Il Dio Uno fonte della libertà
di Enzo Bianchi (La Stampa, 15/05/2010)
Lodevole iniziativa quella assunta dalle edizioni il Mulino: far riflettere su «I comandamenti», aiutando a discernere se sono semplici «icone del passato» oppure se ad essi ci si può riferire come a «principi validi in ogni luogo e in ogni tempo». Interrogativo non così retorico, in una stagione in cui i principi immutabili non godono di grande fortuna.
Su ciascuna delle undici «parole» - al tradizionale «decalogo» verrà infatti aggiunto il comandamento dell’amore del prossimo - un agile libretto accosta le riflessioni di due autori di formazione culturale e sensibilità diversa, così da offrire approcci complementari a tematiche che conservano ancora oggi tutta la loro attualità. E proprio l’affermazione iniziale del decalogo biblico apre la serie e dà il titolo al primo volume - Io sono il Signore Dio tuo (pp. 162, €15) - affidato alla competenza di Piero Coda e Massimo Cacciari.
L’autorevole presidente dell’Associazione dei teologi italiani percorre un itinerario molto lineare seguendo il dettato biblico e facendone emergere le costanti fondamentali, a partire dalla rivelazione del Nome di Dio, avvenuta nel quadro del «patto» stipulato con il popolo di Israele dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto.
Da subito siamo posti di fronte all’apparente contraddizione di un Dio proprio a un popolo particolare che si manifesta come unico Signore del mondo: «l’universalità di Dio e la sua presenza singolare a quello che diventa il suo popolo si intrecciano in modo inestricabile» nel nome stesso di Dio: «Io sono Colui che io sono» o, in modo più pregnante, «Io sono Colui che è qui con e per voi».
Questa comprensione del Dio Uno come «sorgente della libertà dell’uomo» si sviluppa attraverso gli scritti dell’Antico Testamento - dai libri storici ai profeti - e trova una manifestazione piena in quell’Abba, Padre, che Gesù ha narrato con la sua vita e verso il quale i suoi discepoli possono rivolgersi fiduciosi.
Non a caso Coda dedicherà alcune pagine proprio alle invocazioni del Padre nostro, preghiera che immette il credente «in quella relazione di fede e amore cui è appesa la speranza operosa e perseverante della fraternità e della giustizia tra gli uomini nella cornice del creato».
Dal canto suo anche Cacciari, con il denso argomentare filosofico cui ci ha abituati, sottolinea l’importanza della rivelazione del Nome come priorità indispensabile che precede qualunque comandamento: «prima della Parola sta il Chi la pronuncia, l’Io, il Soggetto che in essa si rivela». È in virtù di quell’«Io Sono» che il decalogo non si riduce a «legge morale in noi»: «se la forza di quell’Io venisse meno ... la Legge divina perderebbe il significato che deve assumere anche per la perfezione del vivere civile».
Capiamo allora perché i comandamenti iniziano con una parola che comando non è, ma è svelamento di chi i comandamenti li offre in dono come pegno di un patto di libertà. Anzi, e qui siamo chiamati a risalire ancora più a monte, il racconto biblico del dono della Legge al Sinai non inizia nemmeno con il Nome, ma con l’invito «Ascolta, Israele!»: solo la disposizione al dialogo, il faccia a faccia tra un Io e un tu, dischiude le porte a una legge di vita per ogni «tu» che viene all’esistenza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MONOTEISMO, CRISTIANESIMO E DEMOCRAZIA
FLS
Il caso.
Bianchi ha lasciato Bose: trasloco sofferto
L’annuncio dato dallo stesso fondatore ed ex priore con un tweet. La sua nuova residenza a Torino. Nel maggio 2020 la decisione vaticana di allontanarlo da Bose
di Riccardo Maccioni (Avvenire, martedì 8 giugno 2021)
Enzo Bianchi ha lasciato Bose. Ad annunciarlo lo stesso fondatore ed ex priore della comunità monastica con un tweet postato nella tarda serata di ieri. «Cari amici/e - scrive - per alcuni giorni sono stato silente e non vi ho inviato i pensieri emersi nel mio cuore ma un faticoso, sofferente trasloco me lo ha impedito: per noi vecchi migrare è uno strappo non pensabile anche perché ci prepariamo all’esodo finale, non a cambiar casa e terra». Nessuna conferma sulla nuova residenza, anche se l’ex priore sarebbe andato a vivere a Torino in un appartamento ristrutturato messo a disposizione da amici.
Il trasferimento di Bianchi è l’atto (forse) conclusivo di una lunga dolorosa vicenda seguita all’elezione di fratel Luciano Manicardi come nuovo priore nel 2017. Le incomprensioni tra vecchia e nuova guida e le crescenti tensioni all’interno della comunità avevano portato, su richiesta della stessa fraternità, a una visita apostolica vaticana, condotta dal 6 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020. Alla base, come segnalava un comunicato diffuso al termine della visita, «una situazione tesa e problematica per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno». A svolgere la visita erano stati padre Guillermo León Arboleda Tamayo, abate presidente della Congregazione Benedettina Sublacense-Cassinese, padre Amedeo Cencini consultore della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, e madre Anne-Emmanuelle Devêche abbadessa di Blauvac.
Drastiche le conclusioni rese note il 13 maggio 2020 con la decisione di allontanare dalla comunità monastica di Bose, lo stesso Bianchi, fratel Goffredo Boselli, fratel Lino Breda e suor Antonella Casiraghi. L’applicazione della misura tuttavia per quanto riguarda il distacco dall’ex priore dalla comunità che egli stesso ha fondato nel 1965, è stata fortemente contrastata. Nel febbraio scorso sembrava imminente il trasferimento a Cellole di San Gimignano, comunità in provincia di Siena e diocesi di Volterra, ma fratel Bianchi aveva poi deciso di non accettare quella soluzione. È del 18 marzo scorso invece la Lettera di papa Francesco alla Counità monastica di Bose in cui il Pontefice nel sostenere la decisione presa nel maggio 2020 con il decreto firmato dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, invita la fraternità stessa a salvaguardare il proprio carisma, a «perseverare nell’intuizione iniziale di una vita fraterna nella carità e di una testimonianza di ricerca della radicalità evangelica nella preghiera, nel lavoro e nell’ospitalità. La dimensione ecumenica che vi caratterizza e il vostro anelito operoso per l’unità dei cristiani - prosegue il Papa - sono tesoro prezioso che la Chiesa vuole custodire, vegliando sulla sua autenticità e fecondità».
