieli stabilito sulla terra, ma ne è solo segno e inizio.
Occorre inoltre reagire a questo «incendio» rinunciando ad assumere posizioni di arroccamento in una cittadella che recrimina e risponde attaccando, per l’angoscia e l’ansia incombenti. Le ostilità che vengono dall’esterno sono solo occasioni perché i cristiani siano più obbedienti al vangelo, occasioni per realizzare a caro prezzo l’insegnamento di Gesù. Ciò che come cristiani dobbiamo temere non viene da eventuali nemici esterni: l’attentato più forte al vangelo può venire invece da noi cristiani, dall’interno della comunità dei credenti. Benedetto XVI lo ribadisce con regolare frequenza, indicando così la lettura più decisiva per la vita ecclesiale oggi.
Infine è necessario riconoscere che forse dobbiamo cercare anche nuovi modi di essere Chiesa e di fare Chiesa: meno conflittuali all’interno, più sinodali nel discernere i cammini percorsi e quelli da intraprendere, più sapienti e nutriti di buon senso umano ed evangelico nel dirimere le questioni e i problemi. Oggi vi sono persone tentate di lasciare la Chiesa, di proseguire per la propria strada, ma questa non è una via praticabile per chi è veramente discepolo di Gesù e sa di vivere in una solidarietà di peccatori chiamata nella conversione e divenire una comunione autentica. Sì, è l’ora di scegliere il silenzio per discernere la parola, è ora di ricominciare con la grammatica della pazienza, è l’ora di accettare offese e tradimenti senza cessare di credere agli uomini, è l’ora di temere senza avere paura...
APERTA UN’INDAGINE INTERNA
Wall Street, il crollo del Dow Jones
per colpa di un refuso in un ordine
Un operatore avrebbe digitato una «b» di billion al posto di una «m» di million. Chiusura: Dow Jones -3,26% *
NEW YORK - Possibile che Wall Street bruci nel giro di quindici minuti i guadagni accumulati in oltre un anno di contrattazioni? Possibile. Ma soltanto per poco: 15 minuti di paura che rischiavano di costare carissimi agli equilibri della finanza mondiale, già fin troppo scossi in questi giorni. Il crack non era vero. O meglio, il crollo era vero, reale e stava per essere fatale. Ma non c’era motivo perché avvenisse. La causa, infatti, era in un errore di trascrizione, o trasmissione di un dato.
«M»ILLION, NON «B»ILLION - Alla fine Wall Street ha tirato un sospiro di sollievo, ma con una prova della propria fragilità che può far tremare i polsi. L’indice Dow Jones, infatti, in quei 15 minuti ha perso ben 700 punti, crollando 100 punti sotto i 10mila. Per le statistiche, sarebbe stato il crollo più forte dal 2008. Sarebbe stato, perché, mentre il panico si scatenava tra gli operatori , qualcuno è riuscito a capire che quella folle corsa a vendere era stata causata da un «refuso», un errore di scrittura di un trader nell’ordine di vendita. Lo spiega la Cnbc, secondo cui l’operatore distratto avrebbe digitato una «b» di billion al posto di una «m» di million mandando in tilt il sistema ma, soprattutto, facendo scattare il panico sui mercati di tutto il mondo.
Secondo alcune fonti, CitiGroup avrebbe aperto un’inchiesta interna sull’accaduto, cosa che fa pensare che sia un operatore di quel gruppo a causare il costosissimo errore. Il Nasdaq ha avviato una sua inchiesta interna per stabilire eventuali errori negli scambi fra le ore 14.40 e le 15.00 di new York. Le conseguenze dell’episodio, dal punto di vista delle procedure, saranno da valutare. Dal punto di vista del mercato, per fortuna, glin operatore, tirato un sospiro di sollievo, hanno subito quasi riassestato l’indice della Borsa Usa: dalle 15 alle 15.20, il Dow Jones ha recuperato 600 punti. Non abbstanza però per non ristentire del contraccolpo: la chiusura ha fatto segnare un -3,26%.
Redazione online
* Corriere delal Sera, 06 maggio 2010 (ultima modifica: 07 maggio 2010)
"Il Diavolo abita anche in Vaticano"
Padre Amorth, l’esorcista più famoso del mondo, racconta la sua lotta contro il maligno. -E rivela: "Si è infiltrato anche in Vaticano"
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 10.03.2010)
Beelzebul, Zago, Astarot, Asmodeo, Jordan. Quanti sono i nomi e le trasformazioni del Maligno? La stanza del mistero è spoglia. L’atmosfera fredda. Però padre Gabriele Amorth, l’Esorcista con la "e" maiuscola, settantamila casi affrontati in nemmeno 25 anni, sorride serafico. Lui è abituato a porte che sbattono, sedie che si rovesciano, occhi che roteano, bestemmie che volano. Ma parlare di demonio nella casa del Papa mette i brividi lo stesso. Anche se l’Esorcista non si tira indietro di fronte all’Avversario. E il Santo Padre? «Oh, Sua Santità crede in pieno nella pratica dell’esorcismo. Perché il diavolo alberga in Vaticano. Naturalmente è difficile trovare le prove. Ma ho confidenze di persone che lo confermano. E, del resto, se ne vedono le conseguenze. Cardinali che non credono in Gesù, vescovi collegati con il demonio. Quando si parla di "fumo di Satana" nelle Sacre stanze è tutto vero. Anche queste ultime storie di violenze e di pedofilia».
Beelzebul, Zago, Astarot, Asmodeo, Jordan. Quanti sono i nomi e le trasformazioni del Maligno? La stanza del mistero è spoglia. L’atmosfera fredda. Però padre Gabriele Amorth, l’Esorcista con la "e" maiuscola, settantamila casi affrontati in nemmeno 25 anni, sorride serafico. Lui è abituato a porte che sbattono, sedie che si rovesciano, occhi che roteano, bestemmie che volano. Ma parlare di demonio nella casa del Papa mette i brividi lo stesso. Anche se l’Esorcista non si tira indietro di fronte all’Avversario.
Ha guardato in faccia il diavolo. O almeno le sue incarnazioni terrene. Padre Gabriele Amorth ha affrontato 70 mila indemoniati (veri o presunti) in 24 anni di esercizio. "Il Papa crede in questa pratica" assicura. Anche perché "il Maligno alberga in Vaticano, e se ne vedono le conseguenze" Un esempio? Le ultime storie di pedofilia Il sacerdote, che lavora a Roma, è il più famoso "liberatore di anime" al mondo "Il nostro compito principale è affrancare l’uomo, soprattutto dalla paura di Satana" "Il 90 per cento delle vessazioni diaboliche è la conseguenza di malefici" "La notte di Natale il Nemico ha provato a colpire Ratzinger cercando di buttarlo a terra"
E il Santo Padre? «Oh, Sua Santità crede in pieno nella pratica della liberazione dal Male. Perché il diavolo alberga in Vaticano. Ho confidenze di persone che lo confermano. Naturalmente è difficile trovare le prove. E, comunque, se ne vedono le conseguenze. Cardinali che non credono in Gesù, vescovi collegati con il demonio. Quando si parla di "fumo di Satana" nelle Sacre stanze è tutto vero. Anche queste ultime storie di violenze e di pedofilia. Anche la vicenda di quella povera guardia svizzera, Cedric Tornay, trovata morta con il suo comandante, Alois Estermann, e la moglie. Hanno coperto tutto. Subito. Lì si vede il marcio».
Tutti lo conoscono come l’Esorcista. Molti ne chiedono l’assistenza. Perché Gabriele Amorth, sacerdote paolino nato a Modena, laureato in Giurisprudenza, ex partigiano, medaglia al valor militare, democristiano di scuola dossettiana ed ex direttore del giornale mariano Madre di Dio, è il più famoso liberatore del demonio al mondo.
Ma a 85 anni settantamila casi si fanno sentire. E don Amorth è appena convalescente. «Da un improvviso crollo», dice lui. «Un qualcosa di inspiegabile», rivela confidenzialmente l’amico don Francesco che, a 90 anni, don Gabriele considera come «il bastone della mia vecchiaia». Sebbene sia in pigiama, attorniato dalle medicine sul tavolo, da immagini della Madonna, da una copia di Avvenire che accenna al suo nuovo libro da poco in libreria ("Memorie di un esorcista", intervista di Marco Tosatti, edito da Piemme), lo sfidante di Satana mostra un piglio energico. Osserva la propria foto in copertina ed esclama: «Che faccia da bulldozer. Invece, quando sono tranquillo, i tratti del mio volto si distendono e divento un altro. Forza, parliamo, che di là ho dei casi che mi aspettano».
Padre Amorth, com’è il diavolo? «È puro spirito, invisibile. Ma si manifesta con bestemmie e dolori nelle persone di cui si impossessa. Può restare nascosto. O parlare lingue diverse. Trasformarsi. Oppure fare il simpatico. A volte mi prende in giro. Io però sono un uomo felice del mio lavoro, una nomina inaspettata giunta 25 anni fa dal cardinale Poletti. E né gli indemoniati, che a volte sei o sette dei miei assistenti devono tener fermi, né i chiodi o i vetri che escono dalla bocca dei posseduti, e conservo in questo sacchetto, mi spaventano. So che è il Signore a servirsi di me».
Il Maligno può manifestarsi con violenza. Nella stanza prescelta - padre Amorth ha girato 23 sedi diverse, cacciato ovunque perché i confratelli erano stufi di sentire urla fino a tarda sera, finché non ha trovato stabile dimora nel quartier generale delle edizioni San Paolo - c’è un lettino con le corde per legare l’indemoniato. E una poltrona per le persone che non urlano, e stanno tranquillamente sedute durante le preghiere di esorcismo. «Dalla bocca può uscire di tutto - racconta - pezzi di ferro lunghi come un dito, ma anche petali di rosa. Certi posseduti hanno una forza tale che nemmeno sei uomini riescono a trattenerli. Così vengono legati. Mi aiutano i miei assistenti laici, che pregano con me. Quando gli ossessi sbavano, e allora bisogna pulire, lo faccio anch’io. Vedere la gente vomitare non mi dà nessun fastidio».
Sulla pratica dell’esorcismo, dentro la Chiesa, esistono opinioni diverse. Diffidenze. Resistenze. Dubbi. «Ma il Papa ci crede - ribadisce padre Amorth - tanto è vero che in un discorso pubblico ha incoraggiato e lodato il nostro lavoro. Gli ho scritto, e mi ha promesso che chiederà alla Congregazione per il Culto divino un documento per raccomandare che i vescovi abbiano almeno un esorcista in ogni diocesi, come minimo. Ho avuto modo di parlargli più volte anche quando era prefetto alla Congregazione per la Dottrina della fede, ci ricevette proprio come Associazione degli esorcisti. E non scordiamo che, sia del diavolo sia delle pratiche per allontanarlo, parlò moltissimo lo stesso Wojtyla». Alcuni, addirittura, ricordano ancora la dichiarazione fatta nel 1972 da Papa Montini, quando Paolo VI parlò del "fumo di Satana", cioè delle sètte sataniche, entrato nelle Sacre stanze. Una frase che creò un caso, seguito da un nuovo discorso papale tutto incentrato sul demonio.
