"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1Gv., 4. 1-16).
BUONA NOTIZIA: BUON NATALE!!! ECCO COME AVVENNE LA NASCITA DI GESU’ CRISTO.
Come ti chiami?
Gesù.
Gesù?!
E di "Chi" sei figlio?
Sono figlio dell’Amore di Maria e di Giuseppe.
Ma chi ha deciso di chiamarti così?
Il mio papà, Giuseppe [Mt. 1, 21-25!!!].
Cosa significa il tuo Nome?
Significa “Amore salva”, cioè che l’Amore di due persone, Maria e Giuseppe, mi ha salvato!
E’ bellissimo! Bene! Grazie e buona giornata!
Buona giornata!
GESU’:
E VOI "CHI" DITE CHE "IO SONO"?!
ET VOUS QUI DITES-VOUS QUE JE SUIS?!
Pietro:
"Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivo"
GESU’:
"Beato sei tu, Simone figlio di Giona, poiché non è la carne né il sangue che ti hanno fatto questa rivelazione, ma il Padre mio che sta nei cieli" - AMORE (Agape, Charitas).
"Signore, insegnaci a pregare" (Lc., 11.1)
O AMORE,
SPIRITO SANTO,
PADRE NOSTRO,
CHE SEI NEI CIELI,
SIA SANTIFICATO IL TUO NOME,
VENGA IL TUO REGNO,
SIA FATTA LA TUA VOLONTA’
COME IN CIELO COSI’ IN TERRA.
TU CI DAI OGGI IL NOSTRO PANE PIU’ SOSTANZIOSO,
E RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI
COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI.
TU NON CI INDUCI IN TENTAZIONE
MA CI LIBERI DAL MALE.
COSI E’: COSI SIA.
AMEN.
GESU’:
E TU "CHI" DICI CHE IO SONO?
IO: "JE SUiS ... "CHRETIEN" - Io sono ... christiano, non "CRETIN"O ... e non "cattolico- romano"!!! Non sono un figlio di "mammasantissima"!!! Il tuo messaggio è un buon-messaggio (eu-angélo) per me, per mia madre "Maria" e mio padre "Giuseppe", e per tutto il mio il prossimo, non un messaggio (V-angélo) - venduto a "caro-prezzo" ("caritas") - di Violenza e di Vittoria su mio padre "Giuseppe" e su tutto il prossimo, considerato un nemico, da van-gelizzare e mandare all’inferno: Va-n-gélo!!!
Federico La Sala
Perche’ non possiamo non dirci "cristiani", e non cretini!!! Lettera a L’Unità
di Federico La Sala *
Caro Direttore
devo dirlo (e spero che la cosa sia accolta con attenzione) ma anche sul sillogismo di Pera ( «La separazione fra Stato e religione non può essere una cesura [dunque non ci può essere separazione, ndr]. Lo Stato moderno e democratico si fonda sempre su principi etici. Dunque i valori cristiani non possono essere relegati in un ghetto. Ciò spiega ciò che è capitato a Rocco Buttiglione» Marcello Pera, Presidente del Senato, 15 ottobre), l’Unità ha preso un’altra cantonata. Pera sbaglia (come Buttiglione), ma il ragionamento non è sbagliato - ci rifletta tre secondi!
Il problema esiste (e togliamo il monopolio del tema ai gerarchi degli integralisti di tutto il mondo - basta con la colonizzazione del cielo, anche in senso metaforico)! Già dall’ ’89 (tanto per porre un termine), il confine tra Stato e religione era saltato.... e noi continuiamo a non capire! La Svolta di Salerno era su questa strada ... e ne sapeva di più Togliatti e il vecchio Pci!
Se vogliamo che la democrazia viva non possiamo non ripensare la questione di "Dio" e - oltre Croce - non possiamo non dirci "cristiani", non cretini! E’ in gioco l’idea stessa di cittadino sovrano e cittadina sovrana!
Basta con l’opposizione speculare e la dipendenza dalla Chiesa Cattolica! Riprendere la strada di Kant e del coraggio di pensare: usciamo dallo stato di minorità ... e del risentimento!
Nessun essere umano sulla Terra è senza "padre" e senza "madre"(non accechiamoci - ricordiamo Edipo e Freud!!!) - tutti e tutte siamo figli e figlie dell’ Unità e dell’Unione di due esseri umani sia sul piano biologico (e la famiglia non è - riduttivamente - una "società naturale", come continua a predicare il Papa e la Chiesa cattolica Romana!) sia (cosa ancor più decisiva) sul piano culturale (= costituzionale!!!). Ripartiamo da qui.... e ricominciamo a contare!!!
*IL DIALOGO, Mercoledì, 20 ottobre 2004
LASCIATEMI ANDARE ANCHE QUESTO E’ AMORE!!!
Sulla "risposta", per approfondimenti, sul sito, cfr.:
DEPORRE LE ARMI. UNA LETTERA DEL 2002
BASTA CON LA "MALA-EDUCAZIONE"!!!
"DEUS CARITAS EST". RETTIFICARE I NOMI
L’EU-ANGELO E’ LA PAROLA DELLA PACE E PER LA PACE ... NON PER LA GUERRA E LE CROCIATE!!!
DONNE, UOMINI, E VIOLENZA. PARLIAMO DI "FEMMINICIDIO".
IL PROGRAMMA DI KANT. LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA.
"NUOVA ALLEANZA"?!: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Per una "sana laicità", un sano cristianesimo!!!
Federico La Sala
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali” *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=519#forum3139212
Australia, migliaia di bambini abusati da sacerdoti e insegnanti cattolici
Minori. Conclusa l’inchiesta della Royal commission.
Il premier Turnbull: «Tragedia nazionale»*
«Decine di migliaia di bambini sono stati abusati sessualmente in molte istituzioni australiane, non sapremo mai il vero numero. Non si tratta di poche mele marce, le principali istituzioni della società hanno seriamente fallito». È la terribile conclusione a cui è giunta la Royal commission, istituita nel 2013 dal governo laburista di Julia Gillard per fare luce sugli abusi sessuali in Australia, dopo un’inchiesta quinquennale, articolata in 8.013 sessioni private e 57 udienze pubbliche, durante la quale sono state raccolte le testimonianze di oltre 8000 vittime, con più di 1200 testimoni ascoltati in 440 giorni. «La più alta forma di inchiesta pubblica australiana», la definisce la Bbc.
In 17 volumi che ha aggiunto 189 raccomandazioni alle 220 che erano già state rese pubbliche e che saranno ora esaminate dai legislatori, la relazione invita la Chiesa cattolica a rivedere le sue regole sul celibato. Perché secondo il rapporto la maggior parte degli abusi sono stati commessi - tra il 1950 e il 2015 - da ministri religiosi e insegnanti scolastici delle istituzioni cristiane: 4.400 abusi verificati solo nella chiesa cattolica, 1.115 denunce raccolte da quella anglicana, 1000 presunti molestatori nascosti dalla chiesa dei Testimoni di Geova.
Ma «non è un problema del passato», ha avvisato il presidente della commissione McClellan, perché dai sistemi di protezione dell’infanzia alla giustizia civile e la polizia, «molte istituzioni hanno tradito i nostri bambini». Il premier australiano, Malcolm Turnbull, ringraziando «i membri della commissione e coloro che hanno avuto il coraggio di raccontare le loro storie», ha parlato di «tragedia nazionale».
Mentre Denis Hart, l’arcivescovo di Melbourne, ha dichiarato di aver preso «molto seriamente» i risultati dell’inchiesta, ha ribadito le «scuse incondizionate per questa sofferenza e il nostro impegno a garantire giustizia per le persone colpite», ma ha respinto la raccomandazione della commissione di rendere obbligatorie le denunce di molestie raccolte durante le confessioni religiose: «Voglio osservare la legge della terra - ha detto - ma la pena per ogni sacerdote che spezza il sigillo della confessione è la scomunica». Il Papa tace.
*il manifesto, 16.12.2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. PAPA RATZINGER A SYDNEY, PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTU’: "IL RE E’ NUDO"!!! NON SOLO DEVE CHIEDERE PERDONO ALL’AUSTRALIA E ALL’ITALIA E AL "PADRE NOSTRO", MA CAMBIARE STILE DI VITA!!! Gesù, che non era schizofrenico, non si travestiva da imperatore.
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Il testamento biologico è legge
Cei contraria, medici cattolici divisi
L’associazione confessionale: non la applicheremo. Ma la sezione di Milano è favorevole
di M. D. B. (Corriere della Sera, 15.12.2017)
ROMA Mancano circa 10 minuti a mezzogiorno quando il tabellone si illumina di puntini verdi e dall’aula si alza un lungo applauso. «È la legge di Luca», piange dal palco Maria Cristina Coscioni, mamma del malato di Sla che aprì la campagna per il testamento biologico. Il Senato ha detto sì senza modificarlo al testo passato ad aprile alla Camera: 180 no, 6 astenuti, 71 contrari. Risultato di una coalizione atipica: Pd, Mdp e M5S. L’Italia trova a fine legislatura le norme sul fine vita, uguali per strutture pubbliche e religiose. Ed è qui che i cattolici perdono compattezza. Il direttore dell’ufficio Cei per la Pastorale della Salute, don Massimo Angelelli, pone l’altolà: «Non ci riconosciamo nella legge. Tutela i medici sollevandoli da responsabilità e le strutture pubbliche. E carica la scelta sui malati senza pensare ai sofferenti».
Uno dei punti più controversi è su idratazione e nutrizione artificiale, considerate trattamenti. La Cei distingue: «Se un paziente dovesse chiedere di interromperle negli ospedali cattolici non si procederà.
A favore i medici cattolici di Milano: «La mediazione trovata in Parlamento risponde in più parti al nostro documento». Ma il presidente dell’associazione nazionale Filippo Boscia prende le distanze: «Sono una minoranza. È incrinato il principio dell’indisponibilità della vita laicamente inteso». Il senatore Maurizio Sacconi: «Avremo casi Charlie Gard», il bimbo senza cervello cui è stato negato il proseguimento delle cure di sostegno.
«È una pagina di bella politica che spero possa segnare la storia dei diritti di questo Paese», si emoziona Emilia Grazia De Biasi che con la strategica mossa di dimettersi da relatrice in Commissione sanità del Senato ha tirato fuori le Dat da una caterva di emendamenti ostruzionistici. C’è un’altra donna fra i protagonisti, Donata Lenzi, pd, relatrice alla Camera. Le nomina al megafono Marco Cappato, leader dell’Associazione Coscioni, riunita ieri in piazza, in prima fila Mina Welby e Filomena Gallo. «Un passo avanti per la dignità della persona», scrive su Twitter il presidente del consiglio Paolo Gentiloni. Come lui i ministri Martina e Fedeli.
Una legge che prova ad allinearci agli altri Paesi
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, 15.12.2017)
Una volta tanto, anche se con qualche decennio di ritardo, proviamo ad allinearci con i Paesi più civili nel riconoscere, con una legge, che quando arriviamo alla fine della vita non possiamo perdere il diritto umano più fondamentale di ogni altro, quello all’autodeterminazione.
La legge sulle disposizioni anticipate di trattamento e il consenso informato, approvata ieri, cancella un’anomalia etica e legale, ovvero che mentre un cittadino italiano maggiorenne e cosciente può rifiutare un trattamento medico (come prevede l’art. 32 comma 2 della Costituzione), incluse alimentazione e idratazione artificiali, se questa stessa persona perde coscienza non dispone più di tale diritto. Ovvero decidono parenti e medici.
Le disposizioni anticipate di trattamento sono una continuazione del consenso informato, che finalmente è riconosciuto dalla legge come presupposto necessario per procedere a qualunque trattamento medico, ed entrano in gioco quando mancano le condizioni psicologiche per decidere (la coscienza per capire le informazioni e dare il consenso). È tutto qui ed è molto facile da capire.
Le direttive anticipate non sono un obbligo e quindi chi vuole continuare ad affidarsi a parenti e medici può farlo, ma si è almeno capito che una volta che sono state redatte devono essere rispettate da tutti, a iniziare dai medici, e che anche alimentazione e idratazione artificiale sono trattamenti medici (a predisporli peraltro non può essere che un medico). Un argomento che accade di ascoltare, è che le persone possono cambiare idea. Ma le disposizioni si possono cambiare in qualunque momento ed è auspicabile si costruiscano anche in Italia spazi informatici dove ognuno può aggiornare direttamente le proprie. E credere che una persona che non è più cosciente possa cambiare idea è ridicolo.
È giusto ricordare oggi Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli, Eluana Englaro e Walter Pilulu, perché senza il loro coraggio e la loro determinazione, il tema non avrebbe raggiunto i livelli di consapevolezza culturale e politica che hanno portato a una legge, che però non è la migliore possibile sul fine vita. Questa legge non avrebbe risposto alle domande di dj Fabo e c’è ancora un tratto di strada da percorrere per diventare davvero civili.
Domande e risposte
Cosa c’è da sapere sul Biotestamento
Come decidere sul fine vita
Dalle disposizioni anticipate di trattamento alla libertà di scelta delle cure
I doveri dei sanitari e il ruolo del fiduciario
di Caterina Pasolini (la Repubblica, 15.12.2017)
ROMA Cosa sono le “dat”?
Sono le disposizioni anticipate di trattamento, ovvero le nostre volontà in materia di assistenza sanitaria in previsione di una futura incapacità a decidere o comunicare. La legge prevede che ogni maggiorenne indichi le preferenze sanitarie e possa nominare un fiduciario che parli e lo rappresenti col medico quando non potrà o non vorrà farlo. Le dat sono inserite nella legge che parla di consenso informato alle cure, di rifiuto all’accanimento terapeutico
Cosa tutela la legge?
La legge tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e soprattutto alla autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato e proseguito senza il consenso libero e informato del malato. In caso di impossibilità a comunicare, la sua scelta medica verrà rappresentata dalle dat e difesa dal suo fiduciario.
Cosa si può accettare o rifiutare?
Quando si è lucidi e coscienti si è liberi di scegliere o rifiutare cure o accertamenti. Così nelle dat la persona può accettare di sottoporsi in futuro a qualsiasi cura, chiedere di essere assistita a oltranza oppure rifiutare qualsiasi accertamento o terapia. Può entrare nel dettaglio: non voglio essere rianimato, intubato, voglio antidolorifici, oppiacei, rianimazione meccanica. Voglio o non voglio che siano iniziati trattamenti anche se il loro risultato fosse uno stato di demenza, uno stato di incoscienza senza possibilità di recupero. Oppure restare sul vago: non voglio essere rianimato.
Idratazione e nutrizione si possono rifiutare?
Sì. Sono considerate somministrazioni su prescrizione medica di nutrienti mediante dispositivo medici, come il sondino nella pancia, e quindi terapie alle quali si può decidere di rinunciare.
Si può cambiare idea, revocare le scelte?
La revoca è sempre possibile in ogni momento, e come l’accettazione o il rifiuto delle cure, va annotata nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
Il medico è obbligato ad ubbidire al malato?
Nessun medico può violare la volontà dei malati, ma al medico è riconosciuto il diritto di obiettare le scelte del paziente e rifiutarsi di eseguirle.
Quindi chi ha l’ultima parola?
Il paziente. Se il dottore si rifiuta per motivi personali di seguire le sue indicazioni, la struttura ospedaliera ha il dovere di trovare un sostituto che garantisca il rispetto delle volontà del malato.
Da quando si possono fare le dat?
Da subito, le disposizioni sono immediatamente valide. In futuro verrà istituito un registro nazionale e nei prossimi mesi si potranno inserire all’interno del fascicolo medico elettronico presente in numerose regioni. Così il medico, quando si arriva in ospedale, sa subito, anche se incoscienti, se vogliamo essere rianimati o meno. Evitando cosi il ripetersi di drammatici casi come quello tristemente famoso di Eluana Englaro.
Le Dat vanno scritte a mano?
Si possono scrivere a mano, a macchina o sul computer,
Si può videoregistrare?
Sì, si può anche videoregistrare.
Devono essere firmate?
Sì, devono essere sempre firmate a mano.
Davanti a chi vanno firmate?
In comune o davanti al notaio
A chi vanno consegnate?
Nei comuni dove ci sono i registri, sono più di 170 già ora, oppure al notaio. Andrebbero consegnate anche al fiduciario che si è scelti.
I compiti del fiduciario?
Deve rappresentare le nostre volontà quando non saremo in grado di esprimerci e, nel caso di nuove invenzioni e cure, valutare se siano coerenti col nostro pensiero.
Tutti possono fare il fiduciario?
Sì, purché maggiorenni. Non ci sono limitazioni. E una scelta personale.
Valgono i testamenti fatti prima della legge nei comuni o consegnati ai notai?
Si, valgono, non c’è bisogno di rifarli.
Si può chiedere l’eutanasia?
Suicidio assistito ed eutanasia nel nostro Paese sono vietati, quindi non si possono chiedere.
Si può chiedere la sedazione profonda?
Sì, è prevista per i malati in fase terminale ai quali altre terapie antidolorifiche risultano inefficaci. È garantita dalla legge sulle cure palliative
Cosa è previsto per i minorenni?
I minorenni non possono fare il biotestamento come le persone considerate incapaci. In questo caso il consenso informato è espresso dai genitori, dal tutore o dall’amministratore e sentito il ragazzo.
Cos’è il consenso informato?
Ogni paziente ha diritto a conoscere le proprie condizioni di salute, ad essere informato su diagnosi, prognosi, benefici e rischi dei trattamenti.
Il malato può nominare un fiduciario se non vuole ricevere informazioni sulla sua salute e per esprimere il consenso o il rifiuto al suo posto.
DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO... *
A)
Dubbi sul Padre Nostro
Alcuni lettori ci scrivono.
"Non ci indurre in tentazione", il vero significato
Risponde il teologo Giuseppe Pulcinelli (Avvenire, 13.09.2017)
Nell’originale greco c’è il verbo eisenenkes che significa “immettere”, “introdurre”. Ma si vuol forse dire che Dio spinge l’uomo verso il male (la tentazione) e quindi gli si chiede di non farlo?
In realtà, alla luce di altri passi della Scrittura (cfr. Gc 1,13: «Dio non tenta nessuno»), si può e si deve dare un’altra spiegazione. Il verbo greco probabilmente traduce - in modo approssimativo - un originale semitico che va compreso in base a testi come il Salmo 140 (141),4: «Non lasciare che il mio cuore si pieghi al male e compia azioni inique con i peccatori».
Il senso dell’invocazione è dunque: «Non ci lasciare entrare e soccombere nella tentazione». Speriamo che presto venga adottata anche nella liturgia la versione ufficiale della Cei (2008), che ha corretto con «non abbandonarci alla tentazione».
B)
Chiedi al teologo
Non abbandonarci «alla» o «nella» tentazione?
di Luigi Lorenzetti (Famiglia Cristiana, 02/06/2017)
Nella nuova traduzione della Bibbia Cei (2008) la dizione «Non c’indurre in tentazione», è cambiata in «Non abbandonarci alla tentazione». La tentazione mette la libertà-responsabilità della persona di fronte a un bivio: il bene e il male. Ad esempio, aiutare il prossimo o lasciarlo perdere? Per scegliere il bene, è necessario l’aiuto di Dio che, d’altra parte, non lo impone a nessuno. Da qui la consapevolezza d’averne bisogno e di chiederlo fiduciosi nella preghiera.
Il significato della nuova dizione è tutto nell’invocazione «Non abbandonarci» alla (traduzione ufficiale) o (il che è lo stesso) nella tentazione. Nell’una come nell’altra versione, è chiara la distinzione tra «essere tentati» e «consentire ». È consolante pensare e credere che Dio è sempre presente alla (o nella) tentazione, così da vincerla, anzi, trasformarla in conferma nella scelta del bene.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL "PADRE NOSTRO" NON E’ QUELLO DI PAPA BENEDETTO XVI. IL "DIO" DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI NON CI INDUCE IN TENTAZIONE!!!
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
San Giuseppe, tra il culto e i paradossi
di Arnaldo Casali *
Ogni 19 marzo la Festa del papà rende omaggio al papà meno padre della storia della paternità.
È solo uno dei tanti paradossi sviluppati nel corso del Medioevo dalla Chiesa cattolica. Che al culto di San Giuseppe, peraltro, ci arriva lentamente e quasi con fatica.
Il padre-non padre di Gesù è in effetti una figura difficile, imbarazzante; e anche sfuggente. Perché di lui i Vangeli parlano pochissimo: tutto ciò che sappiamo è che faceva il falegname e che discendeva dalla famiglia di Davide, cosa che renderebbe Gesù stesso un erede del Re di Israele. Se non fosse che in realtà Giuseppe, padre di Gesù, non lo è affatto.
Almeno secondo due dei quattro evangelisti: Luca e Matteo - gli unici a interessarsi delle origini di Cristo - raccontano la sua nascita in modo completamente diverso ma una delle pochissime cose su cui concordano è il fatto che sia stato concepito senza rapporti sessuali.
Un dato squisitamente teologico che serve a dimostrare che niente è impossibile a Dio e non ha alcuna valenza morale (la verginità non era un valore nella cultura ebraica) e non è nemmeno connesso alla divinità di Cristo: non a caso il Vangelo che insiste di più su Gesù come “verbo divino” è quello di Giovanni, che non fa alcun cenno al suo concepimento verginale.
Sarà invece la cultura pagana in cui il cristianesimo si innesterà in occidente a recepire Cristo, su modello della mitologia greca, come una sorta di uomo-Dio figlio di una donna “inseminata” dal divino.
Il concepimento di Gesù raccontato nei Vangeli ha, tuttavia, una qualche base storica: se gli stessi farisei durante uno scontro con Cristo sottolineano che “noi non siamo nati da prostituzione” (Giovanni 8,41) evidentemente qualche tipo di pettegolezzo, sul fatto che Gesù fosse un figlio illegittimo, circolava già durante la sua vita, e i racconti di Matteo e Luca potrebbero essere serviti proprio a dissipare le malelingue.
D’altra parte la discendenza di Gesù da Davide ha una valenza squisitamente letteraria: Matteo, fortemente influenzato dal giudaismo, è interessato a dimostrare che Cristo è il Messia atteso dagli ebrei e non è certo preoccupato di una ricostruzione storicamente attendibile né tanto meno di una coerenza di natura biologica.
Per il resto, Giuseppe è completamente assente nella vita adulta di Cristo (per questo se ne deduce che sia morto quando era ancora adolescente) e, spodestato di ogni autorità paterna, si è dovuto accontentare sin dai primi secoli del cristianesimo del ruolo di “custode” di Gesù.
I Vangeli apocrifi - scritti all’alba del Medioevo - lo hanno trasformato poi in un vecchietto che vince una sorta di bando (viene sottoposto ad una prova insieme ad altri pretendenti e ha la meglio perché il suo bastone fiorisce miracolosamente) per aggiudicarsi la custodia della giovanissima Maria che, arrivata alla pubertà, non può più continuare a vivere nel tempio dove è stata allevata.
C’è bisogno di aggiungere che nella religione ebraica non esistono bambine consacrate a Dio e allevate nel tempio e che il racconto (ripreso anche da Fabrizio De André nell’album La Buona Novella) è inventato di sana pianta e privo di qualsiasi attendibilità storica?
Gli apocrifi, peraltro, si premurano di sottolineare che al momento del matrimonio Giuseppe avrebbe avuto oltre novant’anni di età. Più un bisnonno che un marito, quindi, per la giovane Maria. Una precisazione che mira a mettere la Sacra Famiglia al riparo da qualsiasi tentazione sessuale.
D’altra parte se il Vangelo non parla mai di una castità perpetua della coppia e al contrario dà per scontato che dopo la nascita di Gesù i due abbiano avuto normali rapporti sessuali (Marco e Matteo citano quattro fratelli di Gesù - Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda - e diverse sorelle di cui non vengono fatti i nomi) già i padri della Chiesa cercano in ogni modo di dimostrare che Giuseppe non ha mai “profanato” la Vergine Maria, divenuta dopo il concepimento di Gesù un vero e proprio santuario di Dio intoccabile.
Così, da finto padre, Giuseppe diventa anche marito fasullo. Secondo la dottrina cattolica, infatti, il matrimonio non consumato non è valido e può essere annullato.
La Sacra Famiglia, dunque - presunto modello della famiglia cristiana - diventa una comunità piuttosto anomala basata su un matrimonio di facciata e un figlio illegittimo.
Figlio che peraltro, essendo (sempre secondo i Vangeli apocrifi) perfettamente sapiente e consapevole della propria divinità sin dalla nascita, non ha assolutamente nulla da imparare dai propri genitori e non può quindi essere in alcun modo educato, ma solo rispettosamente venerato.
Quando arriva al Medioevo, dunque, Giuseppe non è più né un vero padre né un vero marito: è il “custode” di Gesù e il “castissimo sposo” di Maria.
La sua principale virtù è quella di resistere alle tentazioni sessuali, il grande merito quello di aver salvato la moglie dalla pubblica infamia “coprendo” col suo nome la nascita irregolare di Gesù.
In compenso viene sempre più apprezzato come lavoratore; ché il lavoro, almeno quello, non era solo di facciata e Giuseppe il falegname l’ha fatto davvero.
Non a caso a rinverdire il suo culto - così sbiadito ai primordi del cristianesimo - ci pensano i promotori dell’ora et labora, e cioè i monaci benedettini. Sono proprio loro, infatti, i primi a celebrare la memoria di San Giuseppe nel 1030.
La data del 19 marzo, ovviamente, è puramente convenzionale, visto che di solito i santi vengono celebrati nel giorno della morte e della morte di Giuseppe non si sa assolutamente nulla. Convenzionale ma non casuale: come il giorno di Natale e quello di San Valentino anche la festa di San Giuseppe ha radici antichissime: si colloca infatti alla vigilia dell’equinozio di primavera e veniva solennizzata con baccanali e riti dionisiaci volti alla propiziazione della fertilità e alla purificazione agraria.
Rituali di cui è rimasta traccia nella tradizione - ancora oggi diffusa in molte regioni italiane - dei falò con cui si bruciano i residui del raccolto dell’anno precedente come auspicio di una buona stagione.
Il culto di san Giuseppe, intanto, con il tempo si va sempre più allargando: dal 1324 la festa viene recepita anche dai Servi di Maria (ordine mendicante fondato a Firenze nel 1233) mentre i francescani la adottano nel 1399.
Ci vorrà ancora qualche decennio, però, prima che la ricorrenza venga istituzionalizzata e celebrata da tutti i cristiani; nel calendario romano, infatti, ci entrerà solo nel XV secolo, e sarà estesa formalmente a tutta la Chiesa solo nel 1621 da Gregorio XV, mentre bisognerà aspettare addirittura il 1870 perché Pio IX dichiari San Giuseppe “Patrono della Chiesa universale” riscattandolo definitivamente da quel ruolo ombra cui gli apocrifi lo avevano relegato.
La sua resta comunque una festa primaverile strettamente legata al lavoro della terra, dunque festa del lavoro e dei lavoratori.
Niente ha invece a che fare, nel Medioevo, con la festa del papà; associazione che avverrà più tardi e non in tutto il mondo: ancora oggi, infatti, nei Paesi anglosassoni la festa del papà viene celebrata la terza domenica di giugno e senza alcun carattere religioso.
In compenso in Italia il padre di Gesù, costretto a far nascere suo figlio in una stalla e poi a fuggire all’estero, da profugo, per metterlo in salvo, viene onorato anche come protettore dei poveri.
Di qui l’usanza presente in alcune regioni di organizzare il 19 marzo il “Banchetto di San Giuseppe”. Ed è per questo che un elemento importante legato alla festa è il pane, che ricorre spesso soprattutto nel contesto siciliano, deposto sugli altari.
I falò e le tavole imbandite si ritrovano anche nel Salento, dove la festa è celebrata all’insegna degli elementi fondamentali del pellegrinaggio e dell’ospitalità, mentre a Roma nella Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al Foro, la confraternita dei falegnami organizzava solenni festeggiamenti e banchetti a base di frittelle e bignè.
Esemplare è poi il dolce napoletano, che prende il nome di zeppola di San Giuseppe seguendo una tradizione secondo cui, dopo la fuga in Egitto con Maria e Gesù, Giuseppe dovette vendere frittelle per poter mantenere la famiglia. In Toscana e in Umbria è diffuso come dolce tipico la frittella di riso, preparata con riso cotto nel latte e aromatizzato con spezie e liquori e poi fritta.
Nell’Italia del nord, invece, dolce tipico della festività è la raviola: un piccolo involucro di pasta frolla o pasta di ciambella richiuso sopra una cucchiaiata di marmellata, crema o altro ripieno, poi cotta al forno o fritta. Alla salute di Giuseppe.
Arnaldo Casali
* FESTIVAL DEL MEDIOEVO (RIPRESA PARZIALE - SENZA IMMAGINI).
Mina Welby: "Licio Gelli in Chiesa, Piergiorgio no. I funerali dovrebbero averli tutti. Intervenga il Papa"
di Redazione (L’Huffington Post, 17/12/2015)
"Tutti dovrebbero avere i funerali, tutti quelli che dovessero volerli". Così come è stato per Vittorio Casamonica, anche Licio Gelli avrà funerali cattolici, a Pistoia, nella chiesa della Misericordia. Nonostante Gelli sia massone e per questo scomunicato.
Secondo la dichiarazione sulla massoneria a firma del prefetto Joseph Cardinal Ratzinger, rimane "immutato il giudizio negativo della chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della chiesa e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla santa comunione".
