IL ROSPO NEL POZZO
di Gianfranco Ravasi ( Avvenire/Mattutino, 09.02.2007)
Un rospo che vive in fondo a un pozzo giudica la vastità del cielo sulla base del bordo del pozzo.
Leggo che questo è un proverbio mongolo, legato quindi a una cultura remota rispetto alla nostra, eppure testimone di una verità che tutti ci accomuna. Quel rospo che è laggiù nel fondo melmoso di un pozzo immagina il cielo solo coi contorni del bordo che da quel punto di vista riesce a intuire. È una lezione costante: per molte persone il loro angolo di visuale è l’unica possibilità di interpretare tutta la realtà. Nasce, così, una particolare ostinazione che si trasforma in supponenza: si diventa convinti che solo quella è la verità, opponendosi a ogni altra prospettiva.
È per questo che la grettezza e la chiusura mentale diventano pericolose. Forse affermano un aspetto genuino della realtà ma ignorano che esso è parziale e che deve confrontarsi con altri punti di vista. Ma chi è così isolato nella sua autosufficienza non vuole uscire dal suo guscio, anzi, teme l’ampiezza degli orizzonti, come è attestato da coloro che ai nostri giorni hanno paura di tutto ciò che è diverso sia a livello etnico o sociale sia a livello religioso o culturale.
Essi sono incapaci di dialogare con l’altro perché sospettano di perdere la loro fragile identità fatta di quel piccolo e quieto orizzonte, e non solo perché rigettano sempre e comunque chi è differente da loro.
Ecco, allora, la necessità di non relegarsi in un pozzo e di non ridurre il cielo della verità a quel modesto cerchio che sta sopra la nostra testa. L’anima umana è come il vento che passa sopra le frontiere e corre verso i cieli, nella rincorsa dell’infinito.
Gianfranco Ravasi
IL CIELO E IL CERVELLO
Un’ottima riflessione, valevole sia per gli esseri umani sia per le Istituzioni - compresa la stessa Chiesa cattolico-romana!!! (fls)
di Gianfranco Ravasi (Mattutino: Avvenire, 24.06.2005)*
Tutto lo studio di donna Prassede era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, che era di prendere per cielo il suo cervello.
L’ironia manzoniana è spesso fulminante. Lo è soprattutto quando lo scrittore vuole colpire i luoghi comuni, le figure ipocrite, le banalità paludate. È il caso di questa battuta su donna Prassede, la moglie del dotto (e altrettanto supponente) Ferrante, a cui è affidata in custodia Lucia dall’Innominato. Manzoni, poi, continua puntualizzando l’errore di questa signora: «Con le idee donna Prassede si regolava come dicono si deve fare con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non erano quelle che le fossero meno care».
Un po’ di donna Prassede abita in tutti noi. Certo, il nostro cervello è una realtà mirabile, una sorta di "micro-cielo", se pensiamo che è costituito da un centinaio di miliardi di neuroni, tante quante sono le stelle della Via Lattea. Ma rimane pur sempre una realtà circoscritta e limitata, se consideriamo l’enorme massa di misteri che ci circonda e soprattutto l’infinita grandezza di Dio e del suo pensiero. Di fronte alla tentazione di scambiare il nostro cervello per il cielo, cadendo nell’illusione della superbia, bisognerebbe certo esercitare umiltà, modestia, semplicità, discrezione, virtù un po’ ignorate ai nostri giorni. Ma forse basterebbe un po’ di auto-ironia...
Gianfranco Ravasi
* www.ildialogo.org/filosofia, Sabato, 25 giugno 2005
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
IL "POLEMOS" DI ERACLITO, "LA SANTA VIOLENZA" DEL CARDINALE RAVASI, E IL "PADRE NOSTRO" ("CHARITAS") DEL MESSAGGIO EVANGELICO....*
Il nuovo libro di Ravasi.
Quando il sacro fa i conti con la violenza
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, sembra essere il basso continuo della storia umana: la Bibbia non ignora questa realtà, fino al radicale rovesciamento operato da Cristo
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, giovedì 17 ottobre 2019)
Sembra una ripresa cinematografica; è, invece, la descrizione di un poeta ebreo, il profeta Nahum, che nel 612 a.C. sta “sceneggiando” quasi in presa diretta la caduta di Ninive, la detestata capitale della superpotenza orientale, l’Assiria, sotto l’irruzione congiunta di Ciassare, re dei Medi, e di Nabopolassar, re della dinastia neobabilonese. Ecco la scena affidata a una sequenza impressionistica di azioni militari, costruita sulla secchezza di un elenco: «Sibilo di frusta, fracasso di ruote, scalpitìo di cavalli, cigolìo di carri, cavalieri incalzanti, lampeggiare di spade, scintillare di lance, feriti in quantità, cumuli di morti, cadaveri senza fine, s’inciampa nei cadaveri». Le pagine dell’Antico Testamento sono spesso striate dal sangue delle battaglie e si affacciano su rovine e devastazioni causate da eventi bellici. Una lingua lessicalmente povera come l’ebraico classico (5.750 vocaboli in tutto) si mostra sorprendentemente ricca quando deve designare la violenza
Tanto per esemplificare, ecco la radice hms «fare violenza» (donde hamas «violenza»), o šddhrm «sterminare » (donde herem, la strage sacra), hrg «uccidere», rsh «assassinare», ‘nh «violentare, opprimere», hrs «distruggere », lhm «combattere » (donde milhamah «guerra»), nqm «vendicare», mhs «abbattere, fracassare», šht «mandare in rovina» e altri ancora.