Ieri sera infine il sofferto annuncio di Enzo Bianchi. Poche righe amare a sottolineare la durezza di un distacco difficile per lui, per l’intera comunità di Bose e per quanti nel corso degli anni ne hanno accompagnato il cammino e condiviso l’impegno al servizio del dialogo, dello studio della Parola e dell’approfondimento spirituale.
Israele. Infermiere arabo recita lo Shemà Israel per un ebreo che sta morendo di Covid
Maher Ibrahim ha accompagnato il paziente nei suoi ultimi istanti con la preghiera ebraica più sentita. La figlia dell’uomo deceduto: «E’ da questi gesti che comincia la pace»
di Redazione Esteri (Avvenire, giovedì 18 febbraio 2021)
Un infermiere arabo-israeliano, Maher Ibrahim, ha confortato un ebreo ortodosso morente di Covid recitando per lui lo Shemà Israel, la preghiera ebraica più sentita. E’ accaduto nell’ospedale HaEmek di Afula, in Galilea. «Abbiamo visto che le condizioni del paziente stavano peggiorando rapidamente. Per questo abbiamo avvertito i parenti che il tempo oramai stringeva». I famigliari di Shlomo Galster erano però a Netanya, relativamente distante da Afula.
«Io e Shlomo avevamo fatto amicizia - ha continuato l’infermiere -. Per interesse culturale ho studiato un po’ l’ebraismo e so che quando l’anima esce dal corpo occorre che siano pronunciate le parole Shemà Israel». Ed è quello che Ibrahim ha fatto: «Non so tutta la preghiera - ha spiegato - ma quelle parole le ho pronunciate. E così ho raccontato alla figlia di Shlomo quando è arrivata: quelle sono state le ultime parole che suo padre ha sentito. Lavoro da 20 anni in ospedale, penso che la cosa più importante sia restare essere umani. Siamo tutti figli di un Dio unico».
I parenti di Shlomo sono arrivati 45 minuti dopo la sua morte: «Ci hanno fatto indossare indumenti sterilizzati per poter dare l’ultimo addio. Tutto - ha detto la figlia di Shlomo, Merav - è stato fatto con grande tatto. Poi quell’angelo è venuto da noi», ha aggiunto riferendosi a Ibrahim e alla sua preghiera. «Ci ha detto di essere dispiaciuto per non aver potuto fare di più. Sapevamo che l’équipe medica si era prodigata in condizioni molto difficili. Nostro padre era ammirato dalla loro abnegazione. E’ da episodi come questi che comincia la pace», ha concluso Merav.
Il gesto dell’infermiere arabo-israeliano ha commosso l’opinione pubblica. Il premier Benjamin Netanyahu ha espresso all’infermiere il ringraziamento di tutti e la sua ammirazione.
Il teologo.
Alla Comunità monastica di Bose non servono i «partiti»
Sbagliato trasformare la crisi della comunità in un conflitto tra fazioni ecclesiali. L’autorità competente rimane il Papa. La visita apostolica e il decreto? Un’opportunità per ripartire
di Massimo Faggioli (Avvenire, sabato 20 febbraio 2021)
Nelle Comunità ecclesiali di nuova fondazione, il passaggio dal fondatore al primo successore in una posizione di autorità è naturalmente problematico. Vista la storia ancora giovane di queste comunità negli anni attorno al Vaticano II, questo tipo di transizione è uno degli elementi caratteristici del momento presente nella storia della Chiesa cattolica. Non è una questione totalmente nuova: siamo abituati a identificare l’idea di «scisma» nella Chiesa con lo scisma papale, ma la storia abbonda anche di scismi monastici.
La situazione della comunità di Bose però è diversa da quella di altre comunità ecclesiali e degli scismi monastici. È diversa per il ruolo importante che essa ha avuto nella Chiesa italiana ed europea negli ultimi cinquanta anni: l’ecumenismo, la recezione del Concilio Vaticano II, la riscoperta della Parola.
Anche il sottoscritto appartiene alla «generazione Bose» - o meglio, a una delle tre o quattro generazioni di cattolici (e no) che grazie alla comunità fondata da Enzo Bianchi nel 1965 hanno riscoperto la fede cristiana, ma anche una ecclesialità riconciliata.
La storia di Bose però è diversa anche per la personalità carismatica del fondatore sulla scena pubblica, diverso da ogni altro fondatore nell’epopea post-conciliare. Si potrebbe fare un parallelo con Thomas Merton: monachesimo, ecumenismo, successo come intellettuale pubblico. Però Merton non fondò una sua comunità e non dovette mai cimentarsi, a causa della morte a soli cinquantatré anni nel 1968, col problema della transizione e gestione della sua eredità spirituale (ma anche materiale).
Chi andava e va a Bose, a contatto con i fratelli e le sorelle, da lungo tempo aveva avuto sentore e prove del deterioramento della situazione comunitaria. Quella scatenata dalle dimissioni di Enzo Bianchi non è la prima crisi nella storia di Bose. Ma negli ultimi anni la situazione si era aggravata per un problema di doppia autorità che si è posto in maniera drammatica, a causa della personalità del fondatore.
