I NUMMERI *
Conterò poco, è vero:
- diceva l’Uno ar Zero -
ma tu che vali! Gnente: proprio gnente!
Sia ne l’azzione come ner pensiero
Rimani un coso voto e incorcrudente.
Io invece se me metto a capofila
De cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
E’ questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso
TRILUSSA, Poesie scelte, Mondadori.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ARITMETICA, ANTROPOLOGIA, E ... "MONOTONISMO" *
Profezia è storia /13.
Benedetto è il numero uno
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 31 agosto 2019)
In questo racconto, tra i più noti della letteratura religiosa antica, il numero benedetto è il numero uno. Con Elia, solo contro le centinaia di profeti di Baal, e Abdia unico salvatore di profeti, la Bibbia ci dice che in molte crisi tremende la salvezza arriva perché c’è rimasto un giusto che salva tutti. In alcuni momenti decisivi, la massa critica è uno. Noè, Abramo, Mosè, i profeti, Elia, Abdia, Maria, Gesù: per quanto importante e bello sia il "noi", la Bibbia esalta anche l’"io". Il noi non salva nessuno se al suo cuore non c’è almeno un io che obbedisce a una voce e liberamente agisce. Un io giusto è il lievito della buona massa del noi. È questa la radice di quel principio personalista al centro dell’umanesimo occidentale, che oggi, nel fascino esercitato da nuovi noi, continua a ripeterci che nessun gruppo supera in dignità la singola persona, al massimo la può uguagliare. Nel "calcolo della dignità" nei gruppi umani le regole dell’aritmetica non valgono. Questo valore non aumenta con la somma, perché il primo addendo ha già un valore infinito - qui uno più uno più uno fa sempre e solo uno.
Durante una carestia tremenda e lunghissima, mentre una regina sanguinaria sta sterminando i profeti di YHWH, un uomo li salva: «A Samaria c’era una grande carestia. Acab convocò Abdia, che era il maggiordomo. Abdia temeva molto YHWH; quando Gezabele uccideva i profeti di YHWH, Abdia aveva preso cento profeti e ne aveva nascosti cinquanta alla volta in una caverna e aveva procurato loro pane e acqua» (1 Re 18, 2-4). Abdia è un amico dei profeti. Come l’etiope Ebed-Melec l’eunuco che salvò Geremia dalla cisterna (Ger 38), anche ora incontriamo un uomo, un "maggiordomo", che salva i profeti dalla morte.
Anche la storia delle religioni e delle civiltà conosce questa categoria di giusti, questi goel. I profeti hanno molti nemici; ma hanno anche alcuni amici e "salvatori". Li ospitano nelle loro case-Betania, li nascondono, li curano, li consolano, credono in loro quando tutti li abbandonano. I profeti hanno questi amici, ne hanno almeno uno, almeno una, che diventa il tozzo di pane e il palmo d’acqua per non morire nell’attraversamento dei deserti. A volte sono i genitori, una sorella. Non sono sempre discepoli dei profeti, a volte sono solo amici. Un amico di profeta vale più di mille discepoli.
Abdia incontra Elia, e la dote con cui si presenta sono i cento profeti che ha salvato: «Io nascosi cento profeti, cinquanta alla volta, in una caverna e procurai loro pane e acqua?» (18, 13). Elia gli si fa incontro: «Quello lo riconobbe e cadde con la faccia a terra dicendo: "Sei proprio tu il mio signore Elia?". Gli rispose: "Lo sono; va’ a dire al tuo signore: c’è qui Elia"» (18, 7-8). Abdia ha paura. Elia lo rassicura, e lui va: «Abdia andò incontro ad Acab e gli riferì la cosa». (18, 16). Elia incontra finalmente Acab. Ed entriamo in una delle pagine più note e tremende della Bibbia: la sfida, la cosiddetta ordalia del Monte Carmelo tra Elia e quattrocentocinquanta profeti di Baal. Una scena potente ed epica, che ci fa vivere in presa diretta un brano della religione di quei popoli arcaici, in bilico tra magia e fede.
«Acab convocò tutti gli Israeliti e radunò i profeti sul monte Carmelo. Elia si accostò a tutto il popolo e disse: "Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!"» (18, 20-21). Elia propone un duello tra YHWH, il Dio di Israele e Baal, il dio locale fenicio-cananeo. Dalla parte di Baal ci sono centinaia di profeti; accanto a YHWH c’è il solo Elia.
Ancora una lotta impari, un altro Davide contro un altro Golia. Ma, anche qui, la vittoria non è una faccenda di forza né di numeri. È la qualità, non la quantità, il principio attivo di queste vittorie. Dal resto del racconto si comprende, infatti, che la sfida non è tra due dèi entrambi vivi, ma piuttosto tra Dio e il nulla. Questa vittoria di YHWH è una delle prime attestazioni monoteistiche di Israele. «Ci vengano dati due giovenchi; essi se ne scelgano uno, lo squartino e lo pongano sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Io preparerò l’altro giovenco e lo porrò sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Invocherete il nome del vostro dio e io invocherò il nome di YHWH. Il dio che risponderà col fuoco è Dio!"» (18, 23-24).
I profeti di Baal apparecchiano per primi il loro altare, e attendono che Baal, il dio dei fulmini, faccia bruciare la legna per il sacrificio. E poi «invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, gridando: "Baal, rispondici!". Ma non vi fu voce, né chi rispondesse» (18, 26).
Non vi fu voce... Torna quella nota bellissima che accompagna l’intera Bibbia: il Dio vero è il Dio della voce. YHWH parla, chiama, sussurra. Gli idoli sono falsi perché non hanno voce, sono sfiatati. La frenesia profetica cresce, svelandoci dettagli interessanti di quegli antichi riti: «Gridarono a gran voce e si fecero incisioni, secondo il loro costume, con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue» (18, 28). Il fuoco non ci accende, Baal non risponde. Elia ironizza e li sbeffeggia: «Gridate a gran voce, perché è un dio! È occupato, è in affari o è in viaggio; forse dorme» (18, 27). In questo sfottò Elia "si dimentica" che molti salmi sono un grido per "svegliare" Dio, e che la prima preghiera collettiva della Bibbia fu un urlo di schiavi perché YHWH, distratto, si ricordasse della sua promessa (Es 2). Anche i profeti più grandi nell’agone della lotta religiosa possono usare contro l’avversario le parole più umane e più belle imparate sotto la tenda di casa. Come noi.
Quindi arriva il turno di Elia: «Elia prese dodici pietre... Eresse un altare nel nome di YHWH... Dispose la legna, squartò il giovenco e lo pose sulla legna... Elia disse: "YHWH, Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele... Rispondimi, Signore, rispondimi, e questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!". Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere» (18, 31-38). Colpisce l’essenzialità sobria della preghiera di Elia, se confrontata alla spettacolarità barocca dei profeti di Baal - le liturgie eccessive ed emozionali sono quasi sempre segno di fedi larvatamente idolatriche. Elia vince la sfida, e il popolo esclama: «YHWH è Dio! YHWH è Dio!» (18, 39). Elia celebra la sua vittoria facendo sgozzare uno a uno i quattrocentocinquanta profeti di Baal: «Elia disse loro: "Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!". Li afferrarono. Elia li fece scendere al torrente Kison, ove li ammazzò» (18, 40). Un epilogo tremendo, come tutta la scena.
L’ordalia, o "giudizio di Dio", è una prova il cui esito veniva interpretato come diretta manifestazione della volontà degli dèi. Era molto diffusa nell’antichità e in molte culture. In Europa le ordalie furono introdotte soprattutto dai popoli germanici, in Italia dai Longobardi, per molti secoli tollerate anche dalla Chiesa. Nell’ordalia - del fuoco, dei veleni, dei metalli fusi... - chi usciva illeso dalla prova era considerato giusto e/o innocente. Il dato di fatto veniva eretto a volontà divina. Quindi il più forte in duello, o il più scaltro a camminare sul fuoco, era benedetto da Dio e portatore di un suo messaggio. E così, i forti diventavano ancora più forti, i deboli ancora più deboli. Qualcosa di molto simile alla religione economico-retributiva, che leggeva nella ricchezza la benedizione di Dio e nella povertà la maledizione, che rendeva i ricchi due volte benedetti e i poveri due volte maledetti.
La Bibbia ha dovuto lottare molto per liberarsi da questa visione arcaica e "naturalistica" della fede, e c’è riuscita solo in parte. Ha cercato di mostrarci che i "miracoli" non sono di per sé prove della verità della fede, ma solo segni imperfetti e sempre parziali. Perché anche i falsi profeti sanno fare miracoli, anche i maghi in Egitto simulavano le piaghe, e Simon Mago con i suoi gesti "strabiliava" gli abitanti di Samaria (Atti degli Apostoli, cap. 8). Geremia era avversato e perseguitato dai falsi profeti che invocavano il miracolo che li avrebbe salvati - che non ci fu.
C’è voluto l’Esilio per capire che YHWH non è vero perché vincitore, che continuava a essere il Dio della promessa anche da Dio sconfitto. Ma noi nonostante tutta la Bibbia, i Vangeli, san Paolo, san Francesco, nonostante il non-miracolo della croce e la non-ordalia dei chiodi e del legno, siamo troppo tentati di imitare Elia, di pensare che il nostro Dio è vero perché è vincente, e poi sgozziamo i perdenti.
Il miracolo del fuoco sul Monte Carmelo non prova che YHWH è Dio. Forse prova soltanto che Baal è un idolo, ma questo lo sapevamo prima dell’ordalia. Non è bene "tentare Dio", dirà un’altra anima della stessa Bibbia. Anche perché noi troppe volte apparecchiamo gli altari, facciamo veglie, urliamo e chiediamo il miracolo che non arriva. E come noi siamo capaci di non perdere la fede davanti a un figlio che non guarisce e muore, quella stessa fede vera non può essere creata da nessun miracolo. Anche perché di fronte a un miracolo per noi dobbiamo sempre continuare a chiedere a Dio: "Perché non agli altri"?
La parte luminosa di questa pagina buia del Monte Carmelo non sta allora nella luce del fuoco che irrompe sulla scena, ma nella domanda che Elia rivolge al suo popolo: «Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se YHWH è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!» (18,21).
La tentazione idolatrica è tenace, sempre presente e attiva nel cuore dell’uomo e della donna perché, diversamente dall’ateismo, non nega Dio ma prima lo riduce a idolo e poi lo moltiplica - ogni idolatria è politeista, perché ogni consumatore ama la varietà delle merci. L’idolatra non rinnega Dio, lo rimpicciolisce per manipolarlo. I profeti ci dicono: "scegli", perché è meglio, paradossalmente, passare interamente a Baal che aggiungerlo nel tempio accanto a YHWH. Ma noi preferiamo molti piccoli dèi innocui a un unico Dio vero e scomodo. Ecco perché sulla terra l’idolatria è molto più presente della fede. Quando il figlio dell’uomo tornerà sulla terra vi troverà certamente l’idolatria. La fede non lo sappiamo. Speriamo che la trovi almeno in uno. E se viene presto, che quell’uno possiamo essere noi.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
SVOLTA IN FRANCIA. DALLA CARITÀ ("CHARITE’") DI PASCAL ALLA CARITA’ DI PAPA RAZTINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006), DALLA CHIAREZZA DI CARTESIO ALLA "CONFUSIO-NE" ("COMMUNIO") DI J.-L. MARION .... IL PRESIDENTE SARKOZY E IL FILOSOFO J.-L. MARION: DALL’ACCOGLIENZA DELLA DIVERSITÀ ALLA DIFESA DELL’IDENTITÀ, ’NAZIONALE’ E ’CATTOLICA’.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
MATEMATICA, TEOLOGIA POLITICA, E ANTROPOLOGIA...
Api matematiche, riconoscono lo zero
Come delfini, pappagalli e scimpanzè
di Redazione Ansa*
Anche le api entrano a far parte del club molto esclusivo di animali che sanno cos’è lo zero, insieme a delfini, pappagalli, scimpanzè e bambini in età prescolare: si tratta di una scoperta sorprendente, considerata la complessità del concetto matematico astratto del nulla, e apre a nuovi e più semplici approcci per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Lo studio, pubblicato sulla rivista Science, è stato coordinato dall’Università di Melbourne in Australia (Rmit), in collaborazione con l’Università francese di Tolosa.
La scoperta solleva non poche domande su come una specie così diversa e lontana dagli esseri umani, con meno di un milione di neuroni a confronto degli 86 milioni del cervello umano, possa condividere un’abilità così complicata: infatti lo zero è un concetto molto difficile che i bambini impiegano anni ad imparare e che era assente in alcuni sistemi numerici di antiche civiltà.
I ricercatori guidati da Scarlett Howard hanno attirato gli insetti verso una parete con piccoli fogli bianchi, ognuno con un numero da due a cinque di forme nere disegnate. Dopo aver addestrato le api tramite ricompense di cibo a scegliere i fogli con un minore o un maggior numero di forme, i ricercatori hanno introdotto due numeri nuovi, uno e zero: a quel punto gli insetti hanno dimostrato di sapere che lo zero è minore di uno.
