San Teilhard de Chardin
Gesuita, paleontologo e patrono della rete
di Carlo Formenti*
Che io sappia, finora nessuno ha fatto nomi per eleggere un Santo Patrono della Rete. Ma, ammettendo che esistano candidature a me ignote, mi permetto ugualmente d’avanzare la mia proposta: suggerisco che l’onore spetti a Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955) gesuita, paleontologo ed autore d’una imponente opera filosofica sul rapporto fra scienza e teologia. Sono sicuro che il suggerimento otterrebbe, per ragioni che spiegherò oltre, l’entusiastica accoglienza degli ambienti "cyberculturali" (soprattutto francesi e americani).
Entusiasmo che, purtroppo, incontrerebbe due ostacoli insormontabili: il primo è che la Chiesa non ha beatificato Teilhard de Chardin, il secondo - ben più serio - è che non ha nessuna intenzione di farlo. Di lui, infatti, ha sempre pensato che, nel tentativo di conciliare teologia cristiana e teoria dell’evoluzione, si sia sbilanciato a favore della seconda al punto da sconfinare nell’eresia. Così al povero Teilhard de Chardin venne proibito di divulgare le proprie idee, tanto che molte opere furono pubblicate postume.
Né, una volta pubblicate, ebbero migliore accoglienza da parte degli scienziati, ma per motivi opposti: Teilhard de Chardin ha infatti coltivato l’imbarazzante talento di evidenziare la latente vocazione "religiosa" della scienza.
Ma che cos’ha scritto di così "scandaloso" il nostro gesuita, che ha tuttora il potere di irritare teologi e scienziati? E perché sta invece vivendo un grande successo postumo nei circoli più sofisticati della cultura "wired"? Sarebbe bello poter placare la vostra curiosità con ampie citazioni bibliografiche e abbondanti estratti.
Ma da noi, purtroppo, la "riscoperta" di Teilhard de Chardin non è ancora iniziata, per cui le sue opere, quasi tutte pubblicate molti anni fa dal Saggiatore, sono quasi introvabili. Perciò possiamo offrirvi solo un brano de "L’energia umana", che l’editore Pratiche ha ristampato nel 1997. Per fortuna viene in soccorso la Rete, mettendoci a disposizione un ampio compendio d’un testo fondamentale come "Il fenomeno umano" (si tratta d’una pagina del sito francese "Teilhard de Chardin Study Group" creato dall’Accademia di Caen, in Normandia, che organizza sei incontri annuali sul pensiero del filosofo e mette una parte dei relativi materiali a disposizione del navigatore, oltre a raccogliere contributi da parte di scienziati, filosofi e teologi).
A chi voglia approfondire ulteriormente le idee di questo libro, suggeriamo inoltre un articolo del teologo americano Philip Cunningham, ospitato da CMC Magazine.
Ma cerchiamo a nostra volta di riassumere le tesi che Teilhard de Chardin elaborò in quell’opera. L’idea centrale è che, generando la specie umana, l’evoluzione abbia creato una sorta di "cervello" del pianeta: noi non saremmo altro che un "organo" della Terra la quale, attraverso di noi, sta divenendo un’entità dotata di auto consapevolezza (un’immagine ricorre: con la comparsa della vita cosciente il mondo "estroflette un occhio per guardarsi"). Ma se il processo evolutivo diviene consapevole di sé, esso può anche "scegliere" dove andare. E secondo Teilhard de Chardin, non abbiamo che due alternative: opporci all’unificazione della coscienza planetaria, nel qual caso ci voteremmo all’estinzione, oppure assecondarlo e accelerarlo.
Verso che cosa? Finora siamo stati "granuli di pensiero", cellule nervose sparse sul corpo del pianeta, ma negli ultimi secoli la "massa pensante" ha furiosamente accelerata la propria crescita, e soprattutto ha generato la Noosfera, termine con cui il filosofo definisce l’insieme di tecnologie, codici e sistemi di comunicazione che ricoprono il mondo come un immenso sistema pensante artificiale (Teilhard de Chardin scriveva mezzo secolo prima di Internet, ma ebbe folgoranti intuizioni sul futuro dei calcolatori, che emettevano allora i primi vagiti).
L’interazione fra Noosfera e massa pensante può trascinarci fino a un punto critico, il Punto Omega, in cui il cervello della Terra non sarà più la sommatoria di tanti piccoli sé, ma un’unica immane "sfera pensante". Visione mistica certo ma, sebbene Teilhard de Chardin dicesse che "Cristo si realizza nell’Evoluzione", palesemente eretica: la salvezza non riguarda gli individui, destinati a "tornare polvere", ma il loro sparire nella trascendenza dell’Impersonale; la salvezza è "Amore", inteso però come consapevolezza d’essere parti di un unico Spirito in cerca di Sé Stesso.
Un Amore ricco di implicazioni politiche (fine dell’Era delle Nazioni, riassorbite nella Pace universale) ed ecologiche (i figli della Terra pronti a rientrare in grembo alla Madre che essi stessi hanno risvegliata).
Credo non vi siano più dubbi sui motivi della diffidenza che Chiesa e Scienza manifestano nei confronti di questo autore. Anche se va detto che, da quando cibernetica, termodinamica dei sistemi aperti, neuroscienze e altre discipline hanno imboccato la via della complessità, sul secondo fronte il muro di ostilità e silenzio mostra qualche crepa. E, dopo che il premio Nobel Ilya Prigogine ha rivalutato la filosofia evoluzionista di Henri Bergson (non meno "mistica" di quella di Teilhard de Chardin), non pochi hanno creduto di cogliere analogie fra le idee del nostro gesuita e quelle d’un epistemologo "laico" come Edgar Morin.
Troviamo echi di questo dibattito in altri due siti francesi di stile serio e "ufficiale": quello della "Fondation Teilhard de Chardin", ospitato dal Museo di Storia Naturale di Parigi e suddiviso in tre sezioni: le prime due ospitano materiali su vita e opere del filosofo, la terza informazioni sulle iniziative della Fondazione; e quello della "Association des Amis de Teilhard de Chardin", che offre gli atti dei convegni annuali organizzati dall’Associazione ed estratti da un suo Bollettino cartaceo. Interessante la pagina dei link: i siti ai quali rinvia sono pochi ma "certificati"
Diversa la ricezione di Teilhard de Chardin in America, dove il filosofo francese viene celebrato dall’ala più snob e "tecnofila" della cultura New Age come un guru. Una breve esplorazione di quest’area può partire da un articolo di Anodea Judith che mette in risalto come il concetto di Terra pensante di Teilhard de Chardin anticipi di decenni la Teoria di Gaia del biofisico James Lovelock (Cfr. "Le nuove età di Gaia", Bollati Boringhieri, Torino 1991). Di più: secondo Judith, le idee di Teilhard de Chardin sono in grado di integrare e assorbire quelle di Lovelock: se il secondo descrive il pianeta come un superorganismo che trascende l’opposizione fra materia inorganica e materia vivente, il primo regala un cervello a Gaia. E i concetti di Noosfera e Punto Omega sono una geniale anticipazione di Internet e dell’integrazione fra sistemi naturali e artificiali in una sorta di Megarete ecologica. L’articolo si trova in "Gaia Mind"; una specie di "sito-catalogo" di New Age, con sezioni dedicate a meditazione, astrologia e vari tipi di profezie millenariste.
Più sobrio, anche se non privo di bizzarrie, il sito "Provenzano & Sons", raccomandato dai tre siti francesi "ufficiali" citati in precedenza. Si tratta di pagine curate da Joe e Dan Provenzano, padre e figlio ed entrambi ricercatori in fisica, i quali, partendo da Teilhard de Chardin, elaborano una concezione che definiscono "Filosofia dell’Energia Cosciente", con l’intento di "proiettarsi" al di là dell’insensata contrapposizione fra materialismo e spiritualismo.
Infine segnalo una pagina che, pur non essendo americana (è inserita nel magazine olandese Mediamatic), è ugualmente preziosa per capire come la cultura di cui stiamo parlando stia colonizzando l’immaginario d’Oltreoceano anche grazie ad Hollywood: mi riferisco al lungo e interessante articolo di Paul Groot che si occupa dell’influenza di Teilhard de Chardin e di altri autori sulle visioni "tecnognostiche" che alcuni registi americani diffondono attraverso i loro kolossal fantascientifici.
San Teilhard de Chardin |
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http://erewhon.ticonuno.it/arch/rivi/campus/teilhard/cock.htm _______________________________________________________________
POLEMICA Così Teilhard intuì il «disegno intelligente»
Nel dibattito recente sull’evoluzionismo si dimentica il gesuita scienziato, che cercò per primo di unire la scienza e la fede
di Annamaria Tassone Bernardi (Avvenire, 04.10.2006)*
Il grande tema dell’evoluzione porta finalmente sotto gli occhi di tutti il dibattito dei rapporti tra fede e ragione, e di conseguenza tra scienza e teologia. Ma è stupefacente che non si sia accennato all’apporto di un grande studioso cattolico del Novecento che dedicò un’intera vita, di scienziato di fama e di sacerdote, a riflettere sul fenomeno fin dagli anni ’20-’30.
Per primo Pierre Teilhard de Chardin si rese conto di come le ricadute della scoperta del carattere evolutivo della vita fossero destinate a farsi sentire in modo particolare in campo teologico e spirituale, perché le sue due anime di religioso e di scienziato dovettero perseguire, innanzi tutto nel suo intimo, con una ricerca sofferta, una conciliazione.
Potremmo dire che egli fu il vero pioniere della medesima ricerca che ora sta appassionando e incalzando scienziati e uomini di fede. Basandosi sulle sue scoperte paleontologiche e sui dati delle scienze fisiche e biologiche del suo tempo, ebbe grandi, sorprendenti intuizioni che oggi, alla luce dei progressi compiuti da tali scienze, non vengono certo smentite ma assorbite e portate avanti, com’è giusto che sia in un’ottica evolutiva.
Gli studi in tal senso proseguono non solo in Francia, che gli ha dato i natali, ma in vari Paesi europei (tra cui l’Italia con notevole impegno), americani, asiatici. In occasione del 50° della morte celebrato nel 2005 sono stati indetti molti convegni ad alto livello. Ricordiamo tra tutti il Convegno Internazionale all’Università Gregoriana, aperto dal cardinal Paul Poupard, e il Convegno di New York dell’aprile 2005 iniziatosi con una seduta all’Onu. In queste occasioni vi sono state relazioni di studiosi che si sono ampiamente formati sul pensiero di Teilhard de Chardin, ne hanno assunto le premesse e lo fanno evolvere.
Con semplicità ma con senso di giustizia, mi pare di dover dire: diamo onestamente spazio e riconoscimento a un pensatore così profondo, un pensatore alla Pascal (assieme al quale costituisce il vanto della città di Clermont-Ferrand in cui entrambi nacquero), un pensatore cioè «completo», che in un’epoca di gerghi specializzati fa risuonare nei suoi scritti una vera polifonia. Per una mente atta a concepire una visione complessiva del mondo, com’è stata quella di Teilhard, sarebbe stato impossibile non tentare di far convergere i fili della scienza, della filosofia, della spiritualità. Il ché è esattamente ciò che oggi, pur con rispetto della distinzione dei percorsi, si cerca di fare.
E che si attuerà, poco per volta, ma inesorabilmente, così come Teilhard preconizzava in una pagina autobiografica scritta un mese prima di morire, nel marzo 1955: «Dappertutto sulla Terra, in questo momento, in seno alla nuova atmosfera creata dalla comparsa dell’idea di evoluzione, fluttuano, in un estremo stato di reciproca percezione, l’amore di Dio e la fede nel Mondo: le due componenti essenziali dell’Ultraumano. Le due componenti sono dovunque "nell’aria", ma in genere non abbastanza forti per combinarsi l’una con l’altra, in un medesimo individuo. In me, per puro caso (temperamento, educazione, ambiente...), trovandosi in proporzioni favorevoli, la fusione si è operata esplosivamente, ancora troppo debole per propagarsi in modo esplosivo, eppure sufficiente per dimostrare che la reazione è possibile e che, un giorno o l’altro, la catena si stabilirà».
* presidente dell’Associazione Italiana Teilhard de Chardin
Teilhard de Chardin (1881 - 1955) *
Pierre Teilhard de Chardin nacque il 1° maggio del 1881 ad Orcines, Francia, in seno ad una famiglia numerosa (undici figli) e profondamente cristiana. Sua madre gli trasmise la pietà, e suo padre l’inclinazione verso le scienze naturali.
Dopo gli studi filosofici nella Compagnia di Gesù, insegnò fisica e chimica nel collegio gesuita del Cairo. La sua inclinazione verso la paleontologia ricevette approvazione ufficiale quando i Superiori lo spinsero ad ottenere il dottorato di ricerca (1914) a Parigi. Durante la Prima Guerra Mondiale fu mobilizzato in qualità di capo-barelliere. Tra una battaglia e l’altra compose Scritti in tempo di guerra, una riflessione profonda sul dolore fisico e spirituale delle persone e dell’umanità, che suscitò in lui una compassione cosmica. Nel 1923 iniziò le sue esplorazioni geologiche in Cina e nel resto dell’Asia, esplorazioni che configurarono il pensiero a cui Teilhard dette espressione in uno dei suoi libri più famosi: L’ambiente divino. Trovandosi in Cina durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) scrisse Il Fenomeno Umano che non poté pubblicare perché le autorità ecclesiastiche pensavano che contraddicesse l’interpretazione ortodossa del peccato originale e la gratuità della vita soprannaturale. In mezzo a queste difficoltà, i Superiori gli chiesero di abbandonare Parigi dove ricopriva alte cariche accademiche, una decisione che Teilhard accettò con profondo spirito di obbedienza. Stabilitosi a New York, dove visse il resto della sua vita, estese la sua indagine in Africa dove studiò il fossile Austrolopithecus.
Riconosciuto uomo di scienza (geologia e paleontologia), pensatore originale sintetizzò l’evoluzione (cosmica ed umana) e gesuita di profonda spiritualità (attiva e mistica nello stesso tempo), Teilhard de Chardin fu oggetto di viva controversia. Nel 1958 il Padre Generale Janssens dovette comunicare alla Compagnia di Gesù che un decreto del Sant’Uffizio imponeva alle congregazioni religiose di ritirare le opere di Theilard dalle biblioteche. Rivalutato dopo la sua morte, le sue opere sono state tradotte in moltissime lingue, ed il suo pensiero ha aiutato molti ad incontrare la fede cristiana.
Charles d’Almaghanc
* www.gesuiti.it
COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E DIVINA COMMEDIA: "SIDEREUS NUNCIUS" (GALILEO GALILEI, 1610) E "SAPERE AUDE!"(I. KANT, 1784). Alcuni appunti sul tema dell’antropogenesi (e cristogenesi) nell’opera di Dante...
NELL’ANNO DANTE2021, SU MARTE, "INGENUITY" INIZIA LA SUA ATTIVITA’ E LA SUA MISSIONE ESPLORATIVA:
CON ULISSE, OLTRE: VIRTU’ E CONOSCENZA. Ai suoi tempi, Dante ha esplorato con il suo "oudemico" ingegno l’intero "oceano celeste" (Keplero) e, al ritorno, ha raccontato che, trovandosi nel V cielo, quello del Pianeta Marte, rimase colpito da "una melode/ che mi rapiva, sanza intender l’inno (Pd XIV, 101 e 123).
L’INGEGNO, IL GENERE UMANO ("GATTUNGSWESEN"), E LA "TERRA" DI MARTE:
NELL’ANNO 2023, "Lo scorso 13 aprile il piccolo elicottero marziano Ingenuity ha azionato le sue eliche per la 50esima volta, percorrendo 320 metri in poco più di 2 minuti e mezzo, durante i quali ha infranto anche il precedente record di altezza, salendo fino a 18 metri. Ingenuity, che il 19 aprile ha festeggiato i suoi primi due anni su Marte, fu inizialmente concepito come dimostratore tecnologico, un modo cioè per provare che il volo controllato a motore su un altro pianeta fosse possibile. [...]
Costruito con molti componenti di serie, come processori e fotocamere di smartphone, Ingenuity ha superato di 23 mesi terrestri e 45 voli la durata prevista. Ad oggi, ha volato in totale per oltre 89 minuti e più di 11,6 chilometri. «Abbiamo fatto tanta strada e vogliamo andare ancora più lontano», dice Teddy Tzanetos, responsabile del team della missione al Jpl. «Ma sappiamo fin dall’inizio che il nostro tempo su Marte è limitato e ogni giorno operativo è una benedizione. Che la missione di Ingenuity finisca domani, la prossima settimana o tra qualche mese è qualcosa che nessuno può prevedere al momento. Quello che posso prevedere è che, quando succederà, ci sarà una bella festa». " (cfr. Jacopo Danieli, "Cinquanta voli per l’elicotterino marziano", INAF, 21/04/2023).
EARTHDAY 2023 #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu #Earthrise
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ED ECOLOGIA: SCIENZA E FEDE...
Scenari.
Antropocene: che cosa chiede Dio all’uomo?
Siamo in una nuova era dove l’uomo può giocare il ruolo decisivo nel futuro del Pianeta. Però dal punto di vista cristiano è una sfida a unire il genere umano nella solidarietà e nella carità
di Giuseppe Tanzella-Nitti (Avvenire, sabato 21 maggio 2022)
Durante la seconda metà del XIX secolo, il geologo e sacerdote cattolico Antonio Stoppani, autore del primo trattato di geologia del territorio italiano, intitolato Il Bel Paese (1876), portò l’attenzione sul fatto che la presenza dell’essere umano sul nostro pianeta aveva raggiunto un’influenza globale, suggerendo di chiamare “antropozoica” l’epoca geologica nella quale ormai ci si trovava. Dopo oltre un secolo, Paul Crutzen e Eugene Stormer si ricollegarono proprio a Stoppani intitolando Anthropocene il loro articolo apparso nell’anno 2000 sulla “Global Science News Letter”, nel quale si chiedevano a partire da quale data, e a motivo di quali fenomeni antropici, si potesse definire l’inizio di questa nuova “era geologica”. Il termine è tornato alla ribalta in questi ultimi anni a causa della questione ecologica, dei cambiamenti climatici e degli altri possibili effetti della presenza umana, diffusa e pervasiva.
Dal punto di vista scientifico, la definizione dell’inizio formale di una nuova era spetta ai geologi della International Commission on Stratigraphy (che non ha ancora preso una decisione); tuttavia, nei suoi aspetti mediatici, sociali e politici, nell’Antropocene ci siamo già da un pezzo.
L’essere umano, entrato nella storia naturale «in punta di piedi », per usare un’espressione di Pierre Teilhard de Chardin, sembra poter adesso influenzare in maniera decisiva e globale molte delle dinamiche terrestri a livello chimico, biologico, geologico e ambientale, tanto da poter, appunto, essere considerato un fattore determinante per lo stato complessivo del pianeta. Il tema, però, è filosoficamente più profondo di quanto sembri, se pensiamo che espressioni come “influenza sul pianeta” e “influsso globale” possono riguardare anche la comunicazione, la condivisione e la solidarietà.
Dal documento programmatico Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato (1990) di Giovanni Paolo II, fino alla Laudato si’ (2015) e alla Fratelli tutti (2020) di Francesco, il magistero della Chiesa cattolica ha da tempo guidato una riflessione di primo piano sulla responsabilità ecologica e sullo sviluppo sostenibile, guadagnando sul campo un’autorità ormai riconosciutale a livello internazionale. Sono insegnamenti ben noti che non è necessario qui richiamare. La teologia viene però sollecitata dalla nozione di antropocene a un’ulteriore riflessione, specie se questo termine viene compreso come «epoca in cui l’essere umano giunge a una visione unitaria e globale della sua attività sulla terra». Dio ha infatti affidato agli uomini un creato in via e l’attività umana nel cosmo - ormai operiamo ben oltre i confini della terra - contribuisce al progetto del Creatore mediante la costruzione di un futuro aperto sulla storia.
La teologia potrebbe allora porsi una domanda, forse inconsueta ma significativa: qual è l’Antropocene voluto da Dio? Teilhard de Chardin si era già chiesto un secolo fa qualcosa del genere, sebbene impiegando termini diversi. Partendo dai suoi studi di paleontologia, il pensatore gesuita consegnava la suggestiva visione di un mondo in convergenza evolutiva, che diventa gradualmente più complesso, dalla biosfera fino alla noosfera, ambito del pensiero, che pervade l’intero pianeta. Grazie alla sua vita spirituale, l’uomo avrebbe le risorse per unificare tutto il genere umano nella solidarietà e nella carità. Compito dell’umanità, sosteneva, è allora adoperarsi per realizzare tale condivisione e convergenza, lasciando che Cristo, centro del cosmo e della storia, possa attrarre tutti a sé, affinché Dio sia tutto in tutti.
Se osserviamo gli effetti che cristianesimo ha determinato sulla storia, in modo particolare quella dell’Occidente, non è difficile trovare opere e prospettive di carattere globale e unificante. Si pensi agli ospedali e alla cura dell’umano, alle università e alle economie di condivisione generate dai primi istituti di credito. Si tratta di iniziative nate dal lavoro responsabile dei cristiani, ispirate a ideali di solidarietà, di condivisione e di promozione. E si stratta di attività che hanno caratterizzato in modo globale, esteso, la nostra vita sul pianeta.
Ma possiamo andare più in là e chiederci, appunto: quali manifestazioni dovrebbe avere la presenza influente dell’essere umano sul pianeta perché egli cooperi, secondo il piano di Dio, a portare il creato verso un suo compimento? La prima di esse è fare del genere umano un’unica famiglia. Tutti gli esseri umani sono ordinati a divenire membra dello stesso corpo, il corpo di Cristo: la Chiesa, sacramento universale di salvezza, è figura e segno di questa unione, ci ha ricordato il Concilio Vaticano II. L’influenza e la presenza del genere umano sul pianeta, poi, dovrebbero essere tali da aiutare, in ogni luogo e in ogni circostanza, chi rimane indietro, facendosi carico di tutti, perché «tutti siamo responsabili di tutti», espressione cara a Giovanni Paolo II e a Francesco. «Quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale - scrive Francesco nella Laudato si’ - niente e nessuno è escluso da tale fraternità. [...] Tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo uniti come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio, legati dall’amore che Dio ha per ciascuna delle sue creature e che ci unisce anche tra noi». (n. 92).
Nell’antropocene voluto da Dio, la rete di comunicazione con la quale l’essere umano ha interamente avvolto il pianeta, e la globalizzazione che ne deriva, verrebbero impiegate per distribuire le risorse laddove è più necessario. Si investirebbe per accrescere in tutti la qualità della vita, ma anche per condividere il pane della cultura, dell’istruzione e della conoscenza, perché comprendere la nostra storia e il ruolo dell’uomo nel cosmo è espressione di una dignità alla quale tutti abbiamo diritto. In sostanza, nell’antropocene che Dio si attende dall’uomo, la scienza sarebbe al servizio dello sviluppo di tutti e l’uomo di scienza, perché sa di più, dovrebbe servire di più...
Il mondo in cui viviamo è un mondo in costruzione, un mondo nel quale gli uni influiranno sempre più sugli altri, un mondo in cui saremo sempre più consapevoli di essere tutti in relazione, fra noi e con la natura. È però indispensabile restare tutti aperti alla relazione più importante, quella con Colui che custodisce in Sé il progetto del mondo e il senso della storia. Solo così le relazioni potranno essere costruite su un fondamento solido, nella carità, nella solidarietà e nel rispetto. «Il presente e il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio», scrive san Paolo ai Corinzi (1Cor 3, 21-23). La teologia cristiana è persuasa che in queste poche parole siano contenute tutte le istruzioni per gestire saggiamente la nuova era geologica, se così proprio fosse, che l’essere umano ha ormai inaugurato.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
SCIENZA E FEDE VATICANA: LA CATTEDRA DELL’EMBRIONE. DOPO LE TRACCE DEL DNA, TROVATE LE IMPRONTE DIGITALI DI DIO!!! IL DISEGNO "INTELLIGENTE" DEGLI SCIENZIATI "CATTOLICI" E LA LORO VECCHIA E "DIABOLICA" ALLEANZA.
FLS
Spazio.
Fratello alieno: la Nasa "arruola" i teologi
La Nasa ha chiamato 24 teologi in un progetto per dare vita a «ponti di comprensione per pensare insieme - e informare il pubblico - sulle preoccupazioni globali» sulla vita extraterrestre
di Luigi Bignami (Avvenire, martedì 28 dicembre 2021)
Mentre le agenzie spaziali lanciano nuovi telescopi, sonde e rover per cercare forme di vita aliena oltre la Terra, La Nasa ha chiamato 24 teologi a far parte di un progetto voluto dall’ente spaziale a cui farà parte il Center for Theological Inquiry a Princeton negli Usa il cui obiettivo è dare vita a «ponti di comprensione convocando teologi, scienziati, studiosi e responsabili politici per pensare insieme - e informare il pubblico - sulle preoccupazioni globali». Tra questi problemi risultano di rilevante importanza anche domande quali «Cos’è la vita? Qual è la linea di confine tra uomo e alieno? Quali sono le possibilità che esista vita su altri mondi?».
Tra i teologi che verranno chiamati spicca Andrew Davison, sacerdote e teologo dell’Università di Cambridge con un dottorato in biochimica, il quale si è recentemente occupato di astrobiologia (la scienza che studia la ricerca di vita extraterrestre) e di sintesi evolutiva. Presto sarà pubblicato un suo lavoro sull’esobiologia (Astrobiology and Christian Doctrine) che tratta il rapporto tra vita aliena e principali aspetti della fede cristiana. «Le tradizioni religiose sarebbero una caratteristica importante nel modo in cui l’umanità affronterebbe le conferma della vita altrove - ha scritto Davison sul sito dell’Università di Cambridge -, per questo motivo, fa parte dell’obiettivo della Nasa sostenere il lavoro sulle ’implicazioni sociali dell’astrobiologia».
Spiega Davison: «Il mio progetto (all’interno di quello della Nasa) è semplice da definire. Sto realizzando un’indagine sui temi principali della fede cristiana dal punto di vista della vita altrove nell’Universo. Penso al suo rapporto con le dottrine della creazione, del peccato, della persona e dell’opera di Gesù, della Redenzione, della rivelazione e dell’escatologia. Finora la mia attenzione si è concentrata principalmente su ciò che i teologi chiamano cristologia: la discussione su chi fosse Gesù, e in particolare su cosa significa ritenerlo insieme umano e divino. Ora, vista l’elevata probabilità che esista vita aliena, c’è una domanda teologica a cui dare risposta e riguarda la prospettiva della vita su altri mondi: dobbiamo pensare a molte incarnazioni o solo a quella di cui parlano i teologi in Gesù?». Un problema che dev’essere giustamente affrontato prima che possa arrivare il grande annuncio.
Anche José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana, interpellato sui rapporti tra astronomia e fede ha più volte ribadito della possibilità di vita extraterrestre: «A mio giudizio questa possibilità esiste. Gli astronomi ritengono che l’Universo sia formato da cento miliardi di galassie, ciascuna delle quali è composta da centinaia di miliardi di stelle. Molte di queste, o quasi tutte, potrebbero avere dei pianeti. Come si può escludere che la vita si sia sviluppata anche altrove?». E anche se non ci sono prove, ribadisce Funes, non si può escludere che esistano esseri simili a noi o più evoluti. E se si scoprisse la loro esistenza non ci sarebbero problemi per la nostra fede. «Come esiste una molteplicità di creature sulla Terra, così potrebbero esserci altri esseri, anche intelligenti, creati da Dio. Questo non contrasta con la nostra Fede, perché non possiamo porre limiti alla libertà creatrice di Dio. Per dirla con san Francesco, se consideriamo le creature terrene come ’fratello’ e ’sorella’, perché non potremmo parlare anche di un ’fratello extraterrestre’? Farebbe comunque parte della creazione».
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Nota:
#COSMOTEANDRIA #VITA #EXTRATERRESTRE E #NASA. #SIDEREUS NUNCIUS: LA #TEOLOGIA RIFLETTE SULLA #CRISTOLOGIA. L’autore di "#Astrobiology and #ChristianDoctrine" spiega: "dobbiamo pensare a molte incarnazioni o solo a quella di cui parlano i teologi in Gesù?"
FLS
Scienza e fede.
Teologia e cosmologia in dialogo seguendo Teilhard de Chardin
L’astrofisico Piero Benvenuti rilancia l’eredità del gesuita: «Suo il merito di avere intuito il valore rivoluzionario dell’evoluzione del cosmo. Ora serve una nuova teologia della natura»
di Piero Benvenuti (Avvenire, giovedì 19 settembre 2019)
Nel novembre 2017, durante la prima sessione dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, il cui tema era “Il futuro dell’umanità”, il nome di Teilhard de Chardin venne evocato più volte, tanto che lo spirito del gesuita sembrava aleggiasse nell’aula. Forse fu proprio lui a darmi l’ispirazione di proporre ai partecipanti, dopo la pausa caffè del pomeriggio, di scrivere a papa Francesco perché considerasse la possibilità di revocare il Monitum del 1962 che ancora grava sulle sue opere.
In fondo, non solo gli autorevoli membri del Consiglio ritenevano l’intuizione profetica di Teilhard quanto mai attuale e rilevante nel discutere il futuro dell’Uomo e del Cosmo, ma anche gli ultimi pontefici avevano più volte citato il suo pensiero nelle loro Encicliche. La proposta fu accolta con entusiasmo, manifestato da un estemporaneo caloroso applauso, e il giorno seguente la lettera, approvata dall’Assemblea, venne firmata da più di quaranta partecipanti e inviata al Santo Padre attraverso i canali ufficiali.
La risposta, arrivata qualche tempo fa a firma del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, riporta il parere della Congregazione per la Dottrina della Fede che non ritiene opportuna la rimozione del Monitum in quanto «...non ha perso il suo significato come ammonimento per una valutazione serena di alcune discutibili proposte filosofico-teologiche negli scritti di padre Pierre Teilhard de Chardin».
Nonostante il parere negativo, la risposta precisa il significato del Monitum, aggiornandolo: innanzitutto commenta positivamente gli sforzi del gesuita nel riavvicinare costruttivamente i progressi della scienza con la fede cristiana e conclude esortando gli studiosi «...ad approfondire lo studio delle ambiguità presenti negli scritti dell’autore, con l’auspicio di poter giungere ad ulteriori chiarificazioni».
Quest’ultima importante esortazione - si legge nella risposta - è condivisa da papa Francesco ed è significativo che coincida temporalmente con la pubblicazione della costituzione apostolica Veritatis gaudium, il cui proemio rappresenta un possente invito al rinnovamento degli studi teologici.
Questa coincidenza stimola alcune riflessioni sulla relazione tra la moderna cosmologia (ovvero la filosofia della natura) e la teologia. Non c’è dubbio infatti che, al di là di alcuni aspetti controversi del pensiero di Teilhard, il suo merito principale consista nell’avere intuito il valore rivoluzionario dell’inattesa caratteristica fondamentale del cosmo, ovvero la sua evoluzione unitaria e globale.
Intuizione doppiamente meritoria tenendo conto che all’epoca eravamo appena agli albori della nuova cosmologia, nata nel 1927 per opera di un altro sacerdote cattolico, il belga George Lemaître. Infatti, risolvendo le equazioni della relatività generale di Einstein applicate a tutto l’universo, Lemaître dimostrava teoricamente e verificava sperimentalmente che il cosmo si espandeva ed era quindi «in divenire».
A riprova che il fatto fosse totalmente inatteso, basti ricordare l’istintiva reazione di Einstein che, pur riconoscendo la correttezza della soluzione matematica di Lemaître, gli disse senza mezzi termini: «La sua ipotesi fisica è abominevole»... per poi ricredersi quando gli ulteriori dati osservativi sgombrarono ogni dubbio sulla natura evolutiva dell’universo.
Non c’è da meravigliarsi quindi che anche in campo teologico le conseguenze di questa rivoluzione cosmica fossero a prima vista difficili da accettare, ma oggi non è più così: la storia dell’universo che si dipana per quasi 14 miliardi di anni attraversando fasi diversissime, con accelerazioni e rallentamenti temporali, diversificandosi in una trama di strutture e organismi imprevedibili, fino a raggiungere la coscienza, tutto questo richiede con forza una revisione radicale della filosofia della natura, sinora erede della tradizione greca.
Per usare un termine caro a Thomas Kuhn, siamo di fronte a un cambio di paradigma, simile a quello che precede le grandi rivoluzioni scientifiche, e come in quei casi, l’abbandono di schemi mentali consolidati, come la suddivisione netta tra materia inanimata, vita vegetale, vita animale e infine - essenzialmente diverso - l’essere cosciente, può essere traumatico e richiede coraggio e onestà intellettuale.
Di fronte a questa nuova situazione la teologia non può più rimanere inerte: è già positivo aver recuperato, grazie agli stimoli della nuova cosmologia, il concetto di Creazione che Tommaso d’Aquino aveva lucidamente individuato già nel XIII secolo: «Risulta con chiarezza l’incongruenza di chi ricerca la creazione con argomenti desunti dalla natura dell’universo o dalla sua evoluzione... La creazione infatti non è una mutazione, ma è la dipendenza stessa dell’essere creato in rapporto al principio che lo fa esistere. Essa appartiene quindi alla categoria di relazione» (Summa contra Gentiles, II, 18).
Se per Tommaso la Creatio continua è quindi un atto a-temporale che sostiene in esistenza tutta la realtà, oggi sappiamo che essa possiede anche la caratteristica di essere in divenire, di non essere ancora giunta a compimento: come una sorgente vivace il cosmo evolvente ci ha stupito nel corso di 13,8 miliardi di anni facendo emergere strutture sempre più diversificate e complesse, inattese e imprevedibili, ma tutte parte della stessa unica narrazione.
Cosa ci riserva l’evoluzione/ creazione nel futuro? Ecco la domanda che affascinava Teilhard e alla quale ha cercato con passione di dare una sua personale risposta che non poteva allora, come non può oggi, essere disgiunta dalla rivelazione cristiana che apre la speranza all’avvento della basileia ton ouranon, del Regno dei Cieli.
