di Federico La Sala*
A mio parere, oggi, noi stiamo per cadere definitivamente nella palude più nera, che più nera non si può - a tutti i livelli. A prendere dal lato culturale la ‘cosa’, io direi che anche l’intera classe intellettuale (e non solo politica ed economica) ci è caduta e ci sta cadendo definitivamente (basta ri-vedere e ri-considerare l’atteggiamento nei confronti del “berlusconismo” - al di là di poche luminose eccezioni, e della grande determinazione di Furio Colombo, per capire ... il nostro futuro più prossimo).
A mio parere, la ragione sta proprio nello scegliere e nel permanere in un’ottica (per dirlo, con un termine unico - con e contro Salvatore Natoli) neo-pagana e di un punto di vista di un individuo chiuso e “finito”... senza porte e senza finestre! Il neo-paganesimo italiano si colloca all’interno di un orizzonte già tramontato, che non riesce a vedere (proprio per la mancanza .. di porte e finestre, aperte all’altro dentro di sé e all’altro fuori di sé)
NON la natura antropo-‘teo’ logica del messaggio ebraico- cristiano e islamico, e della religione in generale;
NON la natura edipica dell’ideologia della setta cattolico-romana (questa appare essere la Chiesa cattolico-romana, oggi, ferme restando le posizioni della Dominus Jesus del “pastore tedesco”, e al di là dell’apparenza imposta dalla palude mediatica italiana);
NON il presente “puttanegiare” (Dante) del ‘cattolicesimo’ della Chiesa romana con la democrazia (sempre più da scrivere con virgolette) statunitense, che sta portando tutti noi e la stessa Europa politicamente a saldarsi (a questo si è già preparata con l’intera gerarchia ... fino a piegare il proprio centro-sinistra interno, nella figura del suo ammalato e vecchio Martini.... e con lui trascinare anche il centro-sinistra esterno, con Prodi) con la linea-dottrina del "ri-nato" Bush - anch’essa in crisi di egemonia (interna ed esterna - a tutti i livelli) e a riprendere e a rilanciare un programma disperato (e fuori da ogni possibilità di sviluppi positivi per tutta l’Umanità) di Conquista e ri-Conquista planetaria (rileggere la prima Omelia di Papa Benedetto XVI del 24.04.2005 - nelle sue monche e cieche ‘radici’ simboliche, a partire da e fin dal IV sec.!!!).
Questa, se si vuole, è (per usare l’espressione del filosofo neo-pagano Severino) la Follia dell’Occide(re)nte o, meglio con il teologo protestante e resistente (proprio contro il fondamentalismo bio-teo-con nazista!) Dietrich Bonhoffer (“Resistenza e resa”), la stupidità, la Stupidità dell’Occide(re)nte!!!
Persa la grande occasione della rilettura di Nietzsche (dal capolavoro dell’edizione Colli-Montinari), al di là delle mode marxiste e heideggeriane (in qualche modo, insieme e nello stesso tempo, nichilistiche e relativistiche e platoniche) non hanno saputo né interpretare (salvo un lodevolissimo tentativo inziale di Vattimo,) né voluto capire, come ha ben detto Luce Irigaray, nel suo intervento nel “Diario” sul “Relativismo” (“la Repubblica” del 26.04.2005), intitolato “Come accogliere le differenze” (p. 43) che la direzione di ricerca e la “volontà” di Nietzsche non era quella di restare nella gabbia o nella caverna platonica dello “spirito di risentimento e di vendetta”, ma era di “riaprire l’orizzonte della nostra tradizione per accogliere la vita in tutte le sue manifestazioni, per assentire a tutto ciò che vive”, di “andare oltre la nostra concezione ristretta dell’umanità, della nostra interpretazione troppo moralistica della vita del Cristo, del nostro fermarci alla ripetizione del passato senza costruire un futuro dove la nostra umanità sia più compiuta”.
E, soprattutto, non avendo capito e non avendo nemmeno gli strumenti per capire la caduta del Muro di Berlino, non hanno saputo che imitare gli imitatori e seguire la corrente ... per finire, tutti come pecore, a belare prima dietro il pastore polacco e ora dietro il pastore tedesco (e dietro il pastore...italiano - sul tema, tutti gli onori a Franco Cordero!!!).
Meno male che il discepolo di Guido Calogero, il nostro Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha tenuto alta la bandiera della nostra dignità di uomini e donne, di cittadini e cittadine, altrimenti.... Che dire?! Che il “dio” dei cittadini-sovrani e delle cittadine sovrane, dei nostri padri e delle nostre madri, ci aiuti a proseguire sulla strada della Liberazione e della Costituzione - non solo in Italia, e in Europa, ma anche negli Stati Uniti, e su tutta la Terra. Che l’O.N.U diventi veramente un U.N.O... e smettiamola di programmare “una inutile strage” e l’intera distruzione del pianeta e della nostra stessa intera Umanità!!!
Federico La Sala
*(www.ildialogo.org/filosofia, Sabato, 30 aprile 2005)
Sul tema,nel sito, si cfr.:
Quei cardinali che tifano per Donald
di Massimo Franco (Corriere della Sera, 11.11.2016)
Il Vaticano aveva scelto la strategia del «male minore». E alla fine sembrava così rassegnato alla vittoria di Hillary Rodham Clinton da pensare a lei come alla candidata meno sgradita: sebbene forse non ci credesse fino in fondo. Donald Trump era considerato «non votabile» per le rivelazioni sul suo maschilismo aggressivo, che si aggiungevano alle minacce di deportare oltre il confine sud undici milioni di messicani, di impedire l’entrata negli Usa agli islamici: cose ormai archiviate.
E invece, il presunto «male maggiore» Trump è emerso a furor di popolo come nuovo inquilino della Casa Bianca, a conferma di un’America arrabbiata e radicalizzata.
E per la Santa Sede si tratta di una sconfitta bruciante: culturale prima che politica. Tra l’altro, è il segno che la Chiesa cattolica non aveva captato i sommovimenti più profondi in atto nel maggiore Paese occidentale.
La cautela ufficiale e le parole di augurio rivolte al neopresidente dal segretario di Stato vaticano, cardinale Piero Parolin, sono state doverose e ineccepibili. Ma si affiancano a una preoccupazione palpabile. Va detto che sarebbe stata una sconfitta anche se avesse vinto la Clinton, considerata un bastione del laicismo più ideologico e indigesto alle gerarchie ecclesiastiche. Ma Trump è simbolicamente «l’uomo del muro» col Messico. È il cantore della sbrigativa associazione Islam-terrorismo. Ancora, ha vinto dopo essersi presentato come argine «bianco» contro l’invasione demografica degli immigrati latino-americani, di cui l’argentino papa Francesco è il sommo protettore.
Così, a Roma è stato percepito e raffigurato come una sorta di anti Papa, al di là dei suoi meriti e demeriti. Lui stesso, d’altronde, scelse questo ruolo quando il 18 febbraio scorso accusò Jorge Mario Bergoglio di essere «un agente del governo messicano per l’immigrazione». Il Papa tornava da un viaggio al confine tra Messico e Usa, dove aveva celebrato una messa proprio sul versante «povero» . E reagì con una durezza insolita. «Chi pensa che bisogna costruire muri e non ponti», scolpì, «non è cristiano».
«Nessuno sa cosa è rimasto nell’anima di Trump dopo le parole del Santo Padre...», ammette un influente cardinale italiano. Allora, il candidato repubblicano replicò a brutto muso. Oggi, quella domanda rimbalza nella Roma papale, perché il «cristiano non cristiano» Trump dal 20 gennaio sarà alla Casa Bianca. La sua «cultura dei muri» e l’islamofobia minacciano di legittimare tutti i populismi; e soprattutto di fare breccia nei circoli cattolici più conservatori, che diffidano dei toni inclusivi di Bergoglio verso i divorziati e gli omosessuali e della difesa dei migranti.
Non è un caso che il 22 settembre scorso Trump, protestante presbiteriano, abbia diramato una lista di «trentatré cattolici conservatori» come consiglieri elettorali: era un amo elettorale.
L’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, ha definito la campagna per le presidenziali «disgustosa», pur invitando i cattolici a non astenersi. E l’episcopato americano si è tenuto su una posizione di formale equidistanza che è suonata come presa di distanza da entrambi i candidati; ma alla fine è apparso disorientato.
Nelle pieghe buie dei sondaggi è cresciuto silenziosamente un «partito di Trump» affezionato al motto «Dio, patria, famiglia e armi», caro all’America profonda; e appoggiato da pezzi di organizzazioni cattoliche potenti come i Cavalieri di Colombo, in quanto contrario all’aborto e alle unioni gay.
Ultimamente, anche in Vaticano si parlava sottovoce dell’esistenza di frange della Curia affascinate da Trump in opposizione alla «laicista Hillary», e come nemico di un establishment logorato dal potere. Si tratta di settori minoritari che però adesso si sentono rafforzati. Capofila è il cardinale Raymond Leo Burke, critico coriaceo delle aperture di Bergoglio: Burke ha già benedetto il neopresidente come «difensore dei valori della Chiesa». Ma dietro di lui si indovinano invisibili benedizioni di cardinali e vescovi di peso, schierati da sempre per la «sacralità della vita»: «guerrieri culturali» contro il Partito democratico di Barack Obama e dei Clinton.
La lotta all’aborto è uno dei punti di incontro fra Trump e l’episcopato cattolico nordamericano, che teme una Corte Suprema e una legislazione troppo progressiste. In più, potrebbe emergere una sintonia con Francesco se fosse confermata una politica più conciliante con la Russia di Putin, che il Vaticano considera un alleato in Medio Oriente e nei rapporti col mondo ortodosso. Al fondo, tuttavia, la vera incognita per Bergoglio rimangono l’Occidente e la sua metamorfosi culturale. «Crediamo che a votare per Trump siano stati pochi vescovi», spiega un profondo conoscitore degli Usa dentro la Santa Sede. «Il problema è che lo hanno votato molti cattolici».
Significa evocare un’opinione pubblica percorsa da pulsioni che vanno in direzione opposta a quella indicata da Francesco: in America e in Europa, dove la categoria del populismo va declinata con meno sufficienza, perché coinvolge anche persone che populiste non sono. C’è chi prevede che, se Bergoglio non ricalibra la strategia, dal prossimo Conclave potrebbe spuntare un Papa ultraconservatore. Il texano col cappello da cowboy e il crocifisso al collo, felice per l’elezione di Trump, che mercoledì 8 novembre è stato intervistato dai media statunitensi all’udienza in piazza San Pietro, non era un’anomalia. Era l’emblema di un paradosso destinato a scuotere la Chiesa di Francesco.
Nazional-Operaismo e guerra razziale
di Franco Berardi Bifo*
Cerchiamo di capire cosa è successo. Come fece nel 1933, la classe operaia si vendica di chi l’ha presa per il culo negli ultimi trent’anni. Uno schiavista che per sua stessa ammissione non ha mai pagato le tasse, un violentatore seriale è diventato Presidente degli Stati Uniti d’America. Hanno votato per lui coloro che sono stati traditi dalla sinistra, in America come in Europa.
La più urgente azione da compiere ora sarebbe linciarli, coloro che hanno aperto la strada al fascismo mettendosi al servizio del capitale finanziario e della riforma neo-liberale: Bill Clinton e Tony Blair, Massimo d’Alema e Matteo Renzi, Giorgio Napolitano, François Hollande, Manuel Valls e Sigmar Gabriel. Chiamiamoli per nome i mascalzoni che per cinismo e per imbecillità hanno consegnato alle grandi corporation finanziarie il governo sulla nostra vita, e hanno aperto la porta al fascismo che ora dilaga, alla guerra civile globale alla quale ora non c’è più modo di porre argini.
Nel Regno Unito e in Polonia, in Ungheria e in Russia e ora negli Stati Uniti, ha vinto il Nazional-Operaismo. La classe operaia bianca, umiliata negli ultimi trent’anni, ingannata dalle promesse riformiste dei suoi rappresentanti, impoverita dall’aggressione finanziaria, porta uno schiavista violentatore alla Casa Bianca.
Dato che la sinistra ha tolto dalle mani dei lavoratori le armi per difendersi, ecco la versione fascista e razzista della lotta di classe: Wall Street è riuscita a sconfiggere Bernie Sanders alle primarie, e ora un uomo del Ku Klux Klan sconfigge la rappresentante di Wall Street.
I prossimi dieci anni saranno tremendi, è bene saperlo. Il crollo della globalizzazione capitalista è l’inizio di una guerra nella quale poco di ciò che chiamammo civiltà è destinato a sopravvivere. «Zero Hedge», il giornale online in cui scrivono gli intellettuali trumpisti ha pubblicato qualche giorno fa un articolo che sintetizza benissimo quello che sta accadendo e anticipa quello che accadrà:
È la classe media demoralizzata e disillusa che ha perduto di più, depredata dalla Federal Reserve, con salari che languiscono dagli anni Ottanta. Gli interessi a zero hanno punito lavoratori pensionati e risparmiatori mentre hanno beneficiato i milionari della finanza. Il prossimo collasso finanziario, che è dietro l’angolo provocherà una guerra di classe nelle strade.
Trump ha vinto perché rappresenta un’arma nelle mani dei lavoratori impoveriti, dato che la sinistra li ha consegnati disarmati nelle mani del capitale finanziario. Purtroppo si tratta di un’arma che si rivolgerà presto contro i lavoratori stessi, e li porterà a una guerra razziale. L’altra faccia dell’Operaismo trumpista è infatti il Nazionalismo bianco. Scrive ancora «Zero Hedge»: «Alle elezioni le persone bianche, sposate, rurali e religiose si scontrano contro le persone nere, senza padre, e non religiose».
La minaccia di guerra razziale è del tutto esplicita nelle posizioni del Nazional-Operaismo americano. Sconfitti sul piano sociale dal capitalismo finanziario, gli operai bianchi si riconoscono come razza degli sterminatori e degli schiavisti.
Il movimento Black Lives Matter sponsorizzato da Soros ha creato il caos nelle città americane, spingendo giovani neri a uccidere ufficiali di polizia, e portando all’estremo il programma di riparazioni ispirato da Obama. Ma se provano a uscire dai loro ghetti urbani creati dai democratici e se provano a venire nelle zone dell’America rurale incontreranno i possessori legali di armi che gli spareranno addosso. La guerra razziale si concluder presto e non c’è dubbio su chi sarà il vincitore. I bianchi moderati e conservatori sono stufi marci del programma liberal e del vittimismo nero. La risposta che daremo è: fatela finita di fare figli fuori dal matrimoni, andate a lavorare, educatevi. La vita è dura. Imparatelo. Nessuno vi deve nulla.
Aspettando la seconda guerra civile americana, in questi giorni mi trovo a Mosca per una conferenza. Mentre parlavo in una galleria d’arte ai fighetti come me e come i lettori di Operaviva, fuori, nel gelido nevischio della metropoli il popolo russo festeggiava. Cosa? Cosa si celebra, e si ricorda all’inizio del mese di Novembre in Russia? Non la rivoluzione sovietica del 1917 ma la cacciata dei polacchi nel 1612. Il fascismo russo ha salutato l’erezione della statua di Vladimiro il savio, cristianizzatore della patria 18 metri di altezza. Molte donne e molti bambini vestono con uniformi militari e inneggiano ai peggiori assassini che la storia ricordi, da Ivan il Terribile a Stalin il massacratore di comunisti.
La razza bianca in armi prepara un finale spaventoso per la storia spaventosa del colonialismo moderno. Riusciremo a sfuggire a questo finale già scritto nei libri dell’Armageddon che il capitalismo finanziario ha preparato e cui la sinistra riformista ha aperto la strada?
* Ha aderito alla campagna Facciamo Comune insieme. Questo articolo è stato pubblicato su operaviva.info
Il giorno di Donald Trump
Ha ottenuto 306 grandi elettori ed è il nuovo presidente degli Stati Uniti · *
I repubblicani conquistano sia il Senato che la Camera dei rappresentanti
Washington, 9. Donald Trump è il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Il primo autorevole commento della Santa Sede è quello del segretario di stato, cardinale Pietro Parolin, che a un gruppo di giornalisti ha dichiarato: «Prima di tutto, prendiamo nota con rispetto della volontà espressa dal popolo americano, in questo esercizio di democrazia che mi dicono sia stato caratterizzato anche da una grande affluenza alle urne. E poi facciamo gli auguri al nuovo presidente, perché il suo governo possa essere davvero fruttuoso. E assicuriamo anche la nostra preghiera, perché il Signore lo illumini e lo sostenga a servizio della sua patria, naturalmente, ma anche a servizio del benessere e della pace nel mondo. Credo che oggi ci sia bisogno appunto di lavorare tutti per cambiare la situazione mondiale, che è una situazione di grave lacerazione, di grave conflitto».