"Ma i massoni che conosco io cercano il bene della cittadinanza", replica Mina Welby, la moglie di Piergiorgio, morto nel dicembre del 2006 dopo una grave e lunga malattia. Il cardinale Ruini gli negò i funerali.
"Su mio marito ci fu un giudizio politico, in quanto radicale, il Vaticano non ama i radicali". Piergiorgio "non voleva il suicidio", lui chiese l’eutanasia: "voleva una legge - dice ancora all’agenzia dire - che comprendesse varie scelte che l’uomo può fare alla fine della propria vita, compresa l’eutanasia. Per lui era una morte dignitosa".
Secondo Mina Welby "Tutti quelli che lo volessero dovrebbero avere i funerali. Com’è stato per Vittorio Casamonica, per Gelli e doveva essere così per Piergiorgio. Avere un funerale o meno deve essere una scelta della persona. Io personalmente vorrei arrivare ad una legge per l’eutanasia, al punto di non avere il funerale. I cittadini mi accompagneranno in altra maniera".
Per Piergiorgio "i funerali non erano importanti, me lo disse poco prima di morire. Mi prese da parte e mi disse ’per me non sono importanti, ma per mamma fallo’. Lui era un credente agnostico, ha ricevuto tutti i sacramenti, noi ci siamo anche sposati in chiesa. Ora spero che il papa dirà qualcosa su questo, siamo nel giubileo della misericordia. Lo aspetto".
Chissà cosa direbbe oggi Piergiorgio sapendo dei funerali di Casamonica e di Gelli: "si farebbe una risata. Ricordo che quando era in vita, durante la conferenza episcopale uscì un documento in cui si parlava di Piergiorgio anche se non venne mai nominato - racconta Mina - si parlava di lui come del male, di satana".
Ultima inchiesta su Gesù
Tra fiction e saggio, Augias racconta la fine di Cristo
Si susseguono personaggi storici e da romanzo molto vicini alla realtà
È un uomo contro le istituzioni religiose che assegna il primato alla spiritualità
di Vito Mancuso (la Repubblica, 07.09.2015)
L’anno cruciale per la storiografia su Gesù fu il 1906, quando il sogno di scriverne la biografia perfetta cadde in frantumi a seguito dell’opera di Albert Schweitzer intitolata “Storia della ricerca sulla vita” di Gesù. Schweitzer vi mostrava come la ricerca storica su Gesù, iniziata con gli scritti di Reimarus pubblicati da Lessing nel 1778, si dovesse ritenere conclusa con un sostanziale fallimento in quanto i singoli autori avevano interpretato Gesù ognuno secondo i propri ideali giungendo a un inaccettabile soggettivismo.
Conclusione inevitabile a causa della natura delle fonti neotestamentarie, orientate a presentare il messaggio salvifico di Gesù e ben poco la sua storia reale. Da allora gli studi sul Gesù storico non si sono certo interrotti, anzi fioriscono con un ritmo tale che rende quasi impossibile seguirli. La sostanza però non muta: Meier, Sanders, Vermes, Neusner, Fabris, Barbaglio, Pesce, Ratzinger e moltissimi altri presentano ognuno un Gesù diverso, sicché leggendo le loro opere si incontra Gesù filtrato dalla loro teologia. La situazione non è quindi molto diversa da come la descriveva Rudolf Bultmann nel 1926: «Ciò che è stato scritto da circa un secolo e mezzo sulla vita di Gesù, sulla sua personalità e sulla sua evoluzione interiore ecc., è frutto di fantasia e materiale da romanzo ».
Consapevole di questo status quaestionis , Corrado Augias propone nel suo nuovo libro sulle ultime ore di Gesù in uscita da Einaudi un lavoro che per buona parte è esattamente “frutto di fantasia e materiale da romanzo”. La differenza è che lo è in modo esplicito e tecnicamente avvertito perché dichiara che «qualunque storia è almeno in parte una bugia - o un sogno».
Tale dosaggio di saggistica e di narrativa consente all’autore di presentare i personaggi storici arricchiti di personalità e al contempo di creare personaggi da romanzo molti vicini alla realtà. Sfilano così Myriam la madre e Joseph il padre di Gesù, anzi una delle trovate più interessanti riguarda proprio quest’ultimo, riscattato dalla figura piuttosto grigia di “san Giuseppe” e presentato come un single che ha lasciato la moglie e i figli, sempre inquieto per le origini non chiare di quel suo primo figlio da lui tanto amato, e che ora vive solo sulle alture di Gerusalemme: anche lui entrerà in scena nelle ultime ore del figlio. Miryam dal canto suo confessa di non riuscire a pensare a suo marito “senza rimorso”: «se solo avessimo trovato il modo, il coraggio, di parlarci davvero». Riguardo invece alle voci sulla risurrezione del figlio: «Non so se devo crederlo vivo, io non l’ho visto, se fosse vero e non è venuto a vedermi, sapendo quanto dolore ho ingoiato, vuol dire che ha cose più importanti da fare»; tuttavia non perde che la fiducia che “un giorno verrà”.
Ma chi sono per Augias i responsabili della morte di Gesù giocatasi in quel pugno di ore? Non il potere romano in quanto tale, perché Ponzio Pilato non fu all’origine della sua cattura e tutto sommato avrebbe voluto salvarlo. Neppure lo è il popolo ebraico in quanto tale, perché la frase del Vangelo di Matteo che parla di “tutto il popolo” (e che è all’origine dello stereotipo del popolo deicida) è giustamente mostrata da Augias nella sua falsità. I responsabili per Augias sono piuttosto i capi religiosi ebrei, Caifa e Anna, esponenti dell’aristocrazia religiosa ed economica, profondamente seccati dalla predicazione rivoluzionaria di Gesù: «un mestatore uscito dalla feccia del popolo che sobilla schiavi e prostitute». Augias inventa anche un intrigo di corte dovuto a un consigliere di Pilato legato da un rapporto masochista con una prostituta, Fillide.
Nella storiografia su Gesù, nelle bugie e nei sogni che ogni interprete vi proietta, appare l’anima occidentale alle prese con gli eterni problemi dell’origine e del senso, del dolore e del morire, della vita presente e della vita futura.
Chi è dunque Gesù per Augias? Non è certo il Figlio di Dio redentore dell’uomo, piuttosto «un uomo pio, di forte fede, tendenzialmente mite anche se, in alcune occasioni, ha ceduto a scatti d’ira o gridato frasi minacciose», quindi anche “aspro, difficile”, e tale da essere classificato come “un agitatore”. Nel colloquio con Lucilio, lo scrittore alter ego di Augias, Gesù spiega la sua missione in termini di “alternativa possibile”, di «vita libera dagli istinti, dal desiderio di possesso», e dice di rifiutare «una fede chiusa nell’ambito di una famiglia», «che si limiti ai riti della sinagoga, alla ripetizione meccanica dei versetti, all’obbedienza formale della Legge con il cuore vuoto ».
Insomma un Gesù in linea con la profezia biblica e la migliore filosofia morale, capace di analizzare con lucidità le contraddizioni della religione: «Le strutture religiose diventano spesso uguali alle istituzioni politiche, creano gerarchie, poteri, interessi, circola denaro, si mercanteggiano favori, si parla e si scrive troppo». Un Gesù che, contro l’obbedienza all’istituzione, assegna il primato alla spiritualità. «Dice di aver voluto rendere gli uomini liberi, dai riti dalle forme, dai sacerdoti; libero ognuno con la sua coscienza davanti a Dio».
Poco coerente però con questa intenzione di fondo è l’interpretazione di Giuda Iscariota fornita da Augias che, ispirandosi al Vangelo di Giuda, testo gnostico recentemente scoperto, lo presenta come il discepolo prediletto che consegna Gesù perché è il maestro stesso a chiederlo: ma così si pone la coscienza di Giuda libera davanti a Dio? Gesù al contrario la inchioderebbe alla più terribile tragedia. Altri particolari del lavoro di Augias non convincono, come la presentazione della spiritualità essena come mite e pacifica mentre gli esseni avevano una regola della guerra e mostravano aspra intolleranza verso le posizioni altrui.
Ma, come ho detto, raccontare Gesù significa esporre la propria visione del mondo: quindi attraverso il suo nuovo libro si incontra la grande simpatia di Augias per il mondo classico; la sua simpatia per la figura storica dell’ebreo Gesù; la sua tendenziale distanza dall’ebraismo istituzionale, e soprattutto la sua inequivocabile antipatia per il cristianesimo nato dalla predicazione di san Paolo. Non penso sia un caso che Augias lasci l’ultima parola alle sprezzanti osservazioni di Tacito sui cristiani.
Quanto alla figura di Gesù, rimangono valide le parole di Schweitzer a conclusione del suo capolavoro: «Egli viene verso di noi come uno sconosciuto senza nome... Si rivelerà a coloro che gli obbediscono, si rivelerà nella pace, nell’azione, nelle lotte e nelle sofferenze che costoro vivranno in comunione con lui. Ed essi sperimenteranno chi egli è, come si conosce un segreto ineffabile».
*
IL LIBRO E I FESTIVAL
Le ultime diciotto ore di Gesù (Einaudi, pagg. 252, euro 20)
Corrado Augias lo presenterà venerdì 11 alle 21.15 al Festival di Mantova; il 12 a Camogli (ore 18.30)e il 16 a Pordenonelegge (ore 21)
Papa Francesco: ’Se uno mi offende la madre gli do un pugno’
Francesco sui fatti di Parigi: "Non si offendono le fedi"
di Tullio Giannotti *
MANILA. "Non si offende la religione degli altri", parola di Francesco. Il Papa si esprime nel giorno in cui il fronte unico "Je suis Charlie" mostra le prime crepe, e lo fa senza mezzi termini: sì alla libertà d’espressione ma senza "provocare, insultare, ridicolizzare la fede degli altri".
Diametralmente opposta a Papa Francesco, la Francia si inorgoglisce per essere il Paese "di Voltaire e dell’irriverenza" - come rivendica il ministro della Giustizia, Christiane Taubira - e non accetta confini alla libertà d’espressione: "possiamo disegnare tutto, incluso il Profeta".
Francois Hollande, dopo le giornate terribili in cui ha reso onore alle salme di poliziotti, ha abbracciato i familiari di giornalisti trucidati in redazione, ha abbracciato i musulmani in un incontro all’Istituto del mondo arabo, diretto ora dall’ex ministro della Cultura, Jack Lang. Voi, ha detto ai musulmani, "siete le prime vittime del fanatismo, del fondamentalismo e dell’intolleranza".
Per Papa Bergoglio, "la libertà di religione e la libertà di espressione sono tutti e due diritti umani fondamentali".
Durante il viaggio verso Manila, il pontefice ha risposto alle domande dei giornalisti, e con un inviato francese si è lungamente soffermato sui dolorosi fatti di questi giorni, sempre premettendo che "non si uccide in nome di Dio" e che "i kamikaze danno la propria vita ma non la danno bene". "Ognuno - ha detto - ha il diritto di praticare la propria religione, senza offendere, liberamente". "Non si può offendere o fare la guerra - ha proseguito - uccidere in nome della religione, cioè in nome di Dio". E qui il mea culpa, il ricordo "della nostra storia", delle "grandi guerre di religione" fino alla "notte di San Bartolomeo".
Poi il tema del sangue di questi giorni, dell’irruzione terroristica in una redazione di vignettisti: "ognuno ha non solo la libertà o il diritto ma anche l’obbligo di dire quello che pensa se ritiene che aiuti il bene comune".
Infine, il "pugno": quello che il suo "caro amico" "dottor Gasbarri", l’organizzatore dei viaggi papali che era al suo fianco, può "aspettarsi" da lui se "dice una parolaccia contro la mia mamma": "perché non si può provocare, insultare, ridicolizzare la fede degli altri".
Il discorso del Papa è destinato a lasciare una traccia e a suscitare polemiche in Francia, dove di limiti alla libertà d’espressione, semmai, ci sono soltanto quelli in cui è caduto l’umorista Dieudonné: antisemitismo, apologia di terrorismo o negazionismo.
La guardasigilli Taubira ha scandito bene le parole, era emozionata ma determinata nel suo intervento per l’estremo saluto a uno dei vignettisti uccisi dai fratelli Kouachi il 7 gennaio: "nel paese di Voltaire e dell’irriverenza abbiamo il diritto di ironizzare su tutte le religioni. Possiamo disegnare tutto, incluso il Profeta. Fra l’omaggio commosso a Tignous da parte della "superstite" Coco e un "Bella ciao" da brividi cantato dall’umorista Christophe Aleveque, la Taubira ha ricordato i principi del paese dei Lumi: "non ci sono tabù", i disegnatori uccisi "vegliavano sulla democrazia, per evitare che sonnecchiasse".
Hollande ha teso la mano ai musulmani, contro i quali dal 7 gennaio si sono intensificate le azioni violente: "il fondamentalismo islamico - ha detto il presidente - si nutre di tutte le contraddizioni, delle povertà, dei conflitti non risolti da troppo tempo, e sono i musulmani ad esserne le prime vittime". Ribadendo l’imperativo di "evitare le confusioni" fra estremisti violenti e musulmani moderati, il presidente ha sottolineato il "dovere di solidarietà nei confronti del mondo arabo", a partire dal caso della Siria, dove "è la forza che ha avuto la meglio a furia di non affrontare quella questione". "Il mondo arabo è in piena mutazione, anche se non tutte le sue ’primavere’ hanno prosperato - ha detto ancora il presidente - questi cambiamenti richiedono tempo".
«Mille corsi di spiritualità o di yoga non ti danno la libertà di figlio che dona lo Spirito»
Il Papa nell’omelia di Santa Marta: chi cerca solidità nel dettato della legge è sicuro come un uomo o una donna nella cella di un carcere, è una sicurezza senza libertà
di Andrea Tornielli (La Stampa, 9/01/2015)
Città del Vaticano. Si possono fare «mille corsi di catechesi, mille corsi di spiritualità, mille corsi di yoga, zen», ma tutto questo non potrà mai dare la libertà di figlio: solo lo Spirito Santo «muove il tuo cuore per dire "Padre"». Lo ha detto questa mattina Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta, come riporta Radio Vaticana. Il Papa ha ripreso l’episodio del Vangelo di Marco nel quale i discepoli si spaventano nel vedere Gesù camminare verso di loro sull’acqua ,che termina con una considerazione sul perché di quello spavento: gli apostoli non avevano capito il miracolo dei pani perché «il loro cuore era indurito».
Un cuore, ha osservato Papa Bergoglio, può essere «di pietra» per tanti motivi, osserva il Papa, ad esempio per «esperienze dolorose», come capita ai discepoli di Emmaus, timorosi di illudersi «un’altra volta»; o a Tommaso, che rifiuta di credere alla resurrezione di Gesù. «Un altro motivo che indurisce il cuore - spiega Francesco - è la chiusura in se stesso».
«Fare un mondo in se stesso, chiuso. In se stesso, nella sua comunità o nella sua parrocchia, ma sempre chiusura. E la chiusura può girare intorno a tante cose: ma pensiamo all’orgoglio, alla sufficienza, pensare che io sono meglio degli altri, anche alla vanità, no? Ci sono l’uomo e la donna-specchio, che sono chiusi in se stessi per guardare se stessi continuamente... Questi narcisisti religiosi, no? Ma, hanno il cuore duro, perché sono chiusi, non sono aperti. E cercano di difendersi con questi muri che fanno intorno a sé».
Il Papa ha quindi parlato di chi si barrica dietro la legge, aggrappandosi alla «lettera» di ciò che i comandamenti stabiliscono. Qui a indurire il cuore è un problema di «insicurezza». E chi cerca solidità nel dettato della legge è sicuro - dice il Papa con una punta di ironia - come «un uomo o una donna nella cella di un carcere dietro la grata: è una sicurezza senza libertà». Cioè l’opposto di ciò «che è venuto a portarci Gesù», la libertà.
«Il cuore, quando si indurisce, non è libero e se non è libero è perché non ama: così finiva Giovanni apostolo nella prima Lettura. L’amore perfetto scaccia il timore: nell’amore non c’è timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore. Non è libero. Sempre ha il timore che succeda qualcosa di doloroso, di triste, che mi faccia andare male nella vita o rischiare la salvezza eterna... Ma tante immaginazioni, perché non ama. Chi non ama non è libero. E il loro cuore era indurito, perché ancora non avevano imparato ad amare».
Francesco ha detto che «chi ci insegna ad amare» e «chi ci libera da questa durezza» è «soltanto lo Spirito Santo». «Tu puoi fare mille corsi di catechesi, mille corsi di spiritualità, mille corsi di yoga, zen e tutte queste cose. Ma tutto questo non sarà mai capace di darti la libertà di figlio. Soltanto è lo Spirito Santo che muove il tuo cuore per dire "Padre". Soltanto lo Spirito Santo è capace di scacciare, di rompere questa durezza del cuore e fare un cuore... morbido?... Non so, non mi piace la parola... "Docile". Docile al Signore. Docile alla libertà dell’amore».
Il Papa ai giovani: senza Maria, un cristiano è orfano
Il cristiano ha bisogno di “due Madri”: la Madonna e la Chiesa. Parlando a braccio ai giovani della diocesi di Roma impegnati nel cammino di discernimento vocazionale, Papa Francesco ha ricordato come la Madonna sia “tanto importante nella nostra vita”. È lei, ha detto, che “ci accompagna nella scelta definitiva, la scelta vocazionale”, avendo accompagnato Suo Figlio nel proprio cammino vocazionale “che è stato tanto duro, tanto doloroso”. Insomma: “ci accompagna sempre”:
“Un cristiano senza la Madonna è orfano. Un cristiano senza Chiesa è anche un orfano. Un cristiano ha bisogno di queste due donne, due donne Madri, due donne Vergini: la Chiesa e la Madonna”.
Lo ha definito un test di “vocazione cristiana giusta”, il Pontefice, quello di domandarsi come vada il “rapporto con queste due Madri”, la Madre Chiesa e la Madre Maria:
“Questo non è un pensiero ‘di pietà’... No, è teologia pura. Questa è teologia. Come va il mio rapporto con la Chiesa, con la mia Madre Chiesa, con la Santa Madre Chiesa gerarchica? E come va il mio rapporto con la Madonna, che è la mia mamma, mia madre”?
Quindi una riflessione sul cammino di discernimento. “Per ognuno di noi - ha assicurato il Santo Padre - il Signore ha la sua vocazione, quel posto dove Lui vuol che noi facciamo la vita”. Va cercato, trovato e poi portato avanti. Una scelta a cui va dato un “senso del definitivo”, di fronte alla “cultura del provvisorio” che stiamo vivendo:
“Abbiamo paura del definitivo, no? E per scegliere una vocazione, una vocazione qualsiasi sia, anche quelle vocazioni “di stato”, il matrimonio, la vita consacrata, il sacerdozio, si deve scegliere con una prospettiva del definitivo. Va contro questo la cultura del provvisorio. E’ una parte della cultura che a noi tocca vivere in questo tempo, ma dobbiamo viverla, ma vincerla”.
D’altra parte, ha concluso salutando i ragazzi, colui che “ha più sicura la sua strada definitiva è il Papa”.
(Tratto dall’archivio della Radio Vaticana)
Strane nascite
di Piero Stefani (22.12.2013) *
Matteo e Luca nei loro «vangeli dell’infanzia» (i soli che parlano dell’evento) descrivono la nascita di Gesù come un parto verginale. Tra tutti gli aspetti narrativi collegati all’immaginario natalizio, questo è, senza dubbio, quello meno tenuto presente. La ragione è semplice: il tema della verginità feconda emerge in primo piano nelle feste mariane, mentre a Natale il centro è occupato da Gesù. Tutte le altre, anche le più prossime, sono figure di contorno. Di presepi ce ne sono stati tanti e di molti tipi, ma nessuno tra essi evoca una scena di parto. Il bambinello viene messo tra la paglia dall’esterno, come se venisse da fuori. Nella storia dell’iconografia molti sono i ritratti di Maria che allatta ma nessuno di essi - salvo smentite - è collocato in un presepe. Nella stalla la madre è presentata la prima tra gli adoranti. Vale a dire, è caratterizzata da un atteggiamento che ogni fedele può assumere in proprio. Tra i gesti paraliturgici della notte di Natale vi è quello di baciare un neonato che «scende dalle stelle» isolandolo dai suoi genitori.
Secondo un antico detto, l’apparenza inganna. Si è fatta molta fatica per cercare di comprendere la difficile frase secondo la quale Giuseppe, una volta scoperta la gravidanza della sua promessa sposa, «poiché era uomo giusto» non volle accusarla pubblicamente e pensò perciò di ripudiarla in segreto (Mt 1,19). Che senso di giustizia vi è mai in ciò? Una risposta sta proprio nel rifiuto di Giuseppe di prendere quanto appare per quel che è. Quando non si sa decifrare un avvenimento, la persona giusta, in luogo di condannare, sospende il giudizio: «non giudicate per non esser giudicati» (Mt 7,1).
In base a un modello biblico, il vangelo di Matteo inizia con una genealogia (Mt 1,1-17). Essa riguarda «Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo». Nella genealogia compaiono anche quattro donne - Tamar (Gen 38), Rachab (Gs 2), Rut (Rt 3-4) e la moglie di Uria (Betsabea, 2Sam 11,1-12,24) - le cui maternità furono contraddistinte da tratti «irregolari». Tuttavia, nonostante le apparenze, queste nascite furono tutte conformi alla giustizia di Dio; esse anticipano quanto sarebbe avvenuto in Maria e interagiscono con l’anomalia di una genealogia che termina in Giuseppe che pur non è presentato come padre naturale di Gesù.
Tra i quattro casi il più fruttuoso, in riferimento a Giuseppe, è quello relativo a Tamar e a Giuda (il capostipite della tribù a cui appartenne lo sposo di Maria). Giuda, dopo aver violato la legge che lo obbligava a far sposare un suo figlio con la propria nuora rimasta vedova, ha rapporti sessuali con Tamar, da lui non riconosciuta perché travestitasi da prostituta. Quando la nuora rimane incinta il suocero esige l’applicazione della pena capitale prevista per le adultere. Tamar gli fornisce però le prove inconfutabili della sua paternità; allora il suocero esclama: «Lei è più giusta di me» (Gen 38,26). Sotto la maschera di un rapporto sessuale con una prostituta si annida un’opera di giustizia. Giuda giudicò secondo le apparenze, non così il giusto suo discendente Giuseppe.
Se ci si limitasse alle apparenze cosa mai sarebbe il Natale? La nascita di un povero bimbo di duemila anni fa venuto al mondo in una stalla. La fede non nega che sia così, ma nel contempo ci fa pure andar oltre. Anche tenendo conto di tutte le differenze del caso, qualcosa di simile vale pure per i rapporti interumani.
Nel mondo dominato dalle immagini e quindi dall’apparire, il giusto Giuseppe ci invita, da un lato, a non giudicare in base a quanto appare in superficie e, dall’altro, ad essere aperti a credere che persino quella che ai nostri occhi sembra una colpa può essere un luogo dove opera Dio.
[Il "Padre nostro", nella versione di] Giovanni Vannucci*:
Il tentativo forse più riuscito è quello di padre Giovanni Vannucci (1913-1984), il quale era solito dire che «nella Chiesa cattolica il più grande martire è il Padre nostro», a motivo della trascuratezza con cui viene recitato e... vissuto. Padre Giovanni, dell’ordine dei Servi di Maria, fu valente esegeta, e in spirito sinceramente ecumenico visse e operò nell’eremo della Stinche (Firenze).
Egli faceva notare che nell’ebraico ci sono due lingue: quella delle comunicazioni ordinarie e quella sacra che, diceva, «va riscoperta pazientemente, tenacemente, attentamente, ma soprattutto nel silenzio e nell’ascesa del nostro essere. Ora, la lingua sacra ebraica conosce soltanto due tempi: lo stato di perfezione e lo stato di imperfezione».
Questo, secondo padre Vannucci, si applica anche al Padre nostro, le cui espressioni non indicano un puro desiderio condizionato alla fallibile volontà dell’uomo, ma contengono un’affermazione di fede nella quale si riflettono gli immutabili disegni divini.
Tenendo conto di questo, dovremmo tradurre - precisa padre Vannucci - non "sia santificato il tuo nome", ma santo è il tuo nome; non "venga il tuo regno", ma il tuo regno viene; non "sia fatta la tua volontà...", ma la tua volontà si compie nella terra come nel cielo; non "dacci oggi il nostro pane quotidiano", ma tu doni a noi il pane di oggi e di domani ("quotidiano" traduce un termine che ha il doppio significato di pane terreno e pane celeste). E ancora: tu perdoni i nostri debiti nell’istante in cui li perdoniamo ai nostri debitori; tu non ci induci in tentazione, ma nella tentazione tu ci liberi dal male.
Anche per padre Vannucci, come per santa Teresa d’Avila, questa fu una vera e propria scoperta. «Dovete scusarmi, ma prima d’ora non me ne ero accorto», furono le parole pronunciate sommessamente, e con un accenno di sorriso che chiedeva comprensione, alcuni mesi prima della morte.
Secondo padre Giovanni Vannucci, questa versione nel nostro idioma della preghiera di Gesù, così diversa da quella che solitamente siamo abituati a recitare, era più fedele all’autentico senso originario della lingua parlata da Cristo ed era coerente con altre parole di lui riportate nei racconti evangelici: «Padre nostro che sei nei cieli, / santo è il Tuo Nome, / il Tuo Regno viene, / la Tua volontà si compie / nella terra come nel cielo. / Tu doni a noi il pane di oggi / e di domani. / Tu perdoni i nostri debiti / nell’istante in cui / li perdoniamo ai nostri debitori. / Tu non ci induci in tentazione, / ma nella tentazione / tu ci liberi dal male».
* Cfr.: Antonio Gentili, Il Vangelo in una sola preghiera (Jesus, n. 8, 1999 - http://www.stpauls.it/jesus00/0899je/0899je70.htm)
LA PREGHIERA AL "PADRE NOSTRO" E IL "NON CI INDURRE IN TENTAZIONE". MA CHI E’ IL "PADRE NOSTRO": DIO ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
“Padre Nostro”: ci sono voluti 50 anni perché il Vaticano non bestemmiasse più Dio
di Henri Tincq
in “www.slate.fr” del 30 ottobre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Rivoluzione nelle fila cattoliche. Ad una scadenza ancora incerta - 2014? 2015? - i fedeli francofoni non reciteranno più la loro preghiera quotidiana favorita, il Padre Nostro, secondo la formulazione in uso da subito dopo il Concilio Vaticano II, quasi cinquanta anni fa (1966). La sesta “domanda” di questa celebre preghiera in forma di suppliche successive fatte a Dio - “Et ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione) - sarà soppressa e sostituita da “Et ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione). Non si tratta di un dettaglio o di una disputa bizantina. È l’epilogo di una battaglia di esperti che dura da mezzo secolo.
La Chiesa pensa di avere l’eternità davanti a sé. Le sono stati necessari 17 anni di lavoro e la collaborazione di 70 traduttori - esegeti, biblisti, innografi - per giungere a questo risultato. 17 anni, è il tempo che è stato necessario per la nuova traduzione integrale della Bibbia liturgica, che, per la Francia, sarà adottata l’8 novembre dai vescovi e che sarà in vendita nelle librerie a partire dal 22 novembre.
Quegli eminenti traduttori sono partiti dai testi originali in aramaico, in greco, in ebraico, e non più dalle traduzioni già esistenti. Ed è questo aggiornamento radicale che ha permesso a questi studiosi, con l’accordo del Vaticano, di giungere alla redazione di un nuovo Padre Nostro, più soddisfacente e più corretto teologicamente.
Il Padre Nostro è la preghiera di base di tutti i cristiani, indipendentemente dalla loro confessione, cattolica, protestante, ortodossa o anglicana. Essa è tanto più sacra in quanto, secondo i vangeli di Luca e di Matteo, è stata insegnata direttamente da Cristo stesso. “Signore, insegnaci a pregare”, gli chiedevano gli apostoli. La risposta di Gesù si trova nelle parole del Padre Nostro, preziosamente riprodotte - “Padre Nostro che sei nei cieli...” - che risalgono così a due millenni fa. Ritrascritta dal greco al latino, è stata poi tradotta nelle lingue parlate del mondo intero.
Questa preghiera, la più comune dei cristiani, può essere recitata o cantata in qualsiasi momento della giornata. Non è codificata come la preghiera dell’islam (cinque volte al giorno e ad ore fisse). Compare in ogni celebrazione della messa dopo la preghiera eucaristica. È anche recitata in tutte le assemblee ecumeniche. È il segno di una volontà di riconciliazione e di unità di tutte le confessioni cristiane, nate dallo stesso vangelo, ma separate dalle loro istituzioni.
Ma perché cambiare oggi un simile monumento della spiritualità cristiana, sul punto preciso della tentazione? Un punto centrale nell’antropologia cristiana. Secondo i vangeli, Cristo ha trascorso quaranta giorni nel deserto ed è stato tentato da Satana: tentazione dell’orgoglio, del potere, del possesso (Matteo 4,11). Gesù stesso ha detto ai suoi apostoli nel giardino del Getzemani, la sera della sua passione, proprio prima del suo processo e della sua morte in croce: “Pregate per non entrare in tentazione”.