"Se un’ape riesce a riconoscere lo zero con meno di un milione di neuroni", dice Adrian Dyer dell’Università di Melbourne, uno degli autori, "allora devono esserci modi più semplici ed efficienti per insegnare lo stesso concetto ai sistemi di Intelligenza Artificiale. Ad esempio - prosegue - per noi è semplice attraversare la strada quando non passa nessuno, ma per un robot risulta un compito molto più difficile".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CONTARE E PENSARE: MARE, "NUMERO E LOGOS".
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
MATEMATICA, TEOLOGIA POLITICA, E ANTROPOLOGIA: CONTIAMO E PENSIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN
Federico La Sala
Le api sempre più brave in matematica
Riconoscono i simboli e li associano ai numeri
di Redazione ANSA (05 giugno 2019)
Nuove sorprese dalle api che si rivelano sempre più brave in matematica: dopo la scoperta che riconoscono lo zero e sanno fare operazioni aritmetiche di base, adesso si sa che riescono a collegare i simboli ai numeri e diventano i primi insetti che si distinguono per questa abilità. Il risultato apre nuove possibilità di comunicazione tra gli umani e altre specie, oltre a più semplici approcci per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. La scoperta si deve alla ricerca pubblicata sulla rivista Proceedings of the Royal Society B e coordinata dall’Università di Melbourne in Australia (Rmit), in collaborazione con l’Università francese di Tolosa.
Il gruppo di ricerca è lo stesso che nel 2018 aveva scoperto che questi insetti riconoscono il concetto di zero, come delfini, pappagalli e scimpanzè. In questo nuovo esperimento i ricercatori hanno addestrato le api in un labirinto a forma di Y ad abbinare un simbolo a un numero, a esempio il simbolo 2 a due banane o due cappelli, rivelando che sono in grado di apprendere che un simbolo rappresenta una quantità numerica.
"Diamo per scontato che da bambini riusciamo a imparare che cosa sono i numeri, ma essere in grado di riconoscere cosa rappresenta il simbolo 4 richiede in realtà un livello sofisticato di capacità cognitive", osserva Adrian Dyer, della RMIT University.
La capacitù delle api di associare simboli e numeri è notevole, considerando che il loro cervello meno di un milione di neuroni, contro gli 86 miliardi del cervello umano. Altri studi, ha proseguito l’esperto, avevano già dimostrato che "i primati e gli uccelli possono imparare a collegare simboli e numeri, ma questa è la prima volta che osserviamo questa abilità negli insetti".
Se le api "hanno la capacità di apprendere qualcosa di così complesso come un linguaggio simbolico creato dall’uomo, questo - conclude - apre nuovi entusiasmanti percorsi per la comunicazione futura tra le specie, oltre a gettare nuova luce su come le abilità numeriche possano essersi evolute
Lidia Menapace: «Dopo la vittoria del NO, abroghiamo il Concordato»
di Donatella Coccoli (Left, 4 novembre 2016)
«Dopo la vittoria del no, voglio raccogliere le firme per abrogare l’articolo 7 della Costituzione, quello del Concordato tra Stato e Chiesa». Con un tono della voce molto deciso, Lidia Menapace, 92 anni, staffetta partigiana, pacifista ed esponente del movimento femminista nonché senatrice nel 2006 per Rifondazione comunista, espone tranquillamente i suoi progetti per il dopo referendum. Rappresentante del No a Bolzano, dove vive, Lidia non esita a rilanciare la posta, per nulla intimorita dal dispiegamento di forze del fronte del Sì, anche se sollecita i vari comitati del No ad estendere la lotta, con una mobilitazione più a tappeto. Una donna forte Lidia Menapace e una incrollabile certezza nella capacità di coinvolgere le “cittadine e i cittadini - nominiamole le donne, dice, se no non esistono” -.
Lidia, quali sono i punti inaccettabili della revisione costituzionale?
In generale è inaccettabile tutta la procedura. Questo è un testo giuridico fondamentale e quindi se ci fosse anche qualcosa di giusto, poiché la procedura è sbagliata, io la respingo. La procedura, ricordo, è garanzia. In questo caso, è confusa. Sono abbastanza vecchia per ricordarmi il dibattito sulla Costituzione, fu partecipatissimo, molto limpido, chiaro. Non è la stessa cosa adesso e la dimostrazione è che nonostante tutti i giochi di equilibrio - in cui è bravo -, Renzi non è riuscito a ottenere i voti che servivano perché la sua proposta diventasse legge immediatamente. Ha dovuto promuovere il referendum che, ricordo, è obbligatorio, non è stata una scelta.
Hai accennato al clima in cui è nata la Costituzione. Com’era, in particolare?
Tutti si immaginano che la Costituzione sia stata costruita da un bel gruppo di giuristi seduti attorno a un tavolo con la massa fuori tranquilla e ignara. Invece no. L’Italia era appena uscita dai bombardamenti, le città erano distrutte e la confusione era tanta. Ma ci fu una specie di passione collettiva, anche se non in nome della patria perché queste cose dopo il fascismo uscivano dalle orecchie. La passione dominante era quella dell’essere liberi, di questo si discuteva ovunque: nelle osterie, nei treni, per strada, nelle scuole. Le persone chiacchieravano, suggerivano che bisognava fare questa o quell’altra cosa. E poi leggevano i giornali e cercavano qualche riscontro con quello che stavano sancendo le madri e i padri costituenti. Mi ricordo che una volta il partito socialista e quello comunista votarono in modo diverso sull’articolo 7 del Concordato.
Te lo ricordi bene...
Certo, lo ricordo benissimo. I socialisti, più laici, votarono contro l’introduzione del Concordato nella Costituzione, mentre Togliatti in particolare pensava che non avrebbe potuto mantenere in Italia un Pci forte se non avesse trovato un accordo con il Vaticano. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di mettere il Concordato nella Costituzione e così ci ritroviamo questo articolo 7.
Tu che ne pensi a proposito dell’articolo 7?
Se mi si chiedesse di voler cambiare qualcosa nella Costituzione, ecco io direi sì, perché la Costituzione non è un dogma. E uno degli articoli che vorrei cambiare è proprio l’articolo 7. Mi piacerebbe cominciare a raccogliere le firme per abrogare l’articolo 7 subito dopo aver vinto con il no. Dei Concordati non c’è più bisogno dopo il Concilio Vaticano II, sono un relitto del passato. Io sono favorevolissima al massimo della libertà religiosa, ma l’idea che per paura che i cattolici non siano perseguitati in Italia li si mettano sotto la protezione di un altro Stato, veramente fa ridere e piangere insieme.
Con l’abrogazione del Concordato verrebbero meno anche molti privilegi fiscali di cui gode la Chiesa...
Sarebbe praticamente un riequilibrio, perché la Chiesa dovrebbe pagare l’affitto di tutti i palazzi che occupa dove ci sono anche i ristoranti e da cui ricava profitti senza pagare nemmeno le tasse perché basta mettere una statuina e farne un luogo di culto. È una vera vergogna. E poi in ogni Paese i cattolici mantengono i loro preti, con le offerte magari detraibili dal fisco però tutto è regolato e limpido invece da noi la Chiesa si prende l’8xmille anche da quelli che pensano di non darglielo: il Concordato è davvero una pecca in una Costituzione peraltro assai bella. Tolto quel cappello dell’articolo 7 che impedisce all’Italia di essere un Paese laico, si potrebbe vedere tutto l’inghippo della Chiesa nella società italiana. Questa è una cosa da correggere assolutamente. E per questo io raccoglierei subito le firme.
Che cosa c’è poi che non va nella revisione costituzionale?
Con questa revisione promossa da Renzi, si vorrebbe uno stato centralistico, che si riprende tutte le competenze delle regioni e questo non lo tollero. Preferisco uno stato fondato sulle autonomie che uno stato centralistico. Si dice che i consiglieri regionali rubano, perché, i governi no? Se mai si deve riuscire a trovare la maniera di tenere sotto controllo l’attività politica pubblica, senza cambiare la Costituzione.
A proposito delle donne, la ministra Boschi ha polemizzato qualche tempo fa sul fatto che ci sono poche donne nel comitato del No. Tu che sei stata femminista che nei pensi?
Io non sono stata femminista, sono femminista!
Perfetto! Ma che cosa rispondi, è vero che le donne non si interessano dei problemi costituzionali?
No, se mai è il comitato che non si interessa delle donne. Non è che il Comitato del Sì brilli per presenza rilevanti di donne, ma siccome è assolutamente dominato da Renzi, sia uomini che donne restano negli angolini bui perché lui occupa tutti gli spazi. Ma il Comitato del No deve essere più attivo nel coinvolgere le donne. Le donne sono più numerose degli uomini e se non sono rappresentate dai comitati resta fuori la maggioranza dell’elettorato.
Bisogna sensibilizzare di più le donne?
No, le donne sono sensibili, bisognerebbe sensibilizzare di più il comitato. Al di là dell’impostazione accademica, la cosa da fare sarebbe una mobilitazione a tappeto con volantini semplici ed efficaci, non con documenti di 20 pagine in stretto linguaggio giuridico. Bisogna fare riunioni di caseggiato e soprattutto ascoltare le donne. Se non si fa così, si perde. Tutti questi illustrissimi personaggi e uomini politici che si sono autonominati comitato nazionale si decidessero a fare un po’ di lavoro pratico.
Come vedi la partecipazione delle forze di sinistra e del M5s? Sono attivi?
Sì, anzì, noto che in un periodo di grande distrazione politica e assenza di interesse, questo referendum riesce a scuotere anche le aree più grigie. Quindi bisognerà, dopo la vittoria del No, non far ricominciare la morta gora. Io intanto ho già cominciato a buttare l’idea di raccogliere le firme per abrogare il concordato...
Amano
Giovanni De Mauro, direttore di (Internazionale, 22.01.2016)
Basta cercare di spiegare a delle bambine e a dei bambini di otto anni il dibattito sulle unioni civili che occupa le prime pagine dei giornali da qualche settimana (anzi, da secoli, la prima proposta di legge risale al 1988) per rendersi conto di quanto sia assurdo: c’è chi vuole impedire a due persone che si amano di sposarsi e avere dei figli solo perché sono omosessuali.
D’altra parte siamo rimasti davvero in pochi, con Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Slovacchia. Tutti gli altri, e in particolare i paesi europei a cui ci piace tanto paragonarci, hanno da tempo trovato forme e modi per regolare le unioni delle coppie omosessuali. Senza che questo abbia provocato contraccolpi devastanti nella società.
Già sul divorzio e sull’aborto la classe politica italiana aveva dimostrato la sua incapacità di stare al passo con i tempi, di interpretare i bisogni e gli orientamenti dei cittadini che dovrebbe rappresentare. E oggi la semplice domanda che andrebbe rivolta ai 630 deputati e ai 315 senatori italiani è: da che parte state? Dalla parte di chi nega i diritti o da quella di chi i diritti li difende e li garantisce?
Unioni Civili: Renzi, per Pd riforma irrinviabile. Oggi famiglie arcobaleno in piazza
Riunione del partito dopo le tensioni sul tema, i verdiniani ma anche l’Ue
di Redazione ANSA 23 gennaio 2016
Mobilitazione in 100 piazze, oggi, a favore dei diritti del mondo lgbt, #SVEGLIATITALIA, lanciata da Arcigay, ArciLesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno e Mit in occasione dell’inizio della discussione al Senato del ddl sulle unioni civili: "scenderemo in piazza accanto a un pezzo importantissimo della società civile: associazioni, istituzioni, partiti, sindacati, liberi cittadini e cittadine hanno aderito in massa all’appello e annunciato la propria presenza ai presidi. Tutti assieme realizzeranno un flashmob, portando con sé sveglie e orologi con suoneria per sincronizzarli e suonare la sveglia al nostro Paese".
"Siamo rimasti l’unico paese dei 28 senza una disciplina sulle unioni civili, è fondamentale che si chiuda cercando il più possibile di ascoltarsi e rispettarsi ma poi si sappia che ad un certo punto si vota e sui temi etici ci sarà libertà di coscienza come doveroso che sia. Il compromesso non è lo strumento per non arrivare a chiudere. Sono giuste tutte le posizioni ma si sappia che per il Pd la riforma è irrinviabile". Matteo Renzi, alla direzione del Pd, ribadisce la determinazione a chiudere sulle unioni civili.
Resta la sfida dei Cattodem sulle Unioni Civili che si traduce anche negli emendamenti al ddl depositati in Senato. Seimilacento, di cui cinquemila della sola lega, una sessantina del Pd e nove dell’ala cattolica Dem. Tra questi restano i due, annunciati nei giorni scorsi, sulla trasformazione della stepchild adoption in "affido rafforzato" e sul "divieto della pratica di surrogazione di maternità" realizzata da un cittadino italiano all’estero introdotto, nella proposta di modifica, all’art.4 del ddl. Rispetto a quanto annunciato non si prevede, né per chi realizza la maternità surrogata né per chi la organizza, alcun inasprimento delle pene.