Le dimissioni date dal priore Bianchi sono state interpretate dallo stesso in maniera nominalistica, come se non fossero mai avvenute, fino a delegittimare l’autorità non solo del nuovo priore, ma anche di tutte le altre cariche e della comunità stessa che lo aveva eletto. Anche qui, storia nota in molte comunità ecclesiali. La differenza in questo caso è la scelta di fare leva sulla notorietà pubblica del fondatore. Una scelta grave per ogni persona che sia diventata un punto di riferimento ecclesiale - ancora di più se monastico.
Qui ci sono due questioni di fondo. C’è una questione ecclesiale: per una comunità ecclesiale, in una situazione di eccezione, ci sono diversi tipi e gradi di autorità in grado e chiamati a decidere. Nel caso di Bose, non è mai stato in dubbio che l’autorità competente per Enzo Bianchi fosse la Chiesa cattolica e il Papa. Il fondatore è cattolico, così come la stragrande maggioranza dei membri. Il rispetto dell’istituzione non è dovuto in maniera inversamente proporzionale alla notorietà personale. Dissenso è cosa diversa dalla ribellione.
Poi c’è una questione ermeneutica. La divisione nei giudizi resi in pubblico (tanto sui mass media quanto sui social media) sul caso Bose risente anche di due tipi diversi di identificazione.
Ci sono quelli che a Bose ci sono andati, riconoscendo i grandi meriti del fondatore nell’ecumenismo, nell’editoria, nella diffusione della patristica e del cristianesimo orientale, ma conoscono anche i limiti di questa realtà monastica, e sperano e pregano che Bose possa storicizzare il fondatore e riformulare le sue intuizioni.
Poi ci sono quelli che andavano a Bose attratti dalla personalità del fondatore a cui avevano attinto dai mass media. Ci sono qui due concezioni diverse di Chiesa e di comunità. Nessuno può toglie niente al fondatore, ai suoi meriti storici per la comunità che ha creato e per la Chiesa tutta.
Il problema è quando si diventa incapaci di distinguere il fondatore dalla comunità, anche di fronte a gravi distorsioni nell’esercizio dell’autorità. Il problema è quando si fa, dall’esterno, della persona del fondatore il simbolo di un partito ecclesiale o politico da agitare contro una serie di bersagli ideologici: il Medioevo, il Vaticano, i vescovi, il monachesimo non abbastanza ecumenico, e così via.
Sembra caduto nel vuoto quello che papa Francesco aveva detto al Sinodo dei vescovi del 2015 circa la necessità di abbandonare le ermeneutiche cospirative: un invito rivolto non solo al Sinodo. Dalla otto-novecentesca ermeneutica del sospetto ora la Chiesa deve fare i conti con una ermeneutica della diffidenza che è diventata dominante - ed evidentemente non solo tra i cosiddetti tradizionalisti che si oppongono a papa Francesco. In questo clima ecclesiale troveranno sempre applausi le prese di posizione contro il Vaticano, contro l’istituzione ecclesiastica.
Enzo Bianchi è stato per me maestro di ecclesialità e stupisce che attorno a lui si sia radunata la fronda del risentimento anti-istituzionale che vede dappertutto complotti orditi a danno del vero cristianesimo. È una falsa ecumenicità quella che si basa su una presa di distanza dal cattolicesimo costruita sul risentimento.
Il monachesimo ha anche un aspetto istituzionale. La regola è istituzione che aiuta a darsi una forma di vita, in una concezione di autorità che libera, in cui il carisma non è fine, ma strumento al servizio della comunità e della Chiesa tutta.
È evidente che a Bose negli ultimi anni l’esercizio istituzionale dell’autorità del fondatore aveva assunto aspetti fortemente problematici. La visita apostolica e il provvedimento erano l’opportunità per ripartire - anche per il fondatore. La fase di stallo attuale troverà una via di soluzione, a un certo momento. Ma il caso di Bose attende soluzioni anche a livello diffuso. La divisione in «partiti» attorno al caso di Bose dice molto di questo momento ecclesiale.
Massimo Faggioli è Storico della Teologia alla Villanova University, Stati Uniti
Il caso Bose è esploso alla fine del 2019, con la visita apostolica - sollecitata dalla stessa comunità - che si è svolta tra il 6 dicembre di quell’anno e il 6 gennaio 2020. La delegazione era composta da tre visitatori - l’abate Guillermo Leon Arboleda Tamayo, M.Anne Emmanuelle Devéche, abbadessa di Blauvac e padre Amedeo Cencini - che hanno ascoltato a lungo il fondatore, il nuovo priore Luciano Manicardi e tutti i membri della comunità, raccogliendo le loro opinioni su quanto capitato.
Alla luce di quanto raccolto, il 13 maggio scorso è stato emanato il “decreto singolare” firmato dal segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, «approvato in forma specifica» da papa Francesco - quindi non è appellabile - che ha disposto per Enzo Bianchi il ritiro dalla comunità entro e non oltre dieci giorni dalla notifica (avvenuta il 21 maggio).
Dopo quasi 9 mesi, di fronte a un nulla di fatto, il 4 gennaio è arrivata l’ingiunzione del delegato pontificio per il trasferimento di Bianchi a Cellole San Gimignano entro il 16 febbraio. Provvedimento che Bianchi ha scelto di non osservare. Il braccio di ferro continua.
I numeri
1965 - L’anno di fondazione della comunità di Bose. Nel 1968 ci furono i primi ingressi
6 - Le sedi: Bose, Ostuni, Assisi, Cellole-San Gimignano, Civitella San Paolo, Gerusalemme Leggi anche
* Fonte: Avvenire, 21.02.2021 (ripresa parziale).
FILOSOFIA DELLA RIVELAZIONE. "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": "GENERARE DIO". L’immaginario del cattolicesimo romano....