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, che per altro sembrano essere il basso continuo della storia umana, come pessimisticamente dichiarava Eraclito nel suo frammento 53: «La guerra (pólemos) è madre di tutte le cose e di tutte la regina (basiléus). Gli uni rende dèi, gli altri uomini; gli uni fa schiavi, gli altri liberi».
Anche il Nuovo Testamento, che pure inalbera il vessillo dell’amore ed eredita l’aspirazione messianica biblica allo shalôm «pace», non ignora questa realtà aspra che costella le strade della vita dei popoli.
Lo stesso Gesù, ad esempio, ricorrerà a un modello di strategia militare applicandolo all’esistenza cristiana da vivere con intelligenza e sapienza: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per chiedere pace».
La scelta radicale per il Regno di Dio, vero Leitmotiv della predicazione di Cristo, sarà da lui espressa con una dichiarazione paradossale, anche se evidentemente metaforica per indicare la natura “esplosiva” del suo messaggio: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» [...].
È indubbio che, sia a livello biblico sia nella storia della cristianità, questo intreccio tra guerra e religione è paradossalmente forte. Per stare alla Bibbia, basti solo pensare alle stragi sante - il cosiddetto herem o «sterminio sacro» - che accompagnano la conquista della Terra pro- messa da parte del popolo ebraico, oppure alle centinaia di testi violenti presenti nelle Scritture e alla stessa simbologia bellica usata per rappresentare il «Dio degli eserciti» (che, però, era originariamente un rimando all’armata astrale del Creatore, anche se poi applicata alle battaglie di Israele col palladio dell’Arca santa) [...]. Ci sono alcuni elementi di natura ermeneutica che dovremo costantemente ribadire [...]. Innanzitutto è da sottolineare la qualità storica della Rivelazione ebraico-cristiana, che nella Bibbia si presenta non come un’astratta serie di tesi teologiche speculative ma appunto come una concreta «storia di salvezza». All’interno degli eventi umani, spesso segnati dal peccato, dall’ingiustizia, dalla violenza, dal male, passa la presenza e l’opera di Dio che progressivamente e pazientemente cerca di condurre l’umanità verso un livello più puro, giusto e pacifico di vita. Il vertice è proprio - tenendo conto dell’unità «canonica » (cioè nell’unico Canone cristiano) dei due Testamenti - nella proclamazione: «Beati gli operatori di pace», formulata secondo lo spirito della citata «pace» messianica anticotestamentaria. La stessa tradizione giudaica successiva con rabbì Meir di Gher dichiarerà che «Dio non ha creato nulla di più bello della pace» [...].
Gesù, poi, nella sua proposta procederà fino alla scelta radicale dell’amore per il nemico così da trasformare quasi l’hostis in hospes e da introdurre il principio della non-violenza: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano».
L’apostolo Paolo, in un passo della Lettera agli Efesini, ove elenca una completa attrezzatura militare (cinturone, corazza, calzature, scudo, frecce, elmo, spada), la trasfigura in una simbologia spirituale: «Attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace; afferrando lo scudo della fede col quale si possono spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno, prendendo l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio». Introduce, dunque, nel cuore dell’apparato militare, evocato già in chiave metaforica, il «vangelo della pace» come meta da raggiungere. Egli parla per due volte della panoplía, cioè dell’«armatura » di Dio che non è aggressiva contro gli altri ma solo contro il male diabolico: «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo [...]. Prendete l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Vescovo Ragusa: Stato dica si’unioni gay
Ad altri spettera’ la valutazione morale
(ANSA)-RAGUSA, 12 GEN- Lo Stato riconosca le unioni omosessuali.
Lo afferma il vescovo di Ragusa, Paolo Urso, in un’intervista alla testata on-line ’’Quotidiano.net’’ pubblicata anche sul sito di informazione della curia Insieme. ’’Quando due persone decidono, anche se sono dello stesso sesso, di vivere insieme - afferma - e’ importante che lo Stato riconosca questo stato di fatto. Uno Stato laico come il nostro -aggiunge- non puo’ ignorare il fenomeno delle convivenze. Poi la valutazione morale spettera’ ad altri’’.
Il vescovo di Ragusa: “Lo Stato riconosca le unioni gay”
Lo afferma in un’intervista mons Urso: “Alla Chiesa spetta solo la valutazione morale, ma non chiamiamoli matrimoni”
di REDAZIONE *
ROMA Lo Stato riconosca le unioni omosessuali. La Chiesa si riservi invece il giudizio morale. È l’auspicio espresso dal vescovo di Ragusa, Paolo Urso, in una lunga intervista alla testata on-line «Quotidiano.net» che compare anche nel sito di informazione della curia «Insieme».
«Quando due persone decidono, anche se sono dello stesso sesso, di vivere insieme - afferma - è importante che lo Stato riconosca questo stato di fatto. Che va chiamato - precisa - con un nome diverso dal matrimonio, altrimenti non ci intendiamo».
Monsignor Urso parla di una chiesa dalle «porte aperte» e affronta temi cruciali come l’immigrazione, il pacifismo, le convivenze, la fecondazione assistita. Ma è soprattutto sulle unioni tra gay che monsignor Urso esprime il giudizio più impegnativo. C’è - viene chiesto al vescovo - un ritardo su questi temi? «Uno Stato laico come il nostro - è la risposta - non può ignorare il fenomeno delle convivenze, deve muoversi e definire diritti e doveri per i partner. Poi la valutazione morale spetterà ad altri».