Precisamente, cinquant’anni fa, un errore di traduzione è stato commesso a partire dal verbo greco eisphérô che significa letteralmente “portar dentro”, “far entrare”.Questo verbo avrebbe dovuto essere tradotto con: “Ne nous induis pas en tentation” (non indurci in tentazione) o con “Ne nous fais pas entrer en tentation” (non farci entrare in tentazione). I traduttori del 1966 hanno preferito la formula “Ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione).
Formula contestata. Controsenso, se non addirittura bestemmia, si protesta in seguito. Come è possibile che Dio, che nell’immaginario cristiano è “infinitamente buono”, possa “sottoporre” l’uomo alla tentazione del peccato e del male? È insostenibile.
Tale forma equivoca è stata tuttavia letta dal pulpito in tutte le chiese del mondo francofono, pregata pubblicamente o intimamente da milioni e milioni di cristiani, inducendo, in menti non competenti, l’idea di una sorta di perversità di Dio, che chiede ai suoi sudditi di supplicarlo per sfuggire al male che lui stesso susciterebbe!
Oggi si torna quindi ad una formulazione più corretta: “Et ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione). Così il ruolo di Dio è compreso meglio, riabilitato. Dio non può tentare l’uomo. La tentazione è opera del diavolo. È Dio, invece, che può impedire all’uomo di soccombere alla tentazione.
Ora occorre che i protestanti, gli ortodossi, gli anglicani si allineino su questa nuova formulazione cattolica. Nel 1966, i teologi cattolici, protestanti, ortodossi si erano alleati per riflettere su una traduzione veramente ecumenica (con gli stessi termini) del Padre Nostro, che non esisteva prima della rivoluzione del Concilio Vaticano II. Avevano proposto un testo comune alle loro Chiese, che lo avevano adottato. Senza dubbio oggi si metteranno nuovamente d’accordo per ratificare la nuova preghiera nei termini già definiti dai cattolici. Anche solo per smentire coloro che si lamentano dello stato di avvicinamento ecumenico che avrebbe perso vigore e si preoccupano del risveglio di riflessi comunitari.
ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA LETTERA DI GIACOMO, DA *
[...] Agapan è il verso dell’amore gratuito, oblativo e fedele capace di porre l’amato al di sopra di tutto, anche di se stessi e di ogni proprio interesse. È la prima indicazione dello shema’ Israel: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze» (Dt 6,4-5; Mt 22,34-40).
1,13-15: Riprendendo una riflessione del Siracide (Sir 15,11-17: «Non dire: Mi sono sviato per colpa del Signore, perché Egli non fa ciò che detesta»), Giacomo ribadisce che la tentazione non viene da Dio, che detesta il male e non spinge nessuno al male. Essa viene piuttosto dal cuore dell’uomo, da cui si producono pensieri desideri e azioni cattive, che contaminano l’uomo (Mt 15,15-20).
Si descrive poi la genesi del peccato a partire dal cuore: la concupiscenza (epithymia), desiderio smodato e possessivo, che pretende l’afferrare immediato dell’oggetto del proprio godimento, trascina (exelkomenos) e seduce (deleazomenos), portando a concepire (syllabousa) il peccato già nell’intimo del cuore, sino a partorirlo (tiktei amartian). Una volta portato a compimento (apotelestheisa), il peccato procura la morte (apokyei thanaton). La seduzione da parte della concupiscenza è descritta al pari del fascino perverso della donna sfacciata, della maritata in veste di prostituta che compare nei Proverbi (Pr 7,6-27): essa si fa strada con dolce lusinga, sino a far cadere in trappola. Analoga descrizione quasi psicologica del generarsi del peccato dal desiderio la si trova nei Salmi: «Ecco, l’empio produce ingiustizia, concepisce malizia, partorisce menzogna» (Sal 7,15).
Il processo verso il peccato, sotto il pungolo lusinghiero della tentazione è descritto in Gen 3: la donna fa spazio nel suo cuore alla parola del tentatore che fa concepire al suo cuore il desiderio, sino alla consumazione dell’atto trasgressivo, che tende a propagarsi, procurando divisione e morte. Giacomo descrive in modo paradossale un processo generativo interno al cuore, pari a quello che accade nel grembo di una donna, il quale, tuttavia, anziché produrre vita genera morte.
Non si tratta qui con buona probabilità della morte in senso escatologico, quale pena eterna dei dannati; si tratta piuttosto di una situazione esistenziale e spirituale ormai incapace di produrre frutti di opere buone. Più avanti, nella terza parte, l’apostolo riprende la riflessione sui desideri smodati del soggetto che procurano guerre e divisioni, diventando peccati sociali, generatori di una cultura di morte (4,1-2).
b) 1,16-17: Il secondo passo, descrive un movimento contrapposto al primo: l’uomo, cogliendo la sua fragilità apre il suo cuore verso l’alto, implorando il dono buono e perfetto (pasa dosis agathe kai pan dorema teleion) della Sapienza, che proviene dal Padre della luce. Questi è descritto ancora nei suoi tratti essenziali di chi non ha alterazione (parallaghe), né ombra di mutazione (tropes aposkiasma), tratti che rafforzano l’idea già sopra espressa di una generosità tutta luminosa, senza ombre né pentimento [...]
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http://www.diocesilucca.it/documenti/sussidio_lettera_giacomo.pdf
Una “tentazione” teologicamente corretta
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” del 17 ottobre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Ci sono voluti cinquant’anni alla Chiesa cattolica e ai suoi esegeti per, in un certo senso, “sdemonizzare” Dio. Dal 22 novembre prossimo, una nuova traduzione [in francese] del Padre Nostro ridarà al Dio cristiano il posto che gli spetta. E i milioni di cattolici francofoni che recitavano, pur senza saperlo, un testo erroneo, torneranno sulla retta via.
Quindi, alla sesta richiesta di tale preghiera basilare per i cristiani, non bisognerà supplicare “ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione), ma “ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciare che entriamo in tentazione). Una formula certo meno felice dal punto di vista della fluidità lessicale, ma teologicamente più corretta, secondo i numerosi specialisti che hanno studiato da decenni questa frase controversa.
La traduzione del 1966, basata su un compromesso ecumenico tra cattolici, protestanti riformati e ortodossi, era stata considerata “blasfema” da alcuni teologi fin dalla fine degli anni ’60 e rifiutata dalle correnti più tradizionaliste. La formulazione faceva infatti pensare che Dio stesso incitasse i fedeli a soccombere alla tentazione. “Quella traduzione presuppone una certa responsabilità di Dio nella tentazione che porta al peccato, al male. Ma in tutto il Nuovo Testamento, non si dice che Dio tenta la creatura umana”, ricordava nel 2011 Mons. Hervé Giraud, vescovo di Soissons e autore di un testo che riassume gli annessi e i connessi di questo tema spinoso. “Normalmente è il diavolo che si incarica di questa operazione”, insisteva.
Fin dal 1969, l’abate Jean Carmignace sottolineava nella sua tesi “Ricerche sul Padre Nostro”, le difficoltà di interpretazione sollevate dal passaggio dall’ebraico al greco e dal greco al francese. Il religioso proponeva ai fedeli una formula meno compromettente: “Fais que nous n’entrons pas dans la tentation”(Fa’ che non entriamo in tentazione). Nel corso degli anni, alcuni, tra i protestanti, hanno preferito l’espressione “ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione), un’espressione adottata nel 2000 dalla Bibbia di Gerusalemme.
Altri hanno proposto “ne nous induis pas en tentation” (non indurci in tentazione) o anche “ne nous introduis pas en tentation” (non introdurci in tentazione), opzioni tutte giudicate inadatte. I più anziani ricordano la formula anteriore al Vaticano II (1962-1965), in cui si dava rigorosamente del “voi” a Dio: “Ne nous laissez pas succomber à la tentation” (Non lasciateci soccombere alla tentazione).
La modifica apportata ora alla preghiera che, secondo la tradizione, sarebbe stata trasmessa da Gesù stesso agli apostoli, è il risultato di un lungo lavoro iniziato diciassette anni fa da decine di traduttori. È la parte più visibile, quella di cui il grande pubblico si accorge, di un impegno molto più vasto che mira a proporre una nuova versione della Bibbia per la liturgia francofona. Si annunciano ad esempio cambiamenti nel testo delle Beatitudini.
Verosimilmente ci vorranno anni prima che le chiese risuonino del frutto di questo lavoro, convalidato in luglio dal Vaticano. In Francia, questa versione sarà presentata ai vescovi nella loro assemblea plenaria di inizio novembre a Lourdes. Poi la “Bibbia ufficiale di 2.928 pagine” sarà venduta al “prezzo di lancio di 59.90 euro”, secondo la rivista Famille chrétienne, che annunciava questo “evento importante per la Chiesa” fin dal 5 settembre.
Vattimo: «Quelle sue parole sono di origine divina»
di Gianni Vattimo (Avvenire, 03 luglio 2013)
Io ritengo che Gesù venga da Dio perché le cose che dice sono davvero di origine divina, cioè sono davvero il meglio, il più divino che ho trovato nella mia storia. Quello che mi impressiona è la perfezione del suo messaggio, prima e più che i suoi miracoli. Non mi faccio impressionare, ad esempio, dalla risurrezione di Lazzaro, perché tutto dipenderebbe dalla fede che presto agli scritti che me ne parlano: infatti, chi mi parla della risurrezione di Lazzaro? È difficile pensare all’esistenza di altri documenti antichi, oltre ai Vangeli, in cui si parli di uno che ha risuscitato un tale di nome Lazzaro...
Credo che Schleiermacher non si esprimesse in termini molto diversi (anche se più attenuati dei miei) quando scriveva che Gesù Cristo è l’uomo che ha realizzato il più possibile la vicinanza e il senso di dipendenza da Dio: Gesù sarebbe l’esempio più grande, sotto questo profilo, e noi ci salveremmo in quanto in contatto storico-sacramentale con lui (mediante i Vangeli, il culto) come massimo eroe della coscienza religiosa dell’umanità.
Io non seguirei per intero il percorso di Schleiermacher, ma nemmeno mi interessa granché stabilire se Gesù sia di natura divina o di natura umana, se in lui vi siano due nature e una persona, o tutte le altre questioni in cui si avviluppa la teologia di oggi. (...)
Io credo nella divinità di Gesù Cristo soprattutto per ciò che lui mi ha detto; anzi, posso persino ammettere che egli sia resuscitato sulla base del fatto che tutte le altre cose che mi dice sono così attraenti che non posso non credergli. Insomma, è come se, avendolo visto, mi sia innamorato di lui e sia quindi divenuto capace di dargli ascolto. Del resto è proprio san Paolo ad affermare che la fede è sempre fides ex auditu. Non è quindi inverosimile pensare alla propria fede come all’essere presi da un messaggio affascinante - per dirla con un aggettivo certamente inadeguato - insomma capace di prenderti. (...)
Se qualcuno mi chiedesse perché preferisco Gesù Cristo a Buddha, risponderei: «Perché sono stato educato nel cristianesimo». E se mi si obiettasse che questo è un limite, risponderei che non posso certo cavarmi gli occhi per vedere meglio. Io ho una tradizione e vivo al suo interno: anzi, per proseguire con l’esempio della preferenza a Cristo anziché a Buddha, direi che il buddhismo ancora non l’ho giudicato perché non è una religione positivamente dogmatica, e che piuttosto solo nel cristianesimo trovo le ragioni per interessarmi anche al buddhismo e ad altre tradizioni.
Sono quindi convinto, in primo luogo, che la mia fedeltà al Vangelo è anche (o soprattutto, chi lo sa?) fedeltà a una tradizione umanistico- culturale- politica che è la tradizione europea; non riesco a separare nettamente queste due realtà, quasi esistesse un cristianesimo esterno all’Occidente e ad esso invece non profondamente avviluppato.
Sono poi convinto che la verità dell’Occidente è il cristianesimo, e, viceversa, che la verità del cristianesimo è oggi l’Occidente (non necessariamente in senso per così dire eterno, ma considerando che il «cristianesimo » è anche la «cristianità », al cui interno peraltro il fermento cristiano opera criticamente, rimettendo in discussione assetti stabiliti, invitando all’ascolto di altre tradizioni religiose, ecc.).
In definitiva io non ho scelto di stare nella tradizione cristiana: vi sono dentro, prendendo atto dell’esistenza di una quantità di cose che ho pensato come separate da questa tradizione mentre in realtà ad essa mi riconducono. Di ciò prendo atto anche criticamente, ovvero senza alcun esclusivismo o integralismo, quasi che ora si dovesse smettere di leggere tutti gli autori contemporanei e fermarsi solo al Vangelo o a certi contenuti dell’insegnamento della Chiesa.
Piuttosto, io rimango nella tradizione cristiana perché ritengo che anche Voltaire si trovava al suo interno, e, con lui, tutta la democrazia moderna. Semmai contrappongo talvolta un brano di questa tradizione - che a me sembra dotato di qualche autenticità - ad altri che magari trovo più autoritari, dogmatici; in ogni caso, è sempre all’interno di questa tradizione che mi muovo. Per me essere cristiano è come accettare la mia finitezza, peraltro descritta dalla Sacra Scrittura.
Il battesimo
di G.Dossetti (dalla Omelia del sabato di Pasqua - 1970)
“Una sola cosa diciamo: un ulteriore commento lo faremo in un atto di potenza, tra pochi istanti, con la celebrazione del rito del battesimo che è rito di potenza, con il quale nel nome del Signore, in Cristo risorto, per la potenza dello Spirito, la comunità della Chiesa che siamo tutti noi genera alla vita divina un nuovo figlio.
Battezzeremo adesso un piccolo con la nuova acqua battesimale fecondata dalla potenza dello Spirito del Signore risorto. E’ questa, per eccellenza, l’ora messianica, nella quale viene compiuta veramente la nuova creazione. Come l’antica creazione, come il primo mondo uscito all’inizio dalle mani di Dio e violato poi dal peccato, aveva un capo e delle membra, Adamo e i suoi discendenti, così il nuovo mondo, la nuova creazione scaturita da questa notte pasquale, ha un nuovo capo e nuove membra: il capo, il Cristo risorto; le membra, i figli rigenerati dall’acqua del battesimo fecondata dalla potenza del suo Spirito effuso attraverso la sua passione e la sua risurrezione.
E noi ci dobbiamo sempre più abituare - ed ecco il commento nel rito di potenza che compiremo adesso - a vedere questa notte pasquale non solo come la notte in cui Cristo è risorto, ma la notte in cui viene al mondo un uomo nuovo, un uomo diverso da quello che viene generato secondo la carne e il sangue.
Il bimbo che fra poco battezzeremo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, generato dai suoi genitori è carne e soffio vitale, ma generato dall’acqua scaturita dal costato di Cristo, nella potenza del battesimo della sua morte e della sua risurrezione, è carne e Spirito Santo. Il suo destino umano sarebbe la morte, il destino divino che viene suggellato su di lui dal risorto presente tra noi e tra noi operante è la vita e la vita divina.
Ecco allora quello che non noi, ma il Signore presente tra di noi opererà tra poco.”
La fabbrica del bene tra carità e diritti
di Adriano Sofri (la Repubblica, 7 gennaio 2013)
La crisi moltiplica i circoli viziosi, fino a quando non si trovi il modo di spezzarli. In uno, l’impoverimento rende sempre più preziose le attività solidali (“di mutuo soccorso”, ha scritto Gad Lerner) cui però mancano sempre più le risorse materiali e umane. Nessuno saprebbe tenere un vero conto di come una società di tagli e grattaevinci vada avanti attraverso la solidarietà, famigliare prima di tutto, e poi di vicini, volontari, associazioni. Quanto ai conti internazionali più autorevoli sulla filantropia, paiono anch’essi azzardati, misurando denaro e comportamenti, entità di donazioni, tempo dedicato alla buona volontà, cura dello straniero. Un’accreditata classifica sulla beneficenza è redatta dalla britannica Charities Aid Foundation.
Alla vigilia di Natale veniva citata con enfasi la caduta dell’Italia dal 29° posto del 2010 al 104° del 2011. Una degradazione troppo forte, anche considerando l’incidenza della solidarietà col terremoto in Abruzzo. Ora il consuntivo del 2012 ha riportato l’Italia al 57° posto. A parte lo sconcerto per gli alti e bassi, teniamo un posto assai mediocre fra i paesi “avanzati”. Si annuncia dunque come una novità importante per l’Italia la formazione alla “filantropia strategica”, “beneficenza scientifica”.
Si è tentati di sorridere dell’annessione della carità a scienza e strategia, o sentirci odore d’affari, come si irrideva alle brave dame (“pour faire une bonne dame patronnesse, il faut être bonne, mais sans faiblesse...”).
La carità, spiegano gli esperti, è altra cosa dalla filantropia: se non fraintendo, è la famosa differenza fra dare un pesce all’affamato, o insegnargli a pescare. Di più: il passaggio della filantropia dalla spontaneità alla scienza vuole insegnare ai sazi a insegnare a pescare. Ci si potrà vedere un passo verso il superamento del divario enorme fra l’Italia - e l’Europa in genere - e gli Stati Uniti, dove la combinazione fra individuo e comunità produce un ingente investimento nella beneficenza in senso lato. Le donazioni restano una vocazione eminentemente americana e, ai nostri occhi, mirabolante. Nel novembre del 2011 i signori Dorothy e Robert King hanno donato 150 milioni di dollari all’università di Stanford, di cui lui è ex alunno, per un programma destinato ad alleviare la povertà nei paesi in via di sviluppo.
Nell’ottobre 2012 il finanziere John Paulson (hedge fund ecc.) ha donato 100 milioni di dollari all’organizzazione no-profit che cura la manutenzione del Central Park. Decine di personaggi fra i più ricchi del mondo - ma tutti americani - hanno aderito all’impegno promosso da Bill Gates e Warren Buffett a devolvere almeno il 50 per cento della propria ricchezza a scopi di filantropia. Compreso il giovane Zuckerberg, che intanto ha dato 100 milioni alle scuole di Newark da cui proviene.
La vecchia Europa “socialista” può contrapporre una propria idea di “redistribuzione” della ricchezza sociale alla “restituzione” cui si ispira la filantropia americana, affidandosi la prima all’equità del governo, la seconda alla benevolenza dei privati. I risultati però non ci danno ragione, in particolare nella pratica delle successioni ereditarie. Una differenza più particolare riguarda l’Italia, o la Spagna. La nostra carità ha un’impronta più cattolica e castigata, controriformata. La beneficenza è stata essenzialmente affare della Chiesa, cui lo Stato la delegava volentieri, per convenienza e per servilismo. Diversa è anche la gratificazione del riconoscimento pubblico.
Da noi la discrezione, così spesso ipocrita, sta a metà fra modestia evangelica (non sappia la tua mano destra, fa’ il bene e scordalo ecc.) e vergogna di essere ricchi; e la vergogna oscilla anche lei fra l’altruismo e l’imbarazzo sull’origine della ricchezza. Alla discrezione di precetto lo Stato aderisce con entusiasmo, astenendosi dal tassare solo una piccola percentuale della ricchezza devoluta in beneficenza dai singoli. C’è il luogo comune del differente trattamento fiscale della beneficenza. Ne leggo una smentita drastica nel libro di Francesco Antinucci, “Cosa pensano gli americani” (Laterza 2012): “Consiglio la lettura dell’opuscolo dell’Agenzia delle Entrate, sulle Erogazioni liberali... Ci sono differenze tra Italia e Stati Uniti, ma sostanzialmente i due trattamenti si equivalgono.
Anzi, in alcuni casi, quello italiano è addirittura più vantaggioso per il donatore. Per esempio,l’importantissima classe di donazioni alle università e agli enti di ricerca scientifica, in Italia è deducibile dal reddito senza alcuna limitazione, mentre negli Stati Uniti è soggetta alla soglia del 50 per cento del reddito. Invece, in Italia, le persone fisiche possono detrarre soltanto fino al 10 per cento del reddito, le imprese senza alcuna limitazione. In America, resta il 50 per cento del reddito per tutti, persone fisiche e imprese”.
La differenza è rilevante, dal momento che, come informa lo stesso Antinucci, le donazioni personali negli Stati Uniti coprono l’88 per cento del totale. Abbastanza incongruamente, l’Europa applica le norme più disparate, dal 25 per cento di deduzione in Spagna al 100 in Austria. Del resto, benché la facilitazione fiscale incida, non è la causa principale dell’impulso alla donazione, che è piuttosto culturale e, in senso lato, religioso.
Ezio Mauro sottolineava qui nello scorso novembre la distinzione della democrazia dei diritti “dalla ‘democrazia compassionevole’ e anche dalla ‘Big society’ che sostituiscono la benevolenza individuale e dei gruppi sociali all’organizzazione dello Stato sociale, la carità ai diritti. La beneficenza non ha bisogno della democrazia ma in democrazia, la solidarietà sociale ha bisogno di qualcosa di più della beneficenza: i diritti”. Il rischio è che la crisi tagli diritti e carità. Fece allora scalpore in Spagna il gesto di Amancio Ortega Gaona, fondatore e presidente del più grande gruppo tessile, Inditex, produttore fra altri del marchio Zara, terzo uomo più ricco del mondo per la classifica di Bloomberg, nella quale ha spodestato Warren Buffett, quello che vorrebbe pagare più tasse della sua segretaria. Il signor Ortega, leggendariamente alieno da interviste e comparse pubbliche, ha regalato alla Caritas spagnola 20 milioni di euro. La cifra era imponente, ma non ha impedito a molti commentatori di calcolare che corrispondeva allo 0,05 per cento del suo patrimonio, e che un comune cittadino spagnolo con un patrimonio di 10 mila euro, in proporzione avrebbe dato in beneficenza 5 euro. Le monete hanno sempre due facce.
O tre, con quella politica. La “filantropia strategica”, quella attenta all’efficacia delle risorse investite, quella in cui uomini e donne di formidabile successo trasferiscono talento e passione facendone il proprio impegno primario, da Bill Gates in giù, può ottenere risultati magnifici, in particolare nell’istruzione e negli scambi col mondo povero. Possono imparare e insegnare a pescare. Ma resta il vecchio dilemma. Resta quello che ha fame, qui e ora, e bisogna dargli un pesce. (Teniamo la parabola, anche se il problema sta diventando per ricchi e poveri la scomparsa dei pesci). Bisogna che ci siano delle mense con un pasto caldo, delle stanze con una branda e una coperta.
Non è solo un urgente problema sociale, ma diventa un problema politico, esemplificato vistosamente da quel genere di beneficenza selettiva - razzista, per dirla intera - su cui Alba Dorata in Grecia e filiali altrove lucrano il proprio seguito popolare. La parola d’ordine: “I Greci prima di tutto”, o “Gli Italiani”, o “I Padani”, e così via (che vuol dire: “I Greci e basta”, “i Padani e basta”...) fa una presa molto più forte e torbida quando si rivolge agli impoveriti. C’è dunque anche una carità, o una filantropia, che baratta un piccolo bene con un grande male, e rende odiosa se stessa. Chi abbia frequentato i luoghi in cui la carità si esercita all’ingrosso, sa in quale terribile tentazione di iniquità siano indotti i suoi benevoli attori. E poche forme di potere sono rischiose quanto quella di chi ha in mano un pane superfluo davanti alla fila degli affamati.
«Dio diventi neutro: basta con il maschile»
Berlino, lite sul sesso di Dio
La ministra: «Sia neutro»
di Paolo Lepri (Corriere, 22.12.2012)
-*** «Dio deve diventare neutro: basta indicarlo con il maschile». Il ministro per la Famiglia tedesco, Kristina Schröder, cristiano-democratica, nota per le battaglie contro il femminismo, in un’intervista ha detto di trovarsi in imbarazzo con la sua piccola Lotte, un anno e mezzo, parlando di Dio.
BERLINO - Qual è il «sesso di Dio» spiegato ai bambini? Non si tratta di un dibattito teologico-grammaticale che potrebbe escludere quel 16 per cento della popolazione mondiale che secondo un recente studio del «Pew Forum on Religion and Public Life» si professa non credente.
È qualcosa di più, e riguarda tutti coloro che hanno figli piccoli, perché il problema del «genere» nell’educazione infantile è ormai all’ordine del giorno in molti Paesi europei. Lo dimostra la proposta del governo francese di inserire nel libretto di famiglia la dizione «genitore 1» e «genitore 2» al posto del padre e della madre, e il riaffacciarsi in Svezia del pronome neutro per sostituire il «lui» e il «lei» nell’asilo.
In Germania, è stato il ministro per la Famiglia, Kristina Schröder, cristiano-democratica, nota per le sue battaglie contro il «femminismo storico», a fare discutere tutti. In questo caso, si è iniziato a parlare di religione, ma il vero scontro è sulla figura dell’uomo e della donna nell’immaginario dei bambini.
In un’intervista al settimanale Die Zeit, Kristina Schröder ha detto di trovarsi in imbarazzo con la sua Lotte (un anno e mezzo) parlando di Dio al maschile, come avviene nella lingua tedesca, e ha aggiunto che sarebbe meglio usare l’articolo «das», con cui si precedono i nomi di genere neutro. «Ciascuno - ha detto - dovrebbe decidere per conto proprio». Una riflessione, questa, che è stata accompagnata da critiche al «sessismo» delle fiabe e della letteratura per bambini in cui «raramente si trovano figure positive di donne».
Le parole della Schröder sono state accolte con una raffica di proteste. Christine Haderthauer, ministro per gli Affari sociali della Baviera, le ha definite una «sciocchezza intellettualistica». Un altro esponente cristiano-sociale, il parlamentare Stefan Müller, ha osservato che «Dio appare a noi come il Padre di Cristo e così dovrebbe rimanere». Secondo un eminente teologo cattolico, padre Wilhelm Imkamp, l’idea di rendere neutro il Padreterno è «stupida, insolente e testimonianza di opportunismo».
L’unico a gettare acqua sul fuoco è stato Klaus-Peter Willsch, parlamentare della Cdu nell’Assia (il Land dove Kristina Schröder sarà capolista nelle elezioni del prossimo autunno), suggerendo che «per chi cerca una figura di genere neutro, c’è Gesù Bambino». Alla parola Christkind, infatti, si accompagna «das». «Per chi crede in Dio l’articolo è indifferente», ha risposto il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert, durante il consueto briefing del governo.
Secondo un collaboratore di Kristina Schröder, Benedetto XVI «ha scritto che Dio non è né uomo né donna» e quindi «i critici del ministro non dovrebbero essere più "papali" del Papa». E lei, la diretta interessata? Ha ricordato alla Bild che si stava riferendo ad una bambina e non ai tanti adulti «inciampati» sulle sue parole. Ma non è detto che tutto finisca qui.
Premessa (fls):
PRIMA LETTERA DI GIOVANNI (1 Gv.: 4, 1-16).
Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo. ... Dio è Amore
Charissimi, nolite omni spiritui credere, sed probate spiritus si ex Deo sint: quoniam multi pseudoprophetæ exierunt in mundum.... Deus charitas est
PADRE NOSTRO,
CHE SEI NEI CIELI,
SIA SANTIFICATO IL TUO NOME,
VENGA IL TUO REGNO,
SIA FATTA LA TUA VOLONTA’
COME IN CIELO COSI’ IN TERRA.
TU CI DAI OGGI IL NOSTRO PANE PIU’ SOSTANZIOSO,
E RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI
COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI.
TU NON CI INDUCI IN TENTAZIONE
MA CI LIBERI DAL MALE.
COSI E’: COSI SIA.
AMEN.
di Hervé Giraud
in “www.temoignagechretien.fr” del 17 giugno 2011
(traduzione: www.finesettimana.org)
Nel Padre Nostro, ogni parola ha la sua importanza. Mentre la Conferenza episcopale francese lavora ad una nuova traduzione liturgica francofona della Bibbia, Mons. Giraud, vescovo di Soissons, ha voluto offrire ai lettori del suo blog - e ai cattolici in generale - la sua visione di una frase particolarmente importante del vangelo di Matteo: “Non indurci in tentazione”. Se questa frase sarà cambiata, bisognerà abituarsi a dire questa preghiera in modo diverso. Se no, la riflessione proposta pubblicamente dal vescovo permette, a suo avviso, di comprendere meglio il rapporto dei cattolici con la tentazione. Questo dibattito c’è stato del resto anche tra gli anglosassoni che stanno mettendo a punto il loro nuovo messale e dovrebbero utilizzarlo a partire dall’Avvento 2011.
«La nuova versione del Padre Nostro è apparsa nella liturgia cattolica in Francia con la messa della Veglia pasquale del 1966. Una richiesta poneva problema sia dal punto di vista teologico che da quello esegetico o filosofico: “Ne nous laissez pas succomber à la tentation” (non lasciarci soccombere alla tentazione) era diventato “Ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione). Attualmente, nessuno è soddisfatto della traduzione ecumenica della sesta richiesta del Padre Nostro. In effetti, questa traduzione presuppone una certa responsabilità di Dio nella tentazione che ha condotto al peccato, al male.
La parola peirasmos potrebbe certo essere tradotta con “prova” e non con “tentazione”. Ma “non sottoporci alla prova” sembra chiedere a Dio di farci rifuggire dalla condizione umana normale, segnata dalla prova.
