PIANETA TERRA. ETA’ DELLO SPIRITO .....

PROFEZIA E NUOVA ETICA PLANETARIA. IL PENSIERO DI ERNESTO BALDUCCI. Un saggio di Franco Toscani - a cura di Federico La Sala

sabato 20 dicembre 2008.
 


Etica planetaria e tensione escatologica nel pensiero di Ernesto Balducci

di Franco Toscani

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Indice:

1. Ripensamento del cristianesimo e critica dell’ideologia

2. La polarità homo editus / homo absconditus . Autonomia della coscienza e laicità

3. La modernità, l’Occidente e il problema dell’altro

4. Il marxismo, il pensiero ecologico e la “cosmopoli” balducciana

5. Dal “Prometeo scatenato” all’ “umanesimo planetario”. Per una svolta ecologica e antropologica

6. Francesco d’Assisi, l’interrogativo sulla salvezza e il “canto delle cose”

7. Povertà e letizia di Francesco nel mondo dell’opulenza. Cultura della guerra e nonviolenza

8. La profezia e la nuova etica planetaria

9. Il tema dell’Altro fra immanenza e trascendenza

10. Il Dio di Balducci fra il silenzio e la parola

11. L’eschaton e il futuro come “luogo di pienezza”

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1. Ripensamento del cristianesimo e critica dell’ideologia

Chi ha conosciuto la spocchia di certi baroni universitari, uomini di scienza e di pensiero sa bene quanto gli intellettuali possano essere arroganti, presuntuosi e illudersi di mettere coi loro sistemi e schemi le “brache al mondo”, credendosi di gran lunga superiori agli altri mortali. Nulla di tutto ciò in Ernesto Balducci, il padre scolopio in cui la parola lucida, rigorosa e razionale non era mai disgiunta da un profondo e concreto amore per l’umanità. Più precisamente, la sua intelligenza vigile e brillante era sempre al servizio dell’umanità calpestata e della dignità offesa dei più emarginati e indifesi.

Lo stesso Balducci, nel libro-intervista Il cerchio che si chiude (1986), risaliva alle radici autobiografiche di questo atteggiamento e ammetteva di aver vissuto dolorosamente la frattura col mondo popolare delle sue origini, quando da ragazzo entrò in seminario.

La frattura s’era ricomposta dopo aver “compiuto il cerchio” esistenziale, riprendendo i contatti a lungo interrotti e ritornando a imparare dal mondo operaio e contadino del suo paese natale toscano, Santa Fiora, sul monte Amiata: “Il cerchio si è risaldato con grande beneficio psicologico per me, pacificante e anche - capisco - un po’ scandalizzante. Le persone religiose sopravvissute in quel mondo mi guardano un po’ con meraviglia. Esse non capiscono che cosa voglia dire per me vivere in perfetta pace con le mie origini e con profondo rispetto per i modi umani con cui gli operai del mio paese hanno condotto le loro lotte” (1).

Ne L’uomo planetario (1990), nel mettere a punto la sua nuova identità di credente, Balducci ribadiva che “il vero culto di Dio è nell’essere di aiuto all’uomo” e parlava dell’uomo planetario come di un uomo post-cristiano, giungendo ad affermare: “La qualifica di cristiano mi pesa (...) Chi ancora si professa ateo, o marxista o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo” (2).

Entro tale prospettiva diveniva per Balducci di “fondamentale importanza il momento della teologia della croce, intesa non come legittimazione ed esaltazione della mortificazione e della sofferenza, ma come negazione delle potenze di questo mondo, quindi come principio contestativo delle potenze di questo mondo” (CC 146). Da questo punto di vista i veri nemici della croce non sono i cosiddetti infedeli e gli avversari del cristianesimo, ma sono quei cristiani stessi che nella loro pratica di vita si discostano di fatto dalla logica della croce (3).

L’ultimo Balducci mette in luce la “dimensione laica” del mistero della croce, consistente nel fatto che Gesù è rivelazione non solo di Dio, ma pure dell’uomo a sé medesimo. Il discorso sulla croce ha per il padre scolopio uno spiccato interesse antropologico, vuole essere un discorso accettabile da chiunque, dalle intelligenze laiche e dai non credenti che rimangono sul mero piano del discorso razionale, vuole dunque avere una portata rivoluzionaria e universale.

Il Dio della croce è nel Gesù e negli uomini che soffrono e stanno morendo; come dice Elie Wiesel ne La notte, il Dio misterioso e sconosciuto è rintracciabile nell’uomo legato al palo del campo di concentramento. Nella croce si rivela dunque il mistero di Dio, della sua rivelazione nell’assenza e della sua Alterità come pura oblazione; la croce è così “il luogo della transizione all’Altro” (4).

La straordinaria passione per l’uomo concreto ha impedito a Balducci di diventare un ideologo. Il suo pensiero è radicalmente anti-ideologico, opposto a qualsiasi integralismo, ateo, cattolico o marxista che sia, avverso a qualsivoglia chiusura settaria: “Lo vediamo anche nel mondo cattolico: l’integrismo è una fedeltà di tipo superficiale, una fedeltà all’immediata tradizione, non alle sorgenti” (CC 141).

Di fatto non c’è il cristianesimo, ma ci sono i cristianesimi, rigorosamente al plurale e il cristianesimo ha sempre oscillato, nella sua lunga storia, tra l’essere la religione del potere, del privilegio, del dominio e il suo più genuino, generoso slancio di fede nell’annuncio evangelico-messianico. Giustamente, a nostro avviso, Lodovico Grassi ha definito Balducci un “teologo non ‘gallonato’, ma sicuro e ortodosso” e ha parlato di una sua “cristologia non fondamentalista” (5).

Sin dal 1958, in uno dei primi numeri della sua rivista “Testimonianze”, Balducci è lucido nel riconoscere la impossibilità di ridurre il mondo dei credenti a posizioni univoche, nel contrapporsi al conformismo e alla “durezza di cuore” di certi uomini religiosi, “agli aridi formalismi e alle ottuse superstizioni in cui l’acqua pura della rivelazione ristagna nella debolezza umana”.

Riflettendo a partire dal carteggio tra Gide e Claudel, egli prende le distanze dai credenti che pongono la fede al servizio del proprio orgoglio smisurato, utilizzano il crocefisso come “un’arma contundente” e non riescono mai ad associare verità e carità. Contro tutto ciò, contro “lo spettacolo nauseante del cristianesimo borghese, soddisfatto e angusto, privo di fremiti e di eroismi”, egli propone di coniugare umiltà e fermezza: “così si impedisce al fervore di diventare settarismo” (6).

Disprezzando le etichette ideologiche, nella fase più matura del suo pensiero il padre scolopio mostrava di aver assimilato a fondo la lezione dei tre grandi “maestri del sospetto”, Marx, Nietzsche e Freud. Lui stesso si rendeva conto d’essere un personaggio scomodo per tutti, visto con sospetto dalla sinistra per il suo riferimento al tempo ultrastorico, alla “salvezza per antonomasia” e con altrettanto sospetto dalla gerarchia ecclesiastica per la sua insistenza sulla salvezza temporale: risultava fastidiosamente troppo cattolico agli occhi dei marxisti dogmatici e troppo marxista agli occhi dei cattolici integralisti (cfr. CC 149).

In realtà egli non ha elaborato altro, con tenacia e sino all’ultimo, che l’anti-ideologia della passione per l’uomo: per questo la sua opera risulta e continuerà a risultare fruttuosa per tutti, al di là di ogni ideologia di appartenenza.

2. La polarità homo editus / homo absconditus. Autonomia della coscienza e laicità

Balducci leggeva la pluralità delle culture e delle esperienze religiose alla luce della polarità, di ascendenza blochiana, tra homo editus e homo absconditus, affinché la riserva d’umanità insita nelle varie culture e religioni fosse finalmente posta al servizio dell’ “uomo planetario”. Dal punto di vista storico, le religioni hanno per lo più temuto e negato l’uomo inedito, si sono poste dalla parte dell’ “edito”, del senex contro il puer.

La polarità senex/puer è peculiare della “dimensione psichica” (“Quella del senex è l’aridità, l’astrazione, la passione per il calcolo, la riduzione della qualità a quantità; è la ripugnanza per la novità, per l’estro creativo; è l’esigenza dell’identità, dell’A=A; è il rifiuto del diverso, di quanto per qualsiasi motivo non rientri nella geometria dell’ordine. (...)quella del puer: l’entusiasmo per l’inizio, il gusto per il diverso, l’amore per la contraddizione, la divina follia che non sta negli argini prestabiliti” 7 ), mentre la polarità fra homo editus e homo ineditus si colloca sul piano storico, lungo l’asse evolutivo (cfr. TT 48-50).

Non possiamo identificare semplicisticamente l’uomo edito col male e l’uomo inedito col bene, perché pure l’uomo edito ha prodotto qualcosa di buono, come ad esempio le mirabili invenzioni tecniche e acquisizioni scientifiche. Male è soltanto l’assolutizzazione dell’umanità edita e la sua assunzione come “misura del poter essere” (cfr. TT 56). Noi possiamo progettare il futuro a partire dall’uomo edito oppure a partire dalle possibilità nascoste dell’uomo inedito, nella prospettiva dell’autogenesi, per riprendere una terminologia cara a Teilhard de Chardin (cfr. AL 84-86).

Ciò che possiamo chiamare la “memoria del futuro” non è però alla portata immediata di tutti, occorre saperla coltivare e predisporci a cogliere/accogliere tutte le possibili fecondazioni del futuro. L’umanità inedita è l’umanità possibile, in tensione verso il futuro e verso il proprio adempimento, verso nuove possibili forme della convivenza e della civiltà planetaria.

Commentando un passo della Prima Lettera di Giovanni, secondo cui “ancora non è stato manifestato quello che saremo, ma sappiamo che quando ciò sarà manifestato saremo simili a Lui perché lo vedremo quale Egli è” (1 Gv 3, 2), Balducci afferma che, come Dio è Deus absconditus, così anche l’uomo è homo absconditus: “Nessun nome è più funesto di quello di Dio quando diventa un dio edito, il dio del gruppo, della città, emblema e garanzia di ogni potere. L’uomo inedito lo sa e non ama nominarlo. Il vero Dio è un Deus absconditus, l’estremo corrispettivo dell’homo absconditus. La preghiera è, nella sua intima essenza, una silenziosa corrispondenza tra l’uomo sconosciuto e il Dio sconosciuto (...)” (AL 100. Cfr. anche AL 97).

L’“ansia del trascendimento” (cfr. TT 51) che caratterizza l’uomo inedito impedisce a ogni cultura e a ogni civiltà di ritenersi centrale ed esclusiva. Di qui viene un formidabile messaggio di speranza e di fiducia nelle molteplici vie aperte all’uomo di invenzione storica, di ampliamento e arricchimento delle sue possibilità di esistenza, dei suoi orizzonti di senso.

Nelle impostazionin storicistiche di qualsiasi tipo, il futuro appariva sempre garantito; nella nostra epoca, invece, esso è per noi solo “una pura ipotesi” (cfr. AL 85), posti come siamo dinanzi al pericolo della distruzione totale dell’umanità; per noi è possibile produrre nuova storia a partire dalle istanze etiche del messianismo evangelico e di tutti gli uomini di buona volontà, di tutti i popoli e le culture della terra.

Le religioni avranno in futuro peso e valore storico soltanto se perderanno le loro caratteristiche dogmatiche, se in esse s’esprimerà l’umana tensione al trascendimento, se daranno voce al multiversum dell’uomo inedito. C’è pure un Christus absconditus non coincidente affatto col Christus cognitus (cfr. TD 188).

V’è una “drammatica ambivalenza” delle religioni, poste fra il condizionamento ideologico-storico e l’ “afflato del trascendimento”. Su di esse pesa in permanenza l’ “insidia ideologica”, nel senso della “falsa coscienza” e della manipolazione delle coscienze individuate da Marx, in particolare il rischio dello spiritualismo, della evasione, della deresponsabilizzazione, della fuga mistica dalla storia (cfr. TT 125-128 e CC 134, 151).

Le religioni sono chiamate perciò al superamento della loro attuale forma storica, all’individuazione e al recupero del loro contenuto originario, al di là degli esiti delle culture e dei simboli storicamente determinati. A questo livello si pone, a nostro avviso, la forte vicinanza e sintonia tra i temi tipici della riflessione balducciana e quelli del cristianesimo post-religioso di Dietrich Bonhoeffer, come, soprattutto, il rifiuto del “Dio tappabuchi”, la forte rivendicazione dell’essere-per-altri proprio di Gesù, la piena accettazione della mondanità, l’assunzione integrale della responsabilità di questo mondo per l’adempimento dell’annuncio profetico di liberazione (8).

