La verità politica non è la verità antropologica
di Francesco D’Agostino (Avvenire, 07.07.2007)
Che "la laicità sia il cuore della differenza cristiana" - come ha scritto lo scorso mercoledì 4 luglio Rosy Bindi in una bella e pacata lettera al "Foglio" - è affermazione forse troppo sintetica, e quindi aperta a possibili fraintendimenti, ma pur condivisibile per coloro che ben percepiscono quanto arduo sia il cammino verso la conquista di una sana laicità da parte delle altre grandi religioni monoteistiche: in queste infatti non solo è assente, ma è addirittura introvabile (nemmeno per equivalenti) il precetto di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio.
Che ben facciano coloro che, consapevoli della loro identità cristiana, ritengono non solo opportuno, ma doveroso "mescolarsi con i compagni di viaggio di una sinistra che ha più che mai bisogno di laicità" (sempre per usare alcune efficaci espressioni della Bindi, chiaramente rivolte a se stessa prima che a chiunque altro) è parimenti indubitabile. Il bisogno di laicità della sinistra è arrivato a livelli davvero plateali, dato che questa (per continuare ad usare le parole della Ministra) "facilmente scambia l’indifferenza etica e culturale come tolleranza"); per soddisfarlo però poco servono le dottrine e le parole, molto invece la condivisione di esperienze e soprattutto quello che un tempo si sarebbe definito il "buon esempio": l’esempio di una vita e di un impegno operosi, attenti a mai condannare aprioristicamente, a mai discriminare, a cercare sempre le modalità oggettivamente migliori per realizzare il bene comune.
Nel chiudere la lettera Rosy Bindi però se ne viene fuori con una affermazione, che fa nascere in chi legge (o almeno che ha fatto nascere nel sottoscritto) qualche dubbio sulla condivisibilità di questo suo auspicio a "mescolarsi con i compagni di viaggio di una sinistra che ha più che mai bisogno di laicità". A quanto infatti essa scrive, questo "mescolarsi" dovrebbe presupporre nei cattolici la rinuncia ad una "difesa identitaria di valori non negoziabili" e imporreb be piuttosto la "condivisione di un cammino, mite e paziente, di ricerca della verità sull’uomo che nessuno possiede, ma che solo nell’incontro e nell’apertura con gli altri possiamo provare a capire".
Mi sembra evidente che qui Rosy Bindi si lascia contagiare dalla confusione, tipicamente postmoderna, tra la verità "politica" (che nessuno possiede a priori) e la verità "antropologica" (che invece dobbiamo presupporre, se vogliamo impegnarci seriamente nella politica). Che nessuno abbia in tasca una verità "politica" assoluta, che nessuno cioè possa presumere, senza un confronto "mite e paziente" con gli altri, di saper determinare nel modo ottimale il bene comune e le attività pubbliche necessarie a difenderlo e a promuoverlo è assolutamente vero: proprio in questo, peraltro, consiste il principio di laicità, nell’andare cioè alla ricerca del bene senza pregiudizi, in spirito di massima apertura agli altri. E che l’attività politica non debba essere strumentalizzata per attivare per suo tramite battaglie di difesa identitaria è parimenti evidente. Ma deve essere chiaro - proprio perché di laicità qui si parla - che per chi si impegna in politica, la difesa di "valori non negoziabili" non ha nulla a che vedere con la difesa di una identità particolare e meno che mai con la difesa dell’identità cristiana.
I "valori non negoziabili", che è compito di tutti i politici e quindi in particolare dei politici di ispirazione cristiana difendere, sono valori umani universali: eguaglianza tra uomini e donne, difesa dei soggetti deboli (in particolare bambini e anziani), tutela e promozione del diritto alla libertà religiosa, alla vita, alla salute, all’educazione, al lavoro, no alla tortura, alla pena di morte e a ogni pena criminale degradante, proibizione di ogni manipolazione eugenetica, difesa della famiglia e della democrazia... potremmo andare avanti a lungo. Come negare che questo elenco di diritti può derivare la sua consistenza solo da autentiche e riconosciute verità antropologiche?
Abbandoniamo una volta per tutte la logora affermazione secondo la quale "nessuno possiede la verità", perché la verità andrebbe piuttosto intesa come una "ricerca". La "ricerca" (questa sì aperta e spregiudicata) non può avere per oggetto la determinazione della verità sull’uomo, ma solo quella sui modi politici di concretizzarla. E’ qui che si apre il discorso della politica e del dovere (per tutti!) di un onesto mescolarsi con compagni di viaggio sensibili alla tutela e alla promozione dei diritti umani
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Salviamo la Costituzione e la Repubblica che è in noi
LA VERITA’ NON E’ NEGOZIABILE.
Luca 20,20-26:
«Postisi in osservazione, mandarono informatori, che si fingessero persone oneste, per coglierlo in fallo nelle sue parole e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore. Costoro lo interrogarono: «Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guardi in faccia a nessuno, ma insegni secondo verità la via di Dio. È lecito che noi paghiamo il tributo a Cesare?». Conoscendo la loro malizia, disse: «Mostratemi un denaro: di chi è l’immagine e l’iscrizione?». Risposero: «Di Cesare». Ed egli disse: «Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Così non poterono coglierlo in fallo davanti al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero.»
Marco 12,13-17:
« Gli mandarono però alcuni farisei ed erodiani per coglierlo in fallo nel discorso. E venuti, quelli gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio. È lecito o no dare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?». Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse: «Perché mi tentate? Portatemi un denaro perché io lo veda». Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». Gli risposero: «Di Cesare». Gesù disse loro: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». E rimasero ammirati di lui. »
Matteo 22,15-22:
«Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». A queste parole rimasero sorpresi e, lasciatolo, se ne andarono.»
L’ITALIA, IL "VENI, CREATOR SPIRITUS" E L’ ASSEMBLEA COSTITUENTE (11 MARZO 1947): LO SPIRITO DI UNA SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE, LA CRITICA DEI "CATTOLICISMI" DELLE "ANIME PIE", E L’ULTIMA LEZIONE DI BENEDETTO CROCE.
"BENEDETTO CROCE SULLA MORTE. La riflessione che trascrivo è stata scritta da Croce il 25 febbraio 1952, nove mesi prima di morire (20 novembre 1952):
ECCO "PERCHE’ NON POSSIAMO NON DIRCI «CRISTIANI»" (BENEDETTO CROCE,1942): "qui occorre osservare che con Dio siamo e dobbiamo essere a contatto in tutta la vita, e niente di straordinario ora [nell’ultima fase della vita] accade che c’imponga una pratica inconsueta" (B. CROCE, 1952).
UNA QUESTIONE DI LANA CAPRINA E E IL "SOGNO" DELLA "DIVINA COMMEDIA" ...
Scambiare un montone, un ariete, con un caprone, e identificare capro espiatorio e agnello di Dio (René Girard, "Vedo Satana cadere come la folgore", Milano 2001), come è stato possibile? Accolta l’interpretazione del messaggio evangelico prodotta da Paolo di Tarso e, coerentemente, cancellata la differenza ta capro e agnello, pur con qualche diabolicità, Girard va avanti: "Satana fa del cattivo mimetismo, ciò che spero di non fare io stesso" (op. cit., 199). E, contro ogni speranza, la "caduta" nella profondità della Terra continua! Solo Dante, con Virgilio, riesce a vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) e, al contempo, a riandare alla sorgente del suo stesso essere, all’amor "che move il sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145), nel cerchio della vita.
ARIETE E CAPRICORNO: COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PARADISIO TERRESTRE"...
La brillantezza del lavoro di René Girard ha al proprio interno un nodo epocale da sciogliere, quello simbolizzato dal rapporto "Caino e Abele" (Bibbia) e "Romolo e Remo" (Roma): ha tentato di pensare un altro cristianesimo (al di là del sacrificio): è rimasto impigliato nella tradizione paolina e costantiniana (vale a dire, nell’orizzonte di Edipo) e, infine, a non avere alcuna cognizione "della Monarchia Universale [temporalis Monarchie]" di Dante, del suo progetto antropologico-teologico di costruzione di un nuovo "paradiso terrestre" e di una nuova Città, sì da essere "cive / di quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102).
Federico La Sala
LA QUESTIONE DELL’ANTROPOCENTRISMO, IL RINASCIMENTO, E LA BIENNALE D’ARTE VENEZIA 2022...
ANTROPOLOGIA, STORIA, E FILOLOGIA. Per una messa in discussione critica dell’antropocentrismo rinascimentale (che ha matrici antiche, nella tradizione greco-romana), forse, sarebbe meglio ripartire dalla Trasfigurazione di Cristo del Beato Angelico del 1437-1446, e dall’opera di Lorenzo Valla, "Sulla Donazione di Costantino falsamente attribuita e falsificata" del 1440, e, infine, anche dall’uomo vitruviano (1490) e dal "bambino nel grembo materno" (del 1511) di Leonardo da Vinci.
PER RI-NASCERE, VEDERE DALLO SPAZIO IL SORGERE DELLA TERRA. Alla luce di questo capovolgimento di sguardo, si potrà osservare meglio il cammino della tentazione prometeica e faustiana dello stesso antropocentrismo del Rinascimento, fino ad arrivare alla hubris della tecnica, che si caratteriza per essere più un camuffato androcentrismo tragico (alla Socrate e alla Platone, come ha ben visto Nietzsche) che non un semplice antropocentrismo, antropologicamente fondato.
ARTE E SOCIETÀ. Piero di Cosimo è una figura-chiave del tempo: nel 1481 è a Roma col maestro Cosimo Rosselli, per lavorare nella Cappella Sistina (voluta da papa Sisto IV); e nel 1483 è a Firenze: del 1488 è la Sacra conversazione, ora nella Galleria dello Spedale degli Innocenti ("Era molto amico di Piero lo spedalingo de li Innocenti").
BAMBINI ABBANDONATI E ANDROCENTRISMO. Ricordato che anche Leonardo da Vinci era un figlio naturale e che il "presepe" era stato introdotto nella Firenze del ’400, nell’Ospedale degli Innocenti (l’Ospedale non ha la ruota ma una cappella aperta, il presepe, dove il bimbo veniva deposto tra le immagini di Gesù, nato povero e allevato nella carità), è da dire che il nodo di Ercole, il problema di come nascono i bambini, è ancora sciolto come la cosmoteandria tragica (Eschilo con Platone e Aristotele) comandava e, a metà 1500, con il Concilio di Trento "il matrimonio diventa un’istituzione obbligata, e l’ingresso dell’Ospedale viene chiuso da una grata; da luogo di accoglienza per i meno ricchi diviene rifugio per una sottospecie di infanzia, che nasce sotto il segno di una vergogna ereditata dalla madre" (Adriano Prosperi).
Federico La Sala
USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA E DELLA COSMOTEANDRIA: DUE SOLI (DANTE 2021)
Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria! *
I paradigmi rimossi.
La maternità fonda il mondo (amore, non solo rispetto)
di Francesco d’Agostino (Avvenire, mercoledì 2 febbraio 2022)
Il rifiuto della maternità, che sta diventando uno dei tratti più caratteristici di questi anni (o, se così si preferisce dire, del ’postmoderno’) sta inevitabilmente alterando la stessa autocomprensione dell’umano. Non c’è infatti dimensione di vita che non si intrecci non solo con la generatività, ma in particolare con quella dimensione della generatività che è affidata alla donna, con la maternità.
Lo spazio di vita che la ’natura’ assegna agli uomini e alle donne viene psicologicamente violentato dalla rimozione di tre paradigmi, di cui le donne sono protagoniste: quello della mortalità, assimilata a una sventura soprattutto se tragica, precoce, collegata a una nascita; quello della vecchiaia (con le sue inevitabili fragilità ed esigenze di assistenza) e sempre più arbitrariamente ritenuta un indebito peso che egoisticamente ogni generazione scarica sulle generazioni successive; e quello della malattia, percepita ormai come uno scandalo intollerabile in una società che ha fatto della ’salute’ il suo vero e proprio mito dominante. L’esito di queste dinamiche, che si intrecciano, creando vincoli che nessuno sembra ormai in grado di sciogliere, fa della società contemporanea un contesto freddo e conturbante, al quale tutte le donne vorrebbero sottrarsi, senza però assolutamente sapere in che modo.
Non è questo il luogo per formulare proposte o avanzare suggerimenti. Ma può essere il luogo per esortare tutti (uomini e donne) a riflettere sul primato dell’identità femminile su quella maschile, che la cultura postmoderna ci impone di riconoscere. Un primato sociologico-culturale, innanzitutto, come ho cercato di delineare nelle righe precedenti. Ma soprattutto un primato antropologico.
Dio ha affidato alla donna la cura e la formazione dell’identità umana, in modo così deciso e irrevocabile che difficilmente, davanti a un’icona o a un’immagine che rappresentano una madre che tiene sulle ginocchia il proprio figlio, non percepiamo una sorta di misteriosa emozione o commozione. Quella donna rappresentata da un artista, indipendentemente dal valore estetico della rappresentazione, è un’immagine di nostra madre e quel bambino che essa tiene in grembo è una nostra immagine.
Per rappresentare l’umanità in una straordinaria sintesi bastano solo queste due figure: la Madonna e il Figlio (ed ogni donna è di principio una ’Madonna’ e ogni bambino è di principio un ’Bambino Gesù’). Aggiungiamo pure, e dobbiamo farlo, la tenerissima immagine di san Giuseppe, ma sappiamo tutti benissimo che la sua santa e necessaria paternità è di mero supporto alla maternità di Maria.
Bisogna tornare a insegnare alle bambine, a tutte le bambine, che devono amare i piccoli, i fratellini, e in generale i ’maschi’, perché l’amore, quel poco di preziosissimo amore che sopravvive nel mondo, è affidato alla loro custodia e resterà tale per tutto l’arco della loro vita. E dobbiamo tornare a insegnare ai bambini che non basta un sincero e doveroso rispetto per le bambine, per tutte le donne, per il ’femminile’: non il ’rispetto’, ma l’amore è ciò che deve guidare il mondo ed è la donna, e la donna soltanto, che apre e dona al mondo la via dell’amore.
Se e quando intenzionalmente e consapevolmente la donna rifiuta la maternità è come se rifiutasse la dimensione più autentica della propria identità, cioè proprio quello - ci piaccia o no riconoscerlo - che sta a fondamento del mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL "PESCATORE" E GIUSEPPE A MARIA E ALLA SUA FAMIGLIA - UMANA E DIVINA!!! LA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE INVESTE L’ AVVENIRE DELL’INTERA UMANITÀ, NON QUELLO DEI VESCOVI DELLA CHIESA "CATTOLICA".
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
L’ipotesi.
Dante finito all’Inferno? A Pisa Buffalmacco dipinge il poeta tra i dannati
Secondo Giulia Ammannati, docente alla Normale, il pittore avrebbe ritratto il poeta tra i reprobi del Giudizio Universale nel Camposanto. Il motivo il suo filoimperiale "De Monarchia"
di Redazione Agorà (Avvenire, lunedì 31 gennaio 2022)
Potrebbe essere Dante Alighieri una delle figure rappresentate negli affreschi che Buffalmacco dipinse tra il 1336 e il 1342 sulle pareti nel Camposanto Monumentale di Pisa. È l’ipotesi che Giulia Ammannati, professoressa di Paleografia alla Scuola Normale di Pisa, avanza in un articolo in corso di stampa sugli "Annali della Scuola Normale"
Nella porzione inferiore destra del Giudizio Universale alcuni angeli spingono verso la bocca dell’inferno una folla di dannati, tra i quali compare un uomo vestito di rosso dal naso pronunciato, non lontano dal ritratto giottesco di Dante al Museo del Bargello di Firenze (ante 1337).
Perché Buffalmacco avrebbe fatto precipitare all’inferno proprio Dante? Giulia Ammannati nel suo studio non si basa solo su somiglianze fisionomiche, ma riconduce questa ipotesi al contesto storico-politico dell’epoca, e all’aspro contrasto che opponeva Papato e Impero.
L’arcivescovo di Pisa Simone Saltarelli, stretto collaboratore di papa Giovanni XXII, si era dovuto rifugiare ad Avignone presso il Pontefice negli anni (1327-29) in cui Pisa fu occupata da Ludovico il Bavaro, che vi insediò anche un proprio antipapa (Niccolò V). In quelle vicende i filoimperiali avevano tratto argomenti da un’opera di Dante, il De Monarchia, presto condannata dagli emissari del Papa avignonese. Ecco che il Dante teorico dell’Impero può essere stato stigmatizzato negli affreschi di Buffalmacco, nella cui ispirazione i domenicani pisani e lo stesso arcivescovo ebbero un ruolo fondamentale.
Ma cosa sapevano i pisani dell’aspetto di Dante quando Buffalmacco dipingeva in Camposanto? Saltarelli e Buffalmacco erano fiorentini e potevano aver visto il ritratto di Dante al Bargello, ma Ammannati adduce anche la plausibile ipotesi, dovuta allo storico della letteratura Marco Santagata, che Dante avesse soggiornato a lungo a Pisa negli anni di Arrigo VII (1312-13), componendovi larghe parti proprio del De Monarchia. La predicazione dei domenicani e la tradizione orale di commento ai dipinti avrebbero fatto il resto, rendendo riconoscibile ai contemporanei l’exemplum del reprobo Dante.
STORIA E MEMORIA
MILANO - «Ravviso che lei è sempre più bella che intelligente». La frase di Silvio Berlusconi rivolta a Rosy Bindi durante la puntata di Porta a Porta dedicata alla bocciatura del lodo Alfano getta ulteriore benzina sul fuoco delle polemiche divampate dopo la decisione della Corte Costituzionale. Il premier, in collegamento telefonico, aveva accusato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affermando che avrebbe dovuto, «con la sua influenza», garantire un voto dei giudici costituzionali favorevole al lodo Alfano. Parole che hanno provocato la dura reazione dell’esponente del Pd: secondo la Bindi, quelle del premier sono frasi gravissime. «Ravviso che lei è sempre più bella che intelligente» ha replicato secco Berlusconi, citando, non si sa quanto volontariamente, Vittorio Sgarbi che ebbe già modo di definire così l’ex ministro prodiano e che ora, parlando con Corriere.it, assicura di non voler chiedere i diritti d’autore al premier (ASCOLTA). «Non mi interessa nulla di quello che lei eccepisce» ha scandito Berlusconi.
Una «cortesia» che la stessa Rosy Bindi non ha lasciato cadere nel vuoto: «Sono una donna che non è a sua disposizione» ha replicato (riferimento neanche troppo velato alla vicenda delle escort che vede coinvolto il Cavaliere) «e ritengo molto gravi le sue affermazioni».
«REAGIRE DAVVERO» - La stessa Bindi, interpellata in mattinata da Radio Popolare, ha poi voluto precisare che «ho reagito non per difendere me dalle offese di Berlusconi che non mi sfiorano minimamente, mi sono sentita di reagire perché penso di doverlo fare in nome di tutte le donne». «Questo Presidente del Consiglio- ha aggiunto - ha una concezione strumentale delle donne, veicola messaggi pericolosi a questo Paese ed è arrivato il momento che le donne reagiscano davvero».
IL PRECEDENTE - Lo stesso Berlusconi, in ogni caso, aveva già avuto modo in passato di usare parole praticamente simili nei confronti della Bindi. Era l’8 aprile 2003 e il Cavaliere era andato a Brescia per sostenere la candidatura a sindaco di Viviana Beccalossi. Parlando della giovane esponente di An, il premier aveva spiegato che nei suoi occhi «si legge tutta la passione politica necessaria in questa sfida. È più brava che bella, il contrario di Rosy Bindi». Ma quell’intervento divenne più famoso per un’altra (involontaria?) gaffe dell’allora leader della Cdl: chiudendo il suo intervento incoraggiò infatti la portacolori del centrodestra con un equivocabile: «Forza Viviana, fagliela vedere!».
«PIÙ ALTO CHE EDUCATO» - All’indomani del battibecco negli studi di Bruno Vespa, il segretario del Partito Democratico, Dario Franceschini, ha telefonato a Rosy Bindi per esprimere alla vicepresidente della Camera la sua solidarietà per le «offese volgari e maleducate» a lei rivolte dal presidente del Consiglio. Anche Giovanna Melandri, responsabile Cultura del Pd, in una nota ha preso le difese di Rosy Bindi: «Berlusconi ha fatto gravissime affermazioni nei confronti delle istituzioni, attaccando il presidente della Repubblica e la magistratura. Altrettanto indegna è stata la frase con cui ha apostrofato Rosy Bindi: in queste offensive parole c’è tutto il ’Berlusconi-pensiero’ nei confronti delle donne: l’idea che la donna non abbia il diritto di prendere la parola se non per compiacere l’ego smisurato del sultano di Arcore. Il presidente del Consiglio ha dimostrato di essere più alto che educato». «Credo che le parole che Berlusconi ha pronunciato nei confronti di Rosy Bindi si commentino da sole nella loro profonda volgarità - ha aggiunto Anna Finocchiaro, presidente del Pd al Senato - e credo anche che una dirigente politica come Rosy non abbia certo bisogno di essere difesa. Rosy non è certamente a disposizione del Presidente del Consiglio, ma per fortuna è a disposizione e al servizio delle donne, del Pd e della democrazia del nostro Paese».
«C’E’ CONCITAZIONE, PUO’ SUCCEDERE» - Un tentativo di smorzare i toni arriva da Paolo Bonaiuti, sottosegretario della presidenza del Consiglio e portavoce di Berlusconi, in un intervento a Radio 2: «Questi sono momenti di estrema concitazione, questo può succedere. Una cosa sono i momenti asprezza politica, altra i momenti di vita normale». In precedenza, però, Bonaiuti aveva detto: «È sempre la solita storia del cane cattivo, prima lo attaccano, lui si difende. Evidentemente una difesa da una serie di attacchi mediatici che vanno avanti da mesi e mesi».
* Fonte: Corriere della Sera, 08 ottobre 2009 (ultima modifica: 09 ottobre 2009) (ripresa parziale).
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».. *
Sulla questione del ddl Zan.
Laici perché cristiani non privilegi ma libertà
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, venerdì 25 giugno 2021)
Perché ribadire l’ovvio in situazioni critiche? Forse per il fatto che lo dimentichiamo, come tralasciamo il buon senso e il radicamento nelle istituzioni. Il premier ieri non ha detto nulla di nuovo, ma, come dice Qoelet, non è mai superfluo rammentare che «non c’è nulla di nuovo sotto il sole!» (1, 9). In tal senso ribadisco quanto già espresso in diversi interventi. Una sana laicità è la nostra bussola. E la laicità l’Occidente la deve al messaggio evangelico: «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mc 12,17). Un loghion pronunciato da Gesù stesso, che mi piace interpretare nel senso di restituire a Cesare quel che è suo per dare a Dio ciò che gli appartiene, cioè tutto. Si tratta di «restituire» e qui entra in gioco la categoria giuridica del «risentimento », questione centrale nella ’Filosofia del diritto’ del beato Antonio Rosmini, il cui soggetto è la persona, «diritto sussistente».
E qui trova ampio spazio la legittimità di voler vedere riconosciuti i propri diritti da parte di minoranze per lungo tempo oppresse ed emarginate, spesso violentate. Poiché da cittadino italiano ritengo che sia la ’persona’ il principio architettonico della nostra Costituzione, non posso non scorgere in essa e nelle istituzioni che ha generato gli anticorpi più idonei per allontanare ogni possibile lesione dei diritti fondamentali. Nel nostro caso si tratta della libertà di pensiero e di educazione, il cui soggetto fondamentale non è lo Stato, ma la famiglia, al cui servizio vanno poste le istituzioni statali. E anche qui è in gioco qualcosa di decisivo. Gli anticorpi della nostra democrazia nei confronti di possibili devianze li avevo già messi in campo nella lettera al direttore di ’Avvenire’, pubblicata mercoledì 23 giugno: il Parlamento prima e poi, eventualmente, la Corte costituzionale verificheranno e si pronunzieranno circa la costituzionalità, come garanzia di libertà, della legge ancora in progetto sull’omotransfobia e per questo l’impegno dei laici è fondamentale. Né in questo processo si può cedere al ricatto della fretta, che non è mai buona consigliera e fa sì che la gatta generi dei gattini ciechi. Il campanello di allarme suonato dalla Chiesa cattolica, per mezzo del Vaticano, all’interlocutore italiano, se lo si legge senza paraocchi ideologici, significa una sola cosa: «Cesare non è Dio», e ne siamo felici... quindi si evocano l’umano e la persona come soggetto fondamentale del diritto.