Narciso e l’arte di restare a galla: una lezione di Massimo Cacciari
di Luisa Muraro *
Narciso non sapeva niente di narcisismo. Il pastorello vanitoso si sporge per specchiarsi, casca nello stagno e annega. Doveva venire in Italia a imparare dai nostri uomini di spicco. Specchiarsi e, soprattutto, restare a galla, è un’arte. Per esempio, come fa il narciso italiano quando succedono cose notevoli che lo mettono ai margini? Aspetta un po’ che passino ma se non passano, come sta succedendo con il femminismo?
Massimo Cacciari, intervistato sul suo ultimo libro risponde con una lezione esemplare.
Il suo libro è di argomento teologico ed è il giorno di Natale. Il Professore si vanta di aver fatto una scoperta filosofica, teologica e politica su Maria di Nazareth. L’intervistatore, Nicola Mirenzi, è ammirato ma mostra incredulità. L’intervistato ammette di non essere stato il primo e fa il nome di un grande teologo del passato. L’intervistatore chiede: come mai neanche le femministe si sono dedicate a pensare la grandezza di Maria? Neanche loro, conferma il professore. Dice il falso ma lui non teme che la verità gli secchi la lingua perché non la sa, lui di femminismo non ha mai voluto saper niente con un minimo di precisione. L’ignoranza, però, non basta più con i tempi che corrono, ci vuole un tampone e Cacciari l’ha pronto. Ripete un elogio del femminismo fatto da altri (sempre lo stesso, “ultima vera rivoluzione” ecc.). Intanto pensa: nessuno può lontanamente aver visto quello che ho visto io! E a voce alta dice: le femministe “sono rimaste vittime della lettura maschilista dell’incarnazione, hanno guardato Maria come una figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c’è oltre”. Questa è la mossa classica dell’intellettuale italiano: s’inventa una posizione “femminista” fasulla, che gli pare verosimile e che trova facile da eliminare.
Termina così l’intervista; la trovate su Huffington Post, che in seguito ha pubblicato l’intervento di Nadia Lucchesi su questo argomento; lo trovate anche qui.
Inventarsi un femminismo finto, dopo quasi mezzo secolo di un movimento che sta modificando i tratti di una civiltà, e uno studioso di chiara fama che crede di poterlo fare impunemente, tutto questo non sarebbe possibile senza la complicità dei suoi pari e dei mass-media che vanno per la maggiore. È questo un andazzo che è durato troppo e danneggia il nostro paese. Da notare però anche, in questo caso, un certo desiderio maschile di mettersi alla luce della differenza femminile. Nadia Lucchesi e le sue amiche sono intervenute a smentire il Professore con molta serenità, come se, sotto le sue arie da grande pensatore, riconoscessero uno dei pastori che andarono alla grotta di Betlemme. (Luisa Muraro)
Il commento di Nadia Lucchesi e amiche all’intervista di Massimo Cacciari
Se i filosofi hanno ignorato Maria, le filosofe ne hanno invece valorizzata la figura, liberandola dagli stereotipi e dalle incomprensioni della tradizione. Penso, per nominarne alcune, a María Zambrano, a Simone Weil e a Edith Stein. Le femministe hanno guardato ben oltre la lettura maschilista dell’incarnazione: come scriveva Luisa Muraro nel 2011 «Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico, ma anche le agnostiche si sono dedicate a strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti)... Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini. Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni Ottanta, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso...» (Maria. Il latte della Vergine, Madre di Dio e Dio lei stessa, Il manifesto - Alias, 24 dicembre 2011).
Infatti, Luce Irigaray ha pubblicato nel 2010 «Il mistero di Maria» (Edizioni Paoline, 2010), mentre nel 2002 Nadia Lucchesi aveva dato alle stampe «Frutto del ventre, frutto della mente: Maria, madre del Cristianesimo» (Luciana Tufani, Ferrara 2002).
Nel 2014 si è svolto a Venezia il convegno «Rivisitazione di Maria. Per una teologia in lingua materna», a cura di Laura Guadagnin e Grazia Sterlocchi delle associazioni Settima Stanza e Waves in collaborazione col Centro Donna, mentre a Roma, all’interno del progetto speciale culturale Biblioteche di Roma 2014 «Presenza e mistero di Maria», Annarosa Buttarelli e Suor Michela Porcellato sono intervenute sul tema: «La sovranità di Maria di Nazareth».
Raffaella Molinari e Monica Palma, relatrici di un intervento dal titolo «Maria della Sororità, Nostra Signora Nostra Sorella» continuano il lavoro straordinario di Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente.
Da più di cinquant’anni, inoltre, Angela Volpini diffonde un’immagine di Maria che rappresenta l’umanità realizzata e ci insegna la “via della felicità sulla terra”.
Non parlo dei tantissimi contributi delle teologhe cattoliche e non, che hanno interpretato in modo non tradizionale la figura della Vergine, della Maestra di Sapienza: cito, per nominarne solo una, Elisabeth Schüssler-Fiorenza, teologa statunitense, femminista cattolica, autrice di due opere fondamentali: «In memoria di Lei» (Claudiana, Torino 1990) e «Gesù, figlio di Myriam, profeta della Sophia» (Claudiana, Torino 1996).
* www.libreriadelledonne.it, 19 gennaio 2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
Federico La Sala
«Io sono il Signore Dio tuo» inizia così il buon cammino
di Armando Torno (Corriere della Sera, 3 maggio 2013)
Tavole della Legge, Comandamenti, Decalogo: sono espressioni diverse per indicare i precetti che Mosè ricevette sul Sinai, base dell’alleanza tra Dio e Israele. Il termine più usato in dizionari e repertori, Decalogo, in greco significa dieci (déka) parole (lógos). Una consuetudine, accettata anche se non filologicamente ineccepibile, ama tradurlo con la locuzione «I Dieci Comandamenti»; tuttavia una ragione c’è, e va cercata nel fatto che in ebraico «parola», davar, è sinonimo di comandamento. Mosè rimase «con il Signore quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane e senza bere acqua» (Esodo 34,28).