La distinzione tra fede e religione, cara a Balducci, è tesa alla salvaguardia delle possibilità vitali dell’uomo inedito. Il messaggio evangelico non coincide con la morale cattolica ufficiale, con le posizioni della chiesa, il suo dottrinarismo e le sue leggi.

La fede non è “religiosità superstiziosa” o “meschina proiezione dei nostri bisogni”, “non è una cognizione in più nei confronti degli altri”, non va vissuta alla maniera consolatoria e compensativa, ma è “principio critico” anche della religione, scelta libera e “dialogo con un Tu che ci parla attraverso gli eventi stessi”, nella direzione dell’ulteriorità di senso, dell’inesauribilità della verità, di “Qualcuno che è oltre” (cfr. TD 18, 96, 119, 160).

Quella della fede è una “parola incredibile” e paradossale, che non offre ricompense, consolazioni, garanzie e certezze precostituite; essa si avvolge di e insieme dissolve le forme religiose, va vissuta nell’alternanza ineludibile di paure, dubbi e speranze, con umiltà, senza presunzione e saccenteria, come un servizio, un dono che apporta nuovi e generosi doni, non come un privilegio di potere o come “l’evidentissima conclusione di un teorema” (9).

Anche il cristianesimo è divenuto una religione storicamente determinata, cristallizzatasi in ideologia. Il soprannaturalismo e lo spiritualismo che al suo interno lo insidiano fanno sì che il messaggio di salvezza non parta dai bisogni degli uomini concreti e dai pericoli reali che oggi tutti corriamo, dal grande insegnamento di ciò che Hans Jonas, nel suo Das Prinzip Verantwortung (Il principio responsabilità, 1979), ha chiamato “euristica della paura”. Quest’ultima non corrisponde affatto a un elogio indiscriminato della paura, non conduce alla rassegnazione e all’inazione, a una forma di catastrofismo a buon mercato, ma in essa l’evocazione della “profezia di sventura (10)” serve proprio, innanzi tutto, a non sottovalutare e a tentare di scongiurare il pericolo che si prospetta.

Se il cristianesimo si è trasformato, specie nelle sue forme ed espressioni ufficiali, in ideologia, pure a esso necessita una metanoia, una conversione radicale che gli permetta un riattingimento più autentico del messaggio evangelico, in virtù del quale il servizio all’uomo sia proprio servizio a tutti gli uomini, non solo e non tanto - come vogliono le posizioni integralistiche e fondamentalistico-dogmatiche - ai cristiani o alla pura idea astratta di universalità umana.

C’è una pagina de Il cerchio che si chiude in cui l’autore dice che la chiesa non ha risposte risolutive ai problemi della vita familiare e sessuale e ammette la sua personale difficoltà a fornire soluzioni esistenziali nei colloqui privati. Tale difficoltà, però, costituisce al tempo stesso un incentivo a nutrire più fiducia nella libertà e autonomia della coscienza: “Dobbiamo ridare alle coscienze una dignità inventiva, creativa” (CC 150).

Balducci rivalutava così ciò che Gandhi chiamava la “piccola silenziosa voce della coscienza” come la voce dell’homo absconditus abitante “dentro la molteplicità dell’uomo edito, con le sue morali, le sue religioni, le sue ideologie” ( cfr. TT 175). Pochi come Balducci sono riusciti a parlare della coscienza - parola-chiave che ha risuonato molto spesso nei suoi scritti e discorsi - in termini così stimolanti, efficaci e non coscienzialistico-idealistici.

In lui la coscienza è, nella sua libertà creativa, “l’organo del futuro” (cfr. TD 184-191), delle nuove possibilità della storia umana. Tra la coscienza e la legge, tra lo Spirito e la lettera sono la coscienza e lo Spirito che contano di più, perché là dove soffia lo Spirito cresce la libertà vivificante e anche “il santo Vangelo non dice nulla se non passa attraverso la testimonianza, il modo di esistere” (cfr. TD 185-188).

Proprio a questo livello dell’autonomia della coscienza, della sua capacità critica e libertà rispetto a tutte le forme opprimenti di mediazione, possiamo rintracciare il senso genuino d’una nuova laicità, ben differente dal laicismo borghese o piccolo-borghese impastato di cinismo e di opportunismo, che ha già dato ampia prova di sé; si tratta qui piuttosto di una nuova laicità caratterizzata dalla lucidità razionale, dalla spregiudicatezza e da una grande apertura intellettuale, oltre che da un’istanza etico-politica imprescindibile.

3. La modernità, l’Occidente e il problema dell’altro

Nel gran parlare di questi ultimi decenni, spesso confuso e oscuro, di modernità e post-modernità, la riflessione sviluppata da Balducci in testi rilevanti come L’uomo planetario e La terra del tramonto ha senza dubbio, fra gli altri, il pregio della incisività e della chiarezza. Secondo l’autore, la crisi della modernità riguarda essenzialmente l’autocoscienza dell’Occidente, che nella sua storia ha proposto la propria identità come assoluta, fondandola sul rifiuto dell’altro-da-sé, sul mancato riconoscimento della dignità e legittimità di altre culture e civiltà. Un solo tipo, una sola forma di umanità è stata considerata e privilegiata.

Ma l’uomo europeo-occidentale non è l’uomo come tale, non risolve nella propria storia - nonostante la sua “soggettività iperbolica” - la storia del mondo. Contrariamente alle sue credenze e aspettative, egli si ritrova impoverito dalla sistematica esclusione e negazione dell’altro, con cui ha costruito la sua nozione di progresso e di storia.

La nostra civiltà faustiana mostra evidenti segni di contraddizione e di disagio, non ha al suo interno - nonostante il frenetico attivismo (Robert Musil lo chiamava, ne L’uomo senza qualità, il “vuoto dinamismo del giorno”) - vera animazione, perché il senso del tutto è confinato in alcune parti, non circola più nell’intero.

La nostra civiltà vive nell’opulenza e, nel contempo, sconta un proprio peculiare “tempo di povertà”, un’interna crisi di senso e di direzione del vivere. La crisi dell’uomo edito non è solo di tipo economico o politico, ma è di proporzioni gigantesche, è crisi epocale e antropologica che investe l’intero modo d’essere dell’uomo nel mondo e i suoi rapporti con gli altri uomini, gli esseri viventi tutti, le cose, la natura, la verità.

Nelle ultime omelie balducciane si avverte una sofferta consapevolezza della moltiplicazione dei segni del deserto che avanza, si accenna alla “patologia collettiva”, alla “spinta politicamente reazionaria” destinata a non esaurirsi brevemente, al degrado del tessuto morale e civile, all’idolatria e all’abuso del potere, all’avidità di ricchezza e al culto del denaro, all’imporsi dell’ “individualismo utilitaristico”, alla devastazione ambientale, alla crescente diffusione della xenofobia e del razzismo, del cinismo e dell’opportunismo, etc. (cfr., ad esempio, TD 125, 149-151, 177), tutti fenomeni tipici delle cosiddette società sviluppate.

Il male nel quale si radica l’esistenza umana sembra dotato di una forza incoercibile e ostinata, l’interrogativo sul male si ripropone sempre di nuovo, irrisolto e forse irrisolvibile. La riflessione balducciana si sviluppa allora in modo inquieto sull’identità oggi in questione dell’Occidente: “Noi siamo, dal punto di vista antropologico, in una dura esperienza del tramonto” (AL 77); si tratta di vivere sino in fondo l’esperienza del tramonto per trovare l’accesso ad una nuova possibile alba della storia umana. L’esigenza di un nuovo “umanesimo planetario” si fa allora pressante, agli occhi di Balducci, sia per il crescente inaridimento che minaccia la nostra civiltà sia per affrontare il divario abissale e vergognoso di ricchezza e di potere tra Nord e Sud della Terra.

Rivestendo forzatamente ed esclusivamente la pelle bianca, la Ragione si è un po’ logorata, nonostante le sue smanie e illusioni di potenza. Che avvenne con la scoperta di Colombo? In estrema sintesi questo: “L’uomo incontrò l’uomo e non lo riconobbe, come dire: l’uomo incontrò se stesso e non si riconobbe, avviando così una tragica alienazione che solo in una autentica età planetaria potrà essere pienamente risanata” (11).

Balducci scommette perciò sul superamento del paradigma eurocentrico: “La fine della modernità implica anche la fine di quel monologo culturale che ha impedito finora all’uomo occidentale di percepire l’altro come tale e di stabilire con lui un rapporto di autentica reciprocità” (TT 68).

Dinnanzi all’Occidente si prospetta un radicale aut-aut: integrazione, condivisione, solidarietà, società conviviale e accogliente oppure logica dello scontro, muro contro muro, netta separazione tra “noi” e “loro”, diffidenza, disprezzo, odio, violenza, guerra. La crisi e la fine del paradigma eurocentrico derivano, secondo Balducci, dalla stessa situazione oggettiva delle risorse energetiche e degli equilibri vitali del pianeta, che non rende possibile l’estensione illimitata del modello di sviluppo occidentale (cfr. TT 22, 63).

Il fondatore di “Testimonianze” individua il “punto aporetico”, il “vicolo cieco” della modernità nel modo seguente: “la cultura dell’uomo moderno è universale perché di tappa in tappa ha maturato frutti che sono per tutti gli uomini; la cultura moderna non è universale perché la sua diffusione ha portato con sé la negazione, spesso violenta, delle altre culture. Dall’antinomia si esce solo stabilendo, senza più perderla di vista, una premessa: quella elaborata dalla cultura moderna è un tipo di umanità tra innumerevoli tipi possibili” (TT 26).

Dobbiamo stare attenti a non scambiare questa critica implacabile dell’eurocentrismo con il rifiuto totale dell’Occidente e della sua cultura. Non è così, non soltanto perché Balducci era ben consapevole delle perle e dei tesori presenti nella storia della cultura occidentale - pensiamo soltanto, per limitarci a un esempio, alla sua valorizzazione della figura di Erasmo da Rotterdam, alla base della “cultura della pace” dell’Occidente -, grazie ai quali veniva e viene facilitato il dialogo, l’apertura, il confronto critico fra le diverse culture; ma anche e soprattutto per la consapevolezza della dissociazione interna e del carattere bifronte dell’Occidente, della sua oscillazione tra universalismo astratto e universalità concreta, tra riconoscimento e negazione dell’altro.

Premesso che il recupero, la rimessa in discussione e la ridefinizione della nostra identità passano doverosamente attraverso il riconoscimento dell’alterità, Balducci rifiuta esplicitamente ogni “passione masochista per la negazione di ciò che noi siamo”, ogni “indigenismo” e “etnocentrismo rovesciato”, ogni “vergogna di essere occidentali” e “mimetismo infantile delle soggettività altre” (cfr. AL 48 e 83-84).

Serve un’universalità concreta che ammetta al suo interno la libera esplicazione delle differenze, che sia fondata sull’eguaglianza nella diversità e sulla diversità nell’eguaglianza. La cultura occidentale ha elaborato alcuni principi, idee e valori - come il primato della coscienza in rapporto alla legge, la nozione di stato di diritto, la democrazia e i diritti umani -, che vanno senz’altro assunti pienamente nella cultura in via di formazione dell’uomo planetario. L’uomo occidentale ha in sé un “afflato universale” quando elabora la cultura dei diritti umani, ma ha finito col negare queste sue stesse premesse universalistiche imponendo all’altro-da-sé la sua strategia di dominio e sfruttamento (12).

Vi è a questo proposito un nodo strutturale su cui far leva, riguardante la scienza e la tecnica. A creare le condizioni strutturali dell’uomo planetario che sta faticosamente e contraddittoriamente nascendo sono proprio - senza nulla concedere allo scientismo e alla feticizzazione tecnologica - la scienza e la tecnica (o, meglio ancora, la tecnologia), i cui risultati e conquiste rappresentano, nonostante la loro ambivalenza, un grande e possibile apporto della cultura occidentale alla cultura in fieri dell’uomo planetario.

Qui Balducci prende le distanze dall’ “ecologismo ingenuo”, in preda alla “nostalgia di una natura materna”, desideroso di “un ritorno a una specie di infanzia del mondo”. Esso “dimentica che questa terra incantata non è mai esistita, che gli dèi che dormono nelle cose sono anche dèi funesti che nascondono minacce per l’uomo e che in ogni caso la comunione a cui dobbiamo tendere è quella resa possibile dalla grande svolta tecnologica” (TT 191-192).

Scienza e tecnologia sono e saranno cariche di frutti e di futuro per tutti se si svincoleranno dalla cultura della competizione e del dominio in cui si sono sviluppate sinora, se s’instaurerà un rapporto di maggiore compatibilità fra tecnologia e ambiente, se si porrà attenzione alla salvaguardia della biosfera, se l’homo faber non riassorbirà più completamente in sé l’homo sapiens e si ricongiungerà all’homo ludens, superando l’ideologia dell’homo oeconomicus. Occorre dunque riscoprire un nuovo senso della praxis, al di là del prassismo prometeico, furioso e cieco dell’Occidente.

