Dio è amore ("charitas") o Dio è caro-prezzo ("caritas", secondo il titolo della prima enciclica di Papa Benedetto XVI)?!

LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA ALLO SBANDO, VERSO LA CATASTROFE. Un magistero minacciato da una corruzione non finanziaria ma mentale!!! Un’inchiesta di Barbara Spinelli - a cura di pfls

domenica 18 novembre 2007.
 
[...] Son pochi, coloro che sanno spiegare il versetto di Matteo 22,21: quel «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» che determina il rapporto cristianesimo-Stato nella storia d’Europa. «La formula è in realtà una scatola vuota», mi dice Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale: «perché nessuno può dire cosa si debba dare a Cesare e cosa alla Chiesa». Perché per secoli gli esegeti hanno ritenuto che la distinzione evangelica «implichi la superiorità del versante riservato a Dio (cioè alla Chiesa) su quello riservato a Cesare», scrive in un libro illuminante Giovanni Miccoli (In difesa della Fede - La Chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Rizzoli). La vera questione irrisolta, spiega Miccoli, è chi abbia «la competenza delle competenze»: chi decida quel che spetta all’uno o all’altro. Bruno Forte preferisce parlare di «senso dello Stato», più che di laicità. Ma neanche questa parola chiarifica. Se la Chiesa antepone la sua verità sul diritto naturale e il bene morale alle leggi del Parlamento, è chiaro che sarà lei a dire come lo Stato deve legiferare su questioni etiche. Inevitabilmente ci sarà ingerenza anziché separazione costituzionale fra Stato e religione [...]

L’INCHIESTA

Le nuove piaghe della Chiesa

Il "dopo Ruini" fa i conti con la secolarizzazione e con una democrazia malata

di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 18/11/2007)

Questa domenica, in un rito celebrato a Novara, sarà proclamato beato Antonio Rosmini, uomo della Chiesa e del Risorgimento, filosofo cristiano e laico convinto, autore di un libro che nel 1849 fu messo all’indice perché indicava le Cinque Piaghe della Santa Chiesa e denunciava con dure parole l’immistione tra potere civile e religioso. Dicono che seppe della condanna mentre scriveva il Commento al Vangelo di Giovanni, e la notizia non lo turbò. Appena un anno prima, Pio IX voleva nominarlo segretario di Stato.

«Rimase fermo al suo posto, nel testo non c’è traccia di quel che gli successe», mi dice Bruno Forte, il teologo e arcivescovo di Chieti che una volta ha detto di sé: «Sono un mendicante del cielo, come sognava Jacques Maritain. Sono un uomo che ha un orecchio incollato alla terra per coglierne le germinazioni nascoste e un orecchio in ascolto del cielo. Vivo la fatica di coniugare questi due ascolti». L’episodio di Rosmini che ascolta imperturbato la condanna e sembra avere anche lui due modi di ascoltare e di dire ­ uno veemente che accusa, l’altro che umile si ritrae ­ non semplifica l’esplorazione di quel che oggi è la Chiesa italiana.

Ogni organizzazione umana sperimenta i dilemmi, ma nella Chiesa la complexio oppositorum è qualcosa di più: è condizione esistenziale, segreta molla di un durare millenario. Non è semplice, per un laico non vaticanista, raccontare una Chiesa che poche generazioni orsono condannò Rosmini e oggi lo beatifica, che negli stessi anni sospese a divinis padre Curci, fondatore della rivista gesuita Civiltà cattolica, e adesso venera chi prima difese il potere temporale e poi considerò provvidenziale perderlo. Quel che nel magistero è rigido domani può addolcirsi, quel che è ai margini diverrà forse centrale. È poi c’è, negli uomini di Chiesa, la questione eterna della parresia: fin dove avventurarsi, nell’esprimere liberamente ciò in cui si crede? Come coniugare due imperativi santi come verità e obbedienza? Per questo, nell’inchiesta breve cui mi accingo, non citerò tutti i rappresentanti della gerarchia con cui ho parlato. Ho preferito ascoltare la loro parola libera ­ la parresia ­ rispettando l’anonimato. Inoltre restringerò l’esplorazione, perché si può dire poco in qualche articolo.