Ma il Maligno può colpire anche il Pontefice? «Ci ha già provato. Lo fece nel 1981, con l’attentato a Giovanni Paolo II, lavorando su coloro che armarono la mano di Ali Agca. E anche adesso, la notte di Natale, con quell’ultima matta che ha buttato per terra Benedetto XVI. In fondo, è quel che accadde a Gesù attraverso Giuda, Ponzio Pilato, il Sinedrio». Don Amorth si fa serio. Riflette in silenzio per qualche secondo, alza la testa e dice gravemente: «Altroché. Altroché se il demonio alberga nella Santa Sede. C’è un volume, "Via col vento in Vaticano" (Kaos edizioni, ndr), che parla appunto delle lotte di potere in Curia e del "fumo di Satana". Bene, il 99 per cento di quel che è scritto lì è vero. I vescovi non parlano per timore di critiche di altri vescovi. E sì che su questo tema le Sacre scritture sono le più salate, perché i comandi di Gesù appaiono molto chiari: "Andate, predicate il Vangelo, cacciate i demoni". Secondo me, quando un vescovo non nomina l’esorcista commette un peccato mortale».
Tante le figure di santi che, senza esserne investiti, erano noti come liberatori dal demonio. San Benedetto, che era un monaco. Santa Caterina da Siena, di cui si narrano effetti portentosi. Padre Pio, che secondo i fedeli liberava dall’influenza del maligno. Pure Don Bosco occasionalmente si prestava. «Io lavoro sette giorni su sette, Natale e Pasqua compresi - dice don Gabriele - e non posso materialmente correre ovunque mi chiamano. Perciò spiego a tutti che anche i laici possono operare esorcismi con successo. È scritto in Marco, XVI, 17: "Coloro che credono in me cacceranno i demoni". Ci sono formule ufficiali. Si può dire: "Satana, vattene". Ma c’è anche molta libertà, con preghiere semplici: il Padre Nostro - che contiene già in sé un esorcismo: "e liberaci dal Male" - l’Ave Maria, il Salve Regina, il Credo. Poi raccomando le orazioni quotidiane, la messa, il rosario, la confessione, la comunione, il digiuno».
Un tema, quello della figura antitetica al Messia, che per altri aspetti muove fior di scienziati. L’altro ieri a Roma, nei locali della Sapienza prima e in quelli dell’Università Roma Tre più tardi, si è svolto un convegno dal titolo "L’ultimo nemico di Dio". Cioè l’Anticristo, il personaggio che incarna l’avversario della divinità, presente nell’immaginario giudaico e cristiano relativo agli ultimi tempi del mondo. Approccio scientifico, impronta storica, studiosi di calibro internazionale: Enrico Norelli, Jean-Daniel Kaestli, Marco Rizzi, Gian Luca Potestà, Alberto D’Anna.
«Il ruolo della figura dell’Anticristo - spiegava al pubblico la docente Emanuela Valeriani, una dei coordinatori dell’evento - a prescindere dalle diverse posizioni assunte dagli studiosi, è senza dubbio un tassello tematico fondamentale all’interno del grande mosaico degli studi relativi all’identità cristiana. L’attenzione alla strana e, diciamo pure, spettacolare fisionomia dell’Anticristo è un tema ben rappresentato nelle apocalissi cristiane di epoca più tarda, contribuendo all’elaborazione anche leggendaria di questa figura escatologica. La prima testimonianza si trova in un’opera del III secolo, "Il Testamento siriaco del nostro Signore Gesù Cristo". Ma se, in linea generale, il terribile aspetto dell’Anticristo si può ricondurre alla tradizione precedente al cristianesimo, che identifica l’avversario escatologico con esseri mostruosi, nel caso specifico del nostro testo, esso assume una rilevanza teologica derivante dal confronto con la visione di Dio. Se prendiamo la sezione degli "Acta Iohannis", un testo scritto probabilmente nel secondo secolo, vediamo che lì si afferma che Gesù può essere visto sotto diverse forme (bambino, giovane adulto, vecchio) e apparire contemporaneamente anche a più testimoni».
Nella sua stanza al terzo piano della sede paolina, padre Amorth si prepara ad affrontare il Nemico nell’ennesimo caso difficile. Ma il diavolo chi sceglie di colpire? «Non lo sappiamo - risponde - eppure al 90 per cento le vessazioni diaboliche sono conseguenze di malefici, cioè sono causate da persone che per vendetta o per rabbia si rivolgono a maghi e occultisti legati a Satana i quali, pagati profumatamente, si attivano per far intervenire il maligno. È dunque la cattiveria degli uomini a chiamare il Male. Un’ultima cosa: il diavolo non è così diffuso. Quando c’è, è doloroso. E noi interveniamo. Ma il compito principale dell’Esorcista è uno solo: liberare l’uomo, soprattutto dalla paura del demonio».
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 10.03.2010)
Negli ultimi anni la dottrina cattolica sull’esistenza del diavolo è stata messa in dubbio da più di un teologo. Urs Von Balthazar diceva di credere nell’Inferno ma anche che lo riteneva vuoto. E Borges azzardava che forse i teologi, che avevano esagerato i vantaggi del Paradiso non essendoci mai stati, non avrebbero potuto giurare che i reprobi all’Inferno fossero sempre infelici: come immaginare che una fabbrica così sadica, vendicativa e inarrestabile di tortura dei dannati, una Auschwitz eterna possa essere compatibile con l’idea cristiana di un Dio misericordioso? Il minimo che si esigeva dalla teologia era di rimodellare l’idea della Geenna, destinata ai malvagi.
Soprattutto tenendo in maggiore considerazione il ruolo di salvezza assegnato alla figura di Gesù: i Vangeli raccontano le sue lotte contro i demoni, ma anche le loro disfatte e le guarigioni operate sugli indemoniati. Il Credo cristiano dice che dopo morto egli scese tre giorni agli Inferi con altrettanta potenza liberatoria ma una lettura pigra di quell’evento sembra trattenerlo agli Inferi per molto più tempo.
La maggior parte dei biblisti pensa che non sia possibile, o comunque sia piuttosto rischioso, negare l’esistenza di spiriti maligni. Molti temono che una cerimonia troppo disinvolta di addio al diavolo potrebbe far parte della sua tattica. Citano Baudelaire: "L’astuzia più raffinata del diavolo è di persuadervi che non esiste". Il licenziamento teologico del diavolo produrrebbe l’insignificanza del male nei contemporanei ma questa censura non sembra abbia l’effetto di porre fine al suo evidente successo.
Nel 1972 Paolo VI è il primo a lamentare che il "fumo di Satana" si sia infiltrato da qualche fessura anche «nel tempio di Dio». Si rompe l’incantesimo post-conciliare su un approccio indiscriminato della Chiesa al mondo moderno. Il Papa reagisce a una interpretazione del dialogo con la cultura dei Lumi che potrebbe risolversi in una liquidazione delle soglie critiche della coscienza cristiana di fronte al mondo e dunque in una omologazione della Chiesa ai "poteri del male". Sulla stessa linea Wojtyla lancia dal Monte Gargano, mitico luogo di lotte anti-demoniache, la sfida ai cattolici a sguainare di nuovo la spada di San Michele Arcangelo «contro il dragone, il capo dei demoni, vivo e operante nel mondo».
I suoi segni non sono più le corna, il piede caprino, l’odore dantesco di zolfo ma «consumismo, sfruttamento disordinato delle risorse naturali, voglia sfrenata di divertimento, individualismo esasperato». Negli stessi anni il cardinale Ratzinger ricorda «a certi teologi superficiali» che il diavolo è per la fede cristiana «una presenza misteriosa ma reale, personale, non simbolica, una realtà potente, una malefica libertà sovrumana opposta a quella di Dio». Rivendica al cristianesimo di avere introdotto in Occidente «la libertà dalla paura dei demoni» ma teme che «se questa luce redentrice di Cristo dovesse spegnersi il mondo con tutta la sua tecnologia ricadrebbe nel terrore e nella disperazione». Segnali di ritorno di forze oscure, secondo il futuro Papa, sono i culti satanici in aumento nel mondo secolarizzato, l’espansione del mercato della pornografia e della droga, «la freddezza perversa con cui si corrompe l’uomo, l’infernale cultura che persuade la gente che il solo scopo della vita siano il piacere e l’interesse privato».
Sono i primi tentativi della dottrina cattolica per far uscire la descrizione del diavolo da un linguaggio tradizionale ormai incomprensibile dalla stragrande maggioranza dei contemporanei. Il diavolo esiste ma assume le nuove forme delle ingiustizie e delle alienazioni. Il suo teatro non è solo il cuore umano ma anche la struttura sociale. Un teologo come Bernard Haring raccomandava molta cautela considerando il modo fantasioso con cui era stata riprodotta la dottrina sul diavolo: «Oggi lo psichiatra si mostra competente nella maggior parte dei casi nei quali si usava far intervenire l’esorcista - dice -. La Scrittura non conosce quel tipo di discorso alienante sul diavolo che è stato coltivato nei secoli dai cristiani delle diverse Chiese sotto l’influsso di culture in cui si realizzava una spaventosa alienazione». E Karl Barth rispondeva a chi chiedeva se dubitasse del diavolo: «Esiste pure quella bestia. Ma quando interviene la fede in Cristo mette la coda tra le gambe e non si fa più vedere».
Cosa ci insegna il caso Rosarno
L’immigrazione e il dominio del denaro
di Enzo Mazzi (il’Unità, 10.01.2010)
L’aggressione a Rosarno dei neri e la loro rivolta disperata sono archiviate in breve come le precedenti con qualche orripilante ma assai popolare invettiva contro l’indulgenza verso l’immigrazione clandestina e con qualche lacrima compassionevole verso i poveri schiavi trattati come bestie randagie. E i clementini della piana del Tauro non ebbero alcun sussulto al mercato della frutta e la politica continuò il suo balletto e tutti ci voltammo dall’altra parte a cercar sedativi contro l’angoscia montante per un futuro senza speranza.
Mentre i fatti di Rosarno andrebbero assunti come sintomo di un cancro che divora la società ormai a livello mondiale. Per cercar terapie finché c’è tempo. Nella società fondata sul dominio assoluto del danaro siamo tutti neri. È il danaro, nuova divinità, che si è impossessato delle nostre anime e dei nostri corpi e ci ha sfrattati da noi stessi.
La società del benessere è ridotta a una fortezza assediata. Ma è una illusione alzar mura, installare body scanner, e rovesciar barconi. Il nemico che ci assedia non è l’immigrazione. Siamo noi nemici a noi stessi. La crisi è dentro la struttura stessa della città.
Un nuovo umanesimo s’impone. Ma il suo centro non è più la città. Anzi presuppone il crollo delle mura e lo prepara. È la vendetta del sangue di Remo. Il fondamento di un nuovo patto non può che trovarsi nell’essere umano in quanto tale, indipendentemente dal luogo di nascita e dal colore della pelle. Il risveglio di una tale consapevolezza non è né facile né indolore.
Ed è qui che si apre uno spazio significativo e caratterizzante non solo per la politica ma per il volontariato e più in generale per l’associazionismo. Purtroppo la strada più facile è quella dell’assistenzialismo. Ma è una strada scivolosa. L’assistenzialismo, comunque rivestito, non crea parità di diritti.
Chi ha a cuore l’obbiettivo dell’affermazione dei diritti di cittadinanza per tutti, come diritto pieno, comprensivo dei diritti sociali, e come diritto inalienabile della persona, non può fare a meno di impegnarsi sia sui tempi brevi della mediazione politica, per raggiungere il raggiungibile, qui e ora, sia sui tempi lunghi della trasformazione culturale, in mezzo alla gente.
E direi che l’associazionismo più che tappar buchi e metter toppe, dovrebbe imboccare più decisamente proprio la strada della trasformazione culturale. Tendere a smontare i paradigmi culturali, ideologici e anche religiosi, che sono all’origine della discriminazione. Con pazienza infinita e con umiltà, senza tirare la pianticella per lo stelo. Ma anche con tanta coerenza e fermezza. Senza vendere mai tutto sul mercato dell’emergenza e senza sacrificare mai tutto sull’altare della mediazione politica.