Domanda ancor più attuale per l’uomo d’oggi che non solo ha conosciuto il carattere evolutivo dell’universo di cui è parte, ma sta apprendendo anche i meccanismi della sua evoluzione e li può controllare e indirizzare. La nostra chiamata in causa come co-creatori è sempre più impellente e richiede a sostegno una adeguata Teologia della Natura.
Quest’ultima potrebbe essere uno dei primi risultati dell’accorato appello della Veritatis gaudio per un rinnovamento degli studi teologici. Purtroppo la seconda parte della Costituzione apostolica, pur scontando lo stile necessariamente più formale di una normativa universitaria, non sembra recepire in pieno lo slancio innovativo del proemio. Si parla indubbiamente della necessità di una maggiore interdisciplinarietà negli studi, ma il riferimento è generico ad «...altre scienze, in primo luogo le scienze umane» e comunque non si riferisce alle Facoltà propriamente teologiche per le quali la massima attenzione, per quanto riguarda l’interdisciplinarietà, rimane ancora concentrata sullo studio della filosofia.
È sintomatico che la Cosmologia e la Filosofia (o Teologia) della Natura non siano mai nominate, come se la prima fosse equiparabile a una qualunque altra disciplina scientifica e la seconda non più materia di studio della Filosofia, ma unicamente della Scienza.
Il cambio di paradigma intuito da Teilhard è oggi così evidente che andrebbe approfondito con determinazione in almeno alcune Facoltà teologiche, che potrebbero specializzare i propri studi verso una nuova Teologia della Natura, anche seguendo i molti spunti contenuti nell’enciclica Laudato si’.
In questa prospettiva sarebbe auspicabile e sicuramente accolta con entusiasmo una stretta collaborazione con le Facoltà scientifiche laiche che si occupano di Cosmologia e di materie correlate, sgombrando così il campo da ogni artificiale separazione tra Scienza e Fede. Se tale ipotesi non si realizzasse, l’ormai ineludibile sviluppo di una nuova Teologia della Natura avverrà comunque, ma si concretizzerà al di fuori delle Università Cattoliche con immaginabili spiacevoli conseguenze che sarebbe opportuno evitare a ogni costo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!)
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Federico La Sala
THEILARD DE CHARDIN. La “Messa sul mondo” e la suggestione di un’Eucarestia cosmica ...:
CHIESA
Dimensione eucaristica
La Messa della vita
di EDMONDO CESARINI*
Nell’Ultima Cena, Cristo ai discepoli offrì il pane (che può essere preso a simbolo della materialità e miseria umana), esortandoli a parteciparne, perché “quello era il Suo Corpo”. Poi offrì loro il vino (che può essere preso a simbolo della sofferenza e vitalità umana) invitandoli ad accettarlo, perché “quello era il Suo Sangue” .
La nostra vita è spesso tessuta di materia e miseria, sofferenza ed impegno, e spesso ci allontana dalla dimensione religiosa. Ma la partecipazione all’eucarestia sull’altare deve insegnarci ed indurci invece a fare della nostra stessa vita una “Messa”, in cui la nostra umanità - “frutto della natura e delle esperienze dell’uomo” - diviene corpo di Cristo. (1Cor 12,27), formando così la pienezza del Corpo di Lui (Ef, 1,23) che cresce appunto mediante l’attività di ognuno nella carità (Ef 4,16).
Questo è il nostro compito di cristiani: sotto l’azione dello Spirito, attuare la pienezza del corpo. Oserei dire che tutta la materialità, la sofferenza, l’impegno della vita umana è la materia - il pane ed il vino - del sacramento cosmico con cui l’umanità è chiamata a divenire corpo di Cristo.
La “Messa sul mondo” di Teilhard de Chardin continua ad affascinare generazioni di cristiani, con la sua suggestione di un’Eucarestia cosmica; ma si potrebbe riflettere anche sull’espressione “Messa del mondo” o meglio ancora “Messa della vita”.
L’unica riflessione seria sull’essere o non essere cristiani è quella sulla “dimensione eucaristica”, che è sempre meno nel rito e sempre più nella vita.
In effetti noi siamo sacerdoti chiamati ed impegnati a transustanziare la realtà d’ogni giorno nella realtà metastorica del Corpo di Cristo.
Ma affinché sia parte di una celebrazione eucaristica, ogni nostro momento di vita va anzitutto “offerto”. Offerto al Padre, alla sua Volontà, al suo Progetto di amore su di noi, anche se spesso non ne abbiamo coscienza, o addirittura lo rifiutiamo.
Quest’offerta non è facile, perché la dinamica dell’offerta implica saper accettare e poi saper rinunciare all’oggetto della nostra offerta. Accettare la vita, i suoi problemi, le sofferenze, le limitazioni, la malattia, i fallimenti, ecc. è difficile, a volte sembra impossibile. Per questo ci arrabbiamo, ci deprimiamo, ci disperiamo, evadiamo con varie “droghe”, rifiutiamo la nostra vita, noi stessi, ci ribelliamo, non la “accettiamo”.
Ma anche per i momenti vissuti come “belli”, quelli di godimento, soddisfazione, successo, ecc. è difficile “l’accettazione”, cioè il sentirli “come un dono” dal Padre, dalle vicende della vita, dalle relazioni col prossimo; piuttosto crediamo che siano “cosa nostra”, il nostro tesoro geloso, guai a chi ce lo tocca... Insomma, in genere, gli eventi della vita cerchiamo o di rifiutarli o di appropriarcene. Raramente di accettarli: ma non si può offrire se non quello che si è accettato.
Solo sulla parte della nostra vita che sappiamo “offrire” possiamo pronunciare l’epiclesi, e può verificarsi la discesa dello Spirito. Lo Spirito è l’amore, lo Spirito è il vero, e opera negli eventi della nostra vita spingendoci ad agire la carità nella verità (e non c’è comunque l’una senza l’altra).
Ogni nostro evento di vita ha una sua Verità (cioè il progetto esistenziale di crescita cui è destinato) e questa va attuata con la carità.
Celebrare la Messa della vita implica l’attribuzione di sacralità e progettualità ad ogni momento dell’esistenza, affinché vivendolo nella carità possa partecipare alla costituzione di quella realtà metastorica che è la Chiesa, il Corpo di Cristo.
È naturalmente la ricerca costante della gioia nel crescere umanamente (“affinché la vostra gioia sia piena”) piuttosto che del piacere nel godimento momentaneo, un impegno costante ad utilizzare le opere ed i giorni per costruire, un’attenzione costante a vincere il tempo che passa, radicando gli atti vitali in una dimensione “su cui la morte non ha vittoria”.
Celebrare l’Eucarestia della vita “cambia la sostanza stessa della realtà”, diceva s. Giovanni Crisostomo: la “transustanzia”...
Occorre fare della propria vita una celebrazione eucaristica, per cui la nostra umanità si rende disponibile ad esprimere l’amore, diventando così corpo di Cristo.
Per fare questo, siamo nati. Ogni atto relazionale, ogni rapporto tra esseri umani può essere una “celebrazione eucaristica”. In ogni incontro “di due o tre in Suo nome” è presente Cristo e da ogni incontro può venire l’impegno ad un reciproco miglioramento, che è lo scopo del suo corpo, la Chiesa.
Si può cioè agire la consacrazione e la comunione. Noi riusciamo - in genere - a partecipare una volta a settimana all’eucarestia sull’altare, fondamento di tutte le relazioni umane, ma siamo ancora molto lontani dal partecipare all’eucarestia in ognuna delle relazioni umane, che pure ne sono l’effettiva sostanza. Dovremmo sempre ricordare “la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” insite in ogni rapporto umano.
Celebrare l’eucaristia nella vita è agire il perdono e l’amore. Con il perdono, il male che è stato non è stato più, cambia sostanza, diventa bene, come nella consacrazione in cui il pane diventa corpo. Con l’amore si costruisce il bene futuro. Come nella comunione, per cui la nostra partecipazione al corpo ci impegna alla relazionalità creativa, che è fonte di bene.
Ma amare non è “vogliamoci bene” e perdonare non è “scordiamoci il passato”: perdono e amore sono una modalità dell’agire umano molto più esistenzialmente significativa, costruttiva, produttiva, difficile anche.
Perdonare significa annullare il male che è stato; amare significa costruire il bene che ancora non c’è. Annichilire quello che è stato/creare quello che non c’è: operazioni divine per eccellenza. «Io faccio nuove tutte le cose», dice l’Agnello nell’Apocalisse.
La Messa della vita non è una pratica devozionale, un pio esercizio di spiritualità, come era una volta “la messa secca” di buona memoria (l’imitazione della messa fatta dai fedeli colti non consacrati). L’eucaristia della vita è la reale, concreta, ontologicamente vera, attuazione del corpo di Cristo in questa dimensione esistenziale terrena.
Come in un corpo vivente ogni cellula ha il Dna che definisce tutto l’organismo, così ogni essere umano- cellula del corpo, come diceva s. Paolo - può realizzare con la sua vita la dimensione esistenziale di Cristo, essere Cristo. Questa è la sconvolgente grandezza del messaggio cristiano, del buon messaggio, dell’ev-angelo: possiamo essere sacerdoti che attuano con la loro vita la Chiesa, Corpo di Cristo.
* coordinatore della sezione romana dell’Associazione nazionale Teilhard de Chardin
* Adista - Segni Nuovi, 19 NOVEMBRE 2016 • N. 40
“Bioteologia” la scommessa che riavvicina Dio e Natura
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 13 novembre 2015)
Hegel ha scritto che il sentimento fondamentale dei tempi moderni è la morte di Dio. A questa diagnosi, ripetuta qualche decennio dopo da Nietzsche, filosofi e teologi hanno dato tre risposte principali.
La prima è quella che chiamerei “ermeneutica”: Dio non è morto, ma semplicemente non è stato ancora interpretato per quello che è. La rivelazione è un processo che ha luogo nella storia e che chiede l’intervento attivo dell’uomo, in un processo di miglioramento storico.
La seconda è quella eroica: Dio è morto, dobbiamo attendere un oltreuomo che possa essere un nuovo dio. Purtroppo, se sul conto del vecchio Dio si possono mettere azioni discutibili, il nuovo Dio, come insegna la storia degli ultimi due secoli, non è piazzato meglio.
La terza, meno sbandierata ma ben più praticata, è quella che direi “secolaristica”, e che è stata enunciata da Joseph de Maistre: la morte di Dio, quando pure avesse avuto luogo non comporterebbe nessuna conseguenza sul piano della fede e della religione, dal momento che Dio ha lasciato in eredità il proprio potere al Papa, che a questo punto è autorizzato a governare la chiesa in piena autonomia.
Resta una quarta risposta, minoritaria ma a mio avviso più promettente, seguita nella modernità da Schelling e in genere a tutti i filosofi che si sono accostati alla teologia con un atteggiamento naturalistico (ad esempio, Emerson) a cui si ricollega in maniera seria, profonda e autonoma Vito Mancuso in Dio e il suo destino, appena uscito da Garzanti (pagg. 464, euro 20). L’idea di fondo è che la rivelazione non ha avuto luogo un giorno, nella storia, ma è un processo continuo e non concluso. L’evoluzione ha dato vita a un mondo materiale che è insieme un mondo spirituale in cui ha luogo la manifestazione è l’azione di Dio, sicché tra evoluzione e rivelazione non c’è contrasto ma complementarità.
Il vecchio Dio (che Mancuso chiama “Deus”), il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, ma in buona parte anche di Cristo, non ha mantenuto le sue promesse, e si è presentato anzitutto come un Dio geloso, autoritario e vendicativo. Ha incarnato anzitutto il potere, e non ne sentiremo la nostalgia.
E Dio, l’alternativa e il successore di Deus, com’è? Uno degli autori più presenti in Mancuso è Spinoza, e in effetti si sarebbe portati a pensare a una prospettiva panteistica, non troppo diversa, d’altra parte, da quella che Mancuso aveva proposto nel suo fortunatissimo L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina 2007).
Tuttavia, Mancuso caratterizza la propria posizione come “panenteismo”, che non è un refuso per “panteismo” ma piuttosto il modo in cui molti filosofi hanno evitato l’accusa di spinozismo, che ancora due secoli fa poteva procurare seri guai. Mentre il panteista identifica Dio e il mondo, il panenteista ritiene che il mondo sia incluso in Dio, che ne sia la forza animatrice.
Se il panteismo ha un modello meccanicistico, il panenteismo ha un modello biologistico, è, per così dire, una bioteologia, per la quale Dio è lo slancio vitale che pervade la natura.
Il panenteismo di Mancuso deve molto all’evoluzionismo di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), il gesuita, filosofo e scienziato francese già molto presente nella sua riflessione sul destino post mortem dell’anima. L’evoluzione non vale solo per la vita, vale per il cosmo intero considerato come un grande animale vivente (secondo l’intuizione di Platone), che si sviluppa a partire da un ricettacolo, la chora, lo spazio neutro da cui hanno origine tutte le cose, e che si presta facilmente a venire riletto in termini biologistici, giacché lo stesso Platone la definisce come “matrice”.
Il discorso fila. Richiamarsi a Dio, anzi, a Deus, non è far ricorso a un vecchio nome di cui si può fare a meno senza per questo escludere il divino? Persone che credevano che il mondo fosse non più vecchio di 6000 anni (era l’idea dominante ancora nell’Ottocento) e che non potessero nascere nuove specie (in gioco era la perfezione del piano divino), non potevano spiegare l’esistenza di strutture complesse - fossero il mondo, la mente o il linguaggio - se non ricorrendo all’ipotesi di una creazione divina o di una costruzione concettuale, ossia, per parlare come de Maistre, di una “azione temporale della provvidenza”. È da questa penuria di tempo che deriva la concezione del sommo artigiano, del disegno intelligente.
Ma se contiamo su un tempo infinitamente più lungo, sprofondato in quelle che Vico definiva “sterminate antichità”, tutto cambia. Perciò 13,7 miliardi di anni, il tempo che ci separa dalla nascita del tempo, sono più che sufficienti per rendere conto di tutto quello che è accaduto senza l’aiuto di Dio, né come inizio né come termine del processo evolutivo.
Se le cose stanno così, però, sorge un interrogativo molto semplice. C’è ancora bisogno di postulare l’intervento di un logos (o più modestamente di un senso qualsiasi) per rendere conto di un mondo che deve la sua emergenza - tra errori, incoerenze e mostruosità di ogni sorta - solo a una immane disponibilità di tempo, materia ed energia? È, ad esempio, l’idea del filosofo australiano Samuel Alexander (1859-1938) in un libro ai suoi tempi abba- stanza famoso: Spazio, tempo e deità (1920).
Alexander è considerato il padre dell’emergentismo, cioè di una concezione che Mancuso (a pag. 389) considera coerente con il suo panenteismo, e propone una potente visione cosmogonica, descrivendo uno sviluppo ascendente di livelli dell’essere che prende l’avvio dallo spaziotempo e ascende alla materia, all’organismo, all’uomo e a Dio, concepito come la totalità emergente del mondo.
La differenza tra una prospettiva emergentista radicale e il panenteismo di Mancuso è tutta qui. Per Mancuso tutto è in Dio, compresa l’emergenza del mondo (e, nel mondo, delle svariate idee che sono state formulate su Deus), ma allora abbiamo a che fare o con una riproposizione del Dio creatore, o con un Dio fannullone alla Wittgenstein, con un senso del mondo che è fuori del mondo e che dunque, propriamente, non esiste.
Per l’emergentismo radicale, invece, Dio non è ancora, ma non è escluso che, come sono sorte le amebe, il calcolo differenziale e i quartetti di Beethoven venga un giorno in cui, magari tra milioni di anni, a esseri presumibilmente diversissimi da noi si presenti un Dio, «come se un Tu (scriveva Vittorio Sereni) dovesse veramente / ritornare / a liberare i vivi e i morti./ E quante lagrime e seme vanamente sparso».
Bisogno di futuro e Teilhard de Chardin
di Vittorio Cristelli (“vita trentina”, 13 gennaio 2013)
Succede ormai pressoché ogni giorno di constatare che in ogni visione di società, ma anche del cosmo, della natura, quello che manca o fa difetto è la prospettiva di un futuro che abbia senso e dia senso anche all’agire di tutti i giorni. C’è un bisogno lancinante di futuro, perché è il futuro che dà speranza, che fa nascere e alimenta progetti e ci fa dire che vale la pena di vivere, anche facendo sacrifici e accettando rinunce.
Anche il mondo della fede ha bisogno di questa prospettiva che non sia demandata all’altra vita oltre la morte, ma incida ed operi direttamente nel presente. In questo contesto e caratterizzato da questa sensibilità ho letto che si è svolto a Roma il 9 e 10 novembre scorso un convegno europeo su Pierre Teilhard de Chardin, il teologo scienziato gesuita che polarizza il suo pensiero sul futuro.
E’ nota la sua definizione del Cristo come punto finale (lui lo chiama “punto Omega” - ultima lettera dell’alfabeto greco) verso il quale cammina non solo l’umanità ma tutto l’universo. Aveva intuito già sessant’anni fa i fenomeni globali che oggi ci attorniano e vedeva la vita ma anche l’universo come un movimento creativo operato da Dio ma ancora in atto e non ancora concluso. Ho citato a Natale la sua celebre frase: “Il dramma di tanti cristiani oggi è che non attendono più nessuno”.
E’ da dire che questo suo pensiero è stato visto con sospetto anche dalla Chiesa. E’ noto e non ancora ritirato il “Monitum” del Santo Uffizio che diffidava a parlare di Teilhard di Chardin negli istituti di formazione religiosa. Ora il convegno sul suo pensiero si è tenuto all’Università Gregoriana di Roma alla presenza costante del suo rettore, che ha pure celebrato per i convegnisti la “Messa sul mondo”. C’è di più. Al convegno è giunto anche il messaggio augurale del card. Ravasi, presidente della Commissione cultura della Santa Sede, e la prolusione è stata tenuta dal card. Poupard.
Un rilancio in grande stile, anche perché è assodato e tutto da vedere l’influsso che il pensiero di Teilhard de Chardin ha avuto sul Concilio Vaticano II, in modo particolare sulla Costituzione “Gaudium et Spes”, riguardante i rapporti della Chiesa con il mondo contemporaneo. Il pensiero di questo gesuita e mistico è utile soprattutto nel confronto tra messaggio evangelico e i risultati della ricerca scientifica più aggiornata: le neuroscienze e la concezione olistica, vale a dire, globale, dell’universo.
Dal convegno è emerso che Teilhard de Chardin potrebbe proprio per il suo schema evolutivo, essere il teologo del Terzo millennio, con sviluppi interessanti anche per il dialogo con le religioni orientali, soprattutto con l’induismo. Esattamente come san Tommaso D’Aquino e il suo recupero di Aristotele fu il teologo del Secondo millennio.
Al momento non si sa come le cose si evolveranno. Quello che però mi interessa qui rilevare è la funzione che la proiezione verso il futuro e quindi la speranza può avere su nuovi credenti, noi cristiani tentati proprio dalle difficoltà di chiuderci in noi stessi o di demandare tutto all’al di là.
E chiudo con la nota raffigurazione di Charles Peguy. Sappiamo che le virtù cardine per il cristianesimo son la fede, la speranza e la carità. Sappiamo anche con san Paolo che la carità, l’amore, è la massima delle virtù, perché durerà anche dopo che la fede e la speranza finiranno.
Purché anche la carità sia in movimento. Ebbene, Peguy dice che la fede e la carità sono come due matrone prospere e mature e tengono per mano la bambina speranza. A guardar bene però, osserva, è la bambina speranza che trascina in avanti le due matrone. Per dire che senza la speranza non si cammina nemmeno nella fede e nella carità
INTERVISTA INEDITA [1951]
Teilhard: «Io, né utopista beat né millenarista»
a c. di Marcel Brion (Avvenire, 06.08.2012)
Ogni volta che incontro padre Teilhard de Chardin vengo catturato da quel "clima" di alta spiritualità e di pura scienza che ovunque porta con sé. Nella cella di rue Monsieur come nei campi di scavo in Cina o nel laboratorio del Museo, ha sempre la stessa grazia amabile e ironica, quella finezza acuta e benevola al tempo stesso e quella distinzione oxfordiana che fanno pensare a qualche scholer inglese che sia al contempo Darwin e Newman. È insieme contento e inquieto nel vedere che la sua dottrina - chiamarla teoria o sistema sarebbe insufficiente - raggiunge un pubblico sempre più vasto, sempre più attento e, aggiungerei, sempre più entusiasta e convinto, nonostante gli ostacoli che ha incontrato talvolta, fino a oggi, la diffusione del suo pensiero. Contento, perché questo sapiente porta all’umanità un messaggio di fiducia, di speranza, di dinamismo vitale, d’invito a una coscienza più elevata delle possibilità di progresso che le si offrono ma anche delle crescenti responsabilità che ne conseguono. Inquieto, perché quella dottrina, da poco esplicitamente formulata, si è trovata sfigurata, deformata, falsamente interpretata in certi ambiti scientifici e non solo, e di conseguenza sono nati molti malintesi e si sono accese polemiche addirittura prima che fossero pubblicate le opere nelle quali padre Teilhard de Chardin esponeva, in una visione d’insieme, i risultati dei suoi lavori scientifici e delle sue riflessioni.
Com’è arrivato alle scoperte che hanno reso popolare il suo nome e l’hanno condotto a formulare una teoria dell’uomo e dell’universo completamente nuova?
«La mia prima infanzia è trascorsa tra le pietre, nei monti dell’Alvernia, accanto a un padre naturalista che mi ha trasmesso il gusto della natura e ha guidato la mia nascente passione per la geologia. Le passeggiate tra le rocce hanno fatto nascere in me il desiderio di conoscere quel mondo minerale, così misterioso e affascinante, che esercitava già sulla mia mente di bambino un’attrazione potente e tenace. Poi ho studiato al collegio di Mongré, vicino a Lione, ed è sicuramente per aver respirato l’atmosfera di quella santa casa che, subito dopo gli studi, sono entrato nella Compagnia di Gesù. La conosce, vero, ad Aix la calma e silenziosa rue Lacépède, lei che ha vissuto a lungo ad Aix-en-Provence? Lì ho trascorso il periodo del noviziato, allietato da ferie e vacanze nella nostra casa di campagna di Tholonet».
In quel paesaggio così intensamente geologico della Montagne Sainte Victoire, di cui Cézanne ha fatto una specie di mito cosmico, di divinità originale, di elemento primario, sollevato nella veemenza minerale delle metamorfosi?
«Sì, ma presto ho lasciato la Francia per le isole anglo-normanne: a quel tempo le congregazioni venivano cacciate dal paese e obbligate a rifugiarsi all’estero. Mentre proseguivo a Jersey i miei studi di filosofia, su quell’isola ho avuto la fortuna di trovare un autentico giardino mineralogico dove iniziarmi scientificamente allo studio della materia: un oggetto che mi aveva sempre affascinato».
Ricordo che lei ha scritto: «Attraverso le rocce, mi trovai impegnato sulla strada del planetario». Istintivamente nel minerale ricercava, al tempo stesso, il durevole, l’incorruttibile. Da bambino, si disperò il giorno in cui scoprì che il ferro era deperibile e arrugginiva...
«Sì, tanto che, per consolarmi, cercavo equivalenti altrove. Talvolta in una fiamma blu fluttuante (insieme così materiale, inafferrabile e pura) sui ceppi del focolare. Più spesso in qualche pietra più trasparente o meglio colorata: cristalli di quarzo o d’ametista, e soprattutto frammenti lucenti di calcedonio, come potevo raccoglierne nella mia regione d’Alvernia. In questo caso, naturalmente, bisognava che la sostanza prescelta fosse resistente, inattaccabile e dura».
Già il suo senso attuale di un’irreversibilità del movimento che vitalizza il mondo...
«Ed è così che, a poco a poco, mi sono svegliato al concetto di "stoffa delle cose". Gradualmente e sottilmente, questa famosa consistenza, che fino ad allora avevo inseguito nel solido e nel denso, mi si scopriva nella direzione di un elementare sparso ovunque, la cui stessa ubiquità formava l’incorruttibilità. Più tardi, quando mi sarei occupato di geologia, si poteva credere che semplicemente sondassi, con convinzione e successo, le opportunità di una carriera scientifica. Ma in realtà ciò che, per tutta la vita, mi ha riportato inevitabilmente (foss’anche a spese della paleontologia) allo studio delle grandi masse eruttive e delle zolle continentali non è stato altro che un insaziabile bisogno di mantenere il contatto con una sorta di radice, o di matrice, universale degli esseri. È curioso, lo ammetto, il posto assiale invariabilmente occupato dalla passione e dalla scienza delle pietre durante tutta la mia embriogenesi spirituale!».
Lasciò Jersey, credo, al termine di quell’iniziazione mineralogica, verso il 1905?
«Sì, perché fui nominato professore di fisica in Egitto. Un’autentica occasione, perché è stato proprio nella valle del Nilo, dove nasce e si sviluppa per millenni una civiltà prodigiosa, che lo studio dei fossili portati in superficie dal deserto mi ha fatto deviare verso la paleontologia».
Che è, lo so, la sua grande specializzazione...
«In realtà il mio interesse scientifico è sempre stato, e resta, diviso tra la paleontologia umana e le questioni della geologia continentale, un po’, se vuole, come Darwin tra i fossili e i cristalli. In tale competizione, tuttavia, alla fine è stato lo studio del fenomeno umano a prendere il sopravvento nei miei gusti. (...) Sì, nell’ordine del pensiero scientifico, fu la scoperta, la presa di coscienza direi, dell’idea di evoluzione - di evoluzione biologica, intendo - che mi permise di collegare, nel campo dell’esperienza, i concetti di energia materiale e di energia psichica».
E poi dovette lasciare il Museo, nel 1914, per il fronte, gli zuavi e i tiraglieri. Ma non fu proprio al fronte che germogliò in lei il concetto, così originale e fecondo, di una noosfera attorno alla Terra? Vorrebbe definire, per i nostri lettori, cosa intende con il termine noosfera?
«Ho usato questo termine per la prima volta in uno dei miei primi saggi sul Fenomeno Umano, verso il 1927, ma effettivamente l’idea di una comunità spirituale umana attigua all’organico era nata in me nelle trincee: l’idea, voglio dire, di una sorta di "mega unità" biologica speciale che costituisce l’involucro pensante della terra. È questa, per me, la noosfera».
Alla fine della guerra, riprese subito i suoi lavori sul campo e in laboratorio?
«Non subito. A Verdun era morto il mio caro amico Jean Boussac, genero di Termier e come lui geologo, e mi fu fatto l’onore di pensare a me per la cattedra di geologia all’Istituto Cattolico di Parigi. Ma non vi restai a lungo. Vi avevo appena messo piede quando giunse all’improvviso la seconda grande opportunità della mia vita. Padre Emile Licent, l’esploratore della Cina del Nord e il fondatore del Museo di Tientsin, cercava un geologo che lo accompagnasse. Grazie alla protezione del mio maestro Boule e del compianto Lacroix, uno dei pilastri dell’Accademia delle Scienze, nel 1923 mi trovai incaricato dal Museo della missione in Cina. Fu allora che io e padre Licent avemmo la fortuna di mettere mano, nel loess del bacino del Fiume Giallo, sulle prime tracce conosciute di un paleolitico di Cina. Ritrovamento importante, ma che sarebbe stato presto eclissato da una scoperta ancor più sensazionale: quella (fatta da Andersson, Black e dal Servizio Geologico di Cina) dell’uomo di Pechino o sinantropo, un parente prossimo del pitecantropo di Giava, entrambi forse gli uomini fossili più antichi e più primitivi a noi noti».
So anche che si trovò a collaborare molto da vicino (altra fortuna della sua vita!) alla scoperta che è valsa alla scienza sei crani di sinantropo, almeno mezza dozzina di mandibole e diverse ventine di denti isolati, in una decina di anni di ricerche, dal 1927 al 1937...
«Quei resti umani, appartenenti a una trentina di individui, furono raccolti nel corso di scavi importanti e prolungati, in una vasta sacca (50 metri) che costituisce il riempimento di un’antica grotta colmata e livellata: molti utensili in pietra assemblati e un’enorme quantità di ossa fossili di daini, elefanti, rinoceronti, cammelli, bufali, antilopi e diversi carnivori, quasi tutti rappresentanti specie estinte da molto tempo. Naturalmente è ancora difficile datare in anni quel lontano cugino dell’uomo moderno. Ma possiamo affermare che, quando era in vita, il mantello delle terre gialle non si era ancora depositato sul suolo cinese. Fatto, questo, che ci rimanda molto, molto indietro nel tempo. Perlomeno, centinaia di millenni...».
Conosco le conclusioni generali alle quali l’ha condotta questa lunga carriera di studioso. Vorrebbe riassumerle per i nostri lettori? Non si tratta, beninteso, di entrare nel dettaglio dei problemi, ma solo di intravedere quell’"ultra-umano" che, scientificamente, secondo lei, si disegna al termine dell’evoluzione dell’homo sapiens, per come la paleontologia ce la fa conoscere e ci invita a portarla avanti?
«Nello specifico, noti bene, non sono né un filosofo, né un teologo, ma uno studioso "del fenomeno" (un fisico nell’antico senso greco). Ebbene, a questo modesto livello di conoscenza, a dominare la mia visione delle cose è la metamorfosi che l’Uomo ci obbliga a far subire all’universo attorno a noi a partire dal momento in cui (conformemente agli imperiosi inviti della scienza) ci si decide a considerarlo come costituente una parte integrante, nativa, del resto della vita. In conseguenza a questo sforzo di incorporazione, emergono, se non sbaglio, due constatazioni capitali nella nostra percezione sperimentale delle cose. La prima è che l’Universo, ben più che da "entropia" (che lo riconduce agli stati fisici più probabili), è caratterizzato da una deriva preferenziale di una parte della sua stoffa verso stati sempre più complicati e sottesi da intensità crescenti di "coscienza".
Da questo punto di vista strettamente sperimentale, la vita non è più un’eccezione nel mondo, ma appare come un prodotto caratteristico - il più caratteristico - della deriva psico-chimica universale. E l’umano, al tempo stesso, diventa, nel campo della nostra osservazione, il termine provvisoriamente estremo di tutto il movimento. L’umano: un capo del mondo...
Posto questo, la seconda constatazione alla quale, a mio parere, ci si trova condotti da un’accettazione scientifica integrale del Fenomeno umano è che la corrente di complessità-coscienza, da cui il lo psichismo riflesso (ossia il pensiero) è sperimentalmente scaturito, non si è ancora fermata; bensì, attraverso la totalizzazione biologica della massa umana, continua a funzionare, trascinandoci, per effetto biologico di socializzazione, verso certi stati ancora irrappresentabili di riflessione collettiva, ossia, come dico io, verso qualche "ultra umano".
Tutto ciò, lo ripeto, per semplice estrapolazione di una legge di ricorrenza positivamente osservabile, su tutta la distesa del passato, cioè al di fuori di ogni sentimentalismo e di ogni metafisica. Ebbene, questa posizione strettamente oggettiva, malintesa, ha fatto nascere e correre sul mio conto un certo numero di leggende, le più dannose delle quali possono ricondursi alle seguenti.
Anzitutto, sono stato considerato un ottimista o un utopista beat, che sogna di euforia umana o di millenarismo confortevole. Come se la maturazione umana che i fatti hanno l’aria di annunciare non si presentasse, nelle mie prospettive, non come un riposo, ma addirittura come una crisi di tensione, pagata da un’immensa scia di disordini e sofferenze: crisi tutta carica di rischi e dunque ancora più drammatica, a causa dell’enormità dell’interesse in gioco (il successo di un universo, nientemeno!), di tutte le fantasie egoiste e morbose dell’esistenzialismo contemporaneo.
Fatto ancora più grave, si va ripetendo che sarei il profeta di un universo distruttore dei valori individuali: perché ai miei occhi il mondo si dirige, sperimentalmente, verso uno stato sintetico. Ma in realtà la mia grande preoccupazione è sempre stata quella di affermare, in nome dei fatti, che l’autentica unione non confonde ma differenzia; e anche che, nel caso di esseri pensanti e amanti (quali l’uomo), lungi dal meccanizzare personalizza, e doppiamente: prima intellettualmente, per super-riflessione, e poi affettivamente, per unanimizzazione.
Così, nonostante il primato che io accordo tecnicamente al tutto in rapporto all’elemento, mi trovo, così come la struttura stessa del mio pensiero scientifico, agli antipodi sia di un totalitarismo sociale che porta al termitaio, sia di un panteismo induizzante che cerca la via d’uscita e la figura ultima dello spirituale nella direzione di un’identificazione degli esseri con un fondo comune sottostante alla varietà degli eventi e delle cose. Non meccanizzazione, dunque, né identificazione per fusione e perdita di coscienza, ma unificazione per ultradeterminazione laboriosa e amore.
Bisogna riconoscere che queste vedute biologiche possono avere una certa incidenza sulla nostra valutazione dei valori umani. Ci fanno propendere verso un umanesimo rinnovato, basato non più, come nel XVI secolo, su una riscoperta del passato, ma su possibilità inattese tenute in serbo per noi dal futuro. Ma la nascita, attorno a noi, di un tale "neo umanesimo" (legato nel mio pensiero religioso ai progressi della "carità") non è appunto uno dei caratteri distintivi dei tempi che stiamo attraversando?».(traduzione di Anna Maria Brogi)
L’INEDITO
Pierre Teilhard de Chardin (Orcines, 1º maggio 1881 - New York, 10 aprile 1955) è stato uno dei più noti teologi-scienziati del ’900. Gesuita e paleontologo, elaborò una teoria che univa creazione ed evoluzione nel Punto Omega, rappresentato da Cristo. L’intervista che pubblichiamo è uscita nel gennaio 1951 sulla rivista «Les nouvelles littéraires»: qui egli spiega la sua concezione teologica e scientifica e respinge le accuse che gli furono rivolte di ignorare il ruolo del male e della sofferenza nella vita.