La traduzione letterale del testo greco di Matteo 6,13 dovrebbe essere “Ne nous induis pas en tentation” (non indurci in tentazione) o “Ne nous fais pas entrer en (dans la) tentation”, “Ne nous introduis pas en tentation” (non farci entrare, non introdurci nella tentazione). Il verbo eisphérô significa etimologicamente “portare dentro”, “far entrare”. La tentazione è vista come un luogo nel quale Dio ci introdurrebbe. Ma Dio potrebbe “introdurci” in tentazione? Questo verbo esprime un movimento locale verso un luogo dove si penetra. Fa pensare a Gesù, quando è condotto dallo Spirito nel deserto per esservi tentato (Mt 4,11), o anche nel Getsemani: “Priez pour ne pas entrer en tentation” (pregate per non entrare in tentazione) (Mt 26,41). Ora, in tutto il Nuovo Testamento, non è mai detto che Dio tenti la sua creatura umana. La formula sembra supporre che Dio possa tentare l’uomo, mentre è il diavolo che si incarica normalmente di questa operazione. Dio non è l’autore della tentazione.
Sono state studiate diverse traduzioni. “Ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione): questa traduzione evoca l’immagine di un Dio che fa subire la tentazione e che sarebbe come l’autore della tentazione. “Fais que nous n’entrions pas en (dans la) tentation” (fa che non entriamo in tentazione): questa traduzione cerca di scagionare Dio dall’essere l’autore della tentazione. “Ne nous fais pas entrer dans la tentation” (non farci entrare in tentazione): certo, “entrare in tentazione” non significa necessariamente soccombervi, ma significa entrare in quella situazione critica in cui Satana (il Male) comincia a raggiungerci e in cui noi rischiamo, a causa della nostra debolezza, di lasciarci vincere. Tuttavia rischia di designare ancora una certa responsabilità di Dio nella tentazione.
“Ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione); questa traduzione sarebbe la migliore anche perché si avvicinerebbe ad una fonte letteraria aramaica. In francese “lasciar fare” vuol dire “non impedire”. “Non lasciar fare” ha il senso positivo di “impedire”. Dio può permettere che noi entriamo nella tentazione e darci la forza di poterne “uscire”.
Dio non ci tenta, ma ci mette talvolta alla prova permettendo a Satana (il Male) di tentarci per purificarci. Con questa traduzione, noi supplichiamo Dio “Non permettere neppure che entriamo in tentazione”. Noi gli chiediamo di intervenire in nostro favore per allontanare dalla nostra strada un pericolo temuto, quello di rischiare di essere separati da Lui e dal suo Popolo.
La traduzione liturgica della Bibbia potrebbe quindi scegliere di proporre “E ne nous laisse pas entrer en tentation” sulla base di Matteo 26,41. Già la Bibbia di Segond del 1964 riprendeva l’espressione “Ne nous laisse pas entrer en tentation”, come farà la Bibbia di Gerusalemme del 2000. La sua introduzione nel Padre Nostro della messa e nell’uso corrente attende un accordo dei vescovi, di tutte le Chiese e le Comunità ecclesiali francofone, perché è importante che i cristiani continuino a dire insieme la preghiera che il Signore ha insegnato.»
Lo Spirito, secondo Monsignor Riobé
di Guy-Marie Riobé
in “www.baptises.fr” del 10 e 12 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
“Credo nello Spirito Santo”: con questo titolo, in una serie intitolata “Une brassée de confessions de foi”, per iniziativa di Henri Fesquet, “Le Monde” del 10 luglio 1978 ha pubblicato questo testo di Monsignor Guy-Marie Riobé, vescovo di Orléans (membro dell’Union fondata da Charles de Foucauld). Otto giorni prima della sua morte.
Quando potremo allora, liberati dalle nostre formule esangui e dalle nostre astrazioni, confessare la nostra fede nello Spirito Santo con una parola capace di andare da cuore a cuore, come una fiamma ne chiama un’altra?
Credere nello Spirito, è credere nella vita, è credere che ogni vita avrà in Lui, definitivamente, vittoriosamente, l’ultima parola su tutte le fatalità di disgregazione, di immobilismo e di morte.
Credere nello Spirito, è credere nella storia come storia di salvezza, storia di liberazione dell’uomo, di tutti gli uomini. Credo allo Spirito Santo non come ad una porta aperta per evadere, ma come alla sola speranza che possa, in definitiva, animare la storia degli uomini.
Credo nello Spirito che anima oggi le grandi spinte di liberazione che tendono verso una universalità umana concreta, diversa, capace quindi di comunione fatta attraverso l’uguale dignità e il libero incontro dell’uomo e della donna, delle etnie, delle culture.
Credo nello Spirito che vibra nelle grida del Terzo Mondo come un appello alla condivisione dei beni della terra, al rispetto dei popoli a lungo disprezzati, al dialogo delle civiltà riconosciute nelle loro differenze e nella loro originalità.
Ogni uomo è mio fratello perché siamo tutti figli di uno stesso amore. Ogni uomo è sacro per me perché ogni uomo è figlio di Dio. E Credo nello Spirito che nello stesso tempo fa crescere nei nostri paesi, in maniera talvolta selvaggia, sconcertante, una grande sete di senso.
È fuori dalle nostre Chiese, lo so, che molti uomini cercano quel Dio d’amore che solo lo Spirito può farci conoscere ed amare. Mi dispiace, ma li capisco. Tutte le istituzioni, tutti i segni, anche i più sacri, si degradano se non accettano ad ogni primavera di cambiar pelle, a qualsiasi costo, anche a costo di accettare lacerazioni e sofferenze. Le nostre comunità, come tutte le istituzioni, non sfuggono al tempo e alla sua usura.
La Chiesa, in diversi momenti della sua storia, ha avuto paura dello Spirito, ha smesso di essere mistica e creatrice per diventare giuridica e moralizzatrice. Allora le burrasche dello Spirito hanno soffiato alla sua periferia e a volte contro di lei in una grande esigenza di vita creatrice, di giustizia e di bellezza. “Ci sono atei che grondano parola di Dio”, diceva Péguy, ed è tuttora vero.
Credo che Dio ci accompagni tutti nella nostra avventura umana e che solo la sua presenza sia eterna, e non le strutture, le parole, le immagini che, a poco a poco, nel corso dei secoli, abbiamo adottato per dire a noi stessi la sua presenza tra noi. La nostra Chiesa non ha nulla da temere dalle critiche che le vengono da altri, se sa ascoltarle come un appello di Dio.
Essa non può sprangare le porte per disporre più sicuramente di se stessa. Essa riceve ad ogni istante da Dio per essere continuamente inviata, immersa nel mondo, povera, modesta, fraterna, messaggera di gioia, prestando la sua voce ai poveri, agli uomini che vengono torturati o uccisi, a tutti coloro che ci gridano silenziosamente il Vangelo. È questa per la Chiesa, e per ogni cristiano, la necessità, talvolta l’urgenza, di discernere e di fondare la ragione dei propri atteggiamenti, delle proprie reazioni davanti a tutti i grandi movimenti della storia. Discernere senza spegnere o contristare il libero sgorgare dello Spirito e della vita che suscita.
Così potremo ritrovare l’attualità di quei grandi risvegli umani, venuti dal cuore dell’uomo comedelle pentecoste successive. È Dio che, attraverso tutta quella corrente che chiamiamo profetica, difende la sua opera, impedisce che sia mutilata o paralizzata. In questo, e negli aspetti più quotidiani della vita, c’è un vero dono dello Spirito in tanti veri viventi che non cessano di reinventare l’amore e la gioia profonda di essere. Scaturisce a volte alla superficie della storia, come un Dom Helder Camara, ad esempio. La Chiesa deve di nuovo lasciare che la parola di Dio fecondi la storia.
...
In queste contingenze necessarie, la mia fede cerca sempre al di là. Mi auguro che tra cristiani, di nuovo divisi, possiamo essere capaci di celebrare insieme, nella fede più pura, il nostro amore per Gesù Cristo che superi le nostre dispute di un tempo.
Mi auguro che tra credenti, alla ricerca del nostro unico Dio d’amore, sia possibile riunirci qualche volta, anche se nel silenzio delle nostre preghiere differenti, nell’unità dello stesso e solo Spirito che ci fa gridare Abba, Padre.
Mi auguro che tra uomini possiamo mettere in comune tutte le nostre forze d’amore perché i giovani di domani conoscano la fine dell’ingiustizia e dell’odio
Così sono in comunione con la speranza di tutti coloro che sono convinti che una terra di rispetto, di giustizia, di uguaglianza e di amicizia è possibile.
Mi sento solidale con coloro che ne hanno fatto la lotta della loro vita.
E mi rallegro per il fatto che attualmente molti giovani si siano prefissi il compito di ricostruire questa terra.
Abbiamo tutti appuntamento con questo amore sconosciuto che non possiamo o non osiamo nominare per paura di rinchiuderlo nei limiti del nostro tempo. A età diverse della propria vita, ciascuno lo accoglie e lo dice a modo suo. In momenti diversi del risveglio spirituale dell’uomo, ogni civiltà lo riceve e lo esprime nella propria cultura.
Perché è proprio l’umanità intera che ha appuntamento con Dio: alla sua nascita? In certi momenti della storia? All’apogeo della sua evoluzione? Che importa, è il segreto di Dio, non il mio, ma credo che lui è e sarà presente, in maniera inattesa, agli appuntamenti della storia umana, come è e sarà presente agli appuntamenti di ciascuna delle nostre storie personali. Mi basta ritrovare in questa speranza una gran parte del Vangelo.
È a questo punto che mi ricordo di Gesù di Nazareth. Lo ritrovo oggi nel cuore di tutto questo popolo di cercatori di Dio. Sì, credo che Gesù è vivo, sorgente dello Spirito, che è una persona presente, che può essere amico degli uomini, e che questa amicizia può essere lo scopo di tutta una vita. Essere cristiani, dopo tutto, non è accettare di ricevere se stessi continuamente da Cristo, come ci si riceve da ogni sguardo d’amore? Tutti i giorni, mi sembra di incontrare Cristo per la prima volta.
Mi basta credere che, tornando al Padre dopo la resurrezione, Cristo ci ha reso liberi attraverso il dono del suo Spirito e che ha aperto alla nostra responsabilità, fino a che Egli venga e perché venga, il cantiere della storia. In questa scia di libertà creatrice, non avremo mai finito di camminare da responsabili davanti a Dio, di imparare a vivere e a morire.
Debiti, giustizia, colpa le vere parole di Gesù
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 25 novembre 2011)
Chiedersi che cosa fosse Gesù di Nazareth non per noi ma per i suoi contemporanei: questo è ciò che distingue il libro di Mauro Pesce - Da Gesù al cristianesimo (Morcelliana) - dalla immensa foresta di libri su Gesù che cresce ogni giorno. E la via che l’autorevole storico del Cristianesimo dell’Università di Bologna ci propone è quella di una ricerca filologica e storica sui significati delle parole di Gesù in quei due primi secoli dell’era volgare in cui furono la fede di una setta ebraica: il che non può che risvegliare la curiosità di coloro che hanno incontrato quelle stesse parole trasformate in istituzioni e pratiche sociali nelle epoche successive delle società cristiane.
Vediamone almeno un esempio. Tutti sanno, o credono di sapere, che cosa significhi "rimettere un debito". Specialmente di questi tempi, in cui alle tante forme storiche, morali e materiali, giuridiche e religiose del debito si è aggiunta quella che va sotto il nome di "debito sovrano". Ma se oggi sono gli economisti a tenere il campo, non si può certo dimenticare che per millenni il loro posto è stato occupato da teologi, moralisti, predicatori, tutti impegnati a interpretare e tradurre nella vita quotidiana la frase del "Padre nostro" dove a Dio Padre si chiede di "rimettere a noi i nostri debiti, come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori"(Matteo, 6,12). Da quella frase doveva dipartirsi il lunghissimo percorso che ha istituzionalizzato nelle società cristiane la divisione tra peccato morale e colpa giuridica e ha lungamente elaborato i significati del rito della confessione.
Ma che cosa voleva dire esattamente Gesù di Nazareth? Per rispondere, osserva Pesce, bisogna partire dal dato di fatto che Gesù era un ebreo e non un "cristiano" e dunque comunicava coi suoi ascoltatori nel contesto della lingua e della tradizione ebraica. Se vogliamo intendere il significato letterale delle sue parole bisogna dunque mettere tra parentesi tutto ciò che ne è nato da quando sono state tradotte dall’aramaico nel greco dei Vangeli e poi in tutte le lingue del mondo. Si pensi anche solo ai sacramenti del battesimo e della confessione, al loro potere di "rimettere" i peccati. Tutto questo non c’era ancora nell’orizzonte ebraico di Gesù. Qui il bisogno di cancellare o riparare le colpe aveva ricevuto la forma del giubileo.
Come lo descrive il capitolo 25 del Levitico, giubileo significava riconciliazione e ricomposizione dell’intera società, liberazione dai debiti, ritorno di ognuno nella propria famiglia e nei propri beni, sospensione delle preoccupazioni ordinarie - nutrirsi, vestirsi e così via. Lo si doveva annunciare nel "giorno dell’espiazione" perché la rigenerazione richiedeva un rito di perdono delle colpe involontarie e di risarcimento del male fatto. Come nota Pesce, il nesso tra espiazione e remissione è documentato nei manoscritti del Mar Morto: il che ci introduce nell’orizzonte mentale del giudaismo dei tempi di Gesù, quando col profeta Isaia conversione umana e perdono divino si erano da tempo legati all’idea di una restaurata giustizia e di una prospettiva di speranza escatologica.
La remissione generale del "Pater noster" si comprende dunque come passaggio di purificazione ed espiazione legato all’annunzio dell’imminente avvento del Regno di Dio: un Dio padre del suo popolo, simile a quei sovrani dell’Oriente antico che all’inizio del loro regno concedevano ai sudditi l’amnistia e sospendevano la legge ordinaria per restaurare una superiore giustizia.
Quell’attacco postumo a Saramago
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 22.06.2010)
Caro Augias,
anche se viene sempre meno la voglia di scandalizzarsi, non posso fare a meno di provare vergogna per il tremendo attacco che l’Osservatore Romano ha dedicato a José Saramago dopo la morte. Un intervento pieno di livore. Un tempo la Chiesa sapeva distinguere tra peccato e peccatore affidava a Dio "misericordioso" anche l’anima di coloro che considerava irrecuperabili peccatori. La Chiesa di oggi, al centro di scandali di ogni genere, ha perso la tradizionale prudenza ed è diventata una protagonista attiva del penoso dibattito dei nostri giorni che consiste, sempre, nella demonizzazione dell’avversario, senza preoccuparsi per nulla, in particolare con Saramago, del fatto che, il pericoloso avversario, è passato a miglior (o peggior) vita, non avendo, perciò, possibilità di replica.
Antonio Cammelli
Firenze cammelli.a@tiscali.it
Ha molto colpito l’attacco post mortem ad uno scrittore premio Nobel che ha onorato l’arte sua, quali che fossero le sue idee in materia religiosa. Anche in altre materie, peraltro. Per esempio sulla politica dello Stato d’Israele, da lui condannata senza mezzi termini suscitando anche in questo caso aspre reazioni. Capisco il nervosismo di un paese in questo momento in forti difficoltà.
Ma l’organo ufficiale della Chiesa cattolica, che si vuole ispirata direttamente dal Cielo, avrebbe potuto argomentare con più misericordia verso un morto. Saramago vedeva nella diffusione del Male nel mondo una delle prove dell’inesistenza di Dio. Quanto meno del Dio della teologia cattolica. E’ un problema antico, più volte affrontato anche da grandi spiriti, mai risolto. Credo irrisolvibile.
Francesco Leporino (gransole@gransole.net) mi ricorda che: « L’uomo Saramago ha detto: "La bontà è una delle forme più alte di intelligenza!". Strappare al Cristianesimo il monopolio della bontà e iscriverlo in un pensiero illuminista, farne una categoria dell’intelligenza (e non del timor di dio) è stata una verità semplice e rivoluzionaria».
Francesco de Goyzueta da Napoli (fdegoyzueta@ extratel.it) scrive: « Saramago, grande voce civile che si è appena spenta, ha detto: "Dev’essere duro vivere quando il potere politico e quello imprenditoriale si riuniscono. Non invidio la sorte degli italiani, però alla fine è nella volontà degli elettori mantenere questo stato di cose o cambiarlo". Veemente dunque, ma anche rispettoso della democrazia».
Fulvio Bossino scrive: « Complimenti al Vaticano, tramite il suo organo di stampa introduce contro Saramago un nuovo genere letterario: dopo l’elogio funebre abbiamo finalmente l’insulto funebre».
Andrea Sillioni (Bolsena) è secco: «Fa rabbrividire una Chiesa che teme ancora, nel duemila, l’intellettualità atea e materialista».
Le domande che i ragazzi rivolgono a Gesù
di Vito Mancuso (la Repubblica, 12 gennaio 2010)
Il Sermig di Torino, movimento cattolico fondato da Ernesto Olivero, ha sottoposto un esteso questionario a migliaia di giovani sulla figura di Gesù. Alla domanda numero 7, che chiedeva «Cosa diresti a Gesù se potessi parlare con lui oggi?», le principali risposte dei giovani furono le seguenti: Perché si deve morire? Che senso ha la mia vita? Perché esiste il male? Perché muoiono tanti giovani? Cosa mi aspetta dopo la morte? Perché mi hai creato?
Queste domande dei giovani a Gesù (ipotetiche quanto alla possibilità di raggiungere il destinatario, ma assolutamente reali quanto a valore esistenziale) mostrano un intenso bisogno di significato, si potrebbe dire di filosofia. Più che a Gesù quale singolo personaggio storico, le interpellanze dei giovani si rivolgono al Cristo, al Figlio di Dio in quanto Dio, a Dio, all’Assoluto. Sono tre infatti le questioni capitali: 1) chi sono io e perché sono qui; 2) perché questo mondo è colmo di ingiustizia; 3) che cosa ne sarà di me dopo la morte.
Oggi la teologia e la predicazione della Chiesa sono concentrate sul Gesù storico, sulla sua esistenza, la sua predicazione, il suo messaggio, la sua morte e la sua risurrezione. I corsi biblici organizzati dalle parrocchie non si contano più. Ma queste domande mostrano chiaramente che l’interesse degli uomini d’oggi non è per una storia lontana, destinata ogni anno a divenire sempre più lontana, ma per il senso di questa vita qui e ora.
Gesù non interessa come singolo personaggio storico a cui accadono delle cose speciali (emblematico che nessuno tra i giovani gli avrebbe chiesto lumi sul suo concepimento verginale, sulla veridicità dei suoi miracoli, sui responsabili della sua morte, sulla realtà della sua risurrezione) ma interessa come il maestro a cui chiedere spiegazioni su questa vita e sui suoi conti che faticano a tornare. Una risposta di un ragazzo di quindici anni metteva addirittura in crisi il sacrificio espiatorio di Gesù, o meglio la teologia tradizionale che interpreta Gesù quale «vittima immolata per la nostra redenzione» (come viene definito da alcune parole del canone della Messa).
Che cosa appare allora da queste domande dei giovani? Appare quello che già Hegel vedeva come il limite della coscienza cristiana tradizionale, cioè l’essere una «coscienza infelice». Da questi giovani emerge chiaramente un disorientamento sulla loro identità di uomini, segno dell’inefficacia delle risposte tradizionali della fede ascoltate nelle lezioni di catechismo. A differenza di quanto avveniva al tempo di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, dalla fede cristiana di oggi non emerge più una veritiera e affidabile visione del mondo. Da qui il senso diffuso di infelicità, da qui il disagio rispetto al proprio essere al mondo. I credenti adulti suppliscono questa incertezza teoretica con il ricorso al principio di autorità (è così perché è stato sempre insegnato che è così), ma con i giovani questo principio (se purtroppo o se per fortuna, non lo so) non funziona.
C’è un detto medievale che dice: «Vengo non so da dove; sono non so chi; muoio non so quando; vado non so dove; mi stupisco di essere lieto». Il filosofo Karl Jaspers, che lo cita all’inizio del libro La fede filosofica di fronte alla rivelazione, dice che per questa unione di ignoranza e di gioia tale detto non può essere cristiano. E poi aggiunge un affondo terribile, affermando che, al contrario, la coscienza cristiana ha sì le risposte a tutte le questioni perché sa da dove viene, perché sa chi è, perché sa che morirà quando lo deciderà Dio (non prima e non dopo), perché sa dove andrà, ma, sapendo tutto ciò, non è per nulla lieta, per nulla serena, ma è immersa nella macerazione e in una continua tensione con il mondo con cui non riesce a riconciliarsi. A mio avviso ha ragione: la coscienza cristiana troppo spesso appare come una coscienza infelice, a tratti risulta persino aggressiva, soprattutto in coloro che coltivano sopra ogni cosa l’adesione alla dottrina stabilita dalle gerarchie ecclesiastiche e che coniugano il verbo "credere" sempre accanto a "obbedire e combattere".
Da dove nascono invece quell’essere lieti in profondità, quella gioia inestirpabile verso la vita, quella quiete dello spirito e della mente, che sono il contrassegno di una autentica esperienza spirituale e che sole possono dare risposte convincenti alle inquietudini dei giovani? Nascono dal sapere di essere a casa in questo mondo di Dio, dal senso di intima comunione con l’essere e con la natura che portò Francesco d’Assisi a scrivere il "Cantico delle creature", e dalla certezza che l’incarnazione di Dio non riguarda solo un giorno lontano di tanti anni fa ma è la dinamica che si avvera ogni giorno, in tutti gli uomini che amano il bene e la giustizia. Gesù è l’uomo che cessa di fare di se stesso il centro del mondo e si pone al servizio di una realtà più importante di sé. Anche la Chiesa deve cessare di fare di se stessa il centro del mondo e si deve porre al servizio di qualcosa di più grande di sé, del bene comune e di ogni singolo individuo di questa nostra società, credente o non credente, bianco o nero, etero o omosessuale.
Niente Re Magi in presepe
Cattedrale Agrigento: ’Respinti alla frontiera’
Palermo, 5 gen. - (Adnkronos) - Un cartello posto dal direttore della Caritas diocesana Valerio Landri, avverte: ’’Quest’anno Gesu’ Bambino restera’ senza regali: i Magi non arriveranno perche’ sono stati respinti alla frontiera insieme agli altri immigrati". L’obiettivo della provocatoria iniziativa è far riflettere sul tema dell’immigrazione ed è stata concordata con l’arcivescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro.
Palermo, 5 gen. - (Adnkronos) - Niente Re Magi nel presepe allestito nella Cattedrale di Agrigento. Un cartello posto dal direttore della Caritas diocesana Valerio Landri, avverte: ’’Quest’anno Gesu’ Bambino restera’ senza regali: i Magi non arriveranno perche’ sono stati respinti alla frontiera insieme agli altri immigrati".
L’obiettivo della provocatoria iniziativa e’ far riflettere sul tema dell’immigrazione ed e’ stata concordata con l’arcivescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro. ’’Una legge in tema di immigrazione e’ necessaria - spiega Landri - ma bisogna anche comprendere che si tratta di gente disperata. Forse se Gesu’ Bambino volesse venire da noi oggi, sarebbe respinto alla frontiera, come accade a tanti nostri poveri fratelli’’.
SCANDALO IN NUOVA ZELANDA PER L’IMMAGINE AFFISSA FUORI DA UNA CHIESA ANGLICANA
E se accade con l’Islam?
Cartellone blasfemo scatena la polemica. E se fosse accaduto con l’Islam?
di GIACOMO GALEAZZI (La Stampa,19/12/2009)
Polemica in Nuova Zelanda per un cartellone pubblicitario raffigurante San Giuseppe e la Vergine Maria a letto, appeso fuori da una chiesa anglicana a St. Matthew’s-in-the-city. L’immagine, fatta affiggere dal vicario della chiesa, è accompagnata dalla scritta: «Povero Giuseppe, Dio è difficile da seguire». «Per la nostra tradizione natalizia bimillenaria, Maria è rimasta vergine e Gesù è il figlio di Dio, non di Giuseppe - ha affermato, indignato, Lyndsday Freer, portavoce della comunità cristiana neozelandese - Questo poster è inappropriato e irrispettoso». Secondo un giornale locale, l’immagine sembra suggerire che i due «abbiano appena avuto un rapporto sessuale». Poche ore dopo essere stato affisso, il cartellone è stato deturpato. Qualcuno ha coperto entrambi i volti dei santi e la scritta con della vernice marrone.L’arcidiacono Glynn Cardy, vicario della chiesa di St Matthwès, ha spiegato che il cartellone è stato affisso per «provocare riflessione e dibattito sulle vere origini del Natale». «Il cristianesimo progressista si distingue non soltanto per una visione univoca - ha continuato Cardy - ma anche per instaurare un dialogo con chi la pensa diversamente». E se fosse accaduto con l’Islam?
CARO GALEAZZI *
***MA CHE C’ENTRA L’ISLAM!!! ***
QUI LA "PROVOCAZIONE" E’ INTERNA AL MONDO CRISTIANO ED E’ UNA SOLLECITAZIONE A MEGLIO PENSARE L’ALLEANZA TRA DIO E GLI ESSERI UMANI. *** NON PER NULLA L’ALLEANZA E’ DETTA ANCHE "ALLEANZA DI FUOCO" - COME DI FUOCO ERANO LE LINGUE CHE DISCESERO SUGLI APOSTOLI. ***
L’EVANGELISTA GIOVANNI SOLLECITA A NON CREDERE A OGNI SPIRITO E DICE CHIARO E TONDO CHE IL VERO DIO E’ AMORE (1 Gv., 4.8: Deus charitas est - e non come scrive Benedetto XVI: Deus caritas est)!!! *** Non con confondiamo il figlio-"tesoro" ("caritas") di "mammasantissima" e di "mammona" ("caritas"), con il Figlio della Grazia ("Charis") e dell’Amore ("Charitas", "Agàpe") di Maria e Giuseppe!!! ***
NON TRUCCHIAMO LE CARTE - E L’AMORE EVANGELICO!!! *** O, siamo ancora tanto ’piccoli’, da credere alla "verità" del Cardinale Dario Castrillon Hoyos:
"Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, La Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)*** e della tradizione cattolico-romana ( anglicana, e tutte le altre)?!! siamo nel terzo millennio dopo la nascita di Cristo - non prima di Cristo, al tempo dei Faraoni!!!
Il messaggio evangelico è il messaggio eu-angelico (una buona-notizia) - non una cattiva-notizia che manda tutto in gelo (van-gelo)!!!
BUON NATALE, BUON NATALE ... PACEM IN TERRIS!!! M. cordiali saluti ... Federico La Sala (19.12.2009 dopo la nascita di Gesù Cristo)
scritto da FEDERICO LA SALA 19/12/2009 20:45
IL MONITO DEL PONTEFICE
Benedetto XVI durante l’Angelus:
"Natale non è un favola per bambini"
«E’ la risposta di Dio al dramma
dell’umanità in cerca della pace»
CITTA’ DEL VATICANO «Oggi, come ai tempi di Gesù, il Natale non è una favola per bambini, ma la risposta di Dio al dramma dell’umanità in cerca della vera pace». Lo ha affermato Benedetto XVI all’Angelus sottolineando la storicità del racconto del Vangelo di Luca che narra come mai Gesù nacque a Betlemme: «Giuseppe, lo sposo di Maria, essendo della "casa di Davide", dovette recarsi in quella cittadina per il censimento, e proprio in quei giorni Maria diede alla luce Gesù». «Mille anni prima di Cristo - ha ricordato rivolto ai circa 40 mila presenti in piazza San Pietro - Betlemme aveva dato i natali al grande re Davide, che le Scritture concordano nel presentare come antenato del Messia».
Il Papa ha poi citato la profezia di Michea che accenna proprio ad una misteriosa nascita: «Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele». «C’è dunque - ha osservato - un disegno divino che comprende e spiega i tempi e i luoghi della venuta del Figlio di Dio nel mondo».
Michea su Gesù Bambino: dice poi che «Egli stesso sarà la pace!». «A noi - ha spiegato Ratzinger - spetta aprire, spalancare le porte per accoglierlo. Impariamo da Maria e Giuseppe: mettiamoci con fede al servizio del disegno di Dio. È un disegno di pace, come annuncia ancora il profeta parlando del Messia che si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perchè egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra». «Anche se non lo comprendiamo pienamente - ha conmcluso il Pontefice - affidiamoci alla sua sapienza e bontà. Cerchiamo prima di tutto il Regno di Dio, e la Provvidenza ci aiuterà. Buon Natale a tutti!».
* La Stampa, 20/12/2009 (13:7)
GIOVANNI XIII
PREGO PER GLI EBREI
di Orazio La Rocca *
CITTA DEL VATICANO - «Perdonaci, Signore, per non aver capito la bellezza del Tuo popolo eletto... perdonaci, perché nel corso dei secoli non sapevamo quello che stavamo facendo contro gli ebrei...». è un Papa anziano, molto malato, costretto a letto perché colpito da un male incurabile, che scrive queste parole pochi giorni prima di morire. è Giovanni XXIII, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, il papa Buono per antonomasia, il padre del Concilio Vaticano II e del successivo rinnovamento ecclesiale, che Giovanni Paolo II beatificherà nel 2000 sotto i riflettori di tutto il mondo, facendone una delle più importanti icone del grande Giubileo del 2000.