Nel 2005, in occasione del referendum sulla fecondazione assistita, mons. Urso dichiarò al Corriere della Sera che sarebbe andato a votare, lasciando libertà di coscienza ai fedeli. Si pose quindi in contrasto con l’allora presidente della Cei, cardinale Camillo Ruini, che aveva invece richiamato la Chiesa all’astensione. Rifarebbe quella scelta? «Senza dubbio la rifarei» risponde. «Sono stato educato - aggiunge - alla laicità dello Stato e al rispetto delle leggi civili. Quando il cittadino è chiamato a compiere delle scelte concrete, il compito della Chiesa è quello di offrire ai fedeli strumenti per decidere in autonomia e consapevolezza. Per questo ho detto alla mia gente: “Informatevi, documentatevi, vedete se questo tipo di soluzioni sono giuste e giudicate voi».
Quella di Ruini fu, secondo il prelato, «un’azione di strategia politica». «Ma io credo - conclude - che i vescovi con la politica e le sue logiche non debbano avere nulla a che fare».
Caro Gughi
Se è vero - ed è vero!!! - che Ravasi parla dalla “testata” dell’Avvenire, appunto in “sintonia, con i suoi gerarchi, turibolanti super-maschi in sgargianti sete nere, rosse o bianche, una comunità unigenere che discetta senza alcuna esperienza reale di povertà, famiglia, carità dai suoi fastosi palazzi, esageratamente ricca, rigorosamente sessuofobica, e avidissima di 8 per mille”, credo - tuttavia - che dobbiamo pur distinguere (ne va della nostra intelligenza delle cose) e considerare meglio tutto ciò che viene fuori da questa “comunità unigenere” che vive da secoli nelle “pacs-ie” (nei conventi, appunto, “persone dello stesso sesso - dichiarazione di Monsignor Luigi Bettazzi - che vivono insieme”!!!) e pretende di recintare (a sua immagine e somiglianza, in nome del loro diritto naturale e del loro avido e cieco biologismo - come i nazisti) le “famiglie” e le “coppie” di tutti i liberi e sovrani cittadini e di tutte le sovrane cittadine della Repubblica italiana!!! Se no, finiamo per fare di tutte le erbe un fascio e dell’infinito (alla Schelling, come diceva Hegel) un buio totale in cui tutte le vacche e tutti i buoi appaiono bigie e bigi. Dopo Lutero, dopo Hegel, dopo Marx, dopo Nietzsche, e dopo Freud ... e dopo lo stesso Wojtyla (pur con tutte le sue contraddizioni) sono solo e sempre più solo e soltanto dei mentitori e degli assassini nel corpo e nello spirito - considera la immonda e planetaria copertura di tutti i casi di pedofilia firmata ordinata e sottoscritta dal Ratzinger e avallata da tutta la Gerarchia - prima e dopo - la nomina a Papa!!!
All’infinto, come vedi, non va solo la loro anima, ma anche la loro vergogna - umana e cattolico-romana!!! E dello stesso Ravasi - se vogliamo. O no?
Grazie per il tuo lucidissimo intervento. E molti cordiali saluti,
Federico La Sala
Bravo Yoghi ! Contento di rincontrare Bubù ??
Attenti sempre al signor Ranger...rispettate le regole!..Ha Ha Ha Ha
Il presidente della Cei annuncia un documento scritto, "chiaro e vincolante" con cui i vescovi italiani ribadiranno la loro totale opposizione al ddl del governo
Dico, Ruini: "Presto una nota impegnativa per tutti i cattolici" *
ROMA - Il presidente della Cei, Camillo Ruini, oggi ha annunciato - a proposito dei Dico - "una parola meditata, una parola ufficiale, che sia impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa e che possa essere chiarificatrice per tutti".
Il cardinale, che ha fatto questo annuncio a margine del convegno nazionale dell’Opera romana pellegrinaggi, non ha precisato però i tempi di questa nota dei vescovi italiani. Alla richiesta di un (ennesimo) commento sul disegno di legge sulle convivenze di fatto, Ruini ha risposto: "Su queste cose sono state già dette da parte nostra tante cose importanti e, credo, tutto ciò che è necessario. Quindi è inutile che io aggiunga qualche battuta estemporanea".
"Potrà essere importante - ha proseguito subito dopo - una parola meditata, una parola ufficiale che sia impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa e che potrà essere chiarificatrice per tutti".
E dunque, l’offensiva della Chiesa contro la proposta di legge sulle unioni di fatto - con l’istituzione dei cosiddetti dico - va avanti con forza. Anzi, si intensifica. Perché stavolta, come ha lasciato intendere Ruini, si tratterà non di semplici dichiarazioni rilasciate in pubblico, ma di una memoria scritta, "chiara e vincolante" - secondo le parole del numero uno della Cei - per tutti i cattolici.
* la Repubblica, 12 febbraio 2007
COMUNICATO STAMPA *
Benvenuti "Dico"
Il disegno di legge che istituisce i cosiddetti "Dico" offre importanti elementi di riconoscimento e dignità istituzionali verso tutte le forme di convivenza al di là di ogni discriminazione anche di carattere sessuale. Estendere tutele e diritti sociali, non paternalisticamente dall’alto ma attraverso l’assunzione di responsabilità solidale, l’animazione comunitaria oltre i confini e la partecipazione dal basso, è la grande scommessa dell’oggi. Su di essa si è impegnato il movimento pluralista, si potrebbe dire il crogiolo, di trasformazione profonda che partito dal dopoguerra è approdato al ’68 ha attraversato la crisi degli anni della restaurazione ed è sfociato nel movimento mondiale per "un nuovo mondo possibile" che ultimamente a Nairobi ha dato prova di maturità e continuità. I "Dico" sono almeno in parte frutto di tale movimento il cui spirito e le cui istanze hanno trovato politici attenti, sensibili e capaci di una mediazione aperta e intelligente.