In questa direzione il pensiero di Balducci era fortemente interessato, sensibile e aperto a certi temi della cultura orientale, ad esempio al principio taoista del wu wei, il “non agire” che non è passività e inazione, ma agire semplice e concreto, modesto ed efficace, ponderato e responsabile, libero e spontaneo (13) . L’interesse e l’attenzione al pensiero orientale sono in lui di lungo periodo e sono testimoniati pure dalla pubblicazione, nel 1986, dei tre volumi della Storia del pensiero umano, dove la storia della filosofia non viene ridotta allo studio della storia del pensiero occidentale, ma viene dato ampio spazio alla storia del pensiero orientale (14).

Anche nel saggio Elogio (penitenziale) del silenzio (1991), citando il “sermone dei fiori” di Buddha, l’autore sottolinea il valore della “grande scuola del silenzio” rappresentata dal buddhismo zen, “che prima o poi, in una forma o in un’altra, l’uomo occidentale dovrà decidersi a frequentare” (AL 95), se vorrà fare i conti con la propria furia prassistica e frenesia produttivistico-consumistica.

Il limite del pensiero orientale consiste per Balducci nell’affidarsi a un Assoluto impersonale, ad un universale senza soggetto, in cui - a suo dire - si dissolve il senso essenziale della relazione Io-Tu, del rapporto con l’Alterità (cfr. AL 58); della cultura orientale, inoltre, egli non condivide alcune ambiguità e alcuni esiti irrazionalistici, mistici, di fuga dalla storia.

Nei suoi ultimi anni Balducci metteva in guardia sempre più spesso - con accenti simili a quelli che troviamo in Das Prinzip Verantwortung di Hans Jonas - circa il primato dell’homo faber, peculiare della modernità occidentale e l’affermazione d’una nozione impoverita, unidimensionale di uomo, l’homo oeconomicus del consumismo e del produttivismo, dell’efficientismo e del mondo totalmente amministrato, obbediente alla logica della ratio strumentale-calcolante, che riduce le cose a semplici merci e a materiale di consumo, a meri mezzi per l’uso dell’uomo, a sua volta ridotto essenzialmente a produttore, consumatore, funzionario delle merci e del capitale, del denaro e della tecnica, Menschenmaterial, materiale umano impiegabile e illimitatamente sfruttabile.

4. Il marxismo, il pensiero ecologico e la “cosmopoli” balducciana

Le suddette caratteristiche di economicismo e produttivismo, efficientismo e funzionalismo non si sono rivelate esclusive del capitalismo e del neoliberismo, ma in forme diverse hanno contraddistinto largamente pure il marxismo, soprattutto nelle sue versioni ufficiali e dominanti.

Neoliberismo, ideologia capitalistica e comunismo, al di là delle loro evidenti differenze, si scoprono interni al medesimo paradigma della modernità, alle categorie dell’industrialismo, al comune progetto teso al dominio tecnologico della natura, a quella religione del progresso tecnologico il cui dogma è stato quello di credere in un rapporto meccanico mezzi/fini. L’ideologia borghese e quella proletaria sono rimaste interne al medesimo presupposto del modello di sviluppo economico e sociale approntato dalla rivoluzione industriale.

Per il Marx del Manifesto del 1848, la civilizzazione borghese indica la strada obbligata da percorrere alle “nazioni più barbare”. Egli vedeva nella contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti capitalistici di produzione la contraddizione fondamentale che avrebbe determinato, con l’inflessibilità di una legge naturale, l’avvento del socialismo.

In tal modo il marxismo si è risolto in economicismo ed è rimasto irretito nell’eurocentrismo: “Marx sconta il limite specifico dell’antropologia moderna, che è la identificazione del senso dell’uomo col suo dominio sulle cose (...) nel presupposto che l’uomo si realizza nella manipolazione tecnica della realtà, quasi fosse una manipolazione in se stessa neutra, proseguibile all’infinito. Il dominio ha finito col diventare, mediato dalla tecnica, il vero soggetto della storia (...). Proprio per questo sono cadute nell’insignificanza, anche agli occhi dei marxisti, sia le forme di esperienza estranee alla logica produttiva sia le forme di umanità che non hanno ancora vissuto la rivoluzione industriale”(15).

Poco o per nulla attenti ai lati ludico-estetici e contemplativi, Marx e il marxismo non hanno preso in considerazione gli aspetti di gratuità e di non strumentalità del rapporto uomo/natura, ridotto essenzialmente all’aspetto tecnico-produttivo. Inoltre il proletariato industriale occidentale non ha più quel ruolo trainante che doveva avere secondo la visione originaria di Marx, perché - oltre alla mutata composizione di classe e alle trasformazioni cui è andata incontro la società capitalistica dal XIX al XX secolo - esso è rimasto “interno al Panopticon”, “associato dal capitalismo alla spartizione del profitto (un profitto che, visto sul parametro planetario, è rapina)” e ha ereditato il pregiudizio etnocentrico proprio della cultura borghese; lo stesso Marx rimane interno al paradigma eurocentrico della modernità (cfr. UP 170, AL 56 e 81).

Balducci sostiene la piena attualità della teoria marxiana del feticismo delle merci, recupera il Marx (quello dei Manoscritti economico-filosofici del 1844) critico dell’ alienazione capitalistica e della espropriazione della soggettività, ma dà a queste formulazioni un senso nuovo e più ampio, non limitato all’uomo: l’alienazione colpisce infatti ormai, come c’insegna l’odierna coscienza ecologica, la stessa biosfera (cfr. TT 161 e 186).

Del marxismo non va quindi fatta un’assunzione acritica, ma - nella misura in cui riesce a proporsi come punto di vista degli emarginati e degli oppressi e in esso rimane custodito il “sogno di una cosa” caro al giovane Marx - vanno riprese e rinnovate - proprio dopo il salutare crollo dei regimi comunisti oppressivi dell’Est - la critica dell’alienazione e l’istanza di liberazione umana in esso presente.

Sin da Il terzo millennio. Saggio sulla situazione apocalittica (1981), Balducci - analogamente al Sartre delle Questions de méthode e della Critique de la raison dialectique (1960), che aveva considerato il marxismo l’orizzonte filosofico insuperabile dell’epoca - aveva ritenuto il marxismo come “l’unica vera cultura dell’alternativa storica” (16) , sensibile all’urgenza di un progetto di radicale cambiamento del mondo, ritenendolo però inadeguato ad affrontare i complessi problemi della civiltà contemporanea per i palesi limiti della sua cultura antropologica.

Il sogno della congiunzione fra giustizia e amore può avverarsi solo assumendo come punto di partenza la giustizia, “presupposto fondamentale dell’amore” (cfr. TD 83). La giustizia nasce come fioritura interiore non concepita solo in riferimento ai principi giuridici (cfr. TD 27), ma come profonda esigenza di coscienza, vissuta nella responsabilità per l’altro e per la comune umanità.

La evidente crisi del marxismo deve condurre ad un suo profondo ripensamento teorico-pratico e a una sua rifondazione radicale: “Se non si ripensa radicalmente, mediante una specie di morte a se stesso, anche il marxismo è un relitto del passato. Il che non vuol dire (...) che il marxismo debba essere abbandonato. La novità è un’altra: (...) non ci si converte più al marxismo come a un punto di vista totalizzante. Anzi, non ci si converte più a nessuna forma spirituale tra quelle esistenti, dato che in ciascuna è accaduto l’evento drammatico della decadenza nella relatività” (UP 170-171).

Vanno portate avanti, dopo la caduta dei regimi burocratici neo-stalinisti, le istanze di libertà, di giustizia sociale e di eguaglianza presenti nel pensiero di Marx, saldandole coi nuovi imperativi posti dalla drammaticità della questione ambientale e operando in direzione di un rinnovato progetto etico-politico di cambiamento della civiltà.

Scrive Balducci con efficacia, a questo proposito, ne La terra del tramonto: “Come non pensare, in questo momento, alla luce di consapevolezza che Marx ha fatto scendere nella moltitudine degli oppressi di tutto il pianeta? Chi potrebbe dire che quella era la luce di un’illusione? Chi potrebbe dire che il sogno antico di quelle moltitudini si sia dissolto col dissolversi dei burocrati e dei dottrinari che in nome di Marx lo avevano tradotto in una calotta glaciale?” ( TT 195).

Sul piano politico si tratta di uscire dalle secche dell’esistente e di considerare, rispetto alla vecchia centralità operaia e alle macchine burocratiche dei partiti-stati, la rilevanza notevole dei movimenti della società civile, capaci di stimolare e di premere sulle istituzioni, di proporre nuovi modi e forme della praxis politica, di cui v’è un gran bisogno. L’obiettivo di fondo è una civiltà più fraterna, solidale e conviviale, la riconciliazione dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con la natura; l’ispirazione è la passione e la premura per l’uomo, per il bene comune, attraverso una conversione del cuore e della mente (cfr. TD 25, 182).

Senza voler e poter offrire indicazioni operative immediate, Balducci ribadisce che ogni “ragion di stato” deve subordinarsi d’ora in poi alla “ragione di umanità”, essendo il nuovo soggetto storico in via di formazione, finalmente, l’umanità planetaria. Qui l’individuo non è più soltanto cittadino di uno stato, ma in senso lato pure membro della specie; vi è una duplice appartenenza, al proprio paese e al pianeta intero. Questa è l’idea di fondo della “cosmopoli” di cui nei suoi ultimi anni il padre scolopio parlava.

Il progetto balducciano d’una comunità mondiale, di una civiltà dell’uomo planetario, di una federazione internazionale degli stati, di poteri sovranazionali si pone in esplicita continuità con le considerazioni svolte nel 1795 da Immanuel Kant in Zum ewigen Frieden (17) e può apparire, proprio come lo scritto kantiano di oltre due secoli fa, anacronistico e velleitario nel momento in cui le spinte dei nazionalismi e delle rivendicazioni etniche si ripropongono ancora, talvolta con forza e in modo inquietante, in varie parti del pianeta. Tale progetto è certamente utopico, ma probabilmente si tratta di quell’ “utopia concreta” di blochiana memoria di cui abbiamo e ancor più avremo nel futuro bisogno, come del pane, per poter sopravvivere come specie.

5. Dal “Prometeo scatenato” all’ “umanesimo planetario”. Per una svolta ecologica e antropologica

Nelle ultime opere di Balducci ritroviamo con insistenza il riferimento all’insegnamento della scienza ai fini della stessa auto-comprensione dell’uomo, di una sua nuova percezione di sé. Naturalmente, si tratta di capire bene il senso di questo riferimento essenziale, che avviene senza alcuna assolutizzazione del sapere scientifico, senza alcun mito della “neutralità” della scienza, insomma senza in alcun modo assumere la prospettiva dello scientismo, al quale rimarranno sempre impenetrabili quei “segreti delle cose” di cui parlava Francesco d’Assisi (18), dischiusi invece a molte persone semplici e umili.

La critica scientifica ha il merito di distruggere la religione in quanto superstizione e di porre lucidamente l’uomo di fronte alla sua precarietà (cfr. UP 174). I risultati della scienza ci consentono di capire che la natura è indifferente all’esistenza umana, che noi non siamo affatto al centro del cosmo, anzi del multiverso; c’insegnano la contingenza radicale della vita umana, che ogni finalismo è un residuo antropomorfico, che il nostro pianeta è un “cantuccio cosmico”, una “nicchia” nella quale ci siamo volentieri illusi circa la nostra centralità (cfr. TT 103-104 e 158).

Nei mirabili versi di un grande poeta americano, Wallace Stevens, risalta con forza il senso anti-antropocentrico dell’esistere e dell’essere: “C’è un progetto del sole. Il sole, ghirigoro d’oro,/Non sopporta alcun nome, ma è/ Nella difficoltà di ciò che essere è./ (...) Le nuvole vennero prima di noi,/ C’era un centro informe prima che noi respirassimo./ C’era un mito prima che il mito iniziasse,/ Venerabile, e articolato, e completo./ Di qui sgorga la poesia: viviamo in un luogo/ Che non è nostro, e, molto di più, non è noi,/ Ed è cosa crudele malgrado i giorni di gloria” (19).