Una riflessione che ha bisogno di tempo, di spazi e di libertà interiore, piuttosto che di strategici giochi elettoralistici. Nel suo discorso al Senato, ieri il premier ha ribadito la laicità dello Stato, ovviamente non confessionale, ma è tale proprio perché non è istituzione divina. Egli ha anche orientato verso il rispetto degli accordi internazionali, fra cui il Concordato. Illuminante ed estremamente lucido, a tal proposito, l’intervento del cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin: «Ho apprezzato il richiamo fatto dal presidente del Consiglio al rispetto dei princìpi costituzionali e agli impegni internazionali. In questo ambito vige un principio fondamentale, quello per cui pacta sunt servanda. È su questo sfondo che con la Nota Verbale ci siamo limitati a richiamare il testo delle disposizioni principali dell’Accordo con lo Stato italiano, che potrebbero essere intaccate. Lo abbiamo fatto in un rapporto di leale collaborazione e oserei dire di amicizia che ha caratterizzato e caratterizza le nostre relazioni. Faccio anche notare che fino ad ora il tema concordatario non era stato considerato in modo esplicito nel dibattito sulla legge. La Nota Verbale ha voluto richiamare l’attenzione su questo punto, che non può essere dimenticato».
Né può sfuggire il fatto che Draghi, al pari di Parolin, abbia posto l’accento su una «laicità» che non significa ’neutralità’ o ’indifferenza’ nei confronti dell’esperienza religiosa e credente. E abbia insistito sull’attenzione alla plura-lità, attraverso cui tale vissuto si esprime in un Paese come il nostro, che è per tradizione ospitale e inclusivo di differenti culture e appartenenze, fra le quali, oltre quella tradizionalmente cattolica, si rendono sempre più consistenti quella islamica e quella del cristianesimo orientale. Anche in questo sta la nostra mediterraneità. E di tutto questo lo «Stato laico», di cui ha parlato il premier, non potrà non tener conto. Infatti, richiamando la sentenza della Corte costituzionale 203/1989, ha ribadito, come se ne fossimo ignoranti, o peggio lo fossero i parlamentari presenti, che laicità non significa «indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale».
Il Governo sta giustamente alla finestra, mentre il Parlamento (ora il Senato) sta valutando e ci auguriamo che sia illuminato anche dalla profezia ecclesiale cattolica, nel frattempo noi pensiamo all’uomo, al suo ruolo nel cosmo e nella storia e al suo destino ultimo, che non può non interpellare anche il presente. In questo senso, come ancora il beato Rosmini insegna, la Chiesa non chiede privilegi, ma «libertà» e le sue piaghe provengono dall’aver in altre situazioni troppo ceduto a compromessi dettati da scelte di potere, che non possono appartenere a chi vuole seguire Gesù di Nazareth.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile, recensito da Riccardo Chiaberge
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Per una nuova laicità, un nuovo cristianesimo!!! Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle ... e la fine del cattolicesimo costantiniano!!!
Federico La Sala
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Come Gesù divenne il "Christus monetarius" ...*
L’analisi
Quando il debito pubblico era una faccenda di dono
di Luigino Bruni *
Se vogliamo capire come si è sviluppata l’etica economica nella cristianità medioevale e poi nel capitalismo, dovremmo cercare di abitare la sua radicale ambivalenza. La prima teologia cristiana ha fatto ampio uso del lessico e delle metafore economico-commerciali per cercare di spiegare l’evento cristiano, l’incarnazione e la salvezza. A partire dalla stessa parola oikonomia, che divenne fondamentale nella prima mediazione teologico-filosofica del cristianesimo: l’economia della salvezza, la Trinità economica.
Gesù definisce il denaro (mammona) un dio suo rivale, ma lo stesso Gesù è presentato come "divin mercante", il cui sangue era stato il "prezzo" della salvezza, una redenzione "pagata" dal sacrificio della croce. -Tutto il Medioevo, poi, è stato un proliferare di parole economico-teologiche: dalle anime "lucrate" al "guadagnarsi" il paradiso o il purgatorio; fino alla tradizione, molto cara ad Agostino (Sermone 9) dell’uomo come la "moneta di Dio", perché porta impressa la sua effigie/immagine.
Una delle frasi riportate dalla tradizione ma non dai Vangeli né canonici né apocrifi, i cosiddetti agrapha di Gesù, citata da Clemente d’Alessandria contiene un concetto importante: «Giustamente la Scrittura ci esorta a essere un competente cambiavalute, disapprovando alcune cose, ma tenendo fermo ciò che è buono» (Stromateis 1, 28,177, fine II secolo). Da qui la tradizione del Christus monetarius, il "buon cambiavalute", perché capace di discernere tra "monete" buone e cattive.
Con tutta questa ricca complessità in tema di monete e di economia non ci stupisce trovare nel Medioevo un’ambivalenza e una incertezza morale nei confronti dell’uso proprio delle monete e dell’economia. Una premessa. Per capire la nascita dell’etica economica europea non dobbiamo mai dimenticare che mentre i teologi disquisivano sulle monete e sui prestiti, i mercanti esistevano e dovevano lavorare. I mercanti erano e sono uomini pragmatici, talmente pragmatici da sfiorare il cinismo: la moneta serve, servono i cambiavalute (erano molte le monete in circolazione), servono i banchieri. Tutti sapevano che questi operatori non lavoravano gratis, ricorrere ai loro servizi costava, e quel prezzo da pagare si chiamava "interesse", che era accettato se non era eccessivo. I mercanti veri non avrebbero mai chiamato "usuraio" un mutuo (o una lettera di cambio, o un contratto di commenda) al tasso annuo del 5%, ma neanche del 10%. Erano ben coscienti che esistevano banchieri buoni e cattivi, come esistevano monete buone e altre cattive, e che monete e banchieri cattivi scacciavano i buoni. Operavano e vivevano tra queste cose buone e cattive, abitavano nell’economia l’ambivalenza della vita.
Allora la presenza di professionisti conoscitori delle monete era molto importante per la stabilità dei commerci e quindi per il bene comune. Questo lo sapevano tutti, come tutti sapevano che quando nelle città mancavano cambiavalute/banchieri ufficiali e quindi controllati periodicamente dal Comune nei loro pesi, bilance, libri e misure, la città si riempiva di banchetti clandestini di cattivi prestatori e "bagarini", che spesso finivano in bancarotta l’espressione deriva dal banco su cui il cambiavalute metteva le sue monete, la mensa argentaria: quando non riusciva più a pagare i suoi debiti, i suoi creditori gli spezzavano il banco.
Tra il XIV e il XV secolo Venezia contava più di cento banchi, cristiani ed ebrei, Firenze settanta, Napoli quaranta, Palermo quattordici (Vito Cusumano, "Storia dei banchi della Sicilia"). Il banchiere era anche un cambiavalute, e non di rado il suo ufficio era lo stesso di quello del notaio. I banchieri erano per molti versi equiparati a funzionari pubblici, ne condividevano alcune dimensioni dello status, dei privilegi, degli oneri. A nessuna persona perbene veniva in mente di chiamare questi banchieri pubblici "usurai", anche se prestavano a interesse. Tutti sapevano che i banchieri lucravano sul denaro, vescovi e papi per primi, che da una parte erano i primi clienti delle banche e dall’altra facevano omelie e scrivevano testi di condanna del prestito a interesse sulla base della Bibbia e dei Vangeli.
La Chiesa sapeva molto bene tutto questo, era esperta di ambivalenze, anche di quelle economiche. Conosceva bene i grandi banchieri, perché erano quasi sempre legati alle grandi famiglie borghesi e aristocratiche, sedevano nei consigli di governo delle città. Ma non dobbiamo pensare che la Chiesa, nelle sue varie componenti, fosse unanime in materie di monete, commerci, interessi e usura. La Chiesa era realtà plurale e antagonista, in teologia e in materia di prassi civile, più di quanto non lo sia in epoca moderna. Non deve quindi stupirci il grande numero di libri e omelie dedicati, soprattutto tra il XII e il XVII secolo, a temi finanziari e commerciali.
L’economia, dopo la teologia, fu la materia più trattata dai teologi tra Medioevo e Modernità. In questi dibattiti un grande peso lo aveva ancora il mondo monacale, antico, ricco e potente.
L’ora et labora dei monasteri e delle abbazie aveva creato una sua etica economica, molto attenta ai valori del lavoro e delle cose terrene. In particolare i monaci erano i grandi nemici del vizio capitale dell’accidia, cioè dell’inattività e della pigrizia; di conseguenza la prima lode per la sollecitudine del mercante, visto come l’anti-accidioso per eccellenza, nacque nei monasteri, dove si sviluppò anche l’esegesi della "parabola dei talenti" come lode dell’intrapresa dei primi due servitori e condanna della pigrizia del terzo. Il mercante piace perché mette in circolo la ricchezza, mentre l’avaro la blocca nei suoi forzieri.
Ma la riflessione specifica sulla moneta si sviluppò soprattutto tra i nuovi ordini mendicanti, attenti osservatori, per i loro carismi, della civiltà cittadina. In questo contesto, un ruolo importante nella riflessione teologica sul prestito a interesse lo svolse la nascita dei debiti pubblici delle città commerciali, in particolare Venezia e Firenze.
Interessante a questo riguardo fu un dibattito che coinvolse a Venezia nella metà del Trecento alcuni grandi teologi, centrato sulla liceità di pagare l’interesse sul debito pubblico e di vendere quei titoli di credito (al prezzo di circa il 60-70% del loro valore nominale).
Dalla fine del XII secolo le città commerciali italiane si trovarono di fronte a un forte aumento della spesa pubblica, anche a causa delle spese militari. Quelle città erano di fatto dei consorzi di famiglie, una specie di società cooperativa, dove i cittadini erano anche soci e proprietari di un bene comune: la città. Nelle prime fasi le spese pubbliche erano coperte con varie forme di contributi e tasse da parte dei cittadini. Di fronte però all’esplosione della spesa pubblica, i cittadini pensarono che invece di continuare ad aumentare le loro tasse poteva essere più conveniente emettere titoli di debito pubblico. Questi titoli dovevano pagare interessi periodici (il versamento degli interessi si chiamava paga) ai creditori, nella misura del 5% annuo (stessa percentuale del coevo Monte di Firenze). Quel debito pubblico venne visto dai cittadini come un mutuo vantaggio rispetto alle tasse: a differenza delle tasse il debito pubblico pagava interessi periodici e la città copriva le sue spese pubbliche.
Interessante notare che mentre i teologi discutevano e in genere condannavano l’interesse sui prestiti privati, tanto che fu necessaria una Bolla papale (nel 1515) per rendere lecito l’interesse, sempre del 5%, chiesto dai Monti di Pietà francescani, tutti erano invece molto sereni sul pagamento dell’interesse sul debito pubblico. Il dibattito teologico a Venezia, infatti, non verteva sulla liceità dell’interesse accettato come un dato di realtà, ma sulla ragione che portava a considerare lecito quell’interesse. Protagonisti della disputa erano il francescano Francesco da Empoli, i domenicani Pietro Strozzi e Domenico Pantaleoni, e l’agostiniano Gregorio da Rimini.
Il francescano accettava l’interesse sulla base della teoria francescana del "danno emergente" e del "lucro cessante": se un cittadino doveva prestare del denaro alla città (a volte i prestiti erano forzosi), la città doveva ricompensare quel danno subìto con il pagamento dell’interesse (termine usato da Francesco). Non c’era bisogno d’altro, l’interesse era un prezzo. Il francescano, poi, coerentemente non mette in discussione neanche la liceità di vendere i titoli del debito.
Più articolato era invece il discorso dei teologi domenicani, che in genere erano più critici dei francescani sugli interessi. Sulla scia di Tommaso d’Aquino, i due teologi domenicani cambiano radicalmente argomentazione e costruiscono la loro tesi sulla liceità dell’interesse su una base totalmente diversa: quell’interesse non deve essere inteso comeprezzo del denaro prestato, ma come dono per chi ha agito per amore civico: «Il domenicano non contesta la liceità dell’attribuzione di un 5% annuo ai creditori del Monte, ma ne propone una interpretazione come dono spontaneo, da parte della comunità, che manifesta così la sua gratitudine al cittadino» (Roberto Lambertini, "Il dibattito medievale sul consolidamento del debito pubblico dei Comuni", 2009). L’interesse che, coerentemente con la sua etimologia (inter-esse>), era inteso come il legame in un rapporto di reciprocità tra doni. Ma se quel 5% è dono, allora, diversamente da Francesco da Empoli, per i domenicani il possessore del titolo non può rivenderlo, perché i doni non si vendono.
Ed è qui che entra in gioco un elemento decisivo, ripreso e potenziato dall’agostiniano Gregorio da Rimini: la retta intenzione. Ciò che rende quel 5% lecito è l’intenzione con la quale la città lo paga e il cittadino lo riceve. Se l’intenzione, di uno o di entrambe le parti, è il lucro privato, quell’interesse è illecito; se è il bene comune, è lecito. Da qui la non ammissibilità del commercio dei titoli, proprio perché in chi vende e acquista non c’è più l’originario bene comune, ma solo il lucro privato.
Interessante, infine, la spiegazione che dà Gregorio per affermare che la città di Venezia non aveva la retta intenzione nell’emettere quei titoli di debito. Per il teologo agostiniano, è il pagamento della stessa percentuale del 5% a tutti, senza dunque tener conto delle diverse condizioni soggettive dei prestatori, delle loro ricchezza e necessità, che rende illecito quel debito pubblico; come a dire che quella mancata differenziazione evidenzia l’intenzione di lucro e non di bene comune. È l’antica idea che l’uguaglianza sostanziale, quindi la giustizia, non coincide con quella formale.
Oggi siamo nuovamente in una fase fondativa, a livello europeo, sul senso di debiti, di prestiti, di tasse, di interessi. Quei primi dibattiti etici hanno molte cose da dirci. Ci dicono che le intenzioni contano, contano ancora in economia. I Paesi europei hanno accettato l’emissione di molto debito pubblico in questo tempo pandemico perché hanno interpretato le intenzioni di chi chiedeva e di chi concedeva prestiti. Un male comune - la pandemia di Covidc-19 - ha fatto riscoprire il bene comune, e quindi un altro interesse, il legame necessario tra debito e bene comune. In questo terribile 2020 abbiamo riscoperto anche il dono, i doni fatti e quelli ricevuti, dal dono della vita di medici e infermieri fino al dono del vaccino gratuito e universale. E se fosse anche l’inizio di una nuova economia?
* Avvenire, sabato 19 dicembre 2020 (ripresa parziale).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio ... Francesco D’Agostino (dall’Avvenire) vuole dare lezioni a Rosy Bindi e mostra solo tutto il livore di un cattolicesimo che ha sempre confuso "Erode" con Cesare e Dio con "Mammona"!!!
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile, recensito da Riccardo Chiaberge
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
Federico La Sala
Angelus. L’invito del Papa a pagare le tasse: «E’ un dovere»
Dal Vangelo della Domenica il richiamo a essere cittadini onesti e allo stesso tempo testimoni dell’amore di Dio. Il pensiero per padre Maccalli e per i pescatori di Mazara del Vallo fermati in Libia
di Redazione romana (Avvenire, domenica 18 ottobre 2020)
Lo spunto è stata la domanda "insidiosa" posta a Gesù per screditarlo: "E’ lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?". Partendo dalla riflessione su questo quesito, papa Francesco nell’Angelus domenicale ha richiamato tutti ai doveri di essere buoni cittadini per essere buoni cristiani.
E lo ha fatto con una ferma esortazione a rispettare i propri impegni anche fiscali: «Le tasse vanno pagate, pagarle è un dovere dei cittadini, come anche l’osservanza delle leggi giuste dello Stato. Al tempo stesso, è necessario affermare il primato di Dio nella vita umana e nella storia, rispettando il diritto di Dio su ciò che gli appartiene», ha detto il Pontefice spiegando che «da qui deriva la missione della Chiesa e dei cristiani: parlare di Dio e testimoniarlo agli uomini e alle donne del proprio tempo».
Se nell’antica Palestina l’immagine dell’imperatore romano era impressa sulle monete (da qui la domanda che fu rivolta a Gesù), papa Bergoglio ha sottolineato che «ogni persona porta in sé un’altra immagine - la portiamo nel cuore, nell’anima -, quella di Dio, e pertanto è a Lui, e a Lui solo, che ognuno è debitore della propria esistenza». Una distinzione che rende evidente la missione dei cristiani sulla Terra, «essere presenza viva nella società, animandola con il Vangelo e con la linfa viva dello Spirito Santo».
Il Santo Padre ha poi rivolto «una parola di incoraggiamento e di sostegno ai pescatori (di Mazara del Vallo, ndr) fermati da più di un mese in Libia e ai loro familiari. Affidandosi a Maria Stella del mare - ha aggiunto - mantengano viva la speranza di poter riabbracciare presto i loro cari». Un altro pensiero è stato per padre Pier Luigi Maccalli, da poco liberato dopo due anni di sequestro in Niger: «Desidero ringraziare Dio per la tanto attesa liberazione di padre Maccalli che era stato rapito. Ci rallegriamo anche perché con lui sono stati liberati altri tre ostaggi. Preghiamo per i missionari e per i catechisti e anche per quanti vengono perseguitati o vengono rapiti in varie parti del mondo», ha concluso papa Francesco.
DUE SOLI.
La Costituzione, la "Monarchia" di Dante, e la indicazione di Papa Francesco...
Pagare il tributo a Cesare «è un dovere»! Con la precisazione evangelica sulla necessità di pagare le tasse allo Stato (secondo la Costituzione della Repubblica italiana), Papa Francesco apre la strada a Dante -2021 e, insieme, a una comprensione più precisa e contestualizzata della "misteriosa" figura che "fece per viltade il gran rifiuto".
Federico La Sala
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio... *
Un vescovo emerito scrive.
Evasori fiscali, non si tradiscono così Dio e la nazione
di Luigi Bettazzi (Avvenire, mercoledì 8 luglio 2020)
Egregi evasori fiscali,
(e-gregio vuol dire infatti "fuori, al di sopra del gregge", della gente comune) da vescovo più giovane e da presidente di Pax Christi, Movimento internazionale per la pace, m’era venuto di scrivere ai politici del tempo - ad esempio al democristiano Benigno Zaccagnini e al comunista Enrico Berlinguer - invitandoli a essere coerenti con le loro scelte politiche e convergenti al bene della nazione, ora, al termine della mia vita (ho ormai più di 96 anni), mi viene di scrivere una lettera a voi.
La pandemia che stiamo vivendo ci ha obbligati a vivere più ritirati, quindi più pensosi per la nostra vita personale e per il bene della collettività. Ed è così, ad esempio, che ci siamo resi conto del lavoro delle varie mafie che, attente a evitare situazioni più clamorose, come quelle che finiscono in uccisioni e stragi, sfruttano la situazione per aumentare le loro ricchezze, ad esempio con prestiti a usura a chi non riesce a trovare mezzi legali per sovvenire alla mancanza di danaro causata dalla limitazione del lavoro o dalla sua perdita. Al contrario, v’è chi arriva a frodare per avere sovvenzioni a cui non ha diritto.
Questo ci ha fatto pensare come le limitazioni, sia del sistema sanitario antecedente come dei provvedimenti per arginare l’espandersi della pandemia e frenare le crisi dell’industria e delle aziende, derivi anche dalle minori disponibilità economiche dovute anche a quanto viene evaso da chi non paga le tasse, soprattutto di chi, con la ricchezza, riesce a trovare i mezzi per portare i suoi beni nei cosiddetti paradisi fiscali. Questa è una grossa ingiustizia perché quanto viene portato fuori dalla nazione è stato raggranellato con il lavoro dei concittadini e utilizzando le leggi (e le sottigliezze) dello Stato. È triste pensare che la nazione vi abbia fatti crescere e sviluppare fino al punto di poterla tradire.
Non voglio pensare che tra voi ci siano quelli che formalmente figurano come rispettosi - o addirittura partecipi attivi - del cristianesimo che ha accompagnato la storia della nostra nazione, ma poi trasgrediscono il suo messaggio fondamentale, che è quello di non chiudersi nel proprio egoismo, ma di aprirsi agli altri, proprio cominciando dai più piccoli, dai più poveri, dai più emarginati.
Così fanno i boss delle varie mafie, che poi a copertura delle loro violenze proteggono le devozioni popolari e se ne fanno riverire, o quei politici che nel mondo ostentano oggetti e proteggono frange di strutture religiose per coprire le loro minori attenzioni umane. Non vorrei che anche voi, magari sovvenendo pubblicamente alcune opere di solidarietà, vogliate così "scontare" la vostra ingiustizia di fondo.
È vero che alle volte, nel mondo, le tassazioni possono sembrare eccessive o ingiuste. Ma, in democrazia, si devono trovare i mezzi, soprattutto da parte dei più abbienti come siete voi, per correggerle, non per avere un pretesto per evaderle, portando il proprio danaro negli... inferni fiscali.
Perché purtroppo il danaro diventa quasi una divinità, anzi la vera alternativa a Dio: aveva già detto chiaramente Gesù (usando un termine locale) che non si possono servire due padroni: o Dio o mammona (il danaro).
Non so se anche qualche parroco vi ha mai detto che l’evasione fiscale è peccato mortale: l’ha detto qualche tempo fa laicamente Romano Prodi, ve lo ripete oggi un vescovo, anche se emerito. Mi verrebbe da ripetere la frase forte che san Giovanni Paolo II proclamò, nella valle di Agrigento, contro le mafie: "Convertitevi! Un giorno dovrete risponderne di fronte a Dio". E allora non ci saranno pretesti e coperture.
Vi chiedo scusa se vi ho attaccati pubblicamente. Spero comunque di avervi fatto pensare.
Da vescovo, pregherò per voi, per le vostre famiglie e per le vostre attività, ovviamente purché siano oneste.
Vescovo emerito di Ivrea
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
VIVA L’ITALIA !!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO....
Addio al giurista e polemista. Franco Cordero, il più scomodo di tutti gli eclettici
A 91 anni scomparso il giurista e polemista, capace di spaziare dal diritto al romanzo, con forte inclinazione anticlericale
di Francesco D’Agostino (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Personalità fuori dal comune, quella di Franco Cordero (scomparso due giorni fa a Roma a 91 anni): uomo poliedrico, capace di spaziare con sicurezza dalla giurisprudenza alla storia, dalla filosofia alla teologia, dall’antropologia alla politica; polemista memorabile, romanziere di notevole originalità, anche se di ardua leggibilità, inventore di stilemi linguistici suggestivi. Se su queste sue doti non c’è da dubitare, su altre probabilmente è difficile che si trovi un accordo tra i suoi colleghi, i suoi studiosi ed i suoi lettori.
È stato davvero, come alcuni sostengono, uno dei massimi giuristi italiani del Novecento? Sicuramente è stato un giurista fuori dal comune, che ha nobilitato la sua disciplina (il diritto processuale penale) oltre ogni aspettativa. Ma è stato anche vittima della sua intelligenza labirintica, della sua rigidità ideologica, della sua carenza di flessibilità. Ordinario da anni nell’Università Cattolica di Milano, entrò in tensione con il paradigma culturale che la governava e di cui egli aveva perfetta consapevolezza: non ebbe il buon senso (di cui ad esempio diede prova il filosofo Emanuele Severino) di chiedere il trasferimento ad altro Ateneo, che pure avrebbe immediatamente ottenuto; privato tra mille polemiche del necessario nulla-osta all’insegnamento, attivò un duro braccio di ferro con le autorità accademiche, che volle portare fino al giudizio della Corte Costituzionale.
Era ovviamente un suo diritto ricorrere alle vie legali, ma fu molto sgradevole vedere come il suo ricorso si saldasse con un anticlericalismo sempre più aspro, polemico e in definitiva sterile, che egli cercò faticosamente di nobilitare arrivando perfino a scrivere un fitto commento all’Epistola ai Romani di San Paolo.
È difficile dire se il suo anticlericalismo giunse infine a trasformarsi in un vero e proprio anticattolicesimo; è certo però che alla fine logorò anche la pubblica opinione, al punto che, per mantenere comunque un contatto col “suo” pubblico, Cordero trovò uno sfogo cominciando a scrivere numerosi romanzi, dedicando a Savonarola una sterminata biografia, e insinuandosi abilmente nel dibattito politico del tempo (fu lui a forgiare il soprannome di “caimano” per Berlusconi , soprannome che ebbe un certo successo, anche perché ripreso da Nanni Moretti in un suo film omonimo).
Gira la notizia che una nuova e brillante casa editrice starebbe per pubblicare un suo ultimo romanzo e che sarebbe anche in progettazione una nuova edizione di un suo importante testo di molti decenni fa, Gli Osservanti, del 1967, l’opera con la quale Cordero intendeva radicare definitivamente il suo pensiero nella filosofia del diritto. Gli Osservanti è un libro, pieno di riferimenti, provocazioni, citazioni, allusioni, polemiche; un libro col quale l’Autore voleva presentare ai suoi lettori nuovi e rivoluzionari paradigmi dottrinali. Ma si trattava anche di un libro troppo difficile e troppo costoso per divenire popolare tra gli studenti sessantottini e contestatori e troppo farraginoso per conquistare la platea dei giuristi di professione. Se esso, nella sua nuova edizione, avrà successo, ne sarò lieto, perché è pieno di intelligenza. Ma non si tratta di intelligenza né giuridica, né filosofica, ma di intelligenza polemica: ammirevole, ma sterile.