Marcel Brion
INTERVISTA.
Il paleontologo gesuita è un «gigante della fede», anche se il suo pensiero rimane ambiguo. Parla il biografo domenicano Arnould
Teilhard de Chardin: la vittoria della vita
«La sua cristologia cosmica è elaborata e potente, ma resta il dubbio che venga usata per puntellare una teoria scientifica ormai screditata»
DI LUIGI DELL’AGLIO (Avvenire, 27.08.2009)
« A ll’Universo è riuscita l’incredibile impresa di far nascere il pensiero umano all’interno di quello che a noi appare un inimmaginabile intreccio di eventi sfavorevoli, e tuttavia di evolversi con successo. La spiegazione? Nel profondo, esso è guidato da una potenza che domina sovrana sugli elementi che lo compongono». Nel suo libro Teilhard de Chardin, eretico o profeta? (Lindau, pp. 470, euro 28), Jacques Arnould, teologo domenicano, filosofo e storico della scienza, fa frequenti citazioni dagli scritti del paleontologo e gesuita francese. Padre Arnould ha voluto ripercorrere senza intenti trionfalistici la vicenda umana di Teilhard, «gigante della fede» e «uomo pieno di nobiltà e intelligenza, coraggio e generosità» ma al tempo stesso «non privo di paure ed esitazioni, turbamenti ed errori». Attraverso questa biografia conosciamo il Teilhard viaggiatore e pellegrino della conoscenza scientifica: buona parte della sua esistenza trascorre su grandi navi , in continui spostamenti dalla Francia o dagli Stati Uniti, all’Asia e all’Africa.
Professore, quant’è attuale il pensiero teilhardiano?
«Due studiosi svizzeri, Clairette Karakash e Otto Schafer-Guignier, hanno espresso su Teilhard un giudizio condivisibile: c’è ambiguità nel genio del gesuita; il suo pensiero, pur essendo sintesi animata da autentica passione e caratterizzata da incontestabile coerenza interna, costituisce un amalgama di componenti eterogenee, dal punto di vista epistemologico e metodologico. Pio XII, nella Humani generis, aveva messo in guardia rispetto all’ipotesi panteistica dell’universo soggetto a continua evoluzione. Dovremmo anche interrogarci sulla definizione di vita: non è forse vero che conosciamo solo concreti esseri viventi, e non ’la vita’? E che pensare di un passo misterioso come quello in cui Teilhard afferma: ’Dietro tutte le nostre Sfingi non si nasconde assolutamente nulla. Il passato, il lontano sono vuoti. Non danno accesso a Nulla’?».
Nel libro lei accenna al fatto che, secondo Teilhard, la scoperta del punto Omega è accessibile anche a un non credente.
«Dobbiamo dargli ragione quando sostiene che non si possa spingere fino in fondo il contatto con il Cosmo senza arrivare a Cristo? O quando afferma che il mondo è pieno di assoluto? Non ne sono sicuro. La cristologia cosmica di Teilhard è elaborata e potente, ma non deve impedirci di dubitare della sua effettiva necessità. Perché ha legato così intimamente il Cristo cosmico al Punto Omega da dare l’impressione, così facendo, di puntellare la teoria dell’ortogenesi, progressivamente scartata dalla comunità scientifica».
Quale peso ha nella disputa sull’evoluzione la frase di Teilhard «Dio crea sotto le sembianze del caso»?
«Padre Teilhard non ignora che nell’evoluzione esista anche l’accidentale. Ma è convinto che il caso non possa far fallire il processo nel suo insieme, diretto irreversibilmente verso il suo obiettivo».
Nei suoi viaggi Teilhard era atteso dovunque con entusiasmo, non solo dai paleontologi. Talvolta lei registra concessioni a una certa «vita di mondo » durante le traversate oceaniche. Ma la sua esistenza avventurosa risulta soprattutto piena di sacrifici e rischi.
«Racconto le peripezie di Teilhard in Cina nella seconda guerra mondiale e, prima ancora, la Crociera Gialla, con temperature che scendevano a 30 sotto zero. Il religioso paleontologo era profondamente innamorato delle ’vecchie ossa’; una volta, per datare una mascella, vi passò sopra la lingua. Racconto molti fatti perché il lettore comprenda chi è stato Teilhard de Chardin. Parlo del suo compito di barelliere, coraggioso e decorato, durante la Grande Guerra. Molti anni dopo, in Birmania, tornato all’accampamento dopo una lunghissima giornata di escursioni e osservazioni, non esitò infilarsi un paio di scarpette da tennis e, rischiando morsi letali, rifare il percorso con una guida, nel buio della notte, per ritrovare il bloc notes di un collega ferito. Dovunque gli vogliono bene religiosi e intellettuali, uomini e donne del mondo scientifico e della stampa. A Shanghai i suoi amici si commuovono quando lo vedono scendere dal treno, con la sua figura elegante, più scheletrico che mai, portando a fatica una valigia di cartone legata con lo spago. Poi le prove della vita si accentuano, arrivano l’infarto e le affezioni polmonari, s’affaccia una forma di depressione».
È il presentimento della morte?
«Teilhard chiede a Dio di liberarlo dalla sofferenza della malinconia. Ma anche quando ha un presentimento, non smette mai di credere nel proprio principio scientifico: la vittoria della Vita. Insiste nella sua preghiera: ’Dio, aiutami a finire bene la mia vita’. Aggiunge: vorrei morire nel giorno della Resurrezione. La sua esistenza di eterno nomade si chiude infatti a New York il 10 aprile 1955. Ed è Pasqua».
.Nell’anniversario della nascita del fondatore del moderno evoluzionismo .cosa resta della sua teoria sull’origine della specie
I duecento anni di Darwin,
sfidò millenni di pregiudizi
di LUIGI LUCA CAVALLI SFORZA *
SONO passati duecento anni dalla nascita di Darwin, centocinquanta dalla pubblicazione del suo libro sull’origine delle specie. L’idea dell’evoluzione non era completamente nuova. Lamarck l’aveva avanzata più di cinquant’anni prima, ma non aveva dato una spiegazione convincente della causa. Invece, Darwin l’aveva trovata, e la biologia ha potuto crescere, anche e soprattutto grazie a questo riconoscimento fondamentale, che era però in urto con millenni di pregiudizi.
In questo secolo abbiamo raggiunto lo stadio in cui la biologia è diventata una scienza esatta, in due modi diversi. Il primo è chimico, perché la chimica degli organismi viventi non è più limitata allo studio di poche, piccole molecole biologiche di secondaria importanza, come era la chimica biologica di cinquant’anni fa. Oggi conosciamo le vere molecole della vita, che sono grandi e complicate. La struttura fondamentale delle specie viventi è contenuta in lunghissimi "libri" che formano il patrimonio ereditario o genoma: una descrizione chimica, scritta in un alfabeto a quattro lettere, i nucleotidi, le unità che attaccate l’una all’altra in lunghissimi filamenti formano il Dna.
In questo secolo conosceremo il Dna di moltissime dei due milioni di specie di piante ed animali che hanno ricevuto un nome dai tassonomi che le studiano, e potremo ricostruirne l’albero evolutivo in forma di una genealogia molto complicata, ma esatta. La tassonomia zoologica e botanica e dei microrganismi diventeranno librerie enormi, ogni specie un libro molto lungo, fatto di tanti capitoli quanti sono i cromosomi (in numero caratteristico di ogni specie: uno nei batteri, 23 nell’uomo). Ogni capitolo è fatto di sezioni, i geni, tanti quante sono le proteine diverse poiché ogni gene contiene le istruzioni per fare una proteina specifica, ognuna con costituzione chimica, forma e funzione speciale. Queste istruzioni dipendono dall’ordine in cui i nucleotidi sono entro il cromosoma, in media una migliaia di nucleotidi per gene, e vi sono decine di migliaia di geni nel nostro genoma. Vi sono anche lunghi tratti di Dna fra i singoli geni di cui sappiamo meno, ma vi è molta attività per imparare se e quale funzione hanno. Tutto insieme il Dna determina la forma e funzione del corpo di ogni organismo vivente e delle sue parti.
Il secondo progresso sarà nello studio delle forze e leggi che producono l’evoluzione, cioè la trasformazione di ogni specie, la loro differenziazione, l’origine di nuove e l’estinzione di vecchie. Questi studi sono cominciati all’inizio del secolo scorso con teorie matematiche che sono paragonabili a quelle della fisica nello studio della materia non vivente. Abbiamo applicato così la raccomandazione di Galileo di ricordare che "la materia è scritta in termini matematici" - ma aggiunge subito, quasi per tranquillizzarci, esempi che ci parlano di forme geometriche che ci sono famigliari. Forse già ai suoi tempi era diffusa una certa paura dei numeri e delle formule.
Quel che Darwin trovò è una spiegazione semplice e universale che ci permette di capire come sono fatti gli organismi viventi e perché devono cambiare, adattandosi sempre meglio al loro ambiente. Noi, come tutti gli altri organismi viventi, abbiamo una certa complessità, e siamo capaci di riprodurre altri individui estremamente simili a noi stessi: la proprietà fondamentale della vita, che la rende possibile, è l’auto-riproduzione. Al tempo di Darwin si pensava che ogni essere vivente fosse stato creato da un Ente soprannaturale e non cambiasse mai. Ne era convinto anche il nostro eroe quando ha cominciato le sue esplorazioni attraverso il mondo: tutte le specie furono create circa 6000 anni fa, secondo la interpretazione letterale della Bibbia, che riassume in sei "giorni" i quasi sei miliardi di anni di vita della Terra. Parlare di "epoche" sarebbe stato un po’ meno erroneo; molte volte una parola ci tradisce - un errore di traduzione della parola "giorni"? Darwin è stato aiutato da varie osservazioni a capire quel che succede, anche se la storia della nostra specie è molto corta ed eravamo poco interessati a scoprirla. Solo recentemente gli archeologi e i paleontologi hanno cominciato a studiare cadaveri molto antichi, pietrificati. Avevano cominciato ai tempi di Darwin ma non vi era accordo sulla loro interpretazione: un grande medico tedesco, Rudolf Virchow, fondatore dell’anatomia patologica, alla cui analisi furono sottoposti i primi scheletri di Neanderthal dichiarò che le anomalie ossee riscontrate erano dovute a fatti patologici. Ma sotto l’influenza dell’addomesticazione, gli animali hanno avuto una profonda evoluzione.
Ieri guardavo i complimenti che si scambiavano due cani, un pechinese e un gran San Bernardo. Sono così diversi, che sarebbe assai difficile a noi riconoscere che sono la stessa specie se non lo sapessimo dalla storia di pochi secoli. Perché la loro apparenza è così differente? Sono i loro padroni che li hanno cambiati come hanno voluto, continuando a scegliere per la riproduzione certi individui strani e diversi. Hanno potuto farlo per molte generazioni, dato che i cani si riproducono assai più rapidamente di noi. Questo processo di scelta volontaria dei riproduttori non ha però modificato la loro capacità di riprodursi fra loro: ha avuto il nome di "selezione artificiale", e le molte osservazioni mostrano che può provocare una rapida evoluzione.
Altro aiuto alle elucubrazioni di Darwin venne dalle osservazioni demografiche dell’economista inglese Thomas Robert Malthus, circa l’insufficienza delle risorse di vita rispetto alla rapida riproduzione degli organismi viventi, che crea situazioni di competizione per cui solo una frazione piccola dei nati riesce a riprodursi. Il titolo della prima opera di Malthus sembra preannunziare la selezione naturale: Un saggio su un principio demografico che influenza il miglioramento futuro della società; in realtà l’economista Malthus si riferiva all’aumento di ricchezza, non di adattamento biologico della popolazione al proprio ambiente di vita. Difatti la selezione naturale è un fenomeno strettamente demografico che agisce automaticamente selezionando i "migliori", che sono coloro che si riproducono di più nell’ambiente di vita. Ma il processo può funzionare solo per i caratteri ereditarii, cioè che si ripresentano sufficientemente immutati nei figli. Sappiamo che un certo tipo ereditario (per esempio, la pelle scura) dà più probabilità di sopravvivere ed avere figli, a confronto con un tipo ereditario diverso (la pelle chiara) in un ambiente tropicale in cui il sole batte forte, perché i raggi ultravioletti solari provocano tumori cutanei, potenzialmente mortali, molto meno frequentemente negli individui di pelle scura. Infatti, il pigmento cutaneo scuro impedisce agli ultravioletti di traversare la pelle e giungere alle cellule capaci di produrre il tumore. È chiaro che in questo modo la popolazione tenderà a diventare più nera di pelle ai tropici, tanto più rapidamente quanto più alta è la mortalità da tumore negli individui di pelle chiara rispetto a quella di pelle scura, limitatamente ai tropici. È necessario, naturalmente, che il colore della pelle sia ereditato, e lo è largamente. L’intensità della selezione naturale dipende dalla differenza di probabilità di sopravvivere fino a riprodursi, e dalla fecondità tra i due tipi ereditarii nell’ambiente comune ai due tipi. Il "teorema fondamentale della selezione naturale" di R. A. Fisher (1930) che prevede la velocità di cambiamento di un carattere ereditario sotto selezione naturale usa appunto le curve di sopravvivenza e di fecondità in funzione dell’età per i diversi tipi ereditarii.
Darwin sapeva che in qualche modo si producono differenze ereditarie per caratteri specifici fra individui, ma non sapeva come. Oggi sappiamo che la riproduzione implica il passaggio dai due genitori a ogni figlio di una copia completa del genoma del padre e di quello della madre. Ma la produzione di una copia del Dna comporta una certa frequenza di "errori di copia", di cui i più semplici e comuni sono l’errore di trascrizione di un singolo nucleotide in un singolo punto di un particolare cromosoma: in pratica, la sostituzione di uno dei quattro tipo di nucleotidi con uno degli altri tre. Questo cambiamento del Dna detto una mutazione è trasmissibile ai figli e tutti i discendenti, poiché la copia con l’errore passata ai figli viene a sua volta copiata per la trasmissione dai figli ai loro figli.
La mutazione è un fenomeno spontaneo, raro, e viene considerato come un fatto "casuale", cioè normalmente non prevedibile se non per la frequenza con cui avviene, e che può essere modificata da condizioni ambientali o anche genetiche, ma non è una risposta adattativa all’ambiente specifico. L’unica forza che aumenta sistematicamente ed automaticamente l’adattamemto di una popolazione al suo ambiente di vita è la selezione naturale. Vi sono altre forze evolutive che influenzano la velocità di evoluzione, e sono anch’esse di natura demografica come la deriva genetica (drift, in inglese) che dipende dal numero di individui che formano la popolazione (o, più esattamente dal numero di riproduttori che formano la generazione successiva), e la migrazione fra popolazioni diverse. La specie umana è più facile da studiare sotto questo profilo di quasi qualunque altra poiché è più facile ottenere informazioni demografiche anche storiche; ed è la specie che ci interessa di più. Però la specie umana ha aggiunto una nuova evoluzione a quella strettamente biologica in modo più importante di qualunque altro organismo: l’evoluzione culturale, intendendo per cultura tutto quanto apprendiamo dalla famiglia e dalla società in cui viviamo. Essa può essere molto più rapida di quella biologica perché ha altri metodi di trasmissione, assai più potenti. Quel che viene trasmesso sono le invenzioni , cioè le idee e la loro applicazione alla vita di ogni giorno.
In pratica oggi l’evoluzione culturale cambia sistematicamente la selezione naturale cui siamo sottoposti. La selezione naturale resta però sotto controllo, dato che la nostra evoluzione culturale influenza probabilità di sopravvivenza e fecondità. Basta pensare agli effetti che una guerra nucleare potrebbe avere - non si può neanche escludere la scomparsa della nostra specie.
* la Repubblica, 11 febbraio 2009
Si apre il dibattito in Italia tra gli studiosi dopo il mea culpa della Chiesa anglicana
Scuse a Darwin, cattolici divisi
Mancuso: riabilitiamo anche Teilhard.
De Mattei: l’evoluzione non è scienza
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 16.09.2008)
Le scuse della Chiesa anglicana a Charles Darwin sono «un atto di onestà intellettuale, anche se bisogna evitare di santificare il naturalista inglese e quindi tenere aperto il dibattito sul fenomeno della vita, di cui la sua teoria evoluzionista dà una spiegazione solo parziale». Il teologo Vito Mancuso, autore del bestseller L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina), commenta con favore le novità provenienti dalla Gran Bretagna, riferite ieri dal Corriere, e chiede che anche la Chiesa di Roma compia un passo concreto nella stessa direzione. «Scriverò una lettera aperta - annuncia Mancuso - a monsignor Gianfranco Ravasi, che da presidente del Pontificio consiglio della cultura sta preparando un convegno sull’evoluzione, per chiedergli un gesto nei riguardi di Pierre Teilhard de Chardin, scienziato e gesuita francese che cercò di conciliare la teoria dell’evoluzione con il cristianesimo e nel 1962 venne colpito da un monitum, un richiamo del Sant’Uffizio che rilevava nelle sue opere gravi errori. Ritirare il monitum spetta ovviamente alla Congregazione per la dottrina della fede, l’ex Sant’Uffizio, ma Ravasi potrebbe dare un segnale importante affidando una delle relazioni previste nel convegno al teologo Carlo Molari, un sacerdote romagnolo, ormai anziano, che è stato escluso dall’insegnamento proprio in quanto seguace del pensiero di Teilhard de Chardin».
Pur senza pronunciarsi sul monitum del Sant’Uffizio, anche monsignor Fiorenzo Facchini, paleontologo autore di vari saggi editi da Jaca Book, promuove Teilhard de Chardin: «Al di là di alcune espressioni ambigue, che si potrebbero interpretare in senso panteista (cioè come se identificassero Dio e il mondo), nel complesso la sua opera non è in contrasto con il magistero, tant’è vero che nel 1981 ci fu un riconoscimento nei suoi riguardi da parte del cardinale Agostino Casaroli».
Facchini aggiunge che anche tra Darwin e la Chiesa cattolica non ci sono conti in sospeso: «Sul piano scientifico evoluzione e dottrina cristiana sono compatibili. Però, come ha osservato di recente Benedetto XVI, Darwin vede solo una parte della verità, quella riguardante i meccanismi biologici. Ci sono invece fondamentali domande di significato, circa la natura dell’uomo, cui si può rispondere solo ponendosi su un piano differente, di carattere filosofico e religioso».
Tuttavia altri esponenti del mondo cattolico negano al darwinismo la dignità di teoria scientifica. Per esempio lo storico Roberto de Mattei, presidente della Fondazione Lepanto: «L’evoluzione è solo un’ipotesi filosofica, che non ha ancora trovato un serio supporto da parte della ricerca empirica e ha avuto traduzioni catastrofiche sul piano politico con i regimi totalitari. Infatti il comunismo nasce dalla sintesi tra Hegel e Darwin compiuta da Karl Marx, mentre il razzismo hitleriano trae le sue origini da una mescolanza tra lo stesso Darwin e Friedrich Nietzsche».
Non a caso, de Mattei rifiuta l’idea di riabilitare Teilhard de Chardin: «Il suo pensiero è una tipica espressione del modernismo novecentesco, che fu condannato da san Pio X nell’enciclica Pascendi del 1907 ed è in contraddizione anche con la Fides et ratio di Giovanni Paolo II, nella quale viene respinta ogni forma di evoluzionismo teologico. A mio avviso Teilhard de Chardin merita di restare ai margini della Chiesa, perché la sua filosofia si risolve in un panteismo cosmico, incompatibile con la visione di un Dio trascendente».
La pensa in modo diverso un’altra storica di area cattolica, Lucetta Scaraffia: «Considero molto interessante, anche se forse un po’ troppo ottimista, il tentativo compiuto da Teilhard de Chardin per conciliare la teoria scientifica evoluzionista con una visione dell’universo religiosamente ispirata. Come tutti gli studiosi fortemente innovativi, suscitò diffidenze ed ebbe dei problemi con il Sant’Uffizio, ma oggi mi pare ampiamente recuperato. Quanto a Darwin, bisogna distinguere le sue teorie scientifiche dall’uso antireligioso che ne è stato fatto dalla propaganda atea per attaccare il cristianesimo, riproposto ancora oggi dagli scientisti come Piergiorgio Odifreddi. Ma in realtà l’evoluzionismo suscita ostilità soprattutto nei protestanti, molto legati alla lettera del testo biblico, mentre risulta più facilmente accettabile da parte dei cattolici, che hanno sempre ammesso un’interpretazione allegorica delle Scritture».
Invece il tradizionalista Maurizio Blondet, pur ostile ai fondamentalisti protestanti sul piano religioso e politico, è d’accordo con loro nella lotta al darwinismo, contro il quale ha scritto il libro L’uccellosauro e altri animali (Effedieffe). «La teoria dell’evoluzione - dichiara - viene tenuta in piedi dalla corporazione dei biologi, ma è smentita di continuo dalle scoperte della paleontologia e della genetica. Il grande merito degli evangelici americani è stato quello di dare coraggio ai numerosi scienziati che non esprimevano i loro dubbi sulla visione dominante per timore di rovinarsi la carriera. Che poi oggi gli anglicani chiedano scusa a Darwin, si deve a quella smania deleteria del politicamente corretto che sta provocando un enorme smarrimento anche all’interno della Chiesa cattolica».
EVOLUZIONE. UN FUTURO COMPLICATO
Un dibattito fra scienza e storia
La natura promuove lo sviluppo degli esseri umani ma non lo guida
Moltissimi fattori intervengono nel processo.
Fattori sociali e politici, scelte economiche e ambientali, strategie -internazionali
Si procede con una serie continua di adattamenti al proprio ambiente di vita
La cultura ha sopravanzato in molti modi e da tempo la nostra biologia
Emergono nuove contraddizioni
L’agricoltura produce sia cibo che inquinamento
di Luca e Francesco Cavalli Sforza( la Repubblica, 16.07.2008)
Qual è il futuro dell’evoluzione umana? Dove stiamo andando? Alcuni lettori ce lo hanno chiesto, dopo che in una serie di articoli pubblicati su queste pagine l’anno passato abbiamo parlato dei fattori che hanno determinato il nostro presente. Poche domande sono più difficili, ma vale la pena di capire perché è così impegnativo rispondere.
La natura promuove l’evoluzione degli esseri viventi, ma non la guida. Una guida precede e mostra la strada, mentre la natura non mostra nessuna strada: semplicemente, pone le condizioni che rendono inevitabile quell’aumento di varietà e quel cambiamento progressivo che chiamiamo evoluzione.
L’evoluzione procede attraverso una serie continua di adattamenti al proprio ambiente di vita. Evolvere è un fatto squisitamente biologico: le piante che crescono in ambiente arido sono costrette a sviluppare una strategia che consenta loro di trattenere l’acqua disponibile, o comunque di utilizzare al meglio la poca acqua che c’è, quando arriva. Le piante che vivono in climi piovosi hanno altre opzioni, ed evolvono di conseguenza.
Anche la nostra evoluzione è soggetta ai requisiti della nostra biologia. Le nostre cellule si procurano energia bruciando ossigeno, non zolfo o ferro, per cui non possiamo vivere in assenza di ossigeno. Siamo in grado di abitare climi più o meno caldi o freddi, ma se la temperatura si avvicina a zero assideriamo, se sale oltre i 40ºC rischiamo un colpo di calore. La nostra specie però ha sviluppato più di qualunque altra strumenti culturali che estendono i confini della sua biologia e modificano a suo vantaggio l’ambiente circostante. Come una bombola di ossigeno ci permette di spingerci al di là dell’atmosfera o nelle profondità marine, così vestiti e abitazioni adatte permettono di risiedere nei climi più freddi e una tuta in tessuto antincendio può sfidare la fiamma viva.
La cultura ha sopravanzato in molti modi la nostra biologia. Non è un fenomeno recente, ma solo negli ultimi due secoli ha raggiunto le straordinarie dimensioni odierne. Basti un’osservazione a rendersene conto: la vita media oggi sfiora o supera gli 80 anni nei Paesi più avanzati, dopo essere stata fra i 20 e 30 anni - simile a quella degli scimpanzé - per la quasi totalità della storia dell’uomo. Questa triplicazione della durata media della vita (che vale solo per i Paesi più sviluppati: in Swaziland è intorno a 33,5 anni nel 2008) dimostra con eloquenza il potere della cultura. Ma questo non significa che ora sia la cultura a guidare l’evoluzione umana. Di nuovo, possiamo dire che la sospinge, non certo che la dirige, perché l’umanità non è mai stata consapevole delle conseguenze a cui avrebbero portato le sue scelte, le sue azioni e le sue tecnologie.
Prendiamo ad esempio la più importante delle invenzioni umane: quella che ci ha permesso di produrre, con l’agricoltura e l’allevamento, il nostro cibo. Grazie ad essa, l’umanità ha potuto aumentare di numero ben mille volte in diecimila anni: da qualche milione a qualche miliardo di individui. Al tempo stesso, agricoltura e allevamento hanno dato il via a quei processi di inquinamento, desertificazione, degrado ambientale, di cui oggi abbiamo cominciato a pagare il prezzo su scala planetaria. Ogni invenzione è a doppio taglio, ha un beneficio ma anche un costo: può produrre grandi vantaggi come conseguenze indesiderate. La scoperta dell’energia atomica ha fatto fare progressi senza precedenti tanto alle nostre conoscenze quanto alle nostre tecnologie, ma i benefici che ha portato sono stati finora limitati, per quanto riguarda la produzione di energia, mentre il pericolo rappresentato dalle migliaia di testate nucleari disponibili negli arsenali grava come una terribile minaccia sul futuro dell’umanità.
Dove ci porta questo grande sviluppo culturale? La nostra capacità di fare uso di conoscenze e di tecnologie avanzate in vista di un bene comune è tutt’altro che sviluppata. Negli ultimi anni, per esempio, la quantità di cibo prodotta sul pianeta è stata spesso superiore alle necessità della popolazione umana, su scala globale. Ma cosa significa questo, nel momento in cui un individuo su tre è malnutrito e quasi un miliardo di persone è destinato a morire di fame? L’eccedenza alimentare non raggiunge i miliardi che hanno bisogno di cibo, né mai li raggiungerà, per ragioni squisitamente strutturali, inerenti ai meccanismi di produzione e distribuzione caratteristici delle nostre società. Non sono i Paesi più ricchi a raggiungere i più poveri portando i benefici derivanti dallo sviluppo, sono piuttosto gli affamati a cercare di raggiungere i Paesi più ricchi.
Qualunque essere vivente si riproduce senza limiti se trova nutrimento bastante. Un singolo batterio, dividendosi in due ogni venti minuti, produrrebbe in poco più di un giorno una massa di batteri grande quanto l’intero pianeta, se trovasse cibo sufficiente per farlo. Ogni pianta, ogni animale, tende a riprodursi e ad aumentare di numero quanto più possibile: è l’ambiente a porre dei limiti, ed è la disponibilità di cibo a frenare la crescita di qualsiasi popolazione. Una popolazione di insetti che si nutre di chicchi di grano conosce uno sviluppo immenso quando un campo di grano matura. Quando tutto il grano sarà stato mangiato, o mietuto, il numero degli insetti crollerà.
Lo stesso discorso vale per la nostra specie. Abbiamo avuto molto successo e abbiamo continuato a crescere dal momento in cui siamo comparsi sul pianeta, sfruttando la nostra capacità di creare strumenti per trarre dall’ambiente il massimo vantaggio. Ogni volta che una popolazione umana è aumentata al di là delle risorse disponibili sono scattati meccanismi di regolazione: carestie, epidemie, guerre, che hanno ridotto il numero di individui fino a renderlo nuovamente compatibile con le risorse.
Questo è successo innumerevoli volte nel corso della storia. Poi, ogni volta, la crescita è ripresa, assistita dalla potenza della riproduzione e dall’innovazione tecnologica. Se la nostra cultura guidasse la nostra evoluzione, potremmo aspettarci che ci avrebbe suggerito di limitare la crescita numerica, sconsigliandoci di spingere la pressione umana sull’ambiente fino a vedere profilarsi all’orizzonte l’esaurimento delle risorse fossili, minerarie e financo ecologiche su cui sono state costruite le nostre società. Ma non è andata così. Al contrario, ideologie politiche e religiose hanno continuato (e continuano) a propugnare la proliferazione degli esseri umani, per conquistare potenza e acquistare fedeli tramite l’aumento dei numeri. In modo analogo, l’ideologia economica dominante spinge per una crescita illimitata di produzione e consumi, quasi questi potessero moltiplicarsi all’infinito.
Dotati di conoscenze e mezzi tecnologici che ci hanno dato di fatto il controllo del pianeta, continuiamo a procedere come gli animali e i Primati che siamo (e che per tanto tempo abbiamo voluto considerare inferiori a noi): ci appropriamo di tutto ciò su cui riusciamo a mettere le mani, come se ogni risorsa fosse disponibile in quantità illimitate, senza una visione dei possibili futuri cui stiamo aprendo la strada con il nostro agire.
Diamo grande importanza al pensiero umano, alle nostre convinzioni, moralità e filosofie. Ma a cosa sono servite, se non riescono ad evitare le guerre? Se i nostri sistemi economici mantengono in povertà e in miseria metà dell’umanità? Se dobbiamo prendere sul serio l’alta considerazione in cui abbiamo sempre tenuto la nostra specie, dobbiamo concludere che viviamo sempre nella preistoria: la storia umana non è ancora cominciata.
Quando usciremo dalle caverne? Quando cominceremo a combattere contro le guerre con la stessa forza con cui combattiamo le malattie e con cui ci dedichiamo alla produzione del cibo? Quando ci renderemo conto che la nostra stessa vita è possibile solo in equilibrio con le altre forme di vita e con l’ambiente non vivente? Quando arriveremo a rispettare le convinzioni e gli stili di vita altrui? E la vita non umana?
C’è almeno un segnale positivo, per quanto riguarda la nostra crescita numerica: è la cosiddetta «transizione demografica», che si è verificata in Europa, a partire dall’Inghilterra e dalla Scandinavia, fra la metà dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento. Dopo un periodo iniziale durato circa una generazione in cui le popolazioni sono cresciute di numero perché è diminuita la mortalità, ma le nascite sono continuate indisturbate, si è cominciato a fare meno figli. Grazie alla migliore sopravvivenza dei nuovi nati e a vite più lunghe, la popolazione europea ha continuato a crescere per vari decenni, poi la crescita ha cominciato a diminuire, grazie alla minore natalità, fino a raggiungere un indice vicino a zero. Oggi l’aumento numerico, in Europa, è determinato solo dall’arrivo di immigrati provenienti da altri Paesi.
Dopo l’ultima guerra mondiale questo stesso fenomeno ha iniziato a estendersi al resto del mondo. La caduta della mortalità infantile e la maggior durata della vita hanno determinato un’esplosione demografica globale, che ha portato la popolazione umana da circa 3 a oltre 6,4 miliardi di individui (nel 2006). Di questo passo, si prevede che la popolazione mondiale smetterà di crescere fra il 2040 e il 2050. Quanti saremo diventati a quel punto? Il Nord non aumenterà forse più, ma il Sud aumenta ancora. Sono state fatte molte previsioni ma sono difficili, anche perché le crisi ecologiche ed economiche, la fame, le epidemie e le guerre potrebbero diminuire il numero degli esseri umani.
Dipenderà, evidentemente, dalle risposte collettive che sapremo dare ai problemi che abbiamo davanti. Il futuro della nostra evoluzione dipende in larga misura dalla consapevolezza collettiva. Il controllo della natalità è un bell’esempio della sfida che l’umanità si trova ad affrontare: dare un indirizzo alla propria evoluzione, così che ogni persona che nasce abbia la possibilità di una vita che valga la pena di essere vissuta e che la specie umana divenga una risorsa per il pianeta, non la sua rovina.
La vita genera incessantemente se stessa e ha dato forma a tutto l’ambiente naturale. Non sa dove va, ma percorre ogni strada che riesce a praticare. Anche la cultura umana esplora ogni possibilità, e il mondo in cui viviamo è il risultato delle nostre passate azioni e dell’uso che abbiamo fatto delle nostre tecnologie. La nostra salvezza, qualunque cosa sia, non sta in un altro mondo, ma in ciò che sapremo fare di questo. E’ incoraggiante che sia così, ed è la speranza migliore. Per quanto sia importante il numero degli esseri umani, il lettore potrà però chiedersi: come saranno fatte le donne e gli uomini di domani? Questo, naturalmente, è tutto un altro discorso.
Evoluzione
Due studiosi a confronto sulla dimensione morale e spirituale dell’Homo sapiens
L’enigma dell’intelligenza umana
Facchini: ha origini trascendenti. Pievani: no, la scienza può capirla
Riduzionismo
Alcuni biologi ritengono che nei geni si trovi la grammatica universale
che guida e regola il comportamento etico
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 10.06.2008)
Il famoso biologo ateo Richard Dawkins lo definisce (sulla scorta del collega Jared Diamond) «grande balzo in avanti». Il pontefice Giovanni Paolo II lo chiamava invece «salto ontologico». Di certo ai nostri antenati, in una fase collocabile tra 150 e 45 mila anni fa, succede qualcosa di sbalorditivo: gli ominidi appartenenti alla specie Homo sapiens cominciano a realizzare pitture rupestri, a seppellire i cadaveri secondo un rituale, ad abbellire i propri corpi, a fabbricare oggetti ornamentali. In breve, producono cultura.