Scrive Balducci con parole pesanti, inusuali sulla penna d’un religioso, dagli accenti quasi esistenzialistici: “La nostra solitudine è senza scampo ed è senza fondamento la nostra immagine umanistica dell’uomo e dell’universo. Dio (il dio principio di spiegazione dell’universo) è morto e con lui sono morti i suoi pseudonimi come il Cosmo e la Natura. Senza volerlo, la scienza ci ha messo addosso un cilicio che potrebbe anche avvezzarci a una umiltà creaturale da cui potrebbe aprirsi davvero una nuova storia dell’homo sapiens” (TT 105). Il sapere-potere di stampo baconiano, al fondamento della modernità, sta entrando in crisi e in discussione. Il potere prometeico scatena la “rappresaglia degli dei”; la natura si vendica dei soprusi subiti.

Il “collasso” della natura evidenzia il crollo irreversibile della fede nel progresso illimitato, caratteristica della modernità. Balducci è perfettamente d’accordo con Hans Jonas, secondo il quale la potenza tecnologica accumulata è diventata pericolosa per l’uomo: “Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo” (20).

La crisi del paradigma classico della ratio strumentale-calcolante, del progetto umano del dominio illimitato sulla natura rende necessario il passaggio al nuovo paradigma della complessità, ad un sapere non meramente analitico, ma sistemico, capace di cogliere i nessi fra le cose.

Nell’ “olismo” del pensiero ecologico contemporaneo, Balducci vedeva salvaguardato il principio di relazione, il bisogno e il rinvio reciproco fra le parti, la fecondazione e il dialogo fra le diverse culture, il superamento dei dualismi metafisici tipici della tradizione di pensiero occidentale.

Non si dà più un Soggetto ipostatizzato, il primato di un elemento isolato, un io contrapposto alla natura, uno spirito che supera infinitamente la materia, etc. . Nella nuova visione, l’interconnessione di tutte le cose si pone come garanzia di un modo diverso di abitare il pianeta.

Nelle parole d’oro di un epigramma di Friedrich Hölderlin, intitolato Wurzel alles Uebels, tutto ciò viene espresso così: “Einig zu seyn, ist göttlich und gut; woher ist die Sucht den/ Unter den Menschen, dass nur Einer und Eines nur sei?” (“E’ cosa divina e buona essere uniti; donde viene dunque il morboso bisogno/ Tra gli uomini, che solo una persona, solo una cosa sia?”)(21).

La nuova etica della interdipendenza delle cose insiste sul “tessuto di reciprocità” che lega tutti gli enti fra loro, non è più antropocentrica ma planetaria, è preoccupata della sorte della biosfera e consapevole del riferimento essenziale della specie umana al sistema ecologico nel suo complesso. Teologia ed ecologia si tendono qui la mano in modo davvero inedito, la teologia è chiamata a nuovi compiti e responsabilità: “oggi avere a cuore le cose del Padre vuol dire avere a cuore niente meno che le foreste, i fiumi, i laghi, i mari che sono in rovina” (TD 54).

Balducci parla della necessità di una “premura amorosa” non solo per la specie umana, ma verso ogni forma di vita. La base anti-antropocentrica dell’ “umanesimo planetario” da lui sostenuto è la solidarietà biologica con tutti gli esseri viventi (cfr. TT 30, 48, 161 e UP 8).

Ritorna di estrema attualità un detto di uno dei sette sapienti dell’antica Grecia, Periandro corinzio: “meleta to pan” (“Prenditi cura del tutto in quanto tutto”), che sarebbe stato pronunciato, secondo Martin Heidegger, “in una sorta di presentimento” (22).

L’etica planetaria ha per “mantello cosmico” la biosfera, la cui salvaguardia è indispensabile non solo alla sopravvivenza, ma anche alla dignità di un uomo che si riconosce dentro, non sopra il tessuto di relazioni che costituisce il mondo e non si concepisce più come il padrone delle cose, divenendo piuttosto il custode di quella “comunione creaturale” così ben intravista da Francesco d’Assisi (cfr. FR 137).

Qui Balducci potrebbe ripetere con Gregory Bateson: “Stiamo imparando sulla nostra pelle che l’organismo che distrugge il suo ambiente distrugge anche se stesso” (23).

Decisiva è la consapevolezza dell’interdipendenza e dell’interconnessione, del legame essenziale che unisce fra loro tutte le cose, ad esempio la nuvola e il libro. Scrive a questo proposito il buddhista vietnamita Thich Nhat Hanh (esplicitamente citato ne La terra del tramonto), risolvendo la nozione di essere in quella di inter-essere: “Un poeta, guardando questa pagina, si accorge subito che dentro c’è una nuvola. Senza la nuvola, non c’è pioggia; senza pioggia, gli alberi non crescono; e senza alberi, non possiamo fare la carta. La nuvola è indispensabile all’esistenza della carta. Se c’è questo foglio di carta, è perché c’è anche la nuvola. Possiamo allora dire che la nuvola e la carta inter-sono” (24).

La nuova collocazione e la nuova dignità dell’uomo consistono allora nel suo essere il punto estremo di autoconsapevolezza della correlazione necessaria e della catena di reciprocità che stringono tutte le cose fra di loro.

6. Francesco d’Assisi, l’interrogativo sulla salvezza e il “canto delle cose”

L’umanesimo del dominio prevede la dipendenza gerarchica fra gli esseri, non vede i nessi che legano fra loro tutte le cose, stabilisce una netta differenza tra cose alte e basse, umili e nobili.

Esso è “una rigida gabbia centrata sull’uomo - vero Prometeo che ha rapito agli dèi il segreto del potere e del sapere - (che) favorisce sul piano pratico l’atteggiamento di chi, di fronte a una pianta, a un animale o a un evento che, a suo giudizio, non servono a niente, decide di sopprimerli, o fisicamente o mentalmente. Perché l’uccello canta? Si domanda l’etologo. Per affermare il suo dominio su quel territorio, risponde, togliendoci ogni diritto alla commozione. E così pian piano si è spento attorno a noi il canto delle cose, quel libero gioco che chiede, a chi l’osserva, il tributo primordiale dello stupore” (FR 153. Cfr. anche Le rappresaglie degli dei, cit.).

L’umanesimo del dominio, tutto preso dalla furia prassistico-progressistica, rigetta la preziosa coscienza del limite e non tiene conto della legge dell’entropia che governa e condiziona il destino umano. Per garantire il futuro della specie, occorrono nuovi modelli di umanità, come quelli incarnati in Francesco d’Assisi e Gandhi: “I modelli di umanità che eravamo soliti esaltare diventano funesti perché la loro imitazione implica un grande sperpero di energia; gli uomini del futuro o saranno, come Francesco o come Gandhi, non entropici, o semplicemente non saranno” (FR 138. Cfr. anche TT 116-118).

Nel suo libro Francesco d’Assisi, cercando di pensare a fondo la nostra epoca del pericolo estremo, Balducci ripensa lo straordinario verso di Patmos di Hölderlin - molto caro pure a Heidegger - che suona: “Wo aber Gefahr ist, wächst/ Das Rettende auch” (“Ma là dove c’è il pericolo, cresce/ Anche ciò che salva”) (25). Ma che è “ciò che salva”? Heidegger rispondeva, com’è noto, col suo misticheggiante e deresponsabilizzante “Nur noch ein Gott kann uns helfen” (“Ormai solo un Dio ci può salvare”) (26).

In modo assai discutibile e riduttivo, pervenendo a un giudizio liquidatorio sommario francamente ingiusto e inaccettabile ai nostri occhi, Balducci metteva qui in questione tutta la “linea del pessimismo antropologico”, che da Schopenhauer passa attraverso Nietzsche - definito in modo scorretto e fuorviante come un pensatore ineffabile filosoficamente e antropologicamente pessimista, un irrazionalista incapace di ragionamento sereno e sospinto solo dall’ “ebbrezza poetica” -, Heidegger e giunge sino alla stagione e alla temperie culturale del cosiddetto “pensiero debole”.

Egli interpretava la celebre frase citata poco sopra di Heidegger come “un modo dissimulato di enunciare l’inevitabilità della catastrofe”, considerandola interna a quella tradizione filosofica occidentale in cui “al pensiero si contrappone il pensiero, (...) sempre in una sfera distaccata dal reale, dalla condizione concreta dell’umanità” (27).

Anche su Heidegger il giudizio di Balducci è piuttosto sbrigativo e liquidatorio; il pensatore tedesco gli appare solo come un eccentrico nichilista in cui l’ultima parola è affidata solo all’angoscia e al nulla, ma in questo modo sfuggono interamente a Balducci alcuni fondamentali aspetti del pensiero heideggeriano - come la critica dell’umanismo metafisico e del mero “pensiero calcolante”, la tematizzazione della questione della tecnica e del dominio del Gestell, il nesso poesia-pensiero, il rapporto tra pensiero occidentale e pensiero orientale, per fare alcuni esempi -, il cui approfondimento avrebbe giovato - credo - alla sua stessa meditazione.

La stessa insistenza con cui Heidegger si è interrogato sul significato della “salvezza” indicata da Hölderlin e sul senso complessivo della poesia hölderliniana avrebbe dovuto spingere Balducci a non considerare scontato l’esito catastrofico e nichilistico del pensiero heideggeriano, che in realtà, nella sua fase più matura, ha cercato strenuamente le vie di un pensiero post-metafisico in grado di consentire un modo più fruttuoso di abitare il pianeta (si pensi solo al tema del Geviert e alla intimità dei Quattro: cielo, terra, mortali, divini).

Sta di fatto che all’interrogativo hölderliniano (e heideggeriano) su “ciò che salva”, Balducci rispondeva nel modo seguente: “ciò che salva è la naturale parentela di tutte le creature, rimasta occultata da una storia, sia biologica che culturale, in cui la legge decisiva è stata, e resta, quella della lotta per la vita” (FR 139).

Balducci non nega qui il ruolo avuto dalla competizione e dalla lotta per la vita nell’evoluzione delle specie, ma ad uno sguardo più profondo ci accorgiamo che s’è rivelato altrettanto necessario il rapporto di “complementarietà” fra le specie (cfr. FR 139). Comprendere ciò è il punto d’avvio per smascherare la presunta eterna verità della legge secondo cui homo homini lupus.

Ciò che salva è dunque, sulla base d’una nuova presa di coscienza, un cambiamento radicale dell’atteggiamento, del modo di vivere e di pensare: non si tratta qui di una nuova dottrina, teoria o ideologia, ma ad esempio di azioni giuste, sentimenti, gesti affettuosi e solidali, parole ispirate a lucidità e sgorganti dal cuore.

7. Povertà e letizia di Francesco nel mondo dell’opulenza. Cultura della guerra e nonviolenza

Di qui il richiamo di Balducci alla “povertà” e sobrietà di vita di Francesco d’Assisi, oltre che all’ “autoregolazione dei bisogni e dei consumi” di Gandhi (28). Per dirla con Erich Fromm, va finalmente privilegiata l’ottica dell’“essere” su quella dell’ “avere”. La provocazione di Francesco è una sfida difficile e in apparenza disperata, non può che suscitare irrisione nel mondo dell’opulenza, che tende irresistibilmente allo sfondamento di ogni limite, vive nel consumismo esasperato e nello spreco permanente, non vuol saperne e anzi concepisce come assurdo il solo parlare di senso del limite e della misura, di saggezza e sobrietà. La figura di Francesco d’Assisi viene letta all’interno della nuova consapevolezza ecologica della comunione creaturale, in cui la terra diviene la casa, l’abitazione di quei viandanti che noi stessi siamo, ora avvertiti di ciò che comporta il suo degrado e saccheggio.

Si tratta di intendere bene, soprattutto in riferimento al “tempo di privazione” peculiare della società opulenta occidentale, il senso della “povertà” qui evocata, che non significa elogio della rinunzia e del sacrificio, ma nuovo senso della fruizione, della gratuità delle cose, sapersi rapportare e cogliere i loro “segreti”, sobrietà e misura, senso del limite e della ricchezza insieme.

Entro la logica della mercificazione e amministrazione totale del mondo, le cose appaiono essenzialmente come merci sottoposte al valore di scambio, sono sottratte al loro coseggiare, alla loro essenza di cose, non sono più le cose del mondo che mondeggia, con cui l’uomo instaura un rapporto ricco e complesso, non riducibile al puro ambito economico (29).

La “povertà” francescana non ha nulla di tetro e di austero, è anzi strettamente imparentata con la letizia, in quanto l’uomo, grazie a essa, si sente riconciliato con le cose, senza più la pretesa del possesso e della padronanza assoluta su di esse.

Essendo in comunione e in relazione profonda con tutte le cose - anche con quelle ritenute più umili e insignificanti -, l’esistenza umana si sposta “lungo l’asse ontologico” (cfr. FR 141) e si arricchisce di inediti aspetti ludico-estetici e contemplativi del tutto estranei agli orizzonti angusti della mera ratio strumentale-calcolante. Il senso del mondo qui non si chiude mai, ma si dischiude nella prospettiva dell’arricchimento e dell’ulteriorità di senso.