Le comunità cristiane di base sono parte della innervatura di quello stesso movimento. Esse vivono tutta la sofferenza e anche l’indignazione di tanta parte del mondo cattolico di fronte all’inumana intransigenza di gran parte delle gerarchie ecclesiastiche e alle loro strategie politiche lontane da ogni coerenza evangelica. Al tempo stesso le comunità di base esprimono apprezzamento per il risultato degli sforzi di mediazione politica compiuti e continueranno a impegnarsi per l’affermazione sempre più compiuta della laicità dello Stato, della politica e della vita quotidiana.
* Le Comunità Cristiane di base, 10 febbraio 2007
La parola ci interpella
FEDE E PAURA
di Giancarla Codrignani
Articolo tratto da:
FORUM (26) Koinonia
del 12/2/2007
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/ *
Non lo dico volentieri, ma mi sembra di non sbagliare se dico che la mia Chiesa ha paura. Paura del futuro. Paura di un’epoca che viene detta post-cristiana. Paura delle altre confessioni, religioni e sette. Paura della diminuzione delle vocazioni e della pratica religiosa. Che, invece, sono segni dei tempi.
Una Chiesa che confessa il Cristo risorto non può disperare del futuro; semmai del passato, per tutti i peccati di infedeltà compiuti. Vivendo un tempo di forte transizione e di preparazione a una storia quant’altre mai imprevedibile, possiamo solo cercare di contribuire a dare senso, ponendoci giusti interrogativi senza sentirci sconfitti se non troviamo risposte e prefigurando indirizzi e prospettive di speranza. Abbiamo sul collo il fiato di ipotesi di guerre distruttive, di disastri ambientali, di una globalizzazione dei profitti che condanni i poveri a diventare più numerosi e vulnerabili. Perché non guardare avanti per impedire le derive? Perché non sentire curiosità del futuro? Perché non aiutare la positività implicita nelle società, la speranza nella vita anche attraverso la ricerca scientifica, le innovazioni sociali, l’affermazione di diritti della persona?
La persona: parola particolarmente usata nel lessico cattolico e sottilmente abusata quando significhi solo la filiazione divina e non la soggettività laica. Diceva papa Giovanni XXIII nella Pacem in terris: «Va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente dalla stessa sua natura; diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili».
Aiutare l’umanità che, anche quando non ne è consapevole, avanza verso il futuro a passo accelerato significa non temere di perdere potere, non attestarsi su divieti inattuabili perché l’obbedienza non è mai stata, ma certamente non è più una virtù. Il cattolicesimo non può ripetere l’errore di sentire «assurda ed erronea sentenza o piuttosto delirio che debbasi ammettere e garantire per ciascuno la libertà di coscienza», come sosteneva Gregorio XVI nell’enciclica Mirari vos del 1832.
Il passato della storia cattolica registra luminosi esempi, ma è fatta di violenze e soprusi, dalle guerre “sante” e i papi con l’armatura alle stragi di eretici e scismatici, dal Codice di diritto canonico a molta dogmatica oppressiva, dalla clericalizzazione delle istituzioni all’esclusione dei diritti del laicato e, in particolare, delle donne. Oggi non si potrebbe più pensare a un Vaticano che dichiara una guerra armata - e significa che la storia ha insegnato anche alla Chiesa -: oggi si commettono errori che possono diventare gravidi di conseguenze negative. Siamo stati contenti per aver costatato il buon risultato del viaggio di Benedetto XVI in Turchia, compreso l’auspicio dell’accoglimento di quel paese nell’Unione europea; peccato che si sia trattato di recupero per rimediare l’errore di Regensburg. Gli interventi sulla politica italiana sono diventati insostenibili, anche perché il significato letterale della “cattolicità” comporta che la parola della Chiesa valga universalmente e non nella sola Italia. Tutta Europa (e non solo) pratica la fecondazione assistita, ma in Italia il presidente della conferenza episcopale ha invitato i cittadini a non votare - contro i principi concordatari - per invalidare il referendum. I diritti della convivenza sono ampiamente riconosciuti: in Italia il Vaticano vorrebbe non soltanto dire che cosa ne pensa, ma negare al governo la possibilità di legiferare. La ricerca scientifica - che, nel nostro tempo, opera sull’infinitamente piccolo e non può essere controllata neppure se si mettesse un carabiniere a fianco di ogni studioso di genetica - non viene responsabilizzata, ma anacronisticamente demonizzata.
Eppure sappiamo che, per poter nominare la pace, dovremmo praticare la pace, costruire l’ecumenismo come cultura intraconfessionale comune e rispettare le altre fedi, nel nome di Dio che, per quanto nominato invano da tutti, è unico. Come cristiani, dovremmo essere liberi nella coscienza (i divieti e le semplificazioni non educano alla libertà un paese che è cattolico perché “va a messa”) e, di conseguenza, laici. Non giova a nessuno ridurre alla sudditanza forze politiche che, davanti alla potenzialità di un elettorato cattolico ancora temibile, si fanno devote. La scienza progredisce se cresce la responsabilità di coscienza anche negli scienziati: quando si riesce a risanare con cellule e tessuti ricavati dal nostro corpo o destinati a scomparire, non si vede ragione di negare un servizio in più per la vita. Anche la fecondazione assistita: se non è illegittimo desiderare un figlio e se la scienza può aiutare, perché ritenerla indebita? E perché chiudere le porte a Welby, quando si è accolgono mafiosi e assassini della Magliana già benefattori di opere pie o si è celebrato con solennità il funerale di Pinochet?
Credo che anche gli uomini di chiesa dovrebbero studiare di più per intravedere con qualche capacità di argomentazione le prospettive del futuro. Con le direttive calate dall’alto si educa alla passività (e il cristiano passivo è una contraddizione vivente) e nessun giovane si sentirà legato a vecchie tradizioni, se sa che all’origine dell’universo c’erano elettroni, neutroni e protoni o se usa internet in qualunque direzione. Va, dunque, rinnovato l’approccio educativo e formativo, a partire dai seminari e non il repertorio predicatorio.