Morto Franco Cordero, il giurista che inventò il "Caimano"
Raffinato uomo di legge, anticlericale, intellettuale militante si è spento a 92 anni. Indimenticabili le sue polemiche contro Berlusconi al quale dedicò il soprannome
di ROBERTO ESPOSITO (la Repubblica, 08 maggio 2020)
Con Franco Cordero scompare una delle figure più raffinate e poliedriche della cultura italiana contemporanea. Ma anche un intellettuale militante, impegnato in battaglie civili contro il lato oscuro del potere politico ed ecclesiastico italiano. Nato a Cuneo nel 1928, ha attraversato l’ultimo secolo, lasciando una traccia indelebile non solo nel campo del diritto di cui è stato riconosciuto maestro, ma anche in quelli della riflessione filosofica, teologica, antropologica. E infine nella letteratura con una serie di romanzi - tra i quali Opus, Bellum civile, L’armatura - di lettura non semplice, ma scritti con uno stile personalissimo che gli assegna un ruolo non secondario nella letteratura degli ultimi decenni.
Allievo di Giuseppe Greco, ha insegnato in diverse Università italiane, tra cui Trieste, Torino, Roma, dove ha chiuso nel 2002 la propria brillante carriera accademica. Ma certamente l’esperienza che più lo ha segnato, diffondendo il suo nome anche all’estero, è stato l’insegnamento alla Cattolica di Milano, allora diretta da Agostino Gemelli, iniziato nel 1960. Entrato in conflitto per la sua posizione di intransigente polemica nei confronti della parte più retriva della gerarchia ecclesiastica, è stato espulso dalla Cattolica, scatenando quello che, sulle pagine dei quotidiani italiani e stranieri, ha assunto il nome di "caso Cordero". L’occasione dello scontro, non cercato ma neanche evitato da Cordero, è stata la pubblicazione del testo intitolato Gli osservanti (1967) ma soprattutto il successivo romanzo Genus che nel 1969 gli costerà l’allontanamento dalla cattedra. Accusato di eterodossia e attaccato frontalmente dalla destra cattolica, Cordero ha risposto con altrettanta nettezza, scatenando una polemica arrivata perfino alla Corte Costituzionale.
Da allora la sua persona è diventata occasione di continue controversie. Attaccato dagli ambienti confessionali, è diventato per altri una bandiera di indipendenza e di libero pensiero. I suoi scritti, alcuni memorabili, vanno dalla tecnica giuridica - il suo manuale di procedura penale, ristampato più volte, costituisce ancora riferimento essenziale per gli studi di diritto - alla filosofia, alla teologia, all’antropologia. Ciò che di essi colpisce è la straordinaria miscela di erudizione e originalità, di filologia e di spregiudicatezza ermeneutica.
Se la sua monumentale biografia di Savonarola in quattro volumi contiene ancora una miniera di informazioni per gli studiosi, il suo Commento alla Lettera ai Romani di Paolo di Tarso continua a sorprenderci per la radicalità della sua interpretazione, allo stesso tempo fedele ed estrema. Oggi, in una cultura accademica sempre più proclive a uno specialismo senza nerbo, la vastità e la poliedricità del suo sapere restano una sorta di unicum con cui è difficile stabilire confronti.
Ma questa molteplicità di interessi e di linguaggi non sfocia mai in una sorta di vacuo eclettismo, tanto meno in divulgazione. Al contrario il suo stile di scrittura, a volte denso fino all’ermetismo, costituisce per il lettore una sfida che non può lasciare indifferenti. Si può anzi dire che, nonostante l’ampiezza di orizzonti della sua cultura, tutti i suoi testi sembrano convergere verso un fuoco centrale, al contempo teoretico ed etico-politico.
La forza - nel senso pieno del termine - di Cordero stava nel rifiutare ogni compromesso, ogni risposta troppo facile a questioni complesse, come quella del rapporto tra sacro e profano, teologia e politica, eternità e tempo. Tra di essi, per Cordero, non c’è possibilità di sintesi dialettica. Ma continua tensione tra poli irriducibili, necessari l’uno ad illuminare l’altro non per analogia, ma per contrasto. Egli c’insegna che le grandi contraddizioni, nella vita e nel pensiero, non hanno mai soluzioni facili.
Il suo - potremmo dire - è un pensiero teologico-politico consapevole del rischio di ogni sovrapposizione tra teologia e politica. Come è impossibile fondare razionalmente il sacro, così va evitato ogni sacralizzazione del potere. Che anzi è ciò che Cordero ha combattuto per tutta la vita.
Alla fine dell’insegnamento universitario Cordero ha potenziato il proprio impegno politico attraverso una serie di interventi, articoli, polemiche rimaste insuperate per la loro radicalità e anche fantasia semantica. Come dimenticare le vere e proprie invenzioni lessicali, come quelle indirizzate contro Berlusconi, identificato ora con il "Caimano", ora con un Mackie Messer contemporaneo? Le sue polemiche nei confronti del collasso della cultura politica italiana dei due ultimi decenni hanno avuto un tono aspro e duro, come era il suo carattere.
Oggi forse non sono più di moda. Ma basta rileggere alcuni suoi titoli - da Nere lune d’Italia a Morbo italico - per accorgersi che quei libri parlano ancora di noi. La sua etica, lucida e disperata, è una luce della quale c’è ancora bisogno. Il suo discorso, leopardiano, sopra lo stato presente dei costumi italiani non ha smesso di interpellarci. Esso attende ancora una risposta e una promessa di riscatto all’altezza delle sue domande
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI")
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI ?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA" !!!
Federico La Sala
"DUE SOLI" (DANTE): I "DUE PADRONI", I "DUE MONDI", E LA DEMOCRAZIA, OGGI.... *
Democrazia e cristianesimo
Per una democrazia inclusiva
di Dario Antiseri (L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2019)
In tema di democrazia una domanda ineludibile è la seguente: l’essere cristiano è compatibile con la laicità dello Stato? O, rovesciando l’interrogativo, lo Stato laico sarebbe stato possibile senza l’avvento del cristianesimo? Nella pratica politica, il relativismo - ha affermato qualche anno fa l’allora cardinale Joseph Ratzinger - è benvenuto perché ci vaccina dalla tentazione utopica. E novità essenziale del cristianesimo per la storia è che «fino a Cristo l’identificazione di religione e Stato, divinità e Stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo Stato. Poi l’islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l’umanità».
In realtà, «da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l’umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell’amore che attrae. Egli dice “attirerò tutti a me”. Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo Stato [...]. I padri hanno pregato per lo Stato riconoscendone la necessità, ma non hanno adorato lo Stato».
Questa, ad avviso di Ratzinger, è «la distinzione decisiva» - una distinzione che rappresenta uno straordinario punto di incontro tra il pensiero cristiano e cultura liberal-democratica. «Io penso - afferma Ratzinger - che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando una nuova libertà. Lo Stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La distinzione tra lo Stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo Stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello Stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal-democratico ha preso le sue strade, l’origine è proprio questa».
Il cristiano de-assolutizza, cioè relativizza, il potere politico; non può servire a due padroni: Dio e il dio-denaro; non può genuflettersi davanti all’altare di una ragione trasformata in dea. E dev’essere fedele al comandamento di amare il prossimo come se stesso. Ed è esattamente in base a questi princìpi che il messaggio cristiano, per dirla con Pëtr J. Čaadaev, «è più che storia, più che psicologia, è la fisiologia dell’uomo europeo». Thomas S. Eliot: «Un singolo europeo può non credere che la Fede cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice, e fa, scaturirà dalla parte di cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato». Per questo, è ancora Eliot a parlare, se il cristianesimo se ne va, è l’Europa che scompare: «Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura; e allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie».
In altre parole, la decadenza dell’Europa è una decadenza spirituale: è l’allontanarsi degli europei dalle idealità cristiane. E quando gli ideali della fede cristiana si sono spenti, l’Europa - annota Röpke - ne ha cercato «un surrogato nelle ideologie politico-sociali (le “religioni sociali”, come le ha definite Alfred Weber): il socialismo, il comunismo e, soprattutto, il nazionalsocialismo».
E oggi che cosa è rimasto nella mente di non pochi cittadini e soprattutto - e purtroppo - di non pochi dei nostri giovani, una volta lontani dalle idealità cristiane? Rimane l’idolatria del potere sugli altri, considerati e trattati come oggetti delle proprie voglie; rimane l’idolatria del denaro quale fonte perenne che alimenta la vasta fenomenologia della corruzione, con migliaia e migliaia di giovani e meno giovani che scorrazzano sul palcoscenico del gran teatro dell’illegalità; si impone una situazione dove alle ragioni della legge si sostituisce la ragione della forza o, più esattamente, la non-ragione di bande violente di intolleranti - di predoni divorati dalla brama di vestirsi da padroni - padroni del narcotraffico e, dunque, padroni della vita e della morte altrui.
di Dario Antiseri
Professore emerito di Epistemologia delle scienze sociali - luiss, Roma
L’Osservatore Romano, 23.10.2019.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
Lettera per amore.
Dialogo tra un vescovo e un giornalista: Dio, natura, umanità
di Francesco D’Agostino (Avvenire, sabato 18 maggio 2019)
Ammirevole la lettera che il vescovo Luigi Bettazzi, emerito di Ivrea, scrive a Corrado Augias, provocandolo, con amicizia, sul tema dei temi, quello di Dio e del nostro rapporto con Lui. Augias, diversamente da altri giornalisti e saggisti del suo spessore, non ha mai eluso il tema della religione, anzi lo ha affrontato più di una volta, anche in scritti di ampio respiro, senza però mai volersi compromettere personalmente e fino in fondo con questa tema.
Bettazzi non scrive ad Augias per metterne in discussione la spiritualità, ma per esortarlo a respingere la tentazione dell’ateismo e a considerarsi piuttosto agnostico: infatti, chi (come Augias) dà prova di credere nella libertà, nella bellezza, nella giustizia, crede fondamentalmente nel bene, anche se non vuole o comunque esita a chiamarlo ’Dio’. Agli agnostici, intesi nel senso che si è detto, conclude il vescovo, si può voler bene; mentre voler bene agli atei è davvero difficile.
La risposta di Augias nella rubrica che tiene su ’la Repubblica’ (pubblicata martedì scorso, 14 maggio 2019) è sobria e limpida: grato per l’attenzione che gli viene rivolta, egli ribadisce che il suo atteggiamento fondamentale è quello di prendere le distanze da tutti i dogmi, dai riti, dai catechismi, dai testi sacri e soprattutto da quell’immagine di Dio, come ’super-padre’, occulto e onnipotente governatore del creato, che le religioni inevitabilmente veicolano.
L’immagine di Dio è ormai uscita dagli scenari del nostro tempo, insiste Augias, ma non per questo ci mancano efficaci surrogati di questa immagine, surrogati tra i quali sembra che egli prediliga un’immagine vagamente spinoziana della natura, come epifania di Dio («Deus sive natura»). Il giornalista-scrittore riconosce che l’amore per la terra, per l’acqua, per l’aria non è un perfetto surrogato della religione, ma può comunque essere sufficiente per giustificare una spiritualità «matura e pacifica», rispettosa del prossimo e dell’ambiente e in fondo non molto diversa da quella percepita ed espressa da san Francesco di Assisi.
Il ’naturalismo’ di Augias non ci deve naturalmente meravigliare troppo: è perfettamente in sintonia con l’ecologismo dominante nella cultura contemporanea. Né ci deve meravigliare il riportare il naturalismo allo spirito francescano. Non è la prima volta che questo nesso viene istituito, anche se ha ben poco fondamento: l’amore di san Francesco per la natura è direttamente conseguente al suo amore per il creato e il creato, nello spirito francescano (e ovviamente non solo nello spirito francescano, ma in generale nella spiritualità cristiana), va amato proprio in quanto ’creato’, come portatore dell’immagine di Dio. Se togli Dio, o lo metti tra parentesi, del creato resta solo il paradigma materialistico e meccanicistico che pervade tanta parte della scienza contemporanea. La materia può anche essere ammirata, e una pari ammirazione possiamo nutrire nei confronti degli algoritmi che la strutturano; ma tra l’ammirazione e l’amore c’è una distanza su cui non dovremmo mai smettere di riflettere.
Il cuore della questione è che l’essenza della religione (e penso, in particolare, alla religione cristiana) non consiste nel costruire un’immagine di Dio come Ente supremo o come super-Padre e nel predicare la nostra doverosa sottomissione ai suoi comandi, bensì nel ricevere e nell’accogliere un Vangelo, una buona notizia, tanto semplice quanto sconvolgente: siamo creati e siamo amati da Dio senza alcun merito da parte nostra e questo amore, assolutamente immeritato, chiede di essere ricambiato.
La natura ci nutre, ci tiene in vita, ci affascina, ma non ci ama; dobbiamo rispettarla, prendercene cura, al limite anche venerarla, ma non dobbiamo illuderci: è la stessa natura, nel cui contesto veniamo al mondo, che ci condanna a morte. Solo l’amore è promessa di vita e solo l’amore gratuito di Dio è promessa di vita eterna. Augias ha ragione, quando afferma che oggi la domanda stessa se Dio esista per tanti «è», o sembra, «uscita di scena». Ciò però che non può uscire di scena è il bisogno di amore che ogni persona, anche la più violenta e arrogante, nutre nel segreto del cuore. Ateismo e agnosticismo sono nobili concetti teoretici, l’amore è un’esigenza vitale. Forse è proprio da qui che bisogna dare inizio alla nuova evangelizzazione, della quale da tanto tempo si parla.
SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio ... Francesco D’Agostino (dall’Avvenire) vuole dare lezioni a Rosy Bindi e mostra solo tutto il livore di un cattolicesimo che ha sempre confuso "Erode" con Cesare e Dio con "Mammona"!!!
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL COLLOQUIO. Parla Monsignor Ravasi: fede e scienza devono allearsi per battere la superficialità del momento
“La tecnica corre troppo e ci cambierà l’anima”
di Elena Dusi (la Repubblica, 25.06.2017)
ROMA. «La tecnologia corre e ci propone nuovi mezzi con una velocità che la teologia e gli altri canali della conoscenza umana non riescono a seguire». Il cardinale Gianfranco Ravasi, 74 anni, teologo, biblista, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, non è però uomo che si dia per vinto. Con il “Cortile dei Gentili” e il “Tavolo permanente per il dialogo fra scienza e religione” sta cercando “alleati” fra coloro che hanno ancora fiducia nell’uomo e nel suo pensiero. «Atei, scienziati, persino chi ancora crede nelle ideologie. Non è più tempo di contrapposizioni ma di dialogo». Nell’ultimo incontro del “Tavolo” si è parlato di intelligenza artificiale e del rapporto fra umani e umanoidi.
Perché questo dialogo fra fede e scienza?
«Religione e scienza sono spesso considerati magisteri indipendenti, due rette parallele. E dal punto di vista del metodo è giusto che sia così. Ma condividono lo stesso soggetto e lo stesso oggetto. Non possono non incontrarsi, prima o poi».
Scienza e fede sono due tonalità di una stessa musica?
«La conoscenza del mondo da parte dell’uomo avviene attraverso molti canali: la scienza e la razionalità, ma anche la teologia, l’estetica, l’amore, l’arte, il gioco, il simbolismo, che è poi il primo modo di conoscere che abbiamo da bambini. Perderli o semplificarli vuol dire impoverirsi. E purtroppo è quello che sta avvenendo oggi».
Per colpa della scienza?
«No, per colpa dell’ignoranza. Stiamo vivendo una globalizzazione della cultura contemporanea dominata solo dalla tecnica o dalla pura pratica. C’è, ad esempio, una sovrapproduzione di gadget tecnologici di fronte alla quale non riusciamo a elaborare un atteggiamento critico equilibrato. Ci ritroviamo in un’epoca di bulimia dei mezzi e atrofia dei fini. La formazione scolastica e universitaria si occupa troppo poco degli aspetti relativi all’antropologia generale. Così, l’insegnamento di arte, letteratura, greco e latino, filosofia viene progressivamente ridotto».
Con quali conseguenze?
«Ci ritroviamo spesso appiattiti, schiacciati su un’unica dimensione. Un certo uso della scienza e della tecnologia hanno prodotto in noi un cambiamento che non è solo di superficie. Se imparo a creare robot con qualità umane molto marcate, se sviluppo un’intelligenza artificiale, se intervengo in maniera sostanziale sul sistema nervoso, non sto solo facendo un grande passo avanti tecnologico, in molti casi prezioso a livello terapeutico medico. Sto compiendo anche un vero e proprio salto antropologico, che tocca questioni come libertà, responsabilità, colpa, coscienza e se vogliamo anima».
La scienza corre troppo?
«Non tanto la scienza, quanto la tecnologia: corre e ci propone nuovi mezzi con una velocità che la teologia e gli altri canali della conoscenza umana non riescono a seguire. Per questa via si può finire in una civiltà mediatica e digitale che sta diventando totalizzante. Parliamo di transumanesimo come una delle paure del futuro, ma per certi versi è già iniziato. I nativi digitali sono funzionalmente diversi rispetto agli uomini del passato. Capovolgono spesso sia il rapporto fra reale e virtuale, sia il modo tradizionale di considerare vero e falso. È come se si ritrovassero dentro a un videogioco. Inoltre, l’uomo, che è sempre stato un contemplatore e custode della natura, oggi è diventato una sorta di con-creatore. La biologia sintetica, la creazione di virus e batteri che in natura non esistono sono un’espressione di questa tendenza. Tutte queste operazioni hanno implicazioni etiche e culturali che devono essere considerate».
Scienza e fede come possono collaborare?
«Fra spiritualità e razionalità, tra fede e scienza, può instaurarsi una tensione creativa. Diceva Giovanni Paolo II che la scienza purifica la religione dalla superstizione e la religione purifica la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti».
L’ecologia è un altro terreno di incontro?
«Gli accordi di Parigi sono ora in difficoltà. Anche molti “laici” si riconoscono invece nella Laudato si’ di papa Francesco, che mi pare stia diventando il punto di riferimento della questione ecologica. D’altronde è scritto nei primi passi della Genesi che Dio ha affidato la Terra all’uomo per “coltivarla” ma anche per “custodirla”».
I suoi incontri con i laici ormai proseguono da qualche anno. Qual è il suo bilancio?
«Il fondatore del cristianesimo, Gesù di Nazaret, era un laico, non un sacerdote ebraico. Egli non ha esitato a formulare un principio capitale: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. La contrapposizione fra clericali e anticlericali ormai è sorpassata. Alcuni aspetti della laicità ci accomunano tutti e la teologia ha smesso da tempo di considerare la filosofia e la scienza solo come sue ancelle. I problemi piuttosto sono altri. Semplificazione, indifferenza, banalità, superficialità, stereotipi, luoghi comuni.
Una metafora del filosofo Kierkegaard mi sembra adatta ai tempi di oggi: la nave è finita in mano al cuoco di bordo e ciò che dice il comandante con il suo megafono non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani. È indispensabile riproporre da parte di credenti e non credenti, i grandi valori culturali, spirituali, etici come shock positivo contro la superficialità ora che stiamo vivendo una svolta antropologica e culturale complessa e problematica, ma sicuramente anche esaltante».
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Laicismo, l’anti-religione contraria alla laicità
di Fabrice Hadjadj (Avvenire, 04.12.2016)
La parola "laico" è un segno ostensibile nella lingua francese e anche in quella italiana. È vero che l’udibile spicca meno del visibile; ecco perché il suono della parola "laico" ci colpisce meno della visione di un crocifisso. Tuttavia, a chi sa ascoltare quel suono, a chi sa ricollocarlo nella sua prospettiva storica, si offre la visione di uno strano spettacolo: alcune persone brandiscono un crocifisso garantendo che si tratta invece di un martello - o del segno più dell’addizione; si esprimono con il tono degno dei migliori predicatori e ci spiegano che è per sottolineare una neutralità quando non una distanza dalle religioni; ripetono infine senza sosta un versetto del vangelo ma sono persuasi di intonare un ritornello del loro repertorio.
Essi infatti dicono e ridicono che bisogna «dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», si fanno promotori di carte della laicità, senza accorgersi che questa promozione è stata resa possibile dall’eredità cristiana. Perché è in primo luogo la teologia cattolica che distingue il laico dal chierico. Ed è sempre la teologia cattolica che pone quella «separazione dei poteri» ben più fondamentale di quella di Montesquieu, la separazione del potere temporale e del potere spirituale.
A dire il vero, anche la capacità di bestemmiare è ancora un segno ostensibile del cristianesimo. Un pensiero di Pascal lo dice con chiarezza: «Vi è campo aperto per la bestemmia, anche su verità quanto meno assai visibili». Il vero teologo non può essere fondamentalista: egli sa che, se Dio è trascendente, non fa parte delle evidenze mondane (la verità «erra coperta da un velo» dice ancora Pascal, immagine molto interessante che mostra il rifiuto dei sostenitori del burqa di una trascendenza trascendente e dunque velata: nascondendo la donna, il velo integrale pretende di esibire la verità islamica, affermarla come un’evidenza di quaggiù). Allora, l’accesso a tale trascendenza non può avvenire attraverso seduzioni o coercizioni: esso esige un movimento intimo del cuore, che impegni liberamente la persona, un atto di fede. Ora, questa esigenza stessa implica la pazienza davanti al rifiuto.
Ecco perché il campo della fede è «aperto alla bestemmia». Si può dirlo in un altro modo prendendo il punto di vista del bestemmiatore. Che cosa c’è dietro al piacere di bestemmiare? Da una parte ci vuole che l’idea di Dio sia ancora abbastanza viva nella società. Se Dio - ahimè! - non c’è, che divertimento ci sarebbe a coprirlo di ingiurie?
Di questo si lamenta il Marchese de Sade nella sua Storia di Juliette: «Il mio più grande dolore è che in realtà non esiste un Dio, e quindi mi vedo privato del piacere di insultarlo più positivamente». Ma per godere della bestemmia, non occorre solamente che Dio esista, almeno nel pensiero, è anche necessario non incappare subito nella pena di morte. Così, in una società completamente atea la bestemmia è impossibile; nello stato islamico è vietata. L’unica configurazione perfetta per il blasfemo è quella di una società ancora cristiana.
In una tale società, Dio è ancora presente; ma, dato che il suo stesso Figlio fu condannato come blasfemo dai grandi sacerdoti della sua epoca, si fa attenzione a non condannare troppo rapidamente uno che bestemmia. Ecco il paradosso implacabile con cui siamo confrontati noi francesi e noi europei: affermare un «principio di separazione della società civile e della società religiosa» nello stato presuppone ancora un legame privilegiato con la fede cristiana (e alla fede cristiana aggiungo l’esistenza ebraica che le è legata intimamente - la permanenza del popolo ebraico è un principio di pluralità irriducibile all’interno del pensiero stesso della Chiesa).
O, per dirlo in altro modo, la neutralità dello stato a riguardo delle confessioni religiose presuppone una predilezione per l’eredità culturale giudaico-cristiana. Senza tale predilezione, o quella neutralità diventa impotente, perché il neutro in sé non può produrre una qualsiasi determinazione; o si trasforma in neutralizzazione e diventa la religione dell’anti-religione, il laicismo.
Il laicismo è il contrario della laicità. La laicità non può affermarsi che distinguendosi da un clero di cui riconosce l’esistenza. Può essere anticlericale, nel senso di una diffidenza critica nei confronti dei chierici, delle loro prediche e dei loro comportamenti, come nel Decamerone di Boccaccio; ma non oserebbe escluderli dal dibattito pubblico, perché, in questo caso, tradirebbe se stessa costituendosi come un nuovo e supremo clero.
Quanti sedicenti difensori della laicità salgono in tribuna, più che in cattedra, per pronunciare scomuniche e imporre un catechismo molto più rigido e riduttore del dogma cattolico? Il laicista corrisponde molto precisamente al curato di fantasia che vuole denunciare. Riprende il discorso preliminare dell’enciclopedia, nel quale D’Alembert deplora l’«abuso dell’autorità spirituale riunita a quella temporale» ma commette egli stesso quell’abuso nel senso opposto.
«Con la lettera del Pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra “credenti” e “non credenti” è giunto a una svolta di grande importanza e interesse»
Se Cesare non è dalla parte di Dio
Il problema dell’assoluto e l’eterno scontro tra legge e dottrina
di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 25.09.2013)
C on la lettera del Pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra «credenti» e «non credenti» è giunto a una svolta di grande importanza e interesse. Che va accuratamente tutelata. Anche da parte di chi è soltanto uno spettatore - che però, come me, sia interessato al problema. Il Pontefice ha un modo ammirevole di mettersi in relazione al prossimo. Ammirevole, anche, il desiderio dei due interlocutori di confrontarsi con ciò in cui non credono. Proprio per l’importanza di questa inedita forma di dialogo è però altrettanto importante che non sorgano equivoci. Mi limito a due esempi.