Al termine di una campagna elettorale durissima e di un voto incerto fino all’ultimo, il candidato repubblicano ha largamente superato la soglia dei 270 grandi elettori necessari per arrivare alla Casa Bianca. Hillary Clinton ha riconosciuto la sconfitta in un colloquio telefonico con il suo avversario.
«È giunto il momento di cicatrizzare le ferite, il popolo americano è uno solo e dobbiamo essere uniti. A tutti i repubblicani e democratici e indipendenti nel paese, dico che è arrivato il momento di essere un popolo unito»: queste le prime parole del presidente eletto, intervenendo nella ball room dell’Hotel Hilton di New York, nel cuore di Manhattan, subito dopo l’annuncio dei risultati ufficiali. «Lo prometto a tutti i cittadini. Sarò il presidente di tutti gli americani e questo è estremamente importante per me». Poi si è rivolto all’avversaria democratica: «Ho appena ricevuto una telefonata da Hillary Clinton, vorrei farle le mie congratulazioni, ha combattuto con tutta se stessa. Ha lavorato sodo e le dobbiamo una grande gratitudine». Affiancato dall’uomo che sarà il suo vicepresidente, l’attuale governatore dell’Indiana Mike Pence, Trump ha subito tracciato le linee guida del suo programma, con toni molto diversi da quelli usati in campagna. E lo ha fatto guardando in primo luogo alla politica interna, alla classe media bianca, i colletti blu e gli operai della rust belt, quella fetta dell’elettorato piegato dalla crisi con il sostegno del quale ha costruito la sua vittoria. «Il nostro paese non sarà secondo a nessuno: ricostruiremo tutto» ha promesso Trump. «Ogni americano avrà le sue chance e tutti quelli che sono stati dimenticati in passato non lo saranno più». Poi la politica internazionale, con la volontà di rilanciare il ruolo dell’America nello scacchiere internazionale: «Con il mondo cercheremo alleanze, non conflitti; ci comporteremo in maniera giusta con tutti i popoli e le altre nazioni». A pochi passi da Manhattan, nel quartier generale dei democratici, a Brooklyn, il clima è molto diverso. Clinton non ha ancora pronunciato un discorso ufficiale. Il suo staff ha comunicato che lo farà nelle prossime ore. Fino a tarda notte, i sostenitori dell’ex first lady hanno sperato in un sorpasso, per poi arrendersi all’evidenza. In un messaggio, il presidente uscente, Barack Obama, ha ricordato la campagna «faticosa, stressante e talvolta strana per tutti noi», sottolineando però che «la nostra democrazia è sempre stata turbolenta e chiassosa: siamo passati attraverso elezioni difficili e che ci hanno diviso, ma ne siamo sempre usciti più forti».
In ogni caso, i numeri parlano chiaro. Il rischio di una vittoria con margini molto ristretti, e quindi un presidente debole, è svanito. Trump ha conquistato 306 grandi elettori, ovvero 27 stati. Il tycoon repubblicano ha saputo convincere oltre 58 milioni di americani, il 47,7 per cento. Il dato più clamoroso riguarda gli stati del Midwest, tradizionalmente democratici, come Ohio, South Dakota, North Dakota, Nebraska, o quelli più in bilico come la decisiva Florida. Hillary Clinton si è fermata a 232 grandi elettori e 19 stati. La nettezza della vittoria di Trump è confermata dai risultati relativi al Congresso. I repubblicani hanno infatti conquistato sia il senato che la camera dei rappresentanti. Secondo i primi dati, il Grand Old Party avrebbe ottenuto 240 deputati contro i 195 democratici e 53 senatori contro 47. Numerose le reazioni sul piano internazionale. Soddisfazione arriva da Mosca. Il presidente russo, Vladimir Putin, si è congratulato con il nuovo presidente, augurandosi che «i rapporti russo-americani possano uscire dalla crisi», soprattutto su dossier importanti come l’economia e il Medio oriente. Positive le reazioni anche di India e Giappone. La Corea del Sud, invece, ha convocato il consiglio sulla sicurezza nazionale, preoccupata per l’approccio verso la Corea del Nord dichiarato dal tycoon. Il segretario della Nato, Jens Stoltenberg, ha detto che «la leadership degli Stati Uniti è importante nell’affrontare le nuove sfide sulla sicurezza». Stoltenberg ha assicurato la disponibilità alla piena collaborazione con la nuova amministrazione. Da Bruxelles la prima reazione europea è stata improntata al dialogo. «Continueremo a lavorare insieme, i legami tra Europa e Stati Uniti sono più forti di ogni cambiamento» ha sottolineato l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, Federica Mogherini. I presidenti del Consiglio e della Commissione, Donald Tusk e Jean-Claude Juncker, hanno invitato Trump a visitare l’Europa, affermando che «oggi è più importante che mai rafforzare le relazioni transatlantiche». Sul piano finanziario, la Borsa di Tokyo ha chiuso in calo del 5,4 per cento, al punto che è stata convocata una riunione d’emergenza del governo nipponico.
L’incognita Hillary: campagna sospesa *
Hillary Clinton costretta a sospendere la campagna elettorale per le Presidenziali americane. Niente viaggio in California previsto proprio in questi giorni. E la polmonite della candidata democratica entra prepotentemente nella corsa per la Casa Bianca. Senza escludere colpi di scena e l’ipotesi di trovare un nuovo candidato democratico. E ci sono indiscrezioni di altri componenti dello staff di Hillary che sarebbero stati colpiti dalla stessa patologia. Anche il rivale Donald Trump è intervenuto. Annunciando che presto darà conto sulle sue condizioni di salute: «Io sto bene. Ho appena fatto gli esami e quando avrò l’esito lo farò sapere».
La segretezza più grave della polmonite
di Massimo Gaggi *
«Gli antibiotici curano la polmonite. Ma non so quale possa essere la cura per l’ossessione della segretezza che affligge Hillary Clinton creandole problemi che si sarebbe potuta risparmiare». Difficile essere più nitidi e concisi di David Axelrod, lo stratega elettorale di Obama.
David Axelrod analizza il macigno che è caduto sulla campagna del candidato democratico alla Casa Bianca.
C’è la notizia della nuova malattia, certo, che rafforza i timori sulla fragilità della salute della ex first lady. La polmonite dopo i problemi alla vista, la trombosi e la commozione cerebrale di quattro anni fa, i «non ricordo» durante le testimonianze davanti al Congresso. La patologia polmonare potrebbe essere, in sé, un problema minore: può essere risolta con pochi giorni di cure, anche se lei deve averla trascurata a lungo, visti gli attacchi di tosse che la perseguitano da giorni, e anche se gli anziani recuperano più lentamente. E lei dovrà affrontare tra meno di due settimane il dibattito più importante di tutta la campagna elettorale col suo avversario, Donald Trump.
Il quale, dopo averla spesso insolentita ironizzando proprio sulle sue precarie condizioni di salute, ha improvvisamente assunto, su questo, un atteggiamento più composto (le ha anche augurato una pronta guarigione), consapevole che insistere ora sarebbe, per lui, controproducente: sono più che sufficienti, per mettere in cattiva luce la Clinton, il goffo tentativo della sua campagna di nascondere la realtà, l’irritazione del pool di giornalisti che segue la candidata per essere stato lasciato all’oscuro (se non addirittura depistato) e, infine, la tardiva ammissione che Hillary è affetta da una polmonite.
La campagna più sorprendente (e per certi versi inquietante) della recente storia americana diventa ancora più incerta con questo sviluppo che certamente indebolisce la candidatura della Clinton, ancora in testa nella maggior parte dei sondaggi ma con un margine di vantaggio su Trump che si assottiglia sempre più. In campo democratico nessuno ipotizza apertamente l’emergere di una candidatura alternativa anche perché la Clinton non ha certamente alcuna intenzione di tirarsi indietro, come dimostra il fatto che per tre giorni ha continuato a fare campagna anche con la polmonite.
Ma nel partito è sicuramente iniziata una riflessione informale sul da farsi qualora la situazione dovesse precipitare. Per i problemi di salute della Clinton o anche per quella «October surprise» che molti continuano a temere, tra rivelazioni di Wikileaks e inchiesta dell’Fbi sulle email «segrete» che è ancora aperta, con le ultime migliaia di messaggi, scoperti solo di recente, setacciati proprio in queste settimane. I democratici la difendono a spada tratta, sostenendo che, ferma restando l’importanza della trasparenza, il primo candidato donna della storia viene sottoposto a un esame molto più severo di Trump che fin qui sul suo stato di salute ha rivelato ancora meno della Clinton, nonostante sia più vecchio di lei: una brevissima ed enfatica lettera di un gastroenterologo per assicurare che il miliardario sta benissimo. E, visto che di trasparenza si parla, l’occasione torna buona per ricordare che Trump continua a rifiutarsi di mostrare anche le sue dichiarazioni dei redditi.
Insomma: sembra avere da nascondere più lui della Clinton. Ma «The Donald» non si è fatto cogliere in contropiede: ha subito detto che si è appena sottoposto a controlli medici accurati: appena riceverà i risultati dei test, li renderà noti. Continua, invece, il silenzio sulle tasse. Ad essere chiuso in un angolo, però, oggi non è Trump, che ha recuperato dopo i passi falsi di luglio, ma il suo avversario democratico. Coi continui tentativi di nascondere i fatti - dai pasticci fatti con le email e coi finanziamenti della Fondazione Clinton fino a una banale malattia - la Clinton alimenta quell’irritazione dell’opinione pubblica nei confronti dei politici tradizionali considerati cinici e bugiardi, che sta cambiando in profondità l’umore degli elettori anche in America.
«Hillary ha la forza per farcela»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE * NEW YORK Hillary Clinton sta cercando di recuperare fisicamente e politicamente, dopo aver rivelato all’America, con tre giorni di ritardo, di essersi ammalata di polmonite. A sorpresa Donald Trump glissa e preferisce attaccare la concorrente su altri temi. Mentre il presidente Barack Obama le dà la carica: «Hillary ha la forza per farcela».
Già domenica sera Clinton ha annullato il viaggio a San Francisco e Los Angeles previsto per ieri e oggi. La candidata democratica, 68 anni, parteciperà ai comizi in teleconferenza dalla sua casa di Chappaqua, nello Stato di New York. Due giorni di stop parziale, prima di riprendere la campagna.
Intanto il suo staff prova a respingere l’accusa di aver intenzionalmente nascosto quali fossero le reali condizioni di salute dell’ex segretario di Stato. Solo domenica 11 settembre, alle 17.30 ora degli Stati Uniti, i collaboratori di Hillary hanno diffuso la nota del medico di fiducia, Lisa Bardack: «Ha la polmonite, deve prendere gli antibiotici e stare a riposo». La diagnosi, però, risale a venerdì 9 settembre. «Avremmo potuto fare di meglio», scrive su Twitter Jennifer Palmieri, responsabile per la comunicazione, «ma è un dato di fatto che il pubblico sappia più di Hillary Rodham Clinton che di qualsiasi altro candidato della storia». Brian Fallon, portavoce dello staff, ha annunciato, invece, «che non ci sono altri problemi di salute, al di là della polmonite». In settimana lo staff «fornirà un quadro completo di informazioni mediche», mentre si è diffusa la notizia che almeno sei collaboratori di Hillary siano stati colpiti dalla stessa infezione.
Anche Trump, così ha detto, presenterà nei prossimi giorni «i risultati di una serie di esami clinici»: «Credo saranno molto buoni, perché mi sento veramente in forma», ha aggiunto. Il tycoon newyorkese, spiazzando molti osservatori, in mattinata è stato lieve sulla malattia di Hillary, nonostante l’iniziativa condotta nei mesi scorsi dai media conservatori che lo appoggiano. «Spero che guarisca e torni presto in gara. Non credo che il partito democratico la sostituirà. La vedremo al dibattito presidenziale fra due settimane». Qualche ora dopo Trump, parlando a Baltimora, è stato durissimo. Venerdì scorso Hillary aveva sostenuto che «metà degli elettori di Trump fanno parte del cestino dei miserabili; sono xenofobi, razzisti, omofobi, sessisti, islamofobi».
Il candidato repubblicano l’ha tacciata di «arroganza»: «Non si possono classificare e offendere così gli americani».
G. Sar.
* Corriere della Sera, 13.09.2016
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Gli intellettuali di «armiamoci e partite»
di Angelo d’Orsi (Il manifesto, 27 luglio 2016)
Il mondo sembra non avere più senso, e nella confusione delle nostre menti, nell’angoscia dei nostri cuori, nell’ansia che ci accompagna ormai in ogni situazione pubblica (da un treno a un ristorante affollato), ci abbandoniamo alla deprecazione, all’invocazione a qualche entità superiore, minacciamo di ritirarci nel cenobio, piangiamo le vittime di tutti i giorni di questo terrore cieco. Tutto ciò è legittimo e comprensibile. Persino giusto, almeno in quanto serve a scaricare le nostre paure. Eppure dobbiamo conservare accanto all’occhio caldo dei sentimenti, quello freddo della razionalità.
Non dobbiamo smettere di ricordare, a noi stessi e agli altri, che l’Afghanistan è stato demolito dagli Stati uniti foraggiando i Taliban, facendo prosperare Al Qaeda, salvo poi punire un intero Paese per catturare Osama bin Laden, fino a poco prima amico dei Bush & Co. In Iraq sappiamo come è andata: si cercavano anche là gli amici di Osama, poi le «armi di distruzione di massa», e in mancanza degli uni e delle altre, a Washington si decise di procedere comunque contro «Saddam, minaccia per il mondo» e perché «gli iracheni meritano la democrazia».
Sulla base del successo per l’eliminazione di Saddam, con una impiccagione coram populo si decise che si poteva bissare con Gheddafi. In questo caso furono le potenze europee, Francia e Gran Bretagna, ad intervenire, trascinandosi dietro gli alleati, timorosi che Londra e Parigi potessero collocare le loro imprese estrattive in posizioni di vantaggio sulla concorrenza, e Gheddafi risultava un osso duro per tutti gli occidentali. La sua uccisione è un capitolo della barbarie dell’Occidente. Infine, sullo stesso modello Saddam-Gheddafi si era puntato l’obiettivo su Assad, un altro dittatore da eliminare per restituire la democrazia al suo popolo.
E l’Isis che colpisce a destra e manca, e dove non colpisce comunque lucra del terrore, da chi è stato sostenuto negli scorsi anni, fino a non troppo tempo fa? Dagli occidentali, Usa in testa, fino almeno alla Turchia di Erdogan, che ora si dedica amorevolmente a custodire il suo popolo, sgominando il “nemico interno”, vero o immaginario, sulla base di un disegno politico preciso, semplicemente di tipo dittatoriale.
Rispetto ai tanti progetti Usa-Nato, sappiamo come è andata. La vita non assomiglia più a niente, scriveva Tahar Ben Jalloun dopo una visita a Baghdad, qualche anno fa; una frase che vale per Kabul, Baghdad, Tripoli, Damasco, Aleppo, e l’elenco può continuare, in una lista collana di morte disperazione dolore. Insensatezza. Le armi che vengono impiegate in quei luoghi sono quasi sempre nostre. I mercenari inviati a combattere per la democrazia sono perlopiù sul libro paga di agenzie occidentali. La grande regia è a Washington, a cui si accoda senza fiatare Londra (Tony Blair che chiede scusa ammettendo di aver sbagliato nel 2003 è un po’ penoso).
Seguono, gli altri, praticamente tutti gli altri, nel coacervo criminale della Nato, partecipano alla mattanza, ora frenando, ora accelerando, a seconda degli interessi nazionali; che sono poi gli interessi di gruppi dominanti, legati al mercato delle armi, a interessi finanziari e imprenditoriali.
Ma naturalmente i morti non sono tutti uguali, come uguali non sono i vivi. E lo sdegno per la Francia, per la Germania, e così via non si riproduce per le notizie che giungono dall’Africa, dal Medio e dall’Estremo Oriente, a cominciare dallo stillicidio di nefandezze portate avanti dai governanti israeliani a danno dei Palestinesi. E la nostra pietas di occidentali viene opportunamente distribuita, in base a convenienze, dei media, dei governanti, dei potenti. Ma anche in base alla nostra capacità di attenzione critica, che lo stesso susseguirsi di eventi tragici finisce per abbassare, fino al suo obnubilamento. E sta proprio qui il problema. La perdita dell’attenzione critica.
Certo, noi comuni cittadini non siamo in grado di fare alcunché contro i governanti stranieri. Ma possiamo almeno tenere sotto osservazione e sotto pressione i nostri. E possiamo, anzi dobbiamo, puntualmente sbugiardare i giornalisti, commentatori, intellettuali che, per stupidità, ignoranza, disonestà intellettuale, si sono resi complici di menzogne e inganni in tutti questi anni, sostenendo la favola velenosa della esportazione della democrazia, credendo o fingendo di credere a Bush, a Blair, a Sarkozy, e compagnia cialtrona. «Io so», diceva Pasolini, «so i nomi, ma non ho le prove», in riferimento alle colpe della Dc.