Gli uomini di chiesa hanno la loro responsabilità; ma anche i laici, che dal Vaticano II hanno ricevuto l’autorevolezza della parrhesia, per la verità contestuale al Vangelo.
Se non abbiamo il coraggio di vivere nel terzo millennio per accoglierlo e non per dominarlo, aiutando anche la nostra Chiesa, che carità abbiamo? Bisogna proprio, come ricorda Koinonia, rendersi conto che stiamo ricominciando a essere cristiani.
Giancarla Codrignani
* www.ildialogo.org, Lunedì, 12 febbraio 2007
SUL TEMA, UNA LETTERA DEL 2002 (fls)
DEPONIAMO LE ARMI, APRIAMO UN DIBATTITO
di Federico La Sala*
Bisogna cominciare a vaccinarsi: il conto alla rovescia è partito. L’allineamento dei “pianeti” si fa sempre più stretto e minaccioso (Usa, Uk, Spagna, Italia, Grecia, Turchia, Israele..) e il papa - accerchiato e costretto alla rassegnazione - lo ha detto con decisione e rassegnazione: “Dio sembra quasi disgustato dalle azioni dell’umanità”. Io credo che non si riferisse solo e tanto all’umanità degli altri, ma anche e soprattutto delle sue stesse “truppe” che lavorano dietro le quinte e alacremente a tale progetto. Come è già apparso chiaro in varie occasioni (ultima, plateale, nel Kazakistan nel 2001) la gerarchia della Chiesa Cattolico-Romana ha il cuore duro come quello dei consiglieri del faraone. Si è mantenuta a connivente distanza da Hitler, ha appoggiato Mussolini, sta appoggiando il governo Berlusconi, e non finirà per appoggiare Bush? Figuriamoci. Lo sforzo di memoria e riconciliazione non è stato fatto per riprendere la strada della verità, ma per proseguire imperterrita sulla via della volontà di potenza... Non ha sentito e non vuole sentire ragioni - nemmeno quelle del cuore: la “risata” di Giuseppe (cfr. Luigi Pirandello, Un goj, 1918, “Novelle per un anno”) contro il suo modello-presepe di famiglia (e di società) continua e cresce sempre di più, ma fanno sempre e più orecchi da mercanti! Cosa vogliono che tutti e tutte puntino le armi non solo contro Betlemme (come già si è fatto) ma anche contro il Vaticano?
Credo con Zanotelli che “stiamo attraversando la più grave crisi che l’homo sapiens abbia mai vissuto: il genio della violenza è fuggito dalla bottiglia e non esiste più alcun potere che potrà rimettervelo dentro; e credo - antropologicamente - che sia l’ora di smetterla con l’interpretazione greco-romana del messaggio evangelico!Bisogna invertire la rotta e lavorare a guarire le ferite, e proporre il modello-presepe correttamente.
Lo abbiamo sempre saputo, ma ora nessuno lo ignora più! Chi lo sa lo sa, chi non lo sa non lo sa, ma lo sanno tutti e tutte sulla terra, nessuno e nessuna è senza padre e senza madre! Dio “è amore” (1Gv.: 4,8) e Gesù (non Edipo, né tanto meno Romolo!) è figlio dell’amore di un uomo (Giuseppe, non Laio né tanto meno Marte, ma un nuovo Adamo) e una Donna (Maria) e non Giocasta né tanto meno Rea Silvia, ma una nuova Eva. Cerchiamo di sentire la “risata”. Deponiamo le armi: tutti e tutte siamo “terroni” - nativi del pianeta Terra, cittadini e cittadine d’Italia, d’Europa, degli Stati Uniti d’America, di Asia, di Africa ecc., come di Betlemme, come di Assisi e di Greccio... E non si può continuare con le menzogne e la violenza! Non siamo più nella “fattoria degli animali”: fermiamo il gioco, facciamo tutti e tutte un passo indietro se vogliamo saltare innanzi e liberarci dalla volontà di potenza che ha segnato la storia dell’Occidente da duemila anni e più! Si tratta di avere il coraggio - quello di don Milani - di dire ai nostri e alle nostre giovani che sono tutti e tutte sovrani e sovrane o, che è lo stesso, figli e figlie dell’amore di D(ue)IO... dell’amore di "due Soli" esseri umani, come anche Dante aveva già intuito, sul piano politico ma anche sul piano antropologico.
Cerchiamo finalmente di guardarci in faccia e intorno: apriamo il dibattito - o, perché no, un Concilio Vaticano III (come voleva già il cardinale Martini) tra credenti e non credenti - e teniamo presente che Amore non è forte come la morte, ma è più forte di Morte (Cantico dei cantici: 8,6, trad. di G. Garbini, non degli interpreti greco-romani della Chiesa Cattolica).
Caro La Sala, ho letto, apprezzato e, ovviamente, condivido.
Gianni Vattimo
* Pubblicato su l’Unità del 29 dicembre 2002, p. 30.
Quale dibattito si può aprire, quando si chiede alla Chiesa la rottura della legge naturale ?
Non esisterà mai fra le parti (credenti e non credenti) un dialogo costruttivo, finchè il non credente manifesterà il disprezzo di ogni legge in nome di una sua esaltazione illimitata di esibizione, di egoismo e di potenza.
Bisogna sempre tenere in debito conto quella zona d’interferenza tra l’essere e l’esistere: l’essere di Dio e l’esistere dell’uomo.
