Per una società aperta, al di là di una scienza “su palafitte” e di una cecità “preistorica”, necessaria un’altra soggettività. *
Premessa
TERRA E SANGUE, VIOLENZA E GUERRA, SONO PERVERSAMENTE ANNIDATE NEL CUORE E NELL’INTELLIGENZA DELL’INTERO GENERE UMANO: IL CAMMINO CHE ABBIAMO FATTO FINO AD OGGI E’ STATO SOLO UN MARCIARE SUL POSTO - UNA LUNGA “PREISTORIA”!
Da sempre la nonviolenza è in cammino, ma la testa (e l’immaginazione) dell’intero movimento umano è stata sempre e solo governata e guidata dalla testa (e dalla immaginazione) dell’ “uomo”. E’ da qui - da questa parola e da questa condizione - che bisogna ripartire, se vogliamo che le nostre ‘teste’ depongano finalmente elmi ed armi , paure e astuzie, proprie di esseri umani ancora “cavernicoli”: occorre pensare da sé con sé (“come un altro”) e partire da sé, mettersi in cammino con sé (“come un altro”) - senza armi né bagagli del vecchio “uomo”.
La nonviolenza per la società aperta non è la via dell’ “uomo”, ma l’unica via per la città aperta a tutti gli esseri umani (non all’“uomo”!). Per questa città, nessuno chiede deleghe a nessuno, e nessuno vuole deleghe da nessuno: richiede autonomia, coraggio, e rispetto della propria e altrui dignità. La via, già alla base stessa della nostra Costituzione, è segnata dalla stella polare degli esseri umani usciti dalla guerra e dalla “cultura” della “terra e del sangue”, che non vogliono più tornare indietro nella giungla e nella caverna. Libertà, uguaglianza, e fraternità non sono parole scritte sulla bandiera del faraone di turno, ma vivono, crescono, e riposano solo nella propria consapevolezza critica e nel rispetto della propria e altrui sovranità. Diversamente, non si può entrare e non si può vivere nella città aperta - questa, altrimenti, o è un sogno lastricato di buone intenzioni o una trappola di un mentitore, di un faraone, per ricostruire la sua piramide!
Facoltà di giudizio e creatività
Ormai è più che evidente: siamo sempre più intelligenti e sempre più creativi, ma anche sempre più stupidi e cretini - pericolosamente! Come mai?!, come è possibile?! Forse vale la pena svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e cercare di raccapezzarci un poco sul problema. Una grande opportunità per cominciare (o ricominciare) a pensarci, è leggere (o rileggere) un importante contributo di Emilio Garroni, intitolato “Creatività”: questo testo, apparso per la prima volta nel 1978 all’interno della “Enciclopedia” Einuadi, è stato ora ripreso in volumetto autonomo, con prefazione di Paolo Virno, dalle edizioni “Quodlibet” di Macerata. In tale saggio, Garroni (morto nel 2005) fornisce alcune indicazioni di straordinaria produttività, che ancora non sono state ben soppesate, e che meritano di essere riconsiderate con grande attenzione.
E, cosa originale e degna di rilievo, è che , al centro del suo discorso al fine di impostare meglio il problema della creatività, emerge in posizione chiave non solo l’indicazione di una sorprendente ipotesi di rilettura di Kant ma anche la ripresa e il rilancio del programma illuministico kantiano dell’uscita dallo stato di minorità. E per questo, oggi più di ieri, abbiamo bisogno non solo di una critica delle idee tradizionali - ancora dominanti e diffuse - sulla “creatività” ma anche e soprattutto della nostra (di esseri umani) decisiva e fondamentale facoltà di giudizio.
Per cominciare, e contribuire a capire tutta la portata del lavoro di Emilio Garroni, è da dire che della creatività - la questione di tutte le questioni di tutta l’umanità (non - come la nostra millenaria tradizione vuole - solo del genio, dell’artista, del poeta, del visionario o del metafisico), noi (esseri umani) - ancora oggi - non abbiamo trovato risposte soddisfacenti e siamo ancora incapaci di formularla e rispondervi in modo critico (a tutti i livelli). E così, con una facoltà di giudizio e con un’idea confusa di creatività (e, con essa, di creazione), continuiamo a vivere come sudditi ciechi e zoppi di un’antichissima antropologia (con i suoi riflessi cosmologici e teologici) indegna della nostra stessa umanità (cosmicità e ‘divinità’).
Incapaci di prendere la giusta distanza da noi stessi, di portare noi stessi al di là noi stessi, non sappiamo ancora nulla né di noi, né del nostro mondo, né di Dio. Detto altrimenti, e semplicemente: siamo ancora ignoti a noi stessi (Nietzsche). E la ragione è presto detta: abbiamo preferito e preferiamo più le tenebre che la luce, e, anzi, siamo stati e siamo ancora ben intenti a spegnere in tutti i modi possibili e immaginabili la lampada kantiana del “Sàpere aude!”, del coraggio di servirsi della propria intelligenza! Avendo paura della morte e del nulla, stiamo ancora a trastullarci con l’amletica domanda. (“essere o non essere?”) e non sappiamo nulla (dell’“Essere”) di “Fortebraccio” (Shakespeare, Amleto)!
Si è preferito e si preferisce affidarsi e obbedire al “grande codice” della “creatività” della tradizione occidentale (atea e devota), essere governati dalle sue regole - negare le domande che vengono a noi stessi da noi stessi e seguire noncuranti la corrente, come cadaveri o come robot - senza più alcuna consapevolezza e libertà!
Amici di Platone e di Aristotele, più che amici della verità e di noi stessi, continuiamo da secoli e secoli a risolvere i nostri problemi con le regole da loro concepite con la loro grande creatività e abilità! Bisogna riconoscerlo: grazie alla loro creatività, essi hanno codificato regole potentissime per risolvere i problemi del loro mondo e noi siamo stati e siamo così bravi ad applicarle che, facendo esercizi su esercizi, abbiamo saputo estenderle a tutta la Terra (all’intero universo e all’intero aldilà).
Ma ora sta succedendo che il loro mondo - e la loro creatività (basata sul riconoscimento e sul ritrovamento dei loro “modelli” pre-registrati e pre-esistenti, codificati per la eternizzazione del loro mondo e della loro memoria) - ci sta scoppiando intorno, sopra, e dentro la testa, e non sappiamo più che cosa fare. Sempre più ci rendiamo conto che le loro regole per risolvere i nostri problemi sono inadeguate e inadatte per noi stessi e per la nostra stessa sopravvivenza, ma noi insistiamo ad affrontarli - e sempre più stupidamente - come se fossero esercizi da risolvere, con le loro regole - quelle fondate sul codice della creatività del mondo di Platone e Aristotele! Noi della creatività nel senso pieno del termine - così come di noi stessi, della nostra facoltà di giudizio, e della nostra libertà! - non sappiamo più nulla e ovviamente, non sapendo nulla, ricadiamo continuamente nella loro soluzione e nelle braccia del loro re-filosofo (il visioniario-metafisico di turno). Questo il problema e questa l’urgenza: sapere della creazione, della produzione del nuovo, della creatività del comportamento di tutti gli esseri umani e a tutti i livelli, non limitatamente alla sola “creatività” esecutiva - all’abile intelligenza di sudditi o di animali in trappola - nella “caverna” universale (‘cattolica’) di Platone.
Bisogna pensare in modo nuovo, e in altro modo - e tenere presente che, se pure tutto viene dall’esperienza, non tutto si riduce all’esperienza. Cominciamo da noi stessi, esseri umani dotati di due mani, di due piedi, due occhi, due orecchi, una testa (con due emisferi cerebrali), una bocca ... Limitiamoci a considerare la questione partendo dagli organi della vista, dagli occhi. E’ esperienza comune vedere, ma non è affatto comune - né nella vita culturale né nella vita quotidiana degli esseri umani - pensare nel pieno senso della parola che noi vediamo ciò che vediamo grazie all’azione unitaria e combinata di tutti e due gli occhi; e continuiamo a vedere e a pensare come se - avendo una sola testa (e una sola bocca) - avessimo un solo occhio (un solo orecchio, una sola mano e un solo piede)!
Ci illudiamo di essere tutti e tutte delle grandi ‘volpi’, degli eroi (Ulisse) e delle eroine (Penelope), ma in fondo stiamo solo illudendoci sulla nostra condizione: in verità, siamo solo e ancora degli esseri umani ‘preistorici’, con un solo occhio, un solo orecchio, una sola mano, un solo piede, una sola bocca, una sola testa, e ... un solo genere sessuale - degli esseri ciclopici, che hanno paura di aprire tutti e due gli occhi e pensare davvero con una sola testa - all’altezza del nostro presente storico! Nutriti da ‘bibliche’ e ‘platoniche’ illusioni, continuiamo a vivere come dei bambini e delle bambine che non vogliono crescere e, da millenni, a cantare il ritornello di questa ‘visione’ ballando su un solo piede (non solo a livello del senso comune, ma anche e soprattutto della scienza e della filosofia).
Dopo Copernico, e dopo la rivoluzione copernicana di Kant, ancora non ci siamo imbarcati e ancora non sappiamo nulla dell’esperienza della nave (cfr.: G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi) e, ovviamente, pensiamo e crediamo che ciò (dall’essere più piccolo al più grande - in terra, in cielo, e in ogni luogo e in ogni tempo) che noi vediamo davanti a nostri occhi sia l’“oggetto” e che noi, esseri umani (dal più piccolo al più grande - in terra, in cielo, e in ogni luogo e in ogni tempo), siamo il “soggetto” e il “fondamento” di ciò che vediamo, segniamo e nominiamo, con la nostra testa con un solo occhio, con un solo orecchio, con una sola mano, e con la nostra mono-tona bocca e ... con il nostro unico genere sessuale - quella dell’Adamo terrestre e dell’Adamo celeste, del “dio” in terra e del “Dio” in cielo!
In questo orizzonte sacrale (ateo e devoto), in cui “un uomo più una donna - come ha scritto Franca Ongaro Basaglia - ha prodotto, per secoli, un uomo”, s’inscrive il potere della “creatività” e della “dignità dell’uomo” (Pico della Mirandola) - quella dell’Homo sapiens sapiens (Linneo, 1758), dell’ “uomo supremo” e del “dio supremo”! E questa è la “verità” del geocentrico e antropocentrico (ma più correttamente si dovrebbe dire ‘andro-pocentrico’, perché qui si parla appunto di “andro-pologia”, e di “andr-agathia”, cioè della comunità e del dio degli “uomini valorosi”, degli “uomini virtuosi”) dello Spirito Assoluto occidentale: dell’”Io che è Noi, e Noi che è Io” (Hegel)!
Ora, per capire meglio quanto premesso e, al contempo, la novità del discorso portato avanti da Garroni, conviene partire da questa sua considerazione: “Kant è sicuramente più noto come il filosofo delle “condizioni a priori dell’esperienza”, che non come il teorico della “creatività”: e, anzi, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, svolto soprattutto nella terza Critica e negli scritti adiacenti, egli è stato più volte non del tutto correttamente interpretato o addirittura frainteso”.
Questo il cuore del problema: qui, sotto le vesti di una normale e attenta precisazione filologica, in verità, c’è una dichiarazione di portata enorme: una assunzione di coscienza e di responsabilità decisiva per restituire a Kant tutta la sua grandezza e a noi stessi e a noi stesse la possibilità di diventare esseri umani maggiorenni - uscire da interi millenni di labirinto e da uno stato di minorità di lunghissima durata. E cominciare a capire, infine, quanto questa incomprensione sia stata e sia all’origine della nostra passata e presente catastrofe culturale - la catastrofe dell’intera cultura europea.
Ciò che la considerazione di Garroni mette in evidenza è qualcosa che generazioni e generazioni di studiosi e studiose dell’opera di Kant non hanno ancora colto nel suo pieno senso: l’aver egli inaugurato “un apriorismo di tipo nuovo, caratterizzato dall’istanza di risalire dal condizionato, dai fatti stessi, in un certo senso alle loro condizioni, adeguate e necessarie, di possibilità”, non è un divertimento scolastico di un bravo filosofo, ma l’anima e la premessa del suo progetto illuministico-critico, della sua volontà di restituire alla nostra (di ogni essere umano) “facoltà di giudizio” tutta l’autonomia e tutta la libertà sua propria.
Ciò che traspare dal lavoro di Garroni è, in generale, non solo una certezza, ma anche e più una salutare sollecitazione a svegliarsi e a pensare nuovamente il senso della rivoluzione copernicana di Kant. A ben rifletterci, invero, ciò significa che noi - ancora oggi - non abbiamo affatto capito che i “prolegomeni ad ogni metafisica futura che si vuole come scienza” o, che è lo stesso, i prolegomeni ad ogni scienza futura che si vuole come metafisica, dicono di una svolta ancora tutta da pensare!
Sul filo di indicazioni già di Luigi Scaravelli (cfr.: “Critica del capire”, e, soprattutto, “Scritti kantiani”), il grande merito e il grande contributo di Garroni sta non solo nell’aver cominciato a mettere a fuoco lo stretto legame che corre nella ricerca di Kant, tra il lavoro relativo all’esame delle condizioni a priori che rendono possibile l’esperienza, svolto nella Critica della ragion pura, e il lavoro svolto nella Critica del Giudizio (sulla fondamentale “facoltà di giudizio”, sia del “giudizio determinante” sia del “giudizio riflettente” e, quindi, sia sul problema della scienza e del’arte sia sul “problema della creatività” in generale).
Ma anche e soprattutto - seguendo l’indicazione di Kant - nel cominciare a trarne le conseguenze e nell’attivare coraggiosamente la sua propria “facoltà di giudizio”, cominciando a porre domande su tutto! - e a tutti i livelli (dagli animali agli esseri umani, dalla natura alla cultura - fuori dalle vecchio ordine e dal tradizionale codice della “caverna” platonica e del suo rapporto soggetto-oggetto) - valorizzando contributi e ricerche di scienziati, filosofi e, in particolare, linguisti, che hanno in qualche modo ripreso o riscoperto del tutto autonomamente elementi del programma di Kant e, così, permesso di ricominciare a illuminare meglio il discorso della sua Critica della facoltà del giudizio.
Con Kant, infatti, Garroni comincia ad aprire tutti e due gli occhi, ricomincia a ‘vedere’ meglio, e subito, e con entusiasmo, traccia una mappa per riannodare il filo con la strada della critica e spingersi oltre, e più a fondo! Per lui, ora, tutto comincia a diventare più chiaro, e comincia a dire quanto ha capito: ciò che ha impedito e impedisce il sorgere e “la messa a punto del problema della creatività è uno schema epistemico assai antico, tale per cui l’unica strada praticabile per giustificare, fondare, spiegare, l’osservabile sembrava essere quella di risalire dall’osservato a “qualcosa di anteriore” che ne fornisse per somiglianza il modello. [...] Si tratta - egli continua - di una categoria epistemica profonda, nel senso che è una condizione di possibilità di esplicite espressioni culturali (quasi un’episteme, nel senso di Foucault) ed investe l’orientamento complessivo delle strutture sociali e individuali, non soltanto la loro dimensione intellettuale”. E la sua struttura portante sta “in quella concezione - che viene detta “referenzialismo” - del “segno” come “rappresentante delle “cose”, con la mediazione di stati rappresentativi interni [...] E’ una concezione antichissima, che nasce probabilmente dalla primitiva concezione ontologica del linguaggio (la parola come l’essenza stessa: così che il possesso della parola permetteva il controllo magico della cosa) e risale nella sua forma classica soprattutto ad Aristotele”.
Kant è il punto di svolta: le condizioni di possibilità della conoscenza non vengono “più ricercate in qualcosa di preesistente, in un modello ontologico ideale, o in un luogo di modelli ideali, che - soli - consentono di parlare del mondo reale come appare e come è conosciuto”. Ciò che ancora non abbiamo capito è che Kant va alla radice e ci porta fuori del vecchio programma centrato sul “come conosciamo”: il suo problema - come è possibile la conoscenza scientifica (e non)? - è la risposta più radicale, e più adeguata, all’altezza della nuova Terra e del nuovo Cielo, scoperti dalla nuova fisica, e alla navigazione dell’umanità nell’“oceano celeste” (Keplero a Galilei, 1611).
Garroni comincia a capire meglio il senso del problema di Kant, quanto e come il programma critico-trascendentale sia in continuità con le tensioni del nostro presente, con le ricerche del nostro tempo, con l’acquisizione che “la conoscenza sia - a partire da certe condizioni preliminari di carattere generalissimo (condizioni e non modelli dunque) - una costruzione entro certi limiti “arbitrari” e quindi “creativa”, come lo è per l’epistemologia moderna”.
La conferma di questo legame strettissimo, Garroni lo ritrova in molti protagonisti della ricerca scientifica in tutti i campi (dall’etologia alla linguistica e alla filosofia), ma è con Chomsky e da Chomsky, che più e meglio il discorso sul problema della creatività e “l’avvicinamento a Kant” fa un salto di qualità. E, con l’aiuto degli studi linguistici di Noam Chomsky, di Francesco Antinucci, di Tullio De Mauro, e il contributo (del tutto convincente”) di Wolfram Hogrebe (“Kant e il problema di una semantica trascendentale”, 1974 - opera tradotta in italiano, col titolo dimezzato e mimetizzato: “Per una semantica trascendentale”, con prefazione di Emilio Garroni, Officina edizioni, Roma 1979), riesce a portarsi “al di là del linguaggio” e oltre gli stretti confini dello linguistica (così precisando, in parentesi: “Si intende al di là del linguaggio, non nell’aldilà della speculazione”) e così, con grande lucidità e consapevolezza, a trovare il varco per accedere in modo nuovo all’interno dell’orizzonte kantiano.
Compresa con Chomsky tutta l’importanza della distinzione tra la creatività sotto un codice dato (la “rule-governed creativity”) e la creatività “nel senso pieno del termine” (la “rule-changing creativity”), si rende - sulla spinta dei contributi di Antonucci e De Mauro - di quanto e di come sia necessario portare il problema oltre la chomskiana “struttura profonda”, “in quanto struttura già linguistica”, in una struttura intesa “non più come qualcosa di linguisticamente omogeno, quanto piuttosto come un dispositivo eterogeneo, linguistico e non-linguistico, per esempio anche intellettuale e psicologico”, e così scrive e precisa: “In altre parole, si tratta non di una presa di posizione antichomskiana, o più in generale antigenerativa, ma di un suo approfondimento ulteriore, che tende a portare al di là del linguaggio. (Si intende al di là del linguaggio, non nell’aldilà della speculazione)”. E a questo punto, con il conforto e e la spinta del contributo di Hogrebe, la via a e di Kant è riaperta e ripresa! Non è che l’inizio...
intervista a Umberto Curi
Perché lo straniero ci fa paura
a cura di Paolo Randazzo (Europa, 26.10.2010)
«Ci sono le elezioni... dagli all’immigrato! »: com’è accaduto che un paese di cultura antica come il nostro si sia degradato al punto da accedere a una logica così incivile e brutale nei confronti degli stranieri? È semplice capirlo: è la paura che la attiva. Ma come vincere questa paura? Da quali basi di pensiero e riferimenti teorici muovere per opporre a un fenomeno di dimensioni immani e crescenti qual è l’immigrazione, comportamenti che siano razionali e non derivino dal corto circuito che trova automaticamente nello straniero una minaccia.
Occorrerebbe volgere in senso comune le parole del cardinal Tettamanzi che giorni fa a Milano, parlando a degli immigrati (rom, asiatici, persone provenienti dall’Africa e dall’Est Europa), ha scandito: «Fatichiamo ad aprirvi la porta, ma la strada dell’integrazione sta davanti a noi. E voi, se incontrate qualche ritrosia, siate coraggiosi e pazienti. La società, l’economia, la cultura hanno bisogno di voi. Siete una risorsa, non una minaccia». Sono anni che il filosofo Umberto Curi ha posto l’alterità al centro della sua riflessione ed è appena da qualche settimana che si trova nelle librerie Straniero, il suo ultimo saggio (Raffaello Cortina editore), in cui su questa tematica continua a indagare. Lo abbiamo incontrato a Siracusa.
Nel suo libro sembra tenersi deliberatamente a distanza da ogni riferimento all’ attualità, eppure è urgente una riflessione sul concetto di “straniero”: si pensi alle polemiche sui rom, alla propaganda sul respingimento dei migranti, alle discussioni sui presupposti della concessione della cittadinanza, ai tentativi di legislazione che entrano nel vivo delle specificità culturali degli stranieri.
È vero, ho evitato ogni riferimento alla contingenza perché credo che ciò che stia mancando di più ad ogni livello, ma drammaticamente nel dibattito politico italiano, è una riflessione teorica sufficientemente approfondita, adeguata alla qualità nuova dei problemi che abbiamo di fronte. Una profezia degli ultimi vent’anni del secolo scorso indicava l’irrimediabile declino della politica; qualcuno s’è spinto ad affermare che ormai la politica non fosse necessaria perché funzionavano meccanismi di autoregolazione sociale che la rendevano superflua.
Quel che poi è accaduto ha mostrato l’inconsistenza di tale profezia, che tuttavia coglieva un punto importante, cioè che su molti temi tradizionali dell’iniziativa politica oggi la società riesce a fornire delle risposte indipendentemente dalla politica. Eppure vi sono questioni in cui è ancora indispensabile l’intervento di quella che si chiama la “grande politica”. Una politica capace d’interpretare e guidare i processi storici di trasformazione.
Fra questi problemi il più rilevante è quello dell’immigrazione, che non riguarda solo l’Italia, che non è riducibile a una sola dimensione sociale, economica o politica e che sarà il problema che le democrazie occidentali affronteranno per decenni.
Paragonata all’importanza di tale problema, alla sua incidenza e pervasività, l’attrezzatura teorica delle forze politiche, un po’ di tutte le forze politiche, è deprimente.
Lei scrive che superare la paura dell’“altro” significa riconoscere che «la relazione con l’altro costituisce la condizione senza la quale non è possibile il riconoscimento e l’affermazione della propria identità». Ha riflettuto sul perché i rom e, in generale, i nomadi siano sempre così temuti e fonte d’inquietudine?
Anzitutto c’è una sottolineatura statistica da fare: secondo dati recenti le persone d’etnia rom o sinti nel nostro paese sono circa duecentoquarantamila e di queste solo ventiseimila sono nomadi e cioè la stragrande maggioranza di queste persone vivono nel nostro paese integrate, stanziali, con i figli che vanno a scuola.
Si pensi alla comunità sinti di Venezia. Una comunità per la quale l’ex sindaco Cacciari, con tenacia, ha provveduto alla costruzione di un nuovo villaggio dove s’è trasferita, muovendo da una realtà degradata nella quale aveva vissuto negli ultimi decenni. Questo riferimento è utile per offrire una dimensione concreta del problema e capire come troppo spesso vi sia su di esso un’enfasi sproporzionata. Tutto ciò che appare altro da noi non può che avere una carica inquietante e quindi è normale, quasi fisiologico, che l’altro susciti apprensione e persino paura.
Il problema è trattare in chiave politica questa paura: l’esperienza di questi anni dimostra che da un lato vi sono alcuni che speculano su tale paura per costruire le loro fortune politiche, mentre resta troppo debole la voce di coloro che nei confronti di questa paura testimoniano che essa altro non è che l’effetto dell’incontro con un’alterità che bisogna affrontare sapendo che essa è in noi e implica anche una minaccia, ma cercando di inquadrarla sotto il profilo di categorie razionali.
Nelle pagine dedicate all’opera di Kant, Per la pace perpetua, lei dimostra che nell’opzione “giuridica” del filosofo c’è una riflessione sull’irriducibilità dell’altro da noi.
La questione del rapporto con lo straniero viene impostata da Kant proprio in quell’opera che dedica alla delineazione di un progetto di pace perpetua.
Sembrerebbe trattarsi di temi diversi: la pace, come la guerra, parrebbe pertinente alle relazioni politiche tra stati, mentre il rapporto con lo straniero parrebbe riguardare la questione dei rapporti individuali. Kant dimostra che la relazione con lo straniero è uno dei modi fondamentali attraverso cui si può raggiungere l’obiettivo di una pace stabile.
È significativo che in Kant questi due livelli siano saldati. Ciò vuol dire che il dialogo, dal punto di vista culturale, è una delle condizioni per la costruzione di un ordine giuridico internazionale.
È dialogo il metodo attraverso cui si può raggiungere l’obiettivo della pace: anche etimologicamente la parola dialogo include il senso del confronto, anche assai aspro, ma condotto tra logoi. In greco logos significa non solo discorso, ma anche pensiero, il dialogo è quindi primariamente un confronto tra pensieri diversi, talora opposti, ma pacifico, disarmato, capace di far prevalere il logos migliore. Non solo non dovremmo temere questo confronto, ma anzi dovremmo valorizzarlo e considerarlo il luogo stesso in cui si costruisce la pace.
Il confronto. Giorello e Martini si misurano sui temi più attuali
Il pericolo. La ricerca scientifica non deve nuocere alla dignità umana
La molteplicità di fedi e culture può provocare gravi inconvenienti.
Ma va considerata una ricchezza
Libertà e dialogo per una «nuova città»
di Giulio Giorello e Carlo Maria Martini
Da oggi è in libreria “Ricerca e carità”, un dialogo tra il cardinale Carlo Maria Martini e Giulio
Giorello, un confronto su scienza e solidarietà, ed. San Raffaele, curato da Damiano Modena.
Anticipiamo due estratti tratti dai capitoli “La città dell’uomo” e “Intelligenza e amore”
Corriere della Sera, 09.12.2010
GIULIO GIORELLO - Eminenza, può godere di quella «potenza trasformante» dei Vangeli anche chi ritiene che essi siano non la «buona novella», ma una tra le tante buone novelle che dal passato ci arrivano «come la luce di stelle che non ci sono più» (rubo quest’espressione a Luca Ronconi)? Tale luce a noi serve ancora, rischiara la nostra notte.
Dobbiamo riprendere tutte le buone novelle, anche quelle redatte dai miscredenti, come «l’ateo Spinoza» (così lo chiamavano i bigotti nella sua Amsterdam). Ritengo che questa sia una via