Noi abbiamo le prove. Basta sfogliare i giornali dei 20/25 anni alle nostre spalle, e oggi con la Rete tutto è assai agevole. Andiamo a rileggere i commenti, le analisi, e le pseudo-verità di questo esercito degli «armiamoci e partite», le grottesche macchiette di «eroi in pantofole», che hanno incitato l’Occidente a «difendere i suoi valori», a suon di bombe. Andrebbero invitati quanto meno a usare il loro intelletto in modo meno disonesto, e a fare una robusta autocritica, pur nella convinzione che non la faranno, ma almeno ricordargli cosa hanno scritto e detto li inchioda alle loro responsabilità. Costoro, a furia di predicare vento, hanno raccolto tempesta. Purtroppo questa tempesta, non solo colpisce e travolge tutti, indiscriminatamente, colpevoli e, soprattutto, innocenti; ma suscita mostruosi giochi dell’orrore, imitazioni sadiche, e un nichilistico desiderio di morte, che prende a oggetto gli altri e sé stessi.
E mentre orrore e terrore si propagano, a noi che rimane? Rimane il dovere della denuncia, il compito della documentazione, l’impegno della militanza dalla parte degli innocenti. A cominciare da quei bambini siriani che, facendoci versare più di una lacrima, hanno issato cartelli con le immagini dei maledetti Pokemon, e un amaro invito: «Venite a cercare anche noi».
Mosaico dei giorni
Crimini di guerra
di Tonio Dell’Olio (Mosaico di pace, 27 ottobre 2015)
Sono almeno tre gli errori sulla guerra in Iraq che Tony Blair ammette dodici anni dopo in un’intervista alla Cnn: la non veridicità della presenza delle armi di distruzione di massa, la cattiva pianificazione della guerra e il mancato calcolo delle conseguenze dopo la destituzione di Saddam.
Quanti morti, quanta distruzione, quanta sofferenza hanno provocato quegli errori ammessi oggi con colpevole ritardo?
E poi mi chiedo se basti ammettere gli errori e se non sarebbe più giusto davanti alla storia individuare le responsabilità e processare chi ha causato centinaia di migliaia di morti come si fa con chi commette un omicidio o un furto.
Ma è il gioco dei potenti.
O forse è che siamo abitati dalla tolleranza verso la guerra che stravolge le regole normali per cui le uccisioni in quel caso non sono definiti omicidi ma perdite umane.
Insomma, il paradosso è che la pubblica confessione di un criminale di guerra qui da noi non crea scandalo e nemmeno scalpore. Nemmeno alla luce delle conseguenze ancora più tragiche che quella guerra ha creato di fatto favorendo l’insorgere e il rafforzarsi di altri criminali sotto la bandiera nera dell’IS.
E infine mi chiedo chi ci sta mentendo oggi e quante sono oggi le vittime dei giochi dei potenti?
Il Papa errante
Tutti i rimandi alla storia del papato ci dicono che siamo di fronte a una svolta destinata ad avere ripercussioni sui sentimenti e le emozioni di un miliardo di persone.
di Giulietto Chiesa *
È già divenuto banale, scontato, dire che le dimissioni di Benedetto XVI sono un evento storico. Tutti i rimandi alla straordinaria storia del papato ci dicono che siamo di fronte a una svolta destinata ad avere grandissime ripercussioni sui sentimenti e le emozioni di un miliardo di persone in ogni angolo del pianeta, e perfino sui rapporti di forza politici e finanziari che si dispiegano in varie aree cruciali del mondo. Perché questa Chiesa cattolica è certo luogo di fede e di speranza per milioni, ma è molto di più centro di potere. Credo che abbiano ragione coloro che ritengono che questo dramma sia il risultato di una evidente crisi politica che ha il suo epicentro nel "sistema" dei corridoi vaticani. Una crisi virulenta, immediata e gravissima, che non ammetteva dilazioni. Un gesto quasi obbligato. Non c’è bisogno di ricordare il lungo rosario di scandali italiani, bancari in primo luogo, che hanno costellato il percorso di questo Papa. C’era e c’è del marcio in Vaticano. Lo Ior, Istituto per le Opere di Religione, e i suoi rottami, erano da tempo un bubbone maleodorante che infettava ogni mossa della Chiesa cattolica.
Lo scandaloso comportamento dei cardinali "capi" verso il potere politico italiano, il mercimonio praticato per anni con un "delinquente abituale" capitato, non per caso, alla testa del governo della Repubblica, il silenzio prolungato (quando non l’aperta e rivoltante complicità) verso il corruttore dei costumi e della pubblica morale italiani, tutto questo era ormai divenuto tanto visibile da apparire uno "scandalo" anti-evangelico. Masse di fedeli italiani non potevano ignorare le esibizioni dei cardinali che guidavano la danza.
Un "basso impero" vaticano faceva da specchio ai bassifondi della prostituzione pubblica e privata dell’Italia berlusconiana e della corruzione del Palazzo inteso nel suo complesso.
Joseph Ratzinger, probabilmente, era estraneo a gran parte di questi giochi di potere. Dai quali è stato soverchiato. Se "ha deciso" di andarsene non è certo per motivi di salute. O ha scelto di rompere lui, o è stato costretto a rompere. Ma tensioni che creano una rottura così clamorosa debbono essere enormi e irreversibili. Dunque non correrà troppo tempo perché esse emergano alla luce. Certamente per gradi. Ma si è rotta una immensa diga e il liquame dovrà uscire. Forse Ratzinger ha preferito mettersi al riparo.
Ma non è di questa crisi che voglio parlare. Ne intuisco i contorni, per le faglie strutturali che traspaiono, ma non ne conosco i dettagli. E credo più utile aspettare che essi vengano fuori da soli.
Intendo parlare di una crisi assai più vasta, devastante, strategica che è in incubazione da un tempo molto più ampio degli otto anni del papato di Benedetto XVI.
Una crisi che era già percepibile durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, ma che era stata coperta e resa invisibile dal suo carisma, dalla sua potenza fisica, dal mito che egli aveva costruito attorno a sé e che il mainstream mondiale aveva attivamente contribuito a costruire.
Giovanni Paolo II era una "star". E, in quanto star, era parte integrante della società dello spettacolo. Un totem che sovrastava una chiesa stracca e senza slancio. Poi c’era il condimento ideologico: il trionfatore sul comunismo, colui che aveva collocato la Chiesa cattolica nel solco della vittoria dell’Occidente. Non era solo fumo negli occhi: era, fu, un fungo atomico di propaganda spettacolare. Ma, nei suoi 26 anni di pontificato, Wojtyła non fece nulla per mettere ordine nella Curia romana. Arrivare dopo un tale Papa sarebbe stato dunque difficile per chiunque, sotto ogni profilo.
Forse fu questa una - non l’unica - delle ragioni per cui il conclave di 8 anni fa decise di elevare al soglio pontificio il più vecchio candidato tra quelli esaminati dai concilii che si sono tenuti dal lontano 1730: avere un papa "breve". Abbastanza per prendere respiro e consentire al Vaticano di riprendere la rincorsa. Volevano un papato di transizione e l’hanno avuto. Ma la velocità della crisi mondiale (non solo di quella vaticana) è stata troppa per un gigantesco organismo abituato a muoversi con pachidermica lentezza.
Adesso si dirà che Ratzinger ha dovuto fronteggiare scandali che non erano suoi. Le prime falle si erano già palesate con Wojtyła sul trono di Pietro: l’esplosione degli scandali sessuali, della pedofilia del clero in Irlanda e negli Stati Uniti. Ma l’ esplosione venne con Benedetto XVI: in Belgio, Austria, Olanda, Norvegia, Germania, ancora Stati Uniti.
Si dirà anche che tutti i tentativi di lanciare messaggi al mondo moderno, effettuati dal Papa che si dimette, si sono rivelati clamorosamente inadeguati: dalle gaffes verso gli ebrei, a quelle verso l’Islam. Ma non fu il primo papa a fare gaffes. Per qualche gaffe un vicario di Dio in terra non si dimette.
Il fatto più rilevante, mi pare, è contenuto simbolicamente nel nome che Ratzinger si scelse al momento della sua elezione: Benedetto. Un richiamo esplicito al santo Benedetto da Norcia patrono d’Europa. Ratzinger, cioè, si proponeva la riconquista dell’anima religiosa europea. Era l’Europa il centro dei suoi pensieri, il suo obiettivo principale. In una organizzazione che da oltre 2000 anni fonda il suo potere sui simboli, un tale segnale non poteva essere sottovalutato. Ma era, esso stesso, il segnale di una sconfitta storica, irrimediabile, di una ritirata strategica.
Negli stessi anni del suo pontificato Joseph Ratzinger avrebbe assistito, insieme a tutti noi, al trionfo della globalizzazione e all’inizio della sua fine. Allo spostamento dei centri del potere mondiale fuori dall’Europa e dall’Occidente. Uno sconvolgimento che non fu previsto, e neppure visto. E la Chiesa educatrice, la Chiesa della catechesi, fu soverchiata dalle nuove tecnologie della comunicazione, che predicano il vangelo del consumo, ben più potente ormai di quello del Cristo.
E la Chiesa si ritraeva clamorosamente nella cittadella che aveva dominato per secoli, incapace di qualsiasi proiezione, di qualsiasi slancio. Mentre chiese e seminari, e conventi europei si svuotavano, e quel poco che ancora restava e resta viene alimentato dai luoghi lontani e ancor miseri degli ex paesi del terzo mondo. Una Chiesa - quella di Ratzinger, ma anche quella di Wojtyła - incapace di affrontare le grandi sfide epocali di una transizione inevitabile, e dunque incline, per manco di afflato spirituale, a rifugiarsi nei meandri del potere occidentale. Un potere, per giunta, anch’esso in evidente declino.
Questa è la crisi di cui dovrà occuparsi il prossimo Papa di Roma.
* GLOBALIST, martedì 12 febbraio 2013
Il vangelo secondo José
di Geraldina Colotti (il manifesto, 21 settembre 2012)
La Plata, 16 febbraio 1976. Un corpo sfigurato dai proiettili viene ritrovato nei pressi dell’aeroporto della città argentina, capitale della provincia di Buenos Aires. Si tratta di padre José Tedeschi, sacerdote di origine italiana, che viveva nel barrio di Villa Itati. Per ucciderlo hanno usato uno Sten, una mitragliatrice leggera con caricatore di lato con cui firmano gli assassinii i paramilitari della Triple A. Hanno già mano libera prima del colpo di stato militare di Rafael Videla e soci, che avrà luogo il 24 marzo dello stesso anno. Altrettanto indisturbata agisce un’altra banda fascista, la Concentrazione nazionale universitaria (Cnu), che mira a stroncare soprattutto l’opposizione studentesca. Tra il 1974 e il 1976 si macchia di un centinaio di crimini. Quelli accertati della Triple A sono oltre 680.
L’11 settembre 1973, Pinochet si è impadronito del Cile, riempiendo gli stadi di prigionieri destinati alla morte. Secondo lo schema che Washington ha previsto per il proprio «cortile di casa», il modello da seguire è quello. Si tratta di sterminare «la sovversione e il caos comunista per salvare l’Argentina e tutto l’Occidente cristiano». L’allora governatore militare della provincia di Buenos Aires spiega bene il programma: «Prima uccideremo tutti i sovversivi, poi uccideremo i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, poi chi rimarrà indifferente, infine uccideremo gli indecisi». Il più possibile senza clamore, però. In questo modo, durante la dittatura argentina (1976-’83) spariranno nel nulla oltre 30.000 persone, spesso sequestrate sui posti di lavoro o per strada, in pieno giorno.
L’azione dei commando si svolgeva però soprattutto di notte. La zona veniva occupata militarmente, gli assassini entravano nelle case con la forza, terrorizzavano gli abitanti, obbligavano anche i bambini ad assistere alle violenze. La vittima veniva bloccata, percossa, incappucciata e sequestrata per poi sparire nel nulla. I desaparecidos di origine italiana in Argentina furono 1600, il 5% del totale.
Nell’ambito del piano Condor - la rete criminale a guida Cia con cui le dittature sudamericane di allora si scambiavano i favori - scomparvero oppositori di tutti i paesi. Il corpo di un rapito a Buenos Aires, poteva così ricomparire sulle rive di un fiume uruguaiano, o in qualche parte del Cile, rendendo oltremodo difficile la possibilità di identificazione.
Padre Tedeschi viene prelevato dai paramilitari il 2 febbraio ’76: da tre uomini, diranno le testimonianze e i rapporti di polizia, solo recentemente diventati accessibili alle organizzazioni per i diritti umani. Nato a Jelsi, in Molise, il 3 marzo 1934, Tedeschi si è trasferito con la famiglia a Buenos Aires all’età di 16 anni. Nel 1954 si sposta ad Avellaneda, frequenta l’oratorio dei Salesiani, entra in seminario e viene consacrato sacerdote nel 1967. Subito abbandona la congregazione per vivere con i baraccati di Quilmes, convinto dalla Teologia della liberazione. Per mantenersi, fa il mobiliere.
Una persona «pericolosa», che guida le proteste dei 10.000 baraccati per chiedere «agua». Quando i sicari vengono a sequestrarlo, il sacerdote oppone resistenza, gli abitanti cercano di reagire. La giovane Juanita, incinta di 9 mesi, accorre. Il capo del commando paramilitare - racconterà in seguito la ragazza - le punta il mitra alla tempia. Sente allora José Tedeschi che dice: «Lei no, questo no, prendete me». E se lo portano via, verso la tortura e la morte. Se avessero preso anche Juanita, sarebbe vissuta solo fino alla nascita del bambino, che probabilmente le sarebbe stato sottratto dai militari e dato a qualche famiglia di gerarchi o di complici.
«Fino a oggi, in base alle indagini del Dna e al coraggio delle Abuelas di Piazza di Maggio, sono stati ritrovati 106 nipoti sottratti, e c’è il sospetto che ve ne siano altri anche in Italia», ha ricordato Walter Veltroni. La figura di padre Tedeschi e le iniziative volte a far luce sul suo assassinio sono state al centro di una conferenza stampa che si è tenuta ieri a Roma alla Camera, alla presenza di alcuni deputati Pd, rappresentanti del governo, dell’associazione 24 marzo (Jorge Ithurburu), e della onlus che il Molise ha dedicato al sacerdote scomparso. Il 6 settembre, Franco Narducci (Pd) e il sottosegretario di stato per gli Affari esteri, Marta Dassù hanno presentato un’interpellanza parlamentare riguardo a eventuali iniziative da prendere sulla vicenda, a 36 anni dall’omicidio. Al governo argentino, si chiede l’apertura di un’indagine, alla magistratura italiana si domanda l’apertura di un procedimento giudiziario.
«José Tedeschi - ha precisato Carlos Cherniak, ministro consigliere dell’ambasciata argentina, responsabile per i diritti umani - è presente in due procedimenti in corso nel mio paese. Faceva parte dell’"altra chiesa", che stava dalla parte dei poveri. L’Argentina - ha aggiunto - sta facendo i conti con la sua tragedia, non così si può dire per altri paesi. Oltre all’aspetto giudiziario, c’è il dato politico su cui riflettere. La repressione militare, da noi, è cominciata prima del golpe. La democrazia è morta un poco ogni giorno, in un silenzio complice a livello internazionale. Sarebbe ora che il Vaticano aprisse i suoi archivi, che il governo italiano consentisse l’accesso a quelli delle sue diplomazie».
Un impegno che Veltroni ha detto di assumersi, raccogliendo anche l’invito rivolto da Ithurburu all’ambasciata italiana in Argentina perché offra assistenza legale e protezione a chi si reca lì a deporre. Il ricordo del testimone-chiave Julio Lopez, scomparso nel 2006, è ancora vivo.
Il Papa in visita in un Oriente dove la presenza cristiana è ogni giorno più precaria
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” del 14 settembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Benedetto XVI sarà in Libano dal 14 al 16 settembre, in un contesto segnato dalla crisi siriana e dalle sue conseguenze per i cristiani Alcuni religiosi vedono nel viaggio che Benedetto XVI si appresta ad effettuare in Libano, dal 14 al 16 settembre, il più rischioso dei viaggi del papa all’estero, tanto più con l’onda d’urto provocata dall’attentato a Bengasi nel quale è morto l’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia, mercoledì 12 settembre. Il contesto per lo meno instabile che prevale in Medio Oriente e la vicinanza esplosiva della Siria sono stati presi in considerazione. Ma Benedetto XVI, domenica, dalla sua residenza a Castel Gandolfo, ha ripetuto il suo credo: “Il mio viaggio apostolico in Libano e, per estensione, nel Medio Oriente nel suo insieme, si colloca sotto il segno della pace”.