Parlerò dunque di come viene percepita, nella Chiesa, la crisi di un cattolicesimo che è alle prese, tuttora, con la scomparsa della Dc. Un cammino difficilissimo è cominciato da allora, complicato da una società ormai multireligiosa, multiculturale. La Chiesa che ho incontrato alla vigilia della beatificazione di Rosmini è incerta, in piena transizione. Parla molto, ma è anche afasica. Impossibile afferrarla come monolito: a dispetto degli sforzi compiuti da due Pontefici per renderla compatta, non c’è una Chiesa, una gerarchia, una voce che la rispecchi. Neppure sull’etica c’è un’opinione unica, nonostante la morale (i valori non negoziabili) sia vissuta come bussola dei rapporti con lo Stato nell’epoca intranquilla del dopo-Dc. Soprattutto, non c’è un’unica analisi dell’influenza cattolica sulla politica, e la società. L’unica cosa sicura è lo spazio enorme occupato dal tema della laicità: tutti ne sono tormentati, come non accadeva da decenni. Il fervore con cui se ne discute (per contestare un’ingerenza che si concentra oggi su etica della nascita, della famiglia, della morte, o per negare che di ingerenza si tratti) fa pensare ai torbidi dell’800, che in questi giorni saranno rievocati.

La laicità, nessuno degli uomini di Chiesa sa dirmi quel che ne pensa, senza aggiungere aggettivi che la stemperano fino a invalidarla: la laicità deve esser sana, si precisa, citando un aggettivo che fu di Pio XII. Comunque non deve essere laicismo, questo male impetuosamente indicato ma di rado spiegato. Eppure la distinzione è semplice: a differenza della laicità, il laicismo non è un metodo ma un’ideologia, che santifica lo Stato e nega che il cristianesimo abbia dimensioni sociali oltre che private. Ma non è il laicismo che spiace alle gerarchie, bensì il metodo rigoroso nel separare Stato e Chiesa. Indispone l’indifferenza e la non confessionalità dello Stato democratico, tacciate ambedue di relativismo. In fondo, i critici della laicità hanno nostalgia di uno Stato etico, che somiglia pochissimo allo Stato minimo cui anelava Rosmini. Non stupisce l’alleanza che vede uniti in questa sete ideologica vescovi conservatori e teo-con di destra o sinistra.

Son pochi, coloro che sanno spiegare il versetto di Matteo 22,21: quel «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» che determina il rapporto cristianesimo-Stato nella storia d’Europa. «La formula è in realtà una scatola vuota», mi dice Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale: «perché nessuno può dire cosa si debba dare a Cesare e cosa alla Chiesa». Perché per secoli gli esegeti hanno ritenuto che la distinzione evangelica «implichi la superiorità del versante riservato a Dio (cioè alla Chiesa) su quello riservato a Cesare», scrive in un libro illuminante Giovanni Miccoli (In difesa della Fede - La Chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Rizzoli). La vera questione irrisolta, spiega Miccoli, è chi abbia «la competenza delle competenze»: chi decida quel che spetta all’uno o all’altro. Bruno Forte preferisce parlare di «senso dello Stato», più che di laicità. Ma neanche questa parola chiarifica. Se la Chiesa antepone la sua verità sul diritto naturale e il bene morale alle leggi del Parlamento, è chiaro che sarà lei a dire come lo Stato deve legiferare su questioni etiche. Inevitabilmente ci sarà ingerenza anziché separazione costituzionale fra Stato e religione.

L’uomo della Chiesa più discusso, nelle conversazioni che ho avuto, è Camillo Ruini: presidente della Conferenza episcopale fino al marzo scorso, ancor oggi presente nella Cei come vicario del Pontefice per la città di Roma. Per alcuni è la persona forte che ha pilotato la Chiesa nel dopo-Dc. Nominato da Giovanni Paolo II, Ruini appare vincente, grazie al peso abnorme che da anni gli attribuiscono i media: ogni suo detto ha l’audience riservata agli statisti. Lui stesso sembra compiacersene. Il 5 novembre, presentando a Milano due suoi libri, ha commentato: «È vero. Sono stato e sono un animale politico». E lo storico Galli della Loggia ha glossato: «La Chiesa ha sempre fatto politica. Non può non fare politica».