Come questo sia potuto accadere resta non solo un enigma affascinante, ma anche uno dei punti più controversi della storia naturale, al pari della questione riguardante l’origine della vita, di cui si è occupato ieri sul Corriere Sandro Modeo. E ad accrescere l’interesse del tema ci sono le sue implicazioni filosofiche, che dividono chi vede nell’intelligenza umana una scintilla divina da chi la considera il frutto più sofisticato di processi evolutivi dominati dal caso. La polemica infuria nel mondo anglosassone, dove hanno grande risalto le posizioni estreme. Da una parte gli scienziati riduzionisti (come il già citato Dawkins, Daniel Dennett, Marc Hauser), secondo i quali lo studio della biologia può consentirci di arrivare a dire l’ultima parola sulla mente umana. Sul versante opposto i fautori del «disegno intelligente», spesso legati ad ambienti religiosi, affermano che non solo il comportamento dell’uomo, ma l’intero percorso dell’evoluzione si può spiegare solo chiamando in causa un intervento sovrannaturale. Più sfumati e articolati sono i punti di vista prevalenti tra gli studiosi italiani. Per esempio Fiorenzo Facchini, sacerdote cattolico e docente di Antropologia, nel suo ultimo libro Le sfide della evoluzione (Jaca Book, pp. 174, e 16) critica la teoria del «disegno intelligente», che a suo dire «non appartiene alla scienza» e «porta a una confusione di piani che non giova a nessuno ». Ma al tempo stesso tiene a sottolineare che l’uomo, in quanto dotato della facoltà di pensare, «reclama una trascendenza nella sua origine, perché lo spirito non può derivare dalle forze della materia».
Insomma, bisogna distinguere l’umanità dal resto degli esseri viventi: «I sostenitori del disegno intelligente - spiega Facchini al Corriere
commettono l’errore di introdurre un elemento sovrannaturale per spiegare fatti che rimangono nell’ambito fisico e biologico. Ma con la comparsa del pensiero umano si verifica una discontinuità molto netta, a mio avviso innegabile. L’attitudine a fare progetti, il linguaggio simbolico, l’autocoscienza e l’autodeterminazione, la capacità di gestire consapevolmente l’ambiente sono caratteristiche peculiari dell’uomo, che non si possono ricondurre al semplice sviluppo dell’attività cerebrale. A mio parere in questo caso è vano cercare una spiegazione con i metodi delle scienze naturali, perché siamo dinanzi a fenomeni trascendenti che sfuggono alla loro indagine».
Sul fatto che sia sbagliato ridurre la natura umana al dato biologico si trova d’accordo anche il filosofo della scienza Telmo Pievani, convinto darwiniano e curatore del volume L’evoluzione della mente (Sperling e Kupfer, pp. 131, e 9,20), comprendente contributi in cui alcuni illustri scienziati s’interrogano sulle origini del comportamento culturale umano.
«C’è chi dice - dichiara Pievani al Corriere - che un giorno scopriremo il cromosoma della morale, la grammatica universale del comportamento etico inscritta nel genoma umano. Ma anche se ciò dovesse avvenire, saremmo ben lontani dall’avere risolto tutti i problemi in questo campo. Si pensi alla questione della violenza. Una volta acclarato che l’uomo tende ad aggredire i suoi simili per ragioni biologico- adattative, posso al tempo stesso decidere per altre motivazioni, di natura morale, che quel comportamento è illegittimo e va messo al bando. C’è dunque un ulteriore livello di studio, nella valutazione delle vicende umane, di cui le scienze naturali non possono dar conto». Qui, però, sorge un interrogativo: per spiegare la dimensione culturale dell’Homo sapiens è necessario richiamarsi alla trascendenza?
Facchini risponde positivamente: «Una volta ammesso che l’uomo è un unicum e la sua comparsa segna un salto di qualità, ci troviamo su un piano che sfugge agli strumenti della conoscenza empirica. Non è detto che l’unica soluzione sia ammettere l’esistenza del Dio biblico: c’è chi vede il trascendente come uno spirito universale e impersonale che avvolge la realtà. Dal punto di vista cristiano l’uomo risponde a un progetto del Creatore: non un disegno intelligente che determina lo sviluppo dell’universo, ma piuttosto un "disegno superiore", posto al di là della natura e della storia».
Diverso l’approccio di Pievani: «L’irriducibilità del comportamento umano alla biologia non richiama automaticamente la trascendenza. È come dire che c’è un mistero su cui l’indagine scientifica non ha nulla da dire. Io, invece, non credo che esista una dimensione per principio inattingibile. Può esserlo di fatto, perché la scienza è un sapere provvisorio e avrà sempre di fronte a sé l’ignoto. Ma se i meccanismi biologici dell’evoluzione non bastano a spiegare la peculiarità culturale dell’uomo possiamo ricorrere ad altri livelli di analisi riguardanti le scienze umane: psicologia, sociologia, filosofia morale. Il tutto rimanendo su un terreno naturalistico e senza ricorrere a fattori trascendenti».
FESTIVAL
«Spoletoscienza» 20 anni dopo
Si tiene sabato e domenica la ventesima edizione di Spoletoscienza (a Spoleto, Chiostro San Nicolò), appuntamento nato nel 1989 come sezione aggiunta al Festival dei Due Mondi. Sabato, nell’incontro dal titolo «La Scienza al tramonto del secolo breve», dopo una relazione di Martin Bauer, reader in Social Psychology and Research Methodology della London School of Economics, sono previsti gli interventi di Alison Abbott, Paolo Fabbri, Paolo Rossi e dell’astrofico di Cambridge John Barrow.
L’impronta sull’universo
Il cosmo si espande secondo una rotta precisa, l’unica a consentire la nascita della vita.
Parla John Barrow, teorizzatore del «principio antropico»
di LUIGI DELL’AGLIO (Avvenire, 10.07.2008)
L’ universo si espande, ma non a caso. Se crescesse un po’ più rapidamente o un po’ più lentamente, la vita non esisterebbe affatto. Energia oscura: per capire questo mistero dell’universo bisogna ricorrere a una cifra illeggibile, pari a 10 seguito da 120 zeri. Bene, sarebbe bastata la mancanza di uno solo di questi zeri per mandare a monte il programma della vita nell’universo.
John D. Barrow, 55 anni, uno dei più grandi matematici e cosmologi viventi, torna con nuove ragioni a sostenere che l’universo è stato fatto per la vita e per il genere umano, come affermava anche nel libro che gli ha dato fama: The Anthropic Cosmological Principle, del 1986. Docente all’Università di Cambridge, insignito del premio Templeton 2006 («per aver contribuito al progresso della conoscenza in materia di scienza e religione») e del Queen’s Anniversary Prize, Barrow parlerà a Spoletoscienza sabato, presentando il suo ultimo libro, Cosmic Imagery.
Quanto manca perché la ricerca astrofisica possa risalire all’attimo del Big Bang, la grande esplosione che ha dato origine all’Universo?
«Siamo in grado di produrre una ben dimostrata ricostruzione storica dell’universo giovane, tornando indietro fino a un secondo dopo la sua tumultuosa nascita. In quel momento, la materia è un po’ più densa dell’acqua. Poi, entro i primi tre minuti, l’universo si comporta come un grande reattore nucleare che produce deuterio, elio e litio. Subito dopo si espande. E oggi le osservazioni astronomiche confermano il modello Big Bang, accettato da quasi tutti i cosmologi. Non c’è accordo, invece, sulla complicata sequenza di eventi che dal Big Bang porta alla formazione di galassie, stelle e pianeti».
Quand’è che l’Universo comincia a creare le condizioni favorevoli alla vita?
«Per poter disporre dei ’mattoni’ necessari, occorrono elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio che compaiono nei primi minuti dal Big Bang. Gli elementi interessanti dal punto di vista biochimico, come il carbonio, sono prodotti dall’idrogeno e dall’elio nelle fornaci nucleari delle stelle. Quando le stelle muoiono, questi elementi si disperdono nello spazio e trovano la loro via nei pianeti e negli esseri viventi. Il processo dell’alchimia nucleare è lungo e lento. Ha bisogno di miliardi di anni. Perciò, per creare le condizioni favorevoli alla vita, l’universo deve essere grande, vecchio, buio e freddo».
Deve allontanarsi dall’immenso calore dell’universo giovane. E diventare grande. Ma perché anche buio?
«Man mano che ci si allontana dal Big Bang, l’energia cosmica ha una densità troppo bassa perché l’universo sia luminoso di notte. Più in generale, la stessa densità media dell’universo è veramente bassa: stelle e galassie sono separate da crescenti distanze astronomiche. Gli avamposti si allontanano. La vastità e la dispersione che regnano nell’universo avevano indotto non pochi filosofi a negare il carattere teleologico, cioè finalistico, del cosmo. Ma le apparenze ingannano. La scoperta dell’espansione dell’Universo (prevista dalla teoria generale della relatività, di Albert Einstein) ha mostrato la sottigliezza e la complessità della moderna cosmologia».
Perché l’Universo continua a espandersi?
«Ecco un mistero. L’universo segue una ’rotta’, diciamo così, ed è altamente improbabile che sia stata segnata dal caso. È uno spartiacque molto preciso: se l’Universo si espandesse troppo velocemente, non riuscirebbe ad aggregare materiale nelle galassie e nelle stelle (e non si formerebbero i mattoni della vita); se si espandesse troppo lentamente, collasserebbe in un processo di crescente contrazione e non durerebbe quei miliardi di anni necessari perché si formino le stelle. È fantastico che l’Universo abbia mantenuto questa rotta per quattordici miliardi di anni».
In quali direzioni punta oggi la ricerca cosmologica?
«Scopriamo sempre nuove cose sulla ’corsa’ dell’universo. Ma c’è un altro enigma, molto stringente, da spiegare. Come rilevano i più avanzati telescopi, pochi miliardi di anni fa l’espansione sembra aver subito un’accelerazione che è tuttora in atto. È come se il moto inflazionario dell’universo sia ripreso da capo. La spinta verrebbe dall’energia oscura che rappresenta circa il 70% di tutta l’energia cosmica. Secondo tutti i calcoli eseguiti, per poterne valutare l’importanza occorre considerare un numero spropositato: dieci seguito da centoventi zeri. Se questa cifra avesse perduto un solo zero, addio galassie, stelle e forme di vita (compresa la nostra)».
riflessione
Quello stupore per la Creazione, motore di ogni grande scoperta
DI CARLO CARDIA (Avvenire, 28.05.2008)
Il mistero dell’universo si svela poco alla volta agli occhi e all’intelligenza dell’uomo, e rende più affascinante la sua avventura umana e spirituale. È connaturato all’apprendimento scientifico il fatto che l’uomo proceda per verità parziali, per teorie approssimate o anche errate, esplori le leggi fisiche, stenda lo sguardo fin quasi ai confini del cosmo, e resti però proteso, quasi ansioso, verso una conoscenza integrale che non si riesce mai a raggiungere.
Per il mistico tedesco Meister Eckhart nella mente, e solo nella mente, dell’uomo è la sede del divino, mentre per Aristotele la conoscenza può divenire contemplazione, perché in essa è il culmine della tensione alla trascendenza. Da questo punto di vista quasi stupisce lo stupore con il quale la stampa ha commentato le parole e le riflessioni dell’astronomo e teologo José Gabriele Funes, per il quale può darsi la vita in altri pianeti e luoghi dell’universo senza che resti scalfita la convinzione che Dio è il creatore del cosmo e che noi non siamo prodotti della casualità ma figli di un padre, il quale ha per noi un progetto d’amore. Eppure, le parole cosmo, universo, creato, vita, oltre che nella filosofia greca (e non solo) sono le parole fondanti della Bibbia, del lessico ebraico-cristiano, con spessore e aperture senza limiti.
Da San Paolo, per il quale il creato attende una trasfigurazione che lo faccia giungere a compimento, a Origene che vedeva nel disegno divino la volontà di salvare tutte le creature, fino a Teilhard de Chardin che ha dedicato pagine esplicite e bellissime alla possibilità (cui andava la sua preferenza) di vita in altre zone dell’universo, c’è nel pensiero cristiano (più in genere religioso) una vasta gamma di spunti, riflessioni, personalità, che hanno sempre parlato della ricchezza dell’opera creatrice di Dio.
Al di là della discussione sugli aspetti scientifici che ruotano attorno alla possibilità di altri viventi nell’universo (condizioni per lo sviluppo biologico, limiti all’esplorazione cosmica, possibilità di incontro), c’è qualcosa di più profondo che rende il cristiano naturalmente disponibile all’eventualità di altre esistenze. C’è anzitutto lo stupore per la grandiosità del creato. Uno stupore che non ha confini, che si manifesta di fronte alla bellezza di ogni forma di vita nel libro di Giobbe, prosegue nei libri sapienziali e si trasfigura nelle parole di Gesù che vede in Dio la fonte dell’armonia e della cura della vita. Nella cura di Dio per la preziosità dei gigli nei campi, e per gli uccelli del cielo, è la radice di una fiducia in un amore divino ancora più grande per l’umanità. C’è insomma una pre-disposizione al nuovo.
Lo stupore, e la gratitudine, per l’opera creatrice sono le basi dell’apertura del cristiano alle infinite meraviglie, quelle accertate e quelle possibili, dell’universo. Soltanto da pochi decenni gli uomini sanno che il cosmo si compone di miliardi di galassie, che ciascuna galassia è composta di miliardi di stelle, è probabile un inizio cosmico con il Big bang, è accertata la nascita, lo sviluppo, l’estinzione degli astri. E soltanto da pochi anni si fanno le ipotesi più ardite su tanti aspetti misteriosi del creato, dai buchi neri che tutto ingoiano e creano singolarità compensative, all’espansione dell’universo, fino alla vertiginosa possibilità di una pluralità di universi, separati nello spazio o coesistenti nello stesso recinto. Si può dire con tranquillità che chi abbia una fede nel trascendente è pronto quasi spontaneamente a veder crescere lo stupore, la meraviglia, la gratitudine, per una realtà che già solo nella materialità sembra prefigurare l’infinito. In altre parole, la fede in Dio può anticipare e sorreggere l’accettazione dei più grandi traguardi della scienza, come sembra, tra l’altro, aver intuito Stephen Hawking nella prospettazione delle più ardue teorie cosmologiche.
C’ è, poi, nell’anima cristiana un qualcosa che oltre a predisporre alla contemplazione della grandiosità dell’universo rende l’uomo capace di fruire delle sue bellezze e di agire in sintonia con lo spirito creativo che ne è all’origine. Ed è la ricerca e l’approfondimento di un legame antropologico con la volontà divina che si trasforma in amore per la vita, per tutte le vite, per la crescita e realizzazione delle facoltà umane. Senza questo legame, senza l’abbandono alla trascendenza, ciò che esiste o accade nell’universo diverrebbe agli occhi dell’uomo motivo di semplice curiosità, la vita si ridurrebbe a materialità senza prospettive o slanci verso gli altri, l’universo stesso con o senza vita potrebbe declassarsi ad imponenza caduca, priva di respiro, senza vere finalità. Anche la spiritualità dell’uomo costituirebbe un sottoprodotto della psiche, continuamente sul crinale della sopravvivenza o della disperazione esistenziale.
Cambia tutto, come dice Henri Bergson, se la realtà cosmica viene trasfigurata in una fede che si fonda su un progetto di realizzazione che sostiene e alimenta l’anima e il corpo delle creature, su una spinta che rispetta la dimensione della materialità ma le dona una dignità più alta che ci viene suggerita dalla nostra interiorità, da una fiducia che si aspetta di più di ciò che vede, da una gratitudine per ciò che ci circonda.
Guardando all’universo con gli occhi dello spirito non si perde neanche un’oncia della sua maestosità. Al contrario si diviene sempre più capaci di conoscerne e gustarne potenzialità e misteri, scrupolosi nel recepire quanto la scienza mette a disposizione dell’uomo ma attenti nell’umanizzare strumenti e risultati della conoscenza. San Giovanni di Dio suggerisce di seguire la nostra ragione perché essa ci condurrà a Dio, oggi possiamo aggiungere che la strada della conoscenza fa crescere le ragioni della fede in Dio, nella sua opera, ci fa meglio comprendere il significato di un cammino che è stato percorso da quando la vita si è affacciata sulla terra.
Teilhard de Chardin ha dimostrato con la sua eccezionale esperienza di paleontologo che il concetto di evoluzione, se inteso nella sua interezza e complessità, non è in contrasto con la fede religiosa, ma in un certo senso ne può rafforzare il fondamento perché indica una freccia nel divenire della materia verso una crescente spiritualizzazione, dà un senso all’azione creatrice che noi vediamo da vicino sulla terra, ma che è strutturalmente cosmica e universale. Ed ha confermato ciò che è intimamente connesso alla religione e al cristianesimo, e che si è venuto disvelando nel corso del cammino storico pur tra errori e incomprensioni, e cioè che la teologia e la spiritualità sono debitrici verso la scienza per la sua fatica e i suoi approdi, ma la scienza è debitrice verso lo spirito per la sua capacità di lettura e di trasfigurazione della realtà materiale.
Anche per queste ragioni, chi studia l’universo vede appassire sempre più la discussione sul darwinismo e sulla evoluzione delle micro-realtà. L’uomo è la creatura che riesce a conoscere i termini e la sostanza della evoluzione delle macro-realtà, che riguardano la sua storia e gli spazi immensi che solo da poco tempo vanno aprendo spiragli sui propri segreti. Nel disvelamento di questi segreti l’uomo di fede non soltanto non si sente perso, ma vede crescere la propria fiducia verso una creazione che non finisce mai di stupire. Guardando all’universo con gli occhi dello spirito non si perde neanche un’oncia della sua maestosità. Al contrario si diviene sempre più capaci di conoscerne e gustarne potenzialità e misteri
Evoluzionismo *
UN PO’ DI STORIA
L’EVOLUZIONE UMANA
IL CREAZIONISMO
IL DISEGNO INTELLIGENTE
LA DOTTRINA CATTOLICA OGGI
ANTIEVOLUZIONISMO IN ITALIA
I DARWIN DAY UAAR
PERCORSI DI APPROFONDIMENTO
UN PO’ DI STORIA
Ogni gruppo umano si è posto le grandi domande sull’origine del mondo e della specie umana. Molte e molto diversificate sono state le risposte date, soprattutto dalle élite religiose.
Ovviamente, queste risposte non avevano alcuna base scientifica, ma erano invece il frutto delle condizioni sociali, economiche e culturali delle comunità in cui venivano elaborate. La narrazione contenuta nella Bibbia è nota a tutti: Dio avrebbe creato l’intero universo in soli sei giorni: cominciando la sua opera il 23 ottobre 4004 a.C., secondo il calcolo, basato sullo stesso testo biblico, che il pastore anglicano Usher fece nel Seicento. Nel Corano non esiste una descrizione vera e propria della creazione: i pochi accenni sembrano rifarsi alla Bibbia ebraica. Nel mondo indiano, la narrazione inclusa nei RgVeda (X, 129) ne riconosce esplicitamente l’inconoscibilità, mentre lo smembramento dell’uomo primordiale (X, 90: Purusa dalle mille teste, mille occhi, mille piedi) avrebbe dato origine alle odierne caste: le quattro ere cicliche dell’universo, con minor fallacia rispetto alle religioni abramitiche, ammonterebbero a 4.320 milioni di anni umani.
Non tutti gli uomini sono stati prigionieri di questi miti: il filosofo greco Anassimandro, ad esempio, riteneva che gli uomini discendessero dai pesci. E il filosofo romano Lucrezio scrisse che nella natura non vi era traccia di alcun intervento divino, ma solo del continuo divenire della natura stessa. Ma resta il fatto che, almeno fino al XVIII secolo, l’idea dominante nel mondo occidentale fu quella del fissismo, secondo cui le specie erano immutabili. Il naturalista Buffon fu il primo a formulare una proposta evoluzionistica, seguito da altri studiosi.
Ma fu solo con Charles Darwin (1809-1882), e con la pubblicazione nel 1859 del suo trattato L’origine delle specie, che la teoria dell’evoluzione prese definitivamente forma. Darwin sostenne la tesi della selezione naturale: un meccanismo che favorisce i caratteri genetici che meglio si adattano all’ambiente, eliminando invece quelli svantaggiosi. In seguito, lo sviluppo degli studi sull’ereditarietà di Mendel permisero di affinare ulteriormente la teoria: la comparsa di alcune variazioni casuali vantaggiose, rispetto agli altri individui di una stessa specie, possono essere ereditate dalla propria discendenza, fino alla nascita di un nuovo gruppo di individui, diverso da quello di provenienza. È questo il processo detto di “speciazione”.
L’evoluzionismo sostiene dunque che le specie animali e vegetali discenderebbero tutte da specie più antiche, da cui si sarebbero, per l’appunto, “evolute”. L’evoluzione non è predeterminata: le mutazioni sono casuali e anche il tempo e il modo in cui insorgono sono assolutamente imprevedibili. Il processo di speciazione è quindi sempre in corso.
Negli ultimi decenni la scuola neodarwinista ha visto i suoi esponenti privilegiare diversi aspetti. L’ipotesi degli “equilibri punteggiati”, sostenuta da Eldredge e Gould, ha proposto un modello evolutivo a salti. Richard Dawkins, invece, ha invece formulato l’ipotesi del “gene egoista”, in cui l’evoluzione è vista come un meccanismo per la trasmissione di geni.
Nonostante i differenti accenti, la quasi totalità del mondo scientifico odierno ha fatto propria la teoria dell’evoluzione. Non mancano del resto le prove: lo studio dei resti fossili, le somiglianze e le differenze tra specie simili in diverse aree geografiche, le evidenze prodotte dall’anatomia e dall’embriologia comparata, le notevoli somiglianze nella composizione chimica e nelle strutture del corpo. Una teoria concorrente dovrebbe essere in grado di produrre altrettante evidenze. Al momento non vi è riuscito ancora nessuno.
EVOLUZIONE UMANA
L’età del nostro pianeta è stimata in circa 4,5 miliardi di anni. Si ritiene che le prime forme viventi siano comparse dopo un altro miliardo di anni: si trattava di semplici organismi monocellulari. Ci vollero quasi altri tre miliardi di anni per vedere la diffusione degli eucarioti, i primi organismi pluricellulari. I primi vertebrati marini comparvero 500 milioni di anni fa, i primi pesci 440 milioni di anni fa, i primi anfibi 400 milioni di anni fa, i primi rettili 250 milioni di anni fa. Per i mammiferi, discendenti dei rettili terapsidi, bisognò attendere ancora, e solo con la scomparsa dei dinosauri (circa 65 milioni di anni fa) si poterono aprire degli spazi per la loro diffusione.
60 milioni di anni fa apparvero i primi primati da cui, per successive speciazioni, si sarebbe arrivati all’antenato comune di scimpanzè ed esseri umani, la cui definitiva separazione avvenne circa 7-8 milioni di anni fa. Il genere homo si è evoluto attraverso l’australopiteco (4 milioni di anni fa), l’homo abilis (2,5), l’homo erectus (1,7), l’homo sapiens (150.000 anni fa). Quest’ultimo si diviso in due razze, che probabilmente si contesero anche il territorio: quella di Neanderthal si estinse circa 25.000 anni fa.
L’origine “scimmiesca” dell’uomo trova una conferma nell’analisi del DNA: il nostro e quello dello scimpanzè sono identici per più del 98 per cento.
IL CREAZIONISMO
L’ipotesi che l’uomo discendesse dalla scimmia suscitò uno scandalo immediato già all’epoca di Darwin. Le polemiche non si placarono nemmeno in seguito: negli anni Venti, nel Tennessee, si svolse il famoso Processo della scimmia (Monkey Trial), che vide come imputato un insegnante “colpevole” di insegnare il darwinismo a scuola.
Con le evidenze a proprio favore che l’evoluzionismo può vantare oggi, però, desta perplessità che vi siano ancora così tante persone legate alla concezione creazionista classica, basata su un’interpretazione letterale del testo biblico. Negli USA, la maggioranza della popolazione non crede tuttora alla validità della teoria evoluzionistica. Non solo: il movimento creazionista gode di un ampio supporto politico e di notevoli sostegni economici. La principale organizzazione impegnata in questa campagna di retroguardia è l’Institute for Creation Research.
Cotanto impegno ha portato dei risultati concreti: dal 1999, nelle scuole del Kansas viene insegnato il creazionismo al posto dell’evoluzionismo. Altri stati (come l’Alabama, il Nebraska, il New Mexico, l’Ohio) presentano l’evoluzionismo come una delle tante possibili spiegazioni. E in altri Stati ancora, che affidano la scelta dei programmi alle autorità scolastiche dei vari distretti, il creazionismo comincia a essere insegnato.
Nel Regno Unito, dove le scuole religiose sono finanziate dallo Stato, i problemi stanno cominciando solo ora: alcuni istituti, legati a organizzazioni religiose creazioniste, hanno infatti eliminato l’evoluzionismo dai propri programmi. Nel resto del vecchio continente la riscossa creazionista viene osservata ridendo sotto i baffi (è quanto può capitare navigando su un sito come Sulle tracce delle origini), ma è un atteggiamento supponente, che rischia di sottovalutare il pericolo.
IL DISEGNO INTELLIGENTE
La teoria del Disegno intelligente viene presentata come “oggettivamente” credibile, e scientificamente documentabile. Secondo questa ipotesi, la complessità e la bellezza dell’universo possono essere spiegate soltanto con l’intervento diretto di un essere divino. In realtà, anche i sostenitori di queste tesi non riescono a portare evidenze concrete a proprio favore: è difficile vedere molta intelligenza nella creazione di un universo quasi completamente invivibile, nell’estinzione del 99 per cento delle specie apparse sul nostro pianeta da quando vi è vita, nell’attesa di miliardi di anni per vedere finalmente apparire la specie umana. È difficile non concepire questa teoria come una versione “riverniciata” del creazionismo. E, come il creazionismo, è una teoria non testabile, e quindi fuori dall’ambito dell’indagine scientifica.
Anche questo movimento, tuttavia, è dotato di potenti supporter, proprio perché si presenta come un’alternativa sia al creazionismo che all’evoluzionismo: si veda in proposito il sito dell’Intelligent Design Network. Nel luglio 2005 il presidente George W. Bush in persona ha speso delle parole a favore dell’insegnamento scolastico della teoria del disegno intelligente.
LA DOTTRINA CATTOLICA OGGI
La Chiesa cattolica ha impiegato molto tempo per giungere a patti con l’evoluzionismo. Ancora nel 1950, l’allora pontefice Pio XII, all’interno dell’enciclica Humani Generis, metteva sullo stesso piano creazionismo ed evoluzionismo, attaccando duramente quest’ultimo e ribadendo, nel contempo, l’esistenza storica di Adamo e il suo ruolo di progenitore, e quindi di diffusore del peccato originale.
Il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, diffuso nel 1992 per impulso di Giovanni Paolo II, ha glissato brillantemente su tutte le questioni scientifiche. Vi si ribadisce tuttavia che “la creazione è destinata, indirizzata all’uomo, immagine di Dio [...] La creazione, infatti, è voluta da Dio come un dono fatto all’uomo, come un’eredità a lui destinata e affidata”.
Passi avanti sono stati fatti solo con il messaggio che Karol Wojtyla inviò, il 22 ottobre 1996, alla Pontificia Accademia delle Scienze. Pur partendo dalla Humani Generis, il pontefice riconosceva che l’evoluzionismo era diventato ormai qualcosa di più che una mera ipotesi: anche se accennava a “teorie” dell’evoluzione, anziché di una sola teoria, e questo perché esistono «letture materialiste e riduttive e letture spiritualistiche. Il giudizio è qui di competenza propria della filosofia e, ancora oltre, della teologia». Il papa non specificava come i teologi potessero fornire giudizi competenti in materie scientifiche.
Recenti dichiarazioni del cardinale Christoph Schönborn hanno rinfocolato le polemiche. L’arcivescovo di Vienna, che pure viene considerato uno degli esponenti più “moderni” delle gerarchie cattoliche, ha infatti definito il messaggio di Giovanni Paolo II «vago e poco importante», indicando in pratica la teoria del disegno intelligente come la più coerente con l’insegnamento cattolico, poiché non ammette alcuna mutazione casuale.
ANTIEVOLUZIONISMO IN ITALIA
Secondo un’indagine sociologica, circa il 25% della popolazione italiana ritiene che la Bibbia riporta la vera parola di Dio e va presa alla lettera. La percentuale scende sotto il 10% tra diplomati e laureati, ma sale oltre il 50% tra coloro che non possiedono nemmeno il titolo di studio elementare. È probabilmente a questo bacino elettorale che si è rivolto l’onorevole Pietro Cerullo (AN), promotore nel 2003, insieme ad Alleanza Studentesca, di una “Settimana antievoluzionistica”.
L’iniziativa suscitò molti commenti ironici. Non ne suscitò alcuno, invece, il decreto legislativo del 19 febbraio 2004, con cui il governo cancellava dai programmi d’insegnamento delle scuole medie ogni riferimento alle teorie evoluzionistiche. Non a caso, i programmi per le scuole medie erano stati elaborati da una commissione presieduta da un cattolico di ferro, Giuseppe Bertagna.
Vi fu una levata di scudi da parte di diversi scienziati, anche cattolici, contro la decisione. Il ministro Moratti fu costretto a nominare una commissione di saggi, presieduta da Rita Levi Montalcini, incaricata di studiare il problema. Quasi un anno dopo, la commissione fornì il proprio parere, chiedendo che il darwinismo fosse reinserito tra gli argomenti di studio. Quando, e come, il ministro non l’ha al momento ancora deciso.
I DARWIN DAY UAAR
La necessità di promuovere l’evoluzionismo ha convinto diversi suoi sostenitori a lanciare, nel 2002, una giornata mondiale dedicata alla scienza. Nacque così il Darwin Day, che si svolge ogni anno in molte città del pianeta nelle giornate intorno al 12 febbraio, anniversario della nascita di Charles Darwin.
In Italia, l’UAAR è stata pronta a raccogliere questa proposta, organizzando, fin dal 2003, conferenze e dibattiti sull’evoluzionismo e la scienza. Queste manifestazioni hanno visto la presenza di studiosi e scienziati di primissimo livello. Si veda la pagina del nostro sito dedicata ai Darwin Day UAAR.
* Fonte: UAAR (ripresa parziale)
INTERVISTA
Quella genetica è solo una delle chiavi dell’evoluzione: c’è una quarta dimensione, quella simbolica. Parla Eva Jablonka
I «buchi» di Darwin
La scienziata polacca contro il «politically correct» del neo-darwinismo, ma anche contro il fondamentalismo dei creazionisti americani
di Mario Gargantini (Avvenire, 08.06.2007)
L’aspetto è quello di una persona semplice e mite ma determinata e animata da convinzioni ben precise: è Eva Jablonka, una studiosa di origine polacca che vive e insegna all’Università di Tel Aviv e si propone nientemeno che di «mettere in discussione quella versione genocentrica del neo-darwinismo che negli ultimi cinquant’anni ha dominato il pensiero biologico». Ritiene infatti del tutto insoddisfacenti le teorie evolutive che vanno per la maggiore, che mettono l’enfasi unicamente sul Dna, sulla casualità delle sue mutazioni e sulla sua capacità di trasmettere le informazioni ereditarie lungo la catena dei viventi. Certo, schierarsi contro le posizioni dominanti è sempre un po’ scomodo e, in questo caso anche rischioso sul piano della comunicazione: nel clima polemico creatosi attorno a questo tema, è facile che una posizione critica nei confronti del darwinismo venga subito etichettata, e squalificata, come creazionista e "quindi" antiscientifica. Lei non accetta questa sottile forma di ricatto e rivendica l’esigenza, intrinseca ad ogni seria impresa culturale, di «mettere al primo posto il rispetto della verità e la fedeltà a quanto i dati raccolti possono documentare».
È comunque molto ferma nel dissipare ogni ombra di creazionismo dalla sua posizione. Incontrandola a Milano, in occasione della presentazione del libro L’evoluzione in quattro dimensioni (Utet) scritto con Marion Lamb, abbiamo avuto conferma di quanto si poteva leggere tra le righe di un testo che si muove rigorosamente su un piano puramente scientifico: quanto più la nostra capacità di descrivere la natura si fa raffinata, tanto più emerge la bellezza e la ricchezza della creazione; e chi, come molti sostenitori dell’Intelligent Design, ricorre agli interventi diretti di Dio per compensare i "buchi" della scienza, non solo fa un’operazione metodologicamente scorretta, ma riduce la possibilità di cogliere ovunque i segni di quella ricchezza.
Ed è proprio dalla varietà della natura che hanno preso le mosse Jablonka e Lamb per costruire quella che, secondo alcuni, potrebbe rappresentare una "nuova sintesi" delle teorie evolutive. Interrogandosi su cosa determini l’ereditarietà, cioè la trasmissione dei caratteri da una generazione all’altra, le due scienziate hanno raccolto una enorme messe di dati sufficiente a mettere in crisi il dogma centrale della biologia molecolare: non tutta la variazione genetica, sostengono, avviene per puro caso ed esistono meccanismi che rendono possibili cambiamenti del patrimonio genetico indotti da fattori esterni al Dna. Insomma, le mutazioni casuali non sono l’unico modo di trasmettere l’informazione ereditaria e quindi tale trasmissione non sarebbe il risultato di una grande roulette ma farebbe intravedere dei percorsi in qualche modo guidati. Quella genetica è solo una delle strade, una delle dimensioni, come le chiama Jablonka; ad essa vanno aggiunte quella cosiddetta epigenetica, quella comportamentale e quella simbolica.
Spiegare la dimensione epigenetica è piuttosto difficile e Jablonka si aiuta con un’efficace analogia: quella della trasmissione di un brano musicale. «Lo spartito, che è l’analogo dell’informazione genetica, si trasmette nel tempo insieme alle sue eventuali modifiche e ai casuali errori di trascrizione; l’esecuzione, corrispondente ai caratteri acquisiti, non viene tramandata ai posteri. Ciò però avveniva in passato; ma da quasi un secolo non è più così: i moderni strumenti di registrazione musicale consentono di trasmettere le esecuzioni e talvolta accade che una particolare performance introduca variazioni sulla stessa partitura che vengono poi trasferite ai posteri. Ecco quindi che un carattere acquisito diventa ereditario».