I suoi collaboratori, è vero, ripetono che questo viaggio è “pastorale ed ecclesiale” prima che politico, ma non è certo che il tono generale sfugga all’attualità immediata: la vita delle comunità cristiane in Oriente è in gran parte dipendente dai soprassalti vissuti dalla regione... Senza dubbio il papa ricorderà la posizione prudente ed attenta della Chiesa di fronte alle “difficoltà” derivate dalle “primavere arabe”.
All’origine di questo viaggio, c’è effettivamente il messaggio di incoraggiamento di un capo religioso al suo gregge angosciato. Il papa verrà ad esprimere nuovamente la preoccupazione del Vaticano di fronte all’“esodo mortale” dei cristiani da una regione che ha visto nascere il cristianesimo e che la Chiesa cattolica si rifiuta di considerare come un museo a cielo aperto. Ma dovrebbe anche incoraggiarli a mantenere la loro presenza sul posto, come protagonisti “di giustizia, di concordia e di pace”.
Benedetto XVI consegnerà, venerdì a Beirut, l’esortazione apostolica redatta in seguito al sinodo sul Medio Oriente che si era tenuto a Roma nell’ottobre 2010. Un “documento programmatico fondamentale per la vita e la missione della Chiesa cattolica in Medio Oriente e per il suo ruolo di promotrice del dialogo e della pace” ha dichiarato il portavoce del Vaticano, prima del viaggio.
I 165 vescovi riuniti due anni fa per iniziare quel lavoro di riflessione avevano parlato in termini allarmistici, e politici, sulla precarietà della situazione dei cristiani nella regione. Si preoccupavano per la partenza delle giovani generazioni, dovuta a ragioni economiche, religiose o di sicurezza, per il peso del conflitto israelo-palestinese, per l’atteggiamento delle potenze occidentali nella regione, ma soprattutto per le difficili relazioni delle comunità cristiane con i musulmani in generale e per la crescita dell’islamismo.
Da allora, gli sconvolgimenti in Egitto e in Siria hanno cambiato gli equilibri nei quali le comunità cristiane, minoritarie e talvolta protette dai poteri autoritari, avevano trovato il loro spazio. Tali evoluzioni provocano, in proporzioni difficili da valutare, nuove partenze. Secondo le autorità religiose locali, l’esodo prosegue, in particolare in Iraq, dove i cristiani sarebbero ormai solo tra i 400 000 e i 500 000, contro un milione e mezzo negli anni ’90. Migliaia di cristiani siriani, la cui comunità è una delle più importanti della regione, hanno trovato rifugio in Libano in questi ultimi mesi.
Il papa dovrebbe quindi “mettere il dito nella piaga della scomparsa della presenza cristiana nella regione”, spiega un responsabile maronita libanese. Dovrebbe anche essere direttamente informato della situazione dei cristiani della Siria. Alcuni responsabili religiosi siriani hanno fatto presente in Vaticano che, “nella regione di Homs, le chiese e i conventi sono stati sistematicamente distrutti, i cristiani cacciati, in modo da impedire il loro ritorno”. Altri, come il gesuita Paolo Dall’Oglio, espulso dalla Siria in primavera, ritiene che, malgrado la vicinanza di alcuni cristiani al regime di Bachar Al-Assad, “non ci sono persecuzioni particolari verso i cristiani”. “Sono vittime, come gli altri siriani.”
Il nuovo contesto rende difficile l’“attaccamento” dei cristiani “alla terra”, sostenuto dai vescovi nel 2010. Esortavano i fedeli a “non cedere alla tentazione di vendere le loro proprietà immobiliari” ai musulmani, e Benedetto XVI dovrebbe incoraggiarli di nuovo a restare e dovrebbe sostenere il ruolo di molte istituzioni cattoliche (scuole, ospedali), ancora attive nella maggior parte dei paesi della regione.
Il papa si troverà invece a deplorare ancora una volta le divisioni che minano le numerose Chiese cristiane separate da secoli, ma sempre presenti su territori talvolta ridotti. Anche questi antagonismi erano stati evidenziati dai vescovi che, riprendendo un leitmotiv antico, spingevano per un lavoro sull’“unità” e sull’ecumenismo. Cinquant’anni fa, in occasione del Concilio Vaticano II, la Chiesa riconosceva già che “la divisione dei cristiani è per il mondo oggetto di scandalo”.
Sul punto più spinoso delle relazioni con l’islam, potrà Benedetto XVI andare oltre gli appelli “al dialogo di vita fruttuoso con i musulmani”, “al rifiuto degli atteggiamenti di chiusura e di odio”, “alla messa in guardia contro tutte le forme di estremismo” predicati dalla Chiesa, nel momento in cui i movimenti islamisti, o fondamentalisti musulmani sono diventati i protagonisti politici centrali degli scenari medio-orientali, promotori di leggi civili formulate in base alla legge islamica? Certi cristiani lo auspicano.
“Il viaggio non può rivestire l’aspetto di un sostegno ad un ’campo cristiano’ di fronte ad un ’campo musulmano’, spiega Mons. Pascal Gollnisch, direttore generale dell’Opera d’Oriente, un’organizzazione cattolica che sostiene i cristiani d’Oriente da centocinquant’anni. Questa caricatura sarebbe solo la proiezione di paure occidentali”. La Chiesa insiste regolarmente perché queste società promuovano la cittadinanza e l’uguaglianza dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro religione, una forma di laicità, nonché la libertà religiosa e di coscienza.
Da questo punto di vista, il Libano, definito “paese messaggio” da Giovanni Paolo II durante la visita del 1997, dovrebbe ancora una volta essere citato come esempio, malgrado le divisioni in seno alle comunità cristiane e musulmane e ai limiti riconosciuti di un sistema politico fondato su fragili equilibri confessionali.
Cristiani in Medio Oriente: da 15 a 20 milioni sparsi in 17 paesi
I cristiani d’Oriente ai quali si rivolgerà Benedetto XVI sono sparsi in 17 paesi. Il loro numero,
difficile da valutare in mancanza di un censimento preciso e recente, è compreso tra i 15 e i 20
milioni di persone. Rappresentano in questi paesi delle minoranze inferiori al 10% della
popolazione. Fa eccezione il Libano, in cui costituiscono più di un terzo degli abitanti. Il paese
ospita una dozzina di Chiese cristiane: i maroniti sono i più numerosi.
I copti in Egitto sono la minoranza più importante numericamente, dai 5 ai 10 milioni di persone, a
seconda delle fonti.
I cristiani dell’Egitto, dell’Iraq, dei territori occupati palestinesi e, ormai, anche della Siria, sono
quelle sottoposte a maggiori ondate di partenze.
Fenomeno relativamente recente, 3,5 milioni di cristiani originari dell’Asia o dell’Africa vivono,
secondo il Vaticano, in Medio Oriente, specialmente nei paesi del Golfo
di Massimo Faggioli (Europa, 30 agosto 2012)
Sorprendendo molti osservatori del cattolicesimo americano, anche il Partito democratico ha invitato il cardinale di New York, Timothy Dolan, a recitare una preghiera di benedizione alla convention democratica della settimana prossima. Il presidente dei vescovi americani non sarà il solo a rappresentare i cattolici nell’evento che lancia Barack Obama negli ultimi due mesi della campagna elettorale per le presidenziali. Ci sarà anche Simone Campbell, la suora a capo di un gruppo di religiose cattoliche “liberal” chiamato “Network”, che negli ultimi mesi ha condotto un “bus tour” in nove stati americani finalizzato a richiamare l’attenzione dei politici (e dei vescovi) sull’emergenza povertà in un’America che nell’ideologia dei repubblicani è sempre più preda del “Vangelo della prosperità”.
La notizia della presenza del cardinale Dolan a Charlotte è una brutta sorpresa per i cattolici repubblicani, che contavano sulla presenza di Dolan a Tampa come il segnale inequivoco dell’investitura delle gerarchie americane sul ticket Romney-Ryan, ovvero come una benedizione cattolica del primo candidato mormone alla presidenza, Romney, e come una benedizione delle politiche sociali radicali proposte dall’ideologo del partito Paul Ryan.
Non è ancora risolta la questione teologica sullo sfondo dell’identità culturale del GOP di oggi, con un candidato mormone conscio dell’aura di sospetto che il mormonismo ancora suscita in molti americani. In molti speravano che la benedizione di Dolan potesse risolvere la questione per un partito dalle anime sempre più radicali dal punto di vista morale e religioso (il Tea Party e i libertari, gli evangelicals, i neo-cons, e la specie ormai estinta dei repubblicani liberal).
Non sono in dubbio le simpatie di Dolan e di gran parte dei vescovi per il ticket repubblicano e specialmente per il candidato vicepresidente, Paul Ryan; ma dopo l’invito dei democratici accettato dal cardinale Dolan sarà più difficile accusare i democratici e il presidente Obama di laicismo o, peggio, di anticattolicesimo. Tra 2010 e 2012 la conferenza episcopale americana aveva mosso guerra alla presidenza Obama in nome della lotta contro alcune misure della legge di riforma sanitaria, ma il partito democratico raccoglie ancora molti dei voti dei cattolici americani, e in misura crescente i voti dei cattolici non bianchi e di recente immigrazione, per non parlare dei cattolici afro-americani.
Altra questione, assai più complicata tanto per i democratici americani quanto per i partiti politici moderni, è come dare rappresentanza (vale a dire, con quale personale politico) ad un cattolicesimo sempre meno “sociale” e sempre più concentrato, almeno a livello dottrinale, su una serie precisa di “valori non negoziabili”. Su questi ultimi valori, la retorica moralistica dei repubblicani ha trovato negli ultimi trent’anni un accordo facile, anche se superficiale, con le richieste dei vescovi e del magistero ufficiale della chiesa.
Non è ignoto ai cattolici americani che il Partito repubblicano è sempre più un partito di bianchi: il sentimento anti-Obama non è estraneo al risentimento della ex maggioranza bianca d’America per il fatto di essere guidata e rappresentata da un afro-americano nato alle Hawaii, cresciuto in Indonesia, ed educato alla Columbia ed ad Harvard. In questo senso il confronto Obama-Dolan è un confronto ideologico e valoriale, ma che impersona anche il confronto tra due elite diverse alla guida dell’America di oggi.
I cattolici americani vedono in Dolan un cardinale attivo e attivista, molto differente dai suoi immediati predecessori. Ma vedono anche una chiesa cattolica ancora dominata da una elite di vescovi bianchi: ci sono già vescovi cattolici latinos e afroamericani, ma per loro, ancora percepiti come rappresentanti di una minoranza all’interno della chiesa americana, è assai più difficile farsi portatori di un messaggio politico che deve essere allo stesso tempo culturale e contro-culturale.
Il presenzialismo del presidente dei vescovi americani, il cardinale Dolan, sul palco di tutte e due le convention elettorali ha ulteriormente animato il dibattito all’interno di un cattolicesimo che non solo è ideologicamente polarizzato, ma anche diviso in tendenze culturali complesse, non immediatamente riducibili al binomio conservatore vs. liberal, e portatore di molteplici discendenze etnico-linguistiche. Il cattolicesimo di cui Dolan si fa portatore è quello di matrice irlandese, quello che diede all’inizio del secolo americano alcuni dei suoi preti, politici e poliziotti più famosi. Ma il cattolicesimo di inizio secolo XXI è ormai molto più plurale, ancor prima che pluralista.
Il cattolicesimo degli afro-americani, dei latinos e degli asian-american non si trova sempre a proprio agio con questo presenzialismo, finalizzato ad imporre sulla scena politica nazionale il potere della maggiore chiesa nazionale americana: ma sicuramente anche ad imporre sulla scena della chiesa mondiale la presenza del cardinale Dolan. Da una parte, i segnali di americanizzazione della Curia romana fanno parte di questo scenario del cattolicesimo e della sua cultura politica nei decenni a venire; dall’altra parte, ci voleva una Curia romana politicamente inetta come quella attuale per consentire ad un cardinale americano come Dolan di accreditarsi come un candidato alle elezioni prossime venture nella chiesa mondiale.
La Corte Suprema degli Stati Uniti approva la Legge sanitaria
di Adam Liptak e John H. Cushman Jr
in “The New York Times” del 28 giugno 2012 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
La Corte Suprema ha approvato oggi, giovedì 28 giugno, l’estensione dell’assistenza sanitaria contenuta nella revisione alla Legge sanitaria proposta dal presidente Obama, affermando che è lecito affidare al Congresso il potere di alzare le tasse per garantirne la copertura finanziaria.
Il voto è stato di 5 favorevoli contro 4 contrari con il presidente della Corte Suprema, John G. Roberts Jr., che sì è schierato dalla parte dei membri liberal del tribunale.
La decisione rappresenta una vittoria per il presidente Obama e tutti i Democratici del Congresso, dal momento che è stata confermata la linea centrale dell’attuale presidenza. La sentenza della Corte ha riaffermato i cosiddetti diritti individuali secondo i quali sarà consentito alla stragrande maggioranza dei cittadini americani di poter usufruire d’ora in poi di un’assicurazione sanitaria, e in caso contrario sono previste sanzioni.
Il papa vota repubblicano?
di Massimo Faggioli (Europa, 20 gennaio 2012)
Nella fase cruciale delle primarie, con il front-runner mormone Romney tallonato dai social conservatives spaccati tra i due candidati cattolici Gingrich e Santorum, papa Benedetto XVI ha rivolto un discorso di rara durezza ai vescovi statunitensi in visita ad limina. Il papa ha ricordato la specificità del ruolo della religione e della libertà religiosa in America, fondato su un «consenso morale» attorno al riconoscimento del valore della «legge naturale». Questa legge naturale ha sempre garantito in America non solo la libertà religiosa, ma anche la libertà di coscienza, in un ambiente storico-culturale che si muoveva nel quadro di quelli che il papa definisce «i valori ebraico-cristiani».
Tutto questo è sotto attacco, afferma il papa, a causa di forze culturali che mirano a seppellire non solo quel consenso morale e i valori ebraico-cristiani, ma anche la stessa libertà religiosa e la libertà di coscienza. «Il secolarismo radicale» e «l’individualismo estremo» tendono a stravolgere quel consenso sulla legge naturale tentando di avvocare nuovi diritti, come quelli all’aborto e al matrimonio omosessuale, che il papa contrappone agli «autentici diritti umani».
Il discorso del papa è stato scritto da chi conosce molto bene la situazione del cattolicesimo statunitense, tanto da usare parole-chiave che risalgono al vocabolario del “costituzionalismo cattolico americano” del gesuita John Courtney Murray (quello che contribuì a sdoganare politicamente il cattolicesimo americano, a far eleggere John F. Kennedy, e che per questo si guadagnò la celebre foto sulla copertina di Time del 12 dicembre 1960).
Le questioni di fondo che agitano il rapporto tra chiesa americana e cultura politica all’inizio del secolo XXI sono più ampie e complesse dell’eterna questione del diritto all’aborto. La chiesa americana si sente sotto attacco - tanto da aver creato recentemente una task force episcopale per la difesa della libertà religiosa - per nuovi problemi come quello del matrimonio omosessuale, che è ormai accettato dalla gran parte degli americani, anche dai cattolici delle giovani generazioni. Ma altre questioni sono più intricate, come la recente decisione dell’amministrazione federale americana e di alcuni stati di negare alle carità cattoliche fondi statali fino a quando le carità cattoliche non accettino di mettere in pratica integralmente le linee-guida del governo, che comprendono anche le pratiche contraccettive e abortive.
Su questo si inserisce la messa in pratica della riforma del sistema sanitario, che metterebbe fine ad alcune esenzioni di cui finora i datori di lavoro cattolici potevano godere: ad esempio, escludere dalle polizze di assicurazione sanitaria per i lavoratori delle università cattoliche i rimborsi per pratiche mediche «contrarie alla morale cattolica» ufficiale.
Nei recenti dibattiti i candidati repubblicani religiosi e social-conservatori (Gingrich, Santorum, e Perry) hanno accusato l’amministrazione Obama di aver «dichiarato guerra alla religione» in America e alla chiesa cattolica in particolare. Propaganda a parte, i cattolici liberal che votarono Obama e appoggiarono la sua riforma sanitaria ora chiedono alla Casa Bianca di ripristinare quelle tutele per la libertà di coscienza. Ma i cattolici americani sanno che l’idea del carattere “ebraicocristiano” dell’America nacque nella guerra fredda e che oggi è diventata, nel paese culturalmente e religiosamente più pluralista del mondo, una reliquia.
Gli americani non esiteranno a vedere nel discorso del papa un attacco all’amministrazione Obama, all’inizio di un anno elettorale in cui i cattolici saranno ancora una volta il voto in bilico tra repubblicani e democratici.