Nel mio viaggio nella Chiesa ho avuto un’impressione ben più complessa. La Chiesa ha fatto sempre politica, ma sono molti oggi a esser convinti che la via debba essere un’altra, che di nuovo il magistero sia minacciato da una corruzione non finanziaria ma mentale: che il cattolicesimo farebbe bene a de-politicizzarsi radicalmente, come consigliato dallo studioso Jan Assmann che denuncia un’epoca dove i monoteismi non son più oppio ma dinamite dei popoli (Non avrai altro Dio, Mulino). Sono molti a desiderare che i sacerdoti parlino non politicamente, ma profeticamente. La Chiesa non si identifica oggi con Ruini: né quella sacerdotale, né quella dei fedeli. Chi non condivide la politicizzazione il più delle volte tace, ma il dissenso è diffuso (l’80 per cento dei vescovi disapprova il cardinale). «I costi pastorali della politica di Ruini sono stati enormi»: questa la frase ricorrente che sento. Alcuni certo lo difendono. Altri ricordano che sono i due ultimi Papi ad aver voluto l’arroccamento istituzionale. I più sperano nell’uscita dalla Cei del cardinale. Con speranza guardano a Bagnasco, che oggi guida la Cei: l’arcivescovo di Genova non osteggia il predecessore ma sta distanziandosi dalla politica. Si occupa più di attività pastorale, con il consenso di tanti.

Tutto sta a vedere cosa sia vittoria e cosa sconfitta, per la Chiesa. E se il potere di Ruini generi autorevolezza. Il cardinale è convinto di sì, lo ha detto con qualche trionfalismo a Aldo Cazzullo, il 4 novembre sul Corriere della Sera. Che la sua strategia sia vincente sarebbe attestato dal referendum del 2005 sulla procreazione artificiale, quando prescrisse l’astensione perché mancasse il quorum, e vinse. Questo spiega il suo odierno appagamento: «Il nostro impegno è stato coronato dal successo, per giunta più largo del previsto. Penso, forse in modo un poco malizioso, che quel che più ha disturbato sia stato proprio questo (...) Constato che quando l’impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa "perde" (...) tutto fila liscio. Nel caso contrario (...) riprendono vigore le croniche accuse di interventismo». Colpito, l’intervistatore constata la «riconquista quasi gramsciana dell’egemonia cattolica sulla società».

Alla Compagnia di Gesù simili appagamenti sono sgraditi: ottenere il fallimento del referendum non fu vera vittoria, proprio perché fece credere nella perfetta coincidenza tra potere e autorevolezza. L’occasione non fu usata per dire pensieri forti, ma per sommare, furbescamente, l’astensionismo cattolico con il vasto astensionismo non confessionale. Alla rivista Il Regno raccolgo opinioni simili: la riconquista della Chiesa fu autoinganno, la quota di astensioni mobilitata da Ruini non superò il 10-12 per cento. Qui è uno dei costi della Chiesa politicizzata: qui una sua piaga. È la piaga di un magistero che perde autorità, proprio mentre accumula potere. Che si trasforma in lobby, scriveva lo storico Pietro Scoppola. Che si getta nella politica alla stregua d’un partito: mortale come tutti i partiti, episodicamente cruciale come tutti i partiti, dipendente dall’audience come tutti i partiti. Partecipe a pieno titolo della democrazia malata che pretende di combattere.

(1-continua)


Sul tema, nel sito, si cfr.:

IL PAPA CHE RIDE, L’AFRICA CHE SOFFRE E LA LEZIONE DI SUOR EMMANUELLE A GIOVANNI PAOLO II. L’analisi di Barbara Spinelli

La Chiesa di Costantino, l’amore ("charitas") e la nascita della democrazia dei moderni

Unione sovietica e Chiesa cattolica: una somiglianza catastrofica e un nodo ancora non sciolto. Tutta l’analisi in una vignetta...


La Chiesa e le tentazioni del dopo-Dc

-  Unità politica o ispirazione etica
-  La fermezza di Benedetto XVI

di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 22/11/2007 - 7:2)

Nonostante le numerose critiche che le vengono rivolte, la Chiesa in Italia appare a un primo sguardo sicura di sé, animata da certezze intense su questioni che per molti non sono così certe. Appariva tale anche nei ventisette anni trascorsi sotto la guida di Giovanni Paolo II, ma Benedetto XVI trasmette un’immagine di sé ancora più ferma, nitida. È la diligente impalcatura dottrinale che crea quest’impressione di saldezza: i valori etici su cui il magistero non vuol negoziare sembrano moltiplicarsi, irrigidirsi. Dedito soprattutto a insegnare, concentrato sulla teologia, il Papa tedesco ha qualcosa di dimesso e tanto più granitico, imperturbato.