Oggi sono considerati riferimenti giuridici ed etici, oltre che religiosi; costituiscono il codice morale di gran parte dell’umanità. O, per dirla con Hermann Cohen, fondatore della scuola di Marburgo e figura di spicco del neokantismo, si possono intendere come una sorta di equazione assoluta donata all’uomo (in Scritti ebraici, Berlino 1924).
Nella Bibbia si trovano due versioni con lievi varianti delle «dieci parole». Si leggono nell’Esodo (20,1-17) e nel Deuteronomio (5,6-21). La tradizione cattolica nel presentarle si discosta da ebrei ed evangelici. Già Agostino operò una distinzione nel Decalogo che lasciò una duratura traccia: divise i tre Comandamenti iniziali dai successivi sette, attribuendo ai primi i doveri verso Dio e ai successivi quelli verso gli uomini. Ma tali considerazioni continuarono per secoli. Per offrirne un esempio, diremo che un filosofo e teologo quale Duns Scoto, il Doctor Subtilis morto a Colonia nel 1308, sostiene che i Comandamenti della seconda tavola, ovvero dal quarto al decimo, non si dovrebbero ritenere inerenti alla legge naturale (in Reportata parisiensa; ribadisce in Scriptus Oxoniense). Di contro Tommaso d’Aquino, che affronta l’argomento nella Summa Theologiae, è convinto che tutti i precetti del Decalogo appartengano alla legge di natura.
La trascrizione del testo delle Tavole riportato nei catechismi cattolici è frutto di interventi maturati nel tempo. Significativo è il contributo di Alfonso Maria de’ Liguori e l’influenza che esercitò dal XVIII secolo. Il santo partenopeo intese i Comandamenti come il sommario della teologia morale: per tale motivo cercò di compendiare in ogni proposizione un aspetto di vita. Il caso più evidente è nel sesto precetto, «non commettere adulterio»; egli preferì il più ampio «non commettere atti impuri». Sant’Alfonso desiderava investire tutta la sessualità. Lui stesso, d’altra parte, osservò regole rigidissime per trattare codesta materia: è noto che le pagine sulla morale matrimoniale, presenti nella sua opera, le vergò in ginocchio per non cadere in tentazione.
Si può affermare che ogni epoca abbia bisogno di ripensare e far rivivere nel proprio tempo i Comandamenti. Gianantonio Borgonovo, biblista e autore del saggio Torah e storiografie dell’Antico Testamento (Elledici 2012), ci confidava a proposito delle attuali riletture: «La ripresa di queste riflessioni trova significato nel valore di mitzwà, ovvero una tensione di mezzo tra l’amore di Dio che precede ("Io sono il Signore Dio tuo che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi...") e l’amore che segue il Comandamento stesso e che diventa legge, sentenza, decreto». Per questo ebraista il Decalogo ha in sé una sorta di energia infinita, che «da una parte va all’originaria rivelazione del Sinai (Horeb) e dall’altra chiede di essere ogni volta attualizzata nell’oggi».
Ora tornano in distribuzione I Comandamenti editi dal 2010 (Il Mulino). Sono commentati, chiosati, fatti rivivere da teologi, filosofi, biblisti ma anche da economisti e giuristi (Non rubare, ottavo volume, è trattato da Paolo Prodi e Guido Rossi). Il primo di essi, Io sono il Signore Dio tuo, parole che introducono le Tavole della Legge, è firmato da Piero Coda e Massimo Cacciari. Il percorso tracciato parte dalla semantica del Nome per giungere alle riflessioni sul Deus-Trinitas. Da un lato si esamina, tra l’altro, l’autopresentazione di Dio di Esodo 3,14 «Io sono colui che sono» (ehjeh asher ehjeh), e che Piero Coda mostra nelle diverse interpretazioni non escludendo quella nata dalla versione greca della Bibbia dei Settanta (ego eimi ho on: si potrebbe addirittura tradurre «Io sono l’Essente»); dall’altro ci si chiede chi sia «l’Uno dell’Esodo». In tal caso Massimo Cacciari indicapercorsi che aiutano il lettore ad avvicinarsi al «segreto del Nome divino», anche se resta «inafferrabile e ineffabile». «Non interessa tanto il Nome - scrive - ma ciò che l’Essere di Dio può. La sua natura è di essere, non di essere nominato, e di essere ponendo "fuori" di sé tutta la propria potenza».
In margine a Coda e Cacciari notiamo che per meglio cogliere il significato della frase «Non avere altri dèi di fronte a me» (Esodo 20,3; Deuteronomio 5,7), il primo ordine di Dio del Decalogo, è consigliabile affidarsi a una considerazione di Martin Buber: «La dottrina della unicità ha la sua ragione vitale non nel fatto che ci si formi un giudizio sul numero di dèi che ci sono e si cerchi magari di verificarlo, bensì nella esclusività che regge il rapporto di fede, come esso regge il vero amore tra uomo e uomo; più esattamente: nel valore e nella capacità totale insiti nel carattere esclusivo... L’unicità nel "monoteismo" non è, dunque, quella di un "esemplare", ma è quella del partner nella relazione interpersonale, finché questa non viene rinnegata nell’insieme della vita vissuta» (Königtum Gottes, Opere II, Monaco di Baviera 1964). Non è dunque avventato credere che il concetto fondamentale espresso da questo primo Comandamento sia di carattere esistenziale: è una scelta radicale che guida la vita. D’altra parte, il suggerimento di Buber ci aiuta a meglio comprendere la traduzione delle parole ’al-panaj, che si potrebbero rendere «oltre a me», «di fronte a me», «al mio fianco», «contro di me», «a mia onta» e altro, portandoci anche lontano dal comando di Dio.