Obama e il dna americano
di Massimo Faggioli (Europa, 28 gennaio 2012)
L’identità culturale, politica e civile di un presidente degli Stati Uniti incarna, in un modo unico tra le democrazie occidentali, un determinato momento nella storia del paese. Da questo punto di vista fa impressione confrontare il dna politico e civile di Barack Obama con quello degli attuali candidati alla nomination repubblicana.
Nel 2008 Obama venne eletto per molti motivi. Uno di questi fu il rigetto dell’innesto neoconservatore della scuola Bush-Rove da parte del corpo politico americano.
Ma a guardare alla storia sociale americana nel corso dell’ultimo secolo, tre elementi spiccano chiaramente come punti di contrasto tra la biografia di Obama e la proposta dei candidati repubblicani.
Il primo elemento è l’eredità del social gospel di inizio Novecento: la riscoperta della “questione sociale” da parte delle chiese in America costituiva un anello di quella catena spirituale-intellettuale che connette i padri fondatori con l’esigenza, tipica di un paesechiesa come gli Stati Uniti, di fare dell’America un posto moralmente migliore.
Il social gospel usciva dall’ottica individualista per muovere il discorso sulle condizioni sociali fuori dalle secche della esclusiva responsabilità dei singoli, e inquadrava sia i problemi sia le soluzioni in un quadro di responsabilità comuni. L’esperienza di Obama come community organizer a Chicago era figlia di quella sensibilità social gospel.
Il secondo elemento è il Cold War protestantism degli anni Cinquanta che faceva i conti con la cattiva coscienza d’America e tentava di non raccontarsi più la favola del “destino manifesto” di una nazione al di sopra delle leggi della morale. La famosa intervista di Obama con David Brooks del New York Times nel 2007, in cui il giovane senatore indicava nel teologo protestante Reinhold Niebuhr il suo pensatore di riferimento, era il manifesto intellettuale della politica estera di Obama. Reinterpretata magistralmente nel discorso di accettazione del premio Nobel del dicembre 2009, quell’anima realista, conscia dei paradossi che intristiscono ogni lotta armata per il bene (compresa la lotta dell’America per la libertà e la democrazia), rappresentava il compromesso necessario tra brusco risveglio dalle guerre di Bush e fedeltà al destino geopolitico degli Stati Uniti.
Il terzo elemento è l’eredità del civil rights movement degli anni Sessanta, quando il paese aveva superato l’eredità della guerra civile sulla segregazione razziale per tentare di liberarsi di uno dei peccati originali degli Stati Uniti. Per ragioni autobiografiche ma non solo, Obama si è definito come colui che sta «dall’altra parte del ponte» di Selma, in Alabama, dove l’America prese coscienza, grazie alle immagini televisive, della brutalità della segregazione razziale. I candidati repubblicani rappresentano l’eredità culturale di un’altra America, esattamente opposta. Se i due candidati cattolici Santorum e Gingrich fanno propri codici di linguaggio a sfondo razzista, Romney e Paul predicano un’idea di società ridotta a società per azioni, nella quale i cittadini vengono dopo i consumatori, e i consumatori vengono dopo gli azionisti.
La predicazione da parte di tutti i candidati repubblicani del ritorno ad una società pre-rooseveltiana implica una liquidazione di quegli elementi che hanno fatto dell’America un paese occidentale, non meno del libero mercato: social gospel, realismo morale della guerra fredda, e movimento per i diritti civili. A questo pensano i candidati repubblicani che vogliono “riprendersi l’America”.
Bisognerebbe avvisare quei pulpiti che da tempo predicano la “guerra culturale” contro gli anni Sessanta, sospinti dal vento di un pontificato e di uno Zeitgeist teologico a loro favorevole: forse non lo hanno ancora capito, ma l’entusiasmo dei culture warriors mira a travolgere anche le fondamenta delle loro chiese.
DANILO ZOLO: ATTUALITA’ DI VOLTAIRE *
In un frammento che e’ stato recentemente ritrovato, "Droit. Droit de gens, droit naturel, droit public", Voltaire polemizza contro la superstizione, l’intolleranza, la credulita’, il fanatismo e contro la Chiesa cattolica, accusata di intolleranza e di bellicismo. Voltaire sostiene che lo stesso jus gentium, il diritto internazionale in nome del quale si finge di volere la pace, mostra soprattutto l’ipocrisia dei potenti, inclusi i pontefici romani. Spesso essi si sono resi responsabili di infamie giustificando con la loro autorita’ spirituale guerre di sterminio contro i non credenti... Per conquistare la pace, cio’ che contava era la forza delle armi e la violenza delle guerre.
Sta qui, a mio parere, la sorprendente attualita’ del frammento di Voltaire, in un mondo dove l’uso delle armi di distruzione di massa e il terrorismo praticato dalle grandi potenze nucleari non trovano il minimo limite nell’applicazione dei Trattati internazionali e del diritto internazionale generale. Mai come oggi il potere delle grandi potenze e’ stato legibus solutus. E mai come oggi i pontefici romani si sono di fatto schierati a favore del potere politico egemone, anche nelle sue forme "imperiali".
Bastera’ ricordare che il 16 aprile del 2008 l’attuale pontefice romano, Benedetto XVI, ha deciso di celebrare il suo ottantunesimo compleanno in compagnia del Presidente degli Stati Uniti d’America. Alla Casa Bianca, in una atmosfera affettuosa e familiare, il pontefice romano ha espresso la sua totale adesione al "modello americano" e alla politica dell’amministrazione del Presidente George Bush, responsabile dello sterminio di decine di migliaia di persone innocenti, in particolare, ma non solo, in Iraq e in Afghanistan. "La democrazia puo’ fiorire soltanto - ha proclamato il Pontefice rivolgendosi affettuosamente al Presidente Bush nel corso della cerimonia - quando i leader politici sono guidati dalla verita’ e usano la saggezza". Nulla potrebbe essere piu’ lontano dal pensiero di Voltaire. E le guerre oggi in corso in Afghanistan e in Libia, per volonta’ dell’attuale presidente degli Stati Uniti Barack Obama - di dichiarata fede religiosa - confermano ancora una volta la lungimiranza di Voltaire e l’ipocrisia delle autorita’ cattoliche.
* OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 13 del 17 ottobre 2011
La Bibbia e la guerra di Rumsfeld
di Marina Mastroluca *
Succede, quando ci si ritrova un’amministrazione formata da falchi teocon, convinti di aver arruolato Dio dalla propria parte. Fa discutere negli Stati Uniti la notizia che l’ex segretario alla difesa Donald Rumsfeld fosse solito corredare i fascicoli dei suoi briefing al presidente George Bush con citazioni della Bibbia. Questo accadeva nel corso della guerra all’Iraq, quella missione che troppo facilmente Bush junior aveva dato per compiuta e che è ancora una grana per la Casa Bianca di Obama.
Mappe di guerra e brani del Vecchio Testamento. Cose così: «Le loro frecce sono affilate, i loro archi sono tesi. I zoccoli dei loro cavalli sono come selce, le ruote dei loro carri sono come vortici». Dal Libro del profeta Isaia, accanto l’immagine di un soldato Usa in preghiera. Altro briefing, altra copertina. Stavolta con Saddam Hussein e la scritta dalla prima epistola di Pietro: «È la volontà di Dio che tu possa zittire attraverso le buone azioni le parole ignoranti dei folli».
La Bibbia per illustrare l’andamento delle operazioni militari - e suggerire, salmi alla mano, gli estremi di una supervisione divina sul teatro di guerra: così andavano le cose, secondo quanto ha riferito il magazine Usa GQ. E non ci si stupisce più di tanto che il presidente Bush abbia dovuto correggersi dopo aver chiamato la sua guerra al terrore una «crociata».
Allora c’era stata una levata di scudi da parte di numerosi Stati musulmani. Molto peggio sarebbe avvenuto però - e questo era il timore dei funzionari dell’amministrazione - se si fosse venuto a sapere delle citazioni della Bibbia. «L’effetto sarebbe stato lo stesso delle rivelazioni su Abu Ghraib», ha confidato una fonte riservata a GQ. Tanto che persino un membro dello staff presidenziale, un musulmano, se ne era sentito personalmente offeso.
A volere la Bibbia in primo piano nei briefing sarabbe stato il generale Glen Shaffer, direttore dell’intelligence militare, che rispondeva a Rumsfeld. E ora che è tutto alle spalle, c’è il tempo di concedersi qualche polemica a ritroso sulla stampa, a futura memoria.
«Mi chiedo che cosa sia peggio: un segretario alla Difesa che cita il Vecchio testamento per aggiornare i progressi dell’invasione di un Paese musulmano o un segretario alla Difesa che pensa che questo servirà a migliorare la conoscenza e l’esperienza del suo presidente», è la livida considerazione di Andrew Sullivan sull’Atlantic Monthly.
Per Frank Rich, columnist del New York Times, Rumsfeld «ha giocato cinicamente la carta della religione per sedurre e manipolare un presidente abituato a citare frequentemente la Bibbia». E c’è di più. «L’azione del segretario alla Difesa non è stata solo viscida, ha comportato anche dei rischi per la sicurezza nazionale. Se ci fosse stata una fuga di notizie su questo collage di messaggi in odor di Crociata e immagini di guerra, avrebbe rinforzato l’apocalittico timore del mondo musulmano sul fatto che quella americana fosse una guerra di religione».
* l’Unità, 19 maggio 2009
Il Papa e Bush uniti negli errori
di HANS KÜNG (La Stampa, 22/7/2008)
In aprile Benedetto XVI festeggiò i suoi 81 anni con George W. Bush alla Casa Bianca. Curioso: il Papa, ambasciatore di pace e verità, che brinda con un presidente di guerra che, anche agli occhi di molti americani, con le bugie e la propaganda ha trascinato una grande democrazia in una guerra brutale, senza apparenti strategie per uscirne.
Secondo un sondaggio recente, l’80 per cento degli americani è convinto che gli Stati Uniti sono «sulla strada sbagliata». Di qui lo slogan di questa campagna elettorale per la Casa Bianca: «Cambiamento». E il Papa? A parte una tardiva ammissione di colpa per gli innumerevoli casi di pedofilia tra il clero cattolico, non ha praticamente detto una sola parola di cambiamento nella chiesa e nella società.
George W. Bush e Joseph Ratzinger sono diversi per carattere, istruzione e modo di parlare come possono esserlo un cowboy del Texas e un prelato romano. Bush non ha mai mascherato il suo atteggiamento anti-intellettuale. La sua conoscenza della storia è limitata tanto quanto la sua conoscenza della geografia, della lingue straniere e della filosofia. Una raccolta delle sue famigerate gaffe linguistiche e logiche («Bushism») ha prodotto molte risate. La sua visione del mondo è racchiusa nel modello manicheo dell’opposizione tra bene («noi») e male («loro»). All’opposto, Benedetto XVI ha goduto di un’eccellente istruzione classica e ha imparato alcune lingue straniere. Il suo pensiero è sottile, il linguaggio raffinato, le azioni prudenti. Per un quarto di secolo ha osservato attentamente le cose del mondo dalle finestre del Vaticano. Nel decidere si lascia guidare dalle usanze centenarie della Curia romana, il corpo amministrativo della Chiesa cattolica romana.
I due però hanno anche molto in comune. Entrambi amano le apparizioni pompose, siano esse su un aereo o davanti alle masse in piazza San Pietro. In occasione della visita del Papa, il Presidente tentò di competere con il cerimoniale imperiale del pontefice romano ricorrendo a una guardia d’onore e una salva con 21 cannoni. Sia il Presidente sia il Papa condividono un atteggiamento conservatore, soprattutto quando si tratta di controllo delle nascite, morale familiare, esibita devozione cristiana. Nel caso del presidente, questo atteggiamento sembra piuttosto fondamentalista; nel caso del Papa, sovraccarico di tradizione. Ovviamente, entrambi ritenevano che tutta questa ostentazione di fondamenta morali condivise avrebbe fatto guadagnare punti con il pubblico americano.
Nel suo recente viaggio di commiato nelle capitali europee, era evidente che il Presidente, che ha incontrato solo fiacca indifferenza anziché dimostrazioni ostili, è stato cancellato come un’anatra zoppa. Imperterrito, ha ripetuto il suo discorso sulla lotta per la libertà e la democrazia, per la «sicurezza» e la pace. In questo modo ha mostrato la sua personale versione di infallibilità, che lo rende incapace di imparare alcunché e gli impedisce di cogliere una qualunque occasione per ammettere la sua colpa di fronte all’immenso disastro che le sue azioni hanno creato nel mondo.
Il Papa, invece, non è un’anatra zoppa. E anche se lui, secondo una più recente dottrina romana, ha ancora una certa «infallibilità nelle questioni di fede e morale», è però capace di imparare. Dopo tutto ha concesso a me, suo critico, un’amichevole conversazione di quattro ore nella residenza estiva di Castel Gandolfo, nel corso della quale ha mostrato una sorprendente capacità di fare passi avanti nelle sue riflessioni. E nel viaggio in Turchia del 2006 ha corretto - con una visita fuori programma a una moschea e una chiara espressione di alta considerazione per l’Islam - le controverse osservazioni sull’Islam come religione di violenza, fatte qualche mese prima in Germania, all’Università di Ratisbona.
Il Papa è in carica da soli tre anni. Non potrebbe imparare, mi chiedo, dai fallimenti del presidente Bush? Alla sua grande intelligenza e alla sua sensibilità storica non possono sfuggire i segnali ammonitori per il futuro del suo pontificato.
Ne segnalo cinque:
1. Con la reintroduzione del tradizionale rito latino nella Messa, abolito dal Concilio Vaticano II e da Paolo VI in favore di una liturgia più accessibile nella lingua vernacolare, si è attirato molte critiche nell’episcopato e tra i pastori.
2. Nell’incontro con il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, a Istanbul, il Papa non ha dato segni di compromesso sui diritti legali romani medievali sulle chiese ortodosse e così non ha fatto nemmeno un passo avanti verso la riunificazione tra Est e Ovest.
3. Con le apparizioni pubbliche in sontuose vesti liturgiche nello stile di Leone X, che voleva gustare il pontificato in tutti i suoi agi e che porta la responsabilità principale per il «no» di Roma alle richieste di riforma di Lutero, Benedetto XVI ha confermato l’idea di molti protestanti che il Papa non conosce in profondità la Riforma.
4. Mantenendo rigidamente la legge medievale del celibato per il clero occidentale, porta la principale responsabilità del declino del sacerdozio cattolico in molti Paesi e del crollo delle tradizionali strutture della cura pastorale nelle sempre più numerose comunità rimaste senza prete.
5. Insistendo sulla perniciosa enciclica Humanae vitae contro qualunque forma di controllo delle nascite, il Papa condivide la responsabilità della sovrappopolazione, soprattutto nei Paesi più poveri, e dell’ulteriore diffusione dell’Aids.
Quella che il giornalista Jacob Weisberg chiama «la tragedia di Bush» non dovrebbe indurre Benedetto XVI a pensare più attentamente alle sue azioni? Mal consigliato dai neoconservatori e tenacemente appoggiato da media compiacenti, Bush voleva portare il suo Paese in una «nuova era americana». Ora finisce la sua carriera da fallito, a stento rispettato dal suo stesso partito.
«Sapienti sat» - «questo basta a chi capisce» - solevano dire gli antichi romani. Chi conosce la situazione della Chiesa non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.
«Benedetto Bush! Povera Chiesa! Misera Italia»
di Paolo Farinella, prete *
Genova, 15 giungo 2008 - Tre fatti salienti segnano a carattere di fuoco la settimana appena conclusa. Il primo riguarda la visita di Bush, presidente degli Usa in scadenza, che viene ricevuto da papa Ratzinger non solo con gli onori di Stato, come si conviene da protocollo tra potenti, ma con familiarità e intimità, fino a concedere al guerranfondaio la passeggiata nei giardini vaticani, prospicienti la torre di san Giovanni dove papa Giovanni si ritirava in preghiera. Giovanni XXIII è il papa che nella enciclica Pacem in Terris definisce la guerra «alienum a ratione», cioè del tutto insensata. Per buon peso c’è stata anche la cantatina dei pueri cantores della Cappella Sistina davanti alla grotta della Madonna della Guardia. Questa Madonna si venera a Genova, sul monte Figogna (m.s.l.m. 1000) e fu fatta predisporre nel giardini vaticani da papa Benedetto XV, al secolo Giacomo della Chiesa, genovese di nascita, che fu il papa che definì la 1a guerra mondiale «una inutile strage». A molti, anche all’interno del Vaticano, è sembrata una dissacrazione perché mai un pontefice è stato così accogliente e generosi di elogi verso un capo di Stato come Benedetto nei confronti del texano Dabliu Bush.