Quasi nessuno, però, finora ha mai saputo che il futuro beato Giovanni XXIII nel chiuso della sua stanza nel Palazzo apostolico, in Vaticano, verso la fine del mese di maggio 1963 - morirà dopo una lunga agonia la sera del successivo 3 giugno all’ età di 82 anni - dedica le sue ultime energie al popolo ebraico sotto forma di preghiera composta quasi di getto su un foglio bianco, davanti al Crocifisso al cospetto del quale ogni notte si era sempre raccolto in preghiera prima di dormire. è una chiara e appassionata richiesta di perdono per le "colpe" commesse dai cristiani nel corso dei secoli con i loro atteggiamenti antisemiti, che papa Roncalli intitola, significativamente, "Preghiera per gli ebrei". Un gesto fatto quasi di istinto, sincero, scritto con grande passione e dettato da un forte desiderio di "pulizia interiore" per le colpe antiebraiche dei cristiani, che anticipa di molti anni le due storiche tappe di avvicinamento al popolo ebraico compiute da Giovanni Paolo II, la visita alla Sinagoga di Roma del 1986 e la richiesta di perdono per le colpe e le omissioni dei cristiani verso gli ebrei nell’ ambito dei mea culpa del Giubileo del 2000. E che spiega, in qualche modo, anche la nascita del testo conciliare Nostra Aetate, approvato nel 1965, con cui la Chiesa cattolica si aprì al dialogo interreligioso e cancellò l’ anacronistica accusa di deicidio con cui per circa duemila anni erano stati apostrofati tutti gli ebrei.
La Preghiera agli ebrei è un documento finora sostanzialmente inedito in Italia. Era stato pubblicato solo in parte nel 1965, due anni dopo la scomparsa di Giovanni XXIII, su un giornale olandese e brevemente accennato nello stesso anno su un periodico italiano, sembra per iniziativa di un giovane monsignore statunitense che aveva preso parte al Concilio come esperto ed era molto amico dell’ allora pontefice. Lo stesso prelato che ne aveva parlato successivamente nel corso di un incontro interconfessionale, negli Stati Uniti d’ America. Da allora, però, se ne erano perse le tracce.
Il testo giovanneo - una quindicina di righe appena - dopo circa 45 anni di sostanziale e inspiegabile oblio domani pomeriggio (alle 16,30) sarà letto integralmente in pubblico per la prima volta al monastero di Santa Cecilia, in Trastevere, a Roma, nell’ ambito del recital Roncalli legge Roncalli interpretato da un discendente di Giovanni XXIII, l’ attore Guido Roncalli che - accompagnato dal violoncellista Michele Chiapperino - presenterà una serie di documenti editi e inediti di papa Roncalli, relativi sia al suo pontificato che agli anni passati nelle nunziature apostoliche in Turchia e in Francia. Il recital è stato presentato con successo una decina di giorni fa in Vaticano alla presenza del cardinale-governatore Giovanni Lajolo. Ma senza la lettura della preghiera ebraica che domani costituirà, inevitabilmente, il momento clou dell’ incontro, che - preannuncia Guido Roncalli - «avrà un carattere e una impostazione ancora più ecumenica». Nella lettera la parola "perdono" viene evocata più volte.
Nel dirsi certo che Cristo è morto e risorto non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini, anche per gli ebrei, Giovanni XXIII chiede al Signore «di perdonarci perché per molti e molti secoli i nostri occhi erano così ciechi che non erano più capaci di vedere ancora la bellezza del Tuo popolo eletto, né di riconoscere nel volto (di tutti gli ebrei - ndr) i tratti dei nostri fratelli privilegiati...». Una espressione, quest’ ultima, che rievoca in maniera impressionante un’ altra famosa frase, quella con cui Giovanni Paolo II nel 1986 nella Sinagoga di Roma salutò gli ebrei chiamandoli «nostri fratelli maggiori».
«Perdonaci, Signore», si legge ancora nella preghiera di papa Roncalli: perdonaci per le tante "ingiustizie" subite dagli ebrei nel corso dei secoli passati e per le "colpe" commesse dai cristiani nei loro confronti. Colpe, mancanze e ingiustizie che il papa Buono accomuna, con "rammarico", al primo delitto raccontato nel primo libro della Bibbia, la Genesi, dove si parla dell’ assassinio di Abele per mano di Caino. La chiusura del testo è contrassegnata anche da un forte impatto teologico perché Giovanni XXIII si spinge a prendere quasi "in prestito" le parole con cui Gesù sul Golgota dall’ alto della croce, prima di spirare, invocò il Padre per perdonare quelli che lo stavano uccidendo. Signore, "perdonaci", conclude infatti papa Roncalli, «perché i cristiani non sapevano cosa facevano» contro gli ebrei.
«Se da un lato la recita fatta in Vaticano mi ha dato un onore immenso perché ospite del successore di Giovanni XXIII, il recital di domani - commenta Guido Roncalli - sento che sarà particolarmente calzante per la rievocazione di un pontefice sensibile al dialogo interreligioso e all’ ecumenismo, e che in punto di morte si è sentito in dovere di scrivere parole bellissime e profonde per chiedere perdono agli ebrei, come una sorta di testamento».
ORAZIO LA ROCCA
* la Repubblica - 20 dicembre 2008
TUTTO NATALE
Un testo di Giuseppe Barbaglio
Mi sembra di leggere tra le righe di questa sbobinatura la ricerca insonne di Giuseppe di capire e di tenere il più possibile distinti i confini tra storia e fede. Non perché i due filoni si depotenzino, ma anzi perché fioriscano più significati e pensieri. Per questo lui parla di "credenza". Vorrei anche ricordare che il primo libro che mi ha dedicato diceva: "L’annuncio diventa carne e abita in noi". Fino all’ultimo Giuseppe mi ha ripetuto la domanda: qual è l’annuncio di gioia da dare al mondo di oggi, alle persone discriminate?
Carla Busato Barbaglio
L’infanzia di Gesù nel vangelo di Matteo
Gesù è l’uomo che nasce dalla terra, a Nazaret, in Galilea. L’origine di questo uomo fa volgere i nostri occhi verso il cielo perché lui esprime il mondo di Dio, lo incarna, è l’epifania della benevolenza e della filantropia di Dio. Questo uomo singolo e singolare, frutto della nostra terra, è la parola di Dio, incarna la vicinanza di Dio all’uomo.
Soltanto i vangeli di Matteo e di Luca riservano i primi due capitoli alla narrazione della nascita e dell’infanzia di Gesù. Essi nascono come espressione plastica, narrativa della fede dei primi credenti in Gesù figlio di Dio. Sono due racconti molto diversi, espressione degli ambienti culturali e religiosi a cui Matteo e Luca appartenevano.
Il vangelo dell’infanzia di Matteo, che comincia con la genealogia, centra l’attenzione su Giuseppe. A lui parlano gli angeli in sogno, è lui l’anello centrale che collega Gesù alla stirpe di Davide. Perché Giuseppe ha questa importanza? I circoli cristiani a cui partecipa Matteo credono nel concepimento verginale di Gesù, ma hanno il problema di come inserire Gesù nella storia ebraica, nella storia delle promesse di Dio fatte ad Abramo (In te saranno benedette tutte le nazioni) e a Davide (Io susciterò sul tuo trono uno che regnerà in eterno).
Come si fa a collocare questo figlio in una genealogia dove i fili sono tenuti dai maschi, dai padri, se Gesù non è figlio di Giuseppe? Matteo risponde, attraverso il suo racconto, che "Gesù è il figlio di Dio ma è anche il figlio legale di Giuseppe". In questo modo collega Gesù alle promesse fatte da Dio a Abramo e a Davide. All’inizio della genealogia Matteo scrive: "Libro dell’origine di Gesù Cristo, figlio di Abramo, figlio di Davide": Gesù è l’erede delle promesse. Alla fine della genealogia, conclude: "Giacobbe generò Giuseppe, il marito di Maria dalla quale fu generato Gesù detto il Cristo". C’è uno scarto. Il racconto dell’infanzia serve a sanare questo scarto. Tutta la narrazione, i simboli, i luoghi, i personaggi vogliono confermare questa origine e collegare la vita di Gesù alla storia ebraica.
Intervengono allora gli angeli: "Giuseppe non pensare che Maria sia infedele, è la potenza di Dio che ha generato in lei il bambino, tu però sei quello che deve prendere Maria in casa, devi dare il nome al figlio e cioè lo devi inserire nella genealogia". Da una parte si afferma l’interesse alla paternità di Giuseppe, dall’altra che è il figlio di Dio. La credenza nel concepimento verginale di Gesù, ai tempi dei primi cristiani, era un modo per dire che lui era il figlio di Dio, era un’espressione di fede sull’identità di Gesù. La sua origine risale misteriosamente a Dio, è lui l’attore che sta dietro alle quinte.
La nascita avviene a Betlemme, dettaglio importante perché era la città di Davide, che conferma la discendenza davidica. Betlemme è il luogo dell’anagrafe di Dio, mentre secondo l’anagrafe umana e giudaica Gesù è il nazareno, nato a Nazaret.
I magi che vengono dall’oriente sono l’immagine dei pagani che vengono da lontano, una immagine che prefigura la missione al mondo pagano.
La fuga in Egitto, dettata in sogno a Giuseppe, e il successivo ritorno a Nazaret, rappresenta la storia del popolo ebraico, che Gesù rivive profeticamente.
Tutta la vita di Gesù incarna la storia nuova del popolo. I racconti dell’infanzia sono espressione di questa credenza in Gesù, figlio di Dio e erede delle promesse abramitiche e davidiche.
(il testo è tratto da un intervento tenuto da Giuseppe Barbaglio nella sede di Oreundici di via Ottaviano a Roma, alcuni anni fa)
Articolo tratto da:
FORUM (121) Koinonia
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Un simbolo sfruttato dalla Chiesa dopo il Concilio di Efeso e nell’offensiva anti Lutero
La Vergine col bambino un’icona contro le eresie
Ma l’immagine fu ereditata dalla dea egizia Iside
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 20.11.2008)
Ancor prima dell’epoca cristiana, l’immagine della «Madre col Bambino» veniva già usata da molte culture con un significato religioso: nell’area mediterranea, per esempio, rappresentava la dea Iside con in grembo il figlio Horus e fu proprio questa iconografia egizia a passare in quella cristiana occidentale attraverso la mediazione dell’Oriente bizantino.
In particolare, dopo il 431, le gerarchie ecclesiastiche cristiane promossero l’immagine della Madonna col Bambino per dare forza alla condanna, votata dal Concilio di Efeso, dell’eresia nestoriana secondo la quale la Vergine non poteva essere chiamata «madre di Dio», ma solo madre di Gesù poiché non aveva generato un Dio, bensì solo il corpo in cui Dio aveva poi preso dimora.
Da quel momento fino al Medioevo nelle chiese cristiane si assiste a una proliferazione delle immagini della Madonna col Bambino (spesso accompagnate dall’iscrizione «Maria Mater Dei» e «Sancta Dei Genitrix») raggruppabili in diverse varianti: la Madonna del latte (dove la Vergine allatta il figlio) è una delle prime iconografie conosciute, fin dalla catacomba di Priscilla del III secolo; la Madonna orante col Bambino (genuflessa e con le mani giunte mentre adora il figlio poggiato su un lembo del proprio manto); la Madonna leggente col Bambino (con in mano il libro della Sapienza); la Madonna del roseto (seduta in un giardino di rose simbolo della verginità della madre di Dio) particolarmente amata nel Nord Europa; la Madonna col bambino in trono (dove Maria personifica la Chiesa), di derivazione bizantina e i cui più antichi esempi in Occidente si trovano nei mosaici di Ravenna.
L’immagine registra poi un secondo grande momento di successo che coincide ancora una volta con un’eresia: quella protestante. A cavallo fra XV e XVI secolo, l’impiego della Madonna col Bambino viene nuovamente incentivato da parte della Chiesa cattolica per fini propagandistici e, dopo la condanna di Lutero, per confutare la dottrina protestante che ridimensionava il culto della Vergine assieme a quello dei santi. In quest’epoca furono soprattutto due i pittori che portarono il soggetto alla gloria: Raffaello e Giovanni Bellini. Il primo perché, noto ammiratore e amante di donne, seppe dare alle sue Madonne grazia e bellezza idealizzate, di una perfezione che incantava e trascendeva qualsiasi modello umano; il secondo perché, sincero credente, nei volti delle sue Vergini dall’aria dolce e domestica ritraeva quello della moglie amata di un amore casto e cristiano.
Nel Rinascimento il culto mariano si era ormai molto diffuso e via via che la devozione popolare si era fatta più appassionata, anche l’iconografia della Madonna col Bambino aveva perso la primitiva ieratica monumentalità per acquisire un tono più tenero. La rigidezza, eredità orientale nella rappresentazione della Madre in posizione frontale con il bambino eretto, vestito e benedicente, aveva lasciato già nel XIV secolo il posto a due nuove varianti dove madre e figlio venivano messi in un rapporto di affettuosità attraverso un gioco di sguardi o di mani: la Madonna dell’Umiltà (in particolare nel-l’Italia settentrionale) e la Mater amabilis, il tipo di rappresentazione più amata fra tutta l’iconografia mariana. È soprattutto per quest’ultima immagine intima e domestica che si sviluppano leggere varianti attraverso l’inserimento di oggetti simbolici. Fra i più frequentati figurano la mela, frutto dell’albero del Bene e del Male: tenuta in mano dal Bambino allude alla redenzione dal peccato originale.
L’uva è simbolo del vino eucaristico e quindi del sangue del Cristo redentore (anche nella variante della brocca che contiene il vino). Analogamente, le spighe sono il pane eucaristico e dunque il corpo di Cristo. La ciliegia, frutto del Paradiso, è simbolo del Cielo; la melagrana, che già nel mondo pagano era attributo di Proserpina, dea che presiedeva alla germinazione, allude alla Resurrezione. La noce, invece, era un complesso simbolismo sviluppato da sant’Agostino, dove il mallo stava per la carne di Cristo, il guscio di legno alludeva alla croce e il gheriglio alla natura divina del Cristo.
E infine l’uccello che, nella pittura cristiana, mantiene il simbolismo che già aveva in quella pagana, ovvero rappresenta l’anima umana che vola via alla morte del corpo. Spesso è un cardellino perché il suo piumaggio colorato lo rendeva particolarmente attraente agli occhi dei bambini e anche perché, secondo una leggenda, la macchia rossa sul capo sarebbe stata un residuo del sangue di Cristo con cui il cardellino si macchiò volando sopra la testa incoronata di spine di Gesù mentre questi saliva al Calvario.
I testimoni di Gesù, le origini del cristianesimo
di Corrado Augias *
Gesù non ha mai detto di voler fondare una religione, una Chiesa, che portassero il suo nome; mai ha detto di dover morire per sanare con il suo sangue il peccato di Adamo ed Eva, per ristabilire cioè l’alleanza fra Dio e gli uomini; non ha mai detto di essere nato da una vergine che lo aveva concepito per intervento di un dio; mai ha detto di essere unica e indistinta sostanza con suo padre, Dio in persona, e con una vaga entità immateriale denominata Spirito.
Gesù non ha mai dato al battesimo un particolare valore; non ha istituito alcuna gerarchia ecclesiastica finché fu in vita; mai ha parlato di precetti, norme, cariche, vestimenti, ordini di successione, liturgie, formule; mai ha pensato di creare una sterminata falange di santi. Non è stato lui a chiedere che alcuni testi, i vangeli, riferissero i suoi discorsi e le sue azioni, né ha mai scritto personalmente alcunché, salvo poche parole vergate col dito nella polvere. Gesù era un ebreo, e lo è rimasto sempre; sia quando, in Matteo 5,17, ha detto: «Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento»; sia quando, sul punto ormai di spirare, ha ripetuto l’attacco straziante del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Davanti a queste incontestabili verità sorge con forza la domanda, la curiosità di sapere: ma allora com’è nato il cristianesimo? Chi e quando ne ha stabilito norme e procedure, riti e dogmi? Gesù non ha mai pensato di rendere obbligatori un comportamento o una verità certificati per decreto. Ha esortato, ha pregato, ha dato l’esempio. Soprattutto, nulla era più lontano da lui di una congerie di leggi, un’organizzazione monarchica, uno Stato sovrano dotato di territorio, moneta, esercito, polizia e giurisdizione, sia pure ridotti - ma solo dopo aspre lotte - a dimensioni simboliche. Torna di nuovo la domanda: ma allora chi ha elaborato tutto questo? perché? quando?
La vicenda del cristianesimo, ricostruita nel suo effettivo svolgimento secondo le leggi della ricerca storica e non della teologia, rappresenta una complessa avventura umana ricca di drammi, di contrasti, di correnti d’opinione che si sono scontrate sui piani più diversi: la dialettica, l’invenzione ingegnosa, la ricostruzione ipotetica di eventi sconosciuti a costo di affrontare i più inverosimili paradossi; l’amore per gli uomini, certo, nella convinzione di fare il loro bene, ma anche gli interessi politici, gli arbitrii e gli inganni; non di rado l’opposizione al mutamento spinta fino allo spargimento di sangue.
In breve: se si esaminano i fatti con la sola ottica della storia, nulla distingue la lenta e contrastata nascita di questa religione da quella di un qualsiasi altro movimento in grado di smuovere coscienze e interessi, di coinvolgere la società nel suo insieme e le singole persone che nella e della società vivono. Sigmund Freud ha scritto nel suo L’avvenire di un’illusione: «Dove sono coinvolte questioni religiose, gli uomini si rendono colpevoli di ogni sorta di disonestà e di illecito intellettuale». Forse l’espressione è eccessiva, nel senso che non sempre e non per tutti è stato così. E, se di disonestà si può parlare, si è spesso trattato di una «disonestà» particolare, concepita cioè per offrire agli esseri umani una consolazione che la vita raramente concede. Di sicuro, però, è vero il reciproco della frase di Freud e cioè che la ricerca storico-scientifica, condotta con criteri rigorosi, obbedendo solo alla propria deontologia, esclude ogni «disonestà», il suo fine essendo di arrivare a risultati certi.
Momentaneamente certi, aggiungo. Certi, cioè, fino a quando altre ricerche, altre scoperte, altri documenti falsificheranno quei risultati per proporne di nuovi. La differenza fra la storia (e qualunque altra attività scientifica) e la teologia è infatti soprattutto in questo: la scienza tende a un instancabile avvicinamento a verità perfettibili, la teologia tende a considerare immutabile la sua verità perfino quando le scoperte della scienza la rendono palesemente inverosimile. La ricerca scientifica e la fede religiosa, il perfezionamento di conferme verificabili e la fiducia in verità assolute si muovono su piani distinti.
Per ognuna delle due ci sono spazio e legittimità nella coscienza e nei sentimenti degli individui, assai meno nel campo delle attività razionali e pubbliche. La verità della politica e della convivenza, fatta di mediazioni e di incontri, è diversa dalla verità della fede, fatta di dogmi immutabili. Il filosofo Rousseau era arrivato a dire: «Il cristiano non può essere un buon cittadino. Se lo è, lo è di fatto, ma non di principio, perché la patria del cristiano non è di questo mondo». Vedremo quanto sia vero tale giudizio e quanto il principio abbia pesato nel momento in cui il cristianesimo lentamente si allontanò dal giudaismo originario per diventare una religione a sé.
Il professor Remo Cacitti insegna Letteratura cristiana antica e Storia del cristianesimo antico alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, materie su cui ha grande competenza. Nel dialogo raccolto in questo libro, egli ricostruisce le vicende che hanno caratterizzato la nascita del cristianesimo secondo i risultati della più attendibile e aggiornata ricerca. Nulla che non sia storicamente verificabile entra nel suo racconto. Non mancheranno quindi al lettore le sorprese, come non sono mancate a me, mentre lo ascoltavo raccogliendo le sue parole. Una narrazione basata su documenti è cosa molto diversa da una costruzione teologica, che per suscitare la fede deve trasformare i fatti, filtrarli attraverso categorie sottratte al controllo della ragione.
Quando e come comincia la nuova fede chiamata cristianesimo? È una domanda alla quale si risponde malvolentieri sia perché non è facile sia perché la materia è controversa, per taluni aspetti imbarazzante, basata su fonti aleatorie. Si può allora provare a formulare la questione in modo diverso: quando si conclude la fase che possiamo considerare originaria, aurorale, di questa religione? Ma soprattutto, per cominciare, a quale metodo si affidano gli storici per cercare di ricostruire con fedeltà le varie fasi degli avvenimenti?
Per la dottrina esiste una data ufficiale di nascita della Chiesa: la Pentecoste. Cinquanta giorni dopo la morte di Gesù, lo Spirito santo si manifestò prima come un vento, poi in forma di fiammelle che si posarono sul capo di ciascuno dei discepoli riuniti in assemblea. Riattualizzando l’originale significato ebraico della ricorrenza (legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio su monte Sinai), la Pentecoste cristiana viene vista come la nuova legge donata da Dio ai suoi fedeli.
Questo nella dottrina. Nella realtà storica le origini della nuova religione sono molto più movimentate e incerte. Le due sole frasi che potrebbero far pensare all’intenzione di Gesù di fondare una sua Chiesa sono o male interpretate («Tu sei Pietro e su questa pietra...») o aggiunte in un secondo tempo al testo originario («Andate e predicate a tutte le genti...»). Per la cerchia dei seguaci la realtà della sua morte - di quella morte - dovette rappresentare uno shock tremendo. L’uomo, il profeta, se si vuole il messia tanto atteso, nel quale avevano riposto ogni speranza, al cui messaggio avevano creduto con pienezza di cuore, era finito su un patibolo ignominioso. Di colpo, tutti coloro che avevano creduto in lui erano diventati complici di un criminale giustiziato. La sventura si era abbattuta su di loro e, nello stesso tempo, il regno dei cieli, da lui annunciato come imminente, tardava ad arrivare. La loro risorsa, la loro salvezza fu rifugiarsi nelle antiche scritture della Bibbia, dov’era detto che i giusti secondo Dio sarebbero stati salvati.
A questa consolazione si aggiunse la notizia che la sua tomba era stata trovata vuota: la salma martoriata era scomparsa. Gesù doveva, dunque, essere risorto a nuova vita. I vangeli affermano con assoluta certezza due cose: che Gesù era realmente morto sulla croce; che molte persone lo videro dopo la resurrezione. Videro, cioè, un essere capace di passare attraverso una porta chiusa, di materializzarsi all’improvviso davanti ai suoi seguaci proprio come fanno gli spiriti, ma anche di mangiare del pesce e di far toccare le sue piaghe come un vero essere umano. Secondo gli storici tali apparizioni non sono vere prove di un ritorno dalla morte, sono invece testimonianze molto convincenti della fede che i suoi discepoli avevano in lui. L’annuncio del risorto cominciò a diffondersi in un territorio sempre più vasto a mano a mano che coloro che avevano creduto in lui presero a viaggiare, utilizzando a fini religiosi la fitta rete di comunicazioni che l’Impero romano aveva creato a scopi militari e di commercio.
Tutte le indagini storiche e archeologiche dimostrano che la nuova religione si sviluppò in luoghi diversi e con modalità differenti a seconda di come il racconto delle parole e delle azioni di Gesù veniva riferito passando di bocca in bocca. Come sostengono gli storici, e conferma con convinzione il professor Cacitti, all’inizio non ci fu un solo cristianesimo, ma diversi cristianesimi che avevano rilevanti diversità l’uno dall’altro, erano più o meno radicali, più o meno vicini all’originaria matrice ebraica. Alcune di queste differenze saranno dottrinalmente composte nel corso dei secoli, di altre continua a esserci traccia anche oggi nelle diverse confessioni che si dicono cristiane.
Corrado Augias
* Fonte: la Repubblica, 30 agosto 2008
Ciao a tutti,
Invece di farsi delle seghe mentali, non sarebbe meglio approfondire lo studio di storici, fortemente contrastato dallle religioni monoteiste, sicuramente interessate? E’ mai esistito cristo, dove e quando? www.Yeshua.it; www.luigicascioli.it; Piergiorgio Odifreddi; Ecc. ecc. Sono mai esistite, all’epoca, città quali Nazaret, Betlemme,Betania, Cafarnao??? ( Sembra di No) Per fortuna Internet non può essere messa all’indice dal signor natzinger!!! Sembra che "eminentissimi teologi" (???) dopo aver accettato un confronto con gli storici, se la siano poi data a gambe levate adducendo la scusa di " non essere adeguatamente preparati" (!!!) Da quest’ultimi non comprerei un’auto usata.... figuriamoci cristi, croci e fedi varie!!!
I soliti venditori di fumo... Sicuramente passerò inosservato e mi sarà dato del terrorista-laicista... ARICIAO
Come credente non sono obbligato a fare una ricerca storica dettagliata sulla figura di Gesù per amarlo e seguirlo, così come quelli che hanno fatto seriamente uno studio a riguardo. La fede in Cristo non è solo adesione alle sue idee, come possono essere state interpretate dai suoi primi discepoli, ma adesione alla persona stessa di Gesù, nato da una Vergine, Maria, a Betlemme e crocifisso sotto Ponzio Pilato. È lui che ci interessa, e a lui guardiamo e ascoltiamo.
Così come Lei, abitando in una casa, non è tenuto a verificare continuamente la solidità delle fondamenta del fabbricato.
Se per Lei il Vangelo è solamente un intreccio di leggende, per molti (oltre due miliardi di persone, 1/3 della popolazione mondiale) è la Parola di Dio ! Un pò più di rispetto non guasterebbe.
Come vede non è passato innosservato...
Saluti cordiali.
biagio allevato
Lettera a Bruno Zanin, una vittima della pedofilia clericale
di Fausto Marinetti *
Caro Bruno Zanin,
grazie per il coraggio di riconoscere di essere un uomo. Non hai paura di te. E neppure "al figlio dell’uomo" fai paura, perché lui, ama ogni figlio d’uomo, qualunque cosa abbia fatto.
Tu non ti riempi la bocca di belle parole come facciamo "noi", uomini di chiesa. Sei quello che sei: "Sì, sì, no, no". Fai parte di quella stirpe, che il Cristo cercava allora come oggi: i pubblicani e le meretrici. E lui ha il coraggio di metterli in prima fila, scandalizzando gli osservanti della legge, i benpensanti, compresi coloro che dicono di "amare la chiesa, perché amano Cristo" (attenzione alla cripto-ipocrisia!). Quelli che antepongono la diplomazia al vangelo, quelli che predicano bene e razzolano male, quelli che impongono agli altri dei pesi che loro non muovono con un dito.
Il tuo coraggio ha dato frutto: altre vittime si sono fatte avanti a raccontare il loro trauma. E’ la riprova della mia ipotesi: se tutte le diocesi mettessero a disposizione un telefono verde, quante altre vittime verrebbero alla luce? Quello che noi vediamo è solo il top dell’iceberg... la "sporcizia" è sotto sotto, ma basta stuzzicarla e viene a galla.
Alcuni hanno rivelato nomi eccellenti, ma sono ancora in "coma emotivo", impigliati nella ragnatela della paura, del tradimento, dell’orrore che li paralizza.
Confessano di non aver neppure la forza di denunciare. Non ne vogliono sapere di andare in tribunale, sarebbe rivivere il Calvario, che stanno tentando di cancellare dalla loro carne. E poi ci sono monsignori intoccabili, una sorta di casta, perché, a volte, si servono delle "opere buone" per coprire i loro delitti. Il brutto è che non sono capaci di gettare la maschera come, invece, fai tu. Ma se è gente che fa professione di fede e di carità; se è gente votata al vangelo, come fa a servire Dio e stuprare i suoi figli? E si fanno chiamare "padri"...
Vedi? Io vengo dal di dentro e conosco certi meccanismi o strategie clericali. Credo che uno dei fattori ai quali imputare questa contraddizione, sia la "troppa verità", che li porta all’arroganza della verità (quella che in passato ha fatto le "sante" crociate, bruciato streghe, condannato Galilei, collaborato con la "conquista" e con la shoà, ecc.). Quanta saggezza nelle parole di Paolo: "Chi sta in piedi non si esalti troppo, perché anche lui può cadere...".
Oh se tutti i Fisichella avessero un po’ di spazio dentro di sé (oltre che per la teologia e il catechismo) per accogliere le vittime! Forse è per la troppa verità di cui sono sazi; forse è per la troppa dottrina, che hanno bisogno di nascondersi dietro agli "operai del bene", che, per fortuna, ci sono ancora tra le loro fila, e spesso tollerati quando non ostacolati, contrariati, ecc.? Tu sai che io sono stato dieci anni con uno perseguitato da loro: Don Zeno, il quale non gliele mandava a dire e, con il suo esempio ha criticato e messo in evidenza certa cultura cattolica che non ha niente a che fare con il vangelo. Non si tratta di virgole, ma di vedere la dignità umana secondo gli occhi e il cuore di Dio. Ti faccio qualche esempio:
1 - La cultura clericale non ha sempre trattato il figlio della ragazza-madre come "figlio del peccato"? E lui ironizzava: "Mai sentito dire che il diavolo abbia fatto dei figli!". Quando veniva accolta in comunità una gestante, ci insegnava che era come un ostensorio della vita e, quindi, dovevamo rispettarla, onorarla e anche venerarla come si venera l’eucarestia.
2 - Nel 1943 all’ombra del Santuario di Pompei trova un istituto con la scritta "Casa dei figli dei carcerati". E lui va in bestia: "Questi bambini non sono i figli dei carcerati, ma i gioielli di Dio Padre, carne battezzata, senza macchia d’origine" (27.2.1943). E quando la comunità verrà sciolta dal braccio secolare, con il beneplacito della S. Sede, circa 700 "figli" sono strappati alle madri e riportati negli istituti, scoppiando dal dolore, dirà: "C’è da meravigliarsi che il clero abbia accettato collegi e orfanotrofi? Un flagello! A Pompei hanno fatto perfino la Casa dei figli dei carcerati. Una scritta a caratteri cubitali. Tu, prete, hai il coraggio di chiamare così coloro, che Dio ha scelto, perché rifiutati dagli uomini? Disprezzati dal mondo è un conto, ma anche dalla Chiesa non è troppo? É lecito commettere di questi guai? Siamo come il sacerdote e il levita della parabola del samaritano. Il Calvario è la storia di Dio nell’umanità e Cristo continua a dire alla Chiesa: Donna, ecco tuo figlio. E alle vittime: Figli, ecco vostra madre".