La Bibbia alfabeto della civiltà
di Enzo Bianchi (La Stampa, 17 gennaio 2010)
E’ innegabile che nell’ultimo secolo si sia verificato un mutamento radicale riguardo al posto delle Sante Scritture nella vita della Chiesa cattolica, una rinnovata sensibilità che ha lasciato la sua testimonianza più forte e autorevole nella Dei Verbum, la costituzione conciliare sulla Parola di Dio. Così la Bibbia, da testo tenuto ai margini dell’insegnamento e della catechesi cattolica, ignoto alla maggior parte dei battezzati, è divenuto sempre più familiare, raggiungendo anche in Italia dati di diffusione un tempo impensabili.
Eppure, nonostante questa feconda riscoperta, quanti credenti leggono regolarmente la Bibbia, quanti cristiani considerano il Vangelo come testo normativo della loro esistenza e delle scelte quotidiane? Secondo le indagini demoscopiche, solo un numero ridotto, anche rispetto ai soli cattolici «praticanti». Né sono mancati in questi ultimi anni gli appelli ad affrontare il problema dell’assenza della Bibbia nella scuola italiana e più in generale nel tessuto culturale del paese: un’assenza che indebolisce la memoria storica del «grande codice» della cultura occidentale e la possibilità di incontro con un testo ancora oggi tra i più ricchi e stimolanti, non solo sul piano religioso ma su quello storico, letterario, artistico e filosofico.
Il nuovo spazio radiofonico che la trasmissione Uomini e profeti inaugura oggi (alle 10) sulla terza rete della radio pubblica si inserisce in questa duplice consapevolezza: l’importanza della conoscenza della Scrittura e la scarsa dimestichezza con essa che permane in larghi strati della popolazione. «Leggere la Bibbia» in modo corale, con un approccio attento alle voci diversificate in ambito ebraico, cristiano, musulmano, storico, filosofico può costituire un prezioso servizio non solo all’approfondimento del fenomeno religioso, ma anche alla qualità della convivenza civile.
Scavare nella storia del testo biblico, indagare sulla sua formazione e le infinite interpretazioni cui ha dato luogo, rileggerlo alla luce degli eventi che segnano le vicende quotidiane e le grandi svolte epocali fornisce elementi di migliore conoscenza di se stessi e degli altri, di più attenta comprensione del senso delle nostre esistenze e di risposta alle domande fondamentali che ci accomunano come esseri umani: da dove veniamo, dove stiamo andando, che senso ha la nostra vita e l’evolversi del creato e della storia, cosa ci attende dopo la morte? È questa un’esigenza che emerge sempre più forte nella nostra società, abitata da uomini e donne di diversa matrice religiosa o che si considerano estranei a qualunque appartenenza confessionale.
Leggere la Bibbia «insieme», cioè tenendo conto della presenza dell’altro, è allora una sfida e nel contempo un’enorme potenzialità: avvia infatti un percorso orientato al senso dell’esistenza, uno sforzo per ritrovare una grammatica comune, un tentativo di riscoprire le autentiche radici di tanti nostri comportamenti e di ridare vivacità di voci e tonalità a quell’affascinante raccolta di testi redatti nell’arco di quasi un millennio che Chagall amava definire il grande «alfabeto colorato» della civiltà occidentale.
Sentenza esemplare per il finanziere autore di una frode da 65 miliardi di dollari
A breve all’asta l’appartamento, le ville, gli yacht, i quadri e i gioielli
Madoff condannato a 150 anni
Il giudice: "Crimine diabolico" *
NEW YORK - E’ stato condannato a 150 anni di carcere, la massima pena possibile, Bernard Madoff, il finanziare di 71 anni autore di una delle più grandi truffe della storia. La lettura della sentenza è stata accolta da un applauso. Madoff si è dichiarato colpevole di tutte le 11 imputazioni emerse da uno dei più grossi scandali della storia di Wall Street: le somme da lui frodate ammontano a 65 miliardi di dollari (l’equivalente di circa 46 miliardi di euro).
Si è anche scusato, nel corso dell’udienza odierna, l’ultima di un processo lampo durato pochissimi mesi (l’arresto del finanziere risale all’11 dicembre 2008), ma le scuse sono servite a ben poco. "Nessun altro caso di frode è comparabile con il caso Madoff", ha detto il giudice Denny Chin, precisando che "il simbolismo della sentenza è importante perché attraverso questa si invierà un messaggio".
Il giudice Chin ha definito quello di Madoff "un crimine straordinariamente diabolico". Dal 1995 Madoff, che era stato anche presidente del Nasdaq, aveva iniziato la sua attività privata promettendo tassi di interessi alti e sicuri (circa il 10%). Che puntualmente pagava, ma non perché il danaro venisse accortamente investito, ma soltanto perché arrivava danaro fresco dai nuovi clienti. E Madoff diventava sempre più ricco: se l’ammontare delle somme truffate è stimato in circa 65 miliardi di dollari, le cifre legate al suo impero economico ammontano a 171 miliardi di dollari.
Madoff, che ha passato gli ultimi mesi agli arresti domiciliari nel suo appartamento di lusso di Manhattan, del valore di 7 milioni di dollari, perderà tutto: le ville (una a Palm Beach, un’altra in Florida, una da 13 milioni a Montauk, sulla punta di Long Island), gli yacht e i beni personali, che verranno messi all’asta nei prossimi giorni. La moglie, Ruth, 68 anni, rimarrà senza casa e dovrà vivere d’ora in poi con i 2,5 milioni di dollari che le sono stati assegnati dal tribunale.
L’avvocato del finanziere, Ira Sorkin, puntava a una pena mite, al massimo 12 anni, dal momento che il suo cliente aveva ampiamente collaborato alle indagini. Ma si aspettava il peggio, anche sulla base delle richieste dei tanti truffati che hanno preso la parola in tribunale: "La cella deve diventare la sua bara", ha affermato uno degli investitori truffati. Un’altra vittima è scoppiata in lacrime dopo aver denunciato perdite per 5 milioni di dollari.
In questo clima l’appello e le scuse di Madoff sono cadute nel vuoto, e semmai sono state accolte con scherno: "Vivrò con questo dolore per il resto della mia vita - ha detto Madoff - Non posso chiedervi scusa per il mio comportamento: come puoi chiedere scusa per aver ingannato un’industria che hai contribuito a costruire? Come puoi chiedere scusa per aver ingannato una moglie dopo 50 anni di matrimonio?".
"Lascio alla mia famiglia un’eredità di vergogna, come hanno detto alcune delle mie vittime - ha proseguito il finanziere - Sono responsabile di molta sofferenza e molto dolore. Chiedo scusa alle mie vittime. Mi dispiace".
* la Repubblica, 29 giugno 2009
E ora il processo al sistema
MARIO DEAGLIO (La Stampa, 30/6/2009)
Chiaro. Limpido. Indiscutibile. Un truffatore perfido, uomo di successo, con una faccia da attore di successo. Una condanna colossale, 150 anni di galera, assurdi a orecchi europei, per una truffa colossale, assurda anch’essa nella sua semplicità con cui sono stati gabbati per decenni alcuni tra i più preparati investitori del mondo, le autorità di vigilanza, gli analisti, i guru, i media, i controllori, molte banche. Un giudice che parla di crimine diabolico e un imputato-diavolo che faceva il benefattore, era membro dei consigli di numerose istituzioni benefiche. E viene denunciato dai figli, terrorizzati dall’entità della frode. Quest’imputato-diavolo chiede il permesso di essere presente - impassibile - alla lettura della sentenza in camicia bianca, giacca e cravatta che, per il duro regolamento del carcere in cui sarà rinchiuso, probabilmente non indosserà mai più, o meglio indosserà tra 150 anni. Ex ricchi che si mettono a piangere, pubblico che applaude, un imprigionamento che diventa un atto liberatorio per un’America che vuole condannare, ripartire, dimenticare e continuare a fare finanza.
Fine del discorso. Fine della scena. Seconda scena in Italia. È fin troppo plateale il confronto tra una giustizia americana che ti scova il malfattore l’11 dicembre, lo rimanda agli arresti domiciliari dietro una cauzione gigantesca, lo riarresta in gennaio, imbastisce il processo in febbraio-marzo e te lo condanna con tutte le cerimonie, praticamente in maniera definitiva, il 29 giugno. Nessuna scarcerazione in attesa di gradi ulteriori di giudizio, dei quali, d’altra parte, ci sono pochissime possibilità; nessuna ricusazione di giudici, nessuna lotta per arrivare all’archiviazione per decorrenza dei termini. Nessun affidamento ai servizi sociali, nessun occhio di riguardo perché l’imputato ha più di settant’anni. Prevedibili dichiarazioni di politici. Di giudici. Di esperti. Forse accordo sulla necessità di riforma per i crimini economici. Chissà, magari qualche progetto di legge; è persino possibile l’istituzione di una commissione parlamentare. Fine della scena. Ebbene, né l’una né l’altra scena sono soddisfacenti.
I 150 anni di condanna non possono sostituire 150 o più processi o indagini non ancora partiti su come è stato possibile tutto ciò; su come venivano fatti i controlli; sul perché nessuno abbia dato retta a Harry Markopolos, un esperto che dieci anni fa si era rivolto alle autorità di controllo perché persuaso che fosse matematicamente impossibile che le società di Madoff realizzassero i profitti che dichiaravano di realizzare; sul perché per questi dieci anni uomini finanziariamente astutissimi (Madoff si è rifiutato di fare qualsiasi nome) sulle due rive dell’Atlantico continuassero a consegnargli un fiume di denaro. Spente le luci sul processo, molti interrogativi restano.
La distanza tra Stati Uniti e Italia rimane altissima, ma non è che oltre Atlantico tutto sia chiarissimo. La scena si deve spostare in avanti. Magari all’Aquila, al G8, visto che tutto ormai sembra rotolare verso questo vertice al di fuori del normale in un anno economicamente al di fuori del normale. Potrebbe essere questa la sede buona per affrontare una volta per tutte il problema dei mercati finanziari; che è poi il problema di quanti Madoff siano in attività nel mondo e di quanti possano sorgere in futuro.
Se c’è una cosa che il caso Madoff mette in luce, è l’inutilità di controlli nazionali - e anche di sistemi giudiziari nazionali per crimini economici legati ai circuiti finanziari globali - e la necessità di un loro rapido superamento in favore di un’autorità internazionale di controllo. Che possa ficcare il naso nei libri contabili e fare domande di ogni tipo, in ogni Paese del mondo. Che gli americani hanno sempre avversato e che forse oggi avverserebbero un po’ meno. Madoff, insomma, deve essere un punto di partenza, non un punto d’arrivo. Non dimenticato fino a quando defungerà come il prigioniero matricola 61727-054 del Metropolitan Correction Center di New York in cui è detenuto, ma sempre presente nelle prossime mosse dei procuratori di giustizia.
Si potrebbe anche suggerire che chi si occupa di crimini economici si tenga sempre una foto di Madoff sulla scrivania o appesa sul muro dell’ufficio. Per ricordargli che deve capire davvero come ha fatto; per convincere collaboratori e vittime a raccontare tutto. Per evitare che si faccia un processo, per quanto sacrosanto, a una persona anziché un’indagine a tappeto, sicuramente necessaria, sul funzionamento di un sistema.