Ricordiamo infine che questa serie di commenti alle Tavole della Legge è di undici volumi e non dieci. L’ultimo, Ama il prossimo tuo (Enzo Bianchi e Massimo Cacciari), è dedicato al Comandamento cristiano per eccellenza, già comunque presente nel Levitico: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (19,18).
Con Cristo diventa la sintesi delle leggi che parlano della relazione con l’altro. Il Vangelo di Giovanni riporta: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (15,12); Paolo, nell’Epistola ai Romani, precisa: «Infatti il precetto: non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso» (13,9).
È come manna dal cielo che regala libertà e spirito di fratellanza
di Erri De Luca (Corriere della Sera, 19 maggio 2010)
In una città dove arrivo per la prima volta assaggio l’acqua di una fontana e il pane di un forno. Sono il biglietto da visita del posto. L’acqua è lì da prima della presenza della nostra specie, il pane lo abbiamo aggiunto noi. Viene dal sud del mondo, dall’oriente, ha attraversato l’infinita selezione delle spighe, l’intelligenza di millenarie civiltà contadine. Contiene il meglio della sapienza alimentare dell’umanità.
Trent’anni fa lavoravo in cantiere con operai del sud che rientravano a casa il sabato sera. Tornavano il lunedì con pagnotte che duravano fresche per la settimana, impastate e cotte al forno da mani di mogli. Profumavano di case imbiancate a calce. Riuniti intorno alla mensa di mezzogiorno li ascoltavo ripetere un ritornello che traduco: «Fabbrichiamo casa agli altri, ma la nostra rimane un progetto». Poi tagliavano il pane imbracciandolo come un violino, affettando verso il petto. Mi allungavano un taglio, ricambiavo col vino. A differenza dell’uso di tavole eleganti, a quelle mense il bicchiere andava riempito fino all’orlo. Il resto no, ma vino e pane andavano divisi.
Nella scrittura sacra la manna si chiama pane dei cieli. Si legge la sua apparizione nel capitolo 16 del libro Esodo/Shmot. È la fornitura del nutrimento indispensabile per i 40 anni di Israele nel deserto del Sinai. La libertà che affrontano per la prima volta è uno sbaraglio assistito dal cielo. Una colonna di fuoco li orienta di notte, una di nuvole guida nel giorno. Dall’alto piove un cibo condito di regole e d’istruzioni per l’uso. Esige innanzitutto di essere raccolto e distribuito in parti uguali. Nessuno deve temere di averne ricevuto di meno. È legge che mette pace tra gli uomini.
Poi deve servire da cibo e non se ne deve fare commercio. Perciò dura solamente un giorno, chi lo conserva per quello seguente, se lo trova marcito. Il fornitore di manna impedisce l’accaparramento, la scorta, vuole che abbia solo valore di uso e nessun valore di scambio.
Inoltre ne fa piovere più dello stretto necessario pro capite. Questo spreco apparente è la più bella di tutte le premure: il fornitore ha a cuore che nessuno raccolga l’ultima porzione, quella scartata dagli altri. Nessuno si deve affrettare nel dubbio di essere l’ultimo, che va a racimolare l’avanzo calpestato. Potevano andare alla provvista fuori dell’accampamento con passo sereno, senza contendersi il pane quotidiano. Perché non è pane di umiliati, ma pane di affrancati in cammino dentro la libertà. È cibo di riscatto, gustato nelle tende insieme a una divinità che si fa zingara per accompagnare. La manna è stato il più buono dei pani del sud, perché era il più giusto.
Smise all’ingresso di Israele in terra di Canaan, ma non è perduta la formula nè la ricetta. Chi nel suo giorno si fa distributore di pane a chi ne manca, è il vice di quel distributore e chi assaggia il suo pane ritrova le proprietà organolettiche della manna: parti uguali in spirito di fratellanza, dentro la libertà. È questo il pane del sud, che è pane suddiviso.
La religione del futuro per Hans Küng
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 16 maggio 2010)
In questi giorni anche da noi Hans Küng ha dominato il dibattito religioso: del suo ultimo libro «Ciò che credo» (Rizzoli) si è parlato un po’ dappertutto. Un fatto che già la dice lunga sulla situazione del cattolicesimo nel nostro paese.
Una situazione di forte presenza, ma anche di vivace discussione. Küng è un credente convinto che però fra i teologi cattolici è uno dei più critici (gli può fare compagnia, fra gli altri, Raimon Panikkar). I suoi attacchi alle posizioni vaticane non riguardano soltanto alcune questioni particolarmente discusse, come quelle che toccano il sesso, la salute, il sacerdozio.
La critica di Küng va più a fondo e riguarda soprattutto il rapporto fra il cattolicesimo e le altre posizioni religiose. È in crisi soprattutto la pretesa cattolica di essere l’unica verità assoluta, relegando tutte le altre posizioni in una sorta di serie B. «Sono e resto - afferma Küng - membro leale della mia Chiesa. Credo in Dio e nel suo Cristo, non credo tuttavia ’nella’ Chiesa. Al suo interno rifiuto ogni tentativo di mettersi sullo stesso piano di Dio, ogni trionfalismo arrogante e ogni trionfalismo egoistico, resto aperto alla comunità della fede cristiana nella sua totalità, a tutte le Chiese».
Una posizione ecumenica, oggi largamente condivisa anche in campo cattolico. E ancora: «Io non spero in una unità delle religioni o in un sincretismo di qualche tipo. Spero in una pace ecumenica fra le religioni mondiali. (...) Io non rinuncio alla speranza. Questa è la mia visione: non c’è pace fra le nazioni senza la pace religiosa, non c’è pace religiosa senza dialogo fra le religioni».
E sul futuro: «Ha un futuro solo una religione che mostra il suo volto umano e benevolo, un volto invitante e non un viso dai tratti stravolti, che inducono disgusto». È questo il volto dell’odierno cattolicesimo? Il libro di Küng ci spinge a chiedercelo.