3- Di fronte a un’Italia alla fame, nel dopoguerra, scrive a Pio XII: "In rerum natura non si sono mai visti i babbi e le mamme benestanti e i figli poveri, affamati, ignudi, senza casa. Si è visto e si vede spesso l’inverso. Noi ecclesiastici, padri per divina elezione, di fronte ai figli siamo quindi contro natura, in peccato, dal quale hanno diritto di difendersi. Vuol cambiare rotta? Io ci sto e chissà quanti ci stanno..." (25.5.1953).
Ma Fisichella crede proprio che basta mascherarsi con le opere buone di madre Teresa per cancellare le migliaia di vittime della pedofilia clericale? Altro che insistere nel dire che si tratta di "casi isolati", di responsabilità personale di alcuni preti che "non dovevano diventare preti"! E quella dei vescovi che li hanno smistati qua e là? E la copertura...
La tua confessione "coram populo" ci invita tutti a gettare la maschera, a riconoscerci semplicemente uomini, a non ritenerci migliori degli altri, perché il nostro vanto è proprio quello di essere della stessa pasta di Adamo, creature fragili e perfettibili. Chi non ha bisogno di farsi perdonare qualche cosa? Perché i prelati non dovrebbero ammetterlo? Per salvare l’immagine? Che cosa è questa benedetta immagine se non, appunto, un’immagine?
Fisichella ha perso un’occasione unica durante la trasmissione di Annozero? Se invece di arrampicarsi sui vetri per difendere a tutti i costi la chiesa, (Cristo non ha bisogno di crociati, vecchi o nuovi), si fosse inginocchiato davanti alla donna stuprata per anni da don Contini, che cosa sarebbe successo? Un’occasione d’oro mancata. Mancanza di coraggio o di fede?
Certo, meglio la diplomazia, l’arte di non perdere la faccia, "l’istituzione va salvata ad ogni costo"! Ma Cristo, altro che faccia...!, non ha perso tutto quanto quando è andato ad "abitare" sul Calvario? Se è vero che vi sta a cuore l’istituzione, perché non prevenire tanto male, tanta aberrazione coltivata nei seminari, tanta cultura sessuofobica, che non vi fa vedere la corporeità, i figli, le donne, ecc. con gli occhi di Dio?
Perché non si ha questo santo coraggio? Perché siamo diventati ecclesio-latri, abbiamo messo la chiesa al posto di Dio? Ma dove esiste nel vangelo il "culto" alla chiesa, al papa, ai principi della Chiesa?
E quanti disastri continua a fare l’idolatria del prete? Cosa non si fa per fargli credere di essere "altro" dal popolo, un diverso, un eletto, un predestinato? Non si è forse elaborata una "dottrina" per metterlo sul piedestallo di Dio stesso?
La teologia distingue tra il sacerdozio di "uomini speciali" e il "sacerdozio comune dei fedeli". Al sacerdote sono affidati poteri essenziali per la salvezza: celebrare l’eucarestia e perdonare in nome di Dio. Il concilio di Trento dichiara: "Se uno dice che nel Nuovo Testamento non c’è traccia visibile del sacerdozio e del potere di consacrare il corpo e il sangue di Cristo e di rimettere i peccati, sia anatema" (n°. 961). Il celibato obbligatorio rinforza la mistica del prete, che lo pone al di sopra dei laici. Quando viene ordinato si unisce a Cristo in tale maniera che è sostanzialmente diverso dagli altri (catechismo, 1581), perché "possiede l’autorità di agire con il potere e nella persona di Cristo stesso" (1548). Viene messo sul pulpito, accanto a Dio, di cui gode onori e privilegi. Il curato d’Ars dice: "Che cosa è un prete? Un uomo che sta al posto di Dio, investito di tutti i suoi poteri. Quando perdona non dice "Dio ti perdoni", ma "Io ti perdono". Se incontrassi un prete e un angelo, prima saluterei il prete poi l’angelo. Questi è amico di Dio, il prete sta al suo posto". S. Teresa baciava dove passava un prete. "Il sacerdote agisce in persona Christi e questo culmina quando consacra il pane e il vino" (Giovanni Paolo II, giovedì santo 2004). La divisione tra preti e laici è di origine divina (can. 207). Ma l’aureola anzitempo gioca brutti scherzi: ti illude di essere costituito in grazia, immune dal peccato, specie da quello banale e volgare del sesso, che spetta ai comuni mortali. Il passaggio dal potere al privilegio, dall’elite alla casta è breve. E così va a finire che il clericalismo distorce, distrugge, avvelena la missione della Chiesa. Se non è la causa di molti problemi, certo li causa per conservare privilegi, potere, prestigio, immagine. Quindi non è ammessa nessuna debolezza, lo scandalo va soppresso, le vittime messe a tacere. Corruzione e abuso inevitabili (cf "Sex, priests & secret codes, R. Sipe, T. Doyle, P. Wall, Los Angeles, 2006).
Se si fa credere al prete di essere "come Dio", è chiaro che questo influisce e condiziona la sua psiche al punto di considerarsi al di sopra della legge umana e inconsciamente si permette delle libertà, che non sono concesse ai comuni mortali.
Non ce n’è abbastanza per riflettere e decidere di cambiare rotta?
* Il dialogo, Sabato, 04 agosto 2007
*Ringraziamo Fausto Marinetti per averci inviato questa sua lettera a Bruno Zanin, una vittima della pedofilia clericale che ha raccontato la sua storia in un libro che fa tremare: "Nessuno dovrà saperlo" dove con raro coraggio ammette, come conseguenza, di essere diventato omosessuale, non pedofilo. Per lui, come per tanti altre vittime della pedofilia dei preti, nessuno muove un dito, neppure le scuse come avviene in America dove le vittime hanno diritto alle pubbliche scuse del vescovo, possono "raccontare" in chiesa il "fattaccio" o scriverlo sul giornale della diocesi. Possono anche giungere ad erigere nella piazza di Davenport, davanti alla casa del vescovo, una macina da mulino con le parole di Cristo: "Chi scandalizza un bambino sarebbe meglio per lui mettersi una macina da mulino al collo e buttarsi nel mare".
Verrà il giorno in cui in piazza S. Pietro, al posto della fontana, si metterà una gigantesca macina da mulino a perpetua memoria delle vittime dei preti?
Nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede
Ribadita la Dominus Iesus
Nuovi ostacoli sulla via dell’ecumenismo
Riportiamo di seguito le notizie dell’agenzia SIR del 10-7-2007 sul nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede dal titolo : "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa" che affronta questioni legate all’ecumenismo. L’attuale documento si muove nel solco della Dominus Iesus che tanta polemica suscitò nel 2000 all’atto della sua promulgazione e che di fatto può considerarsi come il primo atto di Papa Ratzinger quando era ancora Cardinale. Nulla di nuovo dunque, se non la constatazione che il cammino ecumenico si fa sempre più difficile ed impervio. Il nuovo documento può essere letto al seguente link:
10/07/2007 12:00
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “FUGARE VISIONI INACCETTABILI” PER “PROSEGUIRE IL DIALOGO ECUMENICO”
“Un chiaro richiamo alla dottrina cattolica sulla Chiesa”, che “oltre a fugare visioni inaccettabili, tuttora diffuse nello stesso ambito cattolico, offre preziosi indicazioni anche per il proseguimento del dialogo ecumenico, che resta sempre una delle priorità della Chiesa cattolica”. E’ il nuovo documento della Congregazione della dottrina della fede, “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Il testo - 16 pagine, articolate in cinque quesiti a domanda e risposta - intende “richiamare il significato autentico di alcuni interventi dl Magistero in materia di ecclesiologia perché la sana ricerca teologia non venga intaccata da errori e da ambiguità”, in modo da rispondere ad “interpretazioni errate”, “deviazioni e inesattezze”. Punto di partenza, la costituzione dogmatica Lumen Gentium ed i decreti conciliari sull’ecumenismo (Unitatis Redintegratio) e sulle Chiese orientali (Orientalium Ecclesiarum), e gli “approfondimenti e orientamenti per la prassi” offerti da Paolo VI nell’Ecclesiam Suam e da Giovanni Paolo II nell’Ut Unum Sint. Non mancano “puntualizzazioni e richiami” più recenti della stessa Congregazione per la Dottrina della Fede, come quelli contenuti nella Dominus Iesus.
10/07/2007 12:00
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “IL CONCILIO NON HA CAMBIATO LA PRECEDENTE DOTTRINA DELLA CHIESA”
“Il Concilio ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato” la precedente dottrina sulla Chiesa, “ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente”. A ribadirlo è il nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede, “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Nel primo quesito, citando le parole di Paolo VI nel suo discorso di promulgazione della Lumen gentium, la Congregazione pontificia fa notare che “c’è continuità tra la dottrina esposta dal Concilio e quella richiamata nei successivi interventi magisteriali”: anche la Dominus Iesus “ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla”. Nonostante ciò, la dottrina del Concilio, denuncia il dicastero vaticano, “è stata oggetto, e continua ad esserlo, di interpretazioni fuorvianti e in discontinuità con la dottrina cattolica tradizionale sulla natura della Chiesa”, concentrandosi “su singole parole di facile richiamo” e “favorendo letture unilaterali e parziali della stesa dottrina conciliare”. “L’idea di popolo di Dio, la collegialità dei vescovi come rivalutazione del ministero dei vescovi insieme con il primato del Papa, la rivalutazione delle Chiese particolari all’interno della Chiesa universale, l’apertura ecumenica del concetto di Chiesa e l’apertura alle altre religioni”: queste le acquisizioni centrali dell’ecclesiologia conciliare, così come viene delineata nella Lumen gentium. Su tutto, puntualizza la Congregazione per la dottrina della fede, si staglia però “la questione dello statuto specifico della Chiesa cattolica, che si esprime nella formula secondo cui la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, di cui parla il Credo, ‘subsistit in Ecclesia catholica’ (sussiste nella Chiesa cattolica, ndr.).
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10/07/2007 12:01
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “DIVISIONE TRA I CRISTIANI OSTACOLO ALLA PIENA REALIZZAZIONE DELLA CHIESA”
“L’universalità propria della Chiesa, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, a causa della divisione dei cristiani, trova un ostacolo per la sua piena realizzazione nella storia”. E’ una delle affermazioni centrali del nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Il secondo e il terzo quesito, in particolare, si soffermano sull’”unica Chiesa di Cristo, una santa, cattolica e apostolica”, come recita la Lumen gentium. “Secondo la dottrina cattolica - spiega il testo - mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica grazie agli elementi di santificazione e di verità che sono presenti in esse, la parola ‘sussiste’, invece, può essere attribuita esclusivamente alla sola Chiesa cattolica, poiché si riferisce appunto alla nota dell’unità professata nei simboli della fede”. La “preoccupazione” di fondo del documento, dunque, è “salvaguardare l’unità e l’unicità della Chiesa, che verrebbe meno se si ammettesse che vi possano essere più sussistenze della Chiesa fondata da Cristo”. Per i padri conciliari, precisa la Congregazione per la dottrina della fede, “l’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica non è da intendersi come se al di fuori della Chiesa cattolica ci fosse un ‘vuoto ecclesiale’”: al contrario, con l’espressione “subsistit in”, il Concilio ha voluto affermare “da un lato, che la Chiesa di Cristo, malgrado le divisioni dei Cristiani, continua ad esistere pienamente soltanto nella Chiesa cattolica, e, dall’altro, l’esistenza di numerosi elementi di santificazione e di verità al di fuori della sua compagine, ovvero nelle Chiese e comunità ecclesiali che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica”: di qui il carattere “a prima vista paradossale” dell’ecumenismo cattolico, in camino verso “l’unità con tutti i cristiani”. “Il Concilio ha voluto insegnare che la Chiesa di Gesù Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica”, si legge ancora nel testo, in cui il quarto e quinto quesito sono dedicati al rapporto con le Chiese orientali separate, chiamate “Chiese sorelle delle Chiese particolari cattoliche” perché “restano unite alla Chiesa cattolica per mezzo della successione apostolica e della valida eucaristia”, e con le comunità ecclesiale nate dalla Riforma, con le quali “la ferita è molto più profonda”.
IDEE
Il filosofo Spaemann mette in guardia da chi accusa le religioni di fomentare l’odio e il terrore: all’origine dei tre monoteismi vi è una divinità che si rivolge all’uomo attraverso il «logos». La ragione, dunque, appartiene al credente in quanto relazione con l’altro. Chi rifiuta questa dimensione dialogica apre la strada alla conflittualità
Ma Dio non è violenza
«Troppo spesso ancora nel mondo musulmano vince la via sanguinaria. Anche l’islam deve intraprendere la strada del dialogo comune»
di Robert Spaemann (Avvenire, 18.07.2007)
Non è un caso che il discorso di Regensburg abbia aperto un controverso dialogo con l’Islam. Senza il colpo di avvertimento costituito dalla citazione di un imperatore bizantino, più di trenta famosi professori islamici forse non avrebbero mai pensato di accettare l’invito al dialogo, di prenderlo sul serio, di rispondere gentilmente e di cominciare subito ad avanzare delle critiche invece dei soliti scambi di cortesie. Che altri musulmani abbiano reagito con un atto di violenza sanguinaria conferma che la questione del rapporto fra fede e violenza resta per l’Islam un problema aperto. Il Papa ha facilitato l’apertura di un dialogo serio ammettendo senza infingimenti apologetici che anche la cristianità ha avuto questo problema per tanto tempo e che spera che l’Islam compia lo stesso processo di apprendimento che ha compiuto la Chiesa. Oggetto di tale dialogo sarà verificare se il Corano favorisca un tale processo allo stesso modo del Nuovo Testamento. Metterlo inizialmente in dubbio fa parte di un onesto inizio di dialogo.
Ci si potrebbe chiedere perché bisogna discuterne e forse scontrarsi. Se i musulmani avessero un altro Dio rispetto ai cristiani un tale scontro sarebbe privo di senso. I cristiani potrebbero solo ribadire che non credono all’esistenza di quel Dio. In effetti tanti cristiani ritengono che Allah sia un altro Dio rispetto a quello dei cristiani. Se fosse così non avrebbe alcun senso scontrarsi rispettosamente su come si debba pensare e parlare correttamente di Dio. Ma in conformità col suo grande predecessore medievale Gregorio VII e col Concilio Vaticano II, Benedetto XVI parte dal presupposto che gli ebrei, i cristiani e i musulmani pregano lo stesso Dio uno e unico.
La lezione magistrale di Regensburg parla soprattutto della differenza che nel mondo di oggi salta agli occhi. Essa riguarda il tema «Dio e violenza». Ricollegandosi alle riflessioni di un imperatore bizantino, il Papa collega questo all’altro tema: «Dio e ragio ne». La ragione è quello step beyond ourselves la cui possibilità la modernità nega. Ho cercato, riferendomi a Nietzsche, di mostrare che questa possibilità dipende dall’esistenza di Dio e proprio di un Dio che nella sua essenza è luce. La ragione dunque non è uno strumento di sopravvivenza dell’homo sapiens, ma partecipazione alla luce divina e un vedere il mondo in questa «luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9). Questa luce, come dice Platone, fa vedere il bene come il koinon, «ciò che è comune a tutti» (cfr. Platone, Fedone). Non a caso Eraclito parla a questo riguardo del logos, e logos significa anche «parola».
Soltanto attraverso la parola, soltanto attraverso la lingua, attraverso il parlare con gli altri, noi ragioniamo. La violenza però è l’esatto contrario del parlare con gli altri. Lo scopo del discorso è l’intesa tramite la comune sottomissione al criterio del vero, lo scopo della violenza è la sottomissione dell’altro alla volontà di colui che si dimostra fisicamente più forte. Michel Foucault, che nega l’intelligibilità del mondo, deve di conseguenza minimizzare la differenza tra dialogo e violenza. Siccome non esiste un qualcosa che sia verità, anche nel dialogo può trattarsi solo di misurare le forze nella lotta per il potere. Così già pensavano d’altronde i sofisti con i quali si scontrò Socrate. Soltanto quando si dà verità come koinon si dà un’alternativa alla violenza. Il criterio della forza fisica non ha nulla a che fare con quello della verità. E la vittoria nello scontro violento solo per caso può anche essere la vittoria del migliore. C’è la forza legittima dello Stato, la cui ragione risiede nell’impedire la violenza tra gli individui, c’è la forza legittima del potere statale per la difesa contro la violenza di un’ingiusta aggressione. Ma lo scatenarsi della violenza, la trasformazione del dialogo in violenza è semp re il fallimento della ragione, e la probabilità che una situazione violenta possa essere migliorata con la violenza è scarsa.
Ma è soprattutto la violenza nel nome di Dio che è condannata inequivocabilmente da Benedetto XVI. Dio come Signore della storia agisce attraverso tutto ciò che succede e anche la violenza dei violenti alla fine dovrà servire al Suo scopo. Ma lo serve solo come tutto ciò che è malvagio. La Sua volontà è fatta sempre e dappertutto. Non deve chiedere il permesso. Ma non dappertutto sulla terra succede come in cielo, e cioè attraverso il conformarsi della volontà degli angeli e degli uomini alla volontà di Dio. Mefistofele, nel Faust di Goethe, confessa di essere parte «di quella Forza che sempre vuole il male e sempre il bene crea». Noi preghiamo affinché la volontà di Dio non sia fatta sulla terra così, ma «come in cielo», e questo significa anche: non tramite la violenza. Anche il popolo di Israele, a questo riguardo, ha compiuto un processo di apprendimento che si conclude soltanto con Gesù. E nonostante questa conclusione, la cristianità nel Medioevo ha creduto ancora di dover punire con pene temporali fino alla condanna a morte almeno l’apostasia e l’eresia: un punto di vista che vige ancora oggi nei Paesi islamici.
Ma non si può costringere a rimanere nella luce con i mezzi delle tenebre. Laddove dei cristiani vengono perseguitati in quanto cristiani, essi, seguendo il loro Signore, rinunciano a restituire la violenza. Dove dei cristiani, d’altronde, difendono legittimamente la civitas terrena in qualità di cittadini di essa, sanno che il processo della violenza, nei suoi esiti, è indifferente alla giustizia e all’ingiustizia. Non si presenteranno dunque in nome di Dio e in nome del bene per punire i cattivi e terranno l’odio che avvelena l’anima fuori dallo scontro. Dove vige la violenza, la ragione tace e l’unica forma della sua perdurante presenza può essere soltanto quel rispetto dei nemici che anticipa già la riconciliazione.
Non sempre possiamo decidere se avere o no nemici. A volte può essere giusto smitizzare l’idea del nemico, a volte no. Dobbiamo verificare l’idea che abbiamo del nemico confrontandola con la realtà. Ma ciò che invece possiamo decidere è di chiedere la forza di amare i nemici. Tale forza trasforma lo status della violenza che si oppone a Dio ed è il suo modo supremo con cui la luce può illuminare le tenebre, la luce della ragione e dell’amore, il cui massimo testimone è nel nostro tempo Papa Benedetto XVI.
IL DIBATTITO
Dopo Ratisbona, quale dialogo tra le fedi?
Il richiamo alla ragione che Benedetto XVI ha fatto nel discorso di Ratisbona ha suscitato un dibattito molteplice e anche incomprensioni forzate, sebbene il discorso del Papa fosse incentrato sulla necessità di un dialogo che abbia come riferimento il criterio della verità. Su questo ora prendono la parola cinque intellettuali nel volume «Dio salvi la ragione», edito da Cantagalli, che, oltre al testo di Benedetto XVI, presenta gli interventi di Wael Farouq, André Glucksmann, Sari Nusseibeh, Robert Spaemann e Joseph H.H. Weiler. Dal volume, pubblichiamo alcuni stralci del saggio del filosofo Robert Spaemann (nella foto), incentrati sulla questione del presunto rapporto fra religione e violenza.
VATICANO: CHIESA CATTOLICA UNICA VOLUTA DA CRISTO
(di Elisa Pinna) *
Cristo ha "costituito sulla terra un’unica Chiesa", che si identifica"pienamente" solo nella Chiesa cattolica: è quanto ribadisce un documento pubblicato oggi dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, che però riconosce alle altre confessioni cristiane, e in particolare agli ortodossi,"numerosi elementi di santificazione e verità".
La nuova nota dottrinale, firmata dal Prefetto del Dicastero vaticano per la fede, lo statunitense William Levada, ed approvata da Benedetto XVI lo scorso 29 giugno, è un testo agile, con stile didascalico, di una quindicina di pagine, diviso in tre parti: una prefazione, una sezione dialogica con cinque risposte ad altrettanti quesiti, e un articolo di commento. Il titolo è "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa". Scopo dichiarato del libriccino è quello di sgombrare l’orizzonte teologico dalle tante confusioni e interpretazioni "infondate" che si sono accumulate negli anni attorno al documento conciliare ’Lumen Gentium’ (1963) e in particolare su un passaggio in cui i padri conciliari affermano che ’la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica’. In tale pronunciamento, alcuni studiosi cattolici - tra cui é citato esplicitamente il brasiliano Leonardo Boff - hanno visto la possibilità che la Chiesa di Cristo "sussista", con pari pienezza, anche in altre chiese cristiane, oltre che in quella romana. Si tratta - puntualizza il documento della Congregazione per la Fede - di "interpretazioni infondate", "inaccetttabili", che hanno "frainteso" l’insegnamento dottrinale del Concilio Vaticano II. La parole ’sussiste’ - afferma il testo - "può essere attribuita alla sola Chiesa cattolica", che presenta "perenne continuità storica" e "la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo". Nonostante questo dato di principio, il documento apre la porta dell’ecumenismo: benché le altre chiese cristiane abbiano alcune "carenze" (in particolare il fatto di non riconoscere il primato del Papa su tutti gli altri vescovi), esse "non sono affatto spoglie di significato e di peso" nel "mistero della salvezza". "Infatti - si afferma in uno dei passaggi chiave - lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come strumento di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica". Inoltre - puntualizza la nota in un’altra frase di rilievo ecumenico - "sarà sempre necessario sottolineare che il Primato del successore di Pietro, Vescovo di Roma, non deve essere inteso in modo estraneo o concorrente nei confronti dei vescovi delle chiese particolari".
La nota del Vaticano ribadisce, sulla scia dello spirito conciliare, che il titolo di "Chiese particolari" spetta alle diverse comunità nazionali ortodosse, accomunate alla Chiesa cattolica dal riconoscimento del sacerdozio e dell’eucarestia. Viceversa le comunità protestanti, nate dalla riforma luterana del sedicesimo secolo, non possono essere considerate, dalla dottrina cattolica, "chiese in senso proprio", in quanto non contemplano il sacerdozio e non conservano più in modo sostanziale il sacramento dell’Eucarestia. Nessun accenno, nel documento, all’ebraismo e all’Islam. Del resto sarebbe stato fuori luogo perché si tratta di un testo tutto interno alla dottrina cristiana e alla riflessione teologica innescata dal Concilio vaticano II.
* ANSA» 2007-07-10 16:28
Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione
di ADISTA *
Importante iniziativa di Adista che ha tradotto e messo a disposizione gratuitamente il libro "Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione" edito dalla Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo, in risposta alla notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino.
Care lettrici, cari lettori,
segnaliamo un’importante novità sul nostro sito. Si può leggere finalmente anche in italiano, scaricandolo gratuitamente dalla home page di www.adista.it, il libro digitale "Bajar de la cruz a los pobres: cristología de la liberación" ("Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione") della Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo.
La traduzione italiana, curata da Adista, dell’originale spagnolo (che, insieme alla traduzione in inglese, è disponibile agli indirizzi www.eatwot.org/TheologicalCommission e http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales) è presentata dal teologo Carlo Molari e presenta due contributi in più: di Aloysius Pieris e dello stesso Molari (è possibile leggere l’originale )
Il libro della Asett è la risposta di circa 40 teologi della liberazione alla Notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino (autore dell’epilogo del libro), ma non solo: è una difesa, appassionata e potente, della cristologia della liberazione, quella che Leonardo Boff, nel prologo, definisce "una teologia militante che lotta per ’far scendere dalla croce i poveri’".
È questa voce potente quella che è oggi offerta anche al pubblico italiano, attraverso un nuovo metodo che l’Asett ha voluto sperimentare: quello di un libro digitale, libero e gratuito, che, scrive José María Vigil, coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della Asett/Eatwot, "può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento della "stampa digitale", un metodo che permette di stampare su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20...), a un prezzo praticamente uguale a quello di un libro normale".
Per scaricare il libro, clicca qui
* IL DIALOGO, Mercoledì, 06 giugno 2007
E’ ancora polemica dopo le parole pronunciate ieri dal palco di San Giovanni
Il quotidiano parla di "guerra strisciante, di nuova stagione della tensione"
Concertone, il Vaticano all’attacco
L’Osservatore: "E’ terrorismo"
Rivera: "Sovrano è il popolo non gli organizzatori del concerto" *
ROMA - L’Osservatore romano giudica "vili attacchi" quelli pronunciati dal palco durante il Concertone di ieri a Roma e paragona le parole di Andrea Rivera, uno dei conduttori, ad un gesto di "terrorismo". Dal palco di San Giovanni Rivera, aveva attaccato il Papa "che non crede nell’evoluzionismo". "La chiesa non si è mai evoluta. Non sopporto che il Vaticano abbia rifiutato i funerali di Welby. Invece non è stato così per Pinochet, per Franco e per uno della banda della Magliana" aveva scandito dal microfono.
E oggi, dopo le critiche al conduttore espresse dai sindacati e dal direttore di Raitre, scende in campo anche il quotidiano della Santa Sede che equipara le parole di Rivera ad un atto "terroristico": "E’ terrorismo alimentare furori ciechi e irrazionali contro chi parla sempre in nome dell’amore. E’ vile e terroristico lanciare sassi questa volta addirittura contro il Papa, sentendosi coperti dalle grida di approvazione di una folla facilmente eccitabile".
Al concerto dei sindacati, denuncia l’Osservatore, si è tenuto "un piccolo comizio, dando vita ad un confuso e approssimativo discorso sull’evoluzionismo e sui temi della vita e della morte. Tutto questo di fronte a circa 400.000 persone e ad un più numeroso pubblico televisivo". Ed anche se, "i sindacati ed altri partecipanti alla manifestazione si sono dissociati dalle parole del conduttore, resta il fatto - rileva il quotidiano vaticano - che questo personaggio da qualcuno è stato scelto. E chi l’ha scelto non ha tenuto conto del momento che stiamo vivendo".
"Sono di queste ore - ricorda il quotidiano vaticano - gli attacchi e le minacce, pesanti, rivolte al Presidente della Cei, l’arcivescovo Angelo Bagnasco, a cui è arrivata l’apprezzata solidarietà del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sono di queste ore anche gli slogan nei cortei inneggianti ai terroristi, i messaggi che appaiono su internet, provenienti da br in carcere, un’offensiva che cerca di trovare terreno fertile nell’odio anticlericale".
"Qualcuno vuole aprire una guerra strisciante, una nuova stagione della tensione, dalla quale trae ispirazione chi cerca motivi per tornare ad impugnare le armi, per rivitalizzare organizzazioni che hanno perso su tutti i fronti, primo fra tutti quello della storia. Anacronismi. Come quella presenza sul palco a san Giovanni. Un residuato in mezzo a tanti giovani".
Ma Rivera non arretra di un millimetro. "Per me è sovrano il popolo e non gli autori del concerto - dice dai microfoni di ’Radio Capital’ - Voglio dare voce alla gente comune che non può mai dire in tv quel che pensa". Ipocrita è stata poi definito il riferimento ai funerali negati a Welby dalla Chiesa. "Non è forse vero che a Welby sono stati negati i funerali concessi invece a Pinochet? Chi è allora - ha concluso Rivera - l’ipocrita?".
* la Repubblica, 2 maggio 2007
Welby, salviamo il dottor Riccio
di Furio Colombo *
Ci sono molte ragioni - umane e civili - per non dimenticare il caso di Piergiorgio Welby, la sua sofferenza, la sua residua ma forte voce che non ha smesso richiedere agli esseri umani che gli stavano intorno di intervenire e di porre fine, per dovere morale e secondo la legge, al suo disumano dolore.
Qualcuno lo ha fatto. Lo ha fatto l’appello ostinato dei radicali, di Marco Cappato, a cui in molti ci siamo uniti, medici, giuristi, politici, cittadini di tutta Italia.
Uno di loro, uno di noi, il medico anestesista Mario Riccio, lo ha fatto.
Seguendo scrupolosamente il poco che le norme italiane indicano e consentono per rispettare la dignità e la volontà di una persona che non può più soffrire, il Dottor Riccio ha fermato la macchina-tortura che stava comunque portando Welby alla morte, però più lenta, più indecorosa, capace solo di alimentare un dolore sempre più grande.
Ora - nonostante la richiesta di archiviazione del Procuratore della Repubblica e del Procuratore Generale di Roma, il Tribunale della stessa città annuncia di voler processare il medico e lo accusa di omicidio di persona consenziente, cioè di reato gravissimo. Non diremo che la decisione annunciata - se presa - avrà un fondamento teologico e non giuridico, per il rispetto sempre dovuto alla Magistratura.