Quando un europeo parla dell’amor di Dio, torce la faccia e sorride ... In Francia si chiama franco, in Inghilterra scellino, in Italia lira. Marco, franco, scellino, lira sono sempre la stessa cosa. Tutti vogliono dire denaro e sempre denaro. Il denaro soltanto è il vero dio del Papalagi, ciò che egli venera di più
Caro Njara Pascal
molto bene!!! Hai toccato il nervo scoperto del problema. Il nodo, infatti, non è il "caro" della mia lingua o della tua lingua, ma la "lingua biforcuta" - le passioni dell’anima, la volontà. e il tradimento della fiducia.
A tuo onore (spero, gradito), ricordo (e riporto) questo passo di "Papalagi" (Discorsi del Capo di Tuiavii di Tiavea delle Isole Samoa - Stampa alternativa, 1997):
Ragionevoli fratelli, ascoltate con fiducia e siate felici di non conoscere il male dei bianchi e le loro angustie. Voi tutti mi siete testimoni che il missionario dice: "Dio è amore. Un onesto cristiano farebbe bene a tenersi sempre davanti agli occhi l’immagine dell’amore. Solo al grande Dio va quindi anche la devozione del bianco". Ebbene, il missionario ci ha mentito, ci ha ingannati, il Papalagi lo ha corrotto affinché ci ingannasse con le parole del Grande Spirito. Perché il tondo metallo e la carta pesante, ch’egli chiama denaro, questa è la vera divinità dei bianchi.
Quando un europeo parla dell’amor di Dio, torce la faccia e sorride. Sorride dell’ingenuità del tuo pensiero. Tendigli però un tondo pezzo di metallo o una grande carta pesante e, allora subito i suoi occhi si illuminano e molta saliva gli giunge alle labbra. Il denaro è il suo amore, il denaro è il suo Dio. Tutti i bianchi pensano a esso, anche quando dormano. Ce ne sono molti i cui occhi si sono fatti ciechi a furia di contare il denaro. Molti che per denaro hanno dato la gioia, il riso, l’onore, la coscienza, la felicità, sì, persino la donna e il figlio. Quasi tutti perdono la salute per il tondo metallo e la carta pesante. Se lo portano addosso nei loro panni, fra dure pelli ben ripiegate. Di notte lo depongono sotto il guanciale, perché nessuno glielo porti via. Ci pensano ogni giorno, ogni ora, ci pensano ogni minuto. Tutti!
Anche i bambini! Devono, sono costretti a pensarci. La madre lo insegna loro e lo vedono fare dal padre. Tutti gli europei. Quando passi nelle fessure di pietra della Germania a ogni momento odi il grido: "Marco!" E di nuovo: "Marco!" Lo senti dappertutto. Quello è il nome ch’essi danno al tondo metallo e alla carta pesante. In Francia si chiama franco, in Inghilterra scellino, in Italia lira. Marco, franco, scellino, lira sono sempre la stessa cosa. Tutti vogliono dire denaro e sempre denaro. Il denaro soltanto è il vero dio del Papalagi, ciò che egli venera di più. [...].
Grazie per il suo intervento.
Mollti codiali saluti
Federico La Sala
DIO O MAMMONA?! "Il Vangelo che abbiamo ricevuto" ... Ma da chi?! Dal Dio Mammona ("Caritas" - "Caro-prezzo")?! Il Dio dei nostri Padri e delle nostre Madri è Amore ("Deus charitas est", 1 Gv., 4.16).
Ai bambini, Papa Benedetto XVI confessa di non capire come mai il Signore possa avere destinato proprio lui a questo "mestiere" - ma, ancora, di non capire che il Signore che l’ha "chiamato" è Mammona (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).
PAPA: NON HO CAPITO PERCHE’ DIO HA SCELTO PROPRIO ME
CITTA’ DEL VATICANO - Papa Benedetto XVI, incontrando oggi i bambini dell’Opera missionaria, ha confessato di avere ancora oggi "difficoltà a capire come il Signore possa avere destinato proprio lui a questo "mestiere". "Ma lo accetto, anche se mi sembra una cosa che vada molto oltre le mie forze; so che il Signore mi aiuta", ha detto.
’’Ancora ho difficolta’ di capire come il Signore poteva pensare a me, destinare me proprio a questo ministero, ma lo accetto dalle sue mani, anche se era una cosa sorprendente e che andava molto oltre le mie forze. Ma il Signore mi aiuta’’, ha detto Benedetto XVI parlando a braccio e rispondendo alla domanda di un bambino, che gli aveva chiesto se avesse mai pensato di diventare pontefice. Ratzinger ha sorriso e gli ha detto che non avrebbe mai pensato da bambino di diventare un giorno papa. ’’Sono stato un ragazzo abbastanza ingenuo in un piccolo paese, dimenticato nella provincia, lontano dai grandi centri’’, ha spiegato. Certo, ha ricordato, amava come tutti i suoi compaesani Pio XI, un papa che appariva ai suoi occhi come ad ’’un’altezza irraggiungibile’’.
Un bambino "ingenuo", a cui talvolta capitava anche di litigare con i suoi coetanei, ma per fare poi subito pace. Così papa Ratzinger ha ricordato la sua infanzia a Traunstein - il paesino a ridosso del confine austriaco dove la sua famiglia si era trasferita da Marktl Am Inn - incontrando oggi in Vaticano alcune migliaia di ragazzi che fanno parte dell’associazione cattolica dell’Opera per l’Infanzia Missionarià.
Alle domande di alcuni suoi piccoli fedeli, Ratzinger si è lasciato andare, volentieri, ad un amarcord. "Ho vissuto gli anni della scuola elementare - ha raccontato - in un piccolo paese di 400 abitanti, lontano dai centri abitati. Eravamo un po’ ingenui. La nostra famiglia era arrivata da un altro paese e noi, agli inizi, eravamo un po’ stranieri per loro, parlavamo anche un altro dialetto". "Tuttavia - ha proseguito - si era creata una bella comunione tra noi; mi hanno insegnato il loro dialetto, abbiamo collaborato, anche litigato e poi ci siamo riconciliati e dimenticato quanto accaduto". "Capita di litigare nella vita, ma l’importante è l’arte del perdono e della riconciliazione, che non lascia amarezze nell’anima", ha spiegato al suo uditorio nell’Aula Nervi.
Ratzinger ha ricordato come a 8-9 anni diventò chierichetto. "Le ragazze - ha osservato - leggevano meglio di noi e a loro era affidato il compito di leggere le sacre scritture". "Non eravamo santi - ha aggiunto sorridendo - ma eravamo una bella comunità, dove non c’erano distinzioni tra ricchi e poveri". Nel 1937, la sua famiglia si trasferì ancora e da allora non é più tornato in quel paesino. "Ma siamo ancora amici", ha concluso.
Ansa» 2009-05-31 10:37
PAPA: OGGI AVVELENATI DA UN INQUINAMENTO MORALE
CITTA’ DEL VATICANO - Il mondo di oggi è "avvelenato" oltre che da un inquinamento atmosferico anche da un inquinamento morale che offusca le menti e i cuori, "con immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna": è quanto ha rimarcato papa Benedetto XVI , durante la messa di Pentecoste, festività che ricorda la discesa dello SpIrito Santo sugli apostoli, celebrata oggi nella Basilica di San Pietro.
Una Chiesa cattolica "meno affannata per le attività", "più dedita alla preghiera" e più concorde: è quella auspicata da Benedetto XVI oggi, nella messa solenne celebrata nella Basilica di San Pietro, in occasione della Pentecoste, il giorno in cui i vangeli collocano la discesa dello Spirito Santo - sotto forma di fiammelle di fuoco illuminanti- sugli apostoli. Ciò avvenne, secondo le Sacre Scritture, nella sala del Cenacolo, la stessa dell’Ultima Cena. Ma più del luogo fisico - ha spiegato il papa durante l’omelia - si parla dell’atteggiamento interiore dei discepoli, ’tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera’, spiegano gli Atti degli Apostoli. "Dunque - ha commentato - la concordia dei discepoli è la condizione perché venga lo Spirito Santo e presupposto della concordia è la preghiera".
I retroscena dei rapporti tra Berlusconi e Ratzinger nel nuovo libro di Pinotti e Gümpel
Quel patto segreto tra la destra e la chiesa
Si chiama "L’unto del Signore" E rivela i legami tra il Governo e il Vaticano. Sanciti alla presenza di Letta e Bertone in un incontro del 5 giugno 2008
di Alberto Statera (la Repubblica, 02.06.2009)
L’unto del Signore, come si autodefinì una volta, non è mai stato l’idealtipo del buon cattolico praticante. Ma quel 5 giugno 2008, con la regia del gentiluomo di Sua Santità Gianni Letta e del segretario di Stato Tarcisio Bertone, Silvio Berlusconi e Joseph Alois Ratzinger siglarono un patto d’acciaio tra il governo italiano in carica da un mese e il papato. Passato un anno, quel patto difensivo-offensivo ha già dato risultati straordinari per i contraenti, tanto da indurre il presidente della Camera Gianfranco Fini a tentare di smarcarsi dal berlusconismo anche in nome della laicità dello Stato.
Non c’è divorzio che possa incrinare quella sorta di nuovo Concordato de facto, nonostante le critiche della Chiesa del Vangelo alla «partnership» delle alte gerarchie con il politico amorale per eccellenza. Quella partnership consolidata recentemente con il Papa, in realtà viene da lontano, come documenta con dovizia di prove un libro-inchiesta di Ferruccio Pinotti e Udo Gümpel, intitolato per l’appunto L’unto del Signore in uscita per la Bur il 3 di giugno (pagg. 299 , euro 12,50) . Viene talmente da lontano da essere ormai indissolubile.
Ne è convinto, anche il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga: «Alla Chiesa cattolica - ha detto intervistato dagli autori - che uno vada in chiesa o meno non importa molto: se devo fare un contratto, una società, come amico mi scelgo uno che abbia le mie stesse idee religiose, ma se questo cristiano non capisce nulla di finanza e dall’altra parte c’è un massone che capisce di finanza, con chi crede che faccia la società? La Chiesa guarda al concreto». Berlusconi è cristiano e pure massone (tessera 1816 della P2).
Il giovane Silvio, studi al liceo Sant’Ambrogio dei Salesiani e frequentazione di Torrescalla, residenza universitaria milanese dell’Opus Dei, dove conobbe Marcello dell’Utri, fa i primi passi di imprenditore edile con l’aiuto della Banca Rasini. Investendo una parte dei primi guadagni, fonda la squadra di calcio Torrescalla-Edilnord targata Opus Dei: lui presidente, l’amico palermitano allenatore e il fratello Paolo centravanti.
Alla Rasini il padre Luigi da semplice impiegato è diventato direttore. Questa banca, con un solo sportello a Milano in piazza dei Mercanti, era alternativamente definita «Vatican bank», «Sportello della mafia» o « Banca di Andreotti». E’ stata in realtà tutte queste cose prima di finire nel 1992 dentro la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani, l’uomo che sussurrava ad Antonio Fazio, pio governatore della Banca d’Italia e legionario di Cristo.
Dagli anni Sessanta e fino al blitz antimafia del 14 febbraio 1983 che portò all’arresto del direttore Antonio Vecchione, succeduto a Berlusconi senior, e di un gruppo di imprenditori legati ai clan Fidanzati, Bono e Gaeta, era in quello sportello a due passi dal Duomo il crocevia degli interessi di Cosa Nostra e del Vaticano. La maggioranza azionaria era passata dai Rasini a Giuseppe Azzaretto, nato e Misilmeri nei pressi di Palermo, cavaliere di Malta e commendatore del Santo Sepolcro, che aveva nominato presidente Carlo Nasalli Rocca, anche lui cavaliere di Malta e fratello del cardinale Mario Nasalli Rocca.