La critica di Küng va più a fondo e riguarda soprattutto il rapporto fra il cattolicesimo e le altre posizioni religiose. È in crisi soprattutto la pretesa cattolica di essere l’unica verità assoluta, relegando tutte le altre posizioni in una sorta di serie B. «Sono e resto - afferma Küng - membro leale della mia Chiesa. Credo in Dio e nel suo Cristo, non credo tuttavia ’nella’ Chiesa.
Armaghedon, il Medio Oriente, e la Bibbia
“IL FULCRO dell’intera predizione profetica”, sostiene lo scrittore Hal Lindsey, “è lo stato di Israele”. (The 1980’s: Countdown to Armageddon) Lo ‘scenario di Armaghedon’ dei fondamentalisti, quindi, si basa sulla convinzione che Dio intrattenga una relazione particolare con Israele. Dio, credono, interverrà quando i nemici di quello stato tenteranno di distruggerlo. La Bibbia, tuttavia, indica che la nazione ebraica perse il favore e la protezione di Dio quando rigettò Suo Figlio, Gesù Cristo. (Atti 3:13, 14, 19) Gesù stesso disse loro chiaramente: “Il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a una nazione che ne produca i frutti”. Rigettati del tutto? Ciò nondimeno, i già citati teologi John F. e John E. Walvoord replicano: “L’Apostolo Paolo indicò chiaramente che le promesse dell’Antico Testamento, riguardanti Israele, dovevano ancora adempiersi. Egli scrisse: ‘Io dico dunque, Iddio ha Egli reietto il suo popolo? Così non sia!’ (Romani 11:1)”. (Pag. 36) Non citano, però, il resto di quel versetto: “Poiché anch’io sono Israelita, del seme d’Abraamo, della tribù di Beniamino”. Cosa voleva dire Paolo con queste parole? Paolo non credeva di certo che, in quanto nazione, gli israeliti occupassero ancora un posto particolare rispetto a Dio, visto che l’apostolo disse di avere “in cuore grande dolore e incessante pena” per la loro apatia nei confronti della bontà di Dio. (Romani 9:2-5) In Romani 9:6 Paolo aggiunge: “Comunque, non è come se la parola di Dio [rivolta ad Abraamo] fosse venuta meno. Poiché non tutti quelli che sorgono da Israele [naturale] sono realmente ‘Israele’”. Notate ciò che dice Paolo: poiché gli ebrei avevano rigettato Cristo, Dio non li riconosceva più come Israele! L’unta congregazione dei seguaci di Gesù Cristo era ora il vero “Israele”, lo strumento tramite il quale Dio avrebbe benedetto tutta l’umanità.
Il più grande uomo che sia mai esistito
SI PUÒ dire di qualcuno, senza timore di essere smentiti, che è il più grande uomo che sia mai esistito? Da cosa misurate la grandezza di un uomo? Dal suo genio militare? dalla sua forza fisica? dalle sue capacità intellettuali? La grandezza di un uomo, disse lo storico H. G. Wells, si può misurare ‘da ciò di cui è stato l’ispiratore, e dall’avere indotto altri a pensare seguendo criteri interamente nuovi e con un vigore che non si è spento con lui’. Wells, pur non professandosi cristiano, ammise: “Giudicato con questo metro, Gesù supera tutti”. Alessandro Magno, Carlo Magno (chiamato “Magno” già dai suoi contemporanei) e Napoleone Bonaparte furono potenti sovrani. Con la loro formidabile presenza esercitarono grande influenza sui loro sudditi. Eppure Napoleone avrebbe detto: “Gesù Cristo ha influito ed esercitato autorità sui Suoi sudditi senza la Sua presenza fisica e visibile”. Con i suoi insegnamenti dinamici e con il modo in cui visse la sua vita conforme ad essi, Gesù ha influito potentemente sulla vita degli uomini per circa duemila anni. Uno scrittore fece questa appropriata osservazione: “Tutti gli eserciti che abbiano mai marciato e tutte le flotte che siano mai state costruite e tutti i parlamenti che si siano mai radunati e tutti i re che abbiano mai governato, messi insieme, non hanno influito sulla vita dell’uomo sulla terra in maniera così potente”.
Il leader indù Mohandas Gandhi avrebbe detto: “Abbeveratevi senza meno alle fonti che trovate nel Sermone del Monte [una parte degli insegnamenti di Gesù Cristo contenuti nella Bibbia] . . . L’insegnamento del Sermone è infatti rivolto a ciascuno di noi individualmente”.
Gandhi ha detto: “Non conosco nessuno che abbia fatto per l’umanità più di Gesù. E non c’è nulla di male nel cristianesimo”. Tuttavia ha aggiunto: “Il problema siete voi cristiani. Siete ben lungi dal vivere secondo quello che insegnate”.
SI DICE che Mohandas Gandhi abbia fatto un elenco di quelle che definì le “sette vergogne del mondo”. Ecco quali sono: ● Ricchezza senza lavoro ● Piacere senza coscienza ● Conoscenza senza virtù ● Commercio senza morale ● Scienza senza umanità ● Adorazione senza sacrificio ● Politica senza princìpi Sembra che suo nipote Arun Gandhi ne abbia aggiunta un’ottava: ● Diritti senza responsabilità
(1 Timoteo 3:1-5) Questa dichiarazione è fedele. Se un uomo aspira all’incarico di sorvegliante, desidera un’opera eccellente. 2 Il sorvegliante deve perciò essere irreprensibile, marito di una sola moglie, di abitudini moderate, di mente sana, ordinato, ospitale, qualificato per insegnare, 3 non ebbro schiamazzatore, non percotitore, ma ragionevole, non bellicoso, non amante del denaro, 4 uomo che diriga la propria casa in maniera eccellente, avendo i figli in sottomissione con ogni serietà; 5 (se in realtà un uomo non sa dirigere la propria casa, come avrà cura della congregazione di Dio?)