La riduzione al minimo di qualsiasi rimando alle sezioni del codice civile che disciplinano il matrimonio. E’ quanto si prevede in tre emendamenti Pd, a prima firma Lumia, agli articoli 2 e 3 del ddl unioni civili nei quali i diritti e i doveri connessi all’unione civile vengono esplicitati per esteso. Gli emendamenti intervengono, in particolare, sulle cause impeditive dell’unioni civile ex comma 4 dell’articolo 2 del testo, sulle cause di annullamento ex comma 3 articolo 3 e sul regime patrimoniale.
Renzi nella direzione ha parlato anche delle amministrative: "Dopo quello che è successo a Roma è difficile, ma credo che si possa vincere facendo una sfida vera sui problemi concreti della città. Chiunque vincerà le primarie, otterrà un sostegno forte del nostro partito".
"Non ci fa velo sostenere candidati sostenuti per cinque anni perché a differenza di altri non vogliamo politicizzare il voto: lo stanno facendo altri amici e compagni della sinistra fuori da qui, che a Torino hanno avviato una campagna nazionale. Ma noi sosteniamo Massimo Zedda a Cagliari come abbiamo fatto per i cinque anni del primo mandato".
A tenere banco è però anche lo scontro con l’Ue. "Va recuperato - ha detto Renzi prendendo la parola - l’ideale europeo che nel dibattito in corso è totalmente dimenticato. Se qualche leader si offende per mezza parola detta o non detta, stiamo perdendo di vista il vero obiettivo, che è quell’ideale".
"Chi abbraccia derive populiste e demagogiche lo fa per la mancanza di prospettive di sviluppo e di crescita. Serve un’ Ue più sociale e meno legata all’ austerity, in cui la parola crescita diventa vocabolario comune. Se facciamo battaglia nei prossimi tre anni la legislatura europea ha un significato profondo o avrà perso la carica di innovazione su cui abbiamo scommesso votando Juncker".
"Tutti i Paesi - ha aggiunto Renzi - che hanno condiviso la linea politica in modo completamente aderente alle richieste di Bruxelles hanno visto sconfitto il governo uscente".
E la Chiesa inventò il ballottaggio
Le istituzioni religiose modello di quelle laiche
di FILIPPO DI GIACOMO (La Stampa, 17/10/2007 - 8:33)
Il monoteismo ostacola la democrazia? Gli studi storico-giuridici dimostrano che la democrazia moderna ha radici già nel V secolo, quando la Chiesa reintroduce due grandi principi. Il primo, riscoperto da Leone I nel 440, insegna che colui che deve governare su tutti deve essere eletto da tutti. Il secondo, spiega che ciò che interessa tutti come singoli va discusso e approvato da tutti. La decisione di affidare a un’assemblea (che ha la summa potestas) la scelta di colui che guiderà un’abbazia apparve nel VI secolo chiaramente stabilita nel capitolo 64 della regola benedettina; con l’elezione, a chi veniva affidato il comando era anche precisato il fine politico del mandato: adattare il suo governo alle circostanze e ai caratteri dei sudditi.
Il consenso popolare nelle assemblee ecclesiali veniva sottoposto allo scrutinio. Scrutari significa pesare, ponderare, esaminare, penetrare il significato esatto della portata dei voti espressi in un’assemblea. Lo scrutinio permise la nascita del voto segreto e la Chiesa lo accettò nei monasteri già dal V secolo: diventerà prassi comune con il Concilio di Trento. Nei Comuni, voto segreto e scrutinio apparvero per la prima volta negli statuti di Verona del 1225. Tanto per essere casuidici: il Parlamento inglese ammise il voto e lo scrutinio segreto solo nel 1872. La nascita della democrazia parlamentare viene fatta coincidere con l’istituzione del parlamento inglese, la «Magna Charta» del 1215, ma già nel 1115 i cistercensi si erano già dotati di una «Charta Charitatis» con cui ricorrevano a un parliamentum (parola e istituzione, quindi, nascono monastiche) che si riuniva per chiedere l’accordo della comunità prima di impegnarla in azioni e gravarla di imposte.
Per rendere accessibile il voto segreto a coloro che erano analfabeti, la fantasia democratica cristiana del VI secolo ricorse alle ballotte: fave chiare e scure, monete e medaglie di colore diverso: un colore per il «sì», l’altro per il «no». Dalle ballotte derivano infatti la parola ballottaggio e la locuzione parlamentare inglese «to black ball», bocciare una legge. Ai monaci illetterati i moderni parlamentari inglesi devono il loro usuale metodo di votazione: alzarsi in piedi per approvare o respingere. Quando gli ecclesiastici erano colti, lo scrutinio avveniva per schedulas segrete deposte in modo visibile nell’urna. Il voto di fiducia, invece, nacque certosino, a cavallo del Mille: ogni anno l’assemblea si riuniva giudicando l’operato del superiore, in base al quale quest’ultimo veniva confermato o deposto.
Anche la convocazione legale di un’assemblea e il quorum hanno un’impronta ecclesiastica. Nella storia dei Comuni il sistema maggioritario apparve solo nel 1143, nella Chiesa era in uso da otto secoli. Ai Domenicani si deve il bicameralismo, il voto di fiducia, la libera elezione dei rappresentanti alle assemblee elettive e legislative e l’espressione dei tre principi strutturali della democrazia parlamentare: corpo elettivo, collettività deliberante, autorità esecutiva. Ai Predicatori e al loro Definitorio dobbiamo la struttura dei consigli dei ministri; furono loro a conferire alle assemblee legislative il diritto di revocare a metà mandato il superiore eletto, secondo il grado di attuazione del programma espresso nel momento in cui si era candidato al superiorato. I nostri ordinamenti comunali, provinciali e regionali traggono buona parte delle loro istituzioni dalle costituzioni domenicane di Raimondo di Peñafort del 1238-1240 e di Raimondo Bandello del 1254-1256. Il sindaco, ad esempio, era un laico a cui veniva affidata la gestione dei beni di un istituto religioso.
La maggioranza qualificata resuscitò nella Chiesa nel 915, divenendo regola per l’elezione del Papa a partire dal 1179, ma è sulla maggioranza relativa che vale la pena riflettere: non piaceva a nessuno, nel 1205 il Papa la vietò e per tutto il XIII secolo scomparve da ogni istituzione. Ma, dotate di maggiore realismo sulle realtà soggettive e quelle strutturali, le comunità monastiche ignorarono il precetto papale e continuarono a decidere come sempre: maggioranza assoluta nei primi due scrutini, maggioranza semplice a partire dal terzo. Anche il Papa capitolò e nel 1247 Innocenzo IV canonizzò l’intuizione di Benedetto da Norcia che, sei secoli prima, aveva intravisto una presunzione di maggior saggezza nella maggioranza, non nella massa. Non è quindi un caso se oggi le uniche assise elettive sovrannazionali dove il voto di un africano abbia lo stesso valore di quello di un americano sono il conclave moderno. E, a leggere la lista dei Papi che hanno saputo liberamente eleggere, ai cardinali cattolici
Dio non fa venire alcun complesso antidemocratico: hanno sempre scelto personalità capaci di attraversare il loro tempo con la bussola della pace in mano.
Insieme a loro, i credenti nel Dio di Gesù Cristo si stanno educando a riconoscerlo vivo e presente nella diversità dei popoli e delle culture. Invece, la divinità degli idoli ciclicamente proposti in nome della complessità sociale sembra soprattutto dedita a predicare l’omologazione di tutti verso il quasi niente. Stiamo pensando all’Onu e all’Unione europea: siamo proprio sicuri che il potere di veto concesso ai cinque membri permanenti del Palazzo di vetro e l’unanimità imposta al Consiglio dei capi di governo dell’Unione, con gli approssimativi sistemi giuridico-politici che ne conseguono, siano la panacea imprescindibile per organizzare il mondo globalizzato in senso democratico e partecipativo?
Sul tema, da un punto di vista storico-filosofico, nel sito si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO ... DEI "DUE SOLI". IPOTESI DI RILETTURA DELLA "DIVINA COMMEDIA".
"Deus caritas est": la verità recintata!!!
La bussola moderna della nostra Costituzione
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21 agosto 2007)
Vi è un’aria di riscoperta della Costituzione che assomiglia sempre di più ad una riconquista. Lontani i tempi dell’"inattuazione" o del "disgelo" o dell’"arco" costituzionale, che facevano apparire quel testo come un affare di politici e di specialisti, gli articoli della Costituzione si stanno rivelando uno strumento potente per affrontare e risolvere problemi difficili dell’organizzazione sociale, della stessa vita quotidiana. Una riscoperta "dal basso", si potrebbe dire.
Gli esempi sono davanti a noi. Un commento di Adriano Sofri sul proscioglimento dell’anestesista del caso Welby è stato giustamente presentato su questo giornale con il titolo "Quel semplice articolo della nostra Costituzione", che è poi quello che, riconoscendo il diritto alla salute, vieta di imporre trattamenti che contrastano "con il rispetto della persona umana", consentendo così a ciascuno di noi di fare liberamente le proprie scelte di vita. La Corte di Cassazione, riprendendo indicazioni della Corte costituzionale, ha appena ribadito che il diritto alla identità sessuale è fondato sull’articolo 2, che tutela la libera costruzione della personalità. Nella discussione sulle coppie di fatto è sempre l’articolo 2 a ricordarci che devono essere tutelati i diritti derivanti dal far parte di una "formazione sociale".
Sono soltanto gli ultimi casi che, insieme a molti altri, smentiscono la tesi di una Costituzione invecchiata anche nella sua prima parte. È vero il contrario. La Costituzione si conferma "presbite", capace di guardare lontano, secondo la felice definizione di Piero Calamandrei, tanto che sono proprio i problemi posti dai mutamenti culturali e dalle novità tecnologiche a trovare risposte nelle norme costituzionali, senza che sia sempre necessario ricorrere a nuove leggi. E lo fa con la forza dei valori in essa riconosciuti, smentendo in tal modo anche la tesi di una società svuotata di riferimenti forti, prigioniera ormai di una deriva "relativistica".
Ma ci sono anche altre conferme dell’attualità del modello costituzionale italiano.
Analizzando qualche settimana fa i problemi delle identità nazionali e dell’integrazione, Jean-Paul Fitoussi così scriveva sempre su questo giornale. «L’uguaglianza di fronte alla legge è certamente un principio essenziale, ma debole; che andrebbe quindi completato con una concezione più esigente dell’uguaglianza, grazie a un impegno della repubblica proporzionale all’entità dell’handicap di ogni suo cittadino, per liberarlo dal peso della sua condizione iniziale». Ma questo è esattamente lo schema che si ritrova nell’articolo 3 della Costituzione che, ribadito il principio dell’eguaglianza formale, lo integra appunto con l’obbligo della Repubblica di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Un’indicazione, questa, particolarmente importante per cogliere la dimensione complessiva dell’eguaglianza, non riducibile alla parità delle condizioni di partenza. Proprio le innovazioni scientifiche e tecnologiche impongono la considerazione dell’eguaglianza come "risultato". Ad esempio, per garantire effettivamente l’accesso alle cure e ai farmaci, l’accesso alla conoscenza reso possibile da Internet non basta affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi le condizioni materiali e culturali creano condizioni di disuguaglianza e di esclusione.
La Costituzione rivela così una specifica virtù. Obbliga a fissare lo sguardo su un orizzonte largo, a valutare l’intero contesto in cui si collocano le questioni da affrontare. A qualcuno, tuttavia, questo contesto appare monco, amputato da una adeguata considerazione del mercato e della concorrenza, che meriterebbero una più adeguata "dignità costituzionale". Ma è davvero così?
La libertà dell’iniziativa economica privata è affermata esplicitamente in apertura dell’articolo 41, e questa formulazione dovrebbe essere ritenuta soddisfacente da chi vuole che il mercato abbia un suo spazio costituzionale. Certo, quell’articolo afferma poi che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà, la dignità umana: e qualche avventato riformatore ha proposto di riscriverlo eliminando ogni vincolo o limite all’attività d’impresa. Ma i nuovi interventi legislativi sollecitati dal dramma delle morti sul lavoro confermano l’attualità e l’essenzialità, dunque l’ineliminabilità, del riferimento alla sicurezza. E il limite rappresentato dal rispetto della dignità è un segno ulteriore della lungimiranza della Costituzione. Due anni fa la Corte di giustizia delle Comunità europee, un organo certo non sospetto di ostilità al mercato, ha adottato proprio la linea indicata dall’articolo 41 fin dal 1948, affermando che il principio di dignità deve essere sempre tenuto presente nel valutare la legittimità delle attività economiche.
Ancora. La vita quotidiana ci parla del precariato, che ha appena sollecitato l’attenzione del Presidente della Repubblica, e dei problemi della famiglia, tante volte sollevati dalle diverse forze politiche. Ricordiamo, allora che l’articolo 36 stabilisce che la retribuzione deve garantire al lavoratore ed alla sua famiglia «una esistenza libera e dignitosa». Questa norma è già servita per respingere la tesi di chi pretendeva che la legittima misura della retribuzione fosse solo quella che si limitava a garantire la mera sopravvivenza del lavoratore. Oggi ci ricorda che nessuna esigenza produttiva può giustificare la miseria salariale alla quale sono costretti tanti lavoratori; e che le tanto invocate politiche della famiglia non possono consistere solo in interventi pubblici, ma esigono pari attenzione per il modo in cui si configurano concretamente i rapporti tra dipendenti e datori di lavoro.