Giovanni Paolo II aveva definito la 2a guerra in Iraq «immorale» e rimase isolato, ma irremovibile. Ora se la logica ha una ragione, si desume che abbia dichiarato «immorale» anche chi quella guerra l’ha voluta, cercata e imposta, contro ogni fondamento di diritto internazionale perché, come gli stessi Usa oggi ammettono, avvenne su false testimonianze e false prove. Bush è un bugiardo di livello internazionale. Ricevere con tutti gli onori e intimità un omicida, un genocida, un antidemocratico, un assassino, un extra-ius come Bush, fa del papa un connivente e un complice. Di fronte al mondo dei disperati, dei poveri del sud del mondo che vedono in Bush la causa dei loro dissesti economici, governati dalla politica egoista e parassitaria degli Usa, il papa appare come colui che approva e condivide le scelte del governo statunitense. Le persone semplici non fanno tanti distinguo, ma vedono alla tv il papa a braccetto con un uomo del genere e giungono diritti alla conclusione: il papa sta con Bush non coi i poveri del mondo.
Era ancora fresca la notizia che il Vaticano aveva rifiutato per «opportunità politica» udienza ad alcuni capi di Stato partecipanti all’inutile assemblea della Fao, carrozzone iniquo che ingrassa se stesso e non risolve alcun problema. Non solo, ma alcuni mesi addietro, il papa per le stesse ragioni di opportunità aveva ritenuto di non concedere udienze nemmeno al premio Nobel per la pace, il Dalai Lama. Il popolo registra nella memoria del cuore e tira le conclusioni. Si aggiunge un’aggravante che nei colloqui pubblici e privati, dalle indiscrezioni di corte, il papa non abbia fatto alcuna critica o mosso alcun rilievo alle responsabilità di Bush per l’insicurezza mondiale e l’incremento del terrore in cui la miope politica di un uomo ignorante ha gettato il mondo intero. La modalità della visita per molti credenti è apparsa come una dissacrazione che avrà effetti devastanti per la Chiesa. Molti si allontanano dalla stessa e noi preti ne raccogliamo il dolore, la distanza, la sofferenza e la croce.
La vista di Bush al papa fa da pendant a quella di Berlusconi che forte della benedizione papale, nel pacchetto sicurezza emanato il 13 giugno, ha incluso una norma che tutela i preti e/o i vescovi: «quando emerge un reato nei confronti di un sacerdote, dev’essere immediatamente avvertito il vescovo, e quando emerge un reato a carico di un vescovo dev’essere avvertito il Vaticano», superando lo stesso concordato che era più misurato. D’altronde che cosa ci si poteva aspettare da un presidente del consiglio che uscendo dall’udienza papale a double baciamo-le-mani, dichiara che «non si può non ossequiare la Chiesa», riducendo così lo spazio di libertà e di democrazia di uno Stato sovrano?
Il secondo fatto è il pacchetto di provvedimenti varati dal governo il 13 giungo sulla sicurezza e le intercettazioni. Oramai siamo sicuri che lo Stato di Diritto sta morendo lentamente per asfissia sotto gli occhi di tutti e pochi si ribellano. Nemmeno l’opposizione politica parlamentare (tranne Di Pietro e l’Italia dei valori) si scandalizza limitandosi alle esternazioni di rito pur di mantenere una parvenza di dialogo che è e sarà impossibile con questo governo e la sua maggioranza. Tutti i provvedimenti sono finalizzati a blindare e mettere in sicurezza il cittadino extra legem Silvio Berlusconi e i suoi compari, alimentando la paura come sistema che diventa terrore diffuso per distogliere le attenzioni dai veri problemi che il governo non è in grado di risolvere perché non ha il senso dello Stato e delle Istituzioni. 2500 soldati dislocati anche solo nei capoluoghi di provincia che sono n. 107 fanno 23,36 soldati per provincia, cioè un insulto alla intelligenza e al buon senso. Solo gli allocchi possono cadere nella trappola mediatica del governo che mira solo a fare proclami di effetto che a risolvere i problemi reali.
Con tutta l’emergenza economica che sta strangolando il paese per gli effetti dell’allegra economia del 1° e 2° governo Berlusconi che finì sotto inchiesta europea per infrazione di deficit (per la cronaca: risanato da Prodi, Padoaschioppa e Visco), solo agli allocchi si può fare credere che la grande emergenza siano le intercettazioni telefoniche. Il decreto relativo mette al riparo tutta la delinquenza dai colletti bianchi e la magistratura è in ginocchio, potendo così andarsene a pescare perché ormai i reati perseguibili saranno solo quelli dei ladri di polli. Berlusconi con questo decreto si vendica dei magistrati e il paese plaude, senza accorgersi che sta passando da uno stato di libertà ad uno stato di sudditanza, da una condizione di diritto democratico ad una condizione di paese a democrazia limitata. E’ il progetto della P2 che diventa operativo. Con la benedizione dei vescovi che nulla hanno da dire, mentre invece gioiscono del nuovo clima che sta portando e porterà l’Italia alla deriva su ogni fronte.
Scrivo questa «finestra» perché resti in testimonianza a futura memoria perché giorno verrà in cui la coscienza e la morale chiederanno conto di ciò che abbiamo fatto e non fatto in questa epoca e allora non basterà solo chiedere scusa, ma ognuno dovrà assumersi le responsabilità di avere taciuto, di essere stato connivente, complice e correo. Invito i Vescovi della Cei ad andare a rileggersi il documento che loro stessi hanno scritto e firmato il 04/10/1991 come programma pastorale per l’Italia nel decennio 2001-2010 dal titolo profetico «Educare alla legalità» (v. testo in http://www.cci.progettoculturale.it/pls/cci_new/bd_edit_doc.edit_documento?p_id=4806 : in basso a sinistra tenendo premuto Ctrl cliccare due volte su «edulega.rtf») che è forse uno dei documenti più belli prodotti in questo secolo.
Esso profetizzò tutto lo sfacelo che avrebbe portato il berlusconismo prima ancora che si verificasse, quindi in tempo non sospetto. Se gli stessi vescovi disattendono i loro stessi documenti perché li scrivono in bella grafia, ma poi fanno il contrario di ciò che scrivono, come si possono presentare alla gente a chiedere credibilità e autorevolezza?
Il terzo fatto è pastorale: sabato 14 giugno è stato celebrato a Roma, nella chiesa di Santo Spirito in Sassia, alle spalle del Vaticano. Nulla da eccepire se due si sposano in chiesa, ma permettere che il sacramento del matrimonio venga ridotto ad una passerella mondana con foto in esclusiva, la sposa (si fa per dire!) seminuda è un insulto all’austerità sacramentale. I due nubendi non sono gente qualsiasi, ma due notori concubini (sto usando una terminologia usata spesso dalla gerarchia cattolica che difende la legittimità del matrimonio e per la quale può esistere solo il matrimonio come sacramento) pubblici: lui per la vita effimera che organizza per i ricchi in Sardegna e lei per essere famosa spogliarellista, velina, e forse adusa a vendere le sue grazie per ottenere favori. Questo matrimonio in chiesa non si doveva concedere se non a condizione che fosse strettamente privato, a porte chiuse, senza pompa, senza clamore e senza fotografi e cosa più importante con una sposa vestita. Avendolo concesso nelle modalità pagane che un certo mondo è solito vivere resta solo lo scandalo dei ricchi che anche in chiesa possono fare quello che vogliono.
Note a làtere:
1. Le notizie delle morti di operai sul lavoro si susseguono a ritmo sostenuto, conseguenza tragica della deregolamentazione della sicurezza sulla quale le imprese investono sempre meno, specialmente ora che hanno un governo «amico» e la Marcegaglia si scioglie in giuggiole e bigné. Bisogna predisporre una litania di operai morti in omaggio all’art. 1° della Carta costituzionale che dichiara la Repubblica «fondata sul lavoro». Il governo è latitante perché è pressato dall’urgenza delle intercettazioni, mentre per gli operai, una volta sopraggiunta la morte «il reato si estingue» che tradotto in lingua corrente significa: chi è morto è morto e chi è vivo è vivo. Seppelliamo i morti e pensiamo ai poveri impresari che devono sopravvivere e a causa di queste morti devono tenere chiuso qualche giorno, anche le apparenze vogliono la loro parte, e ci rimettono in quattrini, caldi e freschi.
2. Molti operai morti lavorano in nero in ditte del Nord e del Sud: il nero unifica la Nazione che Bossi vorrebbe divisa. La colpa non è delle ditte che assumono in nero, ma degli immigrati che non solo lavorano in nero, contribuendo all’economia sommersa e alla evasione delle tasse, ma vengono anche ad arrecare danni gravi venendo a morire qui, mentre potrebbero tirare le cuoia al loro paese. Ingrati, non si contentano mai.
3. I difensori della «vita dal concepimento alla morte naturale», come mai sono afoni di fronte a queste morti ingiuste, indegne e orripilanti? La vita è diversa se riguarda gli immigrati o i nativi oriundi? Se così fosse vorremmo conoscere la graduatoria e la priorità.
4. Il ciellino Formigoni, vergine a suo dire, ci può dire i termini del contratto con la clinica di Santa Rita di Milano, clinica privata e lautamente convenzionata con la Regione Lombardia? Visto che siamo in argomento, l’esimio e cristianissimo presidente, mancato senatore, ci potrebbe fornire l’elenco delle convenzioni e relative competenze economiche con la Compagnia delle Opere a gestione di Comunione e Liberazione?
5. Apprendo da comunicazioni di amici che «Il Giornale» di proprietà dei Berlusconi, un giorno sì e l’altro anche chiede la mia sospensione a divinis, e questa è la prova che ormai il giornale del padrone ha perso la sinderisi se si sente minacciato (?!) da un parroco del centro storico di Genova e pretende che tutti osannino e s’inchinino al passaggio di sua bassezza (riferito alla statura - absit iniuria verbi! - ), senza se e senza ma. Poiché non leggo giornali pornografici, non leggo codesto foglio, anche se ogni tanto qualcuno mi passa qualche appunto che regolarmente cestino. Sono ansioso di essere ricevuto dal mio vescovo per potere leggere insieme a lui i miei scritti e verificarli alla luce della dottrina e della morale della Chiesa. Informo comunque per buona pace degli scribi berlusconiani che finora non sono stato mai richiamato né ho avuto appunti da parte dell’autorità di riferimento perché quello che scrivo e dico è perfettamente lecito e non sconfinano affatto dai due ambiti di competenza che sono appunti la dottrina e la morale. Ho l’impressione invece che «Il Giornale» non goda di buona fama presso gli ambienti seri, anche dentro la Chiesa.
Medio oriente
Quello che sta accadendo (e non vogliamo vedere)
di Giulietto Chiesa da E polis - 3-7-06
Postato il Tuesday, 03 July @ 09:16:16 CEST di jormi *
Il medio oriente sta entrando a vele spiegate in una nuova guerra su grande scala. Bisogna essere ciechi per non vedere i sintomi, che sono chiari: l’Autorità Palestinese non esiste più. Gaza è diventata un poligono di tiro dell’esercito israeliano. In Libano cominciano a saltare in aria le colonne UNIFIL delle forze dell’ONU (per ora agli italiani è andata bene), mentre strani gruppi terroristici attaccano l’esercito libanese. La puzza di bruciato cresce. La guerra si estende in Irak; la Turchia pensa a un prossimo intervento nel Kurdistan iracheno; gli Usa e Israele tengono i motori accesi per un prossimo intervento militare contro l’Iran.
Il governo israeliano decide di restituire, finalmente circa 600 milioni di dollari che teneva illegalmente sequestrati ai palestinesi dal gennaio 2006, data della straripante vittoria elettorale (regolare) di Hamas. Ma quei soldi non andranno ai palestinesi, bensì al signor Abbas, presidente del nuovo Bantustan della West Bank.
I palestinesi, non solo quelli che muoiono trincerati a Gaza, ma anche la maggioranza degli altri, lo considerano già un traditore della loro causa. L’Europa ha già deciso di schierarsi con Abbas, per cui condividerà con lui il disprezzo e l’odio dei disperati.
E sempre l’Europa, con notevole faccia di bronzo (quella di Javier Solana) invita alla concordia. Ma tra chi e chi? Siamo stati noi europei, insieme agli USA, a derubare i palestinesi del legittimo governo che si erano scelto, votando come gli avevamo chiesto.
Ieri International Herald Tribune scriveva: la politica israeliana, "insieme all’embargo occidentale dell’aiuto al governo di Hamas, fu messa in atto con l’obiettivo di indebolire il governo e farlo cadere".
Siamo davvero molto democratici, noi europei. Solo che i palestinesi hanno eletto i loro candidati e non i nostri, per cui li abbiamo puniti.
A Israele nessuno dice niente, nessuno rimprovera niente. Neanche l’occupazione delle terre palestinesi che continua dal 1967. Neanche gl’insediamenti dei coloni, che continuano. Neanche il muro.
Se non ci sono due stati in Palestina è perchè Israele non lo vuole e gli Stati Uniti nemmeno. L’Europa dice di volerlo, ma non ha il coraggio di essere coerente. Non ha neanche il coraggio di dire con franchezza a Israele che non potrà costruire il suo Bantustan con Abu Abbas, senza cessare l’occupazione. E se volessero ripetere le elezioni Fatah perderebbe di nuovo. Si annuncia la guerra, e una nuova Intifada.
Che tristezza, per loro e per noi. Che vergogna per noi!
http://www.giuliettochiesa.it/modules.php?name=News&file=article&sid=268
* Il Dialogo, Martedì, 03 luglio 2007
Italietta o Italiona
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 10/6/2007)
Nelle ore che hanno preceduto l’arrivo a Roma di George Bush si è discusso molto di Italietta, per descrivere l’esecrazione dell’America che avrebbe animato di lì a poco cortei e manifestazioni contro il presidente americano. Dimostrazioni che lungo la giornata sono state pacifiche, e che non hanno turbato gli incontri con Prodi e il ministro D’Alema, conclusisi bene. Solo verso sera, in corso Vittorio, un piccolo gruppo si è ritagliato uno spazio nel corteo no-war e ha scelto la violenza, suscitando la risposta della polizia. A parlare di Italietta era stato Berlusconi e il governo ha reagito accusando l’opposizione d’aver precipitato il Paese in ben più palpabili provincialismi, negli anni in cui era ai comandi, correndo dietro alla falsa grandeur promessa da Bush.
L’epiteto Italietta fu usato prima dai nazionalisti contro l’Italia di Giolitti, poi dal fascismo che sognava un’Italiona con smanie nazionaliste. Non ne scaturirono che disastri: «l’intervento nella prima guerra mondiale e l’Italiona fascista, quella dei muscoli tesi e gonfi, degl’immancabili destini, della spada dell’Islam, degli eroi santi e navigatori», scrisse Montanelli il 10 marzo ‘96 nella rubrica delle lettere sul Corriere. La tanto sprezzata Italia dei notabili aveva compiuto in realtà miracoli, con le sue umili fatiche: «Era figlia di chi, avendola fatta dopo il Risorgimento a prezzo di uno sconquasso politico ed economico oggi difficilmente immaginabile, si trovarono poi a doverne pagare i costi, né conoscevano per questo altra terapia che la lesina».
Berlusconi imita quel disprezzo e propone un’Italia che può spendere e spandere senza mezzi. Che s’immagina grande solo perché affianca Washington incondizionatamente. Possiamo immaginare come Montanelli reagirebbe alle accuse del capo dell’opposizione: gli direbbe che l’Italia odierna è nulla, se non investe su un’Europa potente. Ricorderebbe al politico disgustato dall’Italietta che egli stesso è figura di un’Italia piccola che mente a se stessa: figura interessata non al mondo ma a un’elezione amministrativa parziale, non all’America ma alle peripezie d’un governo che l’opposizione intera s’ostina - con atteggiamento assai poco americano - a definire illegittimo. Il centro sinistra si difende ma cade spesso nella trappola: ogni giorno i suoi rappresentanti si sentono in dovere di spiegare che non sono antiamericani, quasi scusandosi. La discussione sull’antiamericanismo del governo è ideologica, senza relazione coi fatti del mondo e con le azioni di Prodi in Afghanistan e Libano.
Per capire l’importanza delle manifestazioni contro Bush non serve dunque guardare alle dispute italiane. Conviene guardare anche alla Germania e soprattutto all’America. Conviene meditare su un viaggio che vede il presidente Usa come intrappolato: impedito a Roma di andare a Trastevere, tanto grande è la sua impopolarità. Impedito di muoversi dalla cittadina balneare di Heiligendamm, perché un vertice a Berlino sarebbe stato incendiario. Tutti questi son segni del degrado che colpisce l’immagine americana in Paesi europei che in passato furono tutt’altro che antiamericani.