(2 Timoteo 3:1-5) Ma sappi questo, che negli ultimi giorni ci saranno tempi difficili. 2 Poiché gli uomini saranno amanti di se stessi, amanti del denaro, millantatori, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, sleali, 3 senza affezione naturale, non disposti a nessun accordo, calunniatori, senza padronanza di sé, fieri, senza amore per la bontà, 4 traditori, testardi, gonfi [d’orgoglio], amanti dei piaceri anziché amanti di Dio, 5 aventi una forma di santa devozione ma mostrandosi falsi alla sua potenza; e da questi allontànati.
Con tutto il rispetto del mondo e il bene del mondo...Ciao! saluti sinceri con simpatia ed empatia.
Una predica per la chiesa
di Goffredo Fofi (l’Unità, 16 maggio 2010)
Nei confronti della chiesa, credo che gli italiani, anche i più esigenti, oscillino da sempre tra una superficiale riverenza e una superficiale irriverenza, e che in ogni caso molti non sappiano farne a meno e tutti la considerino una presenza storicamente inevitabile. Fa parte del nostro paesaggio, da secoli, volere o volare, e fa parte, direttamente e indirettamente, dell’esperienza di tutti o quasi tutti, i credenti come i non credenti. Credenti? Secondo la dottrina, mi pare che per dirsi tali bisognerebbe almeno credere nella presenza vera del corpo di Cristo nell’ostia e nella resurrezione dei corpi. E quanti italiani potrebbero onestamente dire di crederlo?
Nelle società antiche, i membri della tribù, della comunità o di una più ampia società si distinguevano, dicono etnologi e antropologi, secondo un tripartizione classica: i contadini, i guerrieri, i sacerdoti (di essa trovo tracce perfino nella festa del mio paese, nella Corsa dei Ceri che si svolge da non so quanti secoli a Gubbio, il 15 di maggio e cioè ieri, e a correre c’ero anch’io).
Ogni società aveva e ha bisogno di coloro che «amministrano i sacramenti» e cercano di dare un senso all’esistenza dei singoli, che danno verticalità - non so dire altrimenti - alla nascita e morte e alle altre scadenze dell’umano tragitto, alle scelte dei singoli e dei gruppi, ai momenti di festa e di lutto dei singoli e dei gruppi. Una ragion d’essere della chiesa dovrebbe dunque essere di accompagnare nel corso dell’esistenza, rispondendo ai bisogni di senso che singoli e comunità esprimono inevitabilmente, tanto più quanto meno ci pensano gli altri - i governanti, i politici, i «guerrieri».
Anni fa, discutendo del fallimento del comunismo e parlando di Pasolini e di Testori si disse che un errore primario di quella storia fu il rifiuto di considerare nel loro enorme peso i due aspetti fondamentali del corpo e del sacro. È opinabile che la chiesa si occupi oggi seriamente di questo, basti pensare all’accumulo di pregiudizi e chiusure che ne caratterizza il confronto con le novità dei comportamenti creati dalle mutazioni che abbiamo dovuto subire. Per dire: alla crisi della famiglia si risponde invece che sacralizzando le nuove forme che cercano di sostituirla «di fatto» perpetuandola, demonizzandole; al problema della sovrappopolazione si risponde con l’ossessione anti-pillola; alle sante richieste dell’ecologia, con il disprezzo, per esempio, per il vegetarianesimo e per altre cose che conseguono all’ossessione antropocentrica per cui tutto il creato e tutte le creature hanno per scopo la soddisfazione dei presunti bisogni dell’uomo che, manipolati dall’economia e dai suoi poteri, vengono spinti oggi verso una crescente turpitudine; eccetera.
Ciò di cui siamo grandemente debitori nei confronti della chiesa, è invece che essa ricordi al mondo, sempre, il rispetto dei poveri, che in Italia vuol dire oggi, per esempio, il rispetto per gli immigrati. Se non lo facesse, tradirebbe la sua matrice cristiana. E se non ci fosse, l’Italia in mano oggi ai politici e ai mascalzoni dell’impresa pubblica e privata, sarebbe perfino peggiore di ciò che è. La chiesa esiste da secoli e secoli, e se ha retto a mille trasformazioni una ragione ci dovrà pur essere, anche per chi non considera la provvidenza...
Se non ci fosse la chiesa, staremmo molto peggio, io credo. Ma la chiesa è a un bivio, che è proprio di civiltà, di assunzione chiara di responsabilità verso il futuro. È forse la sola istituzione, qui, che nonostante tutto sembra preoccuparsi delle cose gravi e di fondo. Lo fa male per mille motivi, primo fra tutti una certa scarsità morale e non solo culturale della maggior parte di chi vi comanda, cardinali e vescovi.
Per questo mi ha impressionato e convinto l’opuscolo edito da Nottetempo di cui consiglio la lettura, «La Chiesa e il Regno», che è una specie di predica tenuta dall’autore dentro Notre Dame a Parigi su richiesta di quei parrocchiani. Costa tre euro, l’ha scritto Giorgio Agamben, che è il più noto e apprezzato dei nostri filosofi all’estero (meno in Italia, per ragioni che sarebbe lungo elencare). È - rispettoso ed esigente - di una chiarezza, di una misura, di una radicalità ammirevoli. Così conclude: «La domanda che sono venuto qui a porvi, senza avere, per farlo, altra autorità se non un’ostinata abitudine a leggere i segni del tempo, è questa: la Chiesa si deciderà finalmente a cogliere la sua occasione storica e a ritrovare la sua vocazione messianica? Il rischio, altrimenti, è che sia trascinata nella rovina che minaccia tutti i governi e tutte le istituzioni della terra».
L’ITALIA, Il "MONOTEISMO" DELLA COSTITUZIONE, E IL "BAAL-LISMO" DEL MENTITORE (1994-2010). IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI, ATEI E DEVOTI ...
- (...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino (...)