Questa lettura della Costituzione non serve soltanto per sottolineare l’attualità della sua prima parte (altra questione è la buona "manutenzione" della seconda parte). Ne conferma la vitalità nelle aree più sensibili della vita sociale, nelle materie in cui più acute si manifestano le esigenze individuali. Una progressiva e crescente vicinanza della Costituzione ai cittadini può divenire una via per riconciliarli con le istituzioni. Una impresa che sembra troppo spesso disperata, ma che non può essere abbandonata, a meno che non ci si voglia rassegnare ad una definitiva regressione culturale e politica, ignorando anche la nuova penetrazione nella società dei principi costituzionali.
Ma l’auspicabile consapevolezza culturale e politica esige un’attenzione intensa per un’ interpretazione della Costituzione che ne utilizzi le potenzialità per dare risposte alle nuove domande ininterrottamente poste dalle diverse dinamiche che percorrono la società. Che cosa diventa la libertà di circolazione in un mondo sempre più videosorvegliato? La libertà di comunicazione quando si conservano tracce di ogni nostro contatto elettronico? La libertà di manifestazione del pensiero nell’era di Internet? La libertà personale quando si moltiplicano le forme di controllo del corpo? E bisogna guardare alla conoscenza come bene comune, alla Rete come il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, ai nuovi intrecci tra genetica e costruzione del corpo, alla questione ambientale che in Italia fu possibile affrontare proprio partendo dalle norme costituzionali su paesaggio e salute.
Questioni ineludibili. Se libertà e diritti non vengono considerati nel nuovo ambiente tecnologico, si rischia una drammatica riduzione delle garanzie costituzionali. Le capacità prospettica della Costituzione deve essere utilizzata per mettere a punto una agenda dei diritti consapevole di un futuro che è già tra noi. L’annunciato rinnovamento della politica guarderà anche in questa direzione?
Oltre il 40% degli allievi delle superiori deve recuperare
E fra questi quasi la metà ha grossi problemi con la matematica
Fioroni: "Troppi studenti con i debiti
Torniamo agli esami di riparazione" *
ROMA - Gli studenti italiani accumulano quelli che si chiamano debiti formativi, ma non c’è alcuna certezza che le lacune vengano colmate. Ecco perché il ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni, propone di tornare al passato, ripristinando gli esami di riparazione.
Il titolare del dicastero di viale Trastevere ha commentato i dati sugli scrutini delle classi intermedie delle scuole secondarie. Si tratta di dati preoccupanti, se si pensa che il 41% degli studenti accumula un debito di formazione. La percentuale maggiore, 44%, riguarda lo studio della matematica, seguito dalle lingue straniere. La questione è che questi arretrati, accumulati soprattutto al secondo e al quarto anno, raramente vengono recuperati. Solo il 60% dei ragazzi in questa situazione, infatti, frequenta i corsi di recupero, e, fra questi, appena il 40% lo fa con successo. Ragione per cui soltanto uno studente su quattro colma la lacuna.
Il debito pubblico è sì un problema grave, ma quello scolastico "ci dovrebbe preoccupare di più", dice il ministro che non vuol sentir parlare di "smantellamento" degli arretrati. Al contrario, "bisogna avere una certificazione certa del loro superamento, per evitare che tre studenti su quattro si presentino alla maturità con questo fardello di lacune". Se l’obiettivo è colmare il debito di formazione, i corsi di recupero, che pure "vanno potenziati", non bastano. Serve "una seria riflessione sul ripristino degli esami di riparazione". Bisogna tornare a rimandare gli studenti a settembre, insomma. I tempi per il ritorno alle vecchie abitudini non sono ancora certi. Fioroni si è limitato a dire che avvierà un monitoraggio nelle scuole per vagliare il consenso alla sua proposta. Poi si vedrà.
Intanto sono giunte le prime, discordanti, reazioni. Un secco no arriva dalla senatrice di Rifondazione Comunista, Giovanna Capelli, per la quale "il recupero va fatto nel corso dell’anno, con un insegnamento pomeridiano, anche individuale", mentre l’esame di riparazione "scaricherebbe tutto sulle spalle della famiglia, che nel corso dell’estate dovrebbe pagare ripetizioni per i figli". Sulla stessa lunghezza d’onda Francesco Scrima, segretario generale della Cisl-Scuola, per cui "bisogna evitare il lezionificio, quel sistema di lezioni a pagamento che non tutti si possono permettere".
Docenti e presidi stanno invece col ministro. Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli insegnanti, parla di "ipotesi ragionevole, sensata". Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi, parla di un sistema di recupero-debiti "farraginoso", per cui il ritorno degli esami di riparazione è benvenuto, sempre che "serva come verifica, e non come alibi per spostare la fase del recupero dall’interno all’esterno della scuola".
Fioroni si è soffermato in particolare sull’emergenza-matematica. "Non sarà il mio mestiere", cantava a questo proposito Antonello Venditti. E a giudicare dai dati del ministero, ad avere problemi con la matematica sono in tanti, ben il 44% degli studenti delle secondarie. Una bestia nera che accomuna Nord e Sud, Centro e Isole, allievi del liceo scientifico e degli istituti professionali. Il ministro arriva a parlare di emergenza formativa, "legata non ai programmi e ai loro contenuti, ma alla capacità di far appassionare i ragazzi allo studio della materia". Fioroni intende insediare presso il Ministero un comitato di matematici, docenti di scuole medie superiori e università. Perché c’è bisogno di proposte per superare l’emergenza, "perché bisogna far capire che la matematica non è un club esclusivo per pochi, ma un esercizio che ha attinenze con la realtà".
* la Repubblica, 31 luglio 2007
Fra scienza e responsabilità
Un linguaggio in continuo divenire *
«Siamo tutti matematici», è questo il messaggio di Michael F. Atiyah alle giovani generazioni ma anche il titolo di un suo agile e denso libricino affidato ai tipi della casa editrice Di Rienzo (pp. 80, euro 11). Una passione per la sintesi che emerge persino dalle grandi figure del passato da lui scelte a riferimento: Bernahrd Riemann, per esempio, «perché le sue opere complete occupano lo spazio di un volume, mentre quelle di Eulero ne contano oltre ottanta». Spunti autobiografici, acute osservazioni sulla natura della matematica, folgoranti incursioni sulle sue relazioni con la fisica, ma anche un capitolo dedicato al tema «Scienza e responsabilità», il tutto in uno stile semplice e lineare che talvolta sembra risolversi in una vera e propria collezione di bellissimi aforismi. La matematica, sostiene Atiyah, è «un linguaggio ancora in divenire, che non è stato scritto una volta per tutte», e proprio per questo indica nella libertà intellettuale dei ricercatori a venire il più prezioso dei patrimoni. Non a caso nel capitolo dedicato alla «Creatività nella ricerca scientifica» dedica grande attenzione allo stato dell’insegnamento della matematica in Gran Bretagna, lamentando i rischi connessi all’abbassamento della preparazione dei docenti. Per Atiyah la chiave del futuro è nella cultura, non certo nella «acquisizione di competenze».
* il manifesto, 18.03.2007)
Da Michael Atiyah una sfida alle tentazioni della logica
«Molti sono convinti che la matematica si risolva nell’esibire dimostrazioni, ma il suo motore è l’immaginazione, non il cieco calcolo». Un dialogo con il celebre studioso anglolibanese noto per il teorema che porta il suo nome e ha rivelato inattese connessioni tra topologia, geometria e analisi
di Luca Tomassini (il manifesto, 18.03.2007)
«Credo che la matematica sia costruita a partire dalla nostra esperienza del mondo esterno». C’è una tensione, una vera linea di frattura, che attraversa la matematica fin dalle sue origini, quella tra intuizione e formalismo, verità immediatamente percepibile e dimostrazione. Un contrasto cui Michael Francis Atiyah - che abbiamo incontrato ai margini del Festival della matematica a Roma - non si è mai arreso, come dimostra la sua straordinaria biografia scientifica. Nato a Londra settantanove anni fa da padre libanese e madre scozzese, cresciuto prima in Sudan e poi nel Regno Unito, è universalmente riconosciuto come una delle più geniali menti matematiche del Novecento. «Per tutta la vita - spiega - ho sempre cercato di costruire ponti», e il celebrato teorema che porta il suo nome (insieme a quello del collega Isadore M. Singer) ha non solo rivelato profonde e inattese connessioni tra topologia, geometria e analisi ma ha avuto un ruolo straordinario nel colmare il divario tra il mondo della matematica pura e quello della fisica teorica. «La matematica - dice ancora Atiyah - comincia con idee generali che diventano via via più precise e specializzate. Durante il XX secolo le sue parti principali sono state affrontate separatamente, con la ben fondata speranza di realizzare progressi più rapidi. Sul lungo periodo questa strategia espone però al pericolo di perdere una visione di insieme, ma oggi per fortuna viviamo di nuovo in un’epoca di sintesi».
Ci può spiegare come giustifica la sua scelta di avversare, nel dibattito sui fondamenti della matematica, un orientamento basato sulla logica?
Molti sono convinti che la matematica si risolva nell’esibire dimostrazioni, dimostrazioni di carattere logico: credo sia un grave errore. È vero, è il cemento che tiene unita tutta la matematica, il suo obiettivo ultimo, ma il mezzo con cui la otteniamo è l’immaginazione, non il cieco calcolo. Non si comincia un lavoro con chiodi e martello, ma con un’idea. Il calcolo, appunto, viene spesso identificato con l’algebra e contrapposto alla geometria.
Anche per lei è così?
Ho sempre avuto un grande interesse per la questione del rapporto tra algebra e geometria. E poiché la nostra percezione di noi stessi e del mondo si articola intorno alle categorie di tempo e spazio, trovo del tutto naturale supporre che esse siano al cuore di questo problema. Per quanto riguarda la geometria, nessuno dubita del fatto che il suo principale oggetto di studio sia lo proprio spazio, come lo percepiamo in un determinato istante. Al contrario, nell’algebra moderna effettuiamo operazioni in una determinata sequenza, una dopo l’altra, nel tempo appunto: è un algoritmo di calcolo, niente affatto diverso da quelli utilizzati da un computer che elabora i suoi dati. Del resto, il pensiero logico-simbolico comporta il passaggio da una serie di assunzioni a delle conclusioni.
Lei ha definito i vantaggi offerti dall’uso del computer come una «offerta faustiana». Quali sarebbero le tentazioni in campo?
Era una provocazione, naturalmente, e ne ho pagato il prezzo subendo un gran numero di critiche. Per capire quale sia il problema torniamo al pensiero geometrico: la sua natura sintetica, intuitiva, è il miglior esempio di ciò che intendo per comprensione. Nella storia della matematica invece l’algebra è nata come un ausilio per il calcolo, la verifica, compito questo che svolge in maniera davvero egregia. Quando facciamo un’operazione algebrica introduciamo un input e smettiamo di pensare al suo significato, semplicemente manipoliamo simboli seguendo regole formali e infine otteniamo una risposta. In mezzo c’è una scatola nera. La scomparsa del desiderio di dare un’occhiata al suo interno è il pericolo che vedo nella diffusione del calcolo automatizzato. Quando ho definito questo fenomeno «faustiano», immaginavo il diavolo mentre si presenta a uno scienziato e gli dice, suadente: «ecco una macchina meravigliosa, basta formulare un problema e lei ti fornisce la risposta. Tutto quello che devi fare per averla è rinunciare alla tua anima, al desiderio di comprendere». Certo, come dimostra la disputa tra Isaac Newton e Gottfried Leibniz, le cose non sono sempre così semplici. Newton sviluppò il suo calcolo infinitesimale per descrivere il movimento dei corpi e in ogni suo ragionamento il riferimento al mondo reale conservava un’importanza centrale. Leibniz era invece un formalista e il suo calcolo era un’algebra molto più semplice da utilizzare. Tra i due, è il filosofo che alla fine ha avuto la meglio: oggi, infatti, scriviamo il calcolo differenziale seguendo la sua notazione. Resta però il fatto che questa scelta non favoriva la comprensione sintetica di tutti gli aspetti del problema. Capire è vedere, tutto insieme e nello stesso istante. Persino nel procedimento artistico possiamo distinguere un aspetto tecnico e uno concettuale, e la tentazione diabolica sta nel considerare solo il primo.
In passato lei ha collaborato all’organizzazione di esperimenti il cui intento era quello di chiarire i fondamenti biologici del pensiero matematico. Ce ne può sintetizzare i risultati?