Ma si diceva che l’effettivo controllo fosse di Giulio Andreotti, come conferma Ezio Cartotto, ex dirigente democristiano che con Dell’Utri partecipò alla fondazione di Forza Italia. Interpellato da Pinotti e Gümpel, Dario Azzaretto racconta: «Andreotti è stato per la mia famiglia un grande amico e lo è tuttora», tanto che per anni ha trascorso le vacanze nella loro villa in Costa Azzurra.
Ma i misteri della Rasini, passata negli anni Ottanta anche per le mani dell’imprenditore andreottiano Nino Rovelli, non sono finiti qui. Dietro c’erano tre fiduciarie basate in Liechtenstein e amministrate dal gentiluomo di Sua Santità e gran croce dell’Ordine papale di San Gregorio Herbert Batliner, re dell’offshore, gnomo degli gnomi plurinquisito, che nel 2006 regalò un organo del valore di 730 mila euro a papa Ratzinger.
C’era anche Berlusconi in quelle tre fiduciarie? «Non mi pare - risponde Dario Azzaretto - che Berlusconi o parenti di Berlusconi o persone vicine a Berlusconi avessero partecipazioni in società che si potevano riferire alla banca». Le sue operazioni con la Rasini - aggiunge - avvenivano tramite Armando Minna, membro del collegio dei sindaci e amministratore di alcune holding berlusconiane registrate come saloni di bellezza e parrucchieri. Ufficialmente è nel 1975, quando i primi inquilini già abitano a Milano 2, che nasce la Fininvest. Ma la ricerca certosina degli autori dell’Unto del signore la retrodata di almeno un anno, quando una Fininvest Ltd-Grand Cayman compare tra le società partecipate da Capitalfin, controllata a sua volta dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e dall’Istituto per le Opere di Religione.
Ciò che coincide con quanto dichiarato dal figlio del banchiere piduista trovato morto a Londra nel 1982 sui soldi misteriosi con cui venne costituita la Fininvest. Carlo Calvi racconta tra l’altro che il padre, in una riunione del dicembre 1976 alle Bahamas cui era presente anche il cardinal Marcinkus, lo prese sottobraccio e gli sussurrò: «Finanzieremo le attività televisive di Silvio Berlusconi».
Storia antica, ma significativa del vero miracolo compiuto da Berlusconi: quello di avere sempre con sé il Vaticano, nonostante la sua storia personale. Al punto, diventato presidente del Consiglio, da dividere l’Italia tra due sovranità che si contendono il paese: quella della Chiesa e quella del declinante Stato laico.
Racconta ancora Cartotto: «Dell’Utri mi invitò a una convention di Publitalia a Montecarlo. Arrivammo nel principato con l’aereo aziendale. Su quell’aereo c’eravamo io, il professor Torno e monsignor Gianfranco Ravasi. Sono convinto che Berlusconi abbia cominciato a pensare all’ipotesi di scendere in campo nell’autunno del 1992, proprio in occasione di quella convention. Silvio fece un discorso nel quale rilevava che il clima politico si stava facendo pesante. Disse che gli amici perdevano potere, che i nemici ne conquistavano e l’azienda doveva attendersi momenti difficili».
Decisa infine la «discesa in campo», i rapporti col Vaticano divennero quasi un’ossessione: «Posso dire di aver avuto un piccolo ruolo anche io», vanta Cartotto: «Organizzai un incontro tra Bertone e Aldo Brancher, un ex sacerdote che ora è uno degli uomini più importanti di Forza Italia, quando il cardinale non conosceva ancora il gruppo berlusconiano. Poi Brancher lasciò il passo a Letta soprattutto nel momento in cui Bertone divenne segretario di Stato». Il cardinale Silvio Oddi, per trent’anni prefetto della Congregazione per il clero, assolse prontamente il Berlusconi politico dal peccato del primo divorzio. Il cardinale Camillo Ruini avallò.
Il 30 giugno 2008, tre settimane dopo l’incontro Ratzinger - Berlusconi, il governo confeziona il disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche che prevede una disciplina ad hoc per gli ecclesiastici. Se si intercetta un prete bisognerà avvertire il suo vescovo, se si intercetta il vescovo il segretario di Stato vaticano. E se si intercetta il papa? Opzione non prevista.
SENZA LA PROFEZIA, RIMANE LA COMPLICITÀ *
Egregio sig. Cardinale,
viviamo nella stessa città e apparteniamo alla stessa Chiesa: lei vescovo, io prete. Lei è anche capo dei vescovi italiani, dividendosi al 50% tra Genova e Roma. A Genova si dice che lei è poco presente alla vita della diocesi e probabilmente a Roma diranno lo stesso in senso inverso. E’ il destino dei commessi viaggiatori e dei cardinali a percentuale. Con questo documento pubblico, mi rivolgo al 50% del cardinale che fa il Presidente della Cei, ma anche al 50% del cardinale che fa il vescovo di Genova perché le scelte del primo interessano per caduta diretta il popolo della sua città.
Ho letto la sua prolusione alla 59a assemblea generale della Cei (24-29 maggio 2009) e anche la sua conferenza stampa del 29 maggio 2009. Mi ha colpito la delicatezza, quasi il fastidio con cui ha trattato - o meglio non ha trattato - la questione morale (o immorale?) che investe il nostro Paese a causa dei comportamenti del presidente del consiglio, ormai dimostrati in modo inequivocabile: frequentazione abituale di minorenni, spergiuro sui figli, uso della falsità come strumento di governo, pianificazione della bugia sui mass media sotto controllo, calunnia come lotta politica.
Lei e il segretario della Cei avete stemperato le parole fino a diluirle in brodino bevibile anche dalle novizie di un convento. Eppure le accuse sono gravi e le fonti certe: la moglie accusa pubblicamente il marito presidente del consiglio di «frequentare minorenni», dichiara che deve essere trattato «come un malato», lo descrive come il «drago al quale vanno offerte vergini in sacrificio». Le interviste pubblicate da un solo (sic!) quotidiano italiano nel deserto dell’omertà di tutti gli altri e da quasi tutta la stampa estera, hanno confermato, oltre ogni dubbio, che il presidente del consiglio ha mentito spudoratamente alla Nazione e continua a mentire sui suoi processi giudiziari, sull’inazione del suo governo e sulla sua pedofilia. Una sentenza di tribunale di 1° grado ha certificato che egli è corruttore di testimoni chiamati in giudizio e usa la bugia come strumento ordinario di vita e di governo. Eppure si fa vanto della morale cattolica: Dio, Patria, Famiglia. In una tv compiacente ha trasformato in suo privato in un affaire pubblico per utilizzarlo a scopi elettorali, senza alcun ritegno etico e istituzionale.
Lei, sig. Cardinale, presenta il magistero dei vescovi (e del papa) come garante della Morale, centrata sulla persona e sui valori della famiglia, eppure né lei né i vescovi avete detto una parola inequivocabile su un uomo, capo del governo, che ha portato il nostro popolo al livello più basso del degrado morale, valorizzando gli istinti di seduzione, di forza/furbizia e di egoismo individuale. I vescovi assistono allo sfacelo morale del Paese ciechi e muti, afoni, sepolti in una cortina di incenso che impedisce loro di vedere la «verità» che è la nuda «realtà». Il vostro atteggiamento è recidivo perché avete usato lo stesso innocuo linguaggio con i respingimenti degli immigrati in violazione di tutti i dettami del diritto e dell’Etica e della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, con cui il governo è solito fare i gargarismi a vostro compiacimento e per vostra presa in giro. Avete fatto il diavolo a quattro contro le convivenze (Dico) e le tutele annesse, avete fatto fallire un referendum in nome dei supremi «principi non negoziabili» e ora non avete altro da dire se non che le vostre paroline sono «per tutti», cioè per nessuno.
Il popolo credente e diversamente credente si divide in due categorie: i disorientati e i rassegnati. I primi non capiscono perché non avete lesinato bacchettate all’integerrimo e cattolico praticante, Prof. Romano Prodi, mentre assolvete ogni immoralità di Berlusconi. Non date forse un’assoluzione previa, quando vi sforzate di precisare che in campo etico voi «parlate per tutti»? Questa espressione vuota vi permette di non nominare individualmente alcuno e di salvare la capra della morale generica (cioè l’immoralità) e i cavoli degli interessi cospicui in cui siete coinvolti: nella stessa intervista lei ha avanzato la richiesta di maggiori finanziamenti per le scuole private, ponendo da sé in relazione i due fatti. E’ forse un avvertimento che se non arrivano i finanziamenti, voi siete già pronti a scaricare il governo e l’attuale maggioranza che sta in piedi in forza del voto dei cattolici atei? Molti cominciano a lasciare la Chiesa e a devolvere l’8xmille ad altre confessioni religiose: lei sicuramente sa che le offerte alla Chiesa cattolica continuano a diminuire; deve, però, sapere che è una conseguenza diretta dell’inesistente magistero della Cei che ha mutato la profezia in diplomazia e la verità in servilismo.
I cattolici rassegnati stanno ancora peggio perché concludono che se i vescovi non condannano Berlusconi e il berlusconismo, significa che non è grave e passano sopra all’accusa di pedofilia, stili di vita sessuale con harem incorporato, metodo di governo fondato sulla falsità, sulla bugia e sull’odio dell’avversario pur di vincere a tutti i costi. I cattolici lo votano e le donne cattoliche stravedono per un modello di corruttela, le cui tv e giornali senza scrupoli deformano moralmente il nostro popolo con «modelli televisivi» ignobili, rissosi e immorali.
Agli occhi della nostra gente voi, vescovi taciturni, siete corresponsabili e complici, sia che tacciate sia che, ancora più grave, tentiate di sminuire la portata delle responsabilità personali. Il popolo ha codificato questo reato con il detto: è tanto ladro chi ruba quanto chi para il sacco. Perché parate il sacco a Berlusconi e alla sua sconcia maggioranza? Perché non alzate la voce per dire che il nostro popolo è un popolo drogato dalla tv, al 50% di proprietà personale e per l’altro 50% sotto l’influenza diretta del presidente del consiglio? Perché non dite una parola sul conflitto d’interessi che sta schiacciando la legalità e i fondamentali etici del nostro Paese? Perché continuate a fornicare con un uomo immorale che predica i valori cattolici della famiglia e poi divorzia, si risposa, divorzia ancora e si circonda di minorenni per sollazzare la sua senile svirilità? Perché non dite che con uomini simili non avete nulla da spartire come credenti, come pastori e come garanti della morale cattolica? Perché non lo avete sconfessato quando ha respinto gli immigrati, consegnandoli a morte certa? Non è lo stesso uomo che ha fatto un decreto per salvare ad ogni costo la vita vegetale di Eluana Englaro? Non siete voi gli stessi che difendete la vita «dal suo sorgere fino al suo concludersi naturale»? La vita dei neri vale meno di quella di una bianca? Fino a questo punto siete stati contaminati dall’eresia della Lega e del berlusconismo? Perché non dite che i cattolici che lo sostengono in qualsiasi modo, sono corresponsabili e complici dei suoi delitti che anche l’etica naturale condanna? Come sono lontani i tempi di Sant’Ambrogio che nel 390 impedì a Teodosio di entrare nel duomo di Milano perché «anche l’imperatore é nella Chiesa, non al disopra della Chiesa». Voi onorate un vitello d’oro.