Il Pontefice scrive a Scalfari: «Mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato». Il Pontefice risponde: «Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo». Ma aggiunge: «Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro». Si riferisce anche alla verità della fede. Ora, Scalfari aveva sì parlato di «verità assoluta», ma intendendo non «ciò che è slegato, ciò che è privo di relazioni», ma proprio la verità che non è «variabile e soggettiva». E il Papa gli risponde che no, non è variabile e soggettiva: «Tutt’altro». In questo modo, la domanda è elusa, e viene ribadita la posizione ufficiale della Chiesa (confrontare la recente enciclica Lumen fidei, La Scuola, 2013).
A sua volta Scalfari, nella recente intervista a Otto e mezzo, ha lodato l’innovazione di papa Francesco rispetto alla costante critica rivolta al relativismo da papa Ratzinger, e fa addirittura passare per relativista papa Francesco (appunto per il suo rifiuto del concetto di verità «assoluta»). Ma lo loda per qualcosa che papa Francesco si è ben guardato dal sostenere. «La verità è variabile e soggettiva?», chiedeva Scalfari. «No!», risponde il Pontefice: «Tutt’altro!».
Una seconda possibilità di equivoco, tra i due interlocutori, vorrei segnalare, e ben più importante... Dopo aver scritto che la specificità di Gesù «è per la comunicazione, non per l’esclusione», il Pontefice aggiunge che «da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente». Non mi consta che finora Scalfari abbia chiesto chiarimenti in proposito. Mi permetto di dirgli che invece, proprio lui, dovrebbe chiederli. In questo caso sarebbe il silenzio a favorire l’equivoco. Da quasi cinquant’anni (che rispetto alla storia dell’Occidente sono certamente nulla) vado mostrando che quel detto evangelico, lungi dal sancire la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica», nega tale distinzione. Non ho mai ricevuto una risposta adeguata - e mi sembra grave -; mi sembra di averne parlato anche con Scalfari in quello che forse è stato il nostro unico dibattito pubblico, a Roma. Ne ho parlato anche su queste colonne. Se qui debbo pur giustificare in qualche modo la mia tesi, che indubbiamente suona troppo perentoria, come d’altra parte non vergognarmi di doverlo fare ancora una volta?
Domandiamo a Gesù se a Cesare - cioè allo Stato - si possa dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di no! Assolutamente no! Ciò significa che le leggi dello Stato non potranno essere contro le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della cui verità oggi la Chiesa si ritiene depositaria. Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi neutrali, che cioè consentano ai cittadini sia di agire contro Dio, sia di non essergli contrari. Ancora una volta Gesù risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si renderebbe lo Stato libero da Dio; si lascerebbe ai cittadini la libertà di vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato sarebbe costretto a essere uno Stato cristiano (anzi cattolico); con la seconda lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche questa libertà è un modo di essere contro Dio. Quindi per Gesù le leggi dello Stato debbono essere cristiane (e cattoliche).
Ma esistono leggi dello Stato la violazione delle quali non implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no. Quindi - come spesso si dice, ma senza accorgersi della connessione tra questo dire e il detto di Gesù - è necessario che il peccato (l’agire contro Dio) sia anche delitto (l’agire contro lo Stato), una colpa che è punita in terra prima che nell’al di là. Ma in questo modo la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica» che, anche secondo questo Pontefice, dovrebbe essere conseguenza di quel detto, è invece radicalmente negata da questo detto. Certo, l’intenzione di Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il contenuto oggettivo di quello che egli afferma è inevitabilmente la riduzione della sfera politica a quella religiosa. O anche: Gesù vuole conciliare l’inconciliabile: vuol conciliare la distinzione tra politica e religione con la loro reciproca opposizione (giacché anche la politica che non crede in Dio non vuole che a Dio sia dato quel che è contro Cesare).
Con quanto ho osservato non ho affatto inteso sostenere che, quindi, abbia senz’altro ragione il pensiero laico, che vuol tener separate quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il comando di Gesù non conduce là dove comunemente si crede. L’estremismo islamico che
Il Papa sul Financial Times: senza compromessi l’impegno nel mondo
di Benedetto XVI (Avvenire, 21 dicembre 2012)
«Rendi a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» fu la risposta di Gesù quando gli fu chiesto ciò che pensava sul pagamento delle tasse. Quelli che lo interrogavano, ovviamente, volevano tendergli una trappola. Volevano costringerlo a prendere posizione nel dibattito politico infuocato sulla dominazione romana nella terra di Israele. E tuttavia c’era in gioco ancora di più: se Gesù era realmente il Messia atteso, allora sicuramente si sarebbe opposto ai dominatori romani. Pertanto la domanda era calcolata per smascherarlo o come una minaccia per il regime o come un impostore.
La risposta di Gesù porta abilmente la questione ad un livello superiore, mettendo con finezza in guardia nei confronti sia della politicizzazione della religione sia della deificazione del potere temporale, come pure dell’instancabile ricerca della ricchezza. I suoi ascoltatori dovevano capire che il Messia non era Cesare, e che Cesare non era Dio. Il regno che Gesù veniva ad instaurare era di una dimensione assolutamente superiore. Come rispose a Ponzio Pilato: «Il mio regno non è di questo mondo».
I racconti di Natale del Nuovo Testamento hanno lo scopo di esprimere un messaggio simile. Gesù nacque durante un «censimento del mondo intero», voluto da Cesare Augusto, l’imperatore famoso per aver portato la Pax Romana in tutte le terre sottoposte al dominio romano. Eppure questo bambino, nato in un oscuro e distante angolo dell’impero, stava per offrire al mondo una pace molto più grande, veramente universale nei suoi scopi e trascendente ogni limite di spazio e di tempo. Gesù ci viene presentato come erede del re Davide, ma la liberazione che egli portò alla propria gente non riguardava il tenere a bada eserciti nemici; si trattava, invece, di vincere per sempre il peccato e la morte.
La nascita di Cristo ci sfida a ripensare le nostre priorità, i nostri valori, il nostro stesso modo di vivere. E mentre il Natale è senza dubbio un tempo di gioia grande, è anche un’occasione di profonda riflessione, anzi un esame di coscienza. Alla fine di un anno che ha significato privazioni economiche per molti, che cosa possiamo apprendere dall’umiltà, dalla povertà, dalla semplicità della scena del presepe?
Il Natale può essere il tempo nel quale impariamo a leggere il Vangelo, a conoscere Gesù non soltanto come il Bimbo della mangiatoia, ma come colui nel quale riconosciamo il Dio fatto Uomo.È nel Vangelo che i cristiani trovano ispirazione per la vita quotidiana e per il loro coinvolgimento negli affari del mondo - sia che ciò avvenga nel Parlamento o nella Borsa. I cristiani non dovrebbero sfuggire il mondo; al contrario, dovrebbero impegnarsi in esso. Ma il loro coinvolgimento nella politica e nell’economia dovrebbe trascendere ogni forma di ideologia.
I cristiani combattono la povertà perché riconoscono la dignità suprema di ogni essere umano, creato a immagine di Dio e destinato alla vita eterna. I cristiani operano per una condivisione equa delle risorse della terra perché sono convinti che, quali amministratori della creazione di Dio, noi abbiamo il dovere di prendersi cura dei più deboli e dei più vulnerabili. I cristiani si oppongono all’avidità e allo sfruttamento nel convincimento che la generosità e un amore dimentico di sé, insegnati e vissuti da Gesù di Nazareth, sono la via che conduce alla pienezza della vita. La fede cristiana nel destino trascendente di ogni essere umano implica l’urgenza del compito di promuovere la pace e la giustizia per tutti.
Poiché tali fini vengono condivisi da molti, è possibile una grande e fruttuosa collaborazione fra i cristiani e gli altri. E tuttavia i cristiani danno a Cesare soltanto quello che è di Cesare, ma non ciò che appartiene a Dio. Talvolta lungo la storia i cristiani non hanno potuto accondiscendere alle richieste fatte da Cesare. Dal culto dell’imperatore dell’antica Roma ai regimi totalitari del secolo appena trascorso, Cesare ha cercato di prendere il posto di Dio. Quando i cristiani rifiutano di inchinarsi davanti ai falsi dèi proposti nei nostri tempi non è perché hanno una visione antiquata del mondo. Al contrario, ciò avviene perché sono liberi dai legami dell’ideologia e animati da una visione così nobile del destino umano, che non possono accettare compromessi con nulla che lo possa insidiare.
In Italia, molte scene di presepi sono adornate di rovine degli antichi edifici romani sullo sfondo. Ciò dimostra che la nascita del bambino Gesù segna la fine dell’antico ordine, il mondo pagano, nel quale le rivendicazioni di Cesare apparivano impossibili da sfidare. Adesso vi è un nuovo re, il quale non confida nella forza delle armi, ma nella potenza dell’amore. Egli porta speranza a tutti coloro che, come lui stesso, vivono ai margini della società. Porta speranza a quanti sono vulnerabili nelle mutevoli fortune di un mondo precario. Dalla mangiatoia, Cristo ci chiama a vivere da cittadini del suo regno celeste, un regno che ogni persona di buona volontà può aiutare a costruire qui sulla terra.
Sul Financial Times La solidarietà-panettone di Benedetto XVI
di Sergio Cesaratto (il manifesto, 21 dicembre 2012)
In un articolo natalizio per il «Financial Times», papa Benedetto XVI - Vescovo di Roma e scrittore come si premura di presentarlo il quotidiano - si pone la domanda: “Alla fine di un anno che ha significato difficoltà economiche per molti, che cosa possiamo apprendere dall’umiltà, la povertà, la semplicità della scena della natività?”. Il Vangelo dovrebbe ispirare, risponde il Pontefice, il riconoscimento che “Dio creò l’uomo” e questo spronare i cristiani nel loro “coinvolgimento negli affari mondani - siano essi nel Parlamento o nella borsa per “combattere la povertà e “lavorare per una condivisione più equitativa delle risorse della terra”. I cristiani si oppongono all’“avidità e allo sfruttamento” poiché solo “generosità e amore disinteressato” conducono alla “pienezza dell’esistenza”.
Sono naturalmente parole impegnative anche per un non credente (come chi scrive) e nel loro aspetto laico - l’insopprimibile preminenza del rispetto morale e materiale per ogni singolo essere umano - punto di partenza per ogni donna o uomo di buona volontà.
Come scrisse Croce nel famoso “Perché non possiamo non dirci ‘cristiani’”, la rivoluzione cristiana è un evento unico nella storia dell’umanità perché essa “operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale”. Visioni più materialistiche possono naturalmente portare a guardare all’impeto solidaristico come a una possibile strategia di sopravvivenza della specie, o del proprio gruppo sociale.
Sia come sia, la questione è nel come l’impeto morale si traduce in azione. Qui il messaggio ammaliante del Pontefice si fa sfuggente, se non ambiguo. L’articolo chiarisce, infatti, sin dal suo incipit “Date a Cesare quello che è di Cesare”, come il messaggio cristiano si ponga su un piano diverso e più alto di quello del potere mondano - a delimitare le sfere di competenze reciproche sì da tutelare la propria. L’impegno mondano dei cristiani, inoltre, dovrebbe “trascendere ogni forma di ideologia”.
Ma una volta sfuggiti da ogni impegno alla costruzione di un diverso assetto sociale, che cosa rimane dell’evocata solidarietà per i più deboli? Temiamo quasi nulla, tranne delle espressioni panettone volte a blandire le anime di chi avrà banchetti natalizi succulenti, e magari a lenire un po’ quelle di che ha l’angoscia del futuro. Un po’ poco, e anche reazionario perché la carità non educa ai diritti.
Che questo papa non provi indignazione di fronte a una società che potrebbe dare a tutti nel rispetto del creato e fa l’opposto, ne mostra i profondi limiti intellettuali e morali. E inoltre: come si concilia la trascendenza del messaggio della Chiesa con l’appoggio sfacciato che la curia italiana dà al cartello elettorale catto-liberista raccolto attorno all’“Agenda Monti”? C’è il sospetto che tale agenda sia ben funzionale all’aspetto più retrivo del “Date a Cesare”: a voi potere e finanza, a noi la carità sulle macerie dello stato sociale (e poi tutti a cena assieme).
Date al cielo quello che è del cielo
di Romano Màdera (l’Unità, 6 marzo 2012)
"Un libro davvero nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità ». Questa caustica citazione di Vauvenargues, ripresa da Pierre Hadot per alludere al suo tentativo di tornare alle fonti della filosofia greca come maniera di vivere, è perfetta per lo sterminato commento del Vangelo secondo Matteo che Carlo Enzo sta pubblicando in questi anni.
Ne sono usciti, dal 2010, quattro volumi, uno dedicato al «Progetto di uomo e di mondo delle generazioni di Israele in Genesi 1-4», che riprende Adamo dove sei? uscito per Il Saggiatore nel 2002, e altri tre dedicati a La generazione di Gesù Cristo, rispettivamente Gli Inizi della generazione, La Legge della generazione, La Regola dell’apostolo della generazione. A breve usciranno altri quattro volumi, tutti per Mimesis.
CON OCCHI E ORECCHIE
Una lettura davvero sorprendente: leggere con occhi e orecchie tutte diverse un libro arcinoto, scovare, fra le centinaia di commenti ai Vangeli, qualcosa che si discosta da tutto quello che siamo abituati ad aspettarci da una esegesi, anche da quelle più «nuove» o «rivoluzionarie».
Ma sorprendente è anche l’assenza totale di reazioni, sia da parte del mondo ecclesiale, sia da parte della cosiddetta «cultura laica» (forse perché in Italia vige un doppio clericalismo, basato sul tacito accordo secondo il quale i «laici» dissentono, magari duramente dalla Chiesa, ma ne accettano l’interpretazione della Scrittura?).
Carlo Enzo segue il metodo più tradizionale possibile, quello ebraico del midrash. Ogni passo, ogni parola viene minuziosamente indagata attraverso le sue ricorrenze, sempre nel contesto dei libri che formano la Bibbia. Dunque nessuna lettura dall’esterno, condotta a partire da teologie o da filosofie, da teorie semiologiche o narratologiche contemporanee. Leggere i Vangeli con la Bibbia, tutto l’opposto di ogni tentativo di demitizzazione, scaltrito dalle nostre conoscenze storico-critiche. Eppure Carlo Enzo è uno dei pochi autori italiani che si siano cimentati seriamente con Bultmann, il grande teologo al quale si deve una interpretazione del cristianesimo fuori dal mito, compreso invece secondo categorie filosofiche vicine all’heideggerismo.
L’approccio al testo non si appoggia sulla critica letteraria né sulle scienze umane, certo è filologia, ma filologia biblica, mostra cioè che questo testo è scritto in un linguaggio particolare, secondo un suo codice di rimandi e di significati interni. Potremmo dire, prendendo alla lettera il termine nel suo significato etimologico: è un geroglifico, sono «lettere sacre incise». Uno dei pochi moderni citati è Galileo Galilei: l’insegnamento contenuto nel Libro Sacro si riferisce a «come si vadia al cielo, non come vadia il cielo», così scriveva Galileo a Cristina di Lorena.
Di qui lo smontaggio di ogni valenza cosmologica o naturalistica, che riguardi il mondo fisico o l’uomo come specie. La Bibbia non parla di questo, non è questo lo scopo del suo racconto, del suo «mito», essa ha di mira un modo di vivere, frutto di una lunga e travagliata esistenza storica, che deve protendersi in un progetto di uomo e di mondo da costruire interrogando questa stessa esperienza. Non si parla dunque di «uomo» o di «donna», di «terra» o di «cielo», di «animali».
Il mio mito, dice Carlo Enzo-Matteo, in una lettera al suo interlocutore romano Cornelio, introduttoria a tutto l’Evangelo, «è progetto del proposito di Ihwh (il tetragramma impronunciabile del Nome di Dio), “sarò”, Dio di Israele e ideale della sua buona coscienza, di elaborare un “mondo” e un “uomo” che siano una eReTs (tradotto troppo semplicisticamente “terra” nelle versioni comuni), una nazione coltivata e salgano fino ai Cieli e diventino stelle, siano cioè luce per i “mondi” e gli “uomini” che stanno nel S_aDeH, nelle nazioni noncoltivate, o nel “mare”, nelle nazioni in cui gli uomini vivono impauriti dai loro tiranni e prigionieri di parole salate...».
LE PECORE DEL BUON PASTORE
Si capisce bene, allora, quali conseguenze abbiano spiegazioni del genere: per esempio, quando Gesù camminerà sulle acque non si tratterà di un prodigio per stupire con la potenza di supereroe o diun dio greco-romano, ma di un segno di chi sa attraversare senza timore il mare delle genti lontane dalla parola di vita che è il suo messaggio.
Nessuno si sognerebbe di interpretare le «pecore» del Buon Pastore come vere e proprie pecore. Perché dunque questa regola non deve valere per tutto il testo evangelico? Se si seguisse la lettura di Carlo Enzo, scomparirebbero tutte le assurde discussioni su verità scientifiche e verità di fede, per la buona ragione che la Bibbia parla della creazione di un «mondo» etico-spirituale, di uno stile di vita, non di astronomia, così come sarebbero prive di fondamento biblico posizioni che volessero appellarsi alla «natura», in quanto creata da Dio, per dirimere questioni di bioetica.
Dio non ha creato nessun mondo fisico, si tratta di un progetto per abitarlo diversamente, e non da parte del genere umano, ma come storia del suo tipo umano, del suo Adamo.
Così si giunge a capire il titolo dell’opera di una vita di questo vecchio sacerdote e professore (Carlo Enzo ha 84 anni ): «la generazione di Gesù Cristo». L’Evangelo non parla solo della missione del Maestro Gesù di Nazareth, generato da Maria e Giuseppe, ma di Gesù Cristo, che è generato da Gesù stesso e dalla sua Ecclesìa, dai discepoli che continuano il cammino del suo popolo, di Israele. Un mondo che è ancora nel suo farsi, un Gesù Cristo che è ancora in via di compimento. Riprendendo una parola dell’autore: la domanda fondamentale è se il messaggio evangelico può «ancora impegnare l’esistenza di un abitatore di questo pianeta» oppure se sia una delle tante visioni «che ha fatto il suo tempo, e fa parte ormai della storia delle dottrine sul mondo e sull’uomo»
Parla Carlo Enzo, professore ed esegeta, che racconta i suoi tormentati rapporti con la Chiesa
Rileggere la bibbia
Quello studioso irregolare
“Io, la Genesi e papa Luciani”
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 28.12.2012)
Carlo Enzo è una figura tra le più irregolari del mondo cattolico. Emarginato da quando, più di quarant’anni fa, il Patriarca di Venezia Albino Luciani - che sarebbe diventato Papa - gli impose il silenzio dell’insegnamento. Oggi Enzo ha 85 anni. È uomo carico di pathos. Un sapiente che per tutta la vita si è interrogato sulla Bibbia offrendo una sua personalissima interpretazione che ha stupito e affascinato alcuni e messo in grande allarme le gerarchie cattoliche.
Il risultato sono cinque volumi di commento (altri tre, conclusivi, sono in preparazione) pubblicati da Mimesis. «I miei occhi non mi aiutano più tanto bene. Dopo un intervento, che ha toccato i nervi ottici, sono quasi interamente cieco. Leggo grazie a una luce speciale che ingrandisce i caratteri. Ora sto lavorando alla terza riscrittura dell’ultima parte del Vangelo di Matteo», dice con passione. Enzo vive in un punto molto bello di Venezia, nella Canonica di San Marcuola che la Curia gli ha conservato. Qui, in un appartamento pieno di libri, lavora uno dei grandi biblisti del nostro tempo.
Dove è nato?
«A Burano, un’isola vicina a Venezia. Passai un’infanzia felice. Mio padre era soffiatore di vetro. La nostra vita, tranquilla. A otto anni cominciai a leggere la Bibbia ai miei fratelli».
Immagino che fosse ai suoi occhi di adolescente un insieme di storie avventurose.
«Era l’aspetto che mi interessava meno. Leggevo la Bibbia in una vecchia traduzione che avevamo in casa. E già allora intravedevo alcuni problemi».
Di che natura?
«Intuivo che il testo era stato appesantito dai commenti, dalle interpretazioni, dal tono favolistico».
È fatale che un testo così importante per la storia dell’Occidente si sia arricchito di letture nate anche da scuole differenti.
«Negli anni ho capito che bisognava liberarsi da quella ramificata ermeneutica che si sovrappone e avvolge il testo sacro, e ho cercato di scoprire cosa esso nasconde. La mia idea era di ritornare al midrash».
Ossia?
«Per dirla in modo semplice a una lettura delle Scritture attraverso le Scritture».
È un po’ quello che si prefiggeva Spinoza con il suo Trattato Teologico-politico.
«E che gli creò rilevanti problemi, tra cui l’accusa di ateismo. Midrash significa “ricercare”. È la spiegazione che gli antichi Maestri ricavavano dal Tanakh, che è il nome dato da Israele alla raccolta dei suoi libri sacri, i quali comprendono la Torah, ossia i cinque libri della Legge, tra cui Genesi; i 21 libri dei Profeti; e i tredici libri Agiografi, tra cui Salmi, Giobbe, Cantico e Qohelet».
In che misura Tanakh differisce dalla Bibbia cattolica?
«In modo sensibile. Intanto Tanakh è esclusivamente un codice di vita, attraverso il quale il popolo ebraico prova a diventare moralmente grande. Cioè passa dalla polvere all’anima vivente. Ma c’è un punto ulteriore: Tanakh è un testo mascherato. Perché così hanno voluto i sapienti che lo composero».
Si spieghi meglio.
«Il contenuto non doveva essere conosciuto dai popoli circostanti. Di qui l’invenzione di un genere letterario che nascondesse la vera sostanza agli estranei e la rivelasse solo al popolo ebraico».
Ci sta dicendo che la Bibbia ha uno strato esteriore che maschera una verità più profonda? Ma perché escludere gli altri popoli dalla corretta conoscenza del testo sacro?
«Perché quel testo veniva considerato Elohim del popolo».
Quindi parola di Dio.
«Non esattamente. Perché nella cultura ebraica la parola Dio non esiste. Esiste invece la parola “Elohim” che faceva tutt’uno con il popolo. Ma ogni popolo della Mezzaluna fertile aveva il proprio Elohim».
Verrebbe meno l’idea cardine secondo cui nell’Antico Testamento c’è un Dio non solo unico, ma assoluto.
«Questo accade in una fase successiva. Quando finisce con il prevalere la maschera, ossia una lettura deviata della Bibbia, favolistica, irreale».
Ci faccia un esempio.
«È sufficiente aprire Genesi. Ci siamo abituati a leggerli come la storia di un Dio che in sei giorni crea l’universo. Ma quando il popolo ebraico nasce, l’universo c’è già e quel popolo non ha assolutamente intenzione di rifondare l’universo. È una questione anche di buon senso. Che cos’è l’Elohim della Torah se non il popolo stesso che si è dato la sua costituzione, le sue leggi, i suoi imperativi morali? ».
Quindi il racconto della creazione non riguarda né l’uomo né la natura?
«Creazione qui non significa creare dal nulla, come appunto potrebbe fare un Dio. Creare è progettare un mondo nuovo, un uomo nuovo».
Sta seppellendo la teoria creazionistica.
«La Bibbia non dice come è fatto il Cielo, ma come ci si va. Anche quando ci si riferisce all’uomo non si intende una figura in generale ma l’uomo-Adamo che è diverso dall’uomo greco, romano, babilonese».
Ma “Adamo” è lo stesso che viene scacciato dall’Eden?
«Questo è il lato favolistico, irreale, la maschera. In realtà l’uomo biblico si chiama Adamo perché coltiva l’adamah, ossia è un uomo chiamato a educare la sua natura umana».
Che cosa è l’“adamah” di cui lei parla: la purezza, la predisposizione al sacro, o cosa?
«Nel linguaggio comune “adamah” è la terra fertile, la terra rossa che il Nilo riversa. Nel linguaggio biblico indica la peculiarità di quest’uomo che cerca una chiave morale per stare al mondo».
E la questione del peccato originale?
«Non esiste. Il peccato originale è un’interpretazione tarda, avanzata da Agostino. In ebraico la parola “peccato” significa più omissione di fare qualcosa di buono che offesa al Dio per aver fatto qualcosa di sbagliato. Adamo inizia il suo cammino che è polvere e deve farsi per prova ed errori. E questi ultimi non sono imputabili al peccato originale, ma dipendono dal fatto che Adamo non è un Elohim».
Lei dice “polvere”, ma Adamo nasce dalla polvere, nasce in qualche modo dal nulla.