Diremo che è tempo per tutte le persone guidate da un senso di umanità e solidarietà di essere presenti, attive e impegnate a sostenere due cause: la dignità del malato Welby, che aveva chiesto a lungo e invano - come in un film dell’orrore - che si ponesse fine alla sua sofferenza.
E l’atto di umanità da medico e da cittadino, compiuto a nome di tutti noi, dal medico Riccio, in base alla sua conoscenza, competenza e coscienza.
Chi di noi ha provato gratitudine - e anche riscatto per la propria incapacità di accorrere in aiuto - quando il Dottor Riccio è intervenuto, adesso ha l’impegno di essergli accanto e sostenerlo.
È giusto scrivere queste cose sul giornale di quella sinistra che della solidarietà, del soccorso, della dignità, del rispetto della persona e dei suoi diritti fondamentali ha sempre fatto la sua bandiera.
Propongo al nostro giornale di aprire una sottoscrizione: un fondo di difesa per sostenere al livello più alto le ragioni umane morali e civili che hanno guidato il Dottor Riccio nella sua decisione e nel suo intervento che ha posto fine al dolore.
In un mondo impegnato - anche con le sue migliori risorse tecnologiche - a creare dolore, occorre difendere Riccio ma anche il simbolo alto di ciò che ha fatto. Contribuisco a questo appello con 1000 euro. Ma anche un solo euro sarà contributo di testimonianza dovuta. È una buona, nobile, umanissima causa in cui nessuno deve tacere.
* l’Unità, Pubblicato il: 03.04.07, Modificato il: 03.04.07 alle ore 10.27
Un granello si sabbia in memoria di Piergiorgio Welby E se la sabbia del deserto fosse la Verità? Chi può asserire di conoscere l’architettura di un granello di sabbia in tutta la sua macrocosmica grandezza ed in tutta la sua microscopica infinitesimale dimensione? E se così fosse, avrebbe scoperto la natura della sua essenza e del suo divenire? E se la mente fosse il deserto di sabbia? La coscienza vigile, attenta, pensante, decisionale, serena o turbata, sana o malata, lucida o offuscata, razionale o irrazionale, libera o condizionata, quanta parte occuperebbe nel deserto della mente? Io dico: lo spazio di un granello di sabbia per l’uomo “comune” e per il genio, il poeta, l’artista, lo scienziato, il santo tanta sabbia quanta ne può essere contenuta in un pugno.
Ed ecco come una parte della verità sta in tutte le ragioni così come la ragione contiene sempre una parte della verità, sia del laico che del religioso. Ma quanta? Prendi un pugno sabbia dal deserto: questa è la porzione di verità che ti offre la tua mente cosciente e la chiesa del tuo tempo. Il “farsi suicidare” da una condizione alterata della mente cosciente non sarà mai la decisione di un libero arbitrio padrone assoluto del Regno della Mente, ove risiedono tulle le più sublimi ed inimmaginabili virtualità. Laddove l’Individualità dell’Io più profondo, si ricongiunge con la matrice che l’ha emanato e ad essa identificandosi ne acquisisce, in potenza, attributi e divinità. E la vita terrena di Piergiorgio programmata per sua libera scelta nella notte dei tempi ed intensamente vissuta in un attimo della sua eternità, anche se interrotta per le ragioni di un pugno di sabbia, nulla toglie ma molto aggiunge alla sua ricchezza spirituale d al suo cammino evolutivo nel ritorno al Padre attraverso quella scala di valori di cui tanta ne ha percorsa nella sua breve vita di quanto l’umanità nella maggioranza ne percorre in un secolo. E questo è l’autentico patrimonio di Piergiorgio. Per il resto: delitto o non delitto, che l’ UOMO rifletta!
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Un altro granello di sabbia per Piergiorgio Welby Caro Piergiorgio, anche io ho provato commozione per la tua sensibilità e per l’amore che hai nutrito per la vita e per tutti. Generalmente chi nutre tanto amore per gli altri ne ha un po’ meno per se stesso. Rispetto la tua volontà anche se rimango della convinzione che il tuo “Spirito” - la mente profonda - è rimasto ad osservare senza intervenire, con la “Sua autorità”, alla premeditata decisione. Certo non te ne sei andato in silenzio. A meno che, e ora ne sono convinto, l’abbia fatto di proposito per attirare l’attenzione del mondo scientifico, perchè all’uomo non serve l’accanimento ma la scoperta del farmaco, la prevenzione e la guarigione. Una provocazione? No! Una accusa precisa al “progresso”.
Si spacca l’atomo, si va sulla luna, si configurano e si organizzano miliardi e miliardi di informazioni in un piccolo monitor , che tutto lo scibile umano si chiami internet, si investono miliardi e miliardi per il benessere, per lo sport, la tecnologia.......e non si dirotta la maggior parte di tutte queste risorse per debellare la fame, le guerre e le malattie. Mille, centomila scienziati dovrebbero essere rinchiusi in un bunker per uscire solo quando avrebbero risolto i problemi che affliggono l’uomo. E che nessuno mi dica che è impossibile. Niente è impossibile all’uomo, se lo vuole. E’ per questo che Cristo andò sulla croce, che il martire si fa Santo, che tu riscatti tutti i Piergiorgio che giacciono non in attesa che la legge li uccida, ma che l’UOMO LI GUARISCA.
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Una bara bianca per Piergiorgio. A Loredana che mi ha inviato la canzone di Simone Cristicchi. Grazie del commento e del testo della canzone. Rispetto la tua riflessione su welby ed è molto poetica la canzone. Ma l’autore è sano e pieno di vita e... di successo, mentre Piergiorgio era solo tra tante ombre oscure, immerso e perduto nei suoi pensieri. Anche lui ha scritto dei bellissimi versi poetici, toccanti e pieni di amore per la vita e per il mondo intero. E quando Piergiorgio scriveva era pieno di vitalità, di voglia di vivere, e anche con la sua sofferenza "correva" incontro alla vita. Ne sono convinto. Uno Spirito elevato che sa di poter dare tanto, non decide di negare agli altri e a se stesso le perle della sua stessa saggezza. Tutto quanto, invece, girava attorno a lui, amici, familiari, medici, politici era un elogio alla morte, un’attesa, un atmosfera lugubre e pregna di energia negativa. Nessuna esortazione alla vita, ma uno squallido movimento mediatico e politico. La camera della morte allestita da tempo. E il Gesto non s’è fatto attendere. Un boia laureato per l’occasione e pochi intimi corvi neri furono le ultime immagini che i begl’occhi di Piergiorgio furono costretti a vedere mentre gli porgevano la cicuta. Nessuno dei presenti avrà pianto. Le lacrime sono venute da chi non l’ha conosciuto.
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Io ho pianto. Ho pianto mentre scrivevo quest’ultima provocazione, perché sono emotivo e perché so di non essere compreso, questo poi credo che sia un mio karma. Io non sarei mai capace di pensare di dire: ti amo, ti amo da morire ma ti tolgo la vita per il tuo bene, per non farti soffrire e perché tu me lo chiedi. Qualcuno “grande più di tutti noi”ebbe a gridare nella sofferenza della croce: “Padre mio perché mi ha abbandonato”. E che vuol dire? Che l’aveva con Dio, che lo lasciava morire invece di salvarlo? Che non voleva morire dopo che era venuto sulla terra e programmata la sua vita ed in particolari la sua morte? Ed ancora ai suoi carnefici: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” E che vuol dire? Che la morte che stavano per dargli era tanto grave da non riconoscersi il diritto del perdono e invitava il Padre a farlo. Non c’è perdono umano per chi si arroga il diritto di togliere la via di un uomo per nessun motivo. Ed io non smetterò di scrivere provocazioni su provocazioni che hanno un unico obiettivo: Che l’Uomo rifletta!
Un granello di sabbia di “K” ai lettori di la voce di Fiore “Chi sa di essere fratello dal fondo dell’anima, costui sentirà il soffio del buon vento ciò che altri non potranno. Allora si leverà e, andando, potrà ben vedere come si scala una montagna coi denti. Dopo, potrà dirne al mondo ogni meraviglia e sarà ascoltato”.
Buona Pasqua da Michelangelo
I sondaggi "truccati" del Corriere
Sondaggi sul Corriere online “truccati”? Sembrerebbe proprio di sì a giudicare da questa esperienza. Alla fine di dicembre ho seguito con attenzione il sondaggio proposto che riguardava l’uomo dell’anno, dove Benedetto XVI era saldamente in testa. Senonché all’improvviso si nota una clamorosa rimonta di Piergiorgio Welby, piuttosto sospetta. Decido così di monitorare attentamente il sondaggio, e cosa accade? Tra la sera del 31 dicembre e la mattina del 1 gennaio, nell’unica notte in cui si può essere sicuri che la gente pensi ad altro, le preferenze per Welby raddoppiano, da 30mila a 60mila. Impossibile. A meno che.... A meno che si usino dei trucchetti: il primo possibile, e più semplice, è quello di eliminare i “cookies” dal proprio browser ogni volta che si vota. In questo modo si può votare tutte le volte che si vuole. Ma oggi molti sistemi si difendono da questo trucco e riconoscono l’indirizzo IP del computer; ecco perciò che ci sono in circolazione dei programmi in grado di moltiplicare gli indirizzi IP da cui far partire i voti. Un sistema più complesso, ma per chi è esperto è un giochetto da ragazzi, ed è anche più veloce.
Il sondaggio del Corriere è dunque stato evidentemente falsato da chi voleva intenzionalmente screditare il Papa, usando allo stesso tempo in modo strumentale la figura del defunto Welby per creare un consenso pubblico attorno all’eutanasia.
Scritto da: Bruno Mardegan il 9-1-2007 su il timone.org
Per il cardinale Martini la Chiesa doveva ascoltare Welby
di Anna Tarquini *
«Bisogna rispettare la volontà dei malati. E a situazioni come quelle di Welby la Chiesa dovrà dare più attenta considerazione anche pastorale». Per il cardinale Martini la Chiesa ha sbagliato. Doveva ascoltare Welby, e non negargli il funerale. Alla vigilia degli ottant’anni, malato di Parkinson, l’ex cardinale di Milano in un coraggiosissimo articolo pubblicato ieri dal Sole 24 ore, domanda nuove leggi chiare per consentire al malato di scegliere come morire e al medico di limitare la terapia. E cita il catechismo che sul tema è chiaro: non vuole accanimento terapeutico. Dice Martini: «Situazioni come quelle di Piergiorgio Welby saranno sempre più frequenti... La crescente capacità terapeutica della medicina che consente di protrarre la vita... richiede un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona».
E ancora: «Bisogna distinguere tra eutanasia e accanimento considerando la prima un gesto per abbreviare la vita e il secondo la rinuncia all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate». Dice Martini che c’è «l’esigenza di elaborare una normativa», «che non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete, anche dal punto di vista giuridico,salvo eccezioni ben definite, di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate», che «bisogna anche proteggere il medico da eventuali accuse senza che questo implichi la legalizzazione dell’eutanasia».
Per molti sono parole che sbrogliano una matassa. Così Bersani: «Vorrei che l’Italia si fermasse un attimo e leggesse le sue parole». Le ha lette Ignazio Marino, presidente della commissione sanità in Senato (intervista a fianco). Ma non tutti sono pronti a leggere quelle parole. Come la senatrice Binetti ad esempio, che dell’intervento di Martini, ha preferito dare spazio ad alcune parole oscurandone altre. Così per lei diventa «chiara la condanna dell’eutanasia e non c’è nessun riferimento al testamento biologico, mentre chiede di garantire a tutti la buona sanità». O Castagnetti che parla di «un intervento che apre una riflessione, non all’eutanasia».
L’intervento di Martini arriva a un mese dalla morte di Welby, ma anche a pochi giorni da altri due casi che in Europa hanno fatto scandalo. Parliamo della richiesta di eutanasia fatta dalla ex moglie del regista Ingmar Bergman (eutanasia negata in un Paese, la Svezia, dove in alcuni casi è consentita dalla legge) e di quella invece accettata e portata a termine da Madeleine, la musa di Jaques Brel, che in Spagna ha ottenuto di morire prima che la sclerosi la immobilizzasse in un letto. Sono due casi che ricordiamo perché proprio ieri, in contemporanea, mentre sul Sole 24 ore il cardinale Martini apriva alla volontà del malato di scegliere o rifiutare la cura, il quotidiano dei vescovi, l’Avvenire, metteva sotto accusa gli episodi tacciandoli di spettacolarizzazione. «Come inscenare un finto plebiscito» era il titolo dell’editoriale. «Da Welby a Madeleine la modernizzazione soffia simmetrica e come coordinata. Mediaticamente trascinati, attraverso i buoni sentimenti e la pietà e anche gli equivoci, verso quella dittatura della maggioranza che Toqueville definiva la tendenza a non pensare più».
* l’Unità, Pubblicato il: 22.01.07, Modificato il: 22.01.07 alle ore 14.00
La profezia di Welby
di Enzo Mazzi *
La critica verso il rifiuto opposto a Welby dalle gerarchie ecclesiastiche fino a negargli i funerali religiosi sta montando anche nella Chiesa cattolica, anzi direi proprio in questa. È stato sfigurato di fronte al mondo il volto della «sposa di Cristo», madre accogliente. E Dio stesso ha subito una penosa violenza direi quasi blasfema. È stato ingabbiato dall’intransigenza del Vicariato di Roma in una immagine quanto meno dimezzata e quindi falsata, come il Dio dell’onnipotenza, unico padrone della vita e della morte, giudice inflessibile banditore di una legge impietosa ed escludente. Mentre è stato oscurato il Dio che nasce in una stalla, soffre e muore nella maledizione, espulso dalla città, con le braccia aperte quasi in un abbraccio universale di tutti i maledetti. Hanno ragione Padellaro e Colombo a chiamare in causa l’assenza di Cristo, del Cristo della croce, se ho ben capito il senso profondo dei loro editoriali del 27 dicembre.
La vicenda di Welby è profetica: dice l’impotenza delle cattedre religiose di fronte ai drammi delle persone in carne ed ossa. Ma parla anche a tutti noi, incapaci finora di costruire una convivenza sociale accogliente verso il dramma di Piergiorgio, che è il dramma condiviso da molti nelle stesse sue condizioni. Dice che è distorto il nostro rapporto con la natura, con la vita e con Dio stesso. La profezia di Welby ha fatto affiorare una questione fondamentale anche per la nostra epoca, sepolta nel profondo, annegata nelle parti oscure della nostra coscienza. Un po’ come è accaduto duemila anni fa con la profezia di Gesù, quando morente emette il grido pieno di angoscia e di mistero, soffocato dagli spasmi della crocifissione: «Dio mio perché mi hai abbandonato». Quel grido è risuonato nella storia facendo ogni volta riemergere il bisogno e la ricerca di un Dio «diverso» da tutte le codificazioni dogmatiche isterilite e divenute inutili anzi dannose, violente e distruttive. Forse la riflessione su un Dio «altro» va rivolta anche alla ricerca di un concetto «altro» di natura. Abbiamo bisogno di guardare la natura con occhi nuovi. Ci può esser di aiuto avvicinare l’esperienza di Pierre Teilard de Chardin, gesuita, teologo con propensione al misticismo, grande scienziato, geologo e paleontologo. Gli fu proibito dall’autorità ecclesiastica di pubblicare gli scritti teologici e dopo la morte furono condannate le opere pubblicate postume. La sua intuizione di fondo sembra essere il «muoversi verso», cioè la trasformazione finalizzata. Attraverso la sua indagine di rigore scientifico sulla evoluzione biologica giunge alla convinzione che la Biosfera tende alla coscienza, cioè si evolve verso la Noosfera, parola difficile che significa in sostanza «mondo della coscienza». Ma ciò avviene non perché già all’inizio c’è un ordine precostituito. La natura non è data una volta per tutte. L’evoluzione non segue una linea ben individuabile, si muove anche a tentoni, a strappi e a impennate inspiegabili. L’ordine è nel futuro, non nel passato: va costruito. L’Universo si dipana nella libertà e nell’autonomia nutrite di relazioni. E sono precisamente questi valori di trasformazione che costituiscono il compito umano di «costruire la Terra - costruire la natura». Dio è lì, nella trasformazione, non nella fissità. Nello stesso periodo, anni 50, sosteneva cose simili Ernst Block, marxista antidogmatico ed eretico, autore del Principio-speranza: «Il nerbo del retto concetto della storia è e rimane il novum. Quando si è sperimentata una volta la realtà come storia non è più possibile il ritorno alla fede astorica di ciò che sussiste e rimane in eterno».
E siamo al dunque finale. Oltre a guarire la percezione della natura, abbiamo bisogno contestualmente di guarire anche la nostra malata percezione del rapporto fra vita e morte. Noi percepiamo la morte come separata dalla vita, anzi contrapposta alla vita. In particolare il cristianesimo ci ha abituati fin da piccoli a considerare la morte come punizione per il peccato: «a causa di un solo uomo (Adamo) il peccato è entrato nel mondo e col peccato la morte e la morte si è estesa a tutti perché tutti hanno peccato» (Lettera di Paolo ai Romani). La Chiesa indefettibile assicura la vittoria definitiva sul nemico assoluto che sarebbe la morte, dando la vita eterna a chi si affida al suo abbraccio. Con la secolarizzazione, la funzione di esorcizzare la morte è assolta da altre grandi costruzioni sociali fra cui non ultima una certa concezione assolutista della scienza medica. E non è forse una tale assolutizzazione della vita e una tale separazione fra vita e morte che rende tanto aggressivo l’«ordine» mondiale in cui viviamo? Mentre portiamo avanti ogni giorno l’impegno politico e sociale per la giustizia e la pace, contro la violenza e la guerra, al tempo stesso il nostro pacifismo ci deve portare oltre la dimensione socio-politica della lotta. E questo vale anche per l’impegno intraecclesiale che non può limitarsi a rincorrere con la critica scelte inopportune o errate delle gerarchie. Bisogna andare finalmente alle radici. Welby ci sia di esempio: ha fatto una scelta di grande valore simbolico e profetico, ha desacralizzato un concetto ossificato e ormai inadeguato di natura, del vivere e del morire, e ha riaperto la ricerca sul senso della esistenza, sulla natura e su Dio.
* l’Unità, Pubblicato il: 31.12.06, Modificato il: 31.12.06 alle ore 9.49
Molte, moltissime sono le riflessioni che ci accomunano, certamente il dialogo, se ci sarà e lo spero, ci farà condividere molti granelli di sabbia. La profezia di Welby è il raggio di sole di Quasimodo: un messaggio ri-velato di speranza. Invio mie riflessioni su Piergiorgio Welby e su "...è subito mattino." ************************************** Ognuno sta solo sul cuor della terra Trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. Il Poeta affida un messaggio di verità al tempo affinché lo perpetui nel mondo. Egli è l’Iniziato che offre all’umanità un granello di sabbia - “un raggio di sole - del deserto della verità. Ma la verità se svelata - “ad ognuno che sta solo sul cuor della terra” - verrebbe fraintesa, manipolata, snaturata -“ed è subito sera”-. Allora il messaggio viaggia celato sulle ali del tempo fino a quando un Maestro in una delle infinite stazioni lo ferma lo Svela e ri-Velandolo lo restituisce al tempo. I contenitori sono tanti e di diversa natura ma tutti esoterici. E la verità viene sintetizzata, criptata, contrapposta e rovesciata, ridotta ad un segno, una figura, una frase, una parola, un “quadrato magico” un numero, un simbolo. Quasimodo ha scelto lo specchio, l’immagine speculare, l’opposto di quel che appare, il divenire di quel che era, quello che è e quel che sarà, il serpente che si morde la coda, l’uroborus. Il messaggio di verità e di speranza - Trafitto da un raggio di sole - protetto, e sigillato tra l’immagine della solitudine e quella della terra, svelato si leggerà come “ la quiete dopo la tempesta” o “mi illumino d’immenso”, ed io direi:
Nessuno sta solo sul cuor della terra Illuminati da un raggio di sole: ed è subito mattino. ********************************* Un granello si sabbia in memoria di Piergiorgio Welby
E se la sabbia del deserto fosse la verità? La coscienza vigile, attenta, pensante, decisionale, serena o turbata, sana o malata, lucida o offuscata, razionale o irrazionale, libera o condizionata, quanta parte occuperebbe nel deserto della mente? Io dico: lo spazio di un granello di sabbia per l’uomo comune e per il genio, il poeta, l’artista, lo scienziato, il santo tanta sabbia quanta ne può essere contenuta in un pugno. Ed ecco come una parte della verità sta in tutte le ragioni così come la ragione contiene sempre una parte della verità, sia del laico che del religioso. Ma quanta? Prendi un pugno sabbia dal deserto: questa è la porzione di verità che ti offre la tua mente cosciente. Il “farsi suicidare” da una condizione alterata della mente cosciente non sarà mai la decisione di un libero arbitrio padrone assoluto del Regno della Mente, laddove l’Individualità dell’Io più profondo, si ricongiunge con la matrice che l’ha emanato e ad essa identificandosi ne acquisisce, in potenza, attributi e divinità. E la vita terrena di Piergiorgio programmata per sua libera scelta nella notte dei tempi ed intensamente vissuta in un attimo della sua eternità, anche se interrotta per le ragioni di un pugno di sabbia, nulla toglie ma molto aggiunge alla sua ricchezza spirituale d al suo cammino evolutivo nel ritorno al Padre attraverso quella scala di valori di cui tanta ne ha percorsa nella sua breve vita di quanto l’umanità nella maggioranza ne percorre in un secolo. E questo è l’autentico patrimonio di Piergiorgio. Per il resto: delitto o non delitto, che l’ UOMO rifletta!
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Un altro granello di sabbia per Piergiorgio Welby
Caro Piergiorgio, anche io ho provato commozione per la tua sensibilità e per l’amore che hai nutrito per la vita e per tutti. Generalmente chi nutre tanto amore per gli altri ne ha un po’ meno per se stesso. Rispetto la tua volontà anche se rimango della convinzione che il tuo “Spirito” - la mente profonda - è rimasto ad osservare senza intervenire, con la “Sua autorità”, alla premeditata decisione. Certo non te ne sei andato in silenzio. A meno che, e ora ne sono convinto, l’abbia fatto di proposito per attirare l’attenzione del mondo scientifico, perchè all’uomo non serve l’accanimento ma la scoperta del farmaco, la prevenzione e la guarigione. Una provocazione? No! Una accusa precisa al “progresso”.
Si spacca l’atomo, si va sulla luna, si configurano e si organizzano miliardi e miliardi di informazioni in un piccolo monitor , che tutto lo scibile umano si chiami internet, si investono miliardi e miliardi per il benessere, per lo sport, la tecnologia.......e non si dirotta la maggior parte di tutte queste risorse per debellare la fame, le guerre e le malattie. Mille, centomila scienziati dovrebbero essere rinchiusi in un bunker per uscire solo quando avrebbero risolto i problemi che affliggono l’uomo. E che nessuno mi dica che è impossibile. Niente è impossibile all’uomo, se lo vuole. E’ per questo che Cristo andò sulla croce, che il martire si fa Santo, che tu riscatti tutti i Piergiorgio che giacciono non in attesa che la legge li uccida, ma che l’UOMO LI GUARISCA.
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Una bara bianca per Piergiorgio.
A Loredana che mi ha inviato la canzone di Simone Cristicchi. Grazie del commento e del testo della canzone. Rispetto la tua riflessione su welby ed è molto poetica la canzone. Ma l’autore è sano e pieno di vita e... di successo, mentre Piergiorgio era solo tra tante ombre oscure, immerso e perduto nei suoi pensieri. Anche lui ha scritto dei bellissimi versi poetici, toccanti e pieni di amore per la vita e per il mondo intero. E quando Piergiorgio scriveva era pieno di vitalità, di voglia di vivere, e anche con la sua sofferenza "correva" incontro alla vita. Ne sono convinto. Uno Spirito elevato che sa di poter dare tanto, non decide di negare agli altri e a se stesso le perle della sua stessa saggezza. Tutto quanto, invece, girava attorno a lui, amici, familiari, medici, politici era un elogio alla morte, un’attesa, un atmosfera lugubre e pregna di energia negativa. Nessuna esortazione alla vita, ma uno squallido movimento mediatico e politico. La camera della morte allestita da tempo. E il Gesto non s’è fatto attendere. Un boia laureato per l’occasione e pochi intimi corvi neri furono le ultime immagini che i begl’occhi di Piergiorgio furono costretti a vedere mentre gli porgevano la cicuta. Nessuno dei presenti avrà pianto. Le lacrime sono venute da chi non l’ha conosciuto.
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Io ho pianto.
Ho pianto mentre scrivevo quest’ultima provocazione, perché sono emotivo e perché so di non essere compreso, questo poi credo che sia un mio karma. Io non sarei mai capace di pensare di dire: ti amo, ti amo da morire ma ti tolgo la vita per il tuo bene, per non farti soffrire e perché tu me lo chiedi. Qualcuno “grande più di tutti noi”ebbe a gridare nella sofferenza della croce: “Padre mio perché mi ha abbandonato”. E che vuol dire? Che l’aveva con Dio, che lo lasciava morire invece di salvarlo? Che non voleva morire dopo che era venuto sulla terra e programmata la sua vita ed in particolari la sua morte? Ed ancora ai suoi carnefici: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” E che vuol dire? Che la morte che stavano per dargli era tanto grave da non riconoscersi il diritto del perdono e invitava il Padre a farlo. Non c’è perdono umano per chi si arroga il diritto di togliere la via di un uomo per nessun motivo. Ed io non smetterò di scrivere provocazioni su provocazioni che hanno un unico obiettivo: Che l’Uomo rifletta!
Grazie per l’attenzione Michelangelo
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QUEL PRETE DISOBBEDIENTE NEL NOME DI WELBY
di Augusto Cavadi
Ringraziamo l’amico Augusto Cavadi per averci inviato questo suo articolo pubblicato sul quotidiano "Repubblica - Palermo" del 28.12.06 *
Il mio Natale, come quello di numerosi cittadini non solo ‘laici’ (com’è prevedibile) ma anche credenti, è stato turbato dalla notizia che il Vicariato di Roma avesse deciso di negare a Piergiorgio Welby i funerali religiosi. Sapere che questa amarezza fosse espressa un po’ in tutta Italia da giornalisti cattolici come Ettore Masina (che, in una lettera-circolare pervenuta anche nella mia casella, si chiedeva: “I commi dei giuristi prevalgono sull’insegnamento del Cristo? Dice la Lettera di San Giacomo nel Nuovo Testamento: ‘religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro padre è soccorrere gli orfani e le vedove nel momento delle loro afflizioni...’. Parola di Dio, ma non a Roma”), anzi persino da un vescovo non proprio progressista come Sandro Maggiolini (“Ho letto che negli ultimi 20 minuti Giorgio, che era cattolico e tale si professava, ha chiesto perdono a Dio. Anche soltanto il dubbio di questo dovrebbe indurre a dare esequie cattoliche! ”), mi era di qualche conforto. Ma Masina scriveva da Roma, Maggiolini da Como: e dalle nostre parti?
Con questi interrogativi ho partecipato alla celebrazione eucaristica natalizia di don Cosimo Scordato, docente di ecclesiologia sistematica alla Facoltà teologica di Palermo e rettore della chiesa di S. Francesco Saverio all’Albergheria. Egli ha esordito invitando i fedeli a chiedere perdono per i propri peccati, ma - ha aggiunto - anche per quelli di tutti i cristiani. E, per evitare equivoci, ha specificato: “Non so cosa ne pensiate voi, ma sento il dovere di dirvi che non ho condiviso la decisione dei responsabili della diocesi romana di negare i funerali in parrocchia a Piergiorgio Welby. Mi è sembrato che un tale gesto abbia ferito profondamente la memoria di un uomo che ha lottato coraggiosamente contro il dolore, la fedeltà eroica della moglie che gli è stata accanto così affettuosamente ed anche la sensibilità religiosa della madre ultraottantenne. Se la cerimonia liturgica fosse stata chiesta a me - ha concluso don Cosimo dal pulpito - avre! i, con dispiacere ma senza esitazione, disatteso il divieto dei superiori. Le norme della chiesa, come di ogni organizzazione istituzionale, sono importanti: ma nessuna di esse può contraddire il dettato evangelico della fraternità e della solidarietà. Anche per noi preti - come per qualsiasi altro - vale l’obbligo di seguire prima di tutto la coscienza e solo subordinatamente le disposizioni disciplinari”.
Da quel momento confesso di non aver seguito attentamente il resto della messa perché la mente ha iniziato, un po’ capricciosamente, a girovagare. E’ andata indietro agli “Atti degli apostoli” (quel libro della Bibbia dove si dice che “bisogna obbedire prima a Dio, poi agli uomini”); è passata per il medioevo (quando un grande santo come Tommaso d’Aquino, nonostante il divieto ecclesiastico, persevera nel farsi tradurre e nel leggere Aristotele producendo capolavori teologici memorabili) sino ad arrivare a don Lorenzo Milani (e al suo slogan a favore dell’obiezione di coscienza militare: “L’obbedienza non è più una virtù”). Ha rivisto le tragedie provocate durante il nazismo da una mentalità acriticamente legalistica che porta a farsi complici dei più efferati delitti di Stato sino a tanti episodi quotidiani in cui, nelle strutture civili come in quelle ecclesiastiche, debolezza di carattere e voglia di carriera inducono a subire umiliazioni,! ingiustizie, molestie. E’ difficile che qualcuno denunzi casi di vero e proprio mobbing in ufficio, in banca, all’università, in ospedale: quando poi non si tratta neppure di danni subiti personalmente, ma perpetrati sulla pelle degli altri, scatta una ferrea cortina di omertà. Non è un caso che, a proposito proprio di questo episodio di interruzione della spina, l’opinione prevalente fosse che su certe questioni bisogna arrangiarsi da sé senza fare troppa pubblicità.