Io e, mi creda, molti altri credenti pensiamo che lei e i vescovi avete perduto la vostra autorità e avete rinnegato il vostro magistero perché agite per interesse e non per verità. Per opportunismo, non per vangelo. Un governo dissipatore e una maggioranza, schiavi di un padrone che dispone di ingenti capitali provenienti da «mammona iniquitatis», si è reso disposto a saldarvi qualsiasi richiesta economica in base al principio che ogni uomo e istituzione hanno il loro prezzo. La promessa prevede il vostro silenzio che - è il caso di dirlo - è un silenzio d’oro? Quando il vostro silenzio non regge l’evidenza dell’ignominia dei fatti, voi, da esperti, pesate le parole e parlate a suocera perché nuora intenda, ma senza disturbarla troppo: «troncare, sopire ... sopire, troncare».
Sig. Cardinale, ricorda il conte zio dei Promessi Sposi? «Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo ... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire» (A. Manzoni, Promessi Sposi, cap. IX). Dobbiamo pensare che le accuse di pedofilia al presidente del consiglio e le bugie provate al Paese siano una «bagatella» per il cui perdono bastano «cinque Pater, Ave e Gloria»? La situazione è stata descritta in modo feroce e offensivo per voi dall’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che voi non avete smentito: «Alla Chiesa molto importa dei comportamenti privati. Ma tra un devoto monogamo [leggi: Prodi] che contesta certe sue direttive e uno sciupa femmine che invece dà una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupa femmine. Ecclesia casta et meretrix» (La Stampa, 8-5-2009).
Mi permetta di richiamare alla sua memoria, un passo di un Padre della Chiesa, l’integerrimo sant’Ilario di Poitier, che già nel sec. IV metteva in guardia dalle lusinghe e dai regali dell’imperatore Costanzo, il Berlusconi cesarista di turno: «Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro» (Ilario di Poitiers, Contro l’imperatore Costanzo 5).
Egregio sig. Cardinale, in nome di quel Dio che lei dice di rappresentare, ci dia un saggio di profezia, un sussurro di vangelo, un lampo estivo di coerenza di fede e di credibilità. Se non può farlo il 50% di pertinenza del presidente della Cei «per interessi superiori», lo faccia almeno il 50% di competenza del vescovo di una città dove tanta, tantissima gente si sta allontanando dalla vita della Chiesa a motivo della morale elastica dei vescovi italiani, basata sul principio di opportunismo che è la negazione della verità e del tessuto connettivo della convivenza civile.
Lei ha parlato di «emergenza educativa» che è anche il tema proposto per il prossimo decennio e si è lamentato dei «modelli negativi della tv». Suppongo che lei sappia che le tv non nascono sotto l’arco di Tito, ma hanno un proprietario che è capo del governo e nella duplice veste condiziona programmi, pubblicità, economia, modelli e stili di vita, etica e comportamenti dei giovani ai quali non sa offrire altro che la prospettiva del «velinismo» o in subordine di parlamentare alle dirette dipendenze del capo che elargisce posti al parlamento come premi di fedeltà a chi si dimostra più servizievole, specialmente se donne. Dicono le cronache che il sultano abbia gongolato di fronte alla sua reazione perché temeva peggio e, se lo dice lui che è un esperto, possiamo credergli. Ora con la benedizione del vostro solletico, può continuare nella sua lasciva intraprendenza e nella tratta delle minorenni da immolare sull’altare del tempio del suo narcisismo paranoico, a beneficio del paese di Berlusconistan, come la stampa inglese ha definito l’Italia.
Egregio sig. Cardinale, possiamo sperare ancora che i vescovi esercitino il servizio della loro autorità con autorevolezza, senza alchimie a copertura dei ricchi potenti e a danno della limpidezza delle verità come insegna Giovanni Battista che all’Erode di turno grida senza paura per la sua stessa vita: «Non licet»? Al Precursore la sua parola di condanna costò la vita, mentre a voi il vostro «tacere» porta fortuna.
In attesa di un suo riscontro porgo distinti saluti.
Genova 31 maggio 2009
Paolo Farinella, prete
Quando resta un solo albero
di MARIO TOZZI (La Stampa, 5/6/2010)
Suscitiamo una certa pena, noi uomini, intenti come siamo ad armeggiare attorno a un buco da cui fuoriesce una marea di petrolio, senza riuscire ad attapparlo, pur spendendo quanto un anno di reddito di un’intera nazione africana. Pena e un po’ tenerezza, costretti nelle nostre amate scatolette metalliche per ore, ogni giorno, illudendoci di comunicare quando siamo più isolati che mai. E un po’ tristezza, distesi su spiagge sporche sulla riva di mari in cui riversiamo senza sosta tonnellate di liquami nell’intento di goderci una vacanza. E rabbia, mentre buttiamo via l’acqua di sorgente che poi ricompriamo imbottigliata a prezzi assurdi. O fabbricando sostanze come la plastica che contrastano il principio per cui in natura nulla si crea e nulla si distrugge.
In un viaggio nell’Europa dell’inizio del XX secolo il mitico Tuiavii di Tiavea, sovrano delle isole di Samoa, metteva già alla berlina molti aspetti del progresso occidentale riducendoli a usanze strane e ridicole, come quella di suddividere il tempo, o malefiche, come quella di venerare il denaro come unico dio. Il capo indigeno concludeva la sua invettiva contro il papalagi (l’uomo occidentale) imponendo ai suoi sudditi di non recarsi mai in Europa, ché tanto non c’era nulla da imparare.
Tuiavii aveva capito che c’è una differenza fra gli uomini e gli altri viventi. Una sola, ma fondamentale, che spiega la nostra apparente supremazia e, insieme, il nostro precipitarsi verso la crisi ecologica più grave che l’umanità abbia mai attraversato. Questa differenza non sta nella nostra scatola cranica più capace (se è per questo i neandertaliani avevano un cervello anche più grosso, ma si sono ugualmente estinti), in una presunta superiore intelligenza e nell’uso delle mani (basti studiare gli elefanti e la loro proboscide) o nella capacità di comunicare (solo Bach regge il confronto di armoniche con le balene). Questa differenza è quella che non permette di notare più quei paradossi della vita quotidiana che pure i nostri antenati mostravano di conoscere.
Ma non è difficile coglierla, è la stessa che non aveva invece compreso l’ultimo indigeno dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero: non poteva ignorare che così facendo avrebbe condannato la sua gente alla fine. Eppure lo ha fatto. Perché? A causa dell’accumulo e del profitto, sconosciuti al resto degli animali e dei vegetali, ma ben noti proprio agli uomini, che più posseggono e più vorrebbero. Questa è di fatto l’unica differenza che conta.
Possiamo evitare che questa giornata della Terra diventi l’ennesima occasione perduta solo se diventerà un momento di conoscenza per gli uomini. Comprensione della storia naturale e dell’ambiente di cui facciamo parte, migliore conoscenza di noi stessi sulla Terra, verrebbe da dire, con gli antichi. Quella differenza è così fondamentale da farci ignorare che le risorse finiscono più in fretta di quanto speriamo, e che noi siamo sempre di più e abbiamo sempre maggiori esigenze su un pianeta che non può che rimanere lo stesso. Una riconversione ecologica delle attività produttive dell’intera umanità è quanto si dovrebbe e potrebbe ancora fare, ma perché gli uomini si dovrebbero impegnare in questa direzione? A cosa servirebbe? Facile, riduzione degli impatti umani, risparmio di acqua, riciclaggio dei rifiuti, energie rinnovabili, minor consumo di territorio servono semplicemente a sopravvivere senza tagliare il ramo su cui siamo seduti. Sarebbe già qualcosa.
Il papa contro lo «sterco del demonio»
Jean-Michel Dumay, (Le Monde Diplomatique, settembre 2015, pagg. 1 segg. )
(Traduzione dal francese di José F. Padova)
Davanti a un fitto uditorio riunito al Parco delle Esposizioni di Santa-Cruz, la capitale economica della Bolivia, un uomo vestito di bianco fustiga «l’economia che uccide», «il capitale eretto a idolo», «l’ambizione sfrenata del denaro che comanda». In quel 9 luglio il capo della Chiesa cattolica si rivolge non soltanto ai rappresentanti dei movimenti popolari e all’America latina, che l’ha visto nascere, ma al mondo intero, che egli vuole mobilitare per mettere fine a questa «dittatura sottile» dal fetore di «sterco del diavolo» (1).
«Abbiamo bisogno di un cambiamento», proclama il papa Francesco, prima di incitare i giovani, tre giorni dopo in Paraguay, a «mettersi in rivolta». Fin dal 2013, in Brasile, aveva chiesto loro di «essere rivoluzionari, di andare controcorrente». Nel corso dei suoi viaggi il vescovo di Roma diffonde un discorso sempre più incisivo sullo stato del mondo, sul suo degrado ambientale e sociale, con parole molto forti contro il neoliberismo, il tecnocentrismo, in breve, contro un sistema dagli effetti deleteri: uniformazione delle culture, «mondializzazione dell’indifferenza».
In giugno, sempre con questo spirito, Francesco indirizzava alla comunità internazionale un «invito urgente a un nuovo dialogo sul modo in cui costruiamo l’avvenire del Pianeta». Nella sua enciclica Laudato si chiama ognuno, credente o no, a una rivoluzione dei comportamenti e denuncia un «sistema di relazioni commerciali e di proprietà strutturalmente perversi». Un testo «al medesimo tempo caustico e tenero», che «dovrebbe scuotere tutti i lettori non poveri», considera il New York Rewiew of Books (2). In Francia 100.000 esemplari di questo piccolo manuale sono stati venduti in sei settimane (3).
Ecco dunque un Pontefice che assicura che un altro mondo è possibile, non al momento dell’Ultimo Giudizio, ma quaggiù e adesso. Questo papa superstar, nel solco mediatico di Giovanni Paolo II (1978-2005), tronca e divide: beatificato da personaggi ecologisti e critici della globalizzazione (Naomi Klein, Nicolas Hulot, Edgar Morin) per aver «sacralizzato la sfida ecologica» in un «deserto del pensiero» (4), demonizzato dagli ultraliberisti e i clima-scettici, capaci di fare di lui «la persona più pericolosa sul Pianeta», come ne ha fatto la caricatura un polemista della catena televisiva ultraconservatrice americana Fox News.
Le destre cristiane si inquietano nel vedere un papa dai discorsi sinistrorsi e così poco facondo sull’aborto. E gli editorialisti della sinistra laica s’interrogano sulla profondità rivoluzionaria di quest’uomo del Sud, primo papa non europeo dopo il siriano Gregorio III (731-741), che grida allo scandalo davanti al traffico di migranti, chiama in sostegno dei greci respingendo i piani di austerità, chiama «genocidio» un genocidio (quello degli armeni), firma un quasi-concordato con lo Stato della Palestina, appoggia la fronte in segno di preghiera al Muro del Pianto per la barriera di separazione che gli israeliani impongono ai palestinesi e si avvicina a Vladimir Putin sulla questione siriana, mentre in Occidente l’orientamento è per le sanzioni contro la Russia a causa del conflitto ucraino.
«Ha rimesso la Chiesa nel gioco internazionale», ritiene Pierre de Charentenay, ex redattore capo della rivista Études, attualmente specialista in relazioni internazionali presso la rivista romana La Civiltà Cattolica. «Ha anche cambiato la sua immagine. È il campione dei critici della mondializzazione! Accanto a lui Benedetto XVI fa la figura di un bravo ragazzo». Il predecessore, effettivamente, tutto introversione teologica, sempre incline a condannare, appare come un musone guastafeste vicino al misericordioso argentino, piuttosto portato a perdonare. Ma, in fondo, «la sua forza è soprattutto quella d’interrogare l’insieme di un sistema», pensa il padre de Charantenay.