L’affermazione ha il sapore dell’eresia, e fa sussultare chi è abbarbicato al darwinismo ideologico; ricorda il modello lamarkiano, un tabù della biologia moderna, che ogni studente liceale ha imparato a considerare con ironia, come ingenuo tentativo di interpretazione de lla natura reso inutile dopo il trionfo delle tesi darwiniane. Il fatto è che da una trentina d’anni gli esempi di sistemi ereditari epigenetici, che cioè trasmettono informazioni non genetiche alla progenie, sono ben noti e documentati e Jablonka si dichiara «più interessata a considerare i fatti che ad obbedire al politically correct che vieta ogni riferimento al lamarckismo».
Questa posizione diventa ancor più impegnativa in riferimento alle altre due dimensioni dell’evoluzione. Jablonka cita numerosi esempi di «comportamenti sviluppati come risposta all’ambiente o assimilati attraverso un processo di apprendimento, che vengono scelti dalla selezione e diventano comportamenti innati. Nel caso degli animali, si tratta di abitudini alimentari, riproduttive, abitative, acquisite tramite le interazioni sociali con altri individui della stessa specie; ciò può avvenire in diverse forme: tramite il trasferimento di sostanze che influiscono sui comportamenti, tramite l’imprinting o per imitazione dei genitori».
Nel caso dell’uomo tutte le dinamiche precedenti si manifestano ma emerge un elemento di discontinuità che rende l’evoluzione umana totalmente diversa da quella di ogni altro vivente. «Con l’uomo si afferma la quarta dimensione dell’evoluzione, quella simbolica, già indicata dal filosofo Ernst Cassirer come distintiva degli esseri umani, da lui definiti come animali simbolici. È la dimensione che si esprime attraverso la razionalità, il linguaggio, l’espressione artistica e l’esperienza religiosa; e che assume un ruolo determinante nella nostra storia evolutiva». Nella sua visione pluridimensionale, Jablonka vede tutte le quattro modalità di trasmissione dell’informazione interagire tra loro e plasmare così il cammino evolutivo; che non procede più alla cieca, in balìa delle fortuite mutazioni genetiche. I cambiamenti nella storia dei viventi non devono più aspettare la casualità delle variazioni genetiche e la successiva selezione naturale.
Con la comparsa dell’uomo, «i simboli diventano i principali protagonisti dell’evoluzione» e l’emergere del nuovo non è solo conseguenza di incidenti nella duplicazione del Dna ma può essere l’esito positivo di fenomeni di apprendimento e di creatività. Così gli elementi non materiali dell’esistenza umana fanno il loro ingresso nel tempio della spiegazione scientifica: e vi entrano a pieno titolo, dalla porta principale.
La terra pensante di Teilhard
A 50 anni dalla scomparsa, lo scienziato gesuita è considerato il patrono del cyberspazio. Geologo e mistico Osteggiato dal Vaticano, «invitato» a lasciare la Francia, Pierre Teilhard de Chardin ritrova oggi grande attualità per la sua teoria sulla «noosfera»
di CLAUDIO CANAL (il manifesto, 25.08.2005)
Sulla Stampa del 2 marzo 1963 Nazareno Fabretti scriveva: «Cinque libri in Italia in questi ultimi mesi potrebbero essere la conferma a una divulgazione della figura e dell’opera di Teilhard de Chardin degna della statura e della problematicità dell’uomo, dello scienziato e del pensatore». Il titolo, Teilhard è di moda? ci richiama alla banalità del fatto che le mode non sarebbero tali se non passassero di moda. Così è stato per Pierre Teilhard de Chardin di cui quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla morte avvenuta a New York nella Pasqua del 1955. Date a confronto, se ne deduce che se fu una moda, si trattava pur sempre di una moda postuma, anche allora. Tra i cinque libri evocati da Fabretti, uno, Il gesuita proibito di Giancarlo Vigorelli, pubblicato da Il Saggiatore, avrebbe avuto molta risonanza e diverse edizioni. Introduceva al pensiero di questo strano gesuita, geologo, paleontologo e mistico, ma soprattutto rendeva noti gli attriti tra Teilhard e la gerarchia ecclesiastica, sintetizzati da un Monitum del Sant’Uffizio del giugno `62, che metteva al bando, anch’esso postumo, le sue opere, che tuttavia sarebbero state pubblicate da Julian Huxley. Come sempre, condanna e assimilazione nello stesso tempo: alcune idee del gesuita vengono recuperate in uno dei documenti sostanziali del Concilio Vaticano II, aperto nello stesso anno del monito, la costituzione pastorale Gaudium et Spes. «La caratteristica essenziale dell’Uomo, la radice di tutte le sue perfezioni, - scrive Teilhard - è quella di essere cosciente al secondo grado. Non solo l’Uomo sa, ma sa di sapere. Riflette. Ora, in ciascuno di noi, questa riflessione è ancora parziale, elementare. L’individuo solo di fronte a se stesso non si esaurisce. Non è che mediante la sua opposizione ad altri uomini che egli arriva a vedersi fino in fondo ed interamente. Per quanto nel suo centro e nel suo germe, la riflessione sia personale ed incomunicabile, essa non si sviluppa che in comune. Essenzialmente, essa rappresenta un fenomeno sociale. Che cosa significa ciò, se non che il suo compimento e la sua pienezza futura coincidono con l’avvento di quello che abbiamo chiamato la Pianetizzazione-Planétisation umana? Già una volta, or sono centinaia di migliaia di anni, la coscienza è giunta a centrarsi, e perciò a pensare, in un cervello che aveva raggiunto il limite della complicazione nervosa: e fu la prima ominizzazione della vita sulla terra. Una volta ancora dopo altre migliaia o milioni di anni, la stessa coscienza può, e deve, supercentrarsi in seno ad una umanità totalmente riflessa su se stessa. Piuttosto che opporci inutilmente o di abbandonarci servilmente alle potenze plasmanti dell’astro che ci porta, che cosa attendiamo noi per lasciare la nostra vita rischiararsi e dilatarsi alla luce ascendente di questa seconda Ominizzazione?».
Questa lunga citazione consente di tagliar corto sugli eventi della vita di Teilhard, che - nato nei pressi di Clermont Ferrand nel 1881 e ordinato prete a trent’anni, nell’ordine dei gesuiti - ne viene «silenziato» nel 1927, e intraprende allora diversi viaggi di studio e di ricerca in Africa e soprattutto in Cina. Il Vaticano non gli concede l’autorizzazione ad insegnare al Collège de France né di pubblicare Il Fenomeno Umano. «Invitato» a lasciare la Francia, si ritira negli Stati Uniti, dove muore nel 1955.
Le accuse ecclesiastiche? Panteismo, sottovalutazione del peccato originale e delle sue conseguenze, misconoscimento del carattere soprannaturale della redenzione... Ma, soprattutto, i teologi giuridici lo accusano di aver pienamente accettato l’evoluzione. Infatti: «l’evoluzione da molto tempo non è più un’ipotesi, ma una condizione alla quale d’ora in poi devono soddisfare tutte le ipotesi».
Perché ripescare una polemica d’annata tra le autorità ecclesiastiche e un gesuita scienziato-paleontologo? Perché la Rete è grande e Teilhard è il suo profeta. Nella sua sintesi visionaria il padre gesuita - ultimo nei tempi moderni a rischiare una sintesi - prospetta una ritmica dell’evoluzione che prevede il costituirsi di una noosfera, apparsa con l’essere umano alla fine del Terziario e in continua espansione. Come la biosfera, la noosfera si stende sopra la terra su cui è «sdraiata». È lo strato pensante della terra, una complessa membrana di conoscenza che avviluppa il mondo, un «sistema nervoso, tecnologico, planetario, un involucro pensante». Un «tappeto», una «rete nervosa avviluppante la superficie intera della Terra» come dice ne l’Avvenire dell’Uomo. Abitiamo e siamo abitati dalla noosfera, perché è l’oggettivazione della coscienza e dell’intelligenza collettiva dell’umanità. La parola Teilhard l’aveva coniata nel 1925. In controcanto l’avrebbe ripresa e posta in un contesto diverso, ma non opposto, il geochimico russo Vladimir Vernadskij, non casualmente amico del fisico, ingegnere e filosofo Pavel Florenkij, liquidato da Stalin nel 1937. Ognuno potrà, volendo, ripercorre le genealogia di questa idea fermentativa: il neoplatonismo, la patristica greca, Averroé...
Per quante diramazioni possa assumere la noosfera, resta ferma la considerazione di Teilhard: «Sempre meglio concepisco l’uomo come il grande fenomeno terrestre...; non so perché i geologi considerino tutti gli strati concentrici di cui è formata la terra, ad eccezione di uno: quello formato dallo strato umano pensante; e quelli che si interessano all’Uomo sono generalmente estranei alla geologia. Bisognerebbe unire i due punti di vista». Dunque non un platonico mondo delle idee, ma un vero e proprio agglomerato complesso di energia materiale e spirituale in cui l’essere umano opera come «agente geologico», secondo l’interpretazione del teorico della decrescita, il bioeconomista Nicholas Geogescu-Roegen che riconosce il suo debito verso Teilhard.
«La Ricerca - afferma il gesuita - ancora ieri occupazione di lusso, sta per diventare funzione primaria, e addirittura principale, dell’Umanità... Pianetizzandosi, l’Umanità acquista nuovi poteri fisici che le permettono di super-organizzare la Materia». E, sbirciando ancora di più nel futuro: «Sto pensando a quelle straordinarie macchine elettroniche (il punto di partenza e speranza della giovane scienza della cibernetica), con le quali la nostra capacità di calcolare e combinare è rinforzata e moltiplicata da un processo e ad un livello tanto strabiliante in questo senso quanto quello che l’ottica ha già prodotto per il nostro potere visivo».
Si colloca in queste premesse la radice del culto degli adepti del web e di Internet verso Teilhard de Chardin. I devoti del cyberspazio lo riconoscono come il loro santo patrono, prescindendo - ma non sempre - dal credo teologico e mistico che il padre sintetizzava così: «Credo che l’Universo è una evoluzione. Credo che l’evoluzione va verso lo Spirito. Credo che lo Spirito si completa in Dio personale. Credo che il personale supremo è il Cristo universale». La sua Cristognosi aveva come base non una creazione eruttiva, ma un divenire in cui forse perfino Dio evolve e nel cosmo la vita e la coscienza si «complessificano» da sempre per successivi «passaggi di frontiera o di stato» fino ad assumere non accidentalmente le forme che conosciamo. Un «Cristo evolutore» è la forza motrice dell’evoluzione, per impulso e per attrazione, il «Punto Omega».
Le acrobazie teologiche hanno impaurito i custodi dell’ortodossia cattolica, ma hanno indignato anche gli scienziati, che gli hanno opposto, ieri come oggi, un universo meno edificante, in cui nessun disegno intrinseco è rintracciabile, in cui il caso e l’accidente dominano incontrastati. La selezione pota e sfronda, la vita non segue direzioni di marcia né traiettorie prestabilite e la coscienza è un risultato improbabile e accessorio, tanto meno è destinata da singola coscienza a diventare, come un neurone interconnesso, il cervello dei cervelli, in una crescente cerebralizzazione della Terra. Tuttavia la virtualità - o la realtà? - di questa sfera pensante alimenta gli intrecci teorici che tentano di dar conto di questa nuova condizione cognitiva rappresentata dalla Rete. La trans-individualità degli internauti è sotto i nostri occhi, che la si chiami intelligenza collettiva secondo il neoumanesimo alla Pierre Lévy o «intelligenza connettiva» da parte di de Kerckhove o addirittura General Intellect, sulla base di letture un po’ strabiche di Marx.
Quello che non possiamo non riconoscere è il formarsi di una noopolitica in cui diventa discriminante il controllo della rete per blindare la mistica del mercato e santificare le pretese imperiali del capitalismo reticolare. Una cyberwar dalle dimensione cosmiche, la cui posta è l’assorbimento in un unico Net delle risorse terrestri, delle sensibilità singole e delle intraprendenze comuni. Sarebbe da ciechi però non vedere una «concentrazione psichica» che alimenta l’arcipelago planetario delle resistenze, dei corpi con cervello, delle differenze ostinate, delle mitologie concrete, delle libertà empiriche, delle aree liberate, delle mappe delle individualità refrattarie e renitenti. Nel linguaggio visionario di Teilhard: «formazione ed emersione graduali, in discordanza con la maggior parte delle antiche categoria, di una nuova superficie noosferica sulla quale la collettivizzazione umana, fino allora operatasi per costrizione, entri finalmente nella sua fase simpatica, sotto l’influsso, recentemente apparso, dello spirito di evoluzione».
TEOLOGIA
L’uomo di Teilhard, così l’universo trova il suo centro
di Franco Gabici (Avvenire, 31.03.2006)
Il teologo Gustave Martelet ha pubblicato nel 2005, in occasione dei cinquant’anni della morte di Teilhard de Chardin, un corposo volume dal titolo Teilhard de Chardin, profeta di un Cristo sempre più grande e dal momento che il libro non è stato tradotto, torna utile questo volumetto che, secondo le intenzioni del suo autore, vuole essere una sintesi di quel suo studio e al tempo stesso un facile accesso al pensiero di questo gesuita.
Il pensiero di Teilhard, infatti, non solo merita di essere preso in considerazione, ma deve essere approfondito e completato. Potrà essere criticato, ma non dovrà mai essere dimenticato. È questa la convinzione di Martelet, che apre il suo saggio con una puntualizzazione molto chiara, quasi una avvertenza per quanti ancora considerano questo gesuita uno scienziato geniale dalle idee stravaganti al limite dell’eresia. E invece, afferma Martelet, Teilhard non è affatto il profeta di un Cristo diverso da quella della Rivelazione, ma il suo Cristo è il Cristo della Chiesa. Ciò premesso, lo studio si dipana attraverso i più significativi "punti di vista" di Teilhard che vanno dal suo concetto di creazione fino al "punto Omega".
Sicuramente il concetto che ha più incuriosito gli studiosi e i teologi è stata l’idea teilhardiana della creazione e dell’evoluzione. Senza mai mettere in discussione il ruolo del Dio creatore, Teilhard è convinto che «Dio non tanto fa le cose, quanto piuttosto fa sì che si facciano» e questa visione evolutiva non contraddice l’atto creatore di Dio. La Genesi, infatti, afferma che Dio ha creato il mondo ma non dice nulla sul "come" lo abbia creato. Di conseguenza, conclude Teilhard, considerando l’universo possiamo ritenere che la creazione sia un "farsi" lungo il percorso di una evoluzione naturale.
Ciò che colpisce, nella visione teilhardiana, è il senso della globalità che coinvolge tutte le cose, chiamate ad assolvere l’unico compito di tendere verso il "punto Omega" nel quale si identifica il Dio della Rivelazione. Il senso cosmico di Teilhard, infine, fornisce una lettura nuova dell’Eucaristia, un atto sacramentale che non si esaurisce in un evento locale e momentaneo, ma si estende a tutto quanto il creato quando «in modo misterioso ma reale, al contatto della sostanziale Parola, l’Universo, immensa Ostia, è diventato Carne».
Nella visione evoluzionista di Teilhard, infine, l’uomo e l’universo sembrano essere fatti l’uno per l’altro. L’uomo ha bisogno dell’universo come condizione della propria esistenza e ciò fa dire a Teilhard che Dio, per riuscire a fare un’anima, ha una sola via aperta davanti a sé: creare un Mondo nel quale questa anima possa esistere e crescere. Quasi una anticipazione di quel "principio antropico" che sarebbe stato formulato dai cosmologi all’inizio degli anni Settanta per giustificare un universo che sembra essere stato impostato per la esistenza stessa dell’uomo.
Gustave Martelet
E se Teilhard
dicesse il vero...
Jaca Book. Pagine 80. Euro 10
INTERVISTA
Parla Jacques Arnould, teologo e scienziato: «I credenti rigettino tutti gli integralismi, creazionisti o evoluzionisti che siano»
Dio e Darwin, a ciascuno il suo
«Va rifiutata tanto l’idea che l’uomo sia il prodotto del semplice caso quanto un determinismo meccanico, che non lascerebbe spazio al libero agire umano e divino»
di Luigi Dell’Aglio (Avvenire, 23.03.2007)
«Complotto contro Darwin» è il titolo che Le Nouvel Observateur ha dato a un articolo di padre Jacques Arnould, teologo domenicano, storico della scienza e ingegnere, che lavora al Cnes (Centre nationale d’Etudes spatiales). Arnould si occupa in primo piano del rapporto tra scienza e fede, studia le sfide che la scienza lancia ai credenti e, in libri che hanno avuto grande eco (La teologia dopo Darwin e Dio, la scimmia e il Big Bang, editi in Italia da Queriniana), spiega che la Chiesa cattolica e quelle protestanti hanno adottato «una lettura scientifica, esegetica dei testi sacri. Invece il creazionismo ante litteram non tiene conto del carattere simbolico, poetico, epico, sapienziale della Bibbia. E pretende che il mondo sia stato creato, letteralmente, in sei giorni».
Nel fervore della polemica, i termini di riferimento perdono precisione, creazione e creazionismo vengono spesso confusi...
«Quel che conta, soprattutto, è non rinunciare al dibattito. Non è la prima né l’ultima volta che le nostre società incontrano questo tipo di sfida lanciato all’intelligenza e alla fede, alla scienza e alla religione. Dobbiamo mettere al centro non il combattimento ma la discussione. Ma i partigiani delle posizioni estreme non sempre sono pronti ad accettare questo metodo».
Il suo principio è: «Dare a Darwin quello che è di Darwin e a Dio ciò che è di Dio». Anche il cardinale Christoph Schönborn dice: «Bisogna trovare la sintesi tra la scala di Darwin e la scala di Giacobbe».
«Io mi colloco risolutamente nella prospettiva aperta da Giovanni Paolo II nell’ottobre 1996, quando, davanti alla Pontificia accademia delle Scienze, giudicò fondate le ricerche che sono state condotte sviluppando, secondo il metodo scientifico, i lavori di Darwin. Io non dico che Darwin abbia definitivamente ragione. Constato soltanto che la scienza si costruisce oggi in un contesto darwiniano, anche se in futuro dovrà cambiare sia il c ontesto che i fondamenti. Io tengo conto del modo nel quale i nostri contemporanei comprendono e si rappresentano il mondo. Parto da questo per tentare di elaborare una proposta teologica e dire qualcosa su Dio e sul mondo».
La critica al darwinismo nasce dal timore che se ne voglia fare una ideologia materialista?
«L’elaborazione di una teoria scientifica è il risultato di un lungo lavoro di ricerca: si raccolgono dati, si costruiscono ipotesi, se ne valuta la validità. Bisogna stare attenti a precisare i limiti e le condizioni di applicazione della teoria. La teoria dell’evoluzione è prima di tutto un magnifico prodotto della ricerca biologica. Darwin merita certamente di trovarsi nell’abbazia di Westminster, accanto a Newton. Tuttavia queste teorie sono prodotti dell’intelligenza umana, possono essere influenzate da ideologie umane. È impossibile elaborare una scienza perfettamente neutra. Dunque non bisogna dire che la teoria dell’evoluzione è diventata un’ideologia materialista, ma piuttosto che certe teorie dell’evoluzione hanno potuto e possono ancora sostenere una forma materialista di ideologia».
Secondo lei, uomo di scienza e di fede, come deve regolarsi il credente?
«Con Copernico e Galileo, la Terra non è più al centro. Poi Freud spiegherà che, in un certo senso, l’uomo non è il padrone assoluto di se stesso. Ma perché il cristiano dovrebbe aver paura di questi sconvolgimenti? Anche perduto su un pianeta di un sistema solare qualunque, in mezzo a miliardi di galassie, cugino delle grandi scimmie e discendente come gli altri viventi da un’unica cellula primordiale, l’uomo è una specie vivente molto singolare. Con la sua intelligenza, con il suo sapere, con le sue molteplici capacità tecniche, con la sua immaginazione e creatività - in breve: con il suo genio - è un po’ meno di un Dio (Salmo 8), anche se non è nulla davanti alle polveri stellari che lo circondano».
«Il Regno» ha scritto che il pensiero cristiano non è tenuto a opporre una rigorosa teleologia al Caso neodarwiniano...
«Altrimenti abbiamo una teleologia, cioè un determinismo stretto, da parte cristiana; e un Caso trionfante da parte darwiniana. Invece gli evoluzionisti riconoscono oggi che l’evoluzione ha luogo attraverso una "cospirazione" di fenomeni aleatori, casuali, ma anche di necessità. E i cristiani dicono che l’azione di Dio non si compie sotto l’effetto di un radicale determinismo, né in pieno indeterminismo. Va rifiutata ogni forma di indeterminatezza per cui l’uomo potrebbe essere considerato il prodotto del semplice caso, ma anche una forma di determinismo secondo il quale la storia si svolgerebbe in modo meccanico, in base a un piano che non lascerebbe spazio all’agire libero di Dio e dell’uomo. Ecco un cantiere di idee, difficile ma appassionante, da proporre a scienziati, filosofi e teologi».
Fede e esplorazione dello spazio. Come si trova un religioso al Cnes?
«Le questioni aperte sono tante. Lo spazio appartiene a ciascuno di noi. Serve un’etica dello spazio».
«Salvare», «convertire», «giustificare»: alcune delle parole chiave dell’informatica rivelano una parentela sorprendente con la tradizione biblica. Che non è soltanto di superficie
Computer, una miniera di teologia
Dietro l’inattesa convergenza tra Bibbia e Web forse si cela la nostalgia di una relazione vera con l’Altro
Nei due linguaggi, le stesse idee di custodire i fenomeni, stabilire rapporti, affermare il soggetto umano
di Bruno Forte (Avvenire, 08.02.2007)
«Salvare», «convertire», «giustificare» sono tre delle espressioni più usate nel linguaggio del computer e del Web. Tre parole chiave, la cui ignoranza evoca lo spettro dell’impossibilità effettiva di utilizzare fruttuosamente l’intelligenza artificiale, di cui tutti ormai sembrano non poter fare a meno. Ebbene, non a caso queste tre parole sono di derivazione teologica: solo nel mondo della fede biblica e della teologia ad essa collegata l’ignoranza di questi tre spazi di significato può compromettere il tutto, e cioè l’integralità dell’approccio credente alla rivelazione, analogamente a come la medesima ignoranza nell’uso del computer ne comprometterebbe in radice la praticabilità. Chi non sapesse che cos’è salvezza, conversione o giustificazione, chi non ne avesse neanche lontanamente l’idea o il bisogno, di certo non avrebbe alcun interesse esistenziale sufficiente per accostarsi alle Sacre Scritture e cercare in esse la luce del senso o la forza della redenzione. Chi non sapesse «salvare», o «convertire» o «giustificare» il materiale su cui sta lavorando informaticamente, rischierebbe semplicemente di perdere tempo e fatica.
Web e Bibbia sembrano dunque aver bisogno dei processi segnalati dai tre verbi «salvare», «convertire» e «giustificare». È questa constatazione tanto semplice, quanto intrigante, che fa nascere più di una domanda: c’è un rapporto fra i linguaggi della Rete e l’esperienza della Trascendenza, di cui la rivelazione biblica è testimone e strumento? Si nascondono forse in termini come i tre segnalati nostalgie prossime o remote di Trascendenza? Con quali prospettive sull’esperienza umana del vivere e del morire?
Salvare. Resistere all’oblio è il tormento del pensiero umano fin dalle sue origini. Dove tutto appare caducità, frammento che viene dal nulla e vi precipita, la passione del filosofo diventa quella di resistere al declino, di difendere il dono o il tormento di esistere. Ecco perché la filosofia nasce dove più forte appare la minaccia dell’inesorabile perdita. Salvezza è difesa dal nulla, baluardo contro il dissolvimento, custodia dell’esserci. È per soddisfare questo bisogno che nasce la scrittura: fermare nel tratto il pensiero, renderlo pronto a nuovi accessi, a nuove comunicazioni. È questo il sogno di ogni «grafia»: salvare il mortale fermandolo. Salvare appare allora operazione necessaria, anche se non assoluta: e così è nel regno del Web. Senza il pensiero che salva o utilizza il salvato, a nulla varrebbe «salvare». La piccola salvezza offerta dalla scrittura, quella stessa piccola salvezza dell’uso informatico, fa appello ad un altro, che salvi il salvato richiamandolo, servendosene, dandogli nuova vita. Ed è allora che si comprende la differenza fra questo «salvare» e la salvezza della fede: l’Altro in questione nella storia della salvezza non è soltanto l’utente, lo scrittore o il lettore che passa, ma è il Creatore e Signore, l’Origine e il Fine, la Custodia e il Grembo. La salvezza di cui parlano i testi biblici, l’opera del Salvatore Gesù, non è la protezione di un’ora, di una stagione, di un tempo fosse pure infinito. È l’accoglienza nella vita senza fine, è l’eternità offerta nel tempo.
Di questo approdo, il linguaggio del Web è pallida traccia, segno della nostalgia che tutti ne abbiamo. Eppure, proprio così, «salvare» è cifra di trascendenza, segnale di una sete originaria, quella della salvezza, e si offre come il testimone dell’Altro di cui abbiamo bisogno per vivere e per morire. Ogni atto del «salvare» è traccia di questa nostalgia che è in noi più forte e più profonda di ogni coscienza che possiamo averne: anche l’umile processo del «salvare» legato al mondo del Web.
Convertire. «Salvare», però, non basta: se quanto è stato salvato non fosse più raggiungibile dalla continua evoluzione dei linguaggi del Web e del computer, vana sarebbe la resistenza all’oblio, vano il baluardo contrapposto alla vorace bocca del nulla. Come ogni linguaggio, an che quello informatico si evolve e cambia. Se il libro resiste con la consistenza e la palpabilità odorosa delle sue pagine, i file vivono le stagioni dei programmi in cui furono scritti. Occore «salvare» il «salvato»: questa operazione di «salvezza» al quadrato è il processo indicato dall’espressione «convertire». «Convertire» è nel Web l’espressione della continua lotta contro il tempo che passa, l’operazione finalizzata ad esprimere la signoria della continuità pensata e voluta dagli uomini sulla frammentazione.
«Salvare» è la vittoria sulla caducità dell’istante; «convertire» è il trionfo sull’incomunicabilità dei tempi, rendere prossimo lo straniero, familiare l’estraneo. È questo in realtà anche il senso originario dell’espressione biblica: «Teshuvà», la parola ebraica tradotta con «conversione», sta a dire l’atto del ritorno. L’ebraico fa capire concretamente come il convertirsi sia l’evento di una relazione ritrovata, di un legame nuovamente possibile. In fondo, il linguaggio del Web recupera questo stesso senso. Come nell’universo biblico, così nel mondo informatico «convertire» è il processo che testimonia l’importanza vitale della relazione e della comunicazione fra diversi. Leggere allora nel lemma «convertire» una cifra del bisogno di relazionarsi alla Trascendenza e di ancorarsi ad essa in una comunicazione viva e vitale, è allora forse molto meno che un arbitrio.
Giustificare. L’idea di «giustificazione» esprime nel mondo del computer l’urgenza di plasmare ciò che andiamo producendo secondo una forma che corrisponda al nostro gusto o al nostro bisogno di espressione creativa. L’allineamento a destra o a sinistra, il posizionamento al centro, la giustificazione piena, sono l’esercizio della sovrana libertà dell’autore di disporre del prodotto della sua opera. «Salvare» esprime l’urgenza «ontologica» di «salvare i fenomeni». «Convertire» mostra la necessità «etica» di stabilire relazioni. «Giustificare» manifesta invece la passio ne «estetica» che abita in ognuno di noi, il bisogno di dare forma all’informe, di mettere ordine nei frammenti, di far emergere il protagonismo del soggetto. Si coglie qui l’analogia e la differenza col senso di «giustificare» che appare nella Bibbia: l’analogia sta nell’esprimere la ricerca di un ordine, in cui chi si muove non si senta perduto. La differenza sta nel fatto che nell’orizzonte della fede il giustificatore è solo il Soggetto trascendente, il Dio vivo creatore e signore del cielo e della terra.
Certo, questo processo di giustificazione non avviene senza l’opera del protagonista umano, interlocutore pieno dell’alleanza con Dio: tra i due poli resta tuttavia un’irriducibile distanza, un’asimmetria che lungi dallo schiacciare la creatura, la esalta e la apre al più e all’oltre rispetto a sé. La giustificazione in senso teologico è, insomma, il processo dell’agire salvifico di Dio, cui corrisponde l’accoglienza della fede obbediente che si lascia ordinare e plasmare da Lui. Ancora una volta, un’espressione del linguaggio informatico si rivela cifra di una nostalgia che la supera. Una nostalgia che non è azzardato chiamare di Trascendenza, volta cioè a un altro ordine, a un’altra bellezza, che nel frammento delle opere e dei giorni degli uomini faccia risplendere la totalità di un disegno, di un possibile, impossibile amore che unifichi, salvi e converta. Giustificare è non solo ansia dell’io di esprimere la propria misura sulla propria opera, ma anche cifra di un più alto ordine, dove il Tutto si affacci nel frammento, e la Bellezza eterna venga a dirsi nella struggente fragilità del tempo.
«Salvare» - «convertire» - «giustificare»: un linguaggio teologico nel dominio della «téchne» che sembra voler invadere tutto? Semplice caso? Memoria antica? Debole apertura? Nostalgia di Trascendenza? Aver acceso la domanda è già forse aver varcato la soglia, per scrutare nel regno del Web l’abisso del cuore umano che è e resta il centro di tut to, anche nel tempo della tecnica e del «villaggio globale» favorito ed espresso dalla Rete: quel cuore che resta inquieto, aperto e interrogativo, finché non riposi nel Dio che lo ha creato senza di lui, ma che non lo salverà senza di lui. E in un contesto culturale in cui il Web e il computer riempiono e condizionano sempre più la vita e la psiche di milioni di esseri umani, soprattutto di giovani, aver riconosciuto nei linguaggi degli strumenti informatici una finestra più o meno esplicita sulla Trascendenza può essere un aiuto a percorrere il cammino verso quel «riposo» liberante e pacificante, che è l’incontro con Dio, di cui tutti abbiamo profondo bisogno per vivere e per misurarci con le sfide sempre incombenti della sofferenza, della fragilità, della morte e, in generale, della fatica di volerci e di essere veramente umani.
L’evoluzione dell’uomo riconduce all’Uno di Plotino
Uno studio di Giorgio Straniero sulle teorie filosofico-teologiche del grande gesuita Teilhard de Chardin
di editoriale (Il Tempo, 10.06.2001) *
Esiste attualmente un "panteismo" cristiano e propriamente cattolico, che si ricollega con la ricerca degli autori dei primi secoli del Cristianesimo, detti "padri della Chiesa". Lo sforzo di questi personaggi, da San Giustino a Sant’Ireneo, a San Gregorio di Nissa, era stato quello di pensare il messaggio evangelico mediante le categorie filosofiche dell’antica Grecia, nel dialogo con le filosofie del tempo. Anzitutto, nei confronti della tradizione neoplatonica, ma anche verso le forme a carattere "esoterico", cioè sapienziale iniziatico, e "gnostico", inteso a spingere la conoscenza fino ad affrontare il complesso problema della spiegazione del male.
Il filosofo-teologo cattolico più significativo di questa ripresa della ricerca primitiva in ambito cristiano è stato il gesuita e scienziato paleontologo Pierre Teilhard de Chardin, direttore scientifico in Cina della spedizione che nel 1932 giunse alla scoperta del "sinantropo", un anello intermedio laterale molto importante nell’evoluzione che ha portato all’avvento dell’Homo Sapiens.
In vita, gli fu fatto divieto dall’autorità ecclesiastica di pubblicare i suoi scritti teologi e filosofici basati sulla teoria dell’evoluzione impostata secondo il modello neoplatonico di Plotino, come processo di ritorno dell’universo a Dio, del Molteplice all’Uno. Dopo la sua morte, in Italia non fu bene accolto negli ambienti cattolici, anche perché un "Monitum" del Sant’Uffizio, del ’62, metteva in guardia dai pericoli insiti nelle sue teorie.
Avvenne però che Giorgio Straniero, un giovane ricercatore dell’Università Cattolica di Milano, riuscì a far pubblicare dall’editrice della stessa università un suo studio filosofico sul pensiero del controverso gesuita. L’opera, "L’ontologia fenomenologica di Teilhard de Chardin", edita da Vita e Pensiero, nel 1969, fu diffusa in pratica solo nella ristretta area degli esperti e delle biblioteche. Un po’ paradossale è il fatto che il libro uscì con una densa presentazione critica di Gustavo Bontadini, direttore dell’istituto di Filosofia dell’Università Cattolica, in cui il titolare della cattedra di Filosofia Teoretica prendeva le distanze dall’interpretazione del pensiero di Teilhard de Chardin proposta dal suo assistente. In effetti, Straniero offriva, una lettura dell’opera teilhardiana che ne sosteneva la piena concordanza con la teologia cattolica, del resto dallo stesso Teilhard de Chardin a più riprese dichiarata in vita.
La chiave di lettura proposta era data dall’idea di un’evoluzione convergente, regolata dalla legge di complessità-conoscenza, per la quale il processo di complessificazione delle strutture biologiche realizzato nel corso dell’evoluzione appare strettamente connesso con un corrispondente aumento di "coscienza". L’evoluzione, per Teilhard de Chardin, non si è conclusa con l’avvento della coscienza umana "riflessa", cioè con l’autocoscienza intellettuale e spirituale, ma prosegue sul piano psichico verso un’ulteriore, definitiva trasformazione nel momento culminante chiamato Punto Omega e identificato da Teilhard de Chardin con il Cristo parusiaco. A questo punto vi saranno, in conformità con le scritture bibliche, "nuovi cieli e nuova terra" e si ricostituirà il Pleroma, secondo il modello gnostico riproposto da Teilhard de Chardin, cioè l’Essere Uno originario, dove rimarrà comunque la distinzione tra la coscienza infinita di Dio e la coscienza umana individuale.