La “povertà” francescana - rivendicata in antitesi all’opulenza povera di senso, di direzione e di ricchezza umana del mondo mercificato, oggi però vincente e apparentemente insormontabile - costituisce un serbatoio di inaudita ricchezza, perché con essa l’uomo riguadagna un nuovo possibile rapporto tra sé e il suo ambiente vitale, sottratto alla logica irresponsabile del consumo sfrenato e dello spreco, della devastazione e dell’abbrutimento.

Riguadagniamo ciò che ci è più proprio, una nuova dignità di mortali, riscopriamo la bellezza e il piacere della gratuità. Nell’indicarci tutto ciò, Francesco d’Assisi appartiene non solo al mondo dei credenti, ma a tutti gli uomini del pianeta. La semplicità e l’evangelica follia di Francesco gli fanno considerare potere, ricchezza, gloria, successo come vanitas vanitatum, la fiera della vanità in cui gli uomini sono irretiti e corrotti.

Occorre invece rinunziare al mondo per riottenerlo mutato di senso, morire alla vecchia vita per rinascere a vita nuova. In Francesco non v’è apologia del dolore, l’invito è piuttosto quello di passare attraverso la sua ineludibile esperienza e quella della croce perché da queste nasca, nonostante tutto, l’amore. Letizia e allegria sorgono qui dai tesori della povertà. Francesco è homem do Paraíso, figlio della letizia e della gioia del mondo, l’uomo che custodisce e contempla l’incanto e l’armonia di tutte le cose (30).

Egli ci appare come il simbolo dell’“uomo del futuro”, in rispondenza alla svolta antropologica ed ecologica già cominciata dopo la presa di coscienza dei limiti e delle contraddizioni della civiltà del consumo e dello spreco, dove lo spreco riguarda non solo le risorse naturali, ma anche e soprattutto quelle umane.

Da questo punto di vista rileviamo con Balducci: “La povertà di Francesco era anche una forma di amore per le generazioni future, una forma di amore a cui oggi è affidata, con piena nostra consapevolezza, la stessa possibilità che la storia umana prosegua. (...) C’è un tempo qualitativo che si misura verticalmente lungo l’asse che segna il movimento dell’essere umano dalla sua condizione di bruta forza competitiva alla condizione di centro cosciente degli intrecci cosmici, chiamato a provvedere, senza violenza, ma con amore, alla piena maturazione della creazione. Secondo questa misura, Francesco non è un uomo del passato, è un uomo del futuro” (31).

Uomo del futuro è pure Gandhi, con la sua prospettiva - tuttora piuttosto utopica - della nonviolenza, che ha già dato frutti concreti - anche se solo parzialmente - in India. Qui si ribaltano i termini tradizionali del rapporto fra realismo e utopia, si può parlare di realismo dell’utopia e indicare nella nonviolenza la via obbligata da percorrere se vorremo salvaguardare, per quanto è in nostro potere, il futuro della specie.

La praxis nonviolenta fa saltare il falso aut-aut fra realismo opportunistico, appiattimento sull’esistente da un lato e spiritualismo consolatorio, interiorismo inefficace d’altro lato. La logica della nonviolenza è una logica paradossale, che comporta il nostro essere-nel-mondo, ma non completamente del mondo (cfr. TD 135).

La nonviolenza appare come un’arma di lotta, la strategia migliore per affrontare e risolvere i conflitti (non per eluderli), una pratica che, anziché condurre alla rassegnazione e all’accettazione del male e della violenza, li combatte radicalmente, esibendo un coraggio di tipo nuovo, non guerriero e maschilista né semplicemente muscolare, che ai fautori delle antiche e consuete pratiche della violenza sembra del tutto risibile.

E’ il coraggio di chi, molto amando non solo la propria vita, ma pure quella degli altri, sceglie una via che limita il più possibile la sofferenza, la morte, la distruzione delle persone e delle cose. E’ una via che nell’altro non vede mai soltanto il nemico o l’avversario, ma sempre anche - attraverso l’esercizio concreto dell’empatia - l’altro uomo, la sua umanità da non calpestare, le sue eventuali e almeno parziali buone ragioni da riprendere e far proprie.

La pratica nonviolenta vuole far sì che la lotta non s’imbarbarisca al punto di non riconoscere più le caratteristiche umanamente rilevanti dei contendenti e perciò è sempre tesa al recupero possibile delle qualità e risorse non ancora emerse e valorizzate dei soggetti in campo.

La violenza è il massimo dei peccati e, come legge del mondo, è la prospettiva catastrofica e irrealistica alla quale deve e può subentrare quella introdotta da Gandhi della ahimsa, della in-nocentia, della nonviolenza intesa positivamente come pratica dell’amore e della fratellanza (32).

Purtroppo, nel mondo occidentale, siamo tutti in qualche modo complici del sistema della violenza che determina lo squilibrio tra Nord e Sud del pianeta e costruisce la propria identità sulla distinzione amico/nemico, ma nelle “attese profonde dell’umanità” ci sono la nonviolenza, la mitezza, la convivenza, la pratica dell’amore (cfr. TD 130-137).

Balducci cercava testardamente e profeticamente di leggere negli eventi della storia contemporanea i segni della progressiva affermazione della cultura della pace e della pratica nonviolenta.

La fase storica attuale, col riproporsi drammatico della cultura della guerra e della violenza, col riemergere dei nazionalismi e delle rivalità interetniche sembra smentire con la forza brutale dei fatti la prospettiva balducciana.

Quando però gli uomini torneranno a riflettere su di sé al di là dei molti e inquietanti oscuramenti della ragione cui assistiamo, l’indicazione della nonviolenza apparirà probabilmente - se non sarà già troppo tardi - come l’unica strada realistica a noi dischiusa nella prospettiva della sopravvivenza e, ancor più, della dignità della specie: in questo senso la “cultura della pace” cara a Balducci era ed è una posta in gioco molto più alta della mera assenza di guerra e di violenza. La profezia, qui, si fa profezia anche di possibile sventura: “Siamo chiamati a compiti così nuovi che, se non avremo uno spirito nuovo, commetteremo i crimini che i nostri padri hanno commesso” (TD 137). In questione, radicalmente, sono infatti l’essenza dell’uomo, il senso stesso del nostro esistere.

8. La profezia e la nuova etica planetaria

Profezia, profetico sono parole spesso adoperate, certo non a sproposito, in riferimento all’opera e al messaggio di Balducci. Bisogna però intenderci meglio. Egli metteva in guardia innanzitutto sé stesso da ciò che chiamava il “fasto delle profezie, che rischiano di sottrarci alla reale condizione della nostra vita, proponendoci una realtà che è vera solo nella immaginazione e che di generazione in generazione inseguiamo senza che mai metta piede sulla terra” (TD 21).

Nel Nostro - grande maestro dell’ottica evangelico-sapienziale - la profezia non è rivelazione o predizione ingenuamente ottimistica, non è sicuro possesso o rigida predeterminazione del futuro, non intende in nessun mondo ingabbiare il mondo; essa è invece tentativo di interpretazione, lettura dei segni dei tempi, piuttosto “fragile, esposta a tutti i rischi”, eppure “sempre rinasce, in mille forme e in mille luoghi, (...) perché la sua vera sorgente è il cuore dell’uomo inedito che è per ogni dove (...)” (TT 59). Il linguaggio dell’homo ineditus è profetico, ma non immaginario-astratto e vuole sfuggire alle false alternative rappresentate dall’utopismo ingenuo e dal realismo opportunistico. La profezia indica una direzione non garantita in anticipo verso il futuro, vuole essere generatrice di storia a partire dalla lucidità e dal rigore razionali, da un’analisi accurata del reale che ne riconosca le asperità e ne interpreti le cifre in direzione del meglio.

La scommessa di Balducci consiste tutta nel porre l’accento sulla fiducia nell’uomo (cfr., ad esempio, TD 79), nelle sue potenzialità creatrici e nella ragione, senza indulgere ad alcun mito razionalistico. L’indagine razionale della realtà è rivolta alla sua reinvenzione storica, che però deve fare i conti coi “segni ambivalenti” che contraddistinguono il nostro tempo, in bilico fra prosperità e rovina, speranza e disillusione, progresso e catastrofe; l’ambivalenza, anzi l’ambiguità e l’oscillazione fra bassezza e grandezza, miseria e nobiltà, tenebra e splendore appaiono del resto costitutive dell’uomo stesso, della sua natura profonda (33).

Osserva Balducci: “Ci manca - ed è questo il nostro vero dramma - una mappa delle possibilità umane, perché siamo imprigionati in un’immagine univoca di uomo costruita e imposta, con tutte le iridescenze dell’universalità, dalla cultura in cui siamo cresciuti” (TT 55).

Uno dei meriti maggiori del Nostro è stato proprio quello di avvertire con acutezza, a partire da sé medesimo e dai risultati della propria storia personale, i limiti della cultura dominante, anche e soprattutto di quella cattolica, nei cui confronti ha manifestato sino all’ultimo una coerente e stimolante ansia del trascendimento.

Prioritaria è la rimessa in questione dell’ideologia progressistico-storicistica coltivata tenacemente dall’Occidente. Mettendo a punto i tratti di una “nuova etica” planetaria da rifondare (che presenta non poche analogie con il progetto di Weltethos portato avanti in questi ultimi decenni da Hans Küng 34 ), Balducci rileva: “Il primo tratto è il superamento dell’umanesimo storicistico, secondo cui tutto ciò che di valido c’è nel passato si risolve nella coscienza del presente così come si è modellata nei popoli civilizzati. Il vero umanesimo è quello ‘etnografico’ che ricerca il senso pieno della storia dell’uomo nelle diverse ‘memorie’ che i gruppi umani, anche quelli detti primitivi, conservano della loro esperienza. Gli elementi della pienezza dell’uomo sono dispersi nella variegata famiglia umana e possono essere riconosciuti solo mediante l’umile ascolto delle molte voci dell’umanità” (35).

Il senso della storia umana va riscoperto al di là delle varie forme di storicismo, sia idealistico sia marxista, che hanno fatto della storia un processo il cui esito sarebbe garantito in anticipo dall’ “astuzia della ragione” o da quella del Partito-stato dagli attributi teologici, oltre che dalla presunta ferrea inesorabilità di leggi scientifiche.

La storia va liberata dall’ideologia storicistica e da quel progressismo di stampo eurocentrico che cercano di imbavagliarla in un senso unidimensionale-riduttivo, per essere riaffidata alle esperienze e alle capacità creative di tutti i popoli e di tutte le culture del pianeta.

L’ethos, che è innanzi tutto cosmico - perché la vita umana è l’esito di un intreccio di relazioni -, diviene qui cosmopolitico. L’interdipendenza fondamentale tra specie umana e sistema ecologico richiama e richiede pure quella fra tutti i popoli della terra.

Si ripropone qui il decisivo problema del rapporto fra l’Occidente e il suo altro-da-sé, il diverso. La “terra del tramonto” (Abendland) ha sinora per lo più avvertito e vissuto l’altro come essenzialmente pericoloso, la diversità come minaccia per il proprio senso di sé. Il rifiuto dell’alterità è stato motivato con la paura di perdere, sporcare o compromettere in qualche modo la propria identità.

Balducci individua tre paradigmi fondamentali dell’incontro con l’altro: i primi due - quello dell’assimilazione e quello che concepisce la diversità come inferiorità - sono vie già ampiamente sperimentate, storicamente fallimentari e superate; il terzo, invece, “definisce il progetto antropologico del superamento dell’età moderna” (36).

E’ questa la via che, secondo una bella espressione di Emmanuel Lévinas, richiede l’“epifania dell’altro” e ridefinisce il principio d’identità conducendolo “simultaneamente al massimo di centrazione su di sé e al massimo dell’apertura all’alterità. Nel riconoscere l’altro come tale, io resto me stesso e in più mi faccio ricco dell’alterità riconosciuta” (cfr. TT 61, 73, 79).

A costituire un “nuovo connotato della mia identità di uomo” entra in scena l’altro che, anziché limitarmi o impoverirmi, arricchisce la mia stessa umanità. L’alterità si fa qui componente indispensabile della mia coscienza.

Ricevendo “i doni che gli vengono da lontano”, l’Occidente riacquisterebbe un nuovo senso di sé, attuerebbe la rivoluzione più concreta, una svolta antropologica radicale in direzione dell’accoglienza, dell’apertura a una civiltà e comunità internazionale più solidale e conviviale.

Tutto ciò è stato già compreso e detto nelle parole più significative dei pensatori e dei poeti, ad esempio in quelle fini e penetranti di Edmond Jabès: “Tu sei lo straniero. Ed io?/ Io sono, per te, lo straniero. E tu?/ La stella, sempre, sarà separata dalla stella; questo/ solo le avvicina: la volontà di brillare insieme” (37). Il volto d’altri di per sé è un muto appello che ci interpella e richiede una risposta concreta, l’avvio di un rapporto, di un dialogo.