Alcuni miei colleghi sostengono che per loro ragionare in termini geometrici sia completamente naturale, altri hanno la stessa sensazione riguardo la formulazione algebrica dei problemi. Mi è sempre interessato stabilire se queste inclinazioni avessero un fondamento neurologico e per questo ho cercato di verificare dov’è che nel cervello «avviene la geometria» e dove «avviene l’algebra». La mia ipotesi è che la geometria coinvolga l’emisfero deputato alla visione mentre l’algebra, proprio come il linguaggio, abbia a che fare con l’emisfero specializzato nella percezione del movimento. L’idea era molto semplice: utilizzare tecniche di imaging cerebrale per «vedere» cosa succede durante la risoluzione di problemi matematici. Naturalmente abbiamo iniziato con domande elementari e abbiamo poi verificato che, come previsto, semplici calcoli aritmetici coinvolgono le aree del linguaggio mentre all’opposto problemi più complessi sulla natura dei numeri richiedono l’attivazione dell’altro emisfero. Sono risultati incoraggianti e sono convinto che proseguendo su questa strada nel giro di dieci o vent’anni avremo la possibilità di rispondere a una serie di interrogativi che per secoli hanno impegnato senza successo i filosofi. Se vogliamo capire come pensa il cervello, la matematica è un ottimo punto di partenza.
Eppure importanti filosofi della mente come John Searle ritengono gli strumenti concettuali attualmente a nostra disposizione insufficienti a rispondere a interrogativi quali la natura del pensiero, anche matematico. Lei è d’accordo?
Talvolta un problema può essere così complesso da rendere impossibile una risposta definitiva. Per esempio, cosa è la coscienza? Cosa è il pensiero? Credo che quesiti del genere siano destinati a svanire, a perdere di significato. Per millenni gli esseri umani si sono interrogati sulla natura della vita, oggi ragioniamo in termini di selezione naturale, cellule, proteine, Dna. La domanda si è moltiplicata in tante domande, più specifiche e sofisticate.
Dunque ha un fondamento biologico quella che Eugene Wiegner definiva la «irragionevole efficacia della matematica» nella descrizione scientifica della realtà?
Come le dicevo, la matematica è costruita a partire dal mondo esterno. È poi così sorprendente che sia anche efficace quando si tratta di descriverlo? In fondo, la mente umana è stata modellata dalla selezione naturale, che in qualche modo l’ha resa «compatibile» con la realtà. Ma la nostra esistenza, le nostre percezioni restano confinate a scale macroscopiche e per questa ragione considero sorprendente che la matematica continui a essere applicabile anche al mondo delle particelle elementari. Ma chi può dire qual è la verità? La matematica è veramente uno specchio della realtà o solamente l’immagine che ce ne restituisce il cervello, con tutti i suoi limiti e possibili errori? È proprio ora che la fisica diviene sempre più sofisticata, proprio come la matematica necessaria a descriverla, che le domande poste da Kant tornano di grande importanza. Stiamo sfiorando la natura ultima dello spazio e del tempo o solo costruendo modelli matematici sempre più complicati per adattarli al meglio a quello che osserviamo? I rapporti tra matematica, fisica e realtà continuano a restare un mistero.
Lei ha formulato e dimostrato un teorema che porta il suo nome e che ha trovato sorprendenti applicazioni proprio nel campo della fisica quantistica, influenzando profondamente lo sviluppo della teoria delle stringhe. Ritiene che l’uso sempre più massiccio di sofisticati strumenti matematici stia cambiando la natura della ricerca nel campo della fisica?
La fisica si confronta oggi con domande sulla realtà a scale talmente piccole e energie talmente alte che la verifica sperimentale diventa sempre più difficile, se non addirittura impossibile, e per questo le tecniche che si hanno a disposizione sono per lo più matematiche. Non sappiamo se quelli della fisica odierna siano veri passi avanti nella comprensione del mondo o solo eleganti costruzioni concettuali, ma francamente non vedo alternative all’uso della matematica.
Viceversa alcuni ricercatori hanno messo in discussione il significato della dimostrazione come garanzia della certezza matematica. Oggi esiste persino una rivista dedicata alla cosidetta «matematica teorica», dove sono presentati «teoremi» corroborati da analogie con la fisica. Considera positivi questi sviluppi?
Se un nuovo strumento matematico applicato alla fisica non supera la prova dell’esperimento, non abbiamo alternative a rinunciare al suo uso. Ma se qualcuno partendo da idee fisiche è in grado di ottenere risultati matematici, questi resteranno per sempre. In questo senso la matematica ha tutto da gudagnare da questo rapporto. Molti ricercatori lamentano che le teorie fisiche non sono rigorose ma basate sull’intuizione, ma non colgono l’essenza del problema. Da esse, come è sempre successo nella storia della matematica, vengono suggerimenti, nascono congetture che in molti casi sono state successivamente verificate con altri metodi. Non credo esista il rischio che si possa confondere ciò che è stato dimostrato con quello che non lo è stato.
Nel discorso con cui nel 1995 lasciava la presidenza della Royal Society lei denunciava con parole molto aspre il disinteresse degli scienziati per il crescente «sospetto» che la società nutre nei loro confronti. La pensa ancora così?
Più che mai. Il ruolo della scienza e della tecnologia è enormemente cresciuto negli ultimi due secoli e per questa ragione in una società democratica sono i cittadini che, almeno in linea di principio, dovrebbero prendere decisioni sui finanziamenti alla ricerca. Ma la scienza, specialmente la «grande scienza», è oggi sempre più prigioniera del rapporto con privati, governi e apparati militari che non amano dire alle persone quello che, secondo loro, non devono sapere e i rischi di corruzione intellettuale si sono moltiplicati. Gli scienziati dovrebbero mantenere la loro integrità, senza nascondersi dietro pretesti futili come quello per cui il pubblico non sarebbe mai sufficientemente «educato» per compiere delle scelte. Oggi purtroppo gli scienziati non si muovono così e le conseguenze sono sotto i nostri occhi: il sospetto nei loro confronti è sempre più diffuso.
Tra i suoi numerosi impegni sul fronte pubblico c’è stato anche quello al vertice di Pugwash, un’organizzazione internazionale di scienziati che da più di cinquant’anni si batte contro la proliferazione nucleare. Qual è oggi il suo bilancio?
Dopo la caduta del Muro abbiamo avuto una grande opportunità che per ragioni politiche non è stata colta e oggi la guerra è tornata sulla scena, insieme alla proliferazione nucleare. Sono sempre stato ottimista, ma è difficile esserlo oggi su basi razionali. Mi ricordo che Robert MacNamara, ministro della difesa di Kennedy e poi sostenitore dell’eliminazione delle armi nucleari, mi confidò di essere approdato alle sue convinzioni dopo la sua esperienza nella crisi dei missili a Cuba, quando sembrò che fossimo arrivati molto vicini a un conflitto nucleare. Benché ritenesse questa eventualità effettivamente remota, sottolineava però che una piccola probabilità su lungo arco di tempo può trasformarsi in certezza.
MATEMATICA
Le speculazioni numeriche risalgono ai Semiti ma con i Padri della Chiesa diventano una forma di sapienza estetica
Un simbolo dietro ogni cifra
Dopo Dio, niente è più perfetto delle serie numeriche. Ma dall’uno al dodici, pagani e cristiani rintracciano in essi le risposte ai misteri universali e alle domande sulla natura
Di Elio Guerriero (Avvenire, 19.07.2007)
John Barrow, professore di matematica all’università di Cambridge, ha vinto nel 2006 il prestigioso premio Templeton. Nel discorso di accettazione dell’onorificenza, ha esaltato la disciplina dei numeri perché le equazioni matematiche, in fondo pochi scarabocchi su pezzi di carta, ci dicono come si comporta l’universo: «C’è una logica più grande dell’universo, e ci stupisce perché ci permette di capirne una parte significativa».
A dire il vero, la logica e soprattutto la meraviglia che genera non sono nuove. Le tradizioni numeriche risalgono al tempo dei Semiti e dei Greci e trovano estesa applicazione nella Bibbia. È tuttavia nell’antichità cristiana che l’interpretazione e la simbolica dei numeri divengono una forma di sapienza che alla visione del mondo dei Padri della Chiesa conferivano impronta di conoscenza e oggettività, carattere estetico. E se per Boezio «le cose costruite dalla natura all’inizio, sembrano formate con calcolo numerico», Agostino subito alza il tono: «Guarda il cielo, guarda il mare, ciò che brilla là in alto e ciò che striscia in basso, guarda ciò che vola e ciò che nuota: tutto è bello, perché tutto racchiude un numero. La mano che opera, le membra che si compongono per l’atto gratuito della danza, il tempo che scorre, la musica che si modula, tutto ha per anima e artista nascosto il numero». Ma il discorso si allargava ulteriormente. Per Isidoro di Siviglia il numero è all’origine di ordine, misura, ritmo e proporzione.
La visione generale veniva poi approfondita con la speculazione sui singoli numeri. Questa partiva da Dio, autore del numero, il cui nome, però, non può essere pronunciato così come non può essere misurato. Dopo Dio, tuttavia, niente è più perfetto del numero. L’unità non rientra propriamente nella serie numerica, ma è principio, fonte e origine di ogni numero. È generatrice della moltitudine, numerosa al di sopra di tutti i numeri, che ad essa possono essere ridotti per sottrazione e divisione. Il nu mero due non possiede principio di unità: è piuttosto l’unità divisa, per questo significa scissione, opposizione, scandalo. Era questa l’opinione degli Orfici e di Platone. Un verso di Virgilio: «Dio trova piacere nel numero dispari», la rese popolare anche tra i Padri della Chiesa. Ne seguono alcune applicazioni: ad una considerazione storica i Testamenti sono due, appena si guarda, tuttavia, con l’occhio della fede essi contribuiscono a formare l’unica rivelazione di Dio.
Similmente i comandamenti della carità sono due, ma la radice è una sola: l’amore di Dio che, riversato nel cuore dei fedeli, genera amore di gratitudine per il Padre e amore di fraternità per il prossimo. Se l’uno è al di là della serie e il due è il numero imperfetto, il tre è il primo vero numero. Primo numero come Dio è il primo essere; numero dispari come Dio che non ha eguale al di fuori di sé e il cui essere non comporta variazione o cambiamento; numero virile, cioè attivo, come Dio che non è passivo in niente e agisce sempre. Il tre, infine, è segno dell’anima creata ad immagine di Dio, per questo sant’Ambrogio la definisce «un numero di salvezza».
Dopo il tre viene a cadere la maledizione del numero pari. Per Sant’Agostino il quattro è il riflesso della sapienza di Dio nel governo del mondo. È anche il numero della solidità e della stabilità: una pietra quadrata dovunque venga lanciata si fissa sempre su una posizione stabile. Anche l’arca del diluvio, fatta di legni quadri, era essa stessa quadrata per potersi reggere sulle acque. Quattro, in breve, è il numero cosmico. Con i suoi quattro punti cardinali, i quattro venti, i quattro elementi di cui è formato, le quattro fasi della luna, le quattro stagioni, il mondo si regge su un ordine quadrato che ne assicura la permanenza all’interno del flusso temporale. Anche la rivelazione poggia sul numero quattro. Tanti sono i fiumi del paradiso, le colonne del tabernacolo, le quattro facce dei viventi di Ezechiele, i grandi profeti. Nel Nuo vo Testamento, poi, quattro sono i Vangeli «da cui scorre tutto quello che sa ognuno che è nel mondo» ( Vangelo di Gozelino). Per questo quattro sono i grandi concili, i grandi dottori, le forme della carità, le virtù cardinali.
Non possiamo qui proseguire nella serie dei numeri ciascuno dei quali ha un suo spunto significativo, una sua applicazione. I Padri, tuttavia, riconoscono una gerarchia, dovuta per lo più alla frequenza del ricorso nella Scrittura. Per questo, qui di seguito accenno ancora ai significati di sette, otto, dodici, tre dei numeri che più spesso ricorrono nell’Antico come nel Nuovo Testamento. Numero misterioso per i pagani, il numero sette indica per la Scrittura la pienezza del tempo e lo spazio del riposo, l’integrità della dottrina e la purezza dello spirito. È poi il numero dello Spirito settiforme, il numero che scandisce la storia della salvezza. Il settimo è il giorno del riposo del Signore dopo la creazione, l’inizio del grande sabato eterno. Ad esso l’ottavo aggiunge solo un accento di trionfo, perché è il giorno della risurrezione del Signore. Vero sabato, è insieme il primo e l’ultimo giorno della settimana senza fine. Numero delle beatitudini, l’otto è anche il numero dell’armonia perfetta: è l’ottava corda della cetra, il cui suono riproduce quello della prima. In esso tutto è ricapitolato in Cristo «cetra gloriosa, cetra sonora e dolce nella quale è inserita tutta la musica del Padre» (Ruperto di Deutz). Il dodici, numero sovrabbondante, è in stretto rapporto con il sette. Per i pagani era il numero dello zodiaco, per i cristiani sta a significare la totalità della storia e l’universalità della salvezza. Un breve elenco delle ricorrenze del dodici: nell’anno vi sono dodici mesi e in ogni giorno dodici ore; dodici furono i patriarchi, dodici gli esploratori della terra promessa, dodici le pietre scelte per l’attraversamento dell’arca nel Giordano, dodici le pietre preziose sul pettorale del sommo sacerdote. Il Nuovo Tes tamento non è da meno: il dodici è il numero degli apostoli perché essi dovevano annunciare la fede nella Trinità ai quattro angoli della terra. Come ricorda poi la parte conclusiva dell’Apocalisse, il dodici è il numero della città santa, la nuova Gerusalemme scesa dal cielo. Essa ha dodici porte sulle quali stanno dodici angeli e ognuna è chiamata con il nome di una delle dodici tribù di Israele. «Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello» (Ap. 21,14).