«Torna la maschera. “Polvere” vuole dire che Adamo all’inizio è un essere inconsistente e l’Elohim soffia in lui non lo spirito, ma l’anelito di vita, cioè la volontà per fare questo percorso, questa crescita».
Quello che lei dice è fuori dal modo in cui l’Occidente ha recepito il testo sacro.
«Certo, perché la logica occidentale parte da Dio che crea il mondo. La logica ebraica parte dall’Elohim del periodo sapienziale, ma prima ancora parte da Abramo. Concretamente parte da colui che viene considerato il padre del popolo che ha il suo Elohim».
Ma dire che ogni popolo ha il suo Elohim non significa limitarne l’assoluto?
«L’obiezione avrebbe senso se traducessimo “Elohim” con “Theos”, giacché Theos è l’assoluto. Ma l’Elohim non è l’assoluto».
La sua lettura l’ha messa in urto con la Chiesa?
«Su di me è sceso un silenzio che dura da decenni».
Lei è stato docente di scienze bibliche?
«Insegnai a lungo. Fu negli anni Cinquanta che l’allora Patriarca di Venezia Angelo Roncalli mi mandò a Roma a studiare. Lavorai con il cardinal Urbani e con il mio maestro Alonso Schökel, poi venne Luciani, la mia croce e delizia».
Avverto dell’ironia.
«Mi stroncò in maniera terribile. Era il 1970. Tenni una lezione biblica sulla secolarizzazione. E dissi che non andava intesa come una riduzione della chiesa alla condizione laica né come un allontanamento dal sacro. Ma al contrario la secolarizzazione era la realizzazione totale del progetto».
E Luciani la stroncò?
«Quando dissi: tutto questo è scritto in Apocalisse 21 ossia che tutto si concluderà, perché quando scenderà la Gerusalemme celeste non ci sarà più né Chiesa né sacerdozio e l’Elohim sarà tutto in tutti, mi portò via il microfono dicendo: sono cose pazzesche».
Era il Cardinale a dirlo.
«Era il Patriarca di Venezia e aggiunse: se avete domande da fare rivolgetevi a me, il professore non deve più parlare e non parlai più».
Ha provato a ricomporre quella frattura?
«Qualche giorno dopo andai da lui e gli dissi: mi dia lei una regola di esegesi biblica. E lui mi rispose: prenda una buona traduzione, per esempio quella della scuola di Gerusalemme: i passi facili li spiega, quelli difficili li salta. A quel punto replicai che non me la sentivo più di insegnare. Non volevo imbrogliare né lui né tanto meno chi mi ascoltava».
Su cosa sta lavorando?
«Sul bacio di Giuda».
Torna, è il caso di dire, il tema del tradimento.
«È un altro dei grandi equivoci filologici».
Pax Christi contro gli F-35: «Sono come Erode»
di Luca Kocci (il manifesto, 7 gennaio 2012)
I cacciabombardieri di Erode: anche loro, come il re della giudea che secondo il racconto del Vangelo ordinò il massacro dei neonati per tentare di uccidere Gesù appena nato, compiono «stragi di innocenti», magari mascherate da «danni collaterali». Vanno fermati. Usa una metafora biblica e parole estremamente dure monsignor Giovanni Giudici, vescovo di Pavia e presidente nazionale di Pax Christi, per attaccare governo e parlamento che non sembrano voler recedere dall’intenzione di acquistare 131 cacciabombardieri f-35 per una spesa di oltre 15 miliardi di euro. «Finalmente la notizia è arrivata nei titoli di giornale - dice monsignor Giudici -, nel panorama drammatico di questa crisi economica che esige sacrifici e tagli per il bene del paese e per il futuro di tutti: anche le spesemilitari devono essere drasticamente tagliate», e in particolare va cancellato - senza dover pagare alcuna esorbitante penale, come le lobby militari sostenevano e come un’inchiesta di altreconomia, confermata anche dall’ex capo di statomaggiore il generale Vincenzo Camporini ha smento - il programma di acquisto degli F-35, «aerei di attacco che costano quasi 150 milioni di euro ciascuno».
«L’assordante silenzio che copriva questo progetto è stato rotto», denuncia il presidente di Pax Christi, una delle poche associazioni cattoliche da sempre in prima linea contro gli F-35. «Sempre più palese è l’assurdità di produrre armi investendo enormi capitali mentre il grido dei poveri, interi popoli, ci raggiunge sempre più disperato». Bisogna cambiare radicalmente strada, dice il vescovo: abbandonare quella «di Erode, fatta di violenza e sopruso», e - non a caso le parole vengono pronunciate proprio in occasione della festa dell’Epifania - seguire invece quella «dei Magi e di chiunque, singoli e popoli, discerne le opere di pace per garantire il futuro di tutti» e per orientare «ogni scelta alla via esigente e necessaria della pace».
Per questo, chiede il presidente di Pax Christi anche ai tanti cattolici, per lo meno a parole, che fanno parte del governo - dal «ministro di sant’Egidio » Riccardi, al rettore dell’università cattolica Ornaghi, all’ex presidente del movimento dei laureati dell’azione cattolica Balduzzi - «esigiamo un ripensamento di queste spese militari con un serio dibattito in parlamento. I popoli che camminano nella tenebra di questa follia chiedono di cancellare questo progetto, e ciò è ancora più necessario in un tempo di crisi che è già molto pesante soprattutto per le famiglie e per i più poveri e che non sembra invece toccare i grandi investimenti per le armi». Chi si proclama cattolico, aggiunge monsignor giudici, «non può familiarizzare con progetti di violenza, neppure in chiave di pseudo-sicurezza internazionale».
Il gran ritorno dei cattolici
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 19 novembre 2011)
"Siamo passati dal Carnevale alla Quaresima": lo ha detto il neoministro Andrea Riccardi ma lo abbiamo pensato in molti. Il passaggio è stato brusco e totale. Un governo sottoposto a una cura dimagrante da cavallo nei numeri, sullo sfondo di scenari austeri.
Senza la profusione di colori e i sontuosi sfondi rinascimentali delle conferenze stampa d’una volta; e non parliamo della sobrietà e della severità quasi luttuosa dei discorsi e dei rituali. È finito il ciclo carnevalesco delle feste in ville e palazzi, del "bunga bunga", della carnalità traboccante e colorata, del corteggio di nani e ballerine che circondava, seguiva, abbracciava un re Carnevale in doppiopetto. Qualcuno un giorno rievocherà forse con nostalgia i nostri ruggenti anni dieci del secondo millennio, con quelle donne belle ed eleganti dai soprannomi ammiccanti, dalle professioni surreali - l’Ape regina, l’igienista dentaria, le escort - introdotte nel sacrario del potere col solo compito di far sentire amato il padrone.
Ma ecco, appunto, la Quaresima che irrompe sulla scena e sconfigge re Carnevale: ancora una volta si affaccia sulla società italiana una immagine antica, legata come poche altre alla cultura popolare del nostro paese, elevata a chiave di lettura della storia d’Italia da chi, come Francesco De Sanctis , vide la Controriforma come una Quaresima piombata sul Carnevale italiano del Rinascimento cancellando con una maschera di finta devozione la vera modernità, quella che si riassumeva per lui nel nome di Machiavelli. Oggi l’immagine coniata dal liberale e anticlericale De Sanctis, vero maestro intellettuale dell’Italia, che non ebbe simpatia né per il Carnevale né per la Quaresima viene usata da uno storico cattolico che proprio in quanto cattolico impegnato nei problemi del mondo è stato chiamato a far parte del nuovo governo. E si levano toni trionfalistici dal mondo dei cattolici impegnati in politica: si afferma così negli storici del presente la tesi secondo cui il grande rivolgimento nell’assetto governativo a cui assistiamo sarebbe stato concepito nel recente convegno tenutosi nel convento di Montesanto presso Todi. Il suo atto di fondazione sarebbe dunque l’invito del cardinal Bagnasco ai laici cattolici a portare nella società i principi della dottrina sociale della Chiesa. Mentre ci chiedevamo perché le autorità ecclesiastiche fossero così reticenti davanti alle voci critiche che si levavano dal mondo dei cattolici italiani, in realtà quelle stesse autorità stavano preparando il mutamento di cavalli.
La questione merita una qualche attenzione perché non c’è dubbio che la componente culturalmente più significativa di questo governo appena nato è quella di un cattolicesimo di alta qualità, nutrito di impegno sociale e culturale, che rappresenta qualcosa di molto remoto dai "laici devoti" e dai "convertiti" dell’apparato berlusconiano.
Ma intanto andrà detto prima di tutto che senza l’iniziativa politica assunta in prima persona dal Presidente della Repubblica, interprete straordinariamente lucido delle necessità primarie del Paese che in lui si è riconosciuto, questo cambiamento - tanto urgente nella realtà quanto remoto dalla mente di Berlusconi e della sua maggioranza - non sarebbe avvenuto e adesso, nella migliore delle ipotesi, staremmo assistendo a una campagna elettorale lacerante e affondando sempre più in una crisi devastante. Ma se è vero che una parte del mondo cattolico - la più consapevole e seria - si è resa disponibile per prendere il timone degli affari italiani, bisognerà ricordare che è stata la cultura laica italiana a battere sul chiodo costituzionale della necessità di stili di vita adeguati da parte dei rappresentanti eletti del popolo italiano: sul bisogno di trasparenza nell’intreccio tra affari e politica: sul fatto che gli uomini delle istituzioni devono essere rispettabili se vogliamo che le istituzioni siano rispettate: sul fatto che la sopraffazione dei diritti e delle leggi esercitata dalla ricchezza e dal potere scardina l’ordinamento democratico.
Il disvelamento delle macchine del fango nelle inchieste giornalistiche di Giuseppe D’Avanzo, la lucida difesa delle regole contro il malaffare e l’illegalità da parte di Stefano Rodotà, la testimonianza di Roberto Saviano sono stati contributi di una cultura che ha difeso i diritti di tutti e ha richiamato al rispetto dei principi consacrati nella nostra Costituzione, contro il mantra dell’intoccabilità del potere di chi ha avuto la maggioranza dei voti.
Non si tratta di spartirsi i meriti di una svolta che per ora è solo annunciata e che non sarà facile portare a buon fine. Né è il caso in questo momento di ricordare la distrazione, i silenzi e talvolta gli sghignazzi che hanno accolto i "moralisti": la parola stessa è stata usata come un insulto, una gogna.
Fa bene Rodotà a rigraduare il valore della parola professandosi moralista incallito e non pentito nel suo magnifico "Elogio del moralismo"(Laterza). Il problema è un altro: ai cattolici che caratterizzano con la loro presenza il nuovo governo si deve chiedere conto di come intendono interpretare la loro appartenenza religiosa.
Abbiamo alle spalle un governo dove l’alleanza con la Chiesa è stata pagata coi diritti dei cittadini, delle donne, dei malati, degli studenti della scuola pubblica. Non è quella l’interpretazione della testimonianza di fede che può andare d’accordo con la costituzione. Ma non possiamo dimenticare che a Todi il cardinal Bagnasco ha indicato ai cattolici in politica l’obbligo di difendere alcuni punti, dove sarebbero in gioco valori definiti con aggettivi assai robusti - "essenziali, nativi, irrinunciabili, inviolabili, inalienabili, indivisibili, e dunque non negoziabili". E quei principi sarebbero in gioco laddove si discute dell’inizio e della fine della vita, del matrimonio come legame tra un uomo e una donna, della libertà religiosa ed educativa. Il futuro prossimo chiarirà se quelli che sono entrati nel governo e lo caratterizzano sono dei "cattolici adulti" oppure no.
C’è da riavvicinare il Paese alla politica
Cattolici al bivio dell’impegno
con una gran bisaccia d’idee
di VITTORIO POSSENTI (Avvenire, 07,10.2011)
Secondo l’Octogesima adveniens è necessario «attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale della Chiesa»: si tratta di una grande prospettiva, nuovamente vicina nella presente fase di concreto interesse per quell’insegnamento. Esso può costituire un tonico eccellente per l’attuale effervescenza di idee e di progetti presenti nell’area cattolica italiana, intenta a riflettere su se stessa e sull’apporto da offrire a una nazione infiacchita che osa meno di un tempo e che ha bisogno di grandi apporti corali.
Il Paese ha bisogno di ritornare a svilupparsi, e non solo economicamente, per invertire la tendenza negativa. Quanto ci si attende dal cattolicesimo italiano è di offrire proposte per uscire dalla crisi del Paese e di raggiungere una presenza in grado di incidere più di quanto sia accaduto nell’ultimo ventennio. Molti avvertono la discrasia tra la vivacità e l’ampiezza della rete sociale del cattolicesimo italiano e la sua insufficiente espressione politica. Ciò può dipendere da uno stile di associazionismo silenzioso, poco propenso all’esposizione mediatica e nutrito dal basso. Un associazionismo che, mantenendo uno stretto legame col territorio e la gente, possiede una capacità di ascolto che le attuali forze politiche hanno largamente perduto o forse mai veramente avuto. Intanto, aumenta il numero di coloro che riconoscono i meriti storici del nostro cattolicesimo politico, e che non paventano che i cattolici operanti in campo culturale e sociale tornino con sapienza e concordia a interagire a tutti i livelli con la politica, anche con azioni coordinate e ad ampio raggio. In merito, si pone la sempre risorgente questione dei modi più efficaci di attuare tale presenza, con la connessa ipotesi, da valutare senza idiosincrasie e senza nostalgie, di un raggruppamento politico laico, aconfessionale, cristianamente ispirato ma aperto ad apporti multipli. Sarebbe, infatti, singolare la posizione del cristiano il quale fosse o si ritenesse abilitato soltanto a fare da comprimario in partiti altrui, che in genere non risultano propensi ad aprire sufficientemente le porte al loro contributo. Inoltre è ormai largamente dietro le spalle quella "cultura della diaspora" che a lungo aveva coltivato l’idea che l’unità fosse un disvalore o un’anomalia da superare. La mente e la penna di tanti corre, perciò, alla Dc, ma - anche a mio avviso - è bene sgomberare il terreno da fantasie irrealistiche.
La possibilità di una "seconda Dc" è scomparsa dalla storia, poiché sono scomparse le condizioni che presiedettero alla sua nascita e al suo successo. Non è invece venuta meno la cogente responsabilità dei cattolici verso la società e la politica italiana, ed essa potrebbe essere adempiuta con nuove forme di interlocuzione forte con la politica e di presenza politica diretta. D’altronde i meriti del passato sono un blasone, non una garanzia per il futuro. E per mettere in campo una soggettività nuova e coerente occorrono una visione complessiva del Paese (enormemente diverso da quello del 1948) e un’idea dei mutamenti intervenuti e di dove occorre andare: dunque, una strategia lungimirante capace di declinarsi in una sorta di programma politico di medio-lungo periodo. Tutto ciò manca o è appena baluginante. Senza contare il peso che avrà l’esistenza o meno di una nuova legge elettorale al posto dell’attuale, che opera una riproduzione oligarchica della classe politica in mano a pochissime persone.
Oggi, dunque, siamo a un bivio potenziale. Per una via, i cattolici presenti nei vari schieramenti sarebbero chiamati a elaborare in modo efficace una visione complessiva del Paese nel contesto europeo e mondiale, e a condividere un programma fondamentale su welfare, lavoro, educazione, impresa, politica europea e internazionale, giustizia. Per l’altra via, l’eventuale nascita di una formazione laica di ispirazione cristiana che non potrebbe che essere un partito di valori e di programma, l’obiettivo generale dovrebbe essere - a mio avviso - quello di attuare un rinnovamento morale, civile e politico della società italiana, mettendo in circolo le energie positive del Paese. Nell’un caso come nell’altro, non basterebbe l’indignazione e, ancor meno, l’indifferenza e la rassegnazione. E in ogni caso occorrerà che l’interlocuzione positivamente in atto tra le espressioni ’sociali’ e ’culturali’ dell’area cattolica si concretizzi in una sorta di diagnosi comune e in alcune prospettive-guida.
Vittorio Possenti
di Renato Sacco (mosaicodipace, 04.10.2010)
Punti di vista. Anche le barzellette, e sono tante, contro ebrei e donne che il nostro Presidente ci ha raccontato rischiano di essere commentate dal punto di vista dei potenti o dell’opportunità politica. Per l’ultima barzelletta (rubata al contesto privato, cosa gravissima, ha accusato qualcuno!) contro le donne e contro Rosy Bindi, con tanto di bestemmia finale, molti commenti, anche prese di posizioni critiche, per fortuna. Io però volevo guardare questa situazione dal punto di vista della. vittima, Rosy Bindi appunto.
A lei va tutta la solidarietà, ovviamente, ma soprattutto la stima e il ringraziamento per aver dimostrato di essere una donna e una credente a testa alta. Ha risposto sempre con pacatezza e fermezza, in modo nonviolento, sia al Presidente sia a qualche autorevole Vescovo romano che invitava a ’contestualizzare’ e a non fare polemiche pretestuose.
Brava Rosy! Brava come donna, laica, che non ostenta la propria fede come una spada contro qualcuno, ma nemmeno la nasconde, e proprio in questa occasione manifesta tutta la sua coerenza e maturità. Al di là di tutto, quello che si dovrebbe dire di fronte a questa brutta storia (le battute contro gli ebrei, le barzellette contro le donne raccontate ai militari...) credo sia giusto esprimere un grazie sincero a questa donna, esempio di un laicato maturo, adulto, che sa pensare con la propria testa e che non si fa intimidire dai potenti, né quando sono politici né quando sono Pastori.
"Anch’io penso - dice Rosy Bindi - che contestualizzare fatti e parole sia importante... La contestualizzazione è in fondo un esercizio di laicità ma potrebbe diventare relativismo. Se è così, c’è qualcosa di contraddittorio e profondamente diseducativo nel minimizzare la blasfemia del premier. Ha senso - continua - invocare l’impegno di una nuova generazione di politici cattolici chiamati a fare la giustizia e a dare il buon esempio nel servizio alla comunità, e poi autorizzare volgarità e bestemmie a seconda dei contesti? Non c’è giustizia se non è accompagnata da un po’ di onestà, di coerenza personale e per i credenti non c’è carità senza verità".
Grazie, Rosy. E spero che siano in molti, anche preti e Vescovi, ad esprimerti la propria solidarietà, come donna e come credente adulta.
La vera laicità? Trattare anche i vescovi come normali cittadini
di Paolo Flores D’Arcais (il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2010)
La “laicità positiva” è l’invenzione lessicale, da neolingua orwelliana, con cui il presidente francese Sarkozy nel dicembre del 2007, puntava a ridimensionare la laicità laica, la laicità coerente, ma potremmo anche dire la laicità senza aggettivi, della tradizione francese. Nella neolingua di “1984” di Orwell, infatti, le parole vengono piegate dal regime del Grande Fratello a significare l’opposto di quello che hanno sempre voluto dire.
Per fortuna dal 26 giugno 2010, esiste in Europa un’altra versione di “laicità positiva”, in cui l’aggettivo “positivo” ha in effetti il significato di “positivo” (buono, favorevole, costruttivo, proficuo, leggo nel dizionario dei sinonimi). L’interpretazione autentica dell’unico senso che può avere in una democrazia liberale l’espressione “laicità positiva” l’hanno data i gendarmi belgi inviati dal procuratore di Bruxelles a perquisire le sedi della conferenza episcopale e a sequestrare ogni documento utile per portare in giudizio i preti pedofili di quel paese fin qui sfuggiti alla giustizia.
I vescovi, che erano riuniti in assemblea, sono stati trattati esattamente come sarebbero stati trattati i membri di qualsiasi altra potente organizzazione su cui pendesse il sospetto di avere con il proprio comportamento sottratto alla legge, per anni e anzi decenni, dei pericolosi criminali. Per tutte le ore della perquisizione (nove, per l’esattezza) è stato loro impedito di uscire dall’edificio e di usare il telefono portatile. Di comunicare, insomma, con possibili complici. Nessun democratico può perciò parlare di “fatto inaudito e grave... di cui non ci sono precedenti neanche nei regimi comunisti di antica esperienza”, se un vescovo viene trattato esattamente come ogni altro cittadino.
Il cardinale Tarcisio Bertone - segretario di Stato di Papa Benedetto XVI - invece lo ha fatto, evidentemente ignaro che in una democrazia “la legge è eguale per tutti”. Gli aveva già risposto in anticipo l’ex premier del Belgio, Yves Leterme, ricordando che “chi ha commesso abusi deve essere perseguito e condannato secondo la legge belga” e aggiungendo che le investigazioni “sono la prova che in Belgio esistono poteri separati tra Stato e Chiesa”. Yves Leterme non è un “comunista di antica esperienza” ma un democratico-cristiano. Per il quale evidentemente conta anche la prima parte della definizione, a differenza del cardinal Bertone. Fa dunque una figura assai meschina, democraticamente parlando, Joseph Ratzinger, sceso a dar manforte (“sorprendenti e deplorevoli modalità delle perquisizioni”) al cardinal Bertone proprio mentre il portavoce della Procura di Bruxelles respingeva l’aggressione del cardinale segretario di Stato con un perentorio “le perquisizioni sono state condotte da professionisti che conoscono molto bene il loro lavoro e che rispettano i diritti delle persone”.
È dunque evidente che la questione della laicità è oggi per l’Europa una questione centrale e ineludibile. Per il Papa vale la logica che, quando in una vicenda sono implicati dei preti (e Dio non voglia vescovi o cardinali), “la giustizia faccia il suo corso”, ma “nel rispetto della reciproca specificità e autonomia” di Stato e Chiesa. Frase in apparenza innocua, che dovrebbe andare da sé, traduzione burocratica del più eloquente “dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”, se non fosse per il fatto che il Papa pretende di essere poi lui a decidere se e quando lo Stato prevarichi, se e quando un membro della gerarchia debba rispondere a un magistrato. Pretende di essere lui, insomma, e non un tribunale civile, a decidere quali siano i confini tra le due giurisdizioni.
Si dirà però che non si possono trattare i vescovi di un paese come dei “sospetti” di compiacenza o addirittura omertà verso dei criminali (in questo caso dei pedofili), e che il comportamento della giustizia belga è dunque “non si sa se grottesco o ignobile” (Vittorio Messori). Obiezione francamente spericolata, visto il precedente del vescovo di Bayeux-Lisieux monsignor Pierre Pican, condannato a 3 mesi con la condizionale dalla giustizia francese per essersi rifiutato di testimoniare sulle attività pedofile, a lui note, di un prete della sua diocesi, e che per questo modo omertoso di “rispettare la reciproca specificità e autonomia” tra Stato e Chiesa ricevette, tramite il cardinal Castrillón Hoyos, l’encomio entusiasta e solenne di Giovanni Paolo II. Proprio mentre il Belgio (tradizionalmente cattolico) spiegava con i fatti cosa debba significare “laicità positiva”, la Corte costituzionale tedesca legalizzava definitivamente l’eutanasia passiva, annullando la condanna di un avvocato che aveva consigliato a un proprio cliente di tagliare il tubo della flebo di un suo parente tenuto in “vita” artificialmente e contro la sua volontà.
La Chiesa luterana ha approvato la sentenza, quella cattolica no, per “la sensazione che la differenza tra eutanasia attiva e passiva non sia stata presa sufficientemente in considerazione”. E in effetti, in un quadro di laicità davvero positiva il passo successivo - logicamente e giuridicamente inevitabile - è il diritto alla decisione sovrana di ciascuno sul proprio fine vita. Se, come ha stabilito la Corte costituzionale tedesca, “il paziente può decidere di rifiutare trattamenti di prolungamento artificiale della vita anche in caso di morte non imminente”, perché evidentemente non considera più la sua “vita umana” ma disumana tortura, non si vede perché per porre fine alla tortura non possa chiedere interventi attivi. Nel cattolico Belgio infatti, come nella protestante Olanda, ciò è già possibile.
Il Belgio, come hanno di mostrato le recenti elezioni, vive un momento carico di problemi politici non invidiabili. Ma sotto il profilo della laicità è indubbio che oggi sarebbe necessario “più Belgio” in ogni paese d’Europa.
La credente capace di parlare a tutti, ecco a voi Rosy Bindi
di Roberto Monteforte (l’Unità, 27 novembre 2009)
Rosy la «pasionaria», la toscana tenace. La «credente » rispettosa dei dettami della Chiesa, ma capace di assumersi in autonomia le proprie responsabilità politiche e istituzionali pagando anche il prezzo dell’incomprensione, come le capitò da ministro della famiglia quando avanzò la proposta dei Dico (il riconoscimento dei diritti dei conviventi). Che si confronta in modo aperto sulla bioetica e sul fine vita, sui nuovi diritti in una società sempre più multietnica e multiculturale, e sui temi dell’identità, della sicurezza, dell’accoglienza. Dello sviluppo e della democrazia economica.
C’è tutto questo nel «Quel che è di Cesare» (editore Laterza pagine 127, costo 10 euro) la sua biografia politica, non solo raccolta, ma anche sollecitata - soprattutto sui temi della bioetica - dalla cronista parlamentare Giovanna Casadio. Pagine dense e sincere che parlano di una scelta di vita al servizio del bene comune. Una scelta da «credente» che fa sua la dimensione della laicità, non solo come affermazione dell’autonomia del politico cattolico, ma anche di una politica che non può essere totalizzante, che deve avere limiti precisi. «In fondo la critica più radicale al potere assoluto e al cesarismo si trova nel Vangelo, perché - spiega - a Cesare si restituisce la moneta e non si consegna mai la persona, la sua libertà e la sua dignità».
Lo afferma mettendo in guardia dagli ideologismi dogmatici clericali e laicisti. Indica una via, quella del confronto, dell’ascolto delle ragioni dell’altro. È così che si batte il «cesarismo moderno» e si ridà dignità etica alla politica. È l’esperienza di laicità del cattolicesimo democratico che la Bindi ripropone. Esperienza «minoritaria», ma essenziale all’interno del cattolicesimo politico.
Con due assi portanti, essenziali e attualissimi: la lezione del Concilio Vaticano II e la Carta Costituzionale. Coniugare principi liberali e questione sociale, costruire una democrazia moderna: è stata la lezione «laica» di Alcide De Gasperi e di Aldo Moro, fautori di un progetto politico che fosse convincente anche per i laici. La Bindi l’attualizza. Lo fa smascherando i tentativi della «destra nel nome di Dio» di presentarsi come l’unica vera interprete dei valori che stanno a cuore alla Chiesa. Sottolinea il basso tasso di laicità di chi è alla ricerca del «voto del cielo». Invita al coraggio politico non solo i cattolici chiamati a misurarsi con la sfida bipolare, lasciandosi alle spalle improponibili nostalgie neocentriste. Ma anche l’intero Pd: il partito che ritiene il naturale erede di questo percorso. Occorre guardare avanti.
LA CAMPAGNA ELETTORALE COMINCIATA TRA EQUIVOCI E RETICENZE
Signori candidati, diteci l’antropologia di riferimento
La chiarezza fa perdere voti?
L’intenzionale rinuncia alla chiarezza fa perdere dignità
di FRANCESCO D’AGOSTINO (Avvenire, 24.02.2008)
Come elettore, mi interessa ben poco quale sia la percentuale dei ’cattolici’ che entreranno nelle liste elettorali per la competizione dell’ormai prossimo aprile: ben più mi interessa sapere quali siano i programmi e i progetti politici dei loro partiti di riferimento. Come convinto fautore di una laicità cristiana (che cioè dia a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio) e mi aspetto da ciascun partito un programma serenamente ’laico’ (non alterato né da pretese ideologiche, né da pulsioni confessionali), che individui con intelligenza quelle dimensioni del bene comune umano che appaiono oggi particolarmente bisognose di tutela e di promozione pubblica. Come cittadino, voglio onestamente collaborare con tutti gli altri cittadini, in un contesto che garantisca la libertà di tutti: su quei punti sui quali la collaborazione politica possa apparire non possibile, per insanabili divergenze in merito o all’individuazione dei beni da tutelare o alle migliori modalità per tutelarli, penso che sia doveroso rimettersi ai risultati della dialettica maggioranza/minoranza, che è in sé e per sé molto povera, ma è politicamente risolutiva. Se la mia parte resterà in minoranza, mi batterò perché in futuro possa essere più convincente presso gli elettori e possa conquistare la maggioranza dei suffragi; se si troverà in maggioranza, essa dovrà gestire il consenso ottenuto con equilibrio e equanimità. Tutto qui? Certo: la democrazia è semplice e ragionevole. Ad una condizione però: che gli elettori siano messi in condizione di conoscere senza reticenze e senza ambiguità i programmi dei partiti che chiedono il loro voto. Mai come in una campagna elettorale l’onestà intellettuale appare come un valore primario.
Eppure mai come in questa campagna, almeno fino ad ora, ombre, reticenze, ambiguità sembrano occupare il palcoscenico. Di programmi si sta parlando ben poco. Ma di candidature si è già parlato abbastanza e le candidature possono fornire indirettamente indicazioni programmatiche molto precise. Esistono candidati ’senza storia’: sono quelli che non hanno ancora un volto pubblico.
Ma esistono anche candidati che hanno un volto, che hanno una densa storia, anche parlamentare, alle loro spalle; candidati la cui visione del mondo è stata esplicitata innumerevoli volte, attraverso dichiarazioni, pratiche politiche, libri, conferenze. È impossibile ignorare ad esempio la visione libertaria (e non liberale, come viene spesso arbitrariamente presentata) di chi ha sempre militato nel Partito radicale.
È impossibile ignorare quale sia l’antropologia di Umberto Veronesi. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Da visioni antropologiche ’riduzionistiche’ (come quella radicale o come quella di Veronesi), derivano inevitabilmente ampie conseguenze sul piano delle scelte politiche, non solo per quel che concerne i temi che oggi vengono definiti ’eticamente sensibili’ (dalla procreazione assistita all’eutanasia), ma anche per temi di ancor più ampio rilievo sociale, primi tra tutti quelli del matrimonio, della famiglia e delle adozioni.
Non è l’identità confessionale che deve rilevare politicamente per l’elettore, ma l’antropologia di riferimento dei candidati e dei partiti. Non ci servono indicazioni tecniche o minuziose: ma l’esplicitazione di pochi e non equivoci principi di fondo. L’elettorato merita rispetto: perciò prima del voto dovrà essergli spiegata con la massima onestà che posizione assumerà ogni partito, quando verranno in discussione temi antropologicamente rilevanti. Anche i singoli candidati ovviamente meritano rispetto, purché però sappiano conquistarselo. Hanno un unico modo per farlo: dichiarare in modo limpido e chiaro i loro progetti politici e soprattutto come essi pensano di poterli promuovere nel contesto ’reale’ del partito in cui militano.
Alcuni dicono che la chiarezza fa perdere voti. Non so se sia vero; ma so che l’intenzionale rinuncia alla chiarezza fa perdere, e a volte definitivamente, la dignità.
Scandali, affari e misteri
Tutti i segreti dello IOR
L’Istituto Opere Religiose è la banca del Vaticano. In deposito 5 miliardi di euro. Ai correntisti offre rendimenti record, impermeabilità ai controlli. E segretezza totale.
di Curzio Maltese (la Repubblica, sabato 26 gennaio 2008)
La chiesa cattolica è l’unica religione a disporre di una dottrina sociale, fondata sulla lotta alla povertà e la demonizzazione del danaro, «sterco del diavolo». Vangelo secondo Matteo: «E’ più facile che un cammello passi nella cruna dell’ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». Ma è anche l’unica religione ad avere una propria banca per maneggiare affari e investimenti, l’Istituto Opere Religiose. La sede dello Ior è uno scrigno di pietra all’interno delle mura vaticane. Una suggestiva torre del Quattrocento, fatta costruire da Niccolò V, con mura spesse nove metri alla base. Si entra attraverso una porta discreta, senza una scritta, una sigla o un simbolo. Soltanto il presidio delle guardie svizzere notte e giorno ne segnala l’importanza. All’interno si trovano una grande sala di computer, un solo sportello e un unico bancomat. Attraverso questa cruna dell’ago passano immense e spesso oscure fortune. Le stime più prudenti calcolano 5 miliardi di euro di depositi. La banca vaticana offre ai correntisti, fra i quali come ha ammesso una volta il presidente Angelo Caloia «qualcuno ha avuto problemi con la giustizia», rendimenti superiori ai migliori hedge fund e un vantaggio inestimabile: la totale segretezza. Più impermeabile ai controlli delle isole Cayman, più riservato delle banche svizzere, l’istituto vaticano è un vero paradiso (fiscale) in terra. Un libretto d’assegni con la sigla Ior non esiste. Tutti i depositi e i passaggi di danaro avvengono con bonifici, in contanti o in lingotti d’oro. Nessuna traccia.
Da vent’anni, quando si chiuse il processo per lo scandalo del Banco Ambrosiano, lo Ior è un buco nero in cui nessuno osa guardare. Per uscire dal crac che aveva rovinato decine di migliaia di famiglie, la banca vaticana versò 250 milioni di dollari ai liquidatori. Meno di un quarto rispetto ai 1.159 milioni di dollari dovuti secondo l’allora ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta. Lo scandalo fu accompagnato da infinite leggende e da una scia di cadaveri eccellenti. Michele Sindona avvelenato nel carcere di Voghera, Roberto Calvi impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, il giudice istruttore Emilio Alessandrini ucciso dai colpi di Prima Linea, l’avvocato Giorgio Ambrosoli freddato da un killer della mafia venuto dall’America al portone di casa.
Senza contare il mistero più inquietante, la morte di papa Luciani, dopo soli 33 giorni di pontificato, alla vigilia della decisione di rimuovere Paul Marcinkus e i vertici dello Ior. Sull’improvvisa fine di Giovanni Paolo I si sono alimentate macabre dicerie, aiutate dalla reticenza vaticana. Non vi sarà autopsia per accertare il presunto e fulminante infarto e non sarà mai trovato il taccuino con gli appunti sullo Ior che secondo molti testimoni il papa portò a letto l’ultima notte.
Era lo Ior di Paul Marcinkus, il figlio di un lavavetri lituano, nato a Cicero (Chicago) a due strade dal quartier generale di Al Capone, protagonista di una delle più clamorose quanto inspiegabili carriere nella storia recente della chiesa. Alto e atletico, buon giocatore di baseball e golf, era stato l’uomo che aveva salvato Paolo VI dall’attentato nelle Filippine. Ma forse non basta a spiegare la simpatia di un intellettuale come Montini, autore della più avanzata enciclica della storia, la Populorum Progressio, per questo prete americano perennemente atteggiato da avventuriero di Wall Street, con le mazze da golf nella fuoriserie, l’Avana incollato alle labbra, le stupende segreterie bionde e gli amici di poker della P2.
Con il successore di papa Luciani, Marcinkus trova subito un’intesa. A Karol Wojtyla piace molto quel figlio di immigrati dell’Est che parla bene il polacco, odia i comunisti e sembra così sensibile alle lotte di Solidarnosc. Quando i magistrati di Milano spiccano mandato d’arresto nei confronti di Marcinkus, il Vaticano si chiude come una roccaforte per proteggerlo, rifiuta ogni collaborazione con la giustizia italiana, sbandiera i passaporti esteri e l’ extraterritorialità. Ci vorranno altri dieci anni a Woytjla per decidersi a rimuovere uno dei principali responsabili del crac Ambrosiano dalla presidenza dello Ior. Ma senza mai spendere una parola di condanna e neppure di velata critica: Marcinkus era e rimane per le gerarchie cattoliche «una vittima», anzi «un’ingenua vittima».
Dal 1989, con l’arrivo alla presidenza di Angelo Caloia, un galantuomo della finanza bianca, amico e collaboratore di Gianni Bazoli, molte cose dentro lo Ior cambiano. Altre no. Il ruolo di bonificatore dello Ior affidato al laico Caloia è molto vantato dalle gerarchie vaticane all’esterno quanto ostacolato all’interno, soprattutto nei primi anni. Come confida lo stesso Caloia al suo diarista, il giornalista cattolico Giancarlo Galli, autore di un libro fondamentale ma introvabile, Finanza bianca (Mondadori, 2003). «Il vero dominus dello Ior - scrive Galli - rimaneva monsignor Donato De Bonis, in rapporti con tutta la Roma che contava, politica e mondana. Francesco Cossiga lo chiamava Donatino, Giulio Andreotti lo teneva in massima considerazione. E poi aristocratici, finanzieri, artisti come Sofia Loren. Questo spiegherebbe perché fra i conti si trovassero anche quelli di personaggi che poi dovevano confrontarsi con la giustizia. Bastava un cenno del monsignore per aprire un conto segreto». A volte monsignor De Bonis accompagnava di persona i correntisti con i contanti o l’oro nel caveau, attraverso una scala, in cima alla torre, «più vicino al cielo». I contrasti fra il presidente Caloia e De Bonis, in teoria sottoposto, saranno frequenti e duri. Commenta Giancarlo Galli: «Un’aurea legge manageriale vuole che, in caso di conflitto fra un superiore e un inferiore, sia quest’ultimo a soccombere. Ma essendo lo Ior istituzione particolarissima, quando un laico entra in rotta di collisione con una tonaca non è più questione di gradi».
La glasnost finanziaria di Caloia procede in ogni caso a ritmi serrati, ma non impedisce che l’ombra dello Ior venga evocata in quasi tutti gli scandali degli ultimi vent’anni. Da Tangentopoli alle stragi del ’93 alla scalata dei «furbetti» e perfino a Calciopoli. Ma come appare, così l’ombra si dilegua. Nessuno sa o vuole guardare oltre le mura impenetrabili della banca vaticana.
L’autunno de 1993 è la stagione più crudele di Tangentopoli. Subito dopo i suicidi veri o presunti di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, la mattina del 4 ottobre arriva al presidente dello Ior una telefonata del procuratore capo del pool di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli: «Caro professore, ci sono dei problemi, riguardanti lo Ior, i contatti con Enimont...». Il fatto è che una parte considerevole della «madre di tutte le tangenti», per la precisione 108 miliardi di lire in certificati del Tesoro, è transitata dallo Ior. Sul conto di un vecchio cliente, Luigi Bisignani, piduista, giornalista, collaboratore del gruppo Ferruzzi e faccendiere in proprio, in seguito condannato a 3 anni e 4 mesi per lo scandalo Enimont e di recente rispuntato nell’inchiesta "Why Not" di Luigi De Magistris. Dopo la telefonata di Borrelli, il presidente Caloia si precipita a consulto in Vaticano da monsignor Renato Dardozzi, fiduciario del segretario di Stato Agostino Casaroli. «Monsignor Dardozzi - racconterà a Galli lo stesso Caloia - col suo fiorito linguaggio disse che ero nella merda e, per farmelo capire, ordinò una brandina da sistemare in Vaticano. Mi opposi, rispondendogli che avrei continuato ad alloggiare all’Hassler. Tuttavia accettai il suggerimento di consultare d’urgenza dei luminari di diritto. Una risposta a Borrelli bisognava pur darla!». La risposta sarà di poche ma definitive righe: «Ogni eventuale testimonianza è sottoposta a una richiesta di rogatoria internazionale». I magistrati del pool valutano l’ipotesi della rogatoria. Lo Ior non ha sportelli in terra italiana, non emette assegni e, in quanto «ente fondante della Città del Vaticano», è protetto dal Concordato: qualsiasi richiesta deve partire dal ministero degli Esteri. Le probabilità di ottenere la rogatoria in queste condizioni sono lo zero virgola.
In compenso l’effetto di una richiesta da parte dei giudici milanesi sarebbe devastante sull’opinione pubblica. Il pool si ritira in buon ordine e si accontenta della spiegazione ufficiale: «Lo Ior non poteva conoscere la destinazione del danaro».
Il secondo episodio, ancora più cupo, risale alla metà degli anni Novanta, durante il processo per mafia a Marcello Dell’Utri. In video-conferenza dagli Stati Uniti il pentito Francesco Marino Mannoia rivela che «Licio Gelli investiva i danari dei corleonesi di Totò Riina nella banca del Vaticano». «Lo Ior garantiva ai corleonesi investimenti e discrezione». Fin qui Mannoia fornisce informazioni di prima mano. Da capo delle raffinerie di eroina di tutta la Sicilia occidentale, principale fonte di profitto delle cosche.
Non può non sapere dove finiscono i capitali mafiosi. Quindi va oltre, con un’ipotesi. «Quando il Papa (Giovanni Paolo II, ndr) venne in Sicilia e scomunicò i mafiosi, i boss si risentirono soprattutto perché portavano i loro soldi in Vaticano. Da qui nacque la decisione di far esplodere due bombe davanti a due chiese di Roma». Mannoia non è uno qualsiasi. E’ secondo Giovanni Falcone «il più attendibile dei collaboratori di giustizia», per alcuni versi più prezioso dello stesso Buscetta. Ogni sua affermazione ha trovato riscontri oggettivi. Soltanto su una non si è proceduto ad accertare i fatti, quella sullo Ior. I magistrati del caso Dell’Utri non indagano sulla pista Ior perché non riguarda Dell’Utri e il gruppo Berlusconi, ma passano le carte ai colleghi del processo Andreotti. Scarpinato e gli altri sono a conoscenza del precedente di Borrelli e non firmano la richiesta di rogatoria. Al palazzo di giustizia di Palermo qualcuno in alto osserva: «Non ci siamo fatti abbastanza nemici per metterci contro anche il Vaticano?».
Sulle trame dello Ior cala un altro sipario di dieci anni, fino alla scalata dei "furbetti del quartierino". Il 10 luglio dell’anno scorso il capo dei "furbetti", Giampiero Fiorani, racconta in carcere ai magistrati: «Alla Bsi svizzera ci sono tre conti della Santa Sede che saranno, non esagero, due o tre miliardi di euro». Al pm milanese Francesco Greco, Fiorani fa l’elenco dei versamenti in nero fatti alle casse vaticane: «I primi soldi neri li ho dati al cardinale Castillo Lara (presidente dell’Apsa, l’amministrazione del patrimonio immobiliare della chiesa, ndr), quando ho comprato la Cassa Lombarda. M’ha chiesto trenta miliardi di lire, possibilmente su un conto estero». Altri seguiranno, molti a giudicare dalle lamentele dello stesso Fiorani nell’incontro con il cardinale Giovanni Battista Re, potente prefetto della Congregazione dei vescovi e braccio destro di Ruini: «Uno che vi ha sempre dato i soldi, come io ve li ho sempre dati in contanti, e andava tutto bene, ma poi quando è in disgrazia non fate neanche una telefonata a sua moglie per sapere se sta bene o male».
Il Vaticano molla presto Fiorani, ma in compenso difende Antonio Fazio fino al giorno prima delle dimissioni, quando ormai lo hanno abbandonato tutti. Avvenire e Osservatore Romano ripetono fino all’ultimo giorno di Fazio in Bankitalia la teoria del «complotto politico» contro il governatore. Del resto, la carriera di questo strano banchiere che alle riunioni dei governatori centrali non ha mai citato una volta Keynes ma almeno un centinaio di volte le encicliche, si spiega in buona parte con l’appoggio vaticano. In prima persona di Camillo Ruini, presidente della Cei, e poi di Giovanni Battista Re, amico intimo di Fazio, tanto da aver celebrato nel 2003 la messa per il venticinquesimo anniversario di matrimonio dell’ex governatore con Maria Cristina Rosati. Naturalmente neppure i racconti di Fiorani aprono lo scrigno dei segreti dello Ior e dell’Apsa, i cui rapporti con le banche svizzere e i paradisi fiscali in giro per il mondo sono quantomeno singolari. E’ difficile per esempio spiegare con esigenze pastorali la decisione del Vaticano di scorporare le Isole Cayman dalla naturale diocesi giamaicana di Kingston, per proclamarle "missio sui iuris" alle dirette dipendenze della Santa Sede e affidarle al cardinale Adam Joseph Maida, membro del collegio dello Ior.
Il quarto e ultimo episodio di coinvolgimento dello Ior negli scandali italiani è quasi comico rispetto ai precedenti e riguarda Calciopoli. Secondo i magistrati romani Palamara e Palaia, i fondi neri della Gea, la società di mediazione presieduta dal figlio di Moggi, sarebbero custoditi nella banca vaticana. Attraverso i buoni uffici di un altro dei banchieri di fiducia della Santa Sede dalla fedina penale non immacolata, Cesare Geronzi, padre dell’azionista di maggioranza della Gea. Nel caveau dello Ior sarebbe custodito anche il "tesoretto" personale di Luciano Moggi, stimato in 150 milioni di euro. Al solito, rogatorie e verifiche sono impossibili. Ma è certo che Moggi gode di grande considerazione in Vaticano. Difeso dalla stampa cattolica sempre, accolto nei pellegrinaggi a Lourdes dalla corte di Ruini, Moggi è da poco diventato titolare di una rubrica di "etica e sport" su Petrus, il quotidiano on-line vicino a papa Benedetto XVI, da dove l’ex dirigente juventino rinviato a giudizio ha subito cominciato a scagliare le prime pietre contro la corruzione (altrui).
Con l’immagine di Luciano Moggi maestro di morale cattolica si chiude l’ultima puntata dell’inchiesta sui soldi della Chiesa. I segreti dello Ior rimarranno custoditi forse per sempre nella torre-scrigno. L’epoca Marcinkus è archiviata ma l’opacità che circonda la banca della Santa Sede è ben lontana dallo sciogliersi in acque trasparenti. Si sa soltanto che le casse e il caveau dello Ior non sono mai state tanto pingui e i depositi continuano ad affluire, incoraggiati da interessi del 12 per cento annuo e perfino superiori. Fornire cifre precise è, come detto, impossibile. Le poche accertate sono queste. Con oltre 407 mila dollari di prodotto interno lordo pro capite, la città del Vaticano è di gran lunga lo «stato più ricco del mondo», come si leggeva nella bella inchiesta di Marina Marinetti su Panorama Economy. Secondo le stime della Fed del 2002, frutto dell’unica inchiesta di un’autorità internazionale sulla finanza vaticana e riferita soltanto agli interessi su suolo americano, la chiesa cattolica possedeva negli Stati Uniti 298 milioni di dollari in titoli, 195 milioni in azioni, 102 in obbligazioni a lungo termine, più jointventure con partner Usa per 273 milioni.
Nessuna autorità italiana ha mai avviato un’inchiesta per stabilire il peso economico del Vaticano nel paese che lo ospita. Un potere enorme, diretto e indiretto. Negli ultimi decenni il mondo cattolico ha espugnato la roccaforte tradizionale delle minoranze laiche e liberali italiane, la finanza. Dal tramonto di Enrico Cuccia, il vecchio azionista gran nemico di Sindona, di Calvi e dello Ior, la «finanza bianca» ha conquistato posizioni su posizioni. La definizione è certo generica e comprende personaggi assai distanti tra loro. Ma tutti in relazione stretta con le gerarchie ecclesiastiche, con le associazioni cattoliche e con la prelatura dell’Opus Dei. In un’Italia dove la politica conta ormai meno della finanza, la chiesa cattolica ha più potere e influenza sulle banche di quanta ne avesse ai tempi della Democrazia Cristiana.
(Gli altri articoli dell’inchiesta, che il Card. Bertone, Segretario di Stato del Vaticano, ha invano chiesto di bloccare, si trovano all’indirizzo http://www.repubblica.it/speciale/2007/curzio_maltese/index.html?ref=hppro )
Politica - Il dibattito sugli sconti fiscali al Vaticano La doppia identità del Vaticano
di Rosario Amico Roxas *
La volontà di confondere le idee e creare confusione domina sovrana il panorama delle opinioni; tutto ciò serve solo ai mestatori che profittano sempre delle situazioni di incertezza per imporre le proprie opinioni. Il riferimento attuale riguarda la richiesta di chiarimenti da parte della UE circa i rapporti tra lo Stato italiano e il Vaticano, con particolare riferimento ai privilegi che lo Stato italiano concede attraverso sgravi fiscali, esenzioni, favoritismi.
Ovviamente di ciò profittano i nuovi difensori del Vaticano spinti dalla speranza di cogliere al volo l’occasione di carpire i consensi dei cattolici, indignati per quello che viene presentato come un attacco alla Chiesa. Necessita mettere in chiaro che il Vaticano esercita un doppio ruolo, né si riesce a capire quale dei due abbia il primato. Il ruolo istituzionale sarebbe quello confessionale, religioso, di sostegno alle opere caritatevoli e assistenziali, ma c’è il secondo ruolo che incombe, ed è quello burocratico di uno Stato assoluto, continuatore di un assolutismo vecchio e superato che l’avvento delle democrazie, nelle varie forme ed espressioni, ha ridotto al rango di reperto di archeologia politica.
Lo Stato Città del Vaticano miscela in un unico calderone il suo duplice aspetto, secondo la convenienza e l’opportunità della situazione, trasferendo gli aspetti che coinvolgono l’identità statale in quella confessionale, senza distinzione di ruoli.
L’UE chiede chiarimenti circa i privilegi che lo Stato italiano concede allo Stato Città del Vaticano, che si ritrova, così, in condizione di vantaggio nei confronti di altri concorrenti nei medesimi interessi. Il patrimonio immobiliare dello Stato Città del Vaticano è fra i più consistenti del pianeta, ma viene presentato come una riserva economica per favorire le opere assistenziali. Falso.
Gli immobili vengono ceduti in affitto a prezzi di mercato, senza sconti o occhi di riguardo anche per i casi in cui la Chiesa dovrebbe manifestare maggiore sensibilità.
Si tratta di un patrimonio in costante crescita in quanto i proventi vengono ulteriormente investiti in successive operazioni immobiliari; le eccedenze vanno a finire presso l’Istituto per le Opere Religiose, meglio noto come IOR, una vera e propria banca che opera nel circuito dell’alta finanza, e non sempre con la chiarezze e la trasparenze che il nome originario imporrebbe.
Tutto ciò mi ricorda lo scandalo del burro che travolse il Vaticano negli anni 60, quando ingenti quantitativi di burro attraversavano le frontiere dai paesi produttori verso l’Italia, dirette a un non meglio identificato “Istituto per gli Italiani all’estero e ai popoli infedeli”, che avrebbe avuto, in Italia, tutta una serie di asili nido, dove i bambini sarebbe stati nutriti esclusivamente a base di burro; in realtà all’indirizzo dei vari asili corrispondevano le aziende dolciarie che utilizzavano il burro esentato dalle tasse doganali in quanto “destinato ad opere di beneficenza”, il tutto con la connivenza vaticana che lucrava sulle eccedenze.
Me ne occupai personalmente con un lungo e documentato articolo (Dacci oggi il nostro burro quotidiano) pubblicato su una rivista a carattere universitario “Nuove Dimensioni”, che allora provocò lo scombussolamento di tali operazioni. La storia si ripete: il patrimonio dello Stato Città del Vaticano viene gabellato come riserva economica per le opere assistenziali, pretendendo e ottenendo il trattamento fiscale riservato a tali opere; la realtà è ben diversa, si tratta di operazioni economiche mirate ad incrementare il medesimo patrimonio, a mantenere la burocrazia di uno Stato autonomo e indipendente, nel quale l’aspetto confessionale esercita un ruolo marginale, essendo trattato, prevalentemente, da oscuri personaggi che dedicano la loro vita ad alleviare le sofferenze altrui, senza alcun intervento da parte di quello Stato Città del Vaticano, che per tali opere gode dei tanti privilegi, dei quali, adesso, l’UE chiede spiegazioni.
Non è un “attacco alla Chiesa”, bensì una richiesta legittima di esaurienti motivazioni, circa i privilegi accordati allo Stato Città del Vaticano, che deve, finalmente, decidere la sua definitiva identità.
Rosario Amico Roxas
"lettere dal palazzo"
Date a Cesare.........
di Lidia Menapace
26 agosto 2007 *
Dopo una tiratina d’orecchi ricevuta da Prodi sul dovere di pagare le tasse poco raccomandata dalla Chiesa e addirittura sul passo di san Paolo, che chiede soggezione ai dirigenti politici perfino se un po’ "lazzaroni" (traduce felicemente Prodi il testo che dice "discoli") e si riferisce ai dirigenti uno stato invasore ed imperialista come era Roma in Palestina allora: in un’occasione solenne del meeting di Rimini Comunione e Liberazione, e da parte di un personaggio illustrissimo, cioè il cardinale segretario di stato, la Chiesa dice che bisogna pagare le tasse giuste, per fare il bene dei poveri. Nobile suggerimento che Prodi giustamente incassa.
Ma, a voler essere rigorosi, è un suggerimento rivolto alla struttura di gestione, piuttosto che una definizione generale di principio come è contenuta nel noto passo detto del "tributo della moneta". Che sostiene esplicitamente di esistere"ciò che è di Cesare" (cioè appartiene senza ulteriori determinazioni allo stato) e "ciò che è di Dio". Senza voler entrare ora nelle attribuzioni di confini, esame di materie miste e lotta per le investiture che già afflisse i nostri anni giovanili a scuola, sembra comunque chiaro che si fa riferimento esplicito ad una positività in sé, che è lo stato. E non si tratta di una astrazione filosofica, né di una forma arcaica e tribale, bensì dello stato romano già ben sviluppato, con un sistema giuridico ed una struttura fiscale ben nota: Matteo evangelista di mestiere faceva il gabelliere, cioè il raccoglitore di tasse per conto dello stato.
La teoria della positività dello stato è sviluppata soprattutto da Tommaso, il quale definisce lo stato, come la chiesa, "societas perfecta", cioè una istituzione che ha dei fini e tutti i mezzi per adempierli. Qual è dunque il fine dello stato?Non la beneficenza, bensì il "bene comune" fatto di adeguamenti e soddisfacimenti differenziati tra ceti e soggetti, non una semplice sommatoria di tutti i beni desiderati da ciascuno. Il fisco è lo strumento principale perché lo stato possa adempiere il proprio fine principale e non tocca ad altri decidere se esso è eseguito in modo soddisfacente o no, se non ai cittadini di quello stato, nelle forme stabilite storicamente.
Agostino ha una idea meno positiva dello stato e lo considera solo pallido rispecchiamento della Città di Dio, platonicamente, e - come sempre - è molto più reazionario di Tommaso, essendo molto pessimista. Si sa che Benedetto XVI è filoagostiniano, ma ciò è solo una notizia sulle sue preferenze culturali: in ordine alla forma dello stato, non è né dogma né dottrina prevalente della Chiesa cattolica. Se lo stato è dunque il titolare della definizione e realizzazione di bene comune, lo si vedrà da un sistema fiscale via via più giusto, capace di soddisfare via via più diritti per più persone, fino allo stato sociale, la forma di stato che vede i bisogni diventare diritti e da soddisfare universalmente attraverso il sistema fiscale.
O no? Siamo dunque ancora alla beneficenza, cioè per la storia italiana al 1880? Anche in quel caso però c’era già stata Porta Pia e lo stato italiano poteva decidere quale beneficenza pubblica fare. A Paolo Cento che rimprovera la curia di fruire di molte esenzioni fiscali, questa piccata replica di applicare solo il Concordato. Vero: ma nulla vieterebbe che in un momento difficile della storia italiana, la chiesa rinunciasse dalla sua parte a qualche pingue esenzione.
Ahi Costantin di quanto mal fu madre
di EUGENIO SCALFARI *
Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c’è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere. Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l’arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l’Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell’America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.
Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L’"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale. Tutto ciò va evidentemente al di là d’una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.
La questione cattolica è dunque quella che spiega più d’ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell’opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza. "Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...".
La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.
Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall’Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.
Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l’emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.
La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall’Austria e da alcuni paesi cattolici dell’America meridionale. Le capacità finanziarie dell’episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l’esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.
A fronte di quest’offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d’intransigenza che sfiorano l’anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l’antica diffidenza di togliattiana memoria.
Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un’avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell’ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell’elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.
* * *
Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.
Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori".
L’obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.
Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l’hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un’altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.
* * *
Un elemento decisivo della questione cattolica e dell’anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l’articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un’organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d’un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c’è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d’un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.
Questa doppia elica non esiste in nessun’altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell’impossibilità di realizzare l’unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.
Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all’interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell’episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.
Negli scorsi giorni l’atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.
Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l’otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all’episcopato italiano quell’otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.
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Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.
Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata. Quanto al grosso dell’opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.
Perciò sperare che la democrazia possa diventare l’"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.
* la Repubblica, 5 agosto 2007
Lettera a Bruno Zanin, una vittima della pedofilia clericale
di Fausto Marinetti *
Caro Bruno Zanin,
grazie per il coraggio di riconoscere di essere un uomo. Non hai paura di te. E neppure "al figlio dell’uomo" fai paura, perché lui, ama ogni figlio d’uomo, qualunque cosa abbia fatto.
Tu non ti riempi la bocca di belle parole come facciamo "noi", uomini di chiesa. Sei quello che sei: "Sì, sì, no, no". Fai parte di quella stirpe, che il Cristo cercava allora come oggi: i pubblicani e le meretrici. E lui ha il coraggio di metterli in prima fila, scandalizzando gli osservanti della legge, i benpensanti, compresi coloro che dicono di "amare la chiesa, perché amano Cristo" (attenzione alla cripto-ipocrisia!). Quelli che antepongono la diplomazia al vangelo, quelli che predicano bene e razzolano male, quelli che impongono agli altri dei pesi che loro non muovono con un dito.
Il tuo coraggio ha dato frutto: altre vittime si sono fatte avanti a raccontare il loro trauma. E’ la riprova della mia ipotesi: se tutte le diocesi mettessero a disposizione un telefono verde, quante altre vittime verrebbero alla luce? Quello che noi vediamo è solo il top dell’iceberg... la "sporcizia" è sotto sotto, ma basta stuzzicarla e viene a galla.
Alcuni hanno rivelato nomi eccellenti, ma sono ancora in "coma emotivo", impigliati nella ragnatela della paura, del tradimento, dell’orrore che li paralizza.
Confessano di non aver neppure la forza di denunciare. Non ne vogliono sapere di andare in tribunale, sarebbe rivivere il Calvario, che stanno tentando di cancellare dalla loro carne. E poi ci sono monsignori intoccabili, una sorta di casta, perché, a volte, si servono delle "opere buone" per coprire i loro delitti. Il brutto è che non sono capaci di gettare la maschera come, invece, fai tu. Ma se è gente che fa professione di fede e di carità; se è gente votata al vangelo, come fa a servire Dio e stuprare i suoi figli? E si fanno chiamare "padri"...
Vedi? Io vengo dal di dentro e conosco certi meccanismi o strategie clericali. Credo che uno dei fattori ai quali imputare questa contraddizione, sia la "troppa verità", che li porta all’arroganza della verità (quella che in passato ha fatto le "sante" crociate, bruciato streghe, condannato Galilei, collaborato con la "conquista" e con la shoà, ecc.). Quanta saggezza nelle parole di Paolo: "Chi sta in piedi non si esalti troppo, perché anche lui può cadere...".
Oh se tutti i Fisichella avessero un po’ di spazio dentro di sé (oltre che per la teologia e il catechismo) per accogliere le vittime! Forse è per la troppa verità di cui sono sazi; forse è per la troppa dottrina, che hanno bisogno di nascondersi dietro agli "operai del bene", che, per fortuna, ci sono ancora tra le loro fila, e spesso tollerati quando non ostacolati, contrariati, ecc.? Tu sai che io sono stato dieci anni con uno perseguitato da loro: Don Zeno, il quale non gliele mandava a dire e, con il suo esempio ha criticato e messo in evidenza certa cultura cattolica che non ha niente a che fare con il vangelo. Non si tratta di virgole, ma di vedere la dignità umana secondo gli occhi e il cuore di Dio. Ti faccio qualche esempio:
1 - La cultura clericale non ha sempre trattato il figlio della ragazza-madre come "figlio del peccato"? E lui ironizzava: "Mai sentito dire che il diavolo abbia fatto dei figli!". Quando veniva accolta in comunità una gestante, ci insegnava che era come un ostensorio della vita e, quindi, dovevamo rispettarla, onorarla e anche venerarla come si venera l’eucarestia.
2 - Nel 1943 all’ombra del Santuario di Pompei trova un istituto con la scritta "Casa dei figli dei carcerati". E lui va in bestia: "Questi bambini non sono i figli dei carcerati, ma i gioielli di Dio Padre, carne battezzata, senza macchia d’origine" (27.2.1943). E quando la comunità verrà sciolta dal braccio secolare, con il beneplacito della S. Sede, circa 700 "figli" sono strappati alle madri e riportati negli istituti, scoppiando dal dolore, dirà: "C’è da meravigliarsi che il clero abbia accettato collegi e orfanotrofi? Un flagello! A Pompei hanno fatto perfino la Casa dei figli dei carcerati. Una scritta a caratteri cubitali. Tu, prete, hai il coraggio di chiamare così coloro, che Dio ha scelto, perché rifiutati dagli uomini? Disprezzati dal mondo è un conto, ma anche dalla Chiesa non è troppo? É lecito commettere di questi guai? Siamo come il sacerdote e il levita della parabola del samaritano. Il Calvario è la storia di Dio nell’umanità e Cristo continua a dire alla Chiesa: Donna, ecco tuo figlio. E alle vittime: Figli, ecco vostra madre".
3- Di fronte a un’Italia alla fame, nel dopoguerra, scrive a Pio XII: "In rerum natura non si sono mai visti i babbi e le mamme benestanti e i figli poveri, affamati, ignudi, senza casa. Si è visto e si vede spesso l’inverso. Noi ecclesiastici, padri per divina elezione, di fronte ai figli siamo quindi contro natura, in peccato, dal quale hanno diritto di difendersi. Vuol cambiare rotta? Io ci sto e chissà quanti ci stanno..." (25.5.1953).
Ma Fisichella crede proprio che basta mascherarsi con le opere buone di madre Teresa per cancellare le migliaia di vittime della pedofilia clericale? Altro che insistere nel dire che si tratta di "casi isolati", di responsabilità personale di alcuni preti che "non dovevano diventare preti"! E quella dei vescovi che li hanno smistati qua e là? E la copertura...
La tua confessione "coram populo" ci invita tutti a gettare la maschera, a riconoscerci semplicemente uomini, a non ritenerci migliori degli altri, perché il nostro vanto è proprio quello di essere della stessa pasta di Adamo, creature fragili e perfettibili. Chi non ha bisogno di farsi perdonare qualche cosa? Perché i prelati non dovrebbero ammetterlo? Per salvare l’immagine? Che cosa è questa benedetta immagine se non, appunto, un’immagine?
Fisichella ha perso un’occasione unica durante la trasmissione di Annozero? Se invece di arrampicarsi sui vetri per difendere a tutti i costi la chiesa, (Cristo non ha bisogno di crociati, vecchi o nuovi), si fosse inginocchiato davanti alla donna stuprata per anni da don Contini, che cosa sarebbe successo? Un’occasione d’oro mancata. Mancanza di coraggio o di fede?
Certo, meglio la diplomazia, l’arte di non perdere la faccia, "l’istituzione va salvata ad ogni costo"! Ma Cristo, altro che faccia...!, non ha perso tutto quanto quando è andato ad "abitare" sul Calvario? Se è vero che vi sta a cuore l’istituzione, perché non prevenire tanto male, tanta aberrazione coltivata nei seminari, tanta cultura sessuofobica, che non vi fa vedere la corporeità, i figli, le donne, ecc. con gli occhi di Dio?
Perché non si ha questo santo coraggio? Perché siamo diventati ecclesio-latri, abbiamo messo la chiesa al posto di Dio? Ma dove esiste nel vangelo il "culto" alla chiesa, al papa, ai principi della Chiesa?
E quanti disastri continua a fare l’idolatria del prete? Cosa non si fa per fargli credere di essere "altro" dal popolo, un diverso, un eletto, un predestinato? Non si è forse elaborata una "dottrina" per metterlo sul piedestallo di Dio stesso?
La teologia distingue tra il sacerdozio di "uomini speciali" e il "sacerdozio comune dei fedeli". Al sacerdote sono affidati poteri essenziali per la salvezza: celebrare l’eucarestia e perdonare in nome di Dio. Il concilio di Trento dichiara: "Se uno dice che nel Nuovo Testamento non c’è traccia visibile del sacerdozio e del potere di consacrare il corpo e il sangue di Cristo e di rimettere i peccati, sia anatema" (n°. 961). Il celibato obbligatorio rinforza la mistica del prete, che lo pone al di sopra dei laici. Quando viene ordinato si unisce a Cristo in tale maniera che è sostanzialmente diverso dagli altri (catechismo, 1581), perché "possiede l’autorità di agire con il potere e nella persona di Cristo stesso" (1548). Viene messo sul pulpito, accanto a Dio, di cui gode onori e privilegi. Il curato d’Ars dice: "Che cosa è un prete? Un uomo che sta al posto di Dio, investito di tutti i suoi poteri. Quando perdona non dice "Dio ti perdoni", ma "Io ti perdono". Se incontrassi un prete e un angelo, prima saluterei il prete poi l’angelo. Questi è amico di Dio, il prete sta al suo posto". S. Teresa baciava dove passava un prete. "Il sacerdote agisce in persona Christi e questo culmina quando consacra il pane e il vino" (Giovanni Paolo II, giovedì santo 2004). La divisione tra preti e laici è di origine divina (can. 207). Ma l’aureola anzitempo gioca brutti scherzi: ti illude di essere costituito in grazia, immune dal peccato, specie da quello banale e volgare del sesso, che spetta ai comuni mortali. Il passaggio dal potere al privilegio, dall’elite alla casta è breve. E così va a finire che il clericalismo distorce, distrugge, avvelena la missione della Chiesa. Se non è la causa di molti problemi, certo li causa per conservare privilegi, potere, prestigio, immagine. Quindi non è ammessa nessuna debolezza, lo scandalo va soppresso, le vittime messe a tacere. Corruzione e abuso inevitabili (cf "Sex, priests & secret codes, R. Sipe, T. Doyle, P. Wall, Los Angeles, 2006).
Se si fa credere al prete di essere "come Dio", è chiaro che questo influisce e condiziona la sua psiche al punto di considerarsi al di sopra della legge umana e inconsciamente si permette delle libertà, che non sono concesse ai comuni mortali.
Non ce n’è abbastanza per riflettere e decidere di cambiare rotta?
* Il dialogo, Sabato, 04 agosto 2007
*Ringraziamo Fausto Marinetti per averci inviato questa sua lettera a Bruno Zanin, una vittima della pedofilia clericale che ha raccontato la sua storia in un libro che fa tremare: "Nessuno dovrà saperlo" dove con raro coraggio ammette, come conseguenza, di essere diventato omosessuale, non pedofilo. Per lui, come per tanti altre vittime della pedofilia dei preti, nessuno muove un dito, neppure le scuse come avviene in America dove le vittime hanno diritto alle pubbliche scuse del vescovo, possono "raccontare" in chiesa il "fattaccio" o scriverlo sul giornale della diocesi. Possono anche giungere ad erigere nella piazza di Davenport, davanti alla casa del vescovo, una macina da mulino con le parole di Cristo: "Chi scandalizza un bambino sarebbe meglio per lui mettersi una macina da mulino al collo e buttarsi nel mare".
Verrà il giorno in cui in piazza S. Pietro, al posto della fontana, si metterà una gigantesca macina da mulino a perpetua memoria delle vittime dei preti?
Editoriale *
Ci stanno rubando ogni ben di Dio
di Sebastiano B. Caix
L’aria a Milano, le spiagge sulle coste, la terra e l’acqua nel Sud. Tutto per una parola: liberalizzazione. Non sembra vero: ora la usano anche gli ex comunisti
I problemi gravi e vistosi di guerre e di politica sono tanti e tutti ne discutono, parlerò di alcuni piccoli ma che, messi insieme, hanno un loro senso. La terra, l’acqua, l’aria, la vita sono di tutti: tutti abbiamo diritto di lavorare la terra, di bere l’acqua, di respirare l’aria. Tutto quello che era prima dell’uomo appartiene a Dio, che l’ha donato a tutti gli uomini ovvero a tutta l’umanità. Nessuno - ricorda don Primo Mazzolari in un suo scritto - può dire questo è mio e non di altri. Se Mazzolari era un cristiano, questa è un’affermazione cristiana. Le leggi regolano questi diritti.
Le cose però non stanno così. La voce della saggezza e del diritto è stata nei secoli schiacciata dalla forza che, ai vincoli della ragione, ha sostituito quelli della violenza e della prevaricazione. Il più forte dice: «Questo è mio» e toglie ai deboli un loro diritto. Così oggi ci troviamo di fronte a un intrico di leggi sempre più fitto e confuso che, alla fine, difende sempre più la forza dei forti che i diritti dei deboli. Respiriamo aria inquinata, beviamo acqua inquinata, mangiamo cibi inquinati. Perché? Non sembra vero: per dare più armi di violenza a quelli che ci tolgono i nostri diritti con la violenza.
L’Italia è l’esempio che abbiamo sotto gli occhi: ma come avere il coraggio di ripetere ciò che viene detto, e inascoltato, ogni giorno? Milano è inquinata dalle autovetture? Basta pagare un biglietto «antinquinamento» ed ecco che i cittadini elettori, invece di cambiare regime, si tranquillizzano. Si autoinquinano pagando una tassa di più. Vivaci proteste popolari? No, qualche borbottio, poi su tutto (e sugli immani guadagni dei politici e dei loro accoliti) cala il silenzio perfino dei partiti all’opposizione. Sulle spiagge non si può prendere liberamente il sole o fare il bagno, perché i litorali sono stati venduti ai privati? Qualche polemica sui mass media, poi tutto si soffoca, si attutisce: i fiumi di denaro e le connivenze mettono a tacere gli amministratori e le opposizioni.
Montagne di rifiuti fumanti in numerose città del sud? I turisti stranieri invitati ad andarsene dalle loro stesse rappresentanze diplomatiche? Grida mediatiche, scambi di responsabilità (responsabilità!), montagne di denaro alle varie mafie e camorre, a esponenti di amministrazioni pubbliche e private, a personaggi d’ogni risma e partito che allignano perfino nelle istituzioni incaricate di proteggere i diritti contro i soprusi, ed ecco che tutto si sopisce, si ferma, l’ingiustizia scompare. Non che tornino ordine, pulizia, onestà: no, le bocche sono cucite dai soldi e dalla paura, il silenzio è d’oro.
La stampa dà notizia di una pericolosa discarica abusiva su un’area di 12 chilometri sulla tangenziale di Bari, e dice «scoperta» dall’autorità tutoria. Quest’area è da mesi scavata, preparata e tenuta in attività con camion e ruspe alle porte di un capoluogo di regione. Cosa vuol dire: scoperta? Scoprire una discarica illegale di 12 chilometri quadrati è come a Pisa «scoprire» la torre di Pisa. In alcuni capoluoghi di provincia, come a Taranto, manca l’acqua: è stata liberalizzata. Questa la grande trovata truffaldina: la «liberalizzazione» di elementi vitali che appartengono a tutti. Qui dovrebbe esserci un sommovimento mondiale, invece no. Perfino gli ex comunisti parlano di liberalizzazione, liberalizzano. Ma che cosa si liberalizza, quello che «deve» essere libero? Quello che è già per natura un dono di Dio a tutti?
La forza del denaro rende ciechi e muti coloro che dovrebbero parlare in difesa di chi denaro non ne ha. Con la liberalizzazione dell’acqua (la cui distribuzione dovrebbe essere organizzata e difesa dalla comunità) i cittadini hanno perduto il diritto di bere, di lavarsi, di tenere puliti se stessi e le loro città: pagano di più e sono peggio organizzati. Aprono i rubinetti ed esce la corruzione. Dal Nord al Sud, il ladrocinio non cambia. Perfino i preti più coraggiosi se ne devono andare e i cattolici più fedeli si sentono abbandonati in questo deserto.
Sebastiano B. Caix
* Il Dialogo, Giovedì, 12 luglio 2007
AL SERVIZIO DEL MONDO
In attivo i conti del Vaticano
A finanziare le attività degli uffici della Curia, che non producono ricavi, provvedono Conferenze episcopali, diocesi e istituti religiosi: le loro offerte sono aumentate nel 2006 passando da 73,9 a 86 milioni di euro
Da Roma Salvatore Mazza (Avvenire, 07.07.2007)
Si è chiuso in attivo, per il terzo anno consecutivo, il bilancio consolidato della Santa Sede. Entrate per 227 milioni 815 mila euro, e uscite per 225 milioni e 409 mila euro, con un saldo positivo di poco oltre i 2,4 milioni di euro. Una «buona notizia», dunque, come ha sottolineato ieri mattina il cardinale Sergio Sebastiani, presidente della Prefettura degli Affari economici, nella conferenza stampa convocata per presentare e "spiegare" i numeri del bilancio consolidato 2006, anticipati qualche giorno fa.
Un «risultato positivo», l’attivo conseguito, pur se «rappresenta il valore meno elevato» dopo quelli registrati nel 2005 (+9,7 milioni) e nel 2004 (+3,1 milioni). Nel bilancio sono conteggiati i costi «di tutte le Amministrazioni pontificie, oltre alle 118 Sedi di rappresentanza pontificia sparse in tutto il mondo e le nove Sedi presso gli organismi internazionali». Nel corso dell’incontro, introdotto dal direttore della Sala Stampa padre Federico Lombardi, e presenti monsignor Franco Croci, segretario della Prefettura degli Affari economici, e il ragioniere generale Paolo Trombetta, sono state passate in esame le diverse voci iscritte a bilancio. A iniziare ovviamente dalle attività istituzionali, ossia quelle svolte dai Dicasteri e gli Uffici della Curia Romana, ovvero dagli «organismi che assistono da vicino il Santo Padre nella missione di pastore universale a servizio delle Chiese locali, come anche a beneficio dell’umanità, come operatori di pace», e che «non producono ricavi - ha sottolineato Sebastiani - e per questo sono soggetti alla prescrizione canonica 1271 che invita i vescovi a venire incontro liberamente alle attività della Santa Sede».
Il canone richiamato è quello che invita Conferenze episcopali, diocesi, istituti religiosi, fedeli ed Enti ecclesiastici vari a farsi carico, a seconda delle proprie possibilità, dell’esercizio apostolico della Santa Sede. Ebbene, nel 2006 le offerte raccolte attraverso questa disposizione sono aume ntate, rispetto all’anno precedente, da 73,9 milioni di euro a 86 milioni nel 2006.
Quanto ai costi, sempre per l’attività istituzionale, l’aumento è stato di quasi 5 milioni, da 121,3 a 126,2 milioni di euro, variazione dovuta sia ai costi aggiuntivi per il personale, sia all’aumento delle spese generali e amministrative (da 13,4 a 15,3 milioni), e di quelle per il mantenimento di rappresentanze e nunziature (da 19,6 a 20,6 milioni). Riguardo all’attività finanziaria, l’incremento dei contributi ha permesso di assorbire il calo molto pronunciato dell’avanzo netto che è stato nel 2006 di 13,7 milioni contro 43,3 milioni nel 2005. Ciò, ha spiegato Sebastiani, in base al «principio della prudenza» che guida questo settore, per cui gran parte degli investimenti sono obbligazioni statali anziché azioni, che sono a maggior rischio.
Sempre nel 2006, il settore immobiliare ha registrato un netto di 32,3 milioni (22,4 nel 2005). Negativo, al contrario, il saldo delle "istituzioni collegate" - Radio Vaticana, Tipografia vaticana, Osservatore Romano, Centro televisivo vaticano e Libreria Editrice vaticana: il disavanzo è di 12,8 milioni di euro, in massima parte dovuti alla Radio (che però non ha entrate) e all’Osservatore.
Obolo di San Pietro: anno record
Grazie a donazioni eccezionali superata quota 100 milioni di euro
Da Roma Salvatore Mazza (Avvenire, 07.07.2007)
Ha largamente superato i 100 milioni di euro, nel 2006, il gettito dell’Obolo di San Pietro. Un risultato dovute alle donazioni «eccezionali» che si sono registrate nel corso dell’anno passato. E che mentre va - ovviamente - visto nel suo valore, non deve far immagine che si tratti di un risultato facilmente ripetibile.
Non poteva passare sotto silenzio il dato anticipato qualche giorno fa da una nota della Segreteria di Stato, che informava che la raccolto dell’Obolo aveva raggiunto nel 2006 la cifra di ben 101 milioni e 900 mila dollari. E infatti ieri, nel corso della conferenza stampa per la presentazione del bilancio consolidato 2006 della Santa Sede, è stato chiesto dai giornalisti un commento su questa straordinaria performance.
«È un fatto - ha risposto il direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi - che quest’anno ci sono state delle offerte eccezionali. Questo però è bene dirlo, perché non ci si aspetti che ogni anno ci siano. Puoi avere un anno in cui uno ti fa una grandissima offerta e questo fa salire molto l’entrata, ma se l’anno dopo quest’offerta eccezionale non c’è, tu non puoi contarci e non te ne puoi neanche stupire».
A comporre la somma che va sotto la voce dell’Obolo concorrono tutte le offerte liberali in arrivo dalle Chiese locali, dagli Istituti religiosi, dalle Fondazioni e dai singoli fedeli. La cifra non rientra dunque nel bilancio della Santa Sede, ma viene iscritta in quello del Governatorato del Città del Vaticano.
In cima alla lista dei Paesi donatori sono ancora gli Stati Uniti, e ciò «nonostante» il peso «degli scandali» che di recente hanno investito quella Chiesa locale con la vicenda dei preti pedofili, come ha rilevato il cardinale Sergio Sebastiani. Germania e Italia seguono al secondo e terzo posto.
Il Pontefice approva un testo dove Roma viene posta al di sopra
Lo strale più forte contro i protestanti, "carenze" per gli ortodossi
Documento voluto da papa Ratzinger
"L’unica chiesa di Cristo è quella cattolica" *
CITTA’ DEL VATICANO - Roma contro Lutero e la Riforma per affermare il primato del Papa e della chiesa cattolica sulle altre. Perché Cristo ha costituito "sulla terra un’unica Chiesa", che si identifica "pienamente" solo nella Chiesa cattolica e non nelle altre comunità cristiane. E’ quanto afferma il documento "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa" redatto dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, diffuso oggi dalla Santa Sede e approvato dal Papa che ne ha ordinato la pubblicazione.
Il testo è firmato dal Prefetto della Congregazione, il cardinale William Levada, e dal segretario, monsignor Angelo Amato e porta la data del 29 giugno, solennità dei santi Pietro e Paolo, scelta, evidentemente, non a caso. Come non a caso arriva una precisazione sul Concilio Vaticano II: "Nel periodo postconciliare - dice l’articolo - la dottrina del Vaticano II è stata oggetto, e continua ad esserlo, di interpretazioni fuorvianti e in discontinuità con la dottrina cattolica tradizionale sulla natura della Chiesa: se, da una parte, si vedeva in essa una ’svolta copernicana’, dall’altra, ci si è concentrati su taluni aspetti considerati quasi in contrapposizione con altri. In realtà - spiega la congregazione - l’intenzione profonda del Concilio Vaticano II era chiaramente di inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio".
Nel testo si legge anche che il Vaticano riconosce nelle altre comunità cristiane non cattoliche, in particolare nella Chiesa ortodossa, l’esistenza "numerosi elementi di santificazione e di verità". Ma vi sono anche - indica il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicato oggi - "carenze", in quanto tali confessioni non riconoscono "il primato di Pietro", ovvero del Papa di Roma. Tale primato - avverte tuttavia la nota - "non deve essere inteso in modo estraneo o concorrente nei confronti dei vescovi delle Chiese particolari".
Sì al dialogo anche con le chiese "particolari" ma, afferma l’ex Sant’Uffizio, "perché il dialogo possa veramente essere costruttivo, oltre all’apertura agli interlocutori, è necessaria la fedeltà alla identità della fede cattolica". Le comunità protestanti, nate dalla riforma luterana del XVI secolo, non possono essere considerate, dalla dottrina cattolica, "chiese in senso proprio", in quanto non contemplano il sacerdozio e non conservano più in modo sostanziale il sacramento dell’Eucarestia.
"L’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica - è quanto afferma in un’intervista monsignor Angelo Amato - non è da intendersi come se al di fuori della chiesa cattolica ci fosse un ’vuoto ecclesiale’, dal momento che nelle chiese e comunità ecclesiali separate si danno importanti ’elementa ecclesiae’". "Il volto nuovo della Chiesa - aggiunge - non implica rottura ma armonia in una comprensione sempre più adeguata della sua unità e della sua unicità".
Il segretario della Congregazione spiega anche perché sia stato scelto, nel documento, lo stile delle domande con risposte. "E’ un genere - osserva - che non implica argomentazioni diffuse e molto articolate, proprie ad esempio delle Istruzioni o delle Note dottrinali. Nel nostro caso invece si tratta di alcune brevi risposte a dubbi relativi alla corretta interpretazione del Concilio".
* la Repubblica, 10 luglio 2007
IL CASO
Nella testimonianza di Viktor Bede, ex prete e amico del dittatore, un «testamento» ben diverso da quello ufficiale: «Ci mancano dieci san Francesco»
Il «mea culpa» di Lenin
Sul letto di morte un’amara riflessione sulla necessità della violenza. Eppure concludeva: «Tra cent’anni sotto le macerie delle istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica»
di Paolo Vicentin (Avvenire, 12.07.2007)
Era il 9 aprile del 1917 allorché si misero in viaggio dal loro esilio in Svizzera, 31 rivoluzionari russi, con Lenin quale capo: erano diretti in Svezia, attraverso la Germania, in un vagone piombato. Il governo del Reich tedesco di allora aveva concesso, attraverso il proprio territorio, questo passaggio, con la speranza che la rivoluzione russa, già incominciata, desse il colpo decisivo ad uno dei nemici allora in guerra contro la Germania, la Russia appunto. In quanto a Lenin, era noto essere un ateo a tutto campo. In seguito tuttavia venne diffusa una dichiarazione del morente rivoluzionario ben singolare, che sembrò significare una sconfessione di tutto il suo operato.
Alla presenza di un ex-prete ungherese, suo collega giornalista a Parigi e suo confidente, sicuro dell’imminenza della morte - come avevano affermato i medici - avrebbe dichiarato: «Ho sbagliato. Senza dubbio è stato necessario liberare masse di persone dalla repressione, ma i nostri metodi hanno avuto, come conseguenza, l’oppressione e il terrificante massacro di altri oppressi». Proseguiva, rivolto all’amico ungherese: «Tu sai che la mia malattia mi porterà presto alla morte e mi sento abbandonato nell’oceano di sangue di infinite vittime. Per salvare la nostra Russia ciò è stato necessario, ma è troppo tardi per cambiare ora: avremmo bisogno di dieci Francesco d’Assisi». Così scriveva su una pubblicazione cattolica tedesca, nel 1977, il vescovo di Ratisbona di allora, Rudolf Graber, citando gli articoli che Viktor Bede avrebbe scritto per L’Osservatore romano, pubblicati il 23 agosto e il 24 settembre 1924 e usciti senza firma. Di questi incontri tra l’ex-ecclesiastico ungherese, che si chiamava Viktor Bede, e il fondatore del comunismo, ha parlato anche il giornalista tedesco Hansjakob Stehle in un volume dal titolo Die Ostpolitik des Vatikans.
Nel ricordare sul quotidiano vaticano i suoi incontri con Lenin, questo ex-prete riportava altre dichiarazioni del rivoluzionario: «L’umanità percorre la via sovietica e fra cento anni non esisterà altra forma di governo». Aggiungendo: «Credo, tuttavia, che sotto le macerie delle attuali istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica... nel prossimo secolo ci sarà solo una forma di governo, quella sovietica, e una religione, la cattolica». E avrebbe concluso, il morente Lenin: «Peccato che noi, allora, non ci saremo più...».
L’articolo Pensieri di Lenin sul cattolicesimo di Viktor Bede informa che l’autore aveva conosciuto Lenin, a Parigi, per la «comune professione di giornalisti», definendo il loro rapporto «molteplice e cordiale». Pochi mesi prima della morte del dittatore, egli si recò a Mosca «per far visita al suo vecchio collega e fu ricevuto, nella sua privata abitazione al Cremlino, con la consueta cordialità». Annota ancora: «Potevo andare a trovarlo, senza grandi difficoltà, in quanto, ad eccezione di lui, nessuno sapeva che ero un ex-prete. E, in tal modo, ho potuto procurarmi importanti documenti fornitimi dal dittatore». Prosegue: «Come era consuetudine, i nostri colloqui erano discussioni piuttosto che conversazioni e ciò mi piaceva, perché il mio interlocutore aveva mantenuto tutta la semplicità e schiettezza del passato, che mi permetteva di ricordare più l’amico e il giornalista che l’ideatore di una delle più spaventose rivoluzioni della storia. Da questi incontri personali, da uomo a uomo, avevo l’impressione che la persona che veniva presentata come crudele e tiranna era, a suo tempo, vittima della sua concezione sociale e che lui, contro la sua volontà, era stato indotto a commettere misfatti, a motivo della ragione di Stato...».
Continua l’ex-ecclesiastico: «In realtà si svelò dinanzi a me un carattere, nonostante tutto, ancora così mite, come un tempo avevo apprezzato a Parigi, di una, chiamiamola pure, dolcezza di uomo che molto ebbe da sopportare. Lo soffocava l’idea che si era fatta della sua missione, spinta fino a quella forma di misticismo politico, suo proprio, nei sentimenti dell’uomo privato, per lasciare mano libera al dittatore a decidere, di sua volontà, di liberare l’umanità, allargando su tutto il mondo la sovranità sovietica, della quale necessità era intimamente convinto».
Continua questo rapporto: «Mi disse ancora un giorno: cosa vuoi tu quando mi rimproveri che noi sovietici dobbiamo usare la violenza e i metodi più radicali per tenere lontani dalla nostra nazione, tutti gli elementi nocivi al nostro programma... Con questi non si può discutere ragionevolmente, come non lo si può fare con una vipera che ti punge: la si uccide. Molti, purtroppo, non lo sanno o, viziosi, non sono in grado di capire la necessità di destinare il loro soprappiù a beneficio della grande massa che non possiede nulla: è questo il motivo perché si mette in atto l’inflessibile espropriazione e lo sterminio di quanti a ciò si oppongono».
Lenin affermò poi, in un altro colloquio: «Vedi, l’umanità, quasi seguendo il suo destino, ha intrapreso il cammino dell’Unione Sovietica. È solo questione di tempo. Fra un secolo tra i popoli civilizzati non ci sarà altra forma di governo. Tuttavia credo che continuerà a sussistere, sotto le macerie delle attuali istituzioni, la gerarchia cattolica, perché in essa si effettua sistematicamente l’educazione di coloro i quali hanno il compito di guidare gli altri. Non nascerà alcun vescovo o papa, come finora è nato un principe, un re o un imperatore, perché per diventare un capo, una guida, nella Chiesa cattolica, è necessario aver già dato prova di capacità. È in questa saggia disposizione la grande forza morale del cattolicesimo che da duemila anni resiste a tutte le tempeste e rimarrà invincibile anche in futuro. La forza di questa Chiesa è totale, è una forza morale e non estorta. L’umanità ha bisogno dell’una e dell’altra potenza».
Nel secondo articolo, apparso su L’Osservatore romano il 24 settembre 1924, l’autore tratta il problema russo dal punto di vista del dittatore. Bede rimproverava a Lenin di non avere egli alcuna convinzione morale, anzi di distruggere tale fondamento, perché sradica i sentimenti religiosi dal cuore degli uomini. Lenin rispose: «Voi volete dunque che io lasci venire i vostri confratelli, affinché essi incitino il popolo contro i sovietici». Rispose Bede: «Che la vita dei nostri confratelli sia l’applicazione del più puro comunismo, viene confermato da tanti secoli di esperienza: se si crede cioè alla possibilità di una educazione del popolo verso il disinteressamento e l’altruismo, non si può presentare miglior esempio di quello dei membri dei nostri ordini religiosi». Prosegue il racconto: «Lenin mi fissò con i suoi occhi penetranti. Mi resi conto che in lui i pensieri erano in subbuglio e lo udii mormorare queste parole: "No, non è possibile..."».
Annota l’amico: «Dopo aver atteso un po’, insistetti nel suo dovere di garantire la libertà di religione. Lenin mi fissò con i suoi grandi occhi, senza aprir bocca. Poi, con accento duro, sarcastico, mi chiese: "È il tuo papa che ti ha mandato da me?" Era il tono di voce del dittatore, non più dell’amico. Lo assicurai che non avevo avuto alcun incarico, da nessuno, e che ero venuto a Mosca senza aver parlato del viaggio a chicchessia, nemmeno ai più fidati amici. Lenin si calmò di nuovo e disse: "Ti ammiro... sento che vivrò ancora per poco tempo. Ciò che tu pensi è troppo bello perché io lo potessi esprimere, è troppo grande perché io potessi realizzarlo. Ci saranno altri, spero, i quali invece di misure violente e di crimini, adotteranno metodi che tu proponi per far felice l’umanità"». Questo secondo articolo dell’ex prete ha questa conclusione: «Era dunque troppo tardi: il terribile dittatore sentiva di non possedere più la forza per accettare le grandi idee che egli ancora ammirava. Sentiva di non avere più la forza di distruggere la banda che lo teneva attanagliato, dopo che essa l’aveva innalzato sul trono degli zar». Insomma, il padre della rivoluzione bolscevica si diceva disgustato per gli orrori provocati, ma li giustificava. Lenin moriva poco tempo dopo. Fu pubblicato un suo testamento: «Ma questo è davvero il testamento di Lenin? - si chiede Viktor Bede - Io ne dubito molto...».
Colloqui singolari. Citati anche dallo storico Andrze J. Kaminski nel volume I campi di concentramento dal 1896 a oggi (Bollati Boringhieri 1997) e dal vaticanista Sergio Trasatti nel libro La croce e la stella (Mondadori 1993). Non esiste alcun dubbio sulla loro autenticità, affermava il vescovo di Ratisbona, Rudolf Graber, nel 1977, sottolineando che bisognava aggiungere qualche cosa, però, all’immagine di Lenin, con queste parole: «Io non sono in grado di affermare se i colloqui riferiti rappresentano una condanna della sua opera; ciononostante possono indurre anche noi a una riflessione».
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio ... Il cattolicesimo ha sempre e per lo più confuso "Erode" con Cesare e Dio con "Mammona" e i "banchieri" del Tempio!!!
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue.
Politica e questione morale nella seconda metà del IV secolo
Dio e Cesare secondo sant’Ambrogio
di Santiago de Apellániz *
Dinanzi agli interventi delle autorità ecclesiastiche nelle questioni temporali, è frequente che alcuni interlocutori parlino di ingerenza e vogliano ricordare a tali autorità, non senza una certa ironia, che si deve dare "a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". Ciò mette in evidenza, quantomeno, due questioni di un certo spessore: in primo luogo che oggigiorno nella cultura occidentale il dualismo politico religioso è pacificamente accettato come modo di intendere i rapporti fra l’autorità politica e quella religiosa; in secondo luogo, che il testo evangelico a cui abbiamo fatto allusione non è percepito in maniera univoca.
Lo studio sistematico dell’epistolario politico di sant’Ambrogio ha, fra le altre virtù, quella di contribuire a chiarire il contenuto di questa frase di nostro Signore. La prossimità temporale del santo agli accordi di Milano del 313, il suo passato come funzionario pubblico dell’Impero, la sua santità di vita e i suoi interventi, come vescovo di Milano (374-397), dinanzi alle autorità politiche del suo tempo, si presentano come credenziali più che sufficienti per questo compito.
Troviamo in questi testi affermazioni e atteggiamenti che coincidono nel mostrare l’ostacolo che il monismo politico-religioso, allora imperante nella prassi politica, rappresenta per il libero inserimento della Chiesa e dei cristiani nella realtà temporale che li accoglie. "Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Matteo, 22, 21), è l’argomentazione presentata all’imperatore per esigere una sfera di autonomia per la Chiesa, nel suo agire temporale, libero da ingerenze dell’autorità politica (cfr. Epistole, 75, 30, 31 e 35 e 76, 19). Possiamo quindi affermare che sant’Ambrogio si fa protettore di una sorte di rivoluzionario, in quanto nuovo, dualismo fra l’ambito politico e quello religioso, che presenta come un paradigma più adeguato e rispettoso verso il messaggio evangelico del modello dominante, il quale includeva la dimensione cultuale-religiosa come attività propria delle autorità politiche.
In tal senso, la disputa per l’altare della Vittoria, che oppone il santo all’aristocrazia pagana di Roma, è un ulteriore tentativo di procedere alla desacralizzazione del potere temporale, per avanzare nella concessione della cittadinanza e della libertà alla sfera spirituale-politica. Ciò logicamente significava sottrarre al potere temporale tutto ciò che riguardava la vita religiosa dei popoli; per il santo, Cesare non è competente per decidere quello che si deve dare a Dio.
Gli interventi del vescovo Ambrogio nelle questioni temporali dell’epoca, così come quelli dei vescovi di oggi, mettono in evidenza il fatto che l’autonomia e l’indipendenza necessarie per l’agire della sfera politica e di quella religiosa non implicano mancanza di comunicazione o isolamento fra le stesse. Così, per esempio, il santo segnala l’esistenza di doveri religiosi propri della sfera di azione dell’autorità politica, che fanno riferimento sia alla libertà religiosa dei cittadini dell’impero sia all’onore dovuto a Dio.
Pertanto, ci sembra che per tracciare il suo dualismo politico-religioso il santo parta da una realtà accettata nella società del suo tempo: la dimensione pubblica del fatto religioso. Ciò che il vescovo aggiunge è che questa venga espressa in dualità di ambiti. Vale a dire che l’autorità politica deve riconoscere la centralità di Dio nella vita dei popoli, ma debba farlo in un modo consono alla natura e al fine che le sono propri: il servizio che deve rendere a Dio si deve esprimere nel compimento fedele della sua missione, cercando il bene comune dei cittadini con atti non religiosi, ma civili.
Sant’Ambrogio chiede ripetutamente agli imperatori di stare attenti a far sì che i loro atti di governo non siano contrari al volere di Dio: è questo il modo concreto attraverso il quale, in dualità di ambiti, l’autorità politica onora e rende gloria a Dio. Così, il santo segnala che la dimensione morale non appartiene solo all’ambito religioso, ma anche a quello politico: ed è questo ordine morale, che le due sfere condividono, il luogo in cui s’incontrano.
L’autorità temporale potrebbe però interpretare questa pretesa del santo come qualcosa di circoscritto a quelle decisioni politiche riguardanti, in modo più o meno diretto, le questioni religiose, di modo che per il resto delle decisioni politiche si verificherebbe una situazione di amoralità. L’episodio della strage di Tessalonica chiarisce questo particolare in modo nuovo per le categorie dell’epoca. Qui non c’è un motivo religioso, reale o apparente, che inviti il santo a intervenire: a Tessalonica si sono verificati gravi tumulti, contrari all’ordine pubblico, e Teodosio, nell’esercizio della sua sovranità, ha firmato l’ordine di giustiziare, senza discriminare fra innocenti e colpevoli, parte della popolazione della città. Di fronte a tale abuso, il vescovo dichiara l’imperatore fuori dalla commissione ecclesiastica e lo esorta a pentirsi e a fare penitenza. Questa condanna religiosa di una decisione politica sottolinea l’impossibile estraneità alla moralità di qualunque atto di governo, qualsiasi sia la sua entità. Pone in tal modo l’accento sul fatto che ogni atto dell’uomo - religioso, politico o di altra natura - è un atto morale, ovvero un atto con il quale si orienta, o no, verso Dio.
Strettamente vincolato a questo argomento e da esso derivato, è il pensiero di sant’Ambrogio sul carattere relativo della sovranità del potere temporale: l’autorità politica non è un potere alla mercé di se stesso e non può esercitare la sua missione in modo arbitrario o senza considerare la presenza di Dio nel Creato e nella storia degli uomini. Così, insieme al rispetto e all’obbedienza dovuti all’autorità politica costituita, il santo sottolinea che la sovranità assoluta corrisponde solo a Dio, fonte e origine di ogni autorità. Per questo motivo, anche in dualità di ambiti, ogni forma di autorità è in ultima istanza legittimata dal suo adeguarsi a quanto disposto dal supremo e divino Legislatore.
Stando così le cose, possiamo cercare di cogliere il senso della sua famosa frase, citata nella disputa per le basiliche, imperator enim intra ecclesiam, non supra ecclesiam (Epistole, 75, 36). Per sant’Ambrogio esiste una chiara gerarchia fra l’ordine temporale e quello spirituale: posto che Dio deve essere preferito agli uomini e che il potere civile deve rifiutare ciò che può costituire un’offesa a Dio, la sfera religiosa si situa al di sopra di quella temporale. Ebbene, in dualità di ambiti, tale superiorità è esclusivamente spirituale, significa precedenza di colui che è portatore e portavoce di Cristo e non dipendenza o strumentalizzazione, poiché gli ambiti sono autonomi e indipendenti.
Infine, vediamo come il santo intende la partecipazione dell’autorità religiosa alle questioni temporali. Sant’Ambrogio segnala la necessità e l’obbligatorietà di questi interventi, quando sono in gioco l’onore o il bene delle anime. Il modo preciso in cui interviene è attraverso giudizi di carattere etico-religioso, la cui finalità principale è di orientare gli imperatori affinché le loro decisioni siano giuste, conformi al volere di Dio. La causa di questo intervento obbligato del vescovo la identifica nel possesso di un deposito di Verità salvifica, consegnato da Dio alla sua Chiesa per aiutare e invitare gli uomini a seguire le orme di Cristo sulla terra. In tal modo, l’ambito religioso, in virtù della sua superiorità spirituale, è presentato come luce e aiuto insostituibile per l’ambito politico, nel suo compito di promuovere il vero Bene comune.
In definitiva, la proposta di sant’Ambrogio sul modo d’intendere i rapporti fra l’autorità politica e quella religiosa, consta di due elementi centrali: la dualità degli ambiti e il riconoscimento della centralità di Dio nella storia degli uomini e delle comunità. Il primo permette ed esprime la maniera adeguata di dare "a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio"; il secondo crea le condizioni affinché la comunità politica, agendo come tale, non dimentichi di dare "a Dio quello che è di Dio". Ci sembra che questi due elementi siano fondamentali per una corretta comprensione del testo evangelico. Nelle moderne società occidentali il modello di dualità di ambiti è pacificamente accettato. Si ha tuttavia l’impressione che le autorità politiche stiano trascurando il fatto che, come tali e nel compimento dei fini che corrispondono loro, devono far sì che nelle società si dia "a Dio quello che è di Dio". Possono forse essere motivo di riflessione per i responsabili della sfera politica, e anche per tutti i cittadini, il significato del carattere relativo dell’autonomia dell’autorità politica e l’irrinunciabile vincolo dell’esercizio di questa autorità con l’ordine morale, indicati dal santo.
* ©L’Osservatore Romano - 31 gennaio 2010