Balducci sottolinea che l’ispirazione originaria del cristianesimo produceva scandalo e stupore nel riconoscere e accogliere l’altro, anche il più lontano e “straniero” fra i diversi. Ma il cristianesimo deve morire nella sua forma ideologica per ritornare a essere profezia evangelica, messaggio di liberazione a partire dalla vita dei semplici, dei piccoli e dei poveri: deposuit potentes de sede et exaltavit humiles.

D’accordo con la teologia della liberazione, anche per Balducci - che può essere considerato indubbiamente uno dei maggiori teologi italiani ed europei della liberazione - il Regno, in termini teologici, comincia nell’al di qua e, per essere concretamente perseguito, necessita della critica sociale e dell’impegno politico, che ovviamente non esauriscono la dimensione della fede, ma la riempiono di contenuti e significati concreti, terrenamente vissuti.

Alla base di tutto, secondo Giovanni, sta la pratica dell’amore: “Chi non ama il proprio fratello, che egli vede, come può amare Dio, che egli non vede?” (1 Gv 4, 20). Come Balducci rileva in una delle sue ultime omelie, commentando un passo di Martin Buber: “Aver fede non significa saper spiegare come andranno le cose, è sapere che l’universo fisico è contenuto dentro un Tu a cui possiamo tender le mani” (TD 17).

9. Il tema dell’Altro fra immanenza e trascendenza

Il tema dell’altro e dell’Alterità è, come abbiamo già mostrato, centrale nella riflessione balducciana più matura. Esso non è mai nel nostro autore un tema puramente e astrattamente teorico, teologico-filosofico, ma è sempre messo in relazione alle problematiche dell’esistenza, del vissuto e dell’umanità concreta; il tema viene comunque sviluppato e riccamente articolato attraverso una molteplicità di influenze, corrispondenze, riferimenti e suggestioni, provenienti soprattutto da Bonhoeffer, Lévinas, Buber, Teilhard de Chardin, Panikkar, Barth, Moltmann, Weil, Sartre, Todorov, Rizzi, Meister Eckhart, Montaigne e Feuerbach.

L’altro e l’Alterità rinviano sia all’altro essere umano - il diverso da noi da riconoscere e da riscoprire - sia all’orizzonte infinito, a noi dischiuso, dell’Alterità irriducibile alle mere misure umane.

Vi è nell’ultimo Balducci una peculiare, acuta nostalgia (Sehnsucht) dell’Altro, che è al tempo stesso nostalgia - e pure tensione, desiderio, amore - dell’altro uomo, di noi stessi e di Dio come il “totalmente Altro” di horkheimeriana memoria (Gott als ganz Anderes) (38): “Se ne avessi il tempo e la capacità, amerei scrivere una storia della nostalgia dell’Altro lungo tutta la storia umana. La nostalgia dell’Altro è poi anche la nostalgia di noi stessi, dell’Altro che è in noi, dato che il ripudio dell’Altro è un ripudio di noi, è una nostra menomazione in quanto la nostra totalità implica la presenza irriducibile dell’alterità” (AL 26).

Balducci ricerca qui come sia possibile giungere a una via, un guado, un varco nella trascendenza. Confrontandosi con lo scetticismo moderato di Montaigne, egli crede di trovare - in modo orizzontale e non più verticale/metafisico - nel Tu quel varco all’Essere che Montaigne aveva vanamente cercato (a suo dire) nei suoi stupendi Essais.

Il soggetto emerge solo a partire dalla correlazione originaria con gli altri, dalla “consustanzialità” fra i soggetti, la quale non può consentire di ridurre gli altri a meri oggetti (cfr. AL 42-43). Perciò occorre essere capaci di guardare noi stessi con gli occhi degli altri e di ravvisare in noi stessi l’estraneo: questa è la via maestra della vera pace e riconciliazione tra gli uomini.

Non si dà identità individuale senza il riferimento all’altro (cfr. TD 177-178), non si può ricercare il senso di sé senza considerare la relazione con l’Altro, “il cui ultimo gesto è l’oblazione totale, al punto di assumere l’Alterità come centro di prospettiva su di sé, fino ad addossarsi il destino dell’Altro come il proprio destino: Io sono l’Altro. La transizione è come una morte. Le assonanze evangeliche sono trasparentissime. Nel gesto della totale oblazione di sé, fino alla totale dimenticanza di sé nell’Altro, si ha la rivelazione dell’Essere, l’ingresso nella trascendenza, in quella ulteriorità in cui l’Io e il Tu sono fondati. (...) Noi siamo in grado di capire come il passaggio alla trascendenza non sia più nelle verticali metafisiche, ma in questa orizzontalità in cui si ritaglia il rapporto Io/Tu, nel quale può avvenire che il rapporto si risolva in una totale oblazione di sé, nella immersione totale nell’Altro” (AL 57).

La “transizione all’Altro” (cfr. AL 53-72) si presenta nell’autore della Terra del tramonto come un vero e proprio “evento antropologico” e non come un fatto occasionale o meramente sentimentale.

In polemica piuttosto chiara - benché non sempre esplicitata e approfondita come forse sarebbe stato necessario - con il “pensiero dell’essere” heideggeriano e con certi esiti metafisici del pensiero orientale, Balducci ritiene che l’accesso all’Essere non consista nel dissolvimento dell’io in omaggio all’assolutezza e alla impersonalità dell’essere stesso, ma si renda possibile nella relazione Io-Tu “portata al limite delle sue possibilità” (cfr. AL 54).

La relazione Io-Tu si pone sempre anche come “pura possibilità”, una sorta di idea regolativa della prassi concreta dell’umanità. Vi è qui un intreccio chiasmatico indissolubile, per cui noi siamo nell’Altro e l’Altro è in noi.

Ora, questa Alterità è, nel contempo, ombra e luce: “noi portiamo in noi qualcosa che è Altro da noi ma questa alterità non è soltanto l’ombra. Certo questo qualcosa giace nell’ombra, ma è luce, è la potenzialità obiettiva di forme umane più alte in cui le culture si comprendono l’una con l’altra, in cui le alterità non si annullano né si assimilano ma restano tali nel gioco dello scambio reciproco in vista di intese sempre più alte. L’Alterità è il veicolo della nostra dilatazione, perché comprendendo l’Altro che è in me ed è fuori di me io dilato me stesso, rimanendo altro dall’Altro che ho compreso” (AL 91).

L’oblazione qui è un’offerta, un dono di sé in cui non si avvantaggia solo l’altro, ma ci arricchiamo noi stessi soggetti dell’offerta, nel senso che diventiamo più ricchi di nuova umanità. Ci arricchiamo di un’umanità più ricca di noi stessi e dell’altro insieme.

A questo proposito Balducci riprende esplicitamente (cfr. AL 87) il tema biblico del cuore nuovo, capace di ispirare una “ascetica nuova”, dalla quale avrebbero molto da imparare gli asceti dal cuore duro. Qui è in gioco il cuore dell’uomo che, come punto massimo della interrelazione di tutte le cose, informa di sé, nella sua recettività, la volontà, l’amore, il pensiero e la passione. Con la capacità recettiva del suo cuore, l’uomo sente l’altro uomo e avverte l’Alterità. Il viaggio dell’agape avviene solo attraverso l’apertura piena e totale all’Altro, al più diverso da noi. In questo modo noi non oggettiviamo Dio, ma lo intendiamo come un Tu.

Dio non è per Balducci il Dio-tappabuchi, provvidenziale e passe-partout (cfr. TD 28 e 119) che finisce col deresponsabilizzare l’azione umana nel mondo e non è la mera causa sui, l’Ens perfectissimum, sussistente beatamente per sé, il summum Ens della gerarchia degli enti tipica della tradizione metafisica cristiana. Né è il Dio di comodo dei potenti e privilegiati, dei conformisti e ipocriti, dei ricchi dal cuore arido, che si riduce piuttosto a “cifra ideologica”, a ideologia del sacro, che nasconde il dominio e legittima la cattiva realtà.

Troppe volte abbiamo costruito un Dio a nostra immagine e somiglianza, al servizio di interessi di parte e di una tradizione religiosa fra le altre. Questo Dio - nel nome del quale hanno prosperato guerre e violenze, odi e divisioni - è davvero morto, come ci hanno già insegnato, in modi diversi, Marx e Nietzsche.

Il padre scolopio recupera invece l’insegnamento di Meister Eckhart - per il quale ci avviciniamo a Dio solo nel “fondo dell’anima” (39) - e l’eredità della teologia negativa, che ci invita a considerare innanzi tutto ciò che Dio non è e ci impedisce di definirlo positivamente: “Di Dio sappiamo quello che non è, non quello che è, e quindi il vero credente ama parlare pochissimo di Dio, non scrive il nome di Dio sulle pareti, né sui manifesti, né nelle schede elettorali, perché è un nome che appartiene all’intimo dell’intimo: c’è una pudicizia che ci impedisce di parlarne. Uno non porta in giro le lettere alla fidanzata per farle leggere, altrimenti è un degenerato” (40).

Il Deus absconditus non è qui fonte di sgomento e di mera inquietudine, ma di benedizione, tanto che Balducci potrebbe ripetere con il Nicola da Cusa della conclusione del De Deo abscondito (1440-1445 circa): “Sit igitur Deus, qui est ab oculis omnium sapientium mundi absconditus, in saecula benedictus. Amen” (“Sia dunque Dio, nascosto agli occhi di ogni sapiente del mondo, benedetto nei secoli. Amen”) (41).

10. Il Dio di Balducci fra il silenzio e la parola

La differenza tra il “Dio di Gesù Cristo” e il Dio “che invece a volte noi poniamo a sigillo supremo dell’ordine che abbiamo costruito e che è una pura nostra produzione” (TD 124) è enorme. Il vero Dio non è di parte, sfugge al pieno possesso degli uomini e delle loro istituzioni, delle loro dottrine e teologie, anche delle teologie radicali (cfr. TD 121 e AL 100, 42-43). Nessuno può infatti “incapsulare” la “libertà di Dio” e, come ben sapevano gli ebrei, occorre non nominare mai invano il nome di Dio. L’antidogmatismo, la libertà e lo spirito critico del Nostro sono qui condotti alla massima potenza.

Il Dio posseduto e oggettivato è il Dio degli idolatri, fanatici, integralisti, intolleranti che parlano a suo nome per avanzare le proprie pretese di dominio e di successo storico. Credere di possedere Dio significa trasformarlo in un idolo funesto e foriero di sventure, fatto solo a nostra immagine e somiglianza.

Leggiamo in una delle ultime omelie balducciane: “Dio non si dimostra, si mostra” (TD 23) e si mostra solo nella pratica dell’amore, della giustizia e solidarietà fra gli esseri umani. Commentando un brano straordinario del Vangelo di Matteo (Mt 25, 31-45), Balducci scrive che “Dio è nell’Altro” (cfr. AL 68 e TD 47), ossia il vero volto di Dio va cercato nell’uomo emarginato, sofferente, alienato, spogliato della sua umanità. Noi potremo scoprire “la tenerezza di Dio attraverso la solidarietà con gli uomini” (TD 27).

Dio è essenzialmente ad Alium, ad nos, oblazione totale, essere-in-riferimento (esse ad), dono totale. L’ineffabile e inesprimibile mistero del Dio di salvezza si palesa nell’incontro fra la grazia di Dio e gli uomini che aspirano alla liberazione (cfr. TD 90). Il non possesso del divino non rappresenta un impoverimento, al contrario ciò che Max Horkheimer chiamava la Sehnsucht nach dem ganz Anderen è la massima saggezza che ci rende aperti alla verità e liberi dalla violenza: “Non c’è un vero volto di Dio. La nostra aggressività si è servita anche di Dio. Il volto dell’invisibile Dio, in speculo, si riflette sulle onde molteplici delle culture, in forme diverse, e nessuna di quelle forme è Lui. Egli è il totalmente Altro. E chiunque percorre il difficile sentiero della scoperta dell’Alterità, lo sappia o no, si avvia verso il totalmente Altro. Averne la nostalgia significa avere acquisito la massima delle saggezze” (AL 91).

Si capisce da tutto ciò come l’ultimo Balducci, specie in un saggio come il già citato Elogio (penitenziale) del silenzio (1991), abbia avvertito l’urgenza di una riflessione sul rapporto tra il silenzio e la parola, su cui ha scritto lucidamente Pierluigi Onorato nella sua “Presentazione” a L’Altro. Un orizzonte profetico: “ C’è una parola che esprime la volontà di potenza e mira a ingannare o dominare gli interlocutori; e c’è una parola che riflette l’ansia di comunicare, da ‘cuore a cuore’, e che, se appena riesce a risalire la china del peccato che ci avvolge, attingendo alla grammatica generativa che unifica tutto il cosmo, sa parlare come Francesco con gli uccelli e con il lupo, e sa dare del ‘tu’ al sole, alla luna e agli elementi della natura. Così c’è un silenzio che riflette la finitezza dell’io, per esempio le sue incertezze e il suo scetticismo, o la sua apatia, oppure il suo odio per il proprio simile e le sue trame di potere. Ma c’è anche un silenzio che è specchio e custodia della totalità delle cose e degli uomini, che riflette attivamente una simpatia cosmica e antropologica.