Con l’aiuto del quarto volume di Esegesi Medievale di Henry de Lubac ho riportato un florilegio delle speculazioni patristiche sui numeri. Dante vi attinse a piene mani per la geografia della sua Commedia. Ha scritto John Barrow nell’articolo ricordato in apertura: «Spira una nuova vita nei tanti interrogativi che si pone la religione sulle questioni ultime, e tutto ciò ha un fascino infinito. Molte delle domande più profonde e più coinvolgenti sulla natura dell’universo, alle quali cerchiamo istintivamente di dare una risposta, nascono dalla nostra esigenza, schiettamente religiosa, di trovare un significato nelle cose». Alcune delle considerazioni patristiche sui numeri ci fanno sorridere. Nello stesso tempo evidenziano un sentimento profondo, una meraviglia sincera, un desiderio inesauribile di giungere alle fonti della conoscenza e della sapienza.
Nei numeri la misura della vera conoscenza
di Paolo Zellini (il manifesto, 15.03.2007)
«Quando sei in grado di misurare ciò di cui stai parlando, e di esprimerlo in numeri, allora puoi dire di conoscere qualcosa che lo riguardi». Così affermava Lord Kelvin, celebre fisico, ingegnere e matematico del XIX secolo, confermando implicitamente la vecchia tesi pitagorica che tutto è numero. Ma se si affida la conoscenza delle cose al numero occorre pure chiedersi: che cosa sono i numeri?
Cercare di rispondere è come evocare le mille teste dell’Idra, perché tante sono le diverse specie di numeri e tante le prospettive da cui trattare ciascuna specie. Lo conferma un’importante osservazione di Hermann Weyl: cercando nel 1951 di riassumere mezzo secolo di progressi nella matematica, il grande matematico tedesco osservava che il campo dei numeri reali è come un Giano bifronte, che guarda in due direzioni opposte: da un lato l’esecuzione di operazioni aritmetiche, come l’addizione e la moltiplicazione, dall’altro le somme infinite e i processi al limite. Una è la faccia più familiare del numero, quella aritmetica e algebrica, l’altra è la faccia analitica e topologica, che coinvolge le grandezze continue, come il tempo o le linee che si tracciano su un foglio. Una divisione che dipende da due diversi significati dei numeri: ci immaginiamo innanzitutto un campo di numeri come un dominio chiuso, in cui le operazioni aritmetiche tra due suoi elementi danno un risultato che sta ancora nello stesso dominio. L’esempio classico sono i numeri razionali, cioè le frazioni, perché sommando o moltiplicando due frazioni si ottiene un’altra frazione.
Versione aritmetica del continuo
D’altro canto, le frazioni non bastano. I matematici greci scoprirono che esistono grandezze incommensurabili, il cui rapporto non può essere uguagliato al rapporto tra due numeri interi, cioè a una frazione. Per questo sono stati introdotti i numeri reali, un campo molto più esteso che include i numeri razionali e i numeri irrazionali, e che sta alla base di tutte le nostre scienze. Esso fornisce la versione aritmetica del continuo, perché con un numero reale si riesce a dire quale lunghezza compete a una linea che nessuna frazione riuscirebbe a misurare: l’esempio più semplice è la diagonale di un quadrato di lato unitario, la cui lunghezza è uguale alla radice quadrata di due, che è appunto un numero irrazionale.
Le moderne teorie assiomatiche, notava Hermann Weyl, avevano in qualche modo assecondato questa doppia prospettiva: la matematica non è la politica, diceva ironicamente, e non apprezza ambigue commistioni tra pace e guerra; ha quindi preferito separare in modo netto i due aspetti del numero, evitando conflitti di competenze. Egli aggiungeva però anche un singolare avvertimento: neppure alla metà del XX secolo, dopo secoli di progressi nell’analisi e nella teoria dei numeri, e dopo approfondite ricerche sui fondamenti, si poteva affermare di aver chiarito in modo definitivo tutte le questioni che riguardavano il concetto di numero reale.
Questa difficoltà di chiarimento si deve anche a un’altra divisione di prospettiva, che risale a tempi relativamente remoti, tipicamente alla geometria greca, e che non è certo estranea alla doppiezza del Giano evocato da Weyl: la distinzione tra aspetti descrittivi e aspetti algoritmici della matematica. I primi hanno a che fare con l’esistenza e le proprietà di possibili soluzioni di un problema, per esempio di un sistema di equazioni; i secondi con la costruzione effettiva, passo per passo, della soluzione. Se si deve pensare a un’origine della matematica (per quanto sia possibile parlare di origine), il punto di vista algoritmico appare prioritario, in qualche modo più «primordiale», anche se sarebbe un errore grossolano pensare che si tratti solo di una connotazione «primitiva» della matematica, destinata a essere superata da concetti astratti più avanzati. È un fatto che nella matematica babilonese antica (circa 1800 a.C.) si avevano conoscenze relativamente avanzate di calcolo aritmetico, le cui formule, si è notato, assomigliavano molto più a programmi o procedure eseguibili da una macchina che a pure espressioni simboliche. Nell’India vedica una raffinata geometria serviva a costruire altari rituali di diverse forme e grandezze, prestando pure attenzione, ove la costruzione lo richiedesse, a complessi algoritmi numerici.
Ora, per un misterioso caso di sincronia, le analisi di Hermann Weyl seguivano di poco una delle autentiche rivoluzioni scientifiche del secolo, cioè la costruzione - a Philadelphia, intorno al 1945 - del primo grande calcolatore della storia e il conseguente primo delinearsi della nuova scienza informatica.
Un nesso tra le due facce di Giano
Non si trattava solo di un’innovazione tecnologica, perché il calcolo stesso, e le teorie matematiche che lo rendevano possibile, assumevano nuovi aspetti e si arricchivano di elementi inusitati. Si profilava per la prima volta un calcolo scientifico su grande scala, che affrontava problemi di matematica applicata di dimensioni inaudite, che implicavano la risoluzione - necessariamente approssimata - di migliaia di equazioni in migliaia di incognite. E tra le conseguenze di questa innovazione c’era pure la possibilità di riconoscere un nesso tra le due facce di Giano: infatti il nuovo calcolo doveva occuparsi di tradurre tutta l’informazione di un modello definito sul continuo, di un’equazione in cui le variabili assumevano valori nel campo reale, in un insieme di calcoli aritmetici, di somme e moltiplicazioni, eseguibili in modo automatico da un calcolatore.
Herman H. Goldstine e John von Neumann, tra coloro che più contribuirono all’incipiente rivoluzione informatica, spiegavano che i problemi della matematica, dati di solito in termini di variabili continue, dovevano essere approssimati - per le esigenze del calcolo digitale - da procedure puramente aritmetiche e «finitiste». Il calcolo scientifico riesce a risolvere miracolosamente i problemi della matematica applicata con un insieme finito di numeri finiti che non è neppure un campo, perché non è chiuso rispetto alle operazioni: la somma e il prodotto di due «numeri di macchina» non è un «numero di macchina». Come affermava nel 1744 il grande matematico Leonhard Euler, nella perfetta macchina dell’Universo nulla accade che non segua un criterio di minimo (o di massimo): minima energia, minimo costo, minima distanza, minima superficie.
Ma ora la macchina digitale, anche ignorando che cosa sono i punti di minimo e i numeri reali che li quantificano, li approssima con complesse strategie algoritmiche in cui si eseguono solo operazioni aritmetiche elementari. Non si tratta dunque di definire un nuovo sistema di assiomi che unisca le due facce del numero, ma di articolare un passaggio dal continuo al discreto per via di gradi successivi: approssimazione del modello continuo con un problema algebrico o aritmetico; scelta di un algoritmo efficiente per risolvere il problema algebrico e infine l’esecuzione automatica, in aritmetica approssimata, di questo algoritmo. Passaggi che implicavano regolarmente teorie e questioni difficili, di natura sia astratta sia concreta: teoremi e strutture della matematica «pura», errori di approssimazione, problemi di stabilità, possibili esplosioni di complessità algoritmica, sostanziale impossibilità di ingerenza o di controllo del soggetto umano nel corso del processo, analisi del significato dei numeri che il calcolatore stampa alla fine del processo.
Da simili strategie continua a dipendere la possibilità di una matematica applicata, cioè di tutte le applicazioni scientifiche che oggi ci sono così familiari: dalle previsioni meteorologiche alla costruzione di automobili, dalle tomografie o risonanze magnetiche per immagini alle serie temporali, dai motori di ricerca alla trasmissione di segnali. Ma non bisogna neppure pensare che la matematica applicata fosse l’unica ragione e l’unica fonte di significati per il nuovo calcolo. Lo svela, se non altro, quella parola, «finitiste», usata da Goldstine e von Neumann a proposito delle procedure aritmetiche del calcolatore. Una parola che ricorda il carattere finito dei processi elementari e intuitivi dell’aritmetica in cui il celebre matematico tedesco David Hilbert, cercando di venire a capo della crisi dei fondamenti della matematica nel primo ’900, individuava un nucleo di assolute certezze, una zona di sicurezza al riparo dall’infinito e dai suoi paradossi. E il calcolatore divenne infatti il più competente manipolatore di quel gioco algoritmico di segni al quale Hilbert voleva ricondurre, almeno in linea di principio, tutta la matematica.
Su un piano più filosofico, si trattava pure di rivalutare il carattere intuitivo dei numeri e la tesi kantiana per cui «la struttura del ragionamento matematico è dovuta alla struttura del nostro apparato di percezione» (Hintikka), e dipende quindi, appunto, dall’intuizione, ovvero dalla sua forma pura, cioè non empirica. Su questo punto, almeno, c’era pieno accordo tra Hilbert e Brouwer, suo avversario per altri versi, ma pienamente concorde nel riconoscere una base di affidabilità alle costruzioni elementari dell’aritmetica. Tra le migliori procedure che dovevano approssimare i problemi della matematica Goldstine e von Neumann menzionavano gli algoritmi iterativi, che si basano tipicamente su un criterio di invarianza: per tutto il processo si eseguono in qualche modo le stesse istruzioni, cioè si calcola la stessa funzione per diversi valori della variabile. Conosciuti da tempi remoti, ripresi dai matematici arabi, dagli algebristi italiani del ’500 e poi da Viète e da Newton, questi algoritmi, che imitavano inizialmente certe costruzioni elementari della geometria, servirono ad edificare la computatio algebrica, l’analisi moderna e lo stesso calcolo scientifico nel ’900.
In questa nuova prospettiva i numeri moderni ritrovano una strana rassomiglianza con quelli antichi. Si dice di solito che i Greci, pur avendone la possibilità, non seppero generalizzare il concetto di numero intero naturale (arithmos), impresa che toccò alla matematica occidentale moderna, che seppe infine concepire e definire in modo rigoroso i numeri reali e complessi, i quaternioni, i numeri transfiniti e i numeri non-standard.
Ma sarebbe più giusto affermare che i Greci ricavarono per astrazione dalla geometria, dalla meccanica e dall’aritmetica il concetto generale di logos, che in matematica voleva dire rapporto, e che da questo concetto di logos ebbero origine le generalizzazioni moderne, in particolare il concetto di numero reale (razionale o irrazionale). Il numero reale pensato come «sezione», ovvero come una partizione in due classi di numeri razionali, riprende infatti - come lo introdusse Richard Dedekind nel 1872 - il concetto di proporzione del V libro degli Elementi di Euclide. Nella definizione di Dedekind si rivela pure un tratto caratteristico della matematica di fine ’800: ripensare il numero, per così dire, dal nulla, riconducendolo all’idea di insieme e alle relazioni tra insiemi. Un tratto che ispirò regolarmente il tentativo di ricondurre la matematica a pochi concetti fondamentali della logica, da Bertrand Russell fino a Willard van Orman Quine.
Ma un presupposto della teoria di Dedekind sono anche gli algoritmi, perché in origine le classi della sua definizione consistevano in insiemi di frazioni effettivamente calcolate, che approssimano il numero per eccesso e difetto. Un’analoga osservazione vale per la definizione di numero reale dovuta a Georg Cantor. Il concetto di classe o di insieme poteva insomma rivendicare una priorità logica, ma storicamente sono venuti prima gli algoritmi.
Uno schema che è una necessità
Ora, con il nuovo calcolo scientifico, l’algoritmo rivendica, in un certo senso, il suo statuto di concetto «primordiale» che sta alla base del numero. Il numero reale non è un ente calcolato o calcolabile con un algoritmo: è piuttosto, esso stesso, un algoritmo. Una scatola nera, propone ad esempio Lovász, in cui si inserisce la precisione che si vuole ottenere nel calcolo delle sue cifre, e da cui esce il numero alla fine del processo. Dentro la scatola potrebbero pure funzionare gli stessi algoritmi che gli antichi Greci, Indiani o Babilonesi usavano in tempi remoti; non esattamente quelli, ma altri che ne riprendono, in modo sorprendentemente simile, lo schema; quasi che questo schema fosse una necessità, una sorta di a priori nel grande avvicendarsi storico delle idee matematiche.