Qui infatti è la novità di quest’inizio secolo. Cortei contro l’America ci sono sempre stati, a cominciare dalle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, ma oggi i dimostranti non rappresentano una minoranza. Basta leggere il libro «America contro il mondo» (America Against the World: How We Are Different and Why We Are Disliked, New York 2007) di Andrew Kohut e Bruce Stokes, rispettivamente direttore e consulente del Centro indagini Pew, per rendersi conto che l’egemonia mondiale Usa vacilla straordinariamente e che la superpotenza non è in realtà più tale.
Per la prima volta i manifestanti in Germania e Italia non sono una minoranza, contrapposta a una maggioranza silenziosa filoamericana. Non esiste una maggioranza italiana o tedesca favorevole agli estremisti - alle loro violenze, alla profanazione con cui hanno offeso ieri la lapide di Aldo Moro - ma esistono maggioranze robuste che hanno smesso d’aver fiducia nell’America, che temono l’inefficacia delle sue politiche in Iraq, Afghanistan, Medio Oriente, sul clima, nei rapporti con Mosca. Questi sviluppi sono visibili in Europa e altri continenti, dopo l’intervento in Iraq. In Indonesia, l’immagine positiva dell’America è crollata nel giro d’un solo anno: dal 2002 al 2003, il favore è passato dal 55% al 15. All’origine di simili tracolli la reazione all’11 settembre, le guerre preventive, l’esportazione della democrazia. L’America è giudicata una potenza non affidabile, dopo la guerra in Iraq, dall’82% dei tedeschi: una cifra mai vista. Domandarsi se la contestazione non violenta vituperi Bush o l’America stessa non ha molto senso. La tesi di Kohut è che «a causa di Bush, aumentano sensibilmente coloro che cominciano a esecrare l’America in quanto tale», ha spiegato a maggio in una conferenza del Consiglio Carnegie a New York. Kohut parla di baratro: «Uscirne sarà difficile. Non basterà un cambio di presidenza».
Importante a questo punto non è fare la conta di chi sta in un campo e di chi sta nell’altro, ma esaminare la natura del baratro e costruire politiche su tale esame. Un compito che toccherà all’America come all’Europa. Alla prima tocca imparare dai fallimenti e chiedersi se il discorso su superpotenza e iperpotenza abbia ancora significato. Alla lunga, un potere forte esercitato senza responsabilità diventa inefficace oltre che arrogante: inefficace sino a svanire. All’Europa tocca prender atto d’un desiderio diffuso dei popoli e trarre le conseguenze da quello che per ora è più desiderio d’impotenza che di potenza. La sfiducia verso l’America non si traduce infatti in vera presa di coscienza, dunque in azione politica. Gli autori del libro sull’America contro il mondo sottolineano come tanti in Europa aspirino a un’Unione capace di controbilanciare gli Stati Uniti, senza però indicare come ciò possa avvenire. Divenire potenza comporta sforzi, spese, e gli europei (comprese le sinistre radicali che manifestano a Roma e Germania) non intendono pagare il multipolarismo che pretendono di inaugurare. Non si sforzano di smentire lo storico Michael Mandelbaum, secondo il quale molti perseguono una cosa e il suo contrario: vogliono in cuor loro che sia l’America a presidiare il mondo, e vogliono il lusso di poterla criticare gratis. Il 70% degli intervistati dal Centro Pew sostiene che il mondo funzionerebbe meglio se esistesse una seconda potenza, ma alternative non le propone né le vuole.
Quando era ministro delle Politiche comunitarie nel governo Berlusconi, Buttiglione disse una cosa che l’odierna maggioranza ancora non ha contestato: «I nostri elettori non sono disposti a pagare le spese di un apparato militare che ci offra possibilità di intervento paragonabili a quelli degli Stati Uniti. Non credo che si tratti semplicemente di miopia, ma di una corretta percezione del fatto che l’apparato militare americano in parte protegge anche noi. L’elettore non si sente minacciato dagli americani e anzi si sente almeno parzialmente protetto da essi. Per questo non è disponibile a pagare i costi di un massiccio riarmo europeo» (Corriere della Sera, 20 marzo 2003). I manifestanti dovrebbero rispondere a questo interrogativo: siete favorevoli a un’Europa che abbia mezzi e istituzioni per controbilanciare Washington, per una politica diversa dall’americana ma pur sempre audace? Se non sanno rispondere, la loro serietà è inesistente. Un altro problema europeo è il rapporto con Mosca e i dissidi tra europei su America e Russia.
D’Alema critica con rigore la tendenza di Bush a dividere l’Europa, trattando bilateralmente con Varsavia e Praga sullo scudo antimissilistico. Ma la questione riguarda non solo l’America ma anche la Russia. Putin ha mostrato nei giorni scorsi che l’Europa è spendibile. Ha minacciato di riattivare contro di essa le proprie atomiche per convincere gli americani a non installare scudi antimissilistici in Europa dell’Est. Poi ha sorpreso Bush, proponendo l’utilizzazione di propri radar in Azerbaigian. Ma nel frattempo aveva adoperato l’Europa alla stregua d’una pedina.
Il male non è l’antiamericanismo. L’accusa è astratta, viene ormai sistematicamente pronunciata per occultare la realtà. Chi vuol avere un rapporto con il reale si armerà - per meglio potere - di volontà di sapere: sapere cosa nascerà da queste manifestazioni di insofferenza verso l’America, negli Stati Uniti e in Asia, in Africa, in Europa e Italia. Solo Bush e i no-war tedeschi e italiani credono all’iperpotenza americana e a una globalizzazione governata con efficace mano di ferro dalla Casa Bianca.
America e Italia
di Furio Colombo *
Quello che sto per scrivere è la registrazione di alcuni fatti avvenuti nelle stesse ore e negli stessi giorni (mercoledì, giovedì, venerdì) a Washington e a Roma.
La conoscenza attenta e accurata di questi due gruppi di fatti dice con chiarezza, anche a coloro che si sono sentiti in dovere di dimostrare contro l’America, che il pericolo che stiamo correndo è qui, è adesso, è in Italia e occorre una certa cecità selettiva per non vedere che un dramma pericoloso si sta svolgendo intorno a noi. Mi riferisco all’estremo rischio per una repubblica democratica: spingere le Forze armate allo scontro con le istituzioni elette, puntare sulla rivolta dei generali, che la stampa berlusconiana, infatti, chiama a raccolta con un linguaggio grave e irresponsabile.
Tutto ciò non ha a che fare con la rigorosa lealtà dei militari italiani che restano fermamente legati al giuramento costituzionale. Ma è la peggior prova che una classe politica (in questo caso tutta l’opposizione inclusi i presunti moderati di Casini) possa dare di sé. Credo di poter riassumere così, per condividere con i lettori il senso di allarme.
* * *
Primo. Per una giornata intera (mercoledì 6 giugno) quasi tutti i senatori italiani che fanno riferimento a Berlusconi (in questo non si nota alcuna differenza importante fra uomini di azienda, affiliati e presunti indipendenti) hanno spiegato a lungo che i politici eletti sono esseri inferiori ai generali e che il vice-ministro Visco è una spregevole creatura indegna anche solo di porsi accanto al generale Speciale, figuriamoci di dare su di lui un giudizio negativo e una decisione di congedo.
A lungo i senatori eletti dell’opposizione si sono impegnati a superarsi l’un l’altro nella denigrazione e nel ridicolo della politica a confronto con l’onore dei generali. «Un generale non può mentire», è stato declamato. E anche: «come può un vice-ministro osare di contrapporsi a un soldato?». Tutto ciò prima che il ministro Padoa-Schioppa, titolare della Economia e a cui risponde il corpo di polizia (tecnicamente non militare) della Guardia di Finanza, prendesse la parola per dare le sue spiegazioni, assumersi la responsabilità della destituzione di un comandante di quel corpo (che non viene dai ranghi di quel corpo e dunque, nel bene o nel male, rappresenta prima di tutto, se stesso e la sua storia) e offrire motivate ragioni.
Vorrei chiarire al lettore. Non sto tentando di discutere o di sostenere quelle ragioni. Non è questo che è avvenuto in Senato, che avrebbe avuto tutto il diritto di rivedere i particolari e le svolte decisionali della vicenda.
No. Quello che è accaduto è stata una pioggia di insulti infamanti lanciati al colmo della voce (alcuni erano afoni, quando è scesa la notte) non da tutti ma purtroppo da moltissimi membri del Senato che (fanno fede i verbali) sono incorsi anche in sgrammaticature tremende pur di superare ad ogni intervento, gli insulti di chi li aveva preceduti.
Secondo. L’intento non era - e tutt’ora non è - in questa importante e delicata vicenda, la discussione parlamentare. L’intento, fin troppo vistosamente proclamato e francamente vergognoso da parte di membri autorevoli di un Parlamento, è di tentare lo scontro, montando la scena macabra dell’offesa alle Forze armate e, dunque, di un presumibile diritto di risposta.
Se mi riferisco alla esperienza giornalistica posso dire che soltanto nel Parlamento di Atene, nel maggio del 1967, mentre ero nella tribuna stampa insieme ad Alberto Ronchey, Bernardo Valli, Luciana Castellina, ho assistito allo stesso spettacolo di denigrazione violenta di un governo e della politica. Ma eravamo a poche ore da un colpo di Stato.
Se mi riferisco a quella incredibile profezia che è stato a volte il cinema italiano, ricorderò la scena finale di «Cadaveri eccellenti», di Francesco Rosi, le urla dei dimostranti, il rombo minaccioso di motori militari.
Spesso la realtà è più squallida del cinema (almeno di quel cinema, che prefigurava tragedie civili con impressionante bellezza). Ma alcune cose, se non da cinema certo da tragico avanspettacolo, erano state previste, come le gigantografie di Visco sventolate in Aula per mostrare alle telecamere il volto ignobile di un pericolo che deve essere eliminato. Come l’idea non riuscita (c’è stata anche una protesta formale per gli intoppi burocratici che casualmente l’hanno impedita) di riempire di militari della Guardia di Finanza le gallerie del Senato, e di organizzare di fronte al Senato una manifestazione di giovani con striscioni inneggianti al generale, giovani che (avrebbero voluto farci credere) erano militari in abiti civili “decisi a difendere il loro onore”.
Terzo. La giornata del dibattito, che sarebbe stata comunque tesa e difficile anche fra parlamentari disposti, e anzi decisi, a discutere una situazione comunque complessa, comunque bisognosa di chiarimenti, è stata preceduta da una opportuna serata della Tv di Stato, nel talk show «Porta a porta». In esso il conduttore, in preda a particolare concitazione, si è assunto il compito di accusatore dei due parlamentari dell’Unione, Violante e Russo Spena presenti in studio, sopravanzando spesso in precisazioni ostili, difese dei generali e confutazioni delle affermazioni di Violante e Russo Spena, i pur abili e implacabili senatori Schifani e Castelli, portando così a tre, nel programma, il numero di militanti fermamente schierati nella stessa parte politica.
Esagero? La Rai può fugare ogni dubbio in proposito facendo pervenire (anche a spese del ricevente) un Dvd di «Porta a porta» di martedì 5 giugno. Nessuno dirà una parola perché la rappresaglia, come è noto, è non essere più invitati nel prestigioso talk show. Ma almeno potremo mettere quel Dvd nell’archivio del Senato per sapere con quale cura, la sera di martedì 5 giugno, è stata preparata la tensione che si sarebbe dovuta scatenare il giorno dopo, mercoledì 6 giugno, nell’Aula del Senato in luogo della normale discussione parlamentare.
* * *
Ma adesso vediamo il confronto con corrispondenti eventi della vita politica americana. Se i giornali e le Tv italiane ne parlassero in luogo delle avventure carcerarie di Paris Hilton, alcune marce contro l’imperialismo Usa, munite anche di autorevoli presenze politiche, diventerebbero eventi in difesa della democrazia e delle istituzioni adesso, qui, in Italia.
Ecco, siamo nel Senato degli Stati Uniti. Parla il senatore Carl Levin: «Generale, ma le sembra possibile che proprio lei riuscirà a portare un minimo di coerenza a una politica militare del tutto incoerente, una politica incerta e vacillante dopo quattro anni di morti e di guerra?».
Senatore Jack Reed: «Generale, se lei va avanti ha un compito impossibile. Se lei fa un passo indietro dimostrerà in modo devastante che l’apparato politico e di sicurezza nazionale della Casa Bianca non esiste».
Senatore Carl Levin: «Ma generale, non si è accorto che Baghdad brucia? Non vede che la stanno mettendo in una situazione impossibile, di inevitabile fallimento?».
Racconta il «New York Times» (8 giugno): «Il generale Lute (definito “zar della guerra” per i compiti di completa revisione della strategia americana che gli sono stati affidati) ha risposto con candore: «Siamo in un vero rischio. Non sono certo contento di come vanno le cose. Temo anch’io che il governo iracheno non sia in grado di rispondere. Le soluzioni di rigido antiterrorismo in Afghanistan non sono la risposta giusta. Dobbiamo tentare altre strade».
* * *
Ho citato una buona pagina di civiltà democratica. Prima di assumere un incarico cruciale in due guerre in atto, il generale Lute, che ha fama di intellettuale perché, oltre a West Point, ha anche una laurea ad Harvard, si presenta ai senatori, che sono il potere politico eletto del suo Paese, per essere interrogato, valutato discusso, invitato a rispondere a domande imbarazzanti, richiesto di esporre piani e idee, di confrontarsi con il netto e diverso parere di alcuni senatori, per ore, per giorni, fino a quando la commissione Difesa del Senato non si sarà persuasa che il Presidente ha scelto l’uomo giusto per “il compito impossibile” di cui parla il senatore Levin, uno dei legislatori più risolutamente contrari alla guerra. S’intende che i senatori sanno in ogni momento di essere anch’essi sotto esame sia perché i giornali danno di queste audizioni resoconti precisi, non folkloristici, non piegati a tifoserie occasionali. Sia perché - attraverso la buona informazione che in modo assoluto evita il filtraggio di “talk show” di partito - l’opinione pubblica, in caso di errore, non fa sconti né ai senatori né ai generali. Non tollera ombre e pretende il meglio da entrambe le parti. Ma sa che tocca ai politici eletti dire l’ultima parola per poi risponderne col voto. È la condizione assoluta, ma anche la definizione, della democrazia.
È esattamente ciò che le scomposte urla in Senato, il lancio di manifesti e gigantografie insultanti, il progetto di riempire di militari - che per fortuna non sono venuti - le gallerie del Senato, hanno tentato in tutti i modi di danneggiare. È un peccato che - fra coloro che volevano dimostrare contro il “pericolo americano” - nessuno, neppure parlamentari che ormai vivono questa esperienza ogni giorno, abbia visto in tempo che il pericolo è italiano, è qui, è adesso. E non sappiamo neppure se è un pericolo scampato.
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 10.06.07, Modificato il: 10.06.07 alle ore 14.14
L’aereo del presidente Usa è arrivato nella capitale alle 22.35
Domani gli incontri con Napolitano, Prodi, il Papa e Berlusconi
Bush è atterrato a Fiumicino
Al via la due giorni romana
ROMA - Alle 22.35 l’Air Force One con a bordo George W.Bush è atterrato sulla pista dell’aeroporto romano di Fiumicino. E’ cominciata così la due giorni romana del presidente Usa che si snoderà tra incontri e contestazioni. Ad attenderlo una città blindata e imponenti misure di sicurezza. Subito dopo l’atterraggio, un corteo composto da una quarantina di auto si è diretto a Villa Taverna, la residenza dell’ambasciatore Usa Ronald Spogli dove la coppia presidenziale trascorrerà la notte. Dall’alto il lungo serpentone di auto, tra le quali anche uno mezzo speciale contro eventuali attacchi chimico-batteriologici, era sorvegliato da elicotteri con a bordo reparti speciali.
Ad accogliere Bush e la moglie Laura a Fiumincino c’erano i due ambasciatori Usa a Roma e presso la Santa Sede, con le rispettive consorti, Ronald P. Spogli e Francis Rooney, l’ambasciatore d’Italia a Washington, Giovanni Castellaneta, e il capo del cerimoniale diplomatico della Repubblica, ambasciatore Leonardo Visconti di Modrone. Il capo della Casa Bianca è accompagnato nella visita romana dal vicesegretario di Stato John Negroponte.
Domattina Bush salirà al Quirinale, poi vedrà Benedetto XVI. A seguire il presidente Usa si sposterà all’ambasciata americana, per partecipare alla tavola rotonda sugli aiuti umanitari e gli sforzi del volontariato con i responsabili della Comunità di Sant’Egidio. Alle 14 andrà a Palazzo Chigi per incontrare Romano Prodi. Alle 17 il presidente sarà a Villa Taverna dove avrà un faccia a faccia di trenta minuti con l’ex premier Silvio Berlusconi. Dopo un’altra notte a Villa Taverna, la mattina di domenica 10 giugno i coniugi Bush lasceranno l’Italia per proseguire il tour europeo che li porterà in Albania e poi in Bulgaria, ultime due tappe.
La giornata di Bush era iniziata con un imprevisto. Impegnato nel vertice del G8 in Germania il presidente Usa non si è infatti presentato all’apertura dei lavori. Colpa di un’infezione gastrointestinale che lo ha costretto a rimanere nella sua camera alcune ore più del previsto.
Subito dopo è intervenuto un portavoce della Casa Bianca per spegnere sul nascere le fibrillazioni sulla possibilità che il presidente americano potesse annullare le visite in Polonia (poche ore nel pomeriggio) ed in Italia. "Il programma è invariato", ha annunciato il portavoce. Dopo il malore Bush si è presentato sul lungomare baltico insieme agli altri Grandi.
Dopo la conclusione del vertice il presidente è volato a Danzica, nel nord della Polonia, per una breve visita di tre ore, nel corso della quale ha incontrato il suo omologo Lech Kaczynski per discutere del progetto di scudo antimissili. "Arriveremo a un accordo onesto che porterà a un rafforzamento della sicurezza della Polonia", ha detto Bush al termine del colloquio. Mentre il presidente polacco ha detto di avere convenuto che "non c’è alcuno scopo aggressivo legato allo scudo spaziale" e che si tratta esclusivamente di un sistema di difesa. Poi il volo verso Roma dove Bush è atterrato poco dopo le 22.30.
* la Repubblica, 8 giugno 2007
Non si placa l’indignazione per la citazione di Ratzinger contro Maometto
Il parlamento pakistano approva una mozione. L’ira degli ulema iracheni Paesi musulmani contro Benedetto XVI
"Papa ignorante, ritiri le frasi sull’Islam"
Accuse anche da Egitto, Palestina e India: "Il suo è un appello alle crociate"*
ISLAMABAD - Non si placano le polemiche sulle parole pronunciate dal Papa a proposito della religione islamica, nel suo discorso di qualche giorno fa su Jihad e guerra santa: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo - aveva detto l’imperatore bizantino Michele Paleologo, citato da Ratzinger - e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane...". E così anche oggi, dal Pakistan alla Palestina, in tanti hanno condannato duramente la presa di posizione del Pontefice.
Pakistan. Il Parlamento ha approvato oggi all’unanimità una risoluzione in cui si chiede a papa Benedetto XVI di ritirarare le sue dichiarazioni. Il ministro degli Esteri ha denunciato "l’ignoranza" del pontefice sulla religione musulmana, definendo "deprecabili" le sue parole.
India. Indignazione per le parole di Benedetto XVI sono state espresse dalla Commissione nazionale per le minoranze che, le ha definite "un appello alle Crociate del Medioevo". "Le parole utilizzate dal Papa risuonano come quelle dei suoi predecessori del Medioevo che hanno scatenato le Crociate", ha affermato Hamid Ansari, presidente della Commissione. In India, paese laico, l’80 per cento degli abitanti (la popolazione complessiva è di un oltre un miliardo di persone) è di religione indù, mentre il 13 per cento è musulmano.
Iraq. Il Consiglio degli ulema, massima autorità sunnita del paese, ha definito le parole del Papa "un precedente pericoloso davanti al quale non si può tacere", e ha invitato il Vaticano "a ritirare queste affermazioni irresponsabili. Come può credere il Papa che la sua critica all’Islam sia giusta mentre la terra dei musulmani è occupata dagli americani?".
Egitto. Circondate da migliaia di agenti in assetto antisommossa, poche decine di persone hanno inscenato una manifestazione oggi nella moschea di al Azhar, al Cairo, per protestare contro le dichiarazioni del Papa. Il ministro degli Esteri Ahmed Aboul Gheit, dall’Avana dove si trova per il vertice dei Non Allineati, ha espresso preoccupazione che le dichiarazioni: "Se vere - ha detto - infiammano gli appelli a uno scontro di civiltà e minano gli sforzi per riavvicinare Occidente e Oriente".
Palestina. Il premier uscente, Ismail Haniyeh (Hamas), ha condannato l’intervento del Papa e ha chiesto che ponga fine agli attacchi all’Islam. (15 settembre 2006)
*
www.repubblica.it, 15.09.2006.
Replica del Vaticano: da Benedetto XVI dialogo e rispetto
La verità della storia
I musulmani contro il Papa «Ci ha offeso, chieda scusa»
di Magdi Allam
È desolante e preoccupante l’immagine dei musulmani che hanno dato vita a un fronte internazionale unitario per attaccare il Papa e esigere delle scuse pubbliche. Da Bin Laden ai Fratelli Musulmani, dal Pakistan alla Turchia, da Al Jazeera a Al Arabiya, si è riesumata quell’alleanza trasversale e universale già emersa in occasione della vicenda delle vignette su Maometto. E che attesta, in modo inequivoco, che la radice del male è una cieca ideologia dell’odio imperante tra i musulmani che violenta la fede e ottenebra la mente. Perché mai i musulmani, soprattutto i cosiddetti moderati, non si sollevano con tale e tanta foga contro i veri ed eterni profanatori dell’islam, i terroristi islamici che massacrano gli stessi musulmani nel nome del medesimo Dio, gli estremisti islamici che legittimano la distruzione di Israele e inculcano la fede nel cosiddetto "martirio" islamico, mentre ora si sentono in dovere di promuovere una sorta di "guerra santa" islamica contro il capo della Chiesa cattolica che legittimamente esprime le sue valutazioni sull’islam, con rispetto ma altrettanta chiarezza della diversità che naturalmente esiste tra le due religioni? Le considerazioni riferite dal Papa, citando l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, sulla diffusione dell’islam tramite la spada, sia da parte di Maometto all’interno della Penisola Arabica sia da parte dei suoi successori nel resto del mondo (con talune eccezioni), sono un fatto storico incontrovertibile. Lo attesta lo stesso Corano e la realtà del passaggio all’islam dell’insieme dell’impero bizantino a est e a sud del Mediterraneo, più la successiva espansione a nord in Europa e a est in Asia.
Negare la realtà storica è semplicemente folle e non può che generare follia. Ricordo che uno dei più insigni islamologi contemporanei, l’egiziano Mohammad Said El Eshmawi, mi disse nella metà degli anni Novanta che lui non condivideva affatto la conquista militare attuata dalle tribù arabe dei Paesi cristiani del Mediterraneo e che avrebbe preferito che l’islam si fosse diffuso pacificamente così come avvenne nel sud-est asiatico. Ebbene il Papa viene messo alla gogna e minacciato per aver detto ciò che ogni musulmano onesto e raziocinante dovrebbe accettare: la realtà storica. La lezione da trarre è che l’Occidente e la cristianità la smettano di considerarsi la causa di tutto ciò che succede, nel bene e nel male, in seno all’islam e nel resto del mondo. L’ideologia dell’odio è una realtà ancestrale che esiste in seno all’islam sin dai suoi esordi, per il rifiuto di riconoscere e di rispettare la pluralità delle comunità religiose che sono fisiologiche data la soggettività del rapporto tra il fedele e Dio e l’assenza di un unico referente spirituale che incarna l’assolutezza dei dogmi della fede. Ed è una realtà che, a partire dalla sconfitta degli eserciti arabi nella guerra del 5 giugno 1967, ha registrato un’inarrestabile impennata parallelamente alla crescita del potere degli estremisti islamici dall’Iran all’Indonesia. Fino a sfociare nella deriva del terrorismo islamico globalizzato, che ha trasformato l’Occidente stesso in una «fabbrica di kamikaze».
Questa è la tragica realtà dell’ideologia dell’odio che riesce a coagulare il consenso tra tutti i musulmani obnubilati dall’antiamericanesimo, dall’antioccidentalismo e dall’ostilità pregiudiziale al diritto di Israele all’esistenza. I pretesti che possono scatenare la loro furia mutano, dall’occupazione israeliana alla guerra americana, dalle vignette su Maometto alle dichiarazioni del Papa. Ma il problema è tutt’interno a un islam trasformato dagli estremisti da una fede in Dio in un’ideologia tesa a imporre un potere teocratico e totalitario su tutti coloro che non sono a loro immagine e somiglianza. E mi spaventa constatare che anche i cosiddetti musulmani moderati hanno rinunciato al senno della ragione e si siano allineati alla "guerra santa" di cui loro saranno le principali vittime.
15 settembre 2006
"Il morto fa presa sul vivo" (la verità della storia)... e l’eu-angélo, il buon-messaggio della (la storia della) Verità in cammino!!!
Caro Biasi
"la verità della storia" ... non è la storia della Verità!!! E il dialogo e il rispetto di Benedetto XVI, abissalmente lontano dal dialogo e dal rispetto manifestati da GIOVANNI XXIII, e da GIOVANNI PAOLO II - W O ITALY (art. 11 della Costituzione dei nostri ’Padri’ (Giuseppe) e delle nostre ’Madri’ (Maria)!!! - è come quella del LUPO (o dell’Orso) nei confronti dell’ AGNELLO, nei confronti deila religione ebraica come della religione islamica. L’istruzione "Dominus Jesus" aveva detto già tutto - contro Giovanni Paolo II e il suo spirito di Assisi, che mirava alla pace e il dialogo, con tutto il cuore!!!
La teologa tedesca Uta Ranke-Heinemann, figlia dell’ex-presidente della Repubblica, e collega di corso del cardinale Ratzinger - in un’intervista del 18.01.1990, in Italia per presentare il suo libro "Eunuchi per il regno dei cieli), ecco cosa disse di Ratzinger: "un uomo intelligente, ma privo di qualsiasi sensibilità umana". Vale la pena tenerne conto, quando ascoltiamo le sue parole o leggiamo i suoi testi.
Al contrario, ricordiamoci di Dante!!! All’inferno, oggi, certamente, non avrebbe messo Wojtyla (Bonifacio VIII, con il suo Giubileo 1330-2000) e nemmeno Maometto ... ma Papa Ratzinger - proprio per la sua volontà di ditruggere lo spirito di Assisi (Dante era terziario francescano). Ricordiamoci - da italiani e da italiane, che "Dio" - in ’volgare’ - si dice Amore e "che muove il Sole e le altre stelle", ma certamente non l’intelligenza teologico-politica e politico-teologica di tutta l’attuale Gerarchia della Chiesa romano-’cattolica’!!! Che ideologia folle, questa religione costantiniana che vuole imporsi universale: si pretende che, dopo la Legge del "Dio" che dice di onorare il padre e la madre, si sostituisca e si imponga che la Legge del "Dio" che dice di amare la Madre (’Maria’) e il Figlio (’ Gesù Cristo’)!!! Ma che Spirito Santo è questo?! Questo è lo spirito del Mentitore - questa è la Legge del "Dio" del Faraone!!! Certamente non di Mosé, non di Gesù, non di Maometto!!! Fin dall’inizio - e subito - Benedetto XVI si è richiamato al IV secolo d. C. per distruggere definitivamente la memoria della E dell’Eu-angélo (Buon-messaggio), rilanciare la vecchia guerra contro la storia della Verità in cammino ... e mettere fuori legge ogni ’battuta’ o motto di spirito: "aus".. "witz"!!! Che tutto vada all’inferno .... nel più profondo dell’inferno. Van-gélo, van-Gélo: questo è il messaggio del Lupo travestito da Agnello, oggi!!!
W O ITALY !!!
M. saluti, Federico La Sala
“Tutti i pastori sono uomini, tutte le donne sono pecore”
intervista a Uta Ranke-Heinemann, a cura di Elisabeth Lind
in “dersstandard.at” del 22 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Papa Benedetto visita la Germania, suo paese natale. Sei anni fa i tedeschi esultavano per il “loro” papa, ora gli viene preparata solo una “tiepida” accoglienza. Perché i tedeschi hanno perso il loro entusiasmo?
Non è solo “tiepida accoglienza”, c’è piuttosto una vivace protesta. Credo che la cosa peggiore che questo papa si sia permesso, è la faccenda dei casi di abuso. Infatti dal 2001 ad oggi non ha ancora ritirato il suo scritto “De Delictis gravioribus” (Sui delitti più gravi).
In quello scritto, a cui lei ha appena fatto riferimento, si parla di una lettera che Ratzinger nelle sue funzioni come prefetto della congregazione per la dottrina della fede (ex inquisizione) ha inviato a tutti i vescovi.
Esattamente. Non una parola per le vittime. A tutti i vescovi si intima, pena la scomunica, di trasmettere tutti i casi di abuso esclusivamente al Vaticano come corte di giustizia apostolica, il che ha come conseguenza la totale impossibilità di attivare procedimenti giudiziari per i tribunali degli Stati, e porta ad un continuo trasferimento dei preti e dei religiosi pedofili, che dopo una “terapia” continuano a perpetrare per decenni i loro crimini. Tale scritto non lo ha finora ritirato. Solo, di tanto in tanto, versa lacrime di coccodrillo, quando incontra in vari paesi vittime di abusi.
Tuttavia, un anno fa, Joseph Ratzinger ha presentato per la prima volta come papa le sue scuse alle vittime e ha promesso che sarebbe stato fatto di tutto per evitare che gli abusi si ripetessero. Lei crede a questo cambiamento?
No, questo papa cambia solo di male in peggio. Gli sono stata fedele per più di cinquant’anni, da quando nel 1953/54 abbiamo studiato insieme per un anno a Monaco e ci siamo aiutati reciprocamente a tradurre in latino le nostre rispettive tesi di dottorato. Lo ritenevo un teologo intelligente e riservato. Solo nel 2005, quando è diventato papa, mi si sono aperti gli occhi.
Allora, crede che la critica attuale dei tedeschi a papa Benedetto XVI dipenda principalmente dal modo in cui il papa si è occupato dei casi di abuso?
Certamente. Ma c’è anche una seconda cosa che fa orrore. Per Benedetto XVI i preservativi sono permessi solo “per prostituti maschi”, come dice nel libro del 2010 “Luce del mondo”. Perché pensa a “prostituti maschi”, consegnando invece al fuoco eterno dell’inferno le mogli che usano il preservativo per difendersi dal contagio dell’AIDS? Papa Benedetto coglie ogni occasione per - se non annullare - almeno “ascetizzare”, “eunuchizzare”, “monacheizzare” e “celibatizzare” il matrimonio. Perché non si allontana alla fine dalle camere matrimoniali, che sono diventate nel frattempo il luogo del suo massimo soggiorno per il controllo dei rapporti? Con la sua teologia del preservativo ha pervertito l’annuncio evangelico di Gesù in un annuncio di bordello per prostituti maschi. Al resto della popolazione che non si prostituisce predica il fuoco eterno dell’inferno. Accuso papa Benedetto per il suo micidiale raggiro dell’umanità.
Perché pensa che così tante persone in tutto il mondo si allontanano dalla Chiesa cattolica?
Per 26 anni ho avuto da ridire su papa Giovanni Paolo II. Poi, quando Benedetto è diventato papa, mi è stato chiaro nel giro di un paio di mesi, che tutta la politica del Vaticano già dal 1981 (quando Ratzinger è diventato prefetto della congregazione per la dottrina della fede) dipendeva da Joseph Ratzinger. È stata la più grande delusione della mia vita. Non mi sono mai sbagliata così tanto.
In Austria c’è una iniziativa, che invita alla rivoluzione dei fedeli e alla disobbedienza al papa. Tra le altre cose, si chiede l’ammissione delle donne e delle persone sposate al presbiterato, la comunione per i divorziati risposati ed un cambiamento per il celibato. Anche in Germania c’è un ampio dialogo a favore di riforme nella Chiesa. Quali opportunità vede per queste iniziative?
C’è il rischio di una spaccatura tra chi è in alto e chi è in basso. Tutti quelli che si mettono in testa cappelli da carnevale, dal vescovo al cardinale fino al papa, non vengono più accettati. Ma i semplici preti, che sono sempre pronti ad annunciare la buona notizia di Gesù: “non cercare ricompense, fare del bene ai nemici”, e ad aiutare, e comunque tutte le donne, a poco a poco si staccheranno dai pastori di grado superiore. Da 2000 anni, tutti i pastori sono uomini, tutte le donne pecore. L’allontanamento delle donne sotto gli ultimi due papi ha raggiunto il punto massimo, e anche il punto finale. Una spaccatura tra la gerarchia e il popolo è possibile. (...)
Uta Ranke-Heinemann è stata la prima donna al mondo ad aver ottenuto una cattedra di teologia cattolica (1970), che poi ha perso (1987) per i suoi dubbi sull’immacolata concezione. Nel 1953/54 è stata compagna di studi di Joseph Ratzinger a Monaco. I suoi due libri “Eunuchi per il Regno dei cieli. Chiesa cattolica e Sessualità” e “No! e così sia” sono bestseller internazionali.