Io cattolico ferito dalla Chiesa
di Roberto Carnero *
Da cattolico, sulla questione dei «Dico» e degli attacchi da parte della Chiesa Cattolica, mi vorrei rivolgere non tanto ai politici - invitandoli, come pure è doveroso, a resistere a questi attacchi - ma soprattutto ai cattolici stessi. Ora ci giunge un’altra notizia: l’annuncio, ieri, da parte del cardinal Ruini, che presto verrà pronunciata, in tema di unioni di fatto, «una parola meditata, una parola ufficiale, che sia impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa e che possa essere chiarificatrice per tutti».
Quello che mi preoccupa maggiormente è l’espressione «impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa». Il che, tradotto, significherebbe «vincolante per i cattolici». E, magari, particolarmente vincolante per quei cattolici che siedono in Parlamento come deputati e senatori.
Il che configurerebbe un’ingerenza davvero pericolosa non solo nelle coscienze, ma anche nella politica. Insomma, sembra che stia per arrivarci, tra capo e collo, un nuovo Sillabo (la condanna degli «errori» della modernità elencati da Pio IX nel 1864), che manda a carte e quarantotto l’idea di un cattolicesimo adulto (una Chiesa, come si è espressa il ministro Rosy Bindi nella bella intervista ad Andrea Carugati sull’Unità di domenica, «maestra di valori più che di comportamenti») e quel principio della libertà di coscienza più volte ribadito nei documenti del Concilio Vaticano II.
In quanto credente, in questi giorni sono parecchio imbarazzato da una posizione, come quella del Vaticano, che mi sembra, a dir poco, anticristiana. Il fatto è che certi cattolici sembrano essersi dimenticati di essere, prima di tutto, cristiani. Il mio invito è dunque ai cattolici, ai molti sacerdoti e vescovi che, sui diritti delle coppie di fatto, non si riconoscono nella linea Ratzinger-Ruini (e so, per diretta conoscenza, che ce ne sono molti), a dire apertamente la loro, a correggere la posizione indifendibile delle gerarchie e a pronunciare delle parole di apertura di cui, in molti che siamo cattolici, stiamo avvertendo tristemente la mancanza.
Purtroppo so che questo non sarà facile e che, a parte qualche vescovo emerito (come monsignor Bettazzi) e qualche prete di frontiera, difficilmente altri prenderanno la parola sulla questione, portando un punto di vista nuovo e diverso da quello dell’ufficialità. Il problema è che oggi nella Chiesa cattolica (e in quella italiana in particolare) è stato pressoché soffocato ogni dibattito interno. In questo senso sembrano davvero lontani anni luce i tempi del Concilio, quando la Chiesa conobbe una primavera di apertura al mondo contemporaneo ormai archiviata.
Chi si pone fuori dal coro sugli argomenti considerati «sensibili» va incontro all’ostracismo e all’esclusione. Cioè, se si tratta di un pastore, rischia di perdere «il posto». E, ora, anche il «semplice» credente potrà incorrere nella scomunica.
Ricordo quando una decina di anni fa la Lambeth Conference (il supremo organismo della Comunione anglicana), dopo lunghe discussioni, varò un documento sull’omosessualità in cui, alla fine, prevaleva il punto di vista tradizionale teso a negare la necessaria dignità a questa condizione. In quei giorni mi trovavo a Londra e la domenica successiva alla pubblicazione di quel testo, a St. Paul’s Cathedral (una delle chiese più importanti della capitale britannica), ascoltai un prete che dal pulpito dichiarava le proprie perplessità su quell’atto ufficiale della sua Chiesa, poiché - disse - «non si possono misconoscere le esperienze positive di amore e condivisione di molti nostri fratelli e sorelle omosessuali». Ebbene, quello che oggi manca tra noi cattolici è un analogo dibattito, franco e aperto, in cui ciascuno porti la sua voce, il suo punto di vista, per arricchire il confronto e per far sì che quanto diciamo come Chiesa sia, prima di tutto, conforme al Vangelo, più che allineato a certe battaglie astratte in difesa dello status quo. E per fare in modo che si comprenda come la Chiesa sia una comunità, in cui tutti hanno diritto di parola, e non un club per far parte del quale bisogna attenersi a un regolamento stabilito dalla direzione. Mi sia consentita un’altra memoria personale: nei miei anni inglesi, a stretto contatto con gli anglicani, mi resi conto di quanto lì la Chiesa fosse percepita da tutti come forza progressista. Viceversa da noi la Chiesa, quella cattolica, appare sempre più spesso istituzione reazionaria e conservatrice, in tutti i campi (vedi, ad esempio, i referendum sulla fecondazione assistita).
Il Vangelo dell’accoglienza ci insegna, soprattutto, ad ascoltare i bisogni e le esigenze del nostro prossimo. Un disegno di legge come quello dei «Dico» va esattamente in questa direzione. L’Arcigay ci informa che molti dei suicidi tra gli adolescenti sono dovuti alla scoperta dell’omosessualità. Cambiare questa cultura della colpevolizzazione probabilmente significa salvare delle vite. Quanto alle presunte conseguenze di scardinamento della famiglia tradizionale mi viene da compiere alcune riflessioni. Uno strumento come quello dei «Dico» non va ad attaccare la famiglia tradizionale, ma ad aggiungersi ad essa. Credo che a rendere difficile il formare una famiglia, non sia certo - come temono i vescovi - la concorrenza di modelli alternativi, ma piuttosto la situazione di incertezza generata da un lavoro sempre più incerto e precario. Per non parlare della questione della casa, bene di per sé primario, ma ormai per molti sogno proibito. Credo che sia proprio questo l’impegno da mettere in atto a favore della famiglia: soluzioni concrete a problemi concreti, come gli stessi «Dico» tentano di fare. Molto più che combattere anacronistiche crociate di cui la maggior parte dei cattolici italiani non sente affatto il bisogno. Mi piacerebbe che questo diffuso dissenso trovasse il coraggio e i modi per emergere
* l’Unità, Pubblicato il: 13.02.07 Modificato il: 13.02.07 alle ore 8.45
L’APPELLO
"Nessun limite costituzionale nelle nuove norme sulla famiglia" *
ROMA - Nessun limite costituzionale nelle nuove norme sulla famiglia: 23 costituzionalisti hanno firmato un appello in merito ad alcune interpretazioni sul ddl appena varato dal consiglio dei ministri. Ecco il testo integrale della dichiarazione, con i firmatari.