Dopo la sveglia
di Paolo Hutter (il manifesto, 11.03.2007)
Piazza Farnese ha dato solo la sveglia per i diritti civili delle coppie. Adesso che ci siamo ri-svegliati c’è parecchio da fare, e forse c’è ancora qualcosa da capire, di questo impasse italiano in cui siamo immersi e che pure da qualche parte si potrà pur sbloccare. Gli organizzatori sottolineano che quella di ieri è stata la più grande manifestazione politica promossa dal movimento omosessuale italiano e intendono dire la più partecipata, lunga, intensa occasione di piazza all’infuori dei Pride.
Si può essere soddisfatti di qualche decina di migliaia di persone passate per piazza Farnese, dei ministri, dei politici e degli artisti presenti, di aver superato i confini del movimento politico gay e di aver trovato un tono appropriato, al tempo stesso orgoglioso combattivo e inclusivo, come negli applausi non scontati a Barbara Pollastrini (se fosse venuta, sarebbe stata applaudita anche Rosy Bindi). Ma è evidente che ci troviamo di fronte a ostacoli che non si sbloccano con 50.000 persone in piazza una tantum, né con un’astuzia parlamentare o con qualche invettiva contro i teodem. Vale la pena di ragionare ancora su questi ostacoli, anche per evitare l’errore opposto, quello di sopravalutarli.
L’Italia è un paese un tantino più cattolico e intriso di tradizionalismo vetero-familista degli altri. Ma non più di tanto, non è fuori dai processi sociali e culturali europei. La Chiesa cattolica ha più peso, ma non era riuscita a ritardare di molto né il divorzio né l’aborto. Il problema è che il peso conservatore della Chiesa è stato moltiplicato dal sistema politico e istituzionale, sia per ciò che è cambiato che per ciò che è rimasto intatto. Il superamento del proporzionale della prima repubblica, l’avvento del bipolarismo hanno avuto dei meriti, ma sono stati negativi per le rivendicazioni omosessuali e per la laicità in genere. E’ invece rimasto in piedi, sempre più anacronistico, il bicameralismo perfetto: e un Senato eletto senza il voto dei giovani oggi pende dagli umori degli ultra 80 enni. Se ci fosse solo la Camera a varare queste leggi (e a dare la fiducia al governo), come è più o meno ovunque, oggi staremo discutendo degli emendamenti ai Dico, non delle pregiudiziali.
E ancora: ieri si è visto un possibile nuovo fronte laico maggioritario, ma non è facile che prenda forma mentre si fa il Partito democratico coi teodem. Se questo, così prevalentemente o esclusivamente politico e istituzionale, è l’impasse, non ci si deve rassegnare ad attendere tempi miglior. A maggior ragione occorre cercare subito i venti propizi a far muovere le vele dei diritti: l’Europa, i giovani, la cultura, la realtà tenera e reale delle coppie, la musica, i linguaggi dei diritti e della solidarietà. Prima di affidarci a nuove conte parlamentari, dobbiamo far contare la società civile. Su tutti gli schieramenti.
«Una esibizione carnascialesca dove hanno trovato posto discutibili mascherate». Critiche anche alla presenza dei bambini.
CITTA’ DEL VATICANO - L’Osservatore Romano ha espresso una dura condanna sulla manifestazione di piazza Farnese di sabato sui "Dico". Una "esibizione carnascialesca" la chiama il quotidiano che definisce "discutibili le presenze" di alcuni ministri e "insultanti gli slogan" inneggiati.
«Si è dunque inscenato sabato - osserva il quotidiano vaticano - il promesso corteo a favore del riconoscimento legale delle coppie omosessuali. Una manifestazione nella quale, al di là dell’immagine borghese e rassicurante che si voleva dare, hanno trovato posto discutibili mascherate e carnascialate varie. Ironie e isteriche esibizioni da parte di chi invoca riconoscimenti e non esprime rispetto».
LA PRESENZA DI BAMBINI - Erano in molti, fra l’altro - prosegue l’Osservatore Romano - i manifestanti omosessuali che recavano sulle spalle o per mano, dei bambini, frutto di precedenti relazioni o anche di fecondazioni praticate all’estero. Bambini - ammonisce ancora il quotidiano della Santa Sede - la cui presenza è stata sfruttata proprio allo scopo di accreditare l’immagine, che vorrebbe essere rassicurante, di una famiglia da tutelare».
dal sito www.corriere.it, 12 marzo 2007
Bellissima.
Ah, se potessimo un poco aprici da quel becero rinchiuderci a riccio e renderci disponibili al confronto! Ah, se potessimo periodicamente fare un "mea culpa" e "misurare il Pozzo di San Patrizio delle nostre demo-crazie"!
Ah!
Tutto qui.
MANIFESTAZIONE
Tutti in piazza per i Dico
L’appuntamento è per le 18 di domani, sabato *
ROMA Piazza Farnese ore 18: tutti pronti per quello che già chiamano il «grande trillo». I partecipanti alla manifestazione nazionale di domani a favore dei Dico faranno squillare a quell’ ora, puntuali, sveglie e telefonini per «svegliare la politica italiana». Gli organizzatori aspettano almeno tante persone quante furono quelle che lo scorso anno parteciparono all’ iniziativa «tutti in Pacs»: circa 50mila che strabordarono da Piazza Farnese verso l’ adiacente Campo dei Fiori. Due piazze significative e piene di simboli: l’ ambasciata di Francia, patria dei Pacs, e la statua di Giordano Bruno, un monumento caro ai laici.
Ma il «grande trillo» (una sveglia in azione è anche il logo della manifestazione) non risuonerà solo a Roma: sono già previsti »punti trillo« in altre città, come Torino e Padova, mentre il circuito di Radio popolare network trasmetterà lo squillo via etere.
A parte questo elemento di visibilità, anzi di udibilità, la manifestazione di domani non lascerà molto altro spazio agli aspetti spettacolari. Il cuore dell’ appuntamento romano sarà infatti il confronto ed il dibattito, a cominciare con gli esponenti del governo «amico» (attesi Pecoraro Scanio, Ferrero e Pollastrini) anche se non mancheranno esponenti del centrodestra, come Chiara Moroni o Benedetto Della Vedova. E di centrodestra sono anche i manifestanti di Gaylib che, hanno annunciato, saranno domani in piazza. «Essere gay non significa essere di sinistra», dicono affermando di lanciare così «una sfida al centrodestra per una concreta apertura ai diritti civili». Alle 16:30, quindi, la manifestazione entrerà nel vivo con gli interventi di Alessandro Zan, coordinatore nazionale della manifestazione «Diritti ora», e Sergio Lo Giudice presidente nazionale di Arcigay. «È in gioco - spiega Lo Giudice - l’identità culturale dell’Italia: rimanere un paese ancorato a un tradizionalismo che esclude, o volare verso una modernità civile, fondata sul riconoscimento dei diritti delle persone». Quindi il confronto con le istituzioni, protagonisti del quale saranno proprio le coppie di fatto che, assicurano gli organizzatori, porteranno testimonianze personali e soprattutto porranno questioni concrete alle quali spetterà a ministri e parlamentari rispondere. Problemi che il mondo della politica dovrebbe conoscere bene, dice Franco Grillini, deputato Ds e presidente onorario di Arcigay, il quale ha stimato che «almeno il 10 per cento» dei parlamentari italiani è gay. «E si va ben oltre - aggiunge - se si considerano anche i bisessuali».
Dopo il «grande trillo», invece, sarà affidata a Dario Fo e Franca Rame ed al nutrito gruppo di artisti invitati la parte serale della manifestazione prima del concerto finale nel quale, insieme a gruppi emergenti, spiccano i nomi di vecchie glorie come Eugenio Finardi e del vincitore del Festival di Sanremo Simone Cristicchi.
* La Stampa, 9/3/2007 (20:38)
10 marzo, il grande trillo
di Paolo Hutter (il manifesto, 09.03.2007)
Chi può faccia un ultimo sforzo per venire di persona domani a Roma alla manifestazione di piazza Farnese. Ma a tutti, proprio a tutti quelli che condividono la fondamentale richiesta di civiltà e laicità, è rivolto l’invito di partecipare comunque al momento collettivo della «Sveglia per i diritti», fissata per le 18 di domani sabato. Dal palco di piazza Farnese, attraverso le radio e le tv che saranno collegate in diretta, verrà dato il segnale del «grande trillo». Con le sveglie tradizionali, con il trillo dei cellulari, con i fischietti, con i clacson per chi sarà in auto, ovunque e da qualunque parte si potrà partecipare e dare in questo modo un’adesione concreta. «In particolare lo proponiamo a bar negozi balconi cortili. E a congressi e manifestazioni»: dice il sito www.dirittiora.it, che lancia l’iniziativa e raccoglie le adesioni.(a info@dirittiora.it o a svegliaperidiritti@libero.it).
L’idea è quella di ridurre la sproporzione evidente tra la grandezza del conflitto epocale sul riconoscimento delle coppie e i limiti della manifestazione e della macchina organizzativa del movimento gay. Innanzitutto partecipare al «grande trillo», sintonizzarsi per un attimo sulle dirette, è un’occasione che sta cogliendo chi ha organizzato in contemporanea iniziative su altri temi : dai No Tav a Bolzano,ai Cantieri di Pace a Torino, al convegno contro la cementificazione a Cernusco - per citare i primi tre che hanno aderito. Anche i minimi «punti-sveglia» comunque saranno utili, a partire da quelli individuali. Poi discuteremo se e come sarebbe stato possibile organizzarsi meglio. Ora usiamo le ultime ore e tutti i contatti per includere, per stare collegati, per farci sentire. E anche per contrastare il pessimismo: in fin dei conti il Senato non rappresenta la società italiana. Domani alle 18 il primo grande trillo. Altri seguiranno.
Unioni civili, in piazza a Roma per dare la "sveglia" ai politici *
«Diamo la sveglia alla classe politica». È questo lo slogan di fondo, il titolo - si può dire - della manifestazione per i diritti dei conviventi e le unioni civili, sia etero che omosessuali, che si svolgerà sabato 10 marzo a Roma. Una manifestazione che ha per oggetto l’amore è uno strano evento. Sì, l’amore, dicono gli organizzatori, «in questo paese così bello e così poco libero».
Si annuncia senz’altro come una manifestazione festosa, con il patrocinio dell’assessorato alle Pari opportunità del Comune di Roma di Mariella Gramaglia - uno degli ultimi atti prima della partenza per l’India - e un palco di ospiti che si annuncia ricco come un anticipo del Primo maggio: da Serena Dandini e Dario Vergassola, a Dario Fo e Franca Rame, oltre a politici come i sottosegretari Luigi Manconi e Maria Chiara Acciarini, il vicepresidente della Camera, Carlo Leoni - ds seconda mozione - e il suo omologo al Senato Gavino Angius - sempre ds ma terza mozione - , il ministro verde Alfonso Pecoraro Scanio. E poi a sera, un concertino con bei nomi come Eugenio Finardi e Simone Cristicchi, appena uscito vincitore del Festival di Sanremo con la "canzone dei matti". Ma anche i Cisco e Massimo Bubola e altre band.
E anche nel parterre si annunciano personalità del mondo dello spettacolo e della cultura, almeno a vedere l’appello, sottoscritto da centinaia di associazioni, circoli Arci, comitati studenteschi e blog da tutta Italia, ma anche da singoli, registi come Marco Bellocchio e Pappi Corsicato, attori come Lella Costa, produttori come Andrea Occhipinti, editori come Luca Formenton, sindacalisti come Gianni Rinaldini della Fiom e ancora professori universitari, la vicepresidente dell’Europarlamento Luisa Morgantini, assessori di molte città, insegnanti, giornalisti. C’è persino un «lobbista a Bruxelles». E colpisce che in questo panorama pro-Pacs si vedono per la prima volta di nuovo insieme i radicali - al gran completo - e la cosiddetta "sinistra radicale" compresi "dissidenti" del Senato sull’Afghanistan come il verde Bulgarelli, gli anti-Tav con in testa il presidente della comunità montana della Val di Susa Ferrentino e i riformisti. Ci saranno persino due dirigenti di Forza Italia: Benedetto Della Vedova e il liberal Marco Taradash.
L’ultima volta che si è vista una simile compagine era probabilmente per i referendum sul divorzio e sull’aborto. E infatti si torna a parlare di diritti civili. L’appello si rifà questa volta all’articolo 3 della Costituzione che riconosce pari dignità a tutti i cittadini, al di là di differenze di reddito, propensioni sessuali e politiche. E anche al fondamentale principio -o "diritto naturale", dal tempo dei Lumi - al pluralismo, una «ricchezza» che passa anche per «la valorizzazione dei diritti della persona».