E così, vagando qui e là, tra storia e cronaca, la mente birichina si è fermata solo davanti ad una domanda un po’ bizzarra suggeritami dalla predica del prete di Ballarò: non è che in questo momento Welby è accolto in cielo con banda e striscioni, quale testimone sempre più raro dell’invito di Gesù Cristo a che il nostro parlare sia “sì, sì, no, no”, dal momento che tutto il resto è chiacchiera maligna?
Augusto Cavadi
Il DIALOGO, Venerdì, 29 dicembre 2006
INTERVISTA Ha ragione il Papa: solo eros e agape rendono possibile la conoscenza, anzi fanno dell’altro una persona. Parla il filosofo Marion
Senza amore non si pensa
«Da Galileo in poi, gli affetti appaiono secondari in filosofia rispetto alla ragione. Invece non sono soltanto passioni dell’animo, bensì costituenti originari dell’ego»
Da Parigi Daniele Zappalà (Avvenire, 05.05.2007)
«
L’amore è molto più che una passione o un affetto. In un certo senso, è molto più di una conoscenza. È ciò che rende possibile la stessa conoscenza». Lo sostiene è il filosofo francese Jean-Luc Marion, successore di Emmanuel Lévinas alla Sorbona e di Paul Ricoeur all’Università di Chicago. Il Fenomeno Erotico, appena tradotto in Italia per Cantagalli (pp. 288, euro 18,50), ha già suscitato forti reazioni in Francia.
Professore, lei denuncia l’indifferenza della filosofia moderna verso l’amore. Come la spiega?
«Dall’epoca di Galileo in poi, gli affetti appaiono secondari in filosofia rispetto al pensiero teoretico, la cui analisi si basa sulla conoscenza e la rappresentazione. Soprattutto, si comincia a parlare di odio, amore e dei diversi affetti solo sulla base di un ego già costituito. L’amore, in altri termini, è visto come una passione dell’animo e non come un costituente originario dell’ego. Ciò che cerco di mostrare, invece, è che l’amore e l’odio precedono lo stesso ego e giungono in vista della sua costituzione».
Può farci qualche esempio?
«L’ego si esprime, per così dire, sotto forma di figure o stadi amorosi. Innanzitutto, la situazione di voler essere amati. Poi, voler amare a condizione di essere amati. In seguito, prendere la decisione di amare senza essere amati».
Il pensiero contemporaneo è attraversato dal tema dell’angoscia verso la complessità delle relazioni sociali. Esistono oggi maggiori ostacoli al desiderio di amare?
«Questa cosiddetta angoscia, soprattutto rispetto alle relazioni sociali, diventa comprensibile a mio avviso come una manifestazione dell’amore. L’angoscia non esisterebbe se il nostro rapporto col mondo fosse esclusivamente d’interesse, di conoscenza e di rappresentazione. Questo rapporto col mondo è in realtà fin dall’inizio permeato dall’amore, erotizzato in senso lato. Ciò è vero, del resto, anche per la stessa attività filosofica. Fin dall’origine, la filosofia è amor e della saggezza e non saggezza. Prima della conoscenza, esiste l’amore della conoscenza».
Comunemente, l’amore è immaginato come una pura emozione slegata da solidi appigli razionali. Che ne pensa?
«In un certo senso, l’amore è una forma di conoscenza. È solo amandola o odiandola che posso avere davvero accesso a una persona. La pura emozione, il puro piacere, il puro odio diventano significativi all’interno di questo processo di accesso all’altro o a se stessi. A mio avviso, è decisivo comprendere che esiste sempre un itinerario fra due soggetti, un itinerario che obbedisce a una propria logica».
Una logica che include il dono...
«Questo legame fra amore e dono appare in una situazione: quando l’individuo comprende chiaramente che è impossibile amare solo a condizione che l’altro ami. Una forma, o se vogliamo uno stadio, molto comune di amore consiste nell’esser pronti ad amare a condizione che l’altro ci ami. Ma questa reciprocità in realtà rende impossibile l’amore, riducendolo come a una forma di contratto. Un contratto, soprattutto, che non può essere rispettato. Se per amare attendo che l’altro mi ami, dovrò attendere molto a lungo e, in ogni caso, amerò molto poco. Per amare, occorre in realtà far sempre il primo passo. Se l’amore è visto come uno scambio e non come un dono, esso non supererà mai un certo stadio di maturazione e rischierà sempre di precipitare».
Amare significa anche veder emergere l’altro come persona?
«Direi che l’altro diventa persona all’interno di un processo d’amore. Nella vita di tutti i giorni, in genere non incontriamo gli altri in qualità di persone, ma in una funzione sociale che altri potrebbero ricoprire al loro posto. Siamo una persona se amiamo o siamo amati. In caso contrario, rischiamo di restare esseri umani in un senso più spersonalizzato». Internet e le comunicazioni a distanza creano talora l’impressione di forme di passione interpersonale, di «amore», senza mediazione del volto. Ciò è davvero possibile? «Solo il linguaggio, compreso quello del volto, può creare una situazione di amore. Una relazione sessuale senza la parola non è erotica. Mentre una relazione non sessuale con la parola può spesso divenire erotica in senso lato. Anche il volto parla, è essenzialmente una parola o un principio di parola».
In che senso l’amore umano può divenire trascendente?
«L’amore fra esseri umani è trascendente perché trascende l’individualità di chi ama in direzione di chi è amato. Da un punto di vista cristiano, i comandamenti dell’amore verso Dio e verso il prossimo corrispondono a un unico imperativo. Per questo, le regole dell’amore di Dio e dell’amore dell’altro possono essere confrontate».
Che impressione le ha lasciato la prima enciclica di Papa Benedetto XVI dedicata all’amore?
«Trovo molto positivo che l’insegnamento del Magistero si concentri sul centro della rivelazione cristiana. È strano, in proposito, che quest’enciclica sia apparsa a qualcuno come un’originalità. Trovo che la distinzione fra eros e agape sia molto utile, soprattutto per ritrovare l’origine comune e l’unità dell’amore. Tale distinzione non dovrebbe invece mai lasciar pensare che esistono due tipi di amore e credo si tratti di uno dei punti più forti dell’enciclica. Trovo perfettamente giusto e come un’innovazione il fatto di ricordare questa verità della filosofia e, credo, anche della teologia spirituale. L’amore ha una propria razionalità, unica ed universale. Una razionalità che non esige la ricerca della reciprocità».
RIFLESSIONE
Nel libro «Gesù di Nazaret» di Benedetto XVI la proposta di una rinnovata amicizia fra ebrei e cristiani in nome dell’unico Dio
L’unica alleanza
Il dialogo a distanza con il rabbino americano Jacob Neusner, che si pone sinceramente la domanda sulla divinità di Cristo
di Elio Guerriero (Avvenire, 29.05.2007)
Le molte religioni e l’unica alleanza, l’uomo alla ricerca del sacro e la rivelazione di Dio, le vie molteplici delle religioni e Dio che si rivela al Sinai, anzi scende dal cielo per porre la sua tenda tra gli uomini. Sto parlando dell’introduzione a Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI che la critica ha finora passato sotto silenzio. In essa il Papa accenna alla via delle religioni che in Mesopotamia, in Egitto o nel mondo indoeuropeo hanno aiutato l’uomo a scoprire la sua dignità, sono state all’origine della formazione della società, della costruzione della polis.
All’apice di questo percorso, Dio si manifesta ad Abramo. Cominciava, allora, il tempo della Rivelazione. Come scrive Julien Ries: «Alla lunga ricerca dell’uomo, Dio risponde con la sua manifestazione». Da questo momento, ha inizio il cammino della promessa che, come la stella dei Magi, sostiene il viaggio delle generazioni: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te... un profeta pari a me, a lui darete ascolto» (18,5). Il Nuovo Testamento, di conseguenza, si apre con l’annuncio che l’antica promessa si è avverata, che sul Nuovo Sinai, la Montagna delle beatitudini, siede ora il nuovo Mosè, che insegna non come un rabbi che arriva all’incarico dopo lunga preparazione, ma come l’inviato di Dio. Più di Mosè che vide Dio solo di spalle, egli può parlare del Padre, perché « Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).
Questo permette al Papa di affermare che non solo vi è concordia tra Antico e Nuovo Testamento, ma che l’alleanza stretta al Sinai e quella proclamata da Gesù sul monte delle beatitudini è unica. Gesù è venuto per portare a compimento, a pienezza l’alleanza. Così hanno insegnato quei personaggi umili e grandi (il Magnificat) che hanno adempiuto la Legge e segnato il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento. Il Papa pensa anzitutto alla Vergine Maria, ma poi anche a Giuseppe, Zaccaria ed Elisabetta, a Simeone ed Anna e agli apostoli tutti. Pii israeliti, essi non smisero di osservare la Legge e conservarono il cuore puro, che li predispose alla chiamata di Colui che è più grande. Per questo sono immagine tipo di tutti i discepoli di Gesù.
Si inserisce a questo punto il dialogo, che ha suscitato scalpore, tra il Papa e il rabbino ortodosso americano Jacob Neusner. Autore di un volume dal titolo Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù, Neusner pone due importanti quesiti nella sua opera. Egli immagina di essere contemporaneo di Gesù e di recarsi, piacevolmente sorpreso dalla fama che precede il giovane Rabbi della Galilea, a sentire il discorso della Montagna. Non trova, tuttavia, alcunché di nuovo nella Torah di Gesù. Tutto gli era già noto dall’Antico Testamento e dalle tradizioni rabbiniche fissate nella Mishnah e nel Talmud. E’ inevitabile, allora, la domanda: perché è venuto Gesù, quale è il senso della sua Torah rispetto a quella di Mosè? Risponde il Papa: «Israele non esiste semplicemente per se stesso, per vivere nelle "eterne" disposizioni della Legge, esiste per diventare la luce dei popoli». Con il passare dei secoli era divenuto sempre più evidente che il Dio di Israele era Dio di tutti i popoli e di tutti gli uomini. Gesù è venuto per annunciare l’eudochìa di Dio, il suo beneplacito verso gli uomini tutti. Del resto una delle immagini più care alla tradizione cristiana è quella dei Magi, venuti a Gerusalemme per adorare il re dei Giudei (Mt 2,2). «Alla luce messianica della stella di Davide, cercano in Israele colui che sarà il re delle nazioni» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 528) Ricordato nell’epifania, una delle grandi feste cristiane, l’episodio manifesta il senso della venuta di Gesù: la realizzazione della promessa fatta ad Abramo per la quale la grande massa delle genti entra nella famiglia dei patriarchi e ottiene la dignità israelitica.
L’altra domanda sollevata da Neusner riguarda la divinità di Gesù. Egli legge con interesse l’episodio del giovane ricco e come il Maestro di Nazaret guarda a lui con simpatia. Ma perché il Maestro non si accontenta del suo rispetto della Legge, perché gli chiede di vendere tutto e seguirlo? Non si pone, così, allo stesso livello di Dio? San Giovanni e il Concilio di Nicea che hanno proclamato la divinità di Gesù non si sono sbagliati. Gesù chiede veramente di essere riconosciuto come Dio. Per questo il rabbino americano si allontana, mentre: «Con tanta cortesia e gentilezza, egli mi saluta con un cenno del capo e va via, per la sua strada. Senza "se" o "ma"...; proprio da amici». Al distacco, tuttavia, segue un ultimo gesto di comunione, che è particolarmente significativo per il rapporto fra ebrei e cristiani: alla sera nella sinagoga: «Noi offriamo la nostra preghiera serale al Dio vivente. E in alcuni villaggi lungo la valle, così fecero Gesù e i suoi discepoli e tutto l’eterno Israele».
La pubblicazione di Gesù di Nazaret di Benedetto XVI è stata affidata a un editore laico, forse un segnale rivolto agli uomini di cultura perché si rendano conto della portata del dialogo ebreo-cristiano. L’invito, tuttavia, è rivolto soprattutto agli ebrei. Come dicono il Papa e Neusner qui non si tratta affatto di un dibattito per stabilire la superiorità di una religione sull’altra ma di ritrovarsi nella discendenza di Abramo e di Mosè, per coltivare l’amicizia e la fraternità nel riconoscimento dell’unico Dio.
Benedetto XVI agli ortodossi: insieme verso la piena unità
«Nella professione di Pietro possiamo sentirci ed essere una cosa sola Il nostro dialogo esprime la volontà di realizzare la preghiera di Cristo “ut unum sint”»
Da Roma Salvatore Mazza (Avvenire, 30.06.2007)
È nella professione di Pietro che, come cristiani, «possiamo sentirci ed essere tutti una cosa sola». Ciò «malgrado le divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato l’unità della Chiesa, con conseguenze che perdurano tuttora». Come già giovedì sera, nella Messa celebrata nella basilica di San Paolo fuori la Mura per lanciare l’Anno Paolino, a duemila anni dalla nascita dell’Apostolo delle genti, Benedetto XVI ha messo ieri l’accento, nella celebrazione per la solennità dei Santi Pietro e Paolo, sulla ricerca della «piena comunione», sempre presente, ha detto, nella volontà del Patriarca ecumenico di Costantinopoli e del Vescovo di Roma.
Parole tanto più solenni, quelle di Papa Ratzinger, in quanto pronunciate di fronte ai rappresentati del Patriarcato, giunti a Roma nel quadro dell’ormai consolidata tradizione dello scambio di delegazioni ufficiali tra Roma e Costantinopoli in occasione delle rispettive festività principali, il 29 giugno, appunto, e il 30 novembre, festa di Sant’Andrea.
Dopo l’omelia, con quale Benedetto XVI ha proposto una riflessione sul significato della confessione di Pietro - «momento decisivo del cammino dei discepoli con Gesù» - s’è svolta la cerimonia dell’imposizione del Pallio a quarantasei arcivescovi metropoliti di tutto il mondo, espressione dell’universalità della Chiesa. Tra loro gli italiani Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, e Calogero La Piana, arcivescovo di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela. La celebrazione s’è quindi conclusa con la preghiera del Papa al sepolcro di San Pietro, accompagnato dal canto dell’assemblea Tu es Petrus.
Sul tema ecumenico Benedetto XVI è poi tornato al momento dell’Angelus, ricordando l’indizione dell’Anno giubilare dedicato a san Paolo - dal 2008 al 2009 - e auspicando che tale evento possa «rinnovare il nostro entusiasmo missionario», rendendo più intense le relazioni con i fratelli dell’Oriente. Soprattutto ha però rinnovato l’impegno ad agire per «la causa dell’unità di tutti i discepoli di Cristo», per la piena comunione tra l’Oriente e l’Occidente cristiani: «I nostri incontri, le visite reciproche, i dialoghi in corso non sono dunque dei semplici gesti di cortesia, o tentativi per giungere a compromessi - ha spiegato - ma il segno di una comune volontà di fare il possibile perché quanto prima possiamo giungere a quella piena comunione implorata da Cristo nella sua preghiera al Padre dopo l’Ultima Cena: Ut unum sint».
Obiettivo ribadito ancora poco più tardi, ricevendo nel Palazzo Apostolico la delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che era composta dall’arcivescovo greco ortodosso di Francia Emmanuel, dal metropolita di Sassima Gennadios e dal diacono Andreas del Fanar, coi quali s’è poi trattenuto a pranzo.
Nel suo breve discorso, Benedetto XVI ha ricordato con commozione la «calorosa accoglienza» ricevuta al Fanar, sede del Patriarcato a Istanbul, per la festa di sant’Andrea, nel corso della sua visita apostolica in Turchia lo scorso novembre, e l’«indimenticabile» incontro con il Patriarca Bartolomeo I. «L’abbraccio di pace scambiato tra di noi durante la Divina Liturgia - ha affermato - resta un sigillo e un impegno per la nostra vita di Pastori nella Chiesa, giacché siamo tutti persuasi che l’amore reciproco è condizione previa per giungere a quella piena unità nella fede e nella vita ecclesiale verso la quale siamo con fiducia incamminati». Questo, del resto, è l’obiettivo delle «nostre comuni iniziative», e cioè «a intensificare i sentimenti e i rapporti di carità fra le nostre Chiese e fra i singoli fedeli, in modo da superare quei pregiudizi e quelle incomprensioni che derivano da secoli di separazione per affrontare, nella verità ma con spirito fraterno, le difficoltà che impediscono ancora di accostarci alla stessa mensa eucaristica».
Ribadito, in questo procedere verso l’unità, il ruolo «indispensabile» della preghiera, Papa Ratzinger ha poi espresso la propria gioia per il fatto «che il dialogo teologico abbia ripreso il suo corso con rinnovato spirito e vigore», in riferimento all’incontro che nel prossimo autunno vedrà la Commissione Mista alle prese con lo studio delle questioni della collegialità e dell’autorità nella Chiesa: «Noi tutti vogliamo accompagnarne i lavori con perseverante preghiera... sono particolarmente lieto di sapere che il Patriarcato ecumenico e lo stesso Patriarca Bartolomeo I seguono con analoghi sentimenti l’attività di questa Commissione».
Nel ringraziare infine la delegazione ortodossa per la visita, e rinnovata l’espressione di affetto e stima per Bartolomeo I, Benedetto XVI ha ricordato come per la ricerca della piena unità «è necessario il coinvolgimento, sotto forme differenti, dell’intero corpo delle nostre Chiese». Sottolineando, in proposito, l’importanza dei contatti personali e culturali fra i giovani studenti e la necessità di una «formazione catechetica delle nuove generazioni, perché abbiano piena coscienza della propria identità ecclesiale e dei legami di comunione esistenti con gli altri fratelli in Cristo, senza dimenticare i problemi e gli ostacoli che tuttora impediscono la piena comunione tra noi».
Il testo integrale del discorso *
IL PAPA IN AFRICA
«Essere padre è servire la vita e la crescita» *
Cari Fratelli Cardinali e Vescovi,
cari Sacerdoti e Diaconi,
cari fratelli e sorelle consacrati,
cari amici membri delle altre Confessioni cristiane,
cari fratelli e sorelle!
Abbiamo la gioia di ritrovarci insieme per rendere grazie a Dio in questa basilica dedicata a Maria Regina degli Apostoli di Mvolyé, che è stata costruita sul luogo dove venne edificata la prima chiesa ad opera dei missionari spiritani, venuti a portare la Buona Novella in Camerun. Come l’ardore apostolico di questi uomini che racchiudevano nei loro cuori l’intero vostro Paese, questo luogo porta in se stesso simbolicamente ogni piccola parte della vostra terra. E’ perciò in una grande vicinanza spirituale con tutte le comunità cristiane nelle quali esercitate il vostro servizio, cari fratelli e sorelle, che rivolgiamo questa sera la nostra lode al Padre della luce.
Alla presenza dei rappresentanti delle altre Confessioni cristiane, a cui indirizzo il mio rispettoso e fraterno saluto, vi propongo di contemplare i tratti caratteristici di san Giuseppe attraverso le parole della Sacra Scrittura che ci offre questa liturgia vespertina.Alla folla e ai suoi discepoli, Gesù dichiara: “Uno solo è il Padre vostro” (Mt 23,9). In effetti, non vi è altra paternità che quella di Dio Padre, l’unico Creatore “del mondo visibile ed invisibile”. E’ stato dato però all’uomo, creato ad immagine di Dio, di partecipare all’unica paternità di Dio (cfr Ef 3,15). San Giuseppe manifesta ciò in maniera sorprendente, lui che è padre senza aver esercitato una paternità carnale. Non è il padre biologico di Gesù, del quale Dio solo è il Padre, e tuttavia egli esercita una paternità piena e intera. Essere padre è innanzitutto essere servitore della vita e della crescita. San Giuseppe ha dato prova, in questo senso, di una grande dedizione. Per Cristo ha conosciuto la persecuzione, l’esilio e la povertà che ne deriva. Ha dovuto stabilirsi in luogo diverso dal suo villaggio. La sua sola ricompensa fu quella di essere con Cristo. Questa disponibilità spiega le parole di san Paolo: “Servite il Signore che è Cristo!” (Col 3,24).
Si tratta di non essere un servitore mediocre, ma di essere un servitore “fedele e saggio”. L’abbinamento dei due aggettivi non è casuale: esso suggerisce che l’intelligenza senza la fedeltà e la fedeltà senza la saggezza sono qualità insufficienti. L’una sprovvista dell’altra non permette di assumere pienamente la responsabilità che Dio ci affida.
Cari fratelli sacerdoti, questa paternità voi dovete viverla nel vostro ministero quotidiano. In effetti, la Costituzione conciliare Lumen gentium sottolinea: i sacerdoti “abbiano poi cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente generato col battesimo e l’insegnamento” (n. 28). Come allora non tornare continuamente alla radice del nostro sacerdozio, il Signore Gesù Cristo? La relazione con la sua persona è costitutiva di ciò che noi vogliamo vivere, la relazione con lui che ci chiama suoi amici, perché tutto quello che egli ha appreso dal Padre ce l’ha fatto conoscere (cfr Gv 15,15). Vivendo questa amicizia profonda con Cristo, troverete la vera libertà e la gioia del vostro cuore. Il sacerdozio ministeriale comporta un legame profondo con Cristo che ci è donato nell’Eucaristia. Che la celebrazione dell’Eucaristia sia veramente il centro della vostra vita sacerdotale, allora essa sarà anche il centro della vostra missione ecclesiale. In effetti, per tutta la nostra vita, il Cristo ci chiama a partecipare alla sua missione, a essere testimoni, affinché la sua Parola possa essere annunciata a tutti.
Celebrando questo sacramento a nome e nella persona del Signore, non è la persona del prete che deve essere posta in primo piano: egli è un servitore, un umile strumento che rimanda a Cristo, poiché Cristo stesso si offre in sacrificio per la salvezza del mondo. “Chi governa sia come colui che serve” (Lc 22,26), dice Gesù. Ed Origene scriveva: “Giuseppe capiva che Gesù gli era superiore pur essendo sottomesso a lui in tutto e, conoscendo la superiorità del suo inferiore, Giuseppe gli comandava con timore e misura. Che ciascuno rifletta su questo: spesso un uomo di minor valore è posto al di sopra di gente migliore di lui e a volte succede che l’inferiore ha più valore di colui che sembra comandargli. Quando chi ha ricevuto una dignità comprende questo non si gonfierà di orgoglio a motivo del suo rango più elevato, ma saprà che il suo inferiore può essere migliore di lui, così come Gesù è stato sottomesso a Giuseppe” (Omelia su san Luca XX,5, S.C. p. 287).
Cari fratelli nel sacerdozio, il vostro ministero pastorale richiede molte rinunce, ma è anche sorgente di gioia. In relazione confidente con i vostri Vescovi, fraternamente uniti a tutto il presbiterio, e sostenuti dalla porzione del Popolo di Dio che vi è affidata, voi saprete rispondere con fedeltà alla chiamata che il Signore vi ha fatto un giorno, come egli ha chiamato Giuseppe a vegliare su Maria e sul Bambino Gesù! Possiate rimanere fedeli, cari sacerdoti, alle promesse che avete fatto a Dio davanti al vostro Vescovo e davanti all’assemblea. Il Successore di Pietro vi ringrazia per il vostro generoso impegno al servizio della Chiesa e vi incoraggia a non lasciarvi turbare dalle difficoltà del cammino! Ai giovani che si preparano ad unirsi a voi, come a coloro che si pongono ancora delle domande, vorrei ridire questa sera la gioia che si ha nel donarsi totalmente per il servizio di Dio e della Chiesa. Abbiate il coraggio di offrire un “sì” generoso a Cristo!
Invito anche voi, fratelli e sorelle che vi siete impegnati nella vita consacrata o nei movimenti ecclesiali, a rivolgere lo sguardo a san Giuseppe. Quando Maria riceve la visita dell’angelo all’Annunciazione è già promessa sposa di Giuseppe. Indirizzandosi personalmente a Maria, il Signore unisce quindi già intimamente Giuseppe al mistero dell’Incarnazione. Questi ha accettato di legarsi a questa storia che Dio aveva iniziato a scrivere nel seno della sua sposa. Egli ha quindi accolto in casa sua Maria. Ha accolto il mistero che era in lei ed il mistero che era lei stessa. Egli l’ha amata con quel grande rispetto che è il sigillo dell’amore autentico. San Giuseppe ci insegna che si può amare senza possedere. Contemplandolo, ogni uomo e ogni donna può, con la grazia di Dio, essere portato alla guarigione delle sue ferite affettive a condizione di entrare nel progetto che Dio ha già iniziato a realizzare negli esseri che stanno vicini a Lui, così come Giuseppe è entrato nell’opera della redenzione attraverso la figura di Maria e grazie a ciò che Dio aveva già fatto in lei. Possiate, cari fratelli e sorelle impegnati nei movimenti ecclesiali, essere attenti a coloro che vi circondano e manifestare il volto amorevole di Dio alle persone più umili, soprattutto mediante l’esercizio delle opere di misericordia, l’educazione umana e cristiana dei giovani, il servizio della promozione della donna ed in tanti altri modi!
Il contributo spirituale portato dalle persone consacrate è anch’esso assai significativo ed indispensabile per la vita della Chiesa. Questa chiamata a seguire Cristo è un dono per l’intero Popolo di Dio. In adesione alla vostra vocazione, imitando Cristo casto, povero ed obbediente, totalmente consacrato alla gloria del Padre suo e all’amore dei suoi fratelli e sorelle, voi avete per missione di testimoniare, davanti al nostro mondo che ne ha molto bisogno, il primato di Dio e dei beni futuri (cfr Vita consecrata, n.85). Con la vostra fedeltà senza riserve nei vostri impegni voi siete nella Chiesa un germe di vita che cresce al servizio del Regno di Dio. In ogni momento, ma in modo particolare quando la fedeltà è provata, san Giuseppe vi ricorda il senso e il valore dei vostri impegni.
La vita consacrata è una imitazione radicale di Cristo. E’ quindi necessario che il vostro stile di vita esprima con precisione ciò che vi fa vivere e che la vostra attività non nasconda la vostra profonda identità. Non abbiate paura di vivere pienamente l’offerta di voi stessi che avete fatta a Dio e di darne testimonianza con autenticità attorno a voi. Un esempio vi stimola particolarmente a ricercare questa santità di vita, quello del Padre Simon Mpeke, chiamato Baba Simon. Voi sapete come “il missionario dai piedi nudi” ha speso tutte le forze del suo essere in una umiltà disinteressata, avendo a cuore di aiutare le anime, senza risparmiarsi le preoccupazioni e la pena del servizio materiale dei suoi fratelli.Cari fratelli e sorelle, la nostra meditazione sull’itinerario umano e spirituale di san Giuseppe, ci invita a cogliere la misura di tutta la ricchezza della sua vocazione e del modello che egli resta per tutti quelli e quelle che hanno voluto votare la loro esistenza a Cristo, nel sacerdozio come nella vita consacrata o in diverse forme di impegno del laicato.
Giuseppe ha infatti vissuto alla luce del mistero dell’Incarnazione. Non solo con una prossimità fisica, ma anche con l’attenzione del cuore. Giuseppe ci svela il segreto di una umanità che vive alla presenza del mistero, aperta ad esso attraverso i dettagli più concreti dell’esistenza. In lui non c’è separazione tra fede e azione. La sua fede orienta in maniera decisiva le sue azioni. Paradossalmente è agendo, assumendo quindi le sue responsabilità, che egli si mette da parte per lasciare a Dio la libertà di realizzare la sua opera, senza frapporvi ostacolo. Giuseppe è un “uomo giusto” (Mt 1,19) perché la sua esistenza è “aggiustata” sulla parola di Dio.
La vita di san Giuseppe, trascorsa nell’obbedienza alla Parola, è un segno eloquente per tutti i discepoli di Gesù che aspirano all’unità della Chiesa. Il suo esempio ci sollecita a comprendere che è abbandonandosi pienamente alla volontà di Dio che l’uomo diventa un operatore efficace del disegno di Dio, il quale desidera riunire gli uomini in una sola famiglia, una sola assemblea, una sola ‘ecclesia’. Cari amici membri delle altre Confessioni cristiane, questa ricerca dell’unità dei discepoli di Cristo è per noi una grande sfida. Essa ci porta anzitutto a convertirci alla persona di Cristo, a lasciarci sempre più attirare da Lui. E’ in Lui che siamo chiamati a riconoscerci fratelli, figli d’uno stesso Padre. In questo anno consacrato all’Apostolo Paolo, il grande annunciatore di Gesù Cristo, l’Apostolo delle Nazioni, rivolgiamoci insieme a lui per ascoltare e apprendere “la fede e la verità” nelle quali sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo.
Terminando, rivolgiamoci alla sposa di san Giuseppe, la Vergine Maria, “Regina degli Apostoli”, perché questo è il titolo con il quale ella è invocata come patrona del Camerun. A lei affido la consacrazione di ciascuno e di ciascuna di voi, il vostro desiderio di rispondere più fedelmente alla chiamata che vi è stata fatta e alla missione che vi è stata affidata. Invoco infine la sua intercessione per il vostro bel Paese. Amen.