Ecco che cosa dice precisamente questo primo papa gesuita e americano: l’umanità porta la responsabilità del degrado generalizzato e lascia che il sistema capitalista neoliberale distrugga il Pianeta, «la nostra casa comune», seminando le disuguaglianze. Essa deve quindi rompere con un’economia in cui, come dice l’economista - e anch’egli gesuita - Gaël Giraud, «da Adam Smith e David Ricardo in poi la questione etica è esclusa dalla fiction «della mano invisibile» che si ritiene regoli il mercato (5). Essa ha ormai bisogno di una «autorità mondiale», di norme cogenti e soprattutto dell’intelligenza dei popoli, al servizio dei quali è necessario porre d’urgenza l’economia. Perché la soluzione politica si trova nelle loro mani e non in quelle delle élite, sviate dalla «miopia delle logiche del potere».
Per il papa la crisi ambientale è innanzitutto morale, frutto di un’economia disgiunta dall’umano, nella quale si accumulano i debiti: fra ricchi e poveri, fra Nord e Sud, fra giovani e vecchi. Nella quale «tutto si collega»: povertà-esclusione e cultura dello scarto, dittatura del termine-corto e dell’alienazione-consumismo, riscaldamento climatico e glaciazione dei cuori. Così che «un vero approccio ecologico si trasforma sempre in un approccio sociale». Chiamata a reagire, l’umanità deve quindi dotarsi di una «nuova etica delle relazioni internazionali» e di una «solidarietà universale», ciò che il papa Francesco perorerà all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (ONU) il 25 settembre, in occasione del lancio degli Obiettivi del millennio per lo sviluppo.
Certo, si arguirà, tutto questo non è totalmente nuovo. «Francesco s’iscrive con una assai bella continuità nella linea del Concilio Vaticano II (che si è tenuto fra il 1962 e il 1965 e il cui scopo era di aprire la Chiesa al mondo moderno)», constata a Roma, per esempio, Michel Roy, segretario generale della rete umanitaria Caritas Internationalis. Di fatto, il pontefice rimanda al Vangelo, rivisita la dottrina sociale della Chiesa elaborata nell’era industriale e, soprattutto, aggancia queste convinzioni a quelle di Paolo VI (1963-1978), nel quale il padre de Charanteney vede il suo «maestro intellettuale e spirituale».
Primo papa della globalizzazione e dei grandi viaggi intercontinentali, Paolo VI, sulla traccia del riformatore Giovanni XXIII (1958-1963), è colui che ha fatto uscire fisicamente il papato dall’Italia, ha internazionalizzato il collegio dei cardinali, moltiplicato le nunziature (ambasciate della Santa sede) e i rapporti bilaterali con gli Stati (7). È anche colui che ha condotto la Chiesa a superare le sue ristrette competenze di gendarme delle libertà religiose per renderla «solidale con le angosce e le pene dell’intera umanità (8)». Per Paolo VI lo sviluppo era il nuovo nome della pace; una pace intesa non come un dato di fatto, ma come il processo dinamico di una società più umana, aperta su una ricchezza condivisa.
Tuttavia, se anche vi è continuità e perfino, per alcuni, una sorta di realizzazione del grande sconvolgimento cattolico avviato negli anni ’60, è difficile ignorare che il pontefice argentino si distacca nettamente dai suoi predecessori. Anche se essi non erano, neppure loro, avari di discorsi antiliberisti, i pontificati del polacco Giovanni Paolo II e del tedesco Benedetto XVI, questi santi padri del rigore, sono stati segnati dal loro ancoraggio dottrinale. L’ultimo, di Benedetto XVI, inoltre, è stato infangato da qualche «affaire» che l’amministrazione vaticana ha avuto qualche difficoltà a gestire, come lo scandalo VatiLeaks: la diffusione di documenti confidenziali che accusavano l’amministrazione della Santa Sede di corruzione e di favoritismi, in particolare per certi contratti stipulati con imprese italiane.
Due tipi d cause possono essere ipotizzate per l’attuale rinnovamento: le une riguardano il contesto; le altre sono inerenti all’uomo. «Su un piano etico-politico Francesco riempie un vuoto a livello internazionale», constata François Mabille, professore di Scienze politiche al Politecnico di Lilla e specialista della diplomazia pontificia. Egli è il papa del dopo-crisi finanziaria del 2008, come Giovanni Paolo II lo era stato per la crisi del comunismo. «Procedendo a un aggiornamento della dottrina sociale, Francesco introduce un pensiero sistemico, nel quale tutto fa sistema, e occupa con successo la nicchia della sollecitudine contestataria». Vi era urgenza, aggiunge Mabille: «Il tempo della Chiesa non era più quello del mondo. Per Benedetto XVI tutto si svolgeva troppo rapidamente. Era necessario essere nell’anticipazione e non più nella reazione».
Prima di andare a scuotere il mondo, il nuovo papa ha quindi messo sottosopra la sua casa. Adepto di una sobrietà che condivide con Francesco d’Assisi, del quale ha preso il nome, ha instaurato, se così si può dire, un papato «normale», che egli vuole sia esemplare. Ha messo in soffitta gli ultimi attributi onorifici d’abbigliamento della sua funzione e ha stabilito la sua dimora in un bilocale di 70 mq, che ha preferito ai lussuosi appartamenti pontifici. Il papa ama il simbolo e spesso unisce il gesto alla parola, ciò che è ripagante in una società dell’immagine.
Così, con una bonomia che sembra fare di lui il curato del mondo, appare diretto, spontaneo, e chiama gatto un gatto - rischiando qualche deragliamento diplomatico, che poi portavoce e nunzi riescono (o no) a recuperare. Designato dai suoi pari per riformare in profondità la Curia, vale a dire l’apparato dello Stato della Santa Sede, ha elencato senza tanti riguardi i quindici mali che affliggono l’Istituzione, segnata da un clientelismo all’italiana. Fra queste calamità: l’«Alzheimer spirituale» e, al primo posto, l’abitudine a «credersi indispensabili» (9).
Teologia della liberazione non marxista
Per governare, Francesco si è circondato di una guardia ravvicinata di otto prelati radicati sul territorio. Ha avviato commissioni per riformare le finanze e la comunicazione; moltiplicato gli esperti laici per consigliare la sua amministrazione; creato un Tribunale vaticano per giudicare i vescovi che hanno coperto i preti pedofili; nominato un primo gruppo di una quindicina di nuovi cardinali, futuri elettori del suo successore; il prossimo papa sarà scelto mentre lui sarà ancora in vita, come aveva voluto Benedetto XVI per sé stesso. Francesco l’ha ripetuto prima di fare visita a Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador: egli è contro i «leader a vita».
I suoi nuovi ussari porporati il papa li sceglie fra coloro che hanno sgobbato là dove sono aperte le ferite sociali, come ad Agrigento, diocesi della quale fa parte Lampedusa, l’isola dell’emigrazione clandestina. Va a cercarli in Asia, nei profondi spazi dell’Oceano Pacifico, in Africa, in America Latina, affrancandosi così da regole non scritte: fine delle arcidiocesi che meccanicamente avviavano i loro titolari verso l’alta gerarchia romana aumentando il peso dell’Europa nel conclave e, lì dentro, quello dell’Italia (10).
«Questo papa rompe i tabù, dà calci al formicaio, senza prendere troppe precauzioni», constata un diplomatico francese, osservando l’azione pontificale. «Ha capito di essere Capo di Stato. La funzione lo afferra. È pragmatico e molto politico». Tutto questo scolora la Chiesa, perché Francesco «è» la Chiesa, come egli stesso ha ricordato, non senza una maliziosa dolcezza persuasiva di gesuita «un po’ astuto» (così definisce sé stesso), a coloro che si preoccupavano se l’istituzione lo avrebbe seguito.
«Ci si accalca per vederlo!», gongola sull’altra sponda, dal lato delle nunziature, un consigliere pontificio. In due anni più di cento Capi di Stato sono stati ricevuti in Vaticano. Alcuni cercano la sua mediazione: gli Stati Uniti e Cuba, il cui riavvicinamento egli ha reso più facile; la Bolivia e il Cile, si sussurra, per quanto riguarda l’accesso della prima all’Oceano e via via fino all’organizzazione guerrigliera delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) che gli chiedono la sua intercessione quando passerà per Cuba... Così sono i desideri del papa, che fa riaprire a Roma un ufficio di mediazione pontificia. Senza successo garantito: nel giugno 2014 fare pregare insieme, molto mediaticamente, il Presidente palestinese Mahmoud Abbas e il Presidente israeliano Shimon Peres nei giardini del Vaticano non ha impedito i sanguinosi attacchi di Israele si Ghaza, un mese dopo.
Nato in Argentina, Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco, «è il primo papa che comprende veramente gli scambi Sud-Sud, in materia di beni materiali o di beni simbolici, religiosi», pensa Sébastien Fath, membro del Gruppo società, religioni, laicità. «Egli sa che predicatori africani sono in rapporti con le Chiese brasiliane, che i gesuiti indiani partono in missione in Africa». È un «latino perfetto... che non parla inglese», completa Roy della Caritas. Nipote di immigrati piemontesi, «fa pensare a un papa europeo che abbia lasciato l’Europa: un’Europa no future!», riprende il nostro diplomatico francese. «Non ha una visione geopolitica del mondo, per essere precisi», afferma Roy. Un mondo che egli d’altra parte conosce poco: Francesco non ha quasi per niente viaggiato prima del papato. «Innanzitutto egli punta il dito contro un sistema, materialista, basato sulla promozione dell’individuo, che distrugge le solidarietà tradizionali e sprofonda i più fragili nella povertà». Per il consigliere pontificio «è un lanciatore di allarmi!».
Un tempo monello dei sobborghi di Buenos Aires, Bergoglio ha tuttavia la sua propria geografia dello spazio: meno un’opposizione fra Sud e Nord che fra un centro e le «periferie», siano esse spaziali (Paesi poveri, sobborghi, bidonville) o esistenziali (popolazioni precarie, esclusi, detenuti, ecc.). In questa visione vi sono tante periferie al Nord e aspetti colonialisti nei circuiti globalizzati ed è lì che egli vuole la sua Chiesa prioritariamente al lavoro.
Bergoglio ha scelto il suo campo: quello della «opzione preferenziale per i poveri» e i «piccoli» che, nei suoi discorsi, come a Santa Cruz, egli affronta personalmente: «straccivendoli», «raccoglitori d’immondizie», «venditori ambulanti», «facchini», «lavoratori esclusi», «contadini minacciati», «indigeni oppressi»», «emigranti perseguitati», «pescatori che possono appena resistere all’asservimento operato dalle grandi corporation»... È un Pastore con slanci missionari molto forti, così si dice. Non un diplomatico. È questo un problema? Per quello vi sono... i diplomatici, pilotati dall’esperto segretario di Stato Pietro Parolin, già uomo di missioni delicate in Venezuela, in Corea del Nord, in Vietnam e in Israele.
Il sinodo sulla famiglia presto concluso
«Il papa è convinto che l’avvenire sia con quelli che stanno sul territorio», riconosce Roy. Il papa diffida delle organizzazioni (cominciando dalla sua!), le cui derive portano, secondo lui, alla sterilità dei discorsi autoreferenziali lontani dalla realtà. Questo fa di lui un dirigente dall’approccio umano e manageriale di grande ascendente, constatano i diplomatici, mentre i suoi predecessori erano totalmente proiettati dal vertice verso la base. «Vi chiedo la vostra preghiera che è la benedizione del popolo per il suo vescovo», ha detto Francesco ai fedeli in piazza San Pietro, invertendo i ruoli, il giorno della sua elezione.