Balducci ha assaporato spesso - e non solo nell’età matura - questo silenzio di comunione, come ‘tranquilla immersione nella verità che sta prima e dopo le parole’. (Proprio per questo, anzi, lui che poteva dirsi un professionista della parola, non ha mai fatto della parola un uso banale o aggressivo). Negli ultimi tempi della sua vita, questo silenzio per lui era sempre più ‘gremito di richiami’, che riecheggiavano le voci dell’infinito cosmo e le parole non dicibili dell’uomo absconditus. In questo silenzio egli parlava a Dio (la preghiera per lui è una silenziosa corrispondenza tra l’uomo sconosciuto e il Dio sconosciuto), e accresceva la sua insofferenza del parlare di Dio (la teologia è sovente un indebito impossessamento del dio edito)” (AL 10-11).

Nel suo Elogio (penitenziale) del silenzio, Balducci concentra l’attenzione sul silenzio che nasce da un atteggiamento di ascolto e di accoglienza. Qui la sua riflessione incontra da un lato (e piuttosto paradossalmente, a prima vista) quella di un pensatore a lui non caro, come Martin Heidegger, che ha parlato di verità dell’essere come aletheia (cfr. AL 96) e per il quale non si dà alcun risuonare della parola autentica se non a partire dal silenzio; e, d‘altro lato, ancora una volta, il pensiero orientale, in particolare il buddhismo zen e il taoismo di Lao Tse, secondo cui “la via che si può nominare non è la vera via” (cfr. AL 94).

Il silenzio caro a Balducci esprime la “sovrabbondanza dell’indicibile”, ci avvicina al “linguaggio delle cose”, alle “voci dell’infinito cosmo”, al “messaggio corale”, alla “grammatica generativa“ universale, ci fa cogliere la nostra parentela con tutte le cose (cfr. AL 94-96). L’alienazione tecnologica del nostro tempo, col suo chiacchiericcio massmediatico imperante, tende a sovrastare e a impedire questo tipo di silenzio e ad occultare il rapporto autentico fra il silenzio e la parola.

Si tratta invece di pensare il silenzio come “tranquilla immersione nella verità che sta prima e dopo le parole” (AL 96), nella verità intera, nella sua immensità: la verità del mondo e di noi stessi nel mondo, la verità dell’Uno-Tutto, potremmo aggiungere noi con un linguaggio che non è più quello del padre scolopio. In questo senso il silenzio è anche preparazione alla morte, non tanto e non solo alla morte in generale, ma innanzi tutto e in primo luogo alla propria morte.

Il silenzio è qui “l’altro nome di Dio” (AL 97) e questo silenzio ci rende evidente la fondamentale ambivalenza del linguaggio umano, che occulta e svela insieme. Il senso più genuino della parola risiede nel “rivelare ciò che sta oltre la parola” (cfr. AL 95-96), ma il linguaggio logorato dell’uomo edito ci rende difficile recuperare il valore simbolico della parola, distinguere la grammatica convenzionale dalla grammatica generativa, mettere insieme (symballein) ciò di cui si può parlare e ciò di cui non si può parlare.

L’uomo inedito è colui che, pur esprimendosi - come lo stesso Balducci ha fatto - con “dovizia di parole”, rinvia sempre ad un orizzonte extralinguistico: “L’uomo inedito predilige il silenzio e anche quando parla le sue parole si caricano dell’aspirazione alla totalità, come a dire a un mondo che non è quello della cultura espressa dai vocabolari, è la vera patria dell’essere. (...) l’uomo inedito abita nel silenzio e riesce a riconoscersi solo nelle parole che mantengono le radici nel silenzio” (AL 98).

L’uomo inedito e nascosto almeno parzialmente a sé stesso rimane aperto all’orizzonte non oggettivabile dell’essere, alla misura incommensurabile del Deus absconditus, non riconoscendosi né nella preghiera dei fanatici religiosi che s’impossessano idolatricamente del divino né nella semplice negazione degli atei.

11. L’eschaton e il futuro come “luogo di pienezza”

L’annunzio profetico implica secondo Balducci una forte negazione dei mali del presente e un netto privilegiamento del futuro come “luogo di pienezza”, in cui sarà “definitivamente avverata la coincidenza tra il possibile e il reale” (TT 58). La profezia è produttrice di storia, ma è “l’eschaton, l’ultimo evento (...) il suo vero domicilio” (TT 59).

La pienezza dell’uomo risiederebbe allora “non nel primo Adamo ma nel secondo, non nelle origini ma nell’eschaton. La verità totale abita nel futuro ed è una verità di salvezza che riguarda l’intera creazione” (42).

Balducci parla del “futuro assoluto” come del momento in cui passeranno all’atto le potenzialità finora inespresse e impedite. L’ “ansia del futuro” e l’enfasi su di esso hanno in sé, in questo discorso, il senso del limite; qui non si tende dunque al futuro nello stesso senso del progresso illimitato e del prassismo furioso tipici della moderna volontà di potenza occidentale: “Sentire che siamo attraversati da un’ansia verso il futuro può anche persuaderci ad accettare il nostro limite nella gioia di essere veicoli di ciò che ci trascende, che viene dal passato e va verso il futuro. Noi siamo i veicoli di una totalità che tende all’adempimento” (AL 88).

L’eschaton è il punto estremo della plenitudo hominis. Il regno di Dio appare al padre scolopio come la “totale realizzazione” delle possibilità dell’uomo inedito, il cui orizzonte non è l’eterno, ma il tempo “come misura della realizzazione delle possibilità inibite” (cfr. TT 53, 55, 127).

L’“uomo universale” qui si configura come una sorta di idea regolativa kantiana, l’eschaton, l’ “evento ultimo” che abita il futuro, vera dimensione della pienezza del Cristo della resurrezione (cfr. TT 77, 154). Alla “libertà dello Spirito” toccherebbe infatti la “verità intera” (cfr. TT 155). La prospettiva sul futuro si colma qui di luce sino alla “speranza umanamente assurda” di “eliminare la morte” (cfr. TD 29-30 e 126).

Siamo qui al livello della “specificità cristiana della fede”, della “salvezza per antonomasia” e ci sembra di poter ribadire da questo punto di vista - contro alcune interpretazioni cattoliche del pensiero balducciano che in esso hanno intravisto una deriva eccessivamente immanentistica (e filo-marxiana) - la piena e “ortodossa” fedeltà al Regno del padre scolopio, per altri aspetti tutt’altro che ortodosso e obbediente alle gerarchie ecclesiastiche.

Balducci - la cui unica vera ortodossia fu quella rivolta alle possibilità dell’homo ineditus o absconditus - tiene però a chiarire che il discorso sulla salvezza non va mai ridotto alla sola dimensione ultramondana, “perché dell’al di là - per così dire - non si hanno contenuti conoscitivi e poi perché la novità del Cristo è che la salvezza comincia dal presente” (CC 147).

L’autore de La terra del tramonto ammette di non aver mai insistito troppo sulla salvezza ultramondana per un motivo preciso: “Purtroppo è avvenutochel’insistenzaparossistica ed esclusivisticasuquestasalvezzadalmondohaconsentitoche il mondo fosse abbandonato a tutte le forme di schiavitù” (CC 149. Cfr. anche CC 148). Ora, al di là dell’accordo su quest’ultima osservazione, ci sembra che l’escatologia balducciana presenti alcuni indubbi elementi di fascino, ma pure sollevi perplessità e interrogativi.

Pensiamo che espressioni dubbie e problematiche come “l’ultimoevento”, la verità e la salvezza “totali”, la “libertà dello Spirito” come “verità intera”,etc. pretendano vanamente di suggellare in modo definitivo quella dialettica aperta fra uomo edito e inedito che costituisce uno dei punti salienti della riflessione di Balducci, al quale stava massimamente a cuore proprio l’ulteriorità di senso in gioco in tale rapporto.

Non si tratta infatti di “chiudere” in qualche modo, ma di manteneresempre aperta la prospettiva dell’ulteriorità di senso. Sembra infatti assai difficile, anzi impossibile trovare un luogo e un tempo della “verità intera” e della“salvezza totale”. L’ “evento ultimo”, poi, nell’era atomica e nell’età del pericolo estremo, può anche non essere un evento di salvezza.

Che il regno di Dio sia la “totale realizzazione” delle possibilità dell’homo ineditus resta una mera supposizione, una speranza - certo carica di straordinario fascino - tutta interna a quel “mistero della fede” di cui Balducci mi parlò anche in lettere e conversazioni private, confessando i limiti del nostro sapere e della nostra ragione.

In realtà, ogni filosofia della storia - compresa quella del Nostro - che assolutizza il futuro e pone in esso la meta ultima della salvezza tende a sottovalutarne o a non riconoscerne il caratterecostitutivamente incerto e imprevedibile, la sua sostanziale inconoscibilità e insondabilità.

Non solo non abbiamo alcuna certezza che ci attenda nel futuro la salvezza totale, ma gli indizi di cui disponiamo non ci inducono a confidare in nessun tipo di salvezza. Non solo la salvezza, ma la stessa possibilità di futuro della specie umana e di tutti gli esseri viventi appare oggi assai incerta e in questione. Concepire la storia come un processo che va dall’incompiuto al compiuto, dal provvisorio al definitivo, dall’imperfetto al perfetto sembra ancora una volta un modo per venire incontro ai nostri desideri e sogni “umani, troppo umani”, più che una possibilità reale.

Il percorso della storia umana - il cui lato tragico è difficilmente sottovalutabile - è stato, è e sarà probabilmente sempre molto più contraddittorio, aspro, faticoso, enigmatico e inquietante, in modo corrispondente a ciò che ci appare come la ineliminabile ambiguità umana. Né si può ritenere che le innumerevoli ingiustizie e violenze patite dagli uomini nella storia possano essere facilmente risarcite nella supposta (e indimostrabile) “salvezza totale” che ci attenderebbe. Non va però mai dimenticato - oltre i dissensi, i dubbi, le domande e le perplessità - ciò che di prezioso serba in sé il discorso di Balducci, nonostante e, anzi, proprio in virtù della sua fortissima tensione escatologica.

Quel che importa è infatti il vigoroso e salutare richiamo a camminare insieme, credenti e non credenti - per ricorrere a una terminologia sempre più inadeguata e obsoleta -, popoli e culture del Sud e del Nord del pianeta, uniti dalla passione e dalla pratica dell’amore per l’umanità concreta, rivolti a far emergere le possibilità inedite dell’homo absconditus che sempre abita, per lo più inespresso e soffocato, nel cuore e nella mente di ciascuno di noi.

Balducci riteneva che la fede in Dio andasse liberata dagli “involucri religiosi” e posta dinnanzi alla “fragilità ontologica” dell’uomo: “Il Dio che pascola le galassie come greggi è solo un’immagine poetica” (43).

Come Ernesto diceva riferendosi ancora una volta a Francesco d’Assisi, l’onnipotenza di Dio è quella dell’“amore inerme”, “non violento per eccellenza”, che accoglie e lascia essere liberamente le creature. Scienza e filosofia non hanno, secondo Balducci, titoli per occuparsi della “dimensione ultima” del cosmo: “Il cosmo è un’isola e Dio è l’oceano che la circonda: la scienza e la filosofia esplorano l’isola e i suoi confini, Francesco contempla l’oceano e, dentro l’oceano, la vita dell’isola che senza l’oceano non ci sarebbe” (cfr. FR 155-156).

Data l’inesplorabilità e l’insondabilità del “Dio-oceano”, è certo che possiamo piuttosto porre attenzione alla cura e alla salvaguardia del “cosmo-isola” nell’ “oceano” sterminato: in ciò a noi sembra consistere il radicale e profetico messaggio che Ernesto Balducci ci ha consegnato dandoci appuntamento nel futuro, se e nella misura in cui vi sarà un futuro per l’umanità.