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http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/010610.htm
Arriva in Italia il pamphlet del biologo e teologo inglese Alister McGrath, che smonta le tesi anticristiane di Richard Dawkins
L’evoluzione non è «atea»
Un’analisi epistemologica che isola le contraddizioni del «rottweiler» di DarwinIl modello scientifico non è in grado di decidere alcunché sulla ipotesi di Dio
Di Andrea Galli (Avvenire, 20.10.2006)
In questi giorni svetta al primo posto dei libri più venduti su Amazon The God delusion ("L’illusione di Dio") dello zoologo e saggista Richard Dawkins, il «rottweiler di Darwin», forse il più noto e influente divulgatore vivente dell’evoluzionismo. Contemporaneamente esce in Italia Dio e l’evoluzione (Rubbettino, pagine 206, euro 15,00, con un’introduzione di Giovanni Federspil) di Alister McGrath, uno dei teologi riformati più in vista nel mondo anglosassone, docente di storia della teologia all’università di Oxford - la stessa dove Dawkins ricopre la cattedra di Public understanding of science - e ormai considerato da più parti come, appunto, l’«anti-Dawkins».
Il libro di McGrath, uscito l’anno scorso in Inghilterra e il cui titolo orginale suona Dawkin’s God: genes, memes, and the meaning of life, è infatti la prima analisi organica dell’opera dello zoologo inglese e la prima risposta articolata alla sua peculiare e provocatoria concezione del mondo. Partito da besteseller mondiali come Il gene egoista (1976), Il fenotipo esteso (1981), L’orologiaio cieco (1986), l’attenzione di Dawkins, come commentava anni fa lo studioso di evoluzionismo Michael Ruse, è passata via via dallo scrivere di scienza per il grande pubblico allo sferrare un attacco dichiarato al cristianesimo. E non solo, a dire il vero. Quella di Dawkins è ormai una feroce polemica anti-religiosa a 360 gradi, in nome di una razionalità umana che, a suo avviso, non può accettare alcun tipo di riferimento teistico, pena il cadere nell’irrazionalità e nel ridicolo.
McGrath risponde al collega oxfordiano da un punto di vista privilegiato. Teologo e profondo conoscitore della storia del cristianesimo, non solo ha conseguito un dottorato in biologia molecolare, non solo è stato cultore dei lavori di Dawkins durante gli studi accademici, ma è anche passato per una lunga e convinta fase di ateismo. Quest’ultima incrinata non da una folgorazione sulla via di Damasco, ma da un calarsi lento e problematico negli studi di filosofia della scienza: «La storia e la filosofia della scienza, lungi dall’essere uno sciocco oscurantismo che poneva inutili ostacoli all’implacabile ruolo del progresso scientifico, poneva domande giuste riguardo i limiti e l’affidabilità della conoscenza», ricorda McGrath. Che aggiunge: «Le cose si rivelavano più complicate di quanto avessi immaginato. I miei occhi erano stati aperti e sapevo che non vi era ritorno all’assunto semplicistico delle scienze che avevo conosciuto una volta». Ed è partendo da questa sofferta consapevolezza che il biologo, col tempo divenuto cristiano e teologo, iniziò a rileggere gli scritti di Dawkins. Un’analisi da un punto di vista essenzialmente epistemologico, tesa a isolare le contraddizioni, i pregiudizi a-scientifici, le confusioni di piani concettuali, e che già alla fine degli anni ’70 gli valse l’invito della Oxford University Press a scrivere una risposta al Gene egoista.
Dawkins, spiega McGrath nella parte centrale del suo libro, sostiene che esistono solo tre modi di vedere il mondo: darwinismo, lamarckismo e Dio. Poiché le ultime due non riuscirebbero a spiegarlo, l’unica opzione valida sarebbe il darwinismo. Un’argomentazione che esige che le tre opzioni si escludano a vicenda, con un’alternativa secca - e insostenibile a livello epistemologico - tra Dio e Darwin. «Dawkins ha senz’altro dimostrato che si può fornire una descrizione puramente naturale di ciò che è conosciuto della storia e dello stato presente degli esseri viventi. Ma perché ciò dovrebbe portarci a concludere che Dio non esiste?», si chiede McGrath. Sintetizzando così tre delle obiezioni lungamente sviluppate nel saggio: primo, «il modello scientifico non è in grado di decidere l’ipotesi di Dio, né positivamente né negativamente»; secondo, se le tesi di Dawkins portano alla conclusione che Dio non deve essere invocato come un agente del processo evolutivo, andrebbe fatto notare che questa conclusione «è coerente con varie visioni d el mondo atee, agnostiche e cristiane, ma non necessita di nessuna di esse». Infine, riguardo all’idea di Dio come un «orologiaio» - che Dawkins si è accanito a demolire - McGrath specifica che essa «emerse in modo rilevante nel diciottesimo secolo, e non è caratteristica della tradizione cristiana». Fu sviluppata da Robert Boyle (1627-1691), che paragonò l’universo al grande orologiaio di Strasburgo. Inizialmente pensata per l’ambito della fisica, l’analogia fu presa in prestito dalla sfera biologica nel nel diciottesimo secolo. Insomma, Dawkins dimostrerebbe tutt’al più «la vulnerabilità di un approccio alla dottrina della creazione strettamente contingente, legato alle specifiche condizioni storiche dell’Inghilterra del Settecento, e già scartato da molti importanti teologi inglesi dell’epoca perché inadeguato, financo poco ortodosso».
Condividendo il contenuto della nota di Annamaria Tassone sulla necessità di approfondire gli studi e la diffusione del pensiero di Teilhard data la sua forte attualità, mi permetto di fare alcune considerazioni sull’articolo di Carlo Formenti. Esso, pur essendo del 1998, rivela purtroppo uno scarso aggiornamento per quanto riguarda lo svolgimento della suddetta attività in area italiana. Negli anni ’90 c’è stata infatti una ripresa di traduzioni delle opere di Teilhard (sia già presentate in Italia e soprattuotto inedite) da parte della casa editrice Queriniana e più recentemente dal Segno dei Gabrielli Editori, accompagnata dalla ripresa di una saggistica sull’autore da parte della Sei, Studium, Il Messaggero e altri. Attualmente tutte le opere di Teilhard sono state presentate al pubblico italiano. Da più di quindici anni si svolge poi un’intensa attività di conferenze e convegni in parecchie città italiane (Torino, Milano, Roma, Assisi, Lanciano, Parma, ecc.). Da qualche anno è pure attivo un sito internet che le fa conoscere di volta in volta e che vi suggeriamo di visitare WWW.teilhard.it L’aspetto new age che l’autore indica come particolarmente assunto da certe aree culturali o pseudo-culturali, è certamente quello meno considerato dagli studiosi di Teilhard che mirano piuttosto a trarne elementi di convergenza tra i due ambiti della fede e della ragione, o della scienza e della teologia che dir si voglia, allo scopo di intravedere grazie alla sua grandiosa visione olistica, un senso che illumini la vicenda umana, piste di azione utili a padroneggiare la globalizzazione ormai in atto, linguaggi nuovi per presentare all’uomo d’oggi l’eterno messaggio evangelico. Infine siamo ormai molto lontani, anche in ambito ecclesiale, dal considerare Teilhard "eretico" (cosa che peraltro non è mai avvenuta neanche nei momenti caldi del passato e su questo è meglio approfondire il significato non poi così pesante di quello che è stato il Monitum del 1964). Che poi lo si voglia fare Santo o meno non cambia la portata del suo fertile messaggio.
Argimiro Bernardi
il convegno *
Darwin ad Ancona
L’evoluzione esclude l’esistenza di un progetto intelligente nella formazione del mondo? Scienziati e filosofi di diversa formazione ne discutono oggi e domani ad Ancona in un convegno del Centro Studi Oriente e Occidente intitolato «Esiste una finalità nella natura?». L’evento ha luogo in collaborazione con la John Templeton Foundation all’Università Politecnica delle Marche. Oggi alle 16 Tullio Manzoni parla di casualità e finalismo nelle antiche dottrine biologiche. Giuseppe Tanzella-Nitti interverrà su «Evoluzione e creazione, paradigmi scientifici e prospettive teologiche». Flavio Keller si soffermerà sul passaggio dalla vita alla consapevolezza di sé.
DIBATTITO *
Siamo solo animali. Tutt’altro, il genere umano è l’unico a darsi da se stesso i propri scopi...La teoria del «disegno intelligente» ripropone l’antico dibattito filosofico e scientifico: la natura ha un senso? Ma la posta in gioco non è più solo teorica, tocca i versanti della bioetica e la morale sociale. Un fisiologo e un teologo a confronto
L’universo non va a caso
Tanzella-Nitti: il mondo segue una freccia che indica Dio
«Evoluzione e finalismo possono andare di pari passo, ma pare che tale accordo disturbi più d’uno»
Gli scienziati possono scoprire una finalità nella natura? O è soltanto una questione filosofica? Per Giuseppe Tanzella-Nitti, teologo della Pontificia Università della Santa Croce di Roma, si tratta di una domanda che nessuno può più ignorare. «Nell’universo, sia fisico che biologico, sembra notarsi un certo finalismo. Il tempo ha una direzione precisa, che chiamiamo "freccia del tempo". Gli elementi chimici originatisi nella prima espansione dell’universo si sono poi gradualmente trasformati, nel cuore delle stelle, in elementi via via più pesanti. Sono sorte strutture complesse e organizzate, tra cui i pianeti. Qualcosa del genere è avvenuto per la vita. Dagli organismi unicellulari (unici abitanti del pianeta, per 2 miliardi di anni) si è passati a forme di vita sempre più evolute; poi dai mammiferi all’uomo. Un osservatore "dall’esterno" si chiederebbe se qualche "freccia" ignota stia indicando la direzione verso cui tutto procede...».
La domanda è oggi di stringente attualità, dopo la vivace disputa fra evoluzionismo darwinista e «disegno intelligente» o principio antropico (che considera l’universo fatto su misura per l’uomo).
«Fin da quando ha alzato lo sguardo verso il cielo, l’uomo si è chiesto se si trova nell’universo per puro caso, "gettato lì dentro" come direbbe Martin Heidegger, oppure se la sua presenza ha un fine. Dal modo in cui rispondiamo dipendono cose assai importanti. Perciò ne discutiamo sempre con passione».
Dietro c’è la domanda sul futuro di ognuno, cioè su Dio.
«Purtroppo, non mancano gli equivoci. Prendiamo il dibattito fra darwinismo e intelligent design. C’è un intelligent design reclamato dai biologi che ritengono i meccanismi darwiniani insufficienti a spiegare la complicata morfologia del mondo vivente. Per loro il termine "intelligente" è in fondo una metafora: lo scienziato non può dedurre, solo con il metodo empirico, l’esistenza di una finalità intelligente... C’è poi un "disegno intelligente" che appartiene al pensiero teologico, e vuole indicare che il mondo è frutto del progetto di un Creatore, fonte di intelligenza ma anche di amore».
Non sono risposte puramente filosofico-dottrinarie, coinvolgono la vita di tutti i giorni.
«La posta in gioco è notevole. L’uomo è solo un "animale", risultato di una cieca evoluzione biologica, o almeno un "animale razionale" come sostiene Aristotele? Ne discendono scelte epocali: dalla bioetica alla tecnologia, dalle leggi al giudizio sui comportamenti individuali e sociali. In questo senso, orientare il dibattito sull’evoluzione in favore di una posizione o di un’altra, a sostegno del caso o della finalità, può diventare strumentale per il raggiungimento dei propri scopi. Per questo, è fondamentale chiarire quali siano le competenze della scienza e quali quelle della filosofia, che cosa appartiene alla serena analisi dei fenomeni e che cosa, invece, all’ideologia».
Quale contributo può offrire la teologia cristiana?
«Può spiegare che finalismo ed evoluzione non si contraddicono, anzi possono andare di pari passo. Ma sembra che quest’accordo disturbi più d’uno. Se infatti si presenta l’evoluzione biologica come contraria all’idea della creazione, allora si è riusciti a sbarazzarsi del Creatore, la cui presenza resta sempre troppo ingombrante per qualcuno. E se non esiste un Creatore, l’uomo può fare ciò che vuole senza ascoltare nessuno, neanche la coscienza. Ma solo la parola di Dio ci rivela perché in questo mondo sono comparso "proprio io", e ciascuno di noi. Scelti prima della creazione del mondo, creati figli nel Figlio. Il segreto della finalità nella natura è tutto qui».
Keller: l’uomo sa fare progetti, questo prova che esiste un fine
«In tutti i processi della vita l’orient amento spontaneo verso uno scopo appare netto e irreversibile»
«C’è una finalità nella natura. E va cercata al livello più elevato, nell’attività mentale dell’uomo, il quale si crea i propri fini ed è in grado di proiettarli nel futuro. L’uomo è l’unico essere vivente ad avere progetti».
Flavio Keller, ordinario di Fisiologia all’Università Campus Biomedico di Roma, nella capacità di progettare vede la caratteristica dell’uomo e la prova principale della finalità che percorre il reale. Secondo il principio antropico, adottato dai fisici, nell’Universo esistevano le condizioni per rendere possibile la vita umana sulla Terra. Ma questo principio - a quanto sembra di capire - non esprime al massimo la peculiarità dell’uomo.
«Quel principio dà risalto alle costanti fisico-astronomiche che permettono la vita sulla Terra. Ma la finalità nella natura è un concetto più elevato e complesso. In tutti i principali processi biologici, dall’embriogenesi all’accrescimento, fino all’acquisto delle capacità cognitive, l’orientamento verso un fine appare netto. Pensiamo ai processi di autorganizzazione di automi cellulari. Ha fatto passi da gigante l’analisi fisico-matematica di questi processi di autopoiesi. Un ruolo-chiave ha avuto Ilya Prigogine: ha scoperto che in un sistema aperto che comunica con l’esterno esistono nicchie ordinate che non sono un risultato del caso ma di una struttura spontanea. La forza del caso viene imbrigliata in un piano di costruzione per cui dallo zigote umano esce sempre soltanto un uomo e dallo zigote di un cavallo esce un cavallo. Al convegno spiegherò che la finalità non va cercata a un livello troppo basso o banale».
Il mondo attendeva la presenza intelligente dell’uomo?
«L’uomo è capace di collaborare e negoziare con i suoi simili per realizzare i suoi progetti. Che sono plastici, si adeguano ai suggerimenti, possono essere inseriti in progetti più ampi. Invece la diga costruita dal castoro, la sofisticata tela congegnata dal r agno non sono progetti. Sono frutto di capacità limitate. Nella natura l’uomo è l’unico a non subire fini imposti; se li crea liberamente. E non da solo, come una monade, ma dando vita alle società umane».
La tendenza della natura a favorire l’uomo diventa più chiara con la fisica quantistica?
«I positivisti trovarono un ostacolo già nella termodinamica. Ormai non erano più sostenibili le equazioni newtoniane, perfettamente reversibili. Il processo della vita è irreversibile. È impossibile ripercorrere a ritroso i passaggi che portano dallo zigote, la cellula originaria, fino all’organismo adulto differenziato».
Progettando, l’uomo costruisce una scienza che, secondo alcuni, rende inutile Dio.
«Allora è ben povero il concetto che si ha di Dio».
Si riferisce al Dio «orologiaio»?
«Al vecchio modello di Dio, che non è quello cristiano. Nonostante il caso, è evidente il movimento in una determinata direzione. Si sono create le condizioni perchè l’uomo possa agire con la sua libertà all’interno della natura. In un universo governato da un Dio "orologiaio", non ci sarebbe posto per la libertà. Facciamo un esempio classico: Tizio vuole che Caio e Sempronio s’incontrino ma pensino che l’incontro sia fortuito. Tizio prega Caio di andare al mercato a comprargli delle arance. E subito dopo, separatamente, chiede la stessa cosa a Sempronio. I due, quando si vedono, crederanno che il loro incontro sia casuale. Certi eventi appaiono casuali a un certo livello, ma a un livello superiore risultano frutto di un’intenzione».
* Avvenire, 30.11.2006
Continua in America e in Europa il dibattito sul «disegno intelligente»: una teoria scientifica o solo filosofica? Gli studiosi si dividono, ma in molti prevale una chiusura pregiudiziale
La vita e l’universo hanno un designer
di Luigi Dell’Aglio (Avvenire, 06.02.2007)
E’ sensazione diffusa che il progresso scientifico abbia spiazzato la prospettiva antropocentrica, togliendo all’uomo quella posizione dominante, nella natura, che gli era stata assegnata per almeno venti secoli dalla religione e, più in generale, dalla cultura. Una conclusione che un numero sempre più consistente di filosofi e scienziati rifiuta nettamente. Gli esseri umani non sono i soli, fra i viventi, a sentire la necessità di capire da dove vengono, qual è il loro destino, e di scoprire le leggi fisiche che governano il mondo? Perciò scava in profondità il dibattito sull’esistenza di un «progetto» o «disegno intelligente» cui risponde la natura. Una teoria che non ha nulla a che vedere con il creazionismo, con il quale viene troppo spesso confuso (anche da parte di scienziati o studiosi «illuminati»)). Il creazionismo si fonda su un’interpretazione letterale della Genesi, ignora dati incontrovertibili oppure li spiega in modo non razionale. E perciò viene nettamente rifiutato anche dagli scienziati cattolici. Il dialogo, incoraggiato al Meeting di Rimini dal cardinale Christoph Schönborn («Bisogna trovare la sintesi tra la scala di Darwin e la scala di Giacobbe») induce scienziati e filosofi a rintracciare nuovi spunti per comprendere meglio il problema. Che non si riduce a una disputa «evoluzione-sì evoluzione no». (Come è stato più volte affermato dagli antropologi cattolici, l’evoluzione, in sé e per sé, non è incompatibile con la creazione, cioè con la creatio continua, in cui Dio, dice Schönborn, è il «designer dell’universo»). La questione è un’altra: è possibile considerare il grande percorso della vita fino all’uomo come un processo guidato dal puro caso? I ricercatori che rispondono di no portano nuovi argomenti, prove o indizi tratti dalla biochimica e li discutono anche animatamente con gli scienziati dell’altro fronte. Spunti nuovi a sostegno di un «progetto intelligente» vengono anche dalla fisica quantistica, ch e pure ha modificato il concetto della natura. Leggi probabilistiche e sistemi non lineari non escludono una presenza divina, come affermano quei fisici e matematici che danno ragione a quanto scriveva due anni fa Jozef Zycinski, filosofo e arcivescovo di Lublino: anche dopo la rivoluzione quantistica, «le leggi della fisica segnalano una forma di immanenza di Dio nella natura». Per Paul Davies, «la fisica d’avanguardia dimostra che la vita è un fenomeno emergente»; e così la scienza torna ad ammettere il finalismo.
C’è movimento nel fronte anti-evoluzionista come in quello evoluzionista. William Dembski, matematico e filosofo, uno dei principali teorici del «disegno intelligente», riceve crescenti consensi da esperti di ingegneria genetica, i quali vedono nella natura vivente strutture complesse, che risultano frutto di un «disegno» e quindi possono essere studiate e modificate secondo parametri «intelligenti». Questi scienziati non si chiedono chi o che cosa abbia prodotto le strutture complesse (dicono che la questione a loro non interessa affatto), ma si chiedono come possono modificare le strutture complesse secondo i parametri che invece a loro interessano. In altri termini, presuppongono l’esistenza di un disegno, per poter procedere nelle loro ricerche. La discussione sull’intelligent design sta coinvolgendo in modo particolare la genetica. Su questa teoria si basa proprio una importante linea di ricerca, quella del Junk Dna (i «rottami» del Dna), la notevole quantità di «pezzi» della doppia elica che -all’apparenza - non hanno alcuna funzione nell’organismo. «Secondo i neodarwinisti, sono inutili ripetizioni, scarti prodotti durante i processi evolutivi. Secondo i sostenitori del "disegno intelligente", invece, non sarebbero affatto "rottami" ma piuttosto parti potenzialmente utili del Dna, delle quali occorre scoprire il ruolo, che certamente esiste dal momento che il "libro della vita" è stato dise gnato in questo modo», spiega Philip Larrey, che insegna alla Pontificia Università Lateranense. E aggiunge che genetisti come James Shapiro e Richard Sternberg stanno già orientando in quel senso i loro studi.
Sul fronte evoluzionista, che cosa accade? «Si cominciano a prendere in esame i cosiddetti meccanismi non darwiniani», spiega Lodovico Galleni, che all’università di Pisa insegna Evoluzione biologica. «Come ha dimostrato Brian Goodwin, ci sono molecole e cellule che si autorganizzano e non hanno alcun bisogno della selezione naturale. Si tratta di processi molto meno casuali e molto più necessari di quanto si ritenesse in passato», spiega.
Naturalmente considera l’evoluzione un «fatto storico», dimostrato «dai fossili, dalla profonda unità dei viventi e dalla possibilità di ricostruire alberi genealogici». E perché l’evoluzione è compatibile con la creazione? «Perché il progetto divino è collegato non ai meccanismi particolari dell’evoluzione, quanto a una visione d’insieme: l’evoluzione si muove verso la complessità e la coscienza». L’antropologo Fiorenzo Facchini, che reputa anche lui compatibili evoluzione e fede, osserva: «La fine sintonia delle diverse forze della natura (infra-atomica, molecolare e cellulare) e dei corpi celesti esprime una razionalità che non può essere effetto di puri eventi casuali, e induce a pensare a una intenzionalità superiore. Il modo in cui tutto questo si sia realizzato può essere indagato per mezzo della scienza e della filosofia della natura».
Se si parte dalla premessa che la teoria di Darwin non va concepita come «visione assoluta e vincolante della realtà, ideologia che esclude ulteriori domande sull’origine e la natura delle cose» (parole scritte da Joseph Ratzinger, da cardinale), il dialogo tra i migliori cervelli dei due fronti può dare risultati concreti sul piano della conoscenza scientifica. I moderati delle due parti stanno placando le acque. In Usa, tra i seguaci del «disegn o intelligente» (nato oltreoceano, nel mondo protestante, ma presto differenziatosi dal creazionismo ante litteram e dal creazionismo scientifico), gli scienziati e i filosofi si sono già in parte dissociati da quanti mirano a usare la teoria come bandiera di un movimento politico-culturale più che come approccio filosofico-scientifico.
Telmo Pievani: «Ma Darwin non è un anti Dio»
di Cristiana Pulcinelli *
Il 12 febbraio, domani, è il Darwin Day, il giorno dedicato a Charles Darwin. In Inghilterra si celebra da molti anni. Da noi invece solo dal 2004. Per la precisione da quando il governo Berlusconi tentò di abolire l’evoluzionismo dai libri di testo. La reazione sdegnata del mondo scientifico si sposò con un’idea che era già nell’aria e nacque la decisione di festeggiare il compleanno del naturalista che cambiò il nostro modo di vedere il mondo. Oggi l’Italia è al secondo posto, dopo l’Inghilterra, per numero di iniziative.
«Abbiamo deciso di non dedicare le nostre iniziative alla polemica - spiega Telmo Pievani, docente di Filosofia della scienza all’Università di Milano Bicocca e uno degli animatori del Darwin Day - ma di usare la giornata per parlare dei temi scientifici dell’oggi». Pievani è anche l’autore di un libro uscito recentemente per Einaudi, Creazione senza Dio: un’analisi impietosa e ironica delle tesi dei sostenitori del cosiddetto Disegno Intelligente. La dottrina del Disegno Intelligente, o neocreazionismo, non nega la realtà dell’evoluzione, nega però che l’evoluzione proceda per mutazioni e selezione naturale come ci spiegò Darwin: la storia naturale sarebbe invece diretta da un disegno superiore. È ovvio pensare che il progettista sia Dio.
Professor Pievani, l’antidarwinismo è un movimento religioso?
«Il creazionismo classico è di matrice protestante. Nasce nella chiesa battista del sud degli Stati Uniti. Anche il cosiddetto neocreazionismo nasce da quell’ambiente culturale. Ma recentemente si è creata una connessione inedita fra queste idee e una parte consistente del pensiero teologico cattolico europeo che finora aveva sempre rifiutato una lettura letterale del testo biblico. Non solo: l’antidarwinismo è diventato un cavallo di battaglia dei fondamentalisti islamici».
Il papa ha preso posizione direttamente contro il darwinismo?
«Non direttamente. Nel discorso di Ratisbona ha detto che esiste una forma di razionalità più ampia di quella scientifica: la razionalità della fede che include quella scientifica. Però, nell’omelia che ha pronunciato poco dopo ha anche detto che, alla luce di questa ragione più ampia, il darwinismo è irrazionale. Questo vuol dire quindi che la razionalità della fede non solo include quella della scienza, ma la può correggere».
Alcuni scienziati ritengono che non si debba partecipare a dibattiti in cui ci sono i sostenitori del Disegno Intelligente perché altrimenti acquistano credibilità. Cosa ne pensa?
«Credo che sia rischioso: il pubblico spesso non ha gli strumenti per discernere cosa è scienza e cosa no. Lasciarlo in balia dei neocreazionisti può essere un errore. Alcuni di essi, peraltro, hanno buone capacità retoriche e usano slogan semplici e diretti, falsi ma efficaci. Spesso girando a loro vantaggio affermazioni come "la scienza non ha certezze". Lo scienziato invece deve rispettare le regole e spiegare cose complesse in pochi minuti. Non è facile, ma bisogna provarci».
Siamo di fronte al vecchio problema di demarcazione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è?
«Sì, anche se spesso gli scienziati compiono l’errore di rispondere alle obiezioni dei neocreazionisti in modo duro: questa è la scienza e tu non hai niente a che fare con essa. Credo sia più utile attenersi a una definizione più debole ma più sicura. Ovvero, la scienza non ha certezze, è vero. Ha tanti metodi, è vero. Però ha delle regole: la pubblicazione dei risultati, il fatto che una teoria nuova debba spiegare ciò che spiegava quella vecchia, la produzione di ipotesi falsificabili e di prove empiriche».
La dottrina del Disegno Intelligente rispetta queste regole?
«Neppure una. I suoi sostenitori non hanno portato prove empiriche a sostegno dell’ipotesi, ma solo prove in negativo. Ad esempio, dicono: siccome l’evoluzionismo non riesce a spiegare l’origine della vita, allora vuol dire che è sbagliato e che c’è di mezzo l’opera di un progettista. Neppure le inferenze logiche dell’Intelligent Design stanno in piedi. Ad esempio, dicono: siccome le strutture della vita, come la cellula e l’occhio, sono molto complesse, allora sono altamente improbabili e quindi non possono nascere per caso. Ma ci sono due obiezioni a questo ragionamento: primo, fenomeni improbabili avvengono per caso in continuazione (come sa bene chi gioca al lotto); secondo, l’evoluzione non è solo caso, ma è anche selezione naturale».
Uno dei cavalli di battaglia dei neocreazionisti è quello che sostiene che la scienza è poco tollerante perché non accetta che ci siano altre spiegazioni oltre alla sua. Cosa rispondere?
«Che la tolleranza fa parte dello statuto della scienza. La scienza è pensiero che si mette in discussione, che non accetta l’autorità precostituita. Il pensiero dei creazionisti, invece, come tutti i pensieri forti, si basa su principi non argomentati».
Una critica che è stata fatta all’evoluzionismo più riduzionista, quello ad esempio di Richard Dawkins, è che sarebbe la porta scientifica d’ingresso per l’ateismo. Pensa sia vero?
«No. Dawkins non sostiene che l’evoluzionismo mostra l’inesistenza di Dio. Sostiene che l’evoluzionismo mostra la non plausibilità logica dell’esistenza di Dio. In sostanza, l’ateismo non si deduce scientificamente dall’evoluzione. L’evoluzione può suggerire la non esistenza di Dio».
Lei pensa che l’attacco a Darwin sia un attacco alla scienza nel suo complesso?
«Credo sia un attacco a due concezioni: da un lato la laicità della scienza, dall’altro l’idea che, per chi vuole, il naturalismo scientifico può essere sufficiente come visione del mondo. Come diceva Stephen J. Gould, possiamo fermarci a quello che la storia naturale ci insegna. In Darwin troviamo argomenti che rafforzano questa visione del mondo, ma non la rendono necessaria. Ognuno può credere in ciò che vuole. Nel 1996 papa Wojtyla sostenne che l’evoluzionismo spiegava la storia naturale, ma si doveva postulare un salto ontologico per quanto riguardava la comparsa dell’uomo. In quell’occasione chiesi a padre George Coyne, direttore della specola vaticana: il papa sta prendendo una posizione scientifica? No, mi rispose, è una posizione teologica. Quello era il punto da cui si poteva partire per un dialogo. Da allora in poi le cose sono solo peggiorate».
* l’Unità, Pubblicato il: 11.02.07, Modificato il: 11.02.07 alle ore 17.23
LE IDEE
I sette peccati capitali di Internet (e le sue virtù)
di STEFANO RODOTA’ *
Qual è il destino dei parlamenti nell’età dell’informazione e della comunicazione? Alcuni anni fa, quando cominciò il dibattito sulla democrazia elettronica, sembrava che le nuove tecnologie avrebbero portato ad una progressiva scomparsa della democrazia rappresentativa, sostituita da forme sempre più diffuse di democrazia diretta. Nel nuovo agorà elettronico i cittadini avrebbero potuto prendere sempre la parola e decidere su tutto.
La memoria dell’antica Atene e il modello dei town meetings del New England apparivano come la forma nuova della democrazia, con un intreccio tra antico e nuovo che avrebbe via via cancellato il ruolo dei parlamenti. Oggi queste ipotesi sono lontane, e la democrazia elettronica segue strade diverse da quelle di una brutale e ingannevole semplificazione dei sistemi politici. Ma questo non vuol dire che i parlamenti possano trascurare le grandi novità determinate dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che incidono profondamente sul loro ruolo e sul modo in cui si struttura il loro rapporto con la società. Non siamo di fronte a semplici strumenti tecnici, ma ad una forza potente, la tecnologia nel suo complesso, che sta trasformando in modo radicale le nostre società.
Stiamo passando, su scala mondiale, da un equilibrio tecnologico all’altro. Il primo, grande compito dei parlamenti, oggi, è dunque quello di cogliere questo momento, di compiere tempestivamente le scelte intelligenti necessarie perché l’insieme delle tecnologie si risolva in un rafforzamento complessivo della democrazia.
Sono divenute chiare alcune linee di analisi e di intervento, che possono essere così riassunte:
evitare che le nuove tecnologie portino ad una concentrazione invece che ad una diffusione del potere sociale e politico;
evitare che le nuove tecnologie si consolidino come la forma del populismo del nostro tempo, con un continuo scivolamento verso la democrazia plebiscitaria.
evitare che ci si trovi sempre più di fronte a tecnologie del controllo invece che a tecnologie delle libertà;
evitare che nuove disuguaglianze si aggiungano a quelle esistenti;
evitare che il grande potenziale creativo delle nuove tecnologie porti non ad una diffusione della conoscenza, ma a forme insidiose di privatizzazione.
Pure l’età digitale, dunque, ha i suoi peccati, sette come vuole la tradizione, e che sono stati così enumerati: 1) diseguaglianza; 2) sfruttamento commerciale e abusi informativi; 3) rischi per la privacy; 4) disintegrazione delle comunità; 5) plebisciti istantanei e dissoluzione della democrazia; 6) tirannia di chi controlla gli accessi; 7) perdita del valore del servizio pubblico e della responsabilità sociale. Non mancano, tuttavia, le virtù, prima tra tutte l’opportunità grandissima di dare voce a un numero sempre più largo di soggetti individuali e collettivi, di produrre e condividere la conoscenza, sì che ormai molti ritengono che la definizione che meglio descrive il nostro presente, e un futuro sempre più vicino, sia proprio quella di "società della conoscenza".
Al di là delle immagini e delle metafore, i parlamenti non sono chiamati a scegliere tra il bene e il male. Di fronte ad una realtà complessa, nella quale convivono società della conoscenza e società del rischio, i parlamenti non sono chiamati scegliere tra bene e male. Devono ribadire la loro storica e insostituibile funzione di custodi della libertà e dell’eguaglianza. Non sono riferimenti retorici. La tecnologia è prodiga di promesse.
Alla democrazia offre strumenti per combattere l’efficienza declinante, e arriva fino a proporne una rigenerazione. Ma, se guardiamo al mondo reale, alle tendenze in atto, rischiamo di incontrare sempre più spesso un uso delle tecnologie che rende capillare e continuo il controllo dei cittadini. A queste tendenze bisogna reagire, non solo per sfuggire ad una sorta di schizofrenia istituzionale che spinge verso la costruzione di un mondo diviso tra le speranze di libertà e l’insidia della sorveglianza. E’ necessario soprattutto considerare realisticamente le dinamiche sociali, a cominciare da quelle che rischiano di produrre nuove diseguaglianze.
Questo problema viene solitamente indicato con l’espressione digital divide, ed effettivamente l’uso delle tecnologie, di Internet in primo luogo, produce stratificazioni sociali, l’emergere di nuove categorie di haves e di have nots, di abbienti e non abbienti proprio per quanto riguarda la fondamentale risorsa dell’informazione. Ma le più attendibili ricerche sul digital divide mettono in evidenza che il divario tra paesi sviluppati e paesi meno sviluppati, per quanto riguarda l’accesso ad Internet, non può essere esaminato riferendosi prevalentemente alle differenze di reddito. Pur rimanendo profondissime, infatti, le distanze riguardanti Internet tendono a ridursi più rapidamente di quelle relative alla ricchezza.
Questo vuol dire che i fattori influenti non sono tanto quelli economici, quanto piuttosto quelli sociali e culturali.
Conoscenza è parola che sintetizza le possibilità di accedere alle fonti, di elaborare il materiale, raccolto, di diffondere liberamente le informazioni. Già nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite si è affermato il diritto di ogni individuo alla libertà di opinione e di espressione "e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere". Oggi questo diritto è in pericolo per la pretesa di molti Stati di controllare Internet, per l’esercizio di veri poteri di censura, per le condanne di autori di quelle particolari comunicazioni in rete che sono i blog.