Questo attaccamento alle popolazioni, che gli conferisce accenti populisti (è stato vicino a un gruppo della gioventù peronista (11)), lo ancora concettualmente nella teologia del popolo, un ramo argentino non marxista della Teologia della Liberazione (12). La teologia del popolo: «Un teologia per il popolo e non dal popolo», riassume Pierre de Charentenay per sottolineare la differenza. «Il papa opera una specie di ripresa popolare e culturale della teologia della liberazione». Detto a mezza voce, non è pur meno una riabilitazione. Derivata dall’appropriazione latino-americana del Concilio Vaticano II negli anni ’70, la teologia della liberazione era soffocata da Benedetto XVI e Giovanni Paolo II per il suo approccio marxisteggiante. Nel settembre 2013 Francesco riceveva in udienza privata, a Roma, uno dei suoi illustri fondatori, il padre peruviano Gustavo Gutierrez. Nel marzo 2015 beatificava Mons. Oscar Romero, l’arcivescovo del San Salvador assassinato nel 1980 in piena Messa da militanti di estrema destra. I suoi predecessori non avevano nemmeno avviato l’istruzione della procedura di beatificazione. Secondo Leonardo Boff, uno dei capifila brasiliani del movimento, la visione di Francesco s’iscrive «nella grande eredità della teologia della liberazione». Il suo pontificato potrebbe perfino aprire una «dinastia di papi del terzo mondo» (13).
Ma Bergoglio stona anche perché è un vero capo di chiesa, un papa manager, il primo ad aver concretamente esercitato responsabilità territoriali extra-diocesane a livello nazionale. Dal 2005 al 2011 è stato Presidente della conferenza episcopale argentina (14). Di conseguenza «le truppe [in Vaticano] sono molto meglio organizzate», constata un osservatore romano, «la sua personalità, le sue implicazioni personali, hanno ri-dinamizzato la diplomazia della Santa Sede».
Con la sua direzione Francesco ha fissato una rotta per la sua multinazionale. Abilmente ha dimensionato l’attacco in funzione del bersaglio e attribuisce al suo progetto l’aspetto noto dell’«internazionalismo cattolico» (15): partecipare alla pacificazione delle relazioni fra Stati, promuovere la democrazia, insistere sulle strutture di dialogo internazionale, sulla giustizia per i popoli, il disarmo, il bene comune internazionale, tutti temi che talora conferiscono alla Chiesa cattolica aspetti di pura organizzazione non governativa (ONG). E all’interno, ai suoi colleghi cardinali alla sua elezione, il gesuita argentino ricorda l’essenziale: evangelizzare, certamente. Ma anche fare uscire la Chiesa da sé stessa, dal suo «narcisismo teologico», per andare senza aspettare verso le «periferie» (16).
Alcuni [cardinali] sembrano non aver valutato a chi essi confidavano le Chiavi. Perché per evangelizzare Francesco non brandisce la sua croce come Giovanni Paolo II il quale, fin dal suo primo sermone, passava all’offensiva: «Non abbiate paura! Spalancate le porte al Cristo (...), aprite le frontiere degli Stati, dei sistemi politici ed economici (17)...». Il papa argentino ha un altro senso politico. Egli non esita a fare lavorare la Chiesa con movimenti popolari che sono ben lontani dal condividere la sua fede. Ha compreso che se la Chiesa restasse universale non sarebbe più il centro del mondo - ma tutt’al più una «esperta in umanità», come la presentava Paolo VI.
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[...] Il papa contro lo «sterco del demonio»
Queste nuove inclinazioni non nascondono le difficoltà. Nel Vicino Oriente, dove Francesco nel 2013 lanciava il ritorno della diplomazia vaticana chiedendo la pace in Siria, quando la Francia e gli Stati Uniti volevano staccarsi dal regime di Bashar al-Assad, alla fine la Santa Sede ha dovuto fare marcia indietro di fronte all’urgenza: un anno più tardi egli chiedeva alle Nazioni Unite di «fare di tutto» per contrastare le violenze dello stato Islamico (Daesh), responsabile di «una specie di genocidio in atto» che costringeva i cristiani all’esodo. I fondamentalismi non sanno che farsene del dialogo interreligioso.
Allo stesso modo in Asia, regione percepita come un giacimento per lo sviluppo, la diplomazia vaticana procede con difficoltà. Se le relazioni con il Vietnam stanno rianimandosi, in Cina un’intera corrente cattolica, controllata dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, struttura statale, continua a sfuggire al vescovo di Roma. Certamente Francesco ha fatto di tutto per ammansire il presidente Xi Jinping - evitando in particolare di incontrare il Dalai-Lama - e ha riconosciuto un’ordinazione vescovile avvenuta in luglio a Anyang (provincia dello Henan), ciò che non era accaduto da tre anni ad oggi. Ma la realtà è molto lontana dai sogni missionari: negli ultimi mesi, riferisce l’agenzia Chiese d’Asia, le autorità cinesi hanno fatto distruggere a decine le croci sulle chiese, troppo ostensibili, specialmente nella provincia dello Zhejiang. Infine, in India, l’infima minoranza cattolica (2,3% della popolazione) subisce regolarmente offese ai beni e alle persone.
Per Francesco gli ostacoli non si trovano soltanto in terre lontane non cristiane. Negli Stati Uniti, dove parlerà il 24 settembre davanti al Congresso, il suo tasso di popolarità è calato: dal 76% di opinioni favorevoli in febbraio al 59% in luglio, dopo l’enciclica e il discorso di Santa Cruz, soprattutto presso i repubblicani (45%) (18). Il tono, tanto quanto il fondo, non suona bene. Gli si rimprovera il suo tropismo, la sua scarsa considerazione per quello che il capitalismo ha potuto apportare ai Paesi poveri o per i suoi sermoni che non propongono soluzioni (19). A sinistra si sospetta un’offensiva di fascino per fare passare pillole più amare. Si nota che egli mantiene l’opposizione dottrinale alla contraccezione e non fa evolvere quella relativa all’uso del preservativo in materia di lotta contro l’AIDS. Che elude le conseguenze della demografia incalzante, tanto problematica quanto lo è il consumismo. «La crescita demografica è pienamente compatibile con uno sviluppo integrale e solidale», assicura il papa al contrario. I conservatori, da parte loro, lo rimandano seccamente alle sue competenze teologiche e morali. «Io non mutuo la mia politica economica dai miei vescovi, dal mio cardinale o dal mio papa», ha dichiarato Jeb Bush, candidato repubblicano alla casa Bianca, convertito al cattolicesimo vent’anni fa (20). Il papa non si formalizza: «Non aspettatevi da questo papa una ricetta», «La Chiesa non ha la pretesa (...) di sostituirsi alla politica».
Più generalmente Francesco è atteso sulle questioni della società, sulle quali gli organi vaticani da due anni hanno messo la sordina. Nel 2014 egli ha aperto un vaso di pandora chiedendo ai vescovi, riuniti nel Sinodo, di lavorare sul tema famiglia. I lavori termineranno quest’anno, in ottobre. A più riprese egli è sembrato favorire un’evoluzione sulla questione, molto delicata nell’istituzione, dei divorziati risposati privati della comunione, o ancora sull’omosessualità - il suo risonante «Chi sono io per giudicare?», che tuttavia non gli ha impedito di congelare, in primavera, la procedura di nomina presso la Santa Sede di un nuovo ambasciatore di Francia, il cui orientamento sessuale era stigmatizzato specialmente dalla Curia.
All’interno più d’uno lo attende alla svolta. Egli vuole rompere con il centralismo romano, sviluppare la collegialità, rendere alle conferenze episcopali la loro parte di autorità dottrinale, promuovere l’introduzione della cultura nella liturgia. Di che scompigliare l’unità della sua Chiesa. Ora, egli ha già 78 anni... E la Curia, un universo che gli era ignoto, oppone una bella resistenza. «Vi si rompe i denti», osserva Pierre de Charantenay. «L’aratro si è bloccato in un terreno difficile». Per la famiglia Francesco si appella a «un miracolo». E d’altronde per il momento nulla dice che questo papa che dà fastidio riuscirà.
(1) Le pape reprend ici une expression de l’un des Pères de l’Eglise, Basile de Césarée, un ascétique précurseur du christianisme social.
(2) Bill McKibben, « The Pope and the planet », The New York Review of Books,13 août 2015.
(3) Pape François, Loué sois-tu. Lettre encyclique Laudato si’ sur la maison commune, disponible en France chez plusieurs éditeurs (Bayard, Cerf, Artège, Salvator, etc.), de 3 à 4,50 euros, et gratuitement sur Internet.
(4) « Naomi Klein prend fait et cause pour l’encyclique du pape », 2 juillet 2015 ; « Nicolas Hulot : “Le pape François sacralise l’enjeu écologique” », L’Obs, Paris, 28 juin 2015 ; « Edgar Morin : “L’encyclique Laudato Si’ est peut-être l’acte I d’un appel pour une nouvelle civilisation” », La Croix, Paris, 22 juin 2015.
(5) « Que penser des positions du pape sur l’économie ? », La Croix, 24 juillet 2015.
(6) Paul VI, inspirateur du pape François, Editions Salvator, Paris, à paraître le 24 septembre 2015.
(7) Le nombre des Etats avec lesquels le Saint-Siège entretient des relations est passé de 49 en 1963 à 84 en 1978. Il est actuellement de 180. L’Afghanistan, l’Arabie saoudite, la Chine, la Corée du Nord et le Vietnam comptent parmi la quinzaine de pays avec lesquels il n’en entretient pas.
(8) Philippe Chenaux, Paul VI, Editions du Cerf, Paris, 2015.
(9) « Les quinze maux de la curie, selon le pape François », Le Monde, Paris, 23 décembre 2014.
(10) Sur les 113 cardinaux-électeurs qui ont choisi François en mars 2013, 59 étaient européens dont 28italiens.
(11) Bernadette Sauvaget, Le Monde selon François. Les paradoxes d’un pontificat,Editions du Cerf, Paris, 2014.
(12) Juan Carlos Scannone, Le Pape du peuple. Bergoglio raconté par son confrère théologien, jésuite et argentin, entretiens avec Bernadette Sauvaget, Editions du Cerf, 2015.
(13) « “Mientras viva Ratzinger, no es bueno que Francisco me reciba en Roma” », El País, Madrid, 23 juillet 2013.
(14) Chez les jésuites, il avait été auparavant, entre 1973 et 1978, sous l’ère du général Jorge Rafael Videla, jeune provincial (patron) de la Compagnie de Jésus de son pays. Une polémique, non étayée, l’accuse d’un manque de fermeté vis-à-vis de la dictature.
(15) « L’internationalisme catholique », Diplomatie. Les grands dossiers, n°4, Paris, août-septembre 2011.
(16) Intervention de Jorge Mario Bergoglio devant les congrégations générales précédant le conclave l’ayant élu pape, le 13 mars 2013. Le texte, censé rester secret, a été diffusé quelques mois plus tard, avec l’accord du pape, par le cardinal Jaime Ortega, archevêque de La Havane.
(17) Lire Peter Hebblethwaite, « Le rêve polonais d’une chrétienté restaurée », Le Monde diplomatique, mai 1998.
(18) Sondage Gallup, 22 juillet 2015.
(19) « In fiery speeches, Pope renews critiques on excesses of global capitalism »,International New York Times, Paris, 13 juillet 2015.
(20) « Jeb Bush joins Republican backlash against Pope on climate change », The Guardian, Londres, 17 juin 2015.