Dichiarazione-appello sull’interpretazione dell’art. 29 della Costituzione.
"Senza entrare nel merito della discussione delle attuali proposte di riforma, volte a riconoscere o tutelare in diversa forma e misura unioni familiari di tipo diverso da quello tradizionale, ci preme però chiarire che è infondata l’affermazione secondo cui l’articolo 29, primo comma, della vigente Costituzione porrebbe dei limiti costituzionali al riconoscimento giuridico delle famiglie non tradizionali o non fondate sul matrimonio, come è ormai avvenuto in quasi tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale.
L’articolo 29, primo comma, non impone affatto alla Repubblica di riconoscere come famiglia solo quella definita quale "società naturale fondata sul matrimonio". Impone invece alla Repubblica di riconoscere i suoi diritti, in quanto espressione dell’autonomia sociale. Testualmente: "la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio". Ad essa viene quindi garantita una sfera di autonomia rispetto al potere dello Stato. Per tale motivo sarebbe contraria alla Costituzione una legge ordinaria che mirasse a disconoscere i diritti di tali famiglie.
"Circoscrivere i poteri del futuro legislatore in ordine alla sua [della famiglia] regolamentazione": questa la funzione della disposizione secondo quanto ebbe a dichiarare Costantino Mortati nell’Assemblea costituente. "Non è una definizione, è una determinazione di limiti", ribadì nella stessa sede Aldo Moro.
Il Costituente del 1946-47 non poteva immaginare che nei decenni successivi sarebbe stata avanzata in Italia o altrove la richiesta del riconoscimento di famiglie di tipo diverso dal modello tradizionale, mentre vivo era invece il ricordo del tentativo fascista di monopolizzare l’educazione dei giovani, tentativo analogo a quello in corso proprio in quei mesi con l’instaurazione di regimi stalinisti in molti paesi dell’Europa centrale: e tale era appunto il pericolo che con la formulazione dell’articolo 29 si intendeva scongiurare.
Inoltre, secondo l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la disciplina nazionale può modulare variamente le modalità di esercizio dei distinti diritti di sposarsi e di costituire una famiglia, ma non in forme tali che possano portare alla vanificazione dell’uno o dell’altro.
Il riconoscimento giuridico di altre tipologie di famiglia non comporterebbe alcun disconoscimento dei diritti delle famiglie fondate sul matrimonio e non potrebbe quindi violare il disposto dell’articolo 29, primo comma, della Costituzione. Il fatto che la Costituzione garantisca in modo particolare i diritti della famiglia fondata sul matrimonio non può in alcun modo avere come effetto il mancato riconoscimento dei diritti delle altre formazioni famigliari. A proposito delle quali vanno invece tenuti ben presenti il fondamentale divieto di discriminare sulla base, anche, di "condizioni personali", di cui all’articolo 3, primo comma, della Costituzione, e il dovere della Repubblica di riconoscere e garantire "i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità", di cui all’articolo 2, già richiamato in questa materia dalla giurisprudenza costituzionale.
Questo Appello, promosso dalla "Fondazione Critica liberale", è stato sottoscritto da:
Piero Bellini (Prof. emerito Univ. Roma "La Sapienza" - Accademico dei Lincei); Roberto Bin (Prof. Diritto Costituzionale - Univ. Ferrara); Giuditta Brunelli, (Prof. Istituzioni di Diritto pubblico - Univ. Ferrara); Massimo Carli (Prof. Diritto pubblico - Univ. Firenze); Paolo Cendon (Prof. Istituzioni di Diritto Privato - Univ. Trieste); Enzo Cheli (Prof. Diritto costituzionale - Univ. Firenze - Accademico dei Lincei); Giovanni Di Cosimo (Prof. Diritto Costituzionale - Univ. Macerata); Alfonso Di Giovine (Prof. Diritto Costituzionale Comparato - Univ. Torino); Gilda Ferrando (Prof. Diritto Privato - Univ. Genova); Vincenzo Ferrari (Prof. Filosofia del Diritto - Univ. Milano ); Maurizio Fumo (Magistrato); Sergio Lariccia (Prof. Diritto Amministrativo - Univ. Roma "La Sapienza"); Alessandro Pizzorusso (Prof. Istituzioni di Diritto Pubblico - Univ. Pisa - Accademico dei Lincei); Fausto Pocar (Prof. Diritto internazionale - Univ. Milano - Pres. Tribunale penale dell’Aja); Valerio Pocar (Prof. Sociologia del Diritto - Univ. Milano "Bicocca"); Salvatore Prisco (Prof. Istituzioni di Diritto Pubblico - Univ. Napoli "Federico II"); Andrea Pugiotto (Prof. di Diritto costituzionale - Univ. Ferrara); Pietro Rescigno (Prof. emerito Univ. Roma "La Sapienza" - Accademico dei Lincei); Paolo Ridola (Prof. Diritto Costituzionale Comparato - Univ. Roma "La Sapienza"); Paola Ronfani (Prof. Sociologia del diritto - Univ. Milano); Francesco Rimoli (Prof. Istituzioni di Diritto Pubblico - Univ. Teramo); Stefano Rodotà (Prof. Diritto Civile - Univ. Roma "La Sapienza"); Gustavo Zagrebelski (Prof. Diritto costituzionale - Univ. Torino - Accademico dei Lincei); Paolo Zatti (Prof. Istituzioni di diritto privato - Univ. Padova).