Sul punto più critico della laicità - quello dei comportamenti morali che secondo la Chiesa appartengono alla sfera dei diritti naturali e divini, non negoziabili perché su essi lo Stato non può legiferare - le opinioni dei due Pontefici coincidono. Ma Giovanni Paolo II aveva un modo speciale di accordare sapienza e «dotta ignoranza». Gianfranco Brunelli, direttore della rivista Il Regno, lo evoca così: «Egli aveva una visione politica del papato, fortemente calata nella storia e dunque in grado di modificare e adattare le risposte della Chiesa. C’era in lui la convinzione che il cristianesimo non può fare a meno della dimensione orizzontale e organizzativa, ma che non può perdere - pena smarrire se stesso - la verticalità dell’annuncio e della profezia. Egli non scelse mai univocamente tra istituzione e annuncio, cercò di tenere assieme per così dire i due contrari e questo metodo aperto, meno evidente nel suo successore, più capace di una propria prospettiva teologica, fu benefico per la Chiesa e l’Italia».

Tanta inflessibilità non nasce tuttavia solo da sicurezza, come tutte le inflessibilità. È una forza che impressiona e trascina ma scaturisce da un pessimismo che in Benedetto XVI è profondo, e sul quale più volte viene richiamata la mia attenzione. I miei interlocutori mi parlano di vere angosce (alcuni usano la parola ossessioni) che non riguardano solo l’Italia: angoscia di una possibile uscita del cristianesimo dall’Europa, angoscia di una perdita d’autorità, di una caduta nell’irrilevanza. Il disagio nel rapporto Stato-Chiesa, simultaneo in due paesi anticamente cattolici come Spagna e Italia, dilaterebbe questo stato d’animo. Non sono dimenticabili le parole terribili che il cardinale Ratzinger scrisse per Giovanni Paolo II nel 2005, in occasione della Via Crucis: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! (...) Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli!».

È il motivo per cui credo che quello che l’occhio percepisce oggi guardando la Chiesa - l’insistere del Pontefice sulle «confusioni» dello spirito postconciliare, gli arretramenti su questioni controverse come la liturgia e il dialogo ecumenico con le chiese protestanti, le pressioni sullo Stato italiano perché non legiferi su alcune questioni etiche - sia solo una parte della sua verità. L’altra parte è il mal-essere in cui la Chiesa si trova, la fatica di trovare una strada che l’aiuti a distendere i rapporti con la politica, che combini di nuovo il potere con l’autorevolezza, che nel caso italiano trasformi la diaspora del dopo-Dc in un’occasione di ripresa e non di sfiducia.

Da Mani Pulite

Giacché questo è il trauma che affligge gli uomini di Chiesa in Italia. Mani Pulite e la nascita del bipolarismo sono eventi ormai scontati per chi fa politica e la commenta, ma per il mondo ecclesiastico la ferita è attualissima e non rimarginata. La Chiesa è nel mezzo del cammino di guarigione, se ci sarà guarigione, e lo sta percorrendo senza certezze granitiche e con sforzi non subito visibili. Ho potuto constatarlo parlando con chi è ansioso di cercare l’itinerario giusto, e imboccarlo.

Tutto cominciò nei tempi torbidi che l’Italia conobbe prima che apparisse Tangentopoli: tempi torbidi perché la Dc era stata una presenza rassicurante, e stava ora tramontando. Il partito cattolico rappresentava la Chiesa, e questo le dava libertà di movimento e anche una certa indifferenza al ruvido quotidiano della politica. Era una formazione che aveva la giusta dose di attenzione agli interessi ecclesiastici ma che era ben attenta a fissare limiti laici fermi, e al tempo stesso affidabili, prevedibili. Non erano mancati scontri duri, che avevano visto contrapporsi la Chiesa e grandi democristiani come Sturzo o De Gasperi. Ma la complessità del legame oltre a essere una garanzia semplificava l’esistenza ecclesiastica. La crisi venne quando quest’architettura si sfaldò, e fu allora che iniziò il travaglio.

L’appuntamento decisivo avvenne prima che la Dc scomparisse. Era il 1985, e a Loreto si riunì un convegno ecclesiale per discutere il rapporto futuro con la politica in Italia. La Chiesa si divise, e inizialmente non furono i riformatori a vincere. Era un’epoca di personalità forti nelle gerarchie: Anastasio Ballestrero guidava la Conferenza episcopale, Carlo Maria Martini ebbe il compito di presiedere il Convegno, e il primo relatore era Bruno Forte, oggi Arcivescovo di Chieti-Vasto. Viva e diffusa era la consapevolezza che una nuova epoca dovesse aprirsi: l’era della diaspora politica del cattolicesimo italiano, contrassegnata dalla decisione di «non dare più a nessuno deleghe in bianco». Veniva riconosciuto come compito urgente della Chiesa quello di divenire una coscienza vigile in un mondo sempre più complesso, decisa a servire il bene comune ma non più schierata. Questo significava autorizzare la diaspora del cattolicesimo, non puntare più sulla sua unità politica, accettarne la disseminazione in partiti anche contrapposti. Ad unire i cattolici non doveva più essere l’appartenenza partitica, ma l’ispirazione spirituale, etica. Su questa posizione erano profondamente d’accordo moltissimi Vescovi, a cominciare dai cardinali Martini, Ballestrero e Pappalardo, ma in un primo tempo non fu la loro linea che passò.