Questa situazione non può essere ignorata, soprattutto perché alcune grandi società - Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone - hanno annunciato per la fine dell’anno la pubblicazione di una "Carta" per tutelare la libertà di espressione su Internet. I parlamenti non possono accettare che la garanzia del free speech, che gli Stati Uniti vollero affidare al Primo Emendamento della loro Costituzione, divenga materia di cui si occupano solo i privati, che evidentemente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi. Internet è il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, dove si sta realizzando anche una grande redistribuzione di potere. Un luogo dove tutti possono prendere la parola, acquisire conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune, e costruire così un mondo diverso di cui tutti possano egualmente dirsi cittadini.
Ma tutto questo può diventare più difficile, per non dire impossibile, se la conoscenza viene chiusa in recinti proprietari senza considerare proprio la novità della situazione che abbiamo di fronte e che impone di guardare alla conoscenza come il più importante tra i beni comuni.
La questione dei beni comuni è essenziale. Parole nuove percorrono il mondo - open source, free software, no copyright - dando il senso di un cambiamento d’epoca. Oggi, infatti, il conflitto tra interessi proprietari e interessi collettivi non si svolge soltanto intorno a risorse scarse, in prospettiva sempre più drammaticamente scarse come l’acqua. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l’effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di "chiusura" simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili. Questa scarsità artificiale, creata, rischia di privare milioni di persone di straordinarie possibilità di crescita individuale e collettiva, di partecipazione politica.
La sfida lanciata ai parlamenti non riguarda soltanto la necessità di trovare nuovi equilibri tra logica della proprietà e logica dei beni comuni. Investe lo stesso modo d’intendere la cittadinanza. La vera novità democratica delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, infatti, non consiste nel dare ai cittadini l’ingannevole illusione di partecipare alle grandi decisioni attraverso referendum elettronici. Consiste nel potere dato a ciascuno e a tutti di servirsi della straordinaria ricchezza di materiali messa a disposizione dalle tecnologie per elaborare proposte, controllare i modi in cui viene esercitato il potere, organizzarsi nella società. Con questo vasto mondo - in cui la democrazia si manifesta in maniera "diretta", ma senza sovrapporsi a quella "rappresentativa" - i Parlamenti devono trovare nuove forme di comunicazione, attraverso consultazioni anche informali, messa in rete di proposte sulle quali si sollecita il giudizio dei cittadini, procedure che consentano di far giungere in parlamento proposte elaborate da gruppi ai quali, poi, vengano riconosciute anche possibilità di intervento nel processo legislativo.
La rigida contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta potrebbe così essere superata, e la stessa democrazia parlamentare riceverebbe nuova legittimazione dal suo presentarsi come interlocutore continuo della società. In questa prospettiva, i parlamenti debbono soprattutto impedire che le esigenze di lotta a terrorismo e criminalità e le richieste del sistema economico portino alla nascita di una società della sorveglianza, della selezione e del controllo, alterando quel carattere democratico dei sistemi politici di cui proprio i parlamenti sono i primi ed essenziali garanti. Proprio le tecnologie, con la loro apparente neutralità, hanno rafforzato le spinte verso la creazione di gigantesche raccolte di dati personali.
La politica sta delegando alla tecnica la gestione dei più diversi aspetti della società, dimenticando, ad esempio, un principio chiaramente indicato nell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questa norma si ammettono limitazioni dei diritti per diverse finalità, compresa la sicurezza nazionale, a condizione però che si tratti di misure compatibili con le caratteristiche di una società democratica. I parlamenti devono esercitare con il massimo rigore questa funzione di controllo, senza delegarla ad altri organi dello Stato, fossero pure le corti costituzionali. Solo così possono evitare la trasformazione dei cittadini in sospetti, ed impedire che, con l’argomento della difesa della democrazia, sia proprio la democrazia ad essere perduta.
Questo è il discorso
che Stefano Rodotà
ha tenuto a Montecitorio
per l’apertura della
Conferenza internazionale
dell’Unione interparlamentare
* la Repubblica, 6 marzo 2007
L’origine della fede
di Pietro Greco *
È appena uscito in Germania per i tipi dell’editore Suv un libro dal titolo «Schöpfung und Evolution», creazione ed evoluzione, ha per tema l’origine della vita e il cambiamento della specie. L’autore è Joseph Ratzinger. Il Papa di Roma.
Non abbiamo letto il volume, che presto sarà disponibile anche in italiano. Ma, se le anticipazioni di stampa sono corrette, si tratta di un libro destinato a far discutere. Per almeno tre ordini di questioni che Benedetto XVI solleva e che sono, per l’appunto, discutibili.
La prima questione riguarda l’origine della vita: il Papa sostiene che da sola la scienza non è in grado di spiegarla e che, a ogni modo, sia all’origine della vita sia all’origine dell’universo (ovvero di “ogni cosa”) non ci può essere il caso, ma deve esserci un progetto - un “disegno” - che riconduce direttamente a Dio.
La seconda questione riguarda la teoria proposta da Darwin per spiegare l’evoluzione biologica: Joseph Ratzinger sostiene che non è completamente dimostrata e neppure è completamente dimostrabile, perché centinaia di migliaia di anni di mutazioni non possono essere riprodotte in esperimenti controllati in laboratorio.
La terza questione riguarda la scienza stessa, strutturalmente incapace di rispondere a questioni filosofiche del tipo: da dove viene e dove sta andando l’universo, da dove viene e dove sta andando l’uomo. Per dare risposte a questi quesiti, sostiene Benedetto XVI, occorre una razionalità che include la scienza, ma che va oltre la scienza.
Questo pensiero è stato più volte espresso dal Papa, ma ha preso la forma compiuta del libro in seguito al discorso tenuto in un seminario chiuso e, finora, segreto su “creazione ed evoluzione” che si è svolto a Roma lo scorso mese di settembre, nell’ambito dei tradizionali incontri del «Circolo degli allievi del professor Joseph Ratzinger».
Le tre questioni sollevate dal Benedetto XVI sono tutte legittime. Ma, come dicevamo, sono tutte piuttosto discutibili. Il Papa ha diritto di dire ciò che vuole. Ma, soprattutto in materia di filosofia naturale, tutti hanno diritto di discutere ciò che il Papa dice.
Prima questione: è vero che la scienza non ha, finora, fornito una spiegazione esaustiva su quello che il biologo darwiniano Theodosius Dobzhanski definiva il primo e più grande “trascendimento evolutivo”: la transizione dal non vivente al vivente. E neppure ha fornito, finora, una spiegazione esaustiva su quell’altro straordinario “trascendimento evolutivo” che è la transizione dal nulla a qualcosa, che è la nascita dell’universo. Ma è anche vero entrambi questi processi non sono affatto “oltre la scienza”, ma al contrario sono oggetto di ricerca da parte degli scienziati. D’altra parte non c’è spiegazione scientifica possibile se non in un quadro naturalistico: l’opzione della creazione divina non può che essere proposta che come atto di fede. Inoltre, non è affatto vero che all’origine della vita e dell’universo, secondo la scienza, ci sia solo il “caso”. Le spiegazioni cercate intorno all’origine dell’universo sono tutte interne ai vincoli non deterministici, ma non per questo completamente aleatori, della fisica quantistica. Le spiegazioni cercate intorno all’origine della vita sono tutte interne ai vincoli stocastici, ma ancora una volta non completamente aleatori, della chimica e della biologia.
Quanto alla seconda questione posta dal Papa, ovvero che la teoria dell’evoluzione biologica di Darwin non è completamente dimostrata né completamente dimostrabile, è ancor più opinabile. Per molti motivi. Una teoria scientifica non è che il modo più economico e logicamente solido per spiegare i fatti noti intorno alla realtà naturale. Può succedere che esistano più modi economici di spiegare i medesimi fatti noti. Ovvero più teorie scientifiche. È successo persino in fisica. Per esempio quando, tra il 1916 e il 1919, esistevano due teorie - quella di Newton e quella di Einstein - per spiegare i medesimi fatti noti sulla gravitazione universale. Poi nel 1919 gli scienziati si sono imbattuti in un fatto nuovo - una certa deviazione della luce di una stella lontana da parte del campo gravitazionale del Sole - che trovava una spiegazione nella teoria di Einstein e non in quella di Newton. Per questo, da allora, la teoria più generale è quella della relatività einsteiniana.
Da molti decenni a questa parte esiste nell’agone scientifico una sola teoria economica in grado di spiegare tutti i fatti noti dell’evoluzione biologica. Questa teoria è corroborata, per usare un termine caro a Karl Popper, da un numero semplicemente enorme di evidenze empiriche indipendenti prodotte in discipline le più diverse: dalla paleontologia alla biologia molecolare. D’altra parte nessun fatto empirico noto è stato finora in grado di falsificare, per usare un altro concetto caro a Popper, la teoria di Darwin. Mentre tutte le altre teorie contrapposte a quella darwiniana o risultano meno economiche o sono state falsificate. È vero che, come sostiene papa Ratzinger, la storia evolutiva della vita non può essere ripetuta in laboratorio, e quindi la teoria di Darwin non può essere tutta verificata mediante esperimenti controllati, come avviene in fisica. Ma, come hanno dimostrato Ernst Mayr e una costellazione di filosofi della biologia, questo non significa affatto che la biologia non sia una scienza. E che le teorie biologiche non siano teorie compiutamente scientifiche.
Anche la terza questione sollevata da benedetto XVI è discutibile. La scienza non ha pretesa alcuna di completezza. Ma pretende che nessun ambito sia precluso alla ricerca. In particolare non possono essere preclusi alla ricerca scientifica neppure quegli ambiti - da dove vengono e dove vanno l’uomo e l’universo - che Joseph Ratzinger pretende esclusivi della filosofia e della teologia: ovvero esclusivi di una ragione che non pretende una verifica empirica. La scienza vuole dire la sua - e sta dicendo la sua - anche in questi ambiti.
E, facendo ciò, per la verità allarga gli orizzonti, non li restringe affatto. Quale sarebbe oggi l’immagine che l’uomo ha di se stesso e dell’universo che lo circonda senza i fatti, le teorie o anche solo le ipotesi proposte dalla scienza in questi ultimi quattro secoli intorno sia all’origine dell’uomo e del mondo sia alla loro evoluzione?
E cosa sarebbe dell’immagine che l’uomo ha di se stesso e dell’universo che lo circonda se la ricerca della verità si limitasse, come ai temi prima di Galileo, a costruzioni logiche sopra «un mondo di carte» invece che a «certe dimostrazioni» verificate da «sensate esperienze»?
Già, Galileo. Nel 1616 il cardinale Roberto Bellarmino consigliò al pioniere della scienza moderna di limitarsi a spiegare «come vada il cielo» e di non cercare di spiegare «come si vada in cielo». Naturalmente vale anche il contrario. Se vogliamo che i rapporti tra scienza e religione non diventino conflittuali, ma siano improntati al reciproco rispetto, è bene che i religiosi si limitino a spiegare «come si vada in cielo» e non cerchino di spiegare agli scienziati «come vada il cielo». Lo stesso Bellarmino venne meno al suo saggio consiglio sulla separazione delle sfere d’intervento. E ne nacque un conflitto tra scienza e religione (cattolica) che a quattrocento anni di distanza non sembra essere stato ancora sanato.
* l’Unità, Pubblicato il: 13.04.07. Modificato il: 13.04.07 alle ore 8.59
EVOLUZIONE
È plausibile l’attuale spiegazione dell’origine della vita? E quale deve essere il rapporto tra scienza e teologia? Una riflessione del cardinale Schönborn
Darwin, mancano prove
«Oso affermare che attualmente non c’è probabilmente un’altra teoria scientifica, come quella darwiniana, contro cui esistano altrettante gravi obiezioni, e che ciononostante venga difesa da molti come sacrosanta» «Non cerchiamo di voler mostrare affrettatamente l’intelligent design ovunque, in maniera apologetica»
di Christoph Schönborn (Avvenire, 18.04.2007)
Quando Laplace fu in grado di dare una spiegazione «meccanica» dell’orbita dei pianeti, replicò a Napoleone, che preoccupato gli chiedeva quale fosse il posto di Dio in quella spiegazione, dicendo la celebre frase: «Je n’ai pas besoin de cette hypothèse».
Laddove Dio deve riempire le lacune del sapere, il suo posto diviene sempre minore con ogni scoperta che riesce a spiegare qualcosa fino ad allora inspiegabile. Queste «nicchie di sopravvivenza» del creatore sono divenute sempre più ristrette, e quanto maggiore è stato il successo delle scienze naturali, tanto più sicuri si sentivano tutti quegli appartenenti alla scientific community che affermavano che un giorno «l’ipotesi di Dio» sarebbe divenuta del tutto superflua.
Sotto il medesimo auspicio si è presentato anche Charles Darwin. Come il professor Stanley L. Jaki ha più volte dimostrato e accuratamente documentato, Darwin era «ossessionato» dall’idea di fornire una spiegazione scientifica plausibile dell’origine delle specie che potesse interamente fare a meno dell’atto separato della creazione divina. La sua «teoria della discendenza», che soltanto in seguito fu chiamata teoria dell’evoluzione, era una lunga argomentazione a favore di una spiegazione «intramondana», ossia puramente materiale, meccanica, dell’«origine delle specie». Laddove Newton affermava ancora che dalla cieca necessità non poteva generarsi alcun mutamento e quindi alcuna varietà delle cose, poiché ciò sarebbe possibile soltanto a partire dall’idea divina e dalla volontà divina, in Darwin valeva il contrario: l’intera varietà delle specie ha origine nelle mutazioni casuali e nelle loro opportunità di sopravvivenza. Il che non rende necessario alcun intervento separato del creatore.
Secondo le ricerche approfondite di Stanley Jaki, non resta dubbio alcuno sul fatto che Darwin, con la sua teoria, intendesse favorire la vittoria scientifica del materialismo. E Dio sa che non era l’unico a volerlo, nell’Ottocento. Non per caso Karl Marx e Friedrich Engels hanno salutato la teoria darwiniana come il fondamento scientifico della loro teoria.
Questa componente ideologica della teoria darwiniana è probabilmente anche la causa principale del fatto che sino ad oggi di essa, dell’evoluzione e creazione, si continui a discutere con altrettanta intensità e passione che in passato. Il dibattito degli ultimi mesi l’ha dimostrato ancora una volta chiaramente. [...]
La possibilità che il creatore si serva anche degli strumenti dell’evoluzione è accettabile per la fede cattolica. La questione è piuttosto se l’evoluzionismo (come visione del mondo) sia conciliabile con la fede in un creatore. Tale questione presuppone a sua volta che si differenzi fra la teoria scientifica dell’evoluzione e le sue interpretazioni ideologiche o filosofiche. Ciò presuppone dal canto suo che si addivenga ad un chiarimento dei presupposti filosofici, di pensiero, dell’intero dibattito sull’evoluzione.
Sono conciliabili la fede nella creazione e la teoria dell’evoluzione? Il «concordismo», oggi ampiamente diffuso, afferma che «la teologia e la teoria dell’evoluzione non possono mai entrare in conflitto perché le due discipline si muovono in ambiti completamente diversi» (A. Walker, Schöpfung und Evolution Jenseits des Konkordismus, in Intern. Kath. Zeitschrift Communio H 35/2006). Questo rapporto, che Stephen Gould definisce principio NOMA (Non-Overlaping Magisteria) non regge, a mio avviso. Devono necessariamente esservi delle sovrapposizioni fra la teologia e le scienze naturali, fra la fede, il pensiero e la ricerca. La fede in un creatore, nel suo progetto, nel suo «governo universale», il suo condurre il mondo ad un obiettivo da lui preposto, non può restare senza punti di contatto con la ricerca concreta del mondo. Per questo: non ogni variante della teoria dell’evoluzione è conciliabile con la fede nella creazione.
A tal proposito Adrian Walker: «Un esempio classico di una simile variante problematica della teoria dell’evoluzione è ciò che definisco darwinismo stretto: la tesi secondo cui il concorso di mutazione (genetica) e selezione naturale sia una spiegazione sufficiente della nascita di nuove forme di vita. Poiché se mutazione e selezione bastano a spiegare tale nascita, non c’è in realtà alcuna ragione del perché la materia cieca non possa essere la prima origine della vita; una tesi che è... inconciliabile con la teoria cristiana della creazione».
Spesso si cerca una via d’uscita nell’affermare che la biologia o in generale le scienze della natura sono materialistiche soltanto a livello metodologico, senza per questo professare il materialismo come visione del mondo. Anche se ciò fosse vero, resta comunque chiaro che quest’opzione metodologica è un atto spirituale che presuppone ragione, volontà, libertà. Basta già questo a dimostrare che limitando il metodo delle scienze naturali a processi meramente materiali non si può venire a capo della totalità della realtà. [...]
Quali pretese pratiche risultano dalle riflessioni abbozzate? Fra le molteplici possibili riflessioni di approfondimento ne scelgo due:
1. Perché l’evoluzionismo, con il suo materialismo ideologico, è divenuto ormai una sorta di surrogato di religione? Perché tanto spesso viene difeso con argomenti così aggressivi ed emotivi? Oso affermare che attualmente non c’è probabilmente un’altra teoria scientifica contro la quale esistano altrettante gravi obiezioni, e che ciononostante venga difesa da molti come assolutamente sacrosanta. Le obiezioni più importanti sono ben note e sono state avanzate frequentemente:
i missing links, le numerose forme intermedie mancanti fra le specie, che anche dopo centocinquant’anni di intense ricerche semplicemente non esistono;
il fatto, spesso ammesso, che finora non è mai stata realmente dimostrata un’unica forma di evoluzione da una specie all’altra;
l’impossibilità a livello di «teoria dei sistemi», che un sistema vivente (ad esempio i rettili) mediante innumerevoli mutazioni di minima entità possa essere trasformato in un altro sistema vivente (ad es. gli uccelli);
la problematica del concetto di survival of the fittest. Marco Bersanelli ha dimostrato in base ad esempi che la sopravvivenza spesso dipende soltanto dalla fortuna, è una casualità, una contingenza, e non la prova di una particolare fitness. I dinosauri, e molte altre specie, sono scomparsi per delle catastrofi naturali e non a causa della loro non adattabilità.
Queste sono soltanto alcune delle maggiori difficoltà della teoria. Ma perché è ancora così affermata, come teoria scientifica? Perché finora non ne esiste un’altra migliore, e perché come teoria scientifica è semplice ed «attraente».
Ma perché allora viene così caricata di ideologia e diviene uno shibolet materialista? Perché la visione del mondo alternativa è la fede nella creazione. Chi dice creazione, dice anche diritto del creatore. Se esiste un linguaggio leggibile del creatore, allora esiste anche un rivolgersi a noi del creatore. Da esso deriva anche un dovere, un ordinamento etico, ad esempio nella questione dell’ordine dei sessi o nella difesa della vita. Al preteso materialismo e relativismo si può più facilmente collegare una visione materialista dell’evoluzionismo. Non è un caso che l’evoluzionismo ideologico sia stato l’orpello scientifico sia del comunismo che del nazionalsocialismo. Ed è oggi l’orpello del darwinismo sociale economico, che giustifica la lotta senza quartiere per l’esistenza economica.
Ci rallegra l’illogicità dell’affermazione di Richard Dawkins, principale teorico del darwinismo ideologico, quando in un’intervista dice che non vorrebbe vivere in una società darwinistica, poiché sarebbe troppo inumana.
2. Esiste però ancora un altro motivo che rende plausibile il darwinismo. La fede in un buon creatore, nel suo «progetto intelligente del Cosmo» (Benedetto XVI, udienza generale del 13/11/06), viene messa in dubbio da una serie infinita di atti crudeli:
perché questa strada faticosa dell’evoluzione, con innumerevoli tentativi, vicoli ciechi, con miliardi e miliardi di anni e l’espansione dell’universo, le esplosioni gigantesche delle supernovae, gli elementi che si fondono nella fusione nucleare delle stelle, la macina instancabile dell’evoluzione con i suoi infiniti inizi e distruzioni, le sue catastrofi e crudeltà, fino ad arrivare alle indicibili brutalità della vita e della sopravvivenza? Non è forse più sensato considerare il tutto come il gioco cieco della casualità di una natura priva di progetto? Non è più onesto questo, che non i tentativi di teodicea di un Leibniz, cui vengono a mancare gli argomenti? Non è forse più plausibile dire semplicemente: sì, il mondo è per l’appunto così crudele?
Giunti al termine delle nostre riflessioni occorre dire una cosa: non cerchiamo di voler affrettatamente mostrare l’intelligent design ovunque, in maniera apologetica. Come Giobbe, anche noi non conosciamo la risposta al dolore. Abbiamo ricevuto soltanto una risposta, quella scritta da Dio. Il logos attraverso il quale e nel quale tutto è creato, è divenuto carne e con essa l’intera storia dell’universo, l’evoluzione, con i suoi lati grandiosi ed orribili. Si è assunto su di sé l’intera negatività del dolore, della distruzione e soprattutto del male morale.
La croce è la chiave del progetto e consiglio divino. Per quanto importante, essenziale, sia un approfondimento rinnovato della filosofia della natura, il logos della croce è l’ultima saggezza divina. Perché con la sua Santa Croce ha conciliato il mondo intero. Ma la Croce è la porta della resurrezione.
Nella sua prima omelia pasquale, Papa Benedetto ha detto quest’anno: «La risurrezione di Cristo ... se possiamo una volta usare il linguaggio della teoria dell’evoluzione, è la più grande "mutazione", il salto assolutamente più decisivo verso una dimensione totalmente nuova, che nella lunga storia della vita e dei suoi sviluppi mai si sia avuta: un salto in un ordine completamente nuovo, che riguarda noi e concerne tutta la storia... È un salto di qualità nella storia dell’evoluzione e della vita in genere verso una nuova vita futura, verso un mondo nuovo che, partendo da Cristo, già penetra continuamente in questo nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé» (15 aprile 2006).
Se la risurrezione di Cristo è «la più grande mutazione», o come dice Papa Benedetto nella stessa predica l’«esplosione dell’amore», che sciolse l’intreccio fino ad allora indissolubile del «muori e divieni», allora anche noi possiamo dire: questo è il traguardo «dell’evoluzione». A partire dalla sua fine, dal suo completamento, si evidenzia anche il suo senso. Se nelle sue singole fasi può forse apparire priva di fine e di orientamento, dalla Pasqua in poi quella lunga strada ha trovato un senso. Non «la strada è la meta», ma la risurrezione è il senso della strada.
DIBATTITO
La fede davanti all’evoluzionismo: oggi a Torino un dialogo tra i teologi Jürgen Moltmann e Giuseppe Tanzella-Nitti
Oltre Darwin: quale teologia?
Moltmann «Non soltanto lotta per la sopravvivenza e guerra di natura: il Dna umano "parla" anche di altruismo e collaborazione» Tanzella- Nitti «L’evoluzione è qualcosa di ben più grande e profondo della rappresentazione che ne dà il darwinismo»
di Luigi Dell’Aglio (Avvenire, 15.06.2007)
L’evoluzione biologica è un fatto. Ma il mondo, per evolvere e per svilupparsi, deve esistere, deve essere stato creato. «Ed ecco che la Creazione sta nel fondamento della storia, e dunque anche nel fondamento dell’evoluzione». E ancora: il messaggio che è nel Vangelo secondo Matteo «amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» è antidarwiniano? E perciò «scandaloso»? Sono alcune delle considerazioni che Giuseppe Tanzella-Nitti, professore di Teologia alla Pontificia Università della Santa Croce, esporrà nella tavola rotonda in programma, oggi alle 15, nel Tempio Valdese di Torino, con la partecipazione di Jürgen Moltmann, uno dei maggiori pensatori evangelici. Classe 1926, un amore per la teologia nato in campo di concentramento, Moltmann, che è stato docente in diverse storiche università tedesche, e tuttora in quella di Tubinga, ha scritto saggi di riconosciuta profondità. Da Il Dio crocifisso - «opera splendida» la definisce Tanzella-Nitti - a La creazione come sistema aperto, pubblicati entrambi in Italia dalla Queriniana di Brescia (il secondo, nella raccolta «Scienza e Sapienza»). Il tema dell’incontro di oggi è «Teologia ed evoluzionismo». Interverranno anche Angelo Vianello, preside della Facoltà di Agraria a Udine, e il filosofo Federico Vercellone.
Il teologo tedesco ha maturato l’idea che si debba liberare l’evoluzione dalla troppo sottolineata prospettiva della «lotta per la vita», della «guerra di natura», e sia invece ora di mettere in luce anche l’aspetto della «cooperazione naturale» e del «riconoscimento intersoggettivo». In questo modo, Moltmann propone un paradigma dell’evoluzione che è diverso da quello darwiniano. Così, aggiunge, la teoria dell’evoluzione diventerebbe «sostenibile» anche per la teologia cristiana.
Tanzella-Nitti condivide in buona parte il pensiero di Moltmann sull’evoluzione. La darwiniana lotta per la sopravvivenza è un principio riduttivo, osserva, come pure la trasmissione di mu tazioni genetiche aleatorie, che non spiega perché gli organismi siano divenuti sempre più complessi e sia progressivamente cresciuto il cervello dei mammiferi. «L’evoluzione è qualcosa di ben più grande, globale e profondo» della rappresentazione che ne danno il darwinismo, «e le visioni che ad esso si richiamano». Non esiste nessuna contrapposizione tra evoluzione biologica e teologia, se s’intende bene che cosa significa «creare» per la teologia cristiana. «L’opposizione nasce se si pensa a un Creatore che interviene nella natura in modo antropomorfo, e a un’evoluzione immaginata come un qualcosa che si sviluppi da sé». Ma perché ci sia l’evoluzione occorre che il mondo esista già. «L’idea di un mondo in evoluzione poteva sorgere e affermarsi solo in una concezione ebraico-cristiana dell’universo, dove esiste un inizio e ogni cosa tende verso un fine», fa notare Tanzella-Nitti.
Sull’intuizione di Moltmann - cooperazione invece di lotta per la sopravvivenza - il teologo cattolico avanza un interrogativo. La battaglia per la vita oppure il sostegno reciproco sono «due visioni che trascendono la natura materiale e biologica e dunque sono capaci di orientare liberamente il mondo nel bene o nel male, o sono piuttosto due forme di vivere e di pensare che noi esseri umani portiamo iscritte nel nostro Dna e che possiamo soltanto assecondare?». Le apprendiamo dal mondo biologico o appartengono principalmente alla sfera dello spirito umano? Sono domande difficili ma essenziali, per Tanzella-Nitti. «Chi impiega il darwinismo contro la fede mette l’accento su una lunga evoluzione biologica segnata dalla lotta, dalla sofferenza e dalla morte... Occorre cercare di capire che cosa è originario e che cosa è derivato. Se la lotta o la cooperazione, la morte o la vita, sono in noi solo il riflesso di quanto ci detta la materia o se invece siamo noi, esseri che trascendiamo la materia, a vederle riflesse in essa».
Per Moltmann, è ora di recuperare l’antico concetto di sapienza, l a capacità di distinguere tra bene e male, tra ciò che dà la vita e ciò che dà la morte. Tanzella-Nitti è sulla stessa lunghezza d’onda: «Se la creazione è una favola, se riusciamo a sbarazzarci del Creatore, possiamo fare ciò che vogliamo, senza ascoltare nessuno, neanche la nostra coscienza». Il teologo cattolico si schiera con il teologo protestante nel contestare definitivamente che la lotta per la sopravvivenza (cioè in pratica la violenza) sia il fattore determinante per la crescita della specie umana. Sapere che il Dna umano contiene anche valori di altruismo e collaborazione, come afferma il professor Moltmann, può indurre l’uomo alla solidarietà con il prossimo, dice Tanzella-Nitti. Poi, quando spingono l’analisi sul futuro, i due teologi si trovano ampiamente d’accordo. Osserva Tanzella-Nitti, citando Teilhard de Chardin e la sua logica dell’evoluzione orientata verso una progressiva ascesa: «Il cristiano è chiamato a guardare al futuro con realismo ma anche con speranza. Se, come ama ripetere il professor Moltmann nei suoi scritti, la creazione è un "sistema aperto", allora è anche vero che il Creatore guida la storia verso fini di salvezza». E Moltmann porta al culmine così la propria riflessione: «La teologia cristiana concepisce l’uomo dinamicamente, nel processo della storia di Dio. E l’uomo contemporaneo è effettivamente un ponte di passaggio verso questo futuro superiore».
INTERVISTA
Parla Michael J. Behe, teorico del Disegno intelligente: «L’evoluzionismo non riesce a rendere conto dei sistemi complessi»
Darwin, i limiti del caso
di Andrea Lavazza (Avvenire, 07.07.2007)
E’ il teorico del Progetto Intelligente (ID nella sigla inglese), autore del saggio (La scatola nera di Darwin) diventato il punto di riferimento per i sostenitori della "via di mezzo" tra evoluzionismo e creazionismo che - in base alla complessità irriducibile della natura - postula un Progettista dietro la comparsa della vita, e dell’uomo in particolare. L’americano Michael J. Behe, 55 anni, docente di Biochimica alla Lehigh University, è stato ascoltato anche nella causa "Kitzmiller contro Dover Area School District", conclusasi con una sentenza sfavorevole all’ID, definito «non teoria scientifica ma visione religiosa» e quindi da tenere fuori dai programmi scolastici. Ma Behe, con il movimento che ha i suoi centri nel Discovery Institute e nella International Society for Complexity Information and Design, non fa passi indietro. Anzi, ha appena pubblicato un nuovo volume: Il confine dell’evoluzione. Alla ricerca dei limiti del darwinismo, Free Press.
Professor Behe, quali sono i nuovi argomenti a favore dell’ID che porta nel libro?
«Dieci anni fa, nel mio Darwin’s Black Box sostenevo che alcune complesse macchine molecolari della cellula richiedono un progetto intelligente dotato di uno scopo. Tuttavia, alcuni aspetti più semplici della cellula stessa possono venire spiegati con l’evoluzione frutto del caso. In The Edge of Evolution, mi chiedo dove sia ragionevole porre il confine tra il caso e il progetto. E mostro come il progetto intelligente sia implicato nella cellula molto più in profondità di quanto pensassi in precedenza».
Contro l’idea di evoluzione unicamente in termini di mutazione casuale, lei fa ancora riferimento a certe strutture cellulari e all’analogia della trappola per topi (un meccanismo che funziona solo se ha tutti i suoi pezzi, non è possibile che la natura ne abbia selezionato a caso le singole parti). Il biologo Kenneth Miller ha scritto un saggio per confutare tutto ciò. Inoltre, ha appena recensito il suo libro su «Nature», afferman do che gli argomenti sono fallaci. Che cosa risponde?
«Le spiegazioni su questo punto di Miller e di altri darwinisti sono un tipico esempio di auspici vaghi, di racconti che dovrebbero condurre al risultato voluto. Miller cambia tema surrettiziamente e non dice come i flagelli [le strutture cellulari in questione, ndr] si siano evoluti per mutazione causale. Nella sua recensione, poi, ignora il focus del mio libro, cioè che i risultati delle osservazioni indicano come i processi darwiniani non riescano a rendere conto dei sistemi complessi. Miller si limita a immaginare che vi possano essere circostanze in cui il caso è sufficiente».
Lei parla a lungo anche della malaria. Che cosa vuole sostenere, considerando che alcuni ritengono il parassita un controesempio alle sue tesi?
«Sappiamo che anche il parassita responsabile della malaria è un organismo complesso ed elegante. Ciò porta a pensare che anch’esso sia frutto del progetto intelligente. Ovviamente, è pernicioso per l’uomo. Forse la sua utilità per la vita sulla Terra risiede in qualcos’altro, di modo che, complessivamente, risulti benefico. Sicuramente, sappiamo ancora troppo poco».
Nel libro vengono anche portati argomenti statistici. Ce ne può accennare?
«Gli organismi più numerosi sul nostro Pianeta sono microbi, batteri e virus. L’osservazione di un numero enorme di essi per migliaia di generazioni mostra che le mutazioni casuali facilmente danneggiano il genoma ma non costruiscono strutture complesse come quelle osservate nella cellula. Ma se il meccanismo darwiniano non funziona quando dispone di così tante opportunità, non lo farà a maggior ragione nelle piante e negli animali, quando ne ha assai meno. Questi dati ci forniscono valide ragioni per pensare che le mutazioni casuali e la selezione naturale non possano rendere conto delle eleganti strutture della vita, nemmeno in miliardi di anni».
La sentenza del 2005 ha rigettato la possibilità di insegnare il progetto intelligente nelle scuole pubb liche. Qual è oggi la situazione? I suoi colleghi universitari hanno preso le distanze dalla sue ricerche, ma nell’opinione pubblica molti ritengono falsa l’idea di evoluzione darwiniana...
«Attualmente, negli Stati Uniti il clima è ostile alla presentazione nelle scuole del "progetto intelligente", che si può insegnare solo negli istituti privati. Gli scienziati in genere sono molto critici verso l’ID. D’altra parte, la maggioranza degli americani crede in Dio, ma apprende come va la natura da ciò che scrivono gli scienziati. È un problema sociologico di difficile soluzione».
Papa Benedetto XVI sembra avere manifestato un implicito interesse per la teoria del progetto intelligente come da lei e da altri presentata...
«La Chiesa ha sempre creduto nel "progetto intelligente", in quanto crede che Dio ha creato la natura volontariamente, con lo scopo di far nascere la vita. Come scrisse nel 1986 l’allora cardinale Ratzinger, "dobbiamo avere l’audacia di affermare che i grandi progetti della creazione vivente non sono il prodotto di caso ed errore". Che poi le gerarchie decidano di prendere pubblicamente posizione a favore di un gruppo che porta il nome di "progetto intelligente" dipende da molte considerazioni. Una è che ciò potrebbe far aumentare l’ostilità del mondo accademico verso la Chiesa. D’altra parte, gli scienziati darwiniani sono per lo più atei e prevenuti verso l’espressione della fede, cosicché risulta egualmente pericoloso dare credito alle loro teorie».
Che tipo di Progettista ha in mente? E se il disegno è "intelligente", come si spiega il male?