Per eventuali altre adesioni:info@criticaliberale
* la Repubblica, 13 febbraio 2007
I Dico dell’anno 400
di Gian Carlo Caselli *
Scherza coi fanti e lascia stare i santi. So bene che queste parole sono un condensato di prudenza e saggezza. So anche che in un clima di forte tensione su «Pacs», «Dico» e «unioni di fatto» (caratterizzato da ferme prese di posizione d’Oltretevere e preoccupate reazioni dei difensori della laicità dello Stato) affrontare temi così arroventati con propositi di leggerezza e distacco - senza indossare questa o quell’altra armatura - può essere rischioso per le tante suscettibilità in agguato. Tutto vero. Per cui fin da subito mi pento e mi dolgo se mi permetto di dire che non so se esista davvero una lobby contro la famiglia nel riconoscere le coppie di fatto.
Ma se mai esistesse, la si potrebbe ricollegare ad un autorevole precedente storico.
Un singolare precedente: quasi un cavallo di Troia in terra... fidelium. Perché si tratta del canone di un Concilio. Per la precisione il canone 17 del primo Concilio di Toledo (anno 400 d.C.) Dunque, un precedente da sgranare tanto d’occhi, da non crederci: perché sono stati addirittura dei Vescovi in Concilio a stabilirlo.
Nel canone 17 del primo Concilio di Toledo si legge: «Si quis habens uxorem fidelis concubinam habeat, non communicet: ceterum is qui non habet uxorem et pro uxore concubinam habeat, a communione non repellatur, tantum ut unius mulieris, aut uxoris aut concubinae, ut ei placuerit, sit conjunctione contentus; alias vero vivens abijciatur donec desinat et per poenitentiam revertatur». È un latino facile. In sostanza dice che la convivenza sessuale è lecita soltanto quando sia con una sola donna. Ma precisa che la convivenza sessuale con una sola donna è consentita (e perciò non comporta scomunica) non solo quando si tratta di «moglie», ma anche quando si tratta di «concubina tenuta come fosse moglie». In altre parole, per la Chiesa del 400 c’erano alcune unioni di fatto, non costituenti matrimonio, considerate legittime perché sostanzialmente assimilabili al matrimonio.
Impossibile, ovviamente, trarne insegnamenti vincolanti o anche solo utili per la stagione che stiamo oggi vivendo in Italia. Dopo milleseicento e passa anni tutto cambia. Uomini, leggi, canoni, principi, rapporti fra Stato e Chiesa, dottrine e prassi. La «flessibilità» di una quindicina di secoli fa potrebbe oggi apparire semplicemente anacronistica. Ma ricordarla si può. E chissà che non possa contribuire - anche solo per un attimo - a svelenire il dibattito, preferendo ai toni da guerra di religione quelli di un più pacato confronto. Magari ironizzando sul fatto che in Spagna un po’ di «zapaterismo» - si direbbe - sembra aleggiare già nell’anno 400. Addirittura in un Concilio.
* l’Unità, Pubblicato il: 24.02.07, Modificato il: 24.02.07 alle ore 10.09
Priore per 12 anni, ora sono innamorato *
Gentile Dottor Augias, un suo lettore difendeva giorni fa il celibato sacerdotale sottolineandone "il valore profetico, dimostrativo della verità". Hoi 43 anni, per 12 sono stato sacerdote e priore di una comunità di un importante ordine monastico.
Ho vissuto con serenità il celibato fino al momento in cui mi sono innamorato di una donna. Un evento a causa del quale ho rinunciato con gioia ai non pochi privilegi della mia posizione. Nonostante concordi sul fatto che l’ astinenza possa essere per alcune persone o per un periodo, un valore, la realtà è purtroppo molto spesso diversa.
Negli anni trascorsi in monastero ho visto la quasi totalità delle persone patire moltissimo l’ impossibilità di manifestare apertamente la propria affettività.
Io stesso sono stato oggetto per l’ intero periodo di molestie e pressioni perché mi rifiutavo di "cedere" agli inviti di alcuni confratelli che esigevano da me, in nome di una presunta "amicizia spirituale", prestazioni in contrasto con i miei sentimenti e il mio orientamento affettivo nonché con le regole del Diritto Canonico.
Sono stato più volte invitato, in quanto priore, a manifestare un "intima vicinanza" anche ai novizi per porre rimedio alla carenza di vocazioni con uana risposta "naturale" al loro bisogno di affetto, essendo la profonda solitudine la principale causa di abbandono da parte dei postulanti.
Come si può ancora una volta vedere (e questo è ancora più triste in un’ Istituzione che continua a condannare le unioni omosessuali), tra il dire e il fare c’ è di mezzo molto più che il mare.
Ma se anche cosi non fosse, se tutti fossero in grado di negare la parte costitutiva del proprio essere umano per dedicare a Dio un amore indiviso, il problema rimane comunque quello di una Chiesa che a tavolino decide il bene e il male per tutti e non si lascia cambiare dalla vita e dalle persone, a differenza di Gesù che invece non metteva nemmeno Dio e la sua legge al di sopra dell’ uomo.
Se lo spazio lo consentisse, vorrei raccontarle quanta verità ho trovato in certe pagine della letteratura. Sono propenso a pensare che la realtà della vita sia di gran lunga più debitrice all’ arte che non alla teologia.
Alberto Stucchi.
* la Repubblica, 28.02.2007, p. 18.