Piacenza, gennaio-febbraio 1993-novembre/dicembre 2008

(Rielaborazione e nuova versione della relazione presentata, col titolo Etica planetaria e critica dell’ideologia nel pensiero di Ernesto Balducci, il 16 gennaio 1993 presso l’Auditorium della Fondazione della Cassa di Risparmio di Piacenza e Vigevano di Piacenza, al convegno “Io non sono che un uomo: padre Ernesto Balducci”, organizzato dalla rivista “AlfaZeta”, dall’ “Associazione per la pace” e dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Piacenza e Vigevano. Al convegno parteciparono, con interventi e relazioni, Efrem Tresoldi, Lino Ronda, Aluisi Tosolini, Renzo Foa, Severino Saccardi, Franco Toscani, Pierattilio Tronconi, Roberto Lovattini. La mia relazione fu pubblicata negli Atti del convegno di studi, a cura della Fondazione della Cassa di Risparmio di Piacenza e Vigevano, alle pp.40-65).

NOTE:

1. E. Balducci, Il cerchio che si chiude (d’ora in poi citato con la sigla CC), intervista autobiografica a cura di L. Martini, Marietti, Genova 1986, p.16. Cfr. le pp. 9-17. Leggiamo pagine toccanti e significative sul mondo dell’Amiata come “scuola inconsapevole di Vangelo” nell’intervista,a cura di P. Listri, Lo specchio del cielo, in “Testimonianze” nn. 421-422 (numero monografico dedicato a Ernesto Balducci: attualità di una lezione), gennaio-aprile 2002, pp. 288-290. Sulla figura umana e intellettuale di Balducci mi sono soffermato nello scritto Un appuntamento nel futuro, “Testimonianze” nn. 347-349 (numero monografico dedicato a Ernesto Balducci), luglio-settembre 1992, pp. 60-65.

2. E. Balducci, L’uomo planetario (d’ora in poi riportato con la sigla UP), Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Firenze) 1990, pp. 176-178.

3. Cfr. E. Balducci, ”I nemici della croce”, ne Il tempo di Dio. Ultime omelie Avvento 1991- Pasqua 1992 (d’ora in poi citato con la sigla TD), “Presentazione” di L. Martini, “Nota sull’Autore” di B. Bocchini-Camaiani, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1996, pp. 155-163. Cfr. anche p. 132 e p. 154.

4. Cfr. E. Balducci, L’Altro. Un orizzonte profetico (sigla AL), “Presentazione” di P. Onorato, “Nota sull’Autore” di B. Bocchini-Camaiani, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi), 1996, pp. 53-54 e 63-67.Nell’ “Appendice” di questo volume, che raccoglie i testi di quattro conferenze tenute a Roma tra il novembre 1991 e il febbraio 1992, troviamo (pp. 93-103) uno splendido saggio di E. Balducci, Elogio (penitenziale) del silenzio, pubblicato per la prima volta in “Testimonianze” n. 340 (1991), poi ristampato anche in “Testimonianze” nn. 421-422, cit., pp. 349-354.

5. L. Grassi, “Presentazione”, in E. Balducci, ‘E voi chi dite che io sia?’. ‘Chi dicono gli altri che io sia?’. Camus Croce Feuerbach Renan Vivekananda Nietzsche Saint-Simon Unamuno Proudhon Spinoza, “Nota sull’Autore” di B. Bocchini Camaiani, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1996, p. 11.

6. Le ultime citazioni sono tratte da E. Balducci, Noi e gli increduli, in “Testimonianze” n.10, 1958, pp.28-40, ora in E. Balducci, ‘E voi chi dite che io sia?’. ‘Chi dicono gli altri che io sia?’, cit., pp. 80, 84-85 e 89.

7. E. Balducci, La terra del tramonto. Saggio sulla transizione (sigla TT), Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi), 1992, pp. 43-44.

8. Cfr. AL 69, TD 28 e 119. Per un approfondimento di questi aspetti rinvio a F. Toscani, L’etica della responsabilità di Dietrich Bonhoeffer, “Filosofia e teologia” n.1 (numero monografico Sul penultimo), Edizioni Scientifiche Italiane, gennaio-aprile 2006, pp. 64-81.

9. Cfr. TD 30. Cfr. anche Noi e gli increduli, in “Testimonianze” n.10, 1958, pp.28-40, ora in E. Balducci, ‘E voi chi dite che io sia?’. ‘Chi dicono gli altri che io sia?’, cit., pp. 81-82.

10. Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), trad. it. di P. Rinaudo, a cura di P. P. Portinaro, Einaudi, Torino 1990, p.XXVII e p.150.

11. Cfr. TT 70. Cfr. anche TT 22-23, 26-27, 47, 79; T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’ ‘altro’ (1982), trad. it. di A. Serafini, Einaudi, Torino 1992; A. Rizzi, L’Europa e l’Altro, Edizioni Paoline, Milano 1991; F. Toscani, Il problema dell’identità culturale europea, in S. Piazza-F. Toscani, Cultura europea e diritti umani nella società globale del rischio. Due percorsi di riflessione, Cleup, Padova 2003, pp. 133-150.

12. Cfr. UP 174-175 e il “Dialogo a Badia Fiesolana” del 27 marzo 1992 tra Balducci e Sergio Zavoli, intitolato La notte dell’Occidente. Il Cristo inedito e l’epifania dell’altro, “Testimonianze”, nn. 347-349, cit., pp. 192-193.

13. Cfr. su di esso G. Pasqualotto, “Saggezze d’Oriente e d’Occidente come forme di vita”, in Oltre la filosofia. Percorsi di saggezza tra Oriente e Occidente, Angelo Colla editore, Costabissara (Vicenza) 2008, pp. 22-23.

14. Cfr. E. Balducci, Storia del pensiero umano, 3 volumi, Edizioni Cremonese, Firenze 1986.

15. TT 24-25. Cfr. anche TT 208, UP 18-19 e “Testimonianze” nn. 347-349, cit., pp. 199-201.

16. E. Balducci, Il terzo millennio. Saggio sulla situazione apocalittica, Bompiani, Milano 1981, p. 52.

17. Cfr. I. Kant, Per la pace perpetua (1795), trad. it. di R. Bordiga, “Prefazione” di S. Veca, con un saggio di A. Burgio, Feltrinelli, Milano 1991. Per un’altra edizione di questo testo, si veda I. Kant, Per la pace perpetua, a cura di A. Bosi, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1995. Sulla “cosmopoli”, cfr. TT, cap. X, pp. 194-215.

18. Cfr. E. Balducci, Francesco d’Assisi (d’ora in poi citato con la sigla FR), Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1989, pp. 140-144; E. Balducci, Le rappresaglie degli dei, “in “Rocca” n. 7, 1° aprile 1990, pp. 20-22.

19. W. Stevens, Note verso la finzione suprema (1942), a cura di N. Fusini, Arsenale Editrice, Venezia 1987, pp. 58-59 e 64-65.

20. H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p.XXVII.

21. Cit. in M. Heidegger, ‘...poeticamente abita l’uomo...’, in Saggi e discorsi (1954), a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976-1980, p.129. Cfr. anche F. Hölderlin, Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, con uno scritto di A. Zanzotto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, pp. 772-773. Oltre a Hölderlin, un altro significativo riferimento, a proposito del “principio di relazione”, può essere rappresentato dal “relazionismo” elaborato negli anni Cinquanta in Italia da Enzo Paci. Cfr. E. Paci, Tempo e relazione, Taylor, Torino 1954. Sul relazionismo paciano si veda AA.VV., Vita e verità. Interpretazione del pensiero di Enzo Paci, a cura di S. Zecchi, Bompiani, Milano 1991.

22. Cfr. M. Heidegger-E. Fink, Dialogo intorno a Eraclito (1966-1967), trad. it. di M. Nobile, a cura di M. Ruggenini, Coliseum, Milano 1992, p.302. Cfr. anche M. Heidegger, Concetti fondamentali (1941), a cura di F. Camera, il melangolo, Genova 1989.

23. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente (1972), trad. it. di G. Longo, Adelphi, Milano 1989, p.503.

24. Thich Nhat Hanh, Essere pace (1985), trad. it. di G. Fiorentini, Ubaldini Editore, Roma 1989, p. 14. Cfr. anche TT 159,168-169.

25. Cfr. FR 138-139; M. Heidegger, La questione della tecnica (1954), in Saggi e discorsi, cit., p. 22; F. Hölderlin, Poesie, a cura di G. Vigolo Mondadori, Milano 1986, pp. 216-217; F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., pp. 314-315, 1176-1177, 1188-1189, 1194-1195; F. Toscani, Poesia e pensiero nel ‘tempo di privazione’. In cammino con Hölderlin e Heidegger, in “Koiné”, nn. 1-4 (numero monografico dedicato a Filosofia ed estetica), gennaio-dicembre 2007, pp. 7-78.

26. Cfr. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo ‘Spiegel’ (1966), a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1987.

27. Cfr. il “Dialogo a Badia Fiesolana” intitolato La notte dell’Occidente. Il Cristo inedito e l’epifania dell’altro, in “Testimonianze”, cit., pp.186-187. Su questi temi si veda D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Cfr. pure TT 18-19 e, soprattutto, le pagine dedicate ai pensatori della “linea del pessimismo antropologico” nel terzo e ultimo volume di E. Balducci, Storia del pensiero umano, Edizioni Cremonese, Firenze 1986. Su quest’opera di Balducci mi sono soffermato nel saggio Oltre il logos occidentale: ‘Storia del pensiero umano’, in “Testimonianze” nn. 421-422, cit., pp. 310-321.

28. Cfr. E. Balducci, Gandhi, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1988, p. 160.

29. Per le nozioni di cosità della cosa (das Dinghafte des Dinges) e di mondeggiare del mondo (das Welten der Welt), in un’ottica stimolante pur diversa da quella balducciana, si veda M. Heidegger, La cosa (1950), in Saggi e discorsi, cit., pp. 109-124.

30. Cfr. L. Boff, Il sentiero dei semplici. Francesco d’Assisi e la teologia della liberazione (1985), a cura di M. G. Maglie, Editori Riuniti, Roma 1987. Cfr. anche L. Boff, Una prospettiva di liberazione. La teologia, la Chiesa, i poveri (1986), trad. it. di P. Collo, “Saggio introduttivo” di E. Balducci, Einaudi, Torino 1987.

31. FR 176-177. Per la svolta antropologica di cui sopra, cfr. F. La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani Editore, Roma 1991.

32. Cfr. E. Balducci, Gandhi, cit., p. 14; E. Balducci-L. Grassi, La pace. Realismo di un’utopia, Principato, Milano 1983; F. Toscani, Gandhi e la nonviolenza nell’era atomica, “Testimonianze” n. 403, gennaio-febbraio 1999, pp. 78-93.

33. Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 126, pp. 278-280 e TT 42-43. Oltre l’ “euristica della paura” di Jonas, però, Balducci recupera e insiste sui temi propri del Prinzip-Hoffnung di Ernst Bloch.

34. Cfr. ad esempio H. Küng, Una nuova etica globale (1996), in Scontro di civiltà ed etica globale. Globalizzazione, religioni, valori universali, pace, trad. it. di A. Strallo, Datanews, Roma 2005, pp. 55-74.

35. E. Balducci, Le rappresaglie degli dei, cit., p. 22. Rilievi critici sullo storicismo troviamo anche, ad esempio, in TT 52-55.

36. Cfr. TT 71-73. Intorno a questo libro di Balducci svolge stimolanti riflessioni Umberto Galimberti nell’articolo E l’uomo bianco incontrò l’uomo rosso, “Il Sole-24 Ore”, 11 ottobre 1992. Cfr. anche le voci “Alterità” e “Occidente”, in U. Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 17-19 e 133-136.

37. E. Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato (1989), a cura di A. Folin, con uno scritto di P. A. Rovatti, SE, Milano 1991, p. 19.

38. Cfr. M. Horkheimer, Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen. Ein Interview mit Kommentar von Helmut Gumnior (1970), ediz. it. a cura di R. Gibellini, La nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, Brescia 1977.

39. Cfr. M. Vannini, Meister Eckhart e ‘il fondo dell’anima’, Città Nuova Editrice, Roma 1991.

40. E. Balducci, Perché Dio? E quale Dio?, “Testimonianze” nn. 421-422 (già pubblicato nei nn. 236-237, 1981, della stessa rivista), cit., p. 109. Cfr. anche p. 106.

41. Nicola da Cusa, Il Dio nascosto, a cura di L. Parinetto, Mimesis, Milano 1992, pp. 44-45.

42. E. Balducci, Le rappresaglie degli dei, cit., p. 22.

43. Cfr. UP 12-13. In sintonia con queste considerazioni balducciane è il bel libretto di Filippo Gentiloni, Non nominare invano, La Locusta, Vicenza 1987.


Sul tema, in rete, cfr.:

-  Ernesto Balducci,
-  Introduzione a: "LA PACE. REALISMO DI UN’UTOPIA"

-  DAL DISAGIO ALLA CRISI DELLA CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO FAMILIARE" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA.


Etica_e_profezia_nel_pensiero_di_Ernesto_Balducci (versione completa)
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