«Io sono un cattolico che crede in un Dio onnisciente, onnipotente e buono. Credo, quindi, che Dio sia il Progettista dell’universo e della vita. Non ho risposte al problema del male, che angustia i teologi da duemila anni. La sofferenza è un mistero che noi crediamo Dio permetta per suoi imperscrutabili scopi. Ma la scienza resta amica della religione, benché molti scienziati purtroppo non lo siano, tent ati dall’arroganza di conoscere ogni cosa».
MEDIOEVO
Uno studio ripropone la figura del vescovo scienziato, che già nel Medioevo parlava di un universo nato da un punto di energia
Grossatesta, il Big Bang nel ’200
Solo il cristianesimo, con la sua idea di creazione, rese possibile lo sviluppo della scienza. E il maestro di Oxford intuì il nesso tra il «Fiat lux» e la "genesi" cosmica riconosciuta nel Novecento
di Francesco Agnoli *
La prima domanda che si pone lo storico della scienza moderna è sicuramente perché essa sia nata in Europa, e non altrove. Le spiegazioni possibili sono tante, ma sicuramente ve ne è una che risulta fondamentale: perché solo qui esisteva il concetto di creazione. Solo il cristianesimo infatti si fonda sull’idea che il mondo non coincida con Dio, ma sia, semplicemente, una creatura. Si tratta di una idea fondamentale, perché libera l’universo da presenze divine immanenti, spirituali, che portano ad una visione magica ed astrologica della realtà, e che rendono impossibile la nascita del concetto di legge fisica. L’universo greco, romano, animista ecc., è un "grande animale", un’entità eterna, mai nata e destinata a esistere per sempre, secondo una visione ciclica del tempo.
Solo l’universo cristiano non coincide con Dio, ma ha iniziato ad esistere nel tempo, un tempo lineare, ed è regolato da leggi fisiche poste in essere da un Creatore, inteso come Legislatore supremo, "divino Artefice", come scriveranno Copernico e Keplero. Quest’idea è talmente importante nella storia della scienza che proprio da essa nascono, già nel medioevo, una serie di riflessioni cosmogoniche straordinarie.
Tra queste si segnala senza dubbio quella di Roberto Grossatesta, un vescovo legato alla scuola francescana di Oxford, che in Italia è purtroppo pressoché sconosciuto. Eppure Grossatesta non fu solamente un grande studioso di lenti, di specchi, e dei fenomeni della luce in genere, tanto da essere considerato uno degli inventori degli occhiali, ma è anche colui che ha proposto, forse per primo, una straordinaria ipotesi: che il mondo sia nato da una sorta di puntino piccolissimo di luce-energia, posto in essere dal Creatore, ed espansosi sino a formare l’universo intero.
Grossatesta parte dal «Fiat lux» del Genesi, e dalle sue osservazione di ottica, per affermare che la luce, prima creatura, «è capace per natura di moltiplicare se stessa in ogni direzione. Naturalmente infatti la luce gen erando si moltiplica in ogni direzione, e, insieme con l’esistere, genera. Per questo riempie immediatamente ogni luogo circostante». Proseguendo spiega che la creazione della luce è anche l’origine di moto, tempo e spazio: il moto della luce crea lo spazio, e il rapporto tra moto e spazio dà vita al tempo. Moto, tempo e spazio, non sono quindi degli assoluti, ma dei relativi, che hanno iniziato ad esistere, in un istante di tempo che «dà inizio al tempo», non «continuazione del passato verso il futuro, ma solo inizio del futuro».
Nelle sue riflessioni a metà tra lo scientifico e il filosofico, Grossatesta arriva quindi a negare l’esistenza di una materia eterna, teorizzata ad esempio nel Timeo platonico, e a sostenere che il moto degli astri non solo non abbisogna di anime astrali, ma neppure di intelligenze motrici, essendo il mondo materiale non un "grande organismo" vivente, ma una "mundi machina", una macchina del modo, regolata, come ogni meccanismo, da precise leggi intrinseche.
In Grossatesta, ha scritto la Battisti Saccaro, «concezione creazionista del mondo e concezione meccanicistica della sua formazione sembrano poter coesistere grazie all’azione della luce: l’evento soprannaturale della sua posizione è, nel De luce, dato per scontato, e l’unico accenno che vi riscontriamo è là dove si parla della forma prima nella materia prima creata; può quindi essere delineato il successivo costituirsi del cosmo come sistema autoproducente senza l’ulteriore intervento del Creatore».
Si capisce quindi, dopo quanto si è detto, perché diversi studiosi inglesi della scuola di Oxford, tra cui il Crombie, abbiano parlato di Grossatesta come di un precursore della scienza moderna e soprattutto dell’odierna teoria del Big Bang. Una teoria, è il caso di ricordarlo, che fu ripresa da Galileo Galilei in una lettera del 1615 a monsignor Pietro Dini, in cui partendo dal fiat lux del Genesi, ipotizzava appunto l’origine dell’universo da un punto di luce energia. La teorizzazione moderna di questa possibile origine del cosmo si deve però al gesuita Lemaitre, ideatore dell’"atomo primordiale".
Franco Prattico racconta al riguardo questo aneddoto: «Si dice che quando Georges Lamaitre, un sacerdote scienziato che, con George Gamow, fu autore di una delle prime formulazioni del Big Bang, cercò di discutere con Einstein la possibilità di descrivere lo stato iniziale dell’universo, il più grande fisico del nostro secolo abbia scrollato le spalle: "Questa faccenda somiglia troppo alla Genesi", avrebbe detto, "si vede bene che siete un prete". E non manca ancora oggi chi considera questo modello con un certo sospetto, per la sua somiglianza appunto con un "atto di creazione"» (Franco Prattico, Dal caos... alla coscienza, Laterza).
A ben vedere infatti il Big Bang, così chiamato con disprezzo dal fisico ateo sir Fred Hoyle, che lo considerava "troppo cristiano", è una teoria perfettamente compatibile con la fede, in quanto presuppone, come notava Grossatesta, un mondo originatosi dal nulla, in cui moto, spazio e tempo hanno iniziato ad esistere e potrebbero un giorno, magari con un Big Crunch, scomparire.
Scrive Francis Collins, direttore del Progetto Genoma umano, nel suo Il linguaggio di Dio: «Per la tradizioni di fede secondo cui Dio ha creato l’universo dal nulla, questo [il Big Bang] è un risultato elettrizzante». A un evento così sbalorditivo si addice la definizione di miracolo? La sensazione di meraviglia generata dal Big Bang ha indotto parecchi scienziati agnostici ad esprimersi in termini nettamente teologici.
L’astrofisico Robert Jastrow, per esempio, conclude così il suo God and Astronomy: «Sulla teologia, la teoria del Big Bang ha conseguenze profonde. Per lo scienziato che ha vissuto alla luce della fede nel potere della ragione, la storia finisce come un brutto sogno. Ha scalato le montagne dell’ignoranza; è sul punto di conquistare la vetta più alta ed ecco che, arrampicatosi sull’ultima roccia, viene accolto da un gruppo di teologi s eduti lì da secoli». E Collins chiosa: «Il Big Bang domanda a gran voce una spiegazione divina. Non riesco a capire come la natura avrebbe potuto crearsi da sé. Solo una forza soprannaturale al di fuori del tempo e dello spazio avrebbe potuto fare una cosa simile».
*
l’anticipazione
La filosofia della luce
Pubblichiamo in queste colonne una riflessione di Francesco Agnoli sul tema del suo nuovo saggio, «Roberto Grossatesta. La filosofia della luce», in uscita per le Edizioni studio domenicano (pagine 202, euro 12,00). Tra le ultime pubblicazioni dello storico, «Contro Darwin e i suoi seguaci» e «Controriforme. Antidoti al pensiero scientista e nichilista».
* Avvenire, 11.08.2007
POLEMICHE
Arriva in Italia il best seller dell’etologo inglese, cui replica un pamphlet del domenicano Thomas Crean: luoghi comuni e falsità
Fede e scienza, Dawkins fa l’ateologo
di Andrea Galli (Avvenire, 07.09.2007)
«Una persona ragionevole dovrebbe almeno supporre che i fedeli di una certa religione sappiano ciò in cui credono». Pausa e sospiro. Padre Thomas Crean, giovane teologo della comunità dei domenicani di Cambridge, arrivato a questo punto del suo lavoro sembra smettere di scrivere, guardando con un filo di sconforto lo schermo del computer. Si trova infatti a pagina 144 di un’affilata confutazione di The God Delusion, L’illusione di Dio, libro del 2006 che esce oggi in italiano per i tipi di Mondadori (pagine 400, euro 19,00). Ovvero un bestseller che ha superato il milione di copie, scritto da uno dei più brillanti divulgatori scientifici in circolazione, Richard Dawkins, esponente di punta dell’ateismo militante anglosassone. Un libro dove l’etologo britannico lascia per una volta il terreno che gli ha procurato fama mondiale, l’apologia del darwinismo, per addentrarsi nei meandri delle religioni, della teologia e della Bibbia. Un cambio di campo, questo, che ha lasciato interdetti anche alcuni tra i suoi più sinceri simpatizzanti. H. Allen Orr, luminare della genetica evolutiva, al suo fianco nella critica alla scuola americana dell’Intelligent Design, scriveva a gennaio sulla New York Review of Books della delusione per un libro «sfacciatamente dilettantesco». Kenan Malik, neurobiologo e storico della scienza, vicino all’estrema sinistra inglese, descriveva lo scorso agosto sul Daily Telegraph la sua sorpresa nel vedere un sì capace studioso considerare la religione una «malattia mentale», finendo «per sembrare tanto naif quanto un credente beota». Più prevedibile la delusione di Alister Mcgrath, teologo e biologo di Oxford, evoluzionista convinto e cultore in gioventù dei libri di Dawkins (a cui ha dedicato un bel saggio, uscito anche in Italia per Rubettino con il titolo Dio e l’evoluzione). Non pago però dei giudizi sulfurei arrivati dai pulpiti più inattesi, padre Crean ha pensato di scrivere A Catholic replies to Professor Dawkins (Family Publications, Oxfor d), la prima risposta alle accuse mosse in God Delusion al cristianesimo e in specifico al cattolicesimo. Partendo da lontano, dall’unico argomento prettamente filosofico che Dawkins porta a supporto dell’ateismo: l’obiezione per cui, essendo la causa più complessa del proprio effetto, allora un Dio creatore dell’universo non può che essere incredibilmente complesso e, in quanto tale, non può non necessitare di un ulteriore creatore, così all’infinito. Il primo capitolo mostra quindi come a Dawkins sfugga l’idea che il massimo della perfezione e della ricchezza dell’essere possa coincidere metafisicamente con la sua semplicità: un po’ come il pensiero di un architetto, per esempio il progetto di una cattedrale, è all’origine della grandiosa chiesa che verrà costruita ma allo stesso tempo infinitamente più "semplice". Il secondo capitolo è dedicato invece all’incomprensione delle famose vie per dimostrare l’esistenza di Dio formulate da Tommaso d’Aquino. Il terzo tratta dei miracoli, per Dawkins apice del delirio antiscientifico, ricordando come tra l’altro fossero ferventi cattolici e aperti alla possibilità di un intervento di Dio nell’ordine naturale Louis Pasteur, fondatore della microbiologia, padre Jean Baptist Carnoy, fondatore della citologia, il beato Niels Stensens, tra i fondatori della moderna geologia, il canonico René Just Haüy, fondatore della cristallografia, l’abate Gregor Mendel, fondatore della genetica, ecc. Nel quarto capitolo Crean si occupa di replicare allo scoop delle presunte discordanze fra i racconti evangelici, facendo notare che 1700 anni prima se ne erano già accorti Agostino d’Ippona nel De consensu evangelistarum ed Eusebio di Cesarea nella Historia ecclestiastica... e così di questo passo nei successivi capitoli dedicati ai fondamenti dell’etica - inesistenti per l’ateologo - al senso religioso - mera illusione che però garantirebbe uno scopo esistenziale - al rapporto fra Bibbia e morale, alla Chiesa cattolica. Ed è in quest’ultima p arte che Crean deve seguire con la penna blu Dawkins mentre si impegola come un Odifreddi qualsiasi nel dimostrare l’immarcescibile politeismo dei cattolici adoratori di statue, santi, Madonne, con la loro folle fede nelle indulgenze e nel purgatorio. Mentre estrae dal cilindro l’immancabile caso Mortara, tacendo ovviamente della fine del piccolo ebreo "rapito" da papa Mastai Ferretti, che, preso il nome di Pio in onore di Pio IX e divenuto sacerdote, morì in odore di santità. Eloquente, al termine di una disamina diretta e puntuale, la chiusa agostiniana: «Qui sono dunque espresse due filosofie, capaci di costruire due città. Da una parte quella del nostro autore, Richard Dawkins, che riduce tutto a pura materia e così non riesce a spiegare né la ragione, né la libertà, né i desideri del cuore umano, né la morale, né il dovere... Dall’altra parte la filosofia che non è solo della Chiesa cattolica, ma che questa ha definito più chiaramente di chiunque altro: l’uomo, benché solo una creatura di Dio, è fatto a sua immagine, possedendo sia intelligenza che libertà. Non è prodotto dal caso, ma da una volontà, cioè dall’Amore. Avendo facoltà spirituali che non possono perire è fatto per l’eternità».
DIALOGHI
I nodi insoluti dell’evoluzione: a confronto ieri a Torino il paleoantropologo Fiorenzo Facchini e il genetista Guido Barbujani
Da scimmia a uomo: l’enigma del «salto»
Lo scienziato cattolico: «Tra l’animale e l’uomo c’è un salto ontologico, uno scarto dove Dio emerge come concausa»
Dal Nostro Inviato A Torino Edoardo Castagna (Avvenire, 22.09.2007)
Basta poco, basta mettere da parte per un attimo gli steccati ideologici, per riportare il confronto tra credenti e non credenti nei proficui binari di un dialogo pacato e costruttivo. Ne hanno dato un ottimo esempio ieri, a Torino Spiritualità, l’antropologo e sacerdote Fiorenzo Facchini e il genetista dichiaratamente non religioso Guido Barbujani, che al Teatro Gobetti si sono confrontati su «Evoluzionismo, darwinismo e Intelligent Design: storie di prospettive e contrasti».
Un dialogo che ha fatto emergere le differenze che permangono tra la prospettiva religiosa e quella che non guarda al trascendente, ma senza degenerare in battaglie campali condite dalle fin troppo facili accuse di oscurantismo che, trito ritornello, i laicisti più scaldati non si stancano di lanciare contro chiunque non si rassegni a consegnare, come loro, l’uomo e il mondo al dominio del cieco caso. Facchini ha subito puntualizzato la distanza tra l’evoluzione, «fatto appurato anche se dalle modalità non ancora del tutto chiarite», e l’evoluzionismo, «dottrina costruita sull’evoluzione e che la inserisce in una visione dell’uomo e del mondo che non è più derivata esclusivamente da aspetti scientifici». Allo stesso modo, ha puntualizzato, «un conto è la creazione, evento che si raggiunge non con la scienza, ma con la filosofia; e un conto è il creazionismo, una certa visione della creazione che può sì essere, quale la sostengo io, aperta all’evoluzione, ma può anche chiudersi a riccio, come certe posizioni americane, o quasi, come nel caso dell’Intelligent Design, sempre di matrice statunitense. Alla fine, anche questa posizione si riporta a un creazionismo puro».
Puntualizzazioni, queste, che Barbujani sottoscrive senza remore, aggiungendo anzi che «l’evoluzionismo è figlio di Darwin, ma non è Darwin che, per esempio, era privo degli strumenti genetici che oggi abbiamo a disposizione. Analogamente, l’Intelligent Design oggi proposto negli Usa è una versione aggiornata del vecc hio creazionismo, che si puntella su quegli aspetti ancora oscuri del mondo naturale sostenendo che la scienza non potrà mai arrivare a spiegarli. E che quindi rimandano a un Progettista intelligente».
Una posizione, questa, della quale lo stesso Facchini sottolinea la pericolosità, «sia filosoficamente sia religiosamente. Perché se si riduce Dio a un ruolo di esplicazione degli attuali limiti della scienza, un domani, quando l’indagine umana avrà colmato qualche lacuna, il divino verrebbe relegato ancor più ai margini. Qui si confondono i piani, mentre le lacune scientifiche non si colmano con la religione. Non soltanto l’Intelligent Design non è scienza, ma rende anche un cattivo servizio alla religione. Tutto questo, fermo restando che è più che legittimo affermare che Dio ha un progetto sulla creazione. Semplicemente, si tratta di un altro piano».
Che quella sull’Intelligent Design sia più una questione politica che scientifica, lo conferma il genetista dell’Università di Ferrara, lamentando il pessimo clima che il dibattito, «malamente importato in Europa», ha generato: «I rapporti tra evoluzione e cattolicesimo, anzi, sono sempre stati ottimi, da Teilhard de Chardin in giù. Ricordiamo la famosa lettera di Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delle Scienze, dove assumeva l’evoluzione come un dato di fatto. Poi, accanto a questo, ci sono le domande sul bene, sul male, sulla finalità: qui la scienza non ha nulla da dire, è il campo della filosofia e della teologia». È a questo punto che Facchini rilancia la sua proposta di concentrare la riflessione non sul pericoloso e dubbio concetto di «disegno intelligente», ma su quello più ampio di «progetto superiore» [proposto per la prima volta su Avvenire del 2 agosto scorso, ndr]: «Un progetto che non si limita alla natura, ma che abbraccia l’intera progettualità divina sul creato».
Un’apertura al trascendente sulla quale Barbujani, scienziato non religioso, ammette lealmente di non aver nulla da dire, riconoscendo anzi che «sono domande profondamente insite nella nostra mente». Facchini procede a sviluppare la sua argomentazione, ricordando come «tra l’uomo e l’animale c’è un salto ontologico: noi non possiamo derivare nella nostra totalità, con la nostra spiritualità, dalle grandi scimmie. Qui c’è uno scarto, qui emerge Dio come concausa dell’evento-uomo. C’è una discontinuità irriducibile, ed è la cultura. Quando Darwin negò un simile salto, parlando piuttosto di semplice differenza di grado, sconfinò nell’ambito della filosofia». Barbujani conferma che «la scienza non ha elementi per testare eventuali salti ontologici», ma obietta: «Le differenze tra uomo e animale paiono sempre meno evidenti, abbiamo evidenze di "cultura" anche tra le scimmie superiori. È difficile tracciare una linea netta tra noi e gli altri animali, anche se non ci sono dubbi sulla disparità quantitativa tra la nostra cultura e la loro».
Il problema però, ha ribattuto Facchini, è intendersi su che cosa si debba intendere per "cultura": «Oggi parte degli scienziati tende a estendere questo concetto, includendoci tutto ciò che non è geneticamente determinato: così facendo, la si può rintracciare anche tra gli animali. Ma questa definizione di cultura umana non coglie quanto c’è di specifico nell’uomo: la capacità di progettare, e la capacità di elaborare simboli». Eccole, le differenze di prospettiva tra una scienza ispirata al trascendente e una che non lo è. Nette e marcate. Ma che non hanno nessun bisogno di aggredire per affermarsi.
TRA FEDE E SCIENZA
Owen Gingerich, astronomo dell’Università di Harvard, spiega perché la visione di un mondo frutto del caso ha in sé qualcosa di assurdo. Sulla scia di Keplero, Galileo, Newton e altri teorici del cosmo
Impronte digitali di Dio nel cosmo
«Sarebbe bastata una minima discrepanza in uno solo di questi parametri e avremmo avuto un universo totalmente inadatto alla vita e all’uomo»
Di Luigi Dell’Aglio (Avvenire, 21.09.2007)
Quando sente parlare i suoi colleghi atei, prova delusione Owen Gingerich, famoso astronomo di Harvard. Fra loro, in particolare, gli risulta disarmante e deprimente Steven Weinberg, con lo slogan: «Più l’universo diventa comprensibile, più appare inutile». Gingerich obietta che questa mancanza di fede è del tutto immotivata. E cita la grande scienza da Giovanni Keplero (1571-1630) a oggi. Keplero, concludendo le sue Harmonices Mundi, scriveva: «Non c’è in me ambizione più grande né desiderio più ardente dello scoprire se posso trovare Dio anche dentro di me; questo Dio che, quando osservo l’universo, riesco quasi a toccare con mano». Profondo come «teologo per passione» non meno che come scienziato, Gingerich, che a Harvard ha insegnato a lungo astronomia e storia della scienza, scende di nuovo in campo con il saggio Cercando Dio nell’Universo (editore Lindau, 14 euro), in questi giorni in libreria. (Molto significativo è il titolo originale del libro: God’s Universe, l’Universo di Dio). E fa capire, da scienziato, le ragioni per cui ritiene che il cosmo sia frutto non di un caso (incomprensibilmente fortunato), ma di un disegno soprannaturale. Quanto ai colleghi atei, sottolinea, sono ovviamente liberi di pensarla come vogliono ma non dovrebbero servirsi della loro posizione «e presentarsi come portavoce della scienza, per propugnare la causa dell’ateismo». «Contro questo atteggiamento» aggiunge «è necessario e legittimo opporre resistenza».
Come si spiegano l’Universo e la vita? Prima di tutto c’è il fine tuning, il bilanciamento dei parametri della fisica. L’astronomo inglese Sir Martin Rees ha accertato che sei sono i numeri-chiave. «Sarebbe bastata una minima discrepanza in uno solo di questi parametri e avremmo avuto un universo totalmente inadatto alla vita» osserva Gingerich. Se l’energia del Big Bang fosse stata minore, il cosmo avrebbe presto avuto termine collassando su se stesso. Se fosse stata maggiore, la forza di gravità si sarebbe ridotta rapidamente. In entrambi i casi, l’universo non avrebbe prodotto gli elementi necessari alla vita. «Se un dipnoo preistorico, strisciando sulla riva, fosse andato a sinistra invece che a destra, l’evoluzione dei vertebrati avrebbe preso un’altra direzione». Quando dalla fisica si passa alla biologia, le «coincidenze» sono ancora più impressionanti, rileva. Il Dna può formarsi per caso? E una proteina, fatta di 2000 atomi? Gingerich dà la parola a Freeman Dyson: «Questo è un universo che doveva già sapere che saremmo arrivati». (Non manca un’apertura a ET. «Nel 1277, il vescovo di Parigi dichiarò "eretico" il limitare alla sola Terra la potenza creatrice di Dio»).
Il libro racconta come i grandi astronomi abbiano posto in cima ai loro pensieri due obiettivi - la conoscenza e Dio - spesso riunendoli in uno. Tipico il caso di Niccolò Copernico (1473-1543), il padre della teoria eliocentrica. Per inciso, Owen Gingerich spiega che il sistema copernicano, poi abbracciato da Galileo Galilei (1564-1642), sarebbe stato provato soltanto dalla legge di gravitazione universale di Isaac Newton (1642-1727) e dal pendolo che nel 1851 Leon Foucault fece oscillare nel Panthéon di Parigi. All’epoca del duro scontro tra geocentristi ed eliocentristi, i primi chiedevano ai secondi la «prova apodittica» del moto terrestre. E astronomi come il danese Tycho Brahe (1546-1601) si domandavano: «Ammettiamo che la Terra ruoti a questa vertiginosa velocità. Ma allora, come mai, quando lanciamo in alto un sasso, questo ricade nello stesso punto, e non più in là? E come fa la Terra - nel suo moto attorno al Sole - a trascinarsi appresso Luna?» Newton avrebbe chiarito tutto con la forza di gravità, ma quasi due secoli dopo. La prova convincente non l’aveva scovata neanche Copernico, che nel 1536 aveva ultimato la sua opera fondamentale, De revolutionibus orbium coelestium libri VI. La Terra che si muove attorno al Sole era ipotesi destinata a urtare contro la tradizione scientifica di matrice aristotelica e contro l’interpretazione letterale delle Scritture (anche se già Sant’Agostino aveva consigliato di tener conto del valore simbolico del testo biblico). Ma Copernico non aveva alcuna intenzione di contestare la metafisica e scontrarsi con le autorità religiose. Il grande scienziato polacco, fa notare Gingerich, era semplicemente convinto che il sistema eliocentrico, comportando una più armoniosa struttura del cosmo, una coerenza e un’eleganza maggiore, fosse più adatto a rispecchiare la grandezza di Dio. «Troviamo in questo ordinamento un’ammirevole simmetria del mondo, quale altrimenti non è possibile incontrare» scrisse.
Fra gli astronomi animati dalla fede, Gingerich mette se stesso. «Sono persuaso della presenza di un Creatore, dotato di un’intelligenza superiore. E non mi sento in contraddizione con la mia qualità di scienziato». Per l’astronomia ha un amore esuberante; da bambino aveva costruito, con il padre, un telescopio rudimentale. Gingerich crede nella «creatio continua». E trova conferma nei fossili di creature estinte milioni di anni fa. «Non suggeriscono l’idea di un universo progettato per essere ’istantaneamente perfetto». «Inoltre, se l’universo fosse predeterminato anche nei minimi particolari, l’uomo perderebbe la libertà e la possibilità di scelta. Dio può realizzarsi in molti modi, non solo per mezzo di un progetto di cui fin dall’inizio è previsto ogni dettaglio».
Dibattito.
La scienza non può più negare l’esistenza di Dio
Parla Olivier Bonnassies, autore con Michel-Yves Bolloré di un best-seller internazionale che incrocia cosmologia, fisica, storia e teologia. Per dimostrare che non c’è contrasto tra fede e ragione
di Riccardo Maccioni (Avvenire, lunedì 26 agosto 2024
A volte per capire il senso di una storia, la radice di una ricerca, bisogna partire dalla fine. Nel nostro caso dall’ultima frase della pagina conclusiva di un libro, una parafrasi di san Paolo all’Areopago di Atene così come raccontato negli Atti degli apostoli: Dio ha creato l’essere umano perché lo cerchi. Ed è un viaggio iniziato all’alba del mondo, destinato a non finire mai. Un itinerario giocato sul filo dell’orgoglio dell’uomo e sulla sua presunzione di poter catturare con le proprie sole forze il mistero. Si pensi a quella che in certi periodi è parsa una vera guerra tra fede e ragione, all’indisponibilità da parte della scienza di riconoscere la possibilità di qualcosa o qualcuno che la oltrepassasse, impossibile da recintare. Per secoli le acquisizioni, soprattutto nel campo della fisica e della matematica, sono state orientate in un’unica direzione, cioè la capacità, comunque la possibilità, di spiegare l’universo senza la necessità di un Dio creatore.
Però il pendolo della storia ha cambiato orientamento, mettendo in fila, a partire dalla prima metà del XX secolo, scoperte che hanno avvalorato con forza l’ipotesi dell’esistenza di una causa intelligente originaria. A queste ricerche, e quindi alla possibilità di arrivare a Dio attraverso la ragione, è dedicato il libro cui si accennava all’inizio:
Dio. La scienza, le prove. L’alba di una rivoluzione (Edizioni Sonda, 612 pagine, euro 24,90),
saggio bestseller internazionale di cui sono autori l’ingegnere informatico Michel-Yves Bolloré docente all’Université Paris-Dauphine e l’imprenditore Olivier Bonnassies diplomato all’École Polytecnique di Parigi e laureato in teologia all’Institute Catholique, sempre della capitale francese. «Questo libro - spiega Bonnassies, 58 anni il prossimo 16 settembre - è un’indagine pensata per rispondere a un’unica domanda: “Esiste un Dio Creatore?”. E da un solo punto di vista, la razionalità. Per farlo mettiamo a disposizione del lettore, giudice di questa inchiesta, una dozzina di dossier tematici indipendenti per offrire un quadro il più possibile completo sull’argomento».
Il volume, come spesso succede, nasce dall’incontro tra due profili differenti. «Nel 2013 - commenta Bonnassies - ho pubblicato il video “Démonstration de l’existence de Dieu et raison de croire chrétienne” (Dimostrazione dell’esistenza di Dio e ragioni cristiane per credere) che ha avuto 1,8 milioni di visualizzazioni, in cui descrivo le ragioni razionali che mi hanno portato a diventare credente quando ero giovane. Michel-Yves Bolloré è stato uno dei primi a guardarlo. Mi ha contattato dicendomi che era molto buono ma che si poteva fare di più, perché aveva studiato il tema per 30 anni ed era convinto che il grande pubblico non sapesse quanto le cose fossero cambiate grazie alla svolta avuta dalla ricerca scientifica. Il libro è nato così».
E dire che fino a vent’anni Bonnassies è stato ateo. «Ho studiato scienze e ho frequentato l’École Polytechnique, dove ho creato la mia prima azienda. Con il mio partner abbiamo iniziato a divertirci, a guadagnare soldi, ad avere “successo”, ma presto mi sono reso conto che queste cose non mi davano la felicità. Ho cominciato a farmi domande sul senso della vita: da dove veniamo? Dove andiamo? Qual è il significato? Ero convinto che non ci fossero risposte, perché altrimenti tutti le avrebbero trovate e me lo avrebbero rivelate, così ho iniziato a cercare, ma senza molte speranze. Per caso mi sono imbattuto in alcuni libri che sostenevano l’esistenza di forti ragioni razionali per credere in Dio e in Gesù, e sono rimasto sorpreso nello scoprire che queste motivazioni erano estremamente solide se si era disposti a indagare. Oggi sono felice di vedere che la stessa sorpresa è stata condivisa dai lettori del libro».
Il volume mostra come, storicamente, le conquiste scientifiche siano sembrate allontanare sempre più l’uomo dall’idea di Dio. Negli ultimi decenni questo atteggiamento si è invertito. «Per quattro secoli, da Copernico a Freud, passando per Galileo, Newton, Laplace e Darwin, la scienza è sembrata in grado di spiegare sempre più cose senza bisogno dell’ipotesi di Dio. Marx e Freud, che si dichiaravano scienziati, cercarono persino di far credere che la religione fosse tossica, “l’oppio dei popoli”. Tutto questo ha generato una corrente materialista e scientista che ha dominato il XIX e il XX secolo. Le cose sono cambiate con la scoperta della termodinamica, che dimostra che l’universo si sta logorando e dirigendo verso una morte termica. L’universo ha quindi avuto un inizio. E questa scoperta, successivamente confermata da molti altri approcci razionali, ha implicazioni immense perché, se c’è un inizio, c’è un Dio».
Alla base di questo cambiamento di prospettiva ci sono alcune conquiste scientifiche fondamentali. «Tre cose: in primo luogo, ora sappiamo con certezza che l’universo è composto da tempo, spazio e materia indissolubilmente legati; in secondo luogo, che sicuramente ha avuto un inizio assoluto; e in terzo luogo, che è straordinariamente regolato in tutti i suoi aspetti per consentire la vita complessa. Queste tre scoperte hanno enormi implicazioni, perché se il tempo, lo spazio e la materia, intimamente legati, hanno avuto un inizio, è perché la causa all’origine per definizione trascende il nostro universo, cioè è non spaziale, non temporale e non materiale, visto che ha avuto il potere di creare tutto ciò che esiste, e che lo ha anche regolato in modo che i quark e gli atomi potessero essere stabili con valori molto precisi (senza i quali non sarebbe possibile alcuna evoluzione complessa), che le stelle potessero bruciare per 10 miliardi di anni e che si potesse sviluppare la vita complessa. Con questi importantissimi e semplicissimi risultati, la scienza ci fornisce l’esatta definizione di ciò che tutte le filosofie e tutte le religioni classiche indicano come Dio, cioè un essere trascendente, esterno all’universo, che lo ha creato affinché un giorno potessero emergere la vita complessa e gli esseri umani».
La domanda di fondo del libro è se si possa credere in Dio su una base puramente razionale. «Si può, assolutamente, e sempre di più. A impedire una risposta a questa domanda sarebbe la mancanza di conoscenza che oggi però a livello generale progredisce a rotta di collo grazie alla scienza, a Internet, agli scambi internazionali e ai mezzi di informazione. È un po’ come quando si alza la marea o si dirada la nebbia: la realtà sul campo appare a poco a poco e rivela un paesaggio inaspettato, che cambia tutto. Da soli sarebbe difficile arrivare a una conclusione, ma siamo come Newton che ripeteva: «Ho potuto andare più lontano perché ero appollaiato sulle spalle dei giganti che mi hanno preceduto». Vale anche per noi oggi, grazie agli studiosi, ai filosofi, ai santi e ora agli scienziati. Possiamo dire che non ci sono mai state tante prove dell’esistenza di Dio».
Tra i temi che il libro presenta come fondamentali c’è Gesù, risulta imprescindibile la domanda su chi possa essere stato. «Gesù - prosegue Bonnassies -, un semplice falegname venuto da Nazareth, che ha parlato per tre anni e poi è morto, ha lasciato un segno nell’umanità come nessun altro e ha spaccato la storia in due. Si tratta di una “anomalia” nella storia che è molto difficile da spiegare in modo naturale. Ma la scoperta di cause soprannaturali necessarie è un altro modo per dimostrare che non è possibile che non ci sia altro che l’universo materiale». In sintesi, possiamo dire che il libro mette in evidenza il modo in cui le più recenti conquiste scientifiche, in particolare nel campo della fisica, postulano l’esistenza di un Dio creatore. «Sì, però presentando in modo ben documentato i dodici dossier indipendenti. Vogliamo che i lettori si facciano un’idea propria. E questo senza nascondere, la nostra conclusione: il materialismo è diventato una credenza irrazionale. Non è più sostenibile».
Tornando alla citazione iniziale, che poi è la fine del libro, il volume si conclude con un passaggio del sermone di san Paolo all’Areopago di Atene: “Dio ha creato l’uomo perché lo cerchi”. Un invito che è alla base di tutto lo studio di Bolloré e Bonnassies. «Proprio così - concluse Bonnassies -! L’unico rischio è quello di perdersi. Cristo ha detto: “Chi cerca, trova” (Lc 11,10), ma se non si cerca bene, non ci si deve stupire se non si trova quello che cerchiamo. Il nostro libro offre un aggiornamento che permette a tutti di costruirsi una propria opinione informata».