Erano contrari a essa i nostalgici del rapporto con la Dc che aveva dato tanta sicurezza, è vero, ma nel quale gli innovatori vedevano uno schema ormai imprigionante. Nel discorso che Giovanni Paolo II fece a Loreto sembrò che tra lui e i nostalgici ci fosse un’intesa di fondo, e la cosa non era stupefacente: il Papa aveva vissuto in Polonia le tribolazioni di uno scontro frontale tra potere ecclesiastico e potere politico, che non consentiva diaspore e scelte più spirituali. Tuttavia la sua libertà interiore era grande, e il Pontefice rimeditò i discorsi ascoltati. Dieci anni dopo, al Convegno Ecclesiale di Palermo del 23 Novembre ’95, anch’egli prendeva le distanze dal collateralismo che aveva caratterizzato gli anni della Dc, e incoraggiava il formarsi di una diaspora politica del cattolicesimo: «La Chiesa - disse - non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o per l’altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell’autentica democrazia». Era un sì alla diaspora politica, non a una diaspora etica: «Ciò nulla ha a che fare con una "diaspora" culturale dei cattolici, con un loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede, o anche con una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della dottrina sociale della Chiesa sulla persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace. E’ più che mai necessario, dunque, educarsi ai principi e ai metodi di un discernimento non solo personale, ma anche comunitario, che consenta ai fratelli di fede, pur collocati in diverse formazioni politiche, di dialogare, aiutandosi reciprocamente a operare in lineare coerenza con i comuni valori professati».

Il gioco dei partiti

L’itinerario della nuova vita in diaspora non è concluso, né è scontato il vero rinnovamento. I nostalgici hanno il loro peso e le loro convinzioni, e questo li ha spinti negli anni scorsi ad appoggiare il centro-destra e Berlusconi, pensando di poter suscitare un nuovo referente politico. Il giudizio spesso duro espresso contro Prodi è frutto da queste convinzioni: in particolare quando il capo del centro-sinistra, in nome di un cristianesimo adulto, si pronunciò contro la scelta astensionista della Conferenza episcopale, nel referendum del 2005 sulla procreazione assistita. Il termine impiegato - cristiano adulto - fu biasimato. Ma Prodi non inventava nulla: la parola era stata usata già nel ’65, ai tempi del Concilio Vaticano II. La costituzione pastorale Gaudium et Spes parla del «bisogno dei popoli di esercitare la loro libertà in modo più adulto e personale», e prospetta la «testimonianza di una fede viva e adulta, (...) opportunamente formata a riconoscere in maniera lucida le difficoltà e capace di superarle».

La diaspora tuttavia ha le sue insidie, le sue asperità. Prima insidia: la Chiesa può sentirsi invogliata a far politica in prima persona, intervenendo troppo pesantemente sul terreno dell’etica come se questo fosse un terreno che le è esclusivamente riservato. Come se in materia di nascita, morte, famiglia, uso della scienza, fosse lei a decidere quale sia l’interpretazione dell’articolo 7 della Costituzione, e cioè quel che spetta allo Stato e alla Chiesa (come se avesse lei «la competenza delle competenze», scrive lo storico Giovanni Miccoli nel libro In Difesa della Fede). Seconda insidia: il peso condizionante dei mezzi di comunicazione può trasformarsi in macigno, costringendo la Chiesa a mostrarsi sistematicamente molto più compatta e rigida di quel che in effetti è. Terza insidia: la Chiesa può sentirsi invogliata a non cercare una sintesi tra diverse culture, aprendo un dialogo diretto con la società e rivolgendosi prioritariamente ad essa, ma a imboccare la vecchia strada della sintesi ai vertici: tra politici e Chiesa, partiti e Chiesa, Stato e Chiesa. Sarebbe un ricadere nel passato, ma senza più reti di sicurezza. Sarebbe un conquistare potere, non autorità.

(2 - continua)


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