Gli organizzatori, la manifestazione parte da Arcigay e Arcilesbica e dal parlamentare dell’Ulivo Franco Grillini, hanno attivato anche un sito, dove ci sono informazioni per carovane e altri mezzi di trasporto per raggiungere il concentramento - alle 15 nella bellissima ma un po’ piccola piazza Farnese, sede tra l’altro dell’ambasciata di Francia - e le adesioni. Ma anche chi non potrà spostarsi potrà partecipare virtualmente: ci sarà infatti anche una manifestazione sonora in tutta Italia: dalle 17 e 59 alle 18,01 tutti coloro che vorranno partecipare potranno trovare un loro modo di far rumore. Un trillo di telefono, un paio di coperchi sbattuti fuori dalla finestra, un bip bip di qualche genere. Per dare la "sveglia", appunto, a chi non vuole i Dico, i Pacs e pensa che in Italia le famiglie di fatto non abbiano diritto ad alcun riconoscimento. Si potrà partecipare anche accendendo le casse del computer e collegandosi all’Unità online.
* l’Unità, Pubblicato il: 09.03.07, Modificato il: 10.03.07 alle ore 14.03
Fassino: «Una manifestazione giusta»
Tanta gente e ministri in piazza per i Dico
Il corteo a favore del disegno di legge sulle coppie di fatto. Ma interviene il premier Prodi: «Perplesso» per i membri del governo *
ROMA - La manifestazione per le coppie di fatto a piazza Farnese, organizzata da Arcigay, Cgil e numerose sigle dei movimenti omosessuali, ha raccolto decine di migliaia di persone e vari ministri ed esponenti del governo Prodi. Alle 18, dopo vari interventi dal palco, è scattato il «momento trillo»: i manifestanti hanno fatto squillare sveglie e telefonini come segnale nei confronti del governo. Poi altri ospiti, tra cui Dario Fo e Franca Rame, e il concerto finale. Stracolma la piazza, in un tripudio di bandiere colorate dell’Arcigay, quelle viola dell’Arcilesbica e quelle di Ds, Ulivo, Prc e Rosa nel Pugno. Secondo Alessandro Zan, coordinatore nazionale della manifestazione, dal titolo «Diritti ora!», sono accorse circa centomila persone, molte delle quali nella vicina piazza Campo dè Fiori, dove sono stati montati degli altoparlanti. Più verosimile la cifra indicata dalla questura di circa ventimila presenze, abbastanza per parlare comunque di un successo. Dal palco è poi scoppiato un applauso quando un organizzatore annuncia: siamo in 50mila.
I MINISTRI IN PIAZZA - In piazza anche i ministri Alfonso Pecoraro Scanio, Paolo Ferrero e Barbara Pollastrini, oltre a numerosi parlamentari, assessori ed esponenti politici. Sul palco, dove troneggiava la grande scritta «Sveglia, è l’ora dei diritti», sono saliti anche Alessandro Cecchi Paone, Pierluigi Diaco e Delia Vaccarello. Poi altri ospiti, tra cui Dario Fo e Franca Rame, e il concerto finale.
PRODI «PERPLESSO» -Ma in pieno corteo, nel pomeriggio di sabato, scende in campo, da Bologna, anche il premier: «Non ho mai nascosto la mia perplessitá riguardo alla partecipazione dei ministri a queste manifestazioni, che possono poi ricoprire significati diversi da quello da cui partono». «Speriamo però - osserva con i cronisti che gli chiedono in commento sotto casa - che tutto vada tranquillo».
CONTESTAZIONI - Molto applauditi gli interventi dal palco, ma fischi e proteste hanno punteggiato almeno due momenti: quando lo stesso Zan ha citato il ministro Clemente Mastella ( ■ Guarda il video) e quando l’esponente di Forza Italia Benedetto Della Vedova ha dichiarato dal palco che «si può stare benissimo al fianco di Silvio Berlusconi e al fianco dei gay che rivendicano i propri diritti».
STRISCIONI E SIMBOLI - Come sempre, la fantasia dei manifestanti si è sbizzarrita, con striscioni come «Meno Binetti, più diritti», «Più autodeterminazione, laicità, antifascismo, meno Vaticano», «Siamo uscite dal silenzio», firmato Arcilesbica. Immancabili anche i travestimenti «ecclesiali»: alcuni manifestanti indossano il copricapo vescovile con su scritti slogan come «Meglio gay che Opus Dei». Tra la folla perfino un finto arcivescovo con tanto di incenso, che chiede dieci centesimi per ogni foto. «Questa manifestazione - ha detto Sergio Lo Giudice, presidente nazionale di Arcigay - nasce da una proposta del movimento omosessuale rivolta a tutte le nuove famiglie, ma oggi ha un significato ancora più importante, è la punta più avanzata della richiesta di far compiere all’Italia un balzo in avanti verso una democrazia più compiuta».
FASSINO: «MANIFESTAZIONE GIUSTA» - La manifestazione di Roma sui Dico è «giusta». Non essendoci andato perché impegnato in iniziative per il Partito Democratico in Emilia-Romagna, il segretario dei Ds Piero Fassino ha comunque sottolineato la validità delle motivazioni della manifestazione.
* Corriere della Sera, 10 marzo 2007
Cari parlamentari cattolici, appoggiate i DI.CO.: sono un passo avanti di civiltà *
di don Vitaliano Della Sala
Ai parlamentari cattolici italiani
Signore e signori parlamentari cattolici,
da un lato esiste la Gerarchia “trionfante” della Chiesa cattolica italiana, quella eternamente “costantiniana” dell’in hoc signo vinces, sempre pronta a pretendere privilegi e a fare compromessi con i potenti, potente essa stessa. Una gerarchia che sa solo pronunciare i suoi eterni ”no” di fronte a qualsiasi richiesta di apertura che viene dalla base, senza preoccuparsi in alcun modo delle sofferenze che i “no” provocano; una Chiesa che appare formata esclusivamente della gerarchia e da queste è esclusivamente rappresentata, senza aver ricevuto delega alcuna da parte della base. Di partecipazione dei fedeli laici alle decisioni, neanche a parlarne, come pure di democrazia interna e di diritto-dovere al dissenso.
Oltre questa Chiesa gerarchica, anzi dentro di essa, un’”altra” Chiesa, Chiesa-altra, non è solo possibile ma è già realtà. Una Chiesa-altra che ha imparato ad usare “il potere dei segni, anziché i segni del potere”. Una Chiesa-altra viva, fatta di vescovi e preti coraggiosi, di fedeli laici impegnati, anche se costretta a vivere “nelle catacombe” della paura di essere inquisita, punita, processata. È la nuova Chiesa del silenzio che, però, prende sempre più coraggio e emerge dall’oscurità nella quale è stata ricacciata o nella quale si è autorelegata. Sulla questione che pongo, signori parlamentari, si interrogano in tanti dentro la Chiesa. E lo fanno con serietà e sofferenza, senza superficialità e facilonerie, lo fanno con amore e, soprattutto, davanti a Dio: al suo cospetto.
C’è una breve parabola nel Vangelo che parla del granello di senape, il più piccolo tra tutti i semi, che diventa un albero frondoso, «e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra» (Luca 13, 18-19): paradigma della Chiesa-altra che in molti sogniamo. Una Chiesa inclusiva, che non emargina, non usa la pesante scure del giudizio su nessuno, “una Chiesa degli esclusi e non dell’esclusione” (mons. Jacques Gaillot), capace di accogliere, di portare tutti , proprio tutti, maternamente in seno. Le recenti prese di posizione sulle unioni di fatto, sull’uso dei profilattici anti-HIV e su altre problematiche calde, da parte dell’episcopato spagnolo, del cardinale Carlo Maria Martini, di quello belga Godfried Danneels, e dello svizzero George Cottier, già teologo della Casa Pontificia durante il pontificato di Giovanni Paolo II, fanno ben sperare in una Chiesa cattolica che, pur testimoniando e proponendo i propri valori, non si sogna nemmeno di imporli ad una società laica che deve essere, invece, ascoltata e compresa.
Voi parlamentari cattolici, in questi giorni, siete chiamati a decidere sulla proposta di legge del governo circa le unioni di fatto. Sicuramente ascolterete quanto chiede da voi, quasi vi impone, la gerarchia cattolica italiana. Vi chiedo, vi imploro, di ascoltare anche quanto la Chiesa-altra vi dice e si aspetta da voi. Se la Chiesa ha il diritto-dovere di difendere l’istituto del matrimonio tra uomo e donna e di “imporlo” ai credenti, non può imporlo a tutti gli altri; soprattutto deve apprezzare uno Stato laico che propone una legge sui “diritti e i doveri dei conviventi”, badando bene a non confonderli con quelli del matrimonio tradizionale. Come cattolico devo accettare che una legislazione civile determini condizioni di coabitazione e diritti per le coppie etero e omosessuali, anche se non posso accettare che lo si confonda con il matrimonio.
Di fronte a un’etica sessuale che afferma un categorico no, ad esempio, contro qualunque esercizio dell’omosessualità - visto che soprattutto questo crea problemi nella riflessione sulle coppie di fatto - si prova disagio. Io provo disagio. E so che lo provano moltissimi credenti e cattolici praticanti; moltissimi preti. Non si tratta del disagio di chi si lascia lusingare dal canto delle sirene, di chi , affetto da complesso di inferiorità ecclesiastica, vorrebbe scendere a compromessi su tutto e con tutti e avere una Chiesa supina al pensare della maggioranza, alla moda e acriticamente a braccetto coi tempi. E’ un disagio che nasce dal Vangelo, dal bisogno di fedeltà sostanziale al comandamento dell’amore lasciato da Gesù: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 12,7).
C’è un passo molto bello nella Bibbia, del profeta Isaia, in cui Dio dice: «su, venite e discutiamo». Ogni singola affermazione della Bibbia è parte di questo dialogo e isolarla rischia di snaturare il dialogo stesso. Prima di arrivare al “fino a questo punto è lecito, oltre questo limite no”, io credo che bisogna entrare nel clima di dialogo e di confronto che è proprio delle Scritture. Questo coraggio di discutere su tutto, sempre, dovrebbe essere la regola nella Chiesa come nella politica, nelle comunità di qualsiasi genere come nei rapporti interpersonali.
Sant’Agostino diceva: “Ama e fa ciò che vuoi”. Questo non è certo un invito alla deregulation totale, a vivere al di là del bene e del male o come se chiunque potesse decidere nella soggettività più assoluta cosa è bene e cosa è male. E’ un invito, invece, a partire con il piede giusto, quello dell’amore, cioè dell’uscita da sé e dell’apertura all’altro. Prego il Signore perchè benedica il vostro lavoro e vi faccia partire con questo piede giusto nella discussione della proposta di legge che andrete ad esaminare nei prossimi giorni.
Con cristiana franchezza
don Vitaliano Della Sala
Sant’Angelo a Scala, 9 marzo 2007
www.donvitaliano.it-e-mail donvitaliano@tin.it
* www.ildialogo.org, Sabato, 10 marzo 2007
Dura critica dell’Osservatore romano alla manifestazione di sabato nella capitale. "Una proposta ideata soprattutto per legalizzare le coppie omosessuali"
Il Vaticano sui Dico: una carnevalata bambini sfruttati per la causa gay *
ROMA - Una carnevalata, per di più isterica, i cui autori sono persone irrispettose. Questa l’opinione dell’Osservatore romano sulla manifestazione romana di sabato sui Dico. Una "esibizione carnascialesca della vera natura dei Dico", questo "il corteo di Roma a favore del riconoscimento legale delle coppie omosessuali. Una manifestazione nella quale - commenta il giornale vaticano - al di là dell’immagine borghese e rassicurante che si voleva dare, hanno trovato posto discutibili mascherate e carnascialate varie. Ironie e isteriche esibizioni da parte di chi invoca riconoscimenti e non esprime rispetto".
Nell’articolo, l’Osservatore rileva che "erano in molti, fra l’altro, i manifestanti omosessuali che recavano sulle spalle o per mano, dei bambini, frutto di precedenti relazioni o anche di fecondazioni praticate all’estero. Bambini - scrive il quotidiano del Papa - la cui presenza è stata sfruttata proprio allo scopo di accreditare l’immagine, che vorrebbe essere rassicurante, di una famiglia da tutelare. Almeno quando è nato, ogni bambino - ricorda la nota - gode, anche nell’ordinamento italiano, di diritti che gli vengono riconosciuti comunque, in ogni condizione si trovino i loro genitori. Anche per questo, sfruttare la loro ingenuità appare un’operazione particolarmente criticabile".
Secondo l’Osservatore, quanto è accaduto sabato a Roma è allora "ancora una volta, la prova evidente di quale sia la finalità di chi si batte per il riconoscimento legale delle coppie omosessuali, essendo la presenza di minori determinante per garantire ad un nucleo famigliare particolari diritti. Non è un caso - conclude la nota vaticana - che nelle immagini trasmesse sul corteo di sabato a parlare siano state quasi esclusivamente le coppie omosessuali, la categoria per la quale, al di là di ogni tattica politica, i recenti tentativi di regolamentazione sono concepiti".
* la Repubblica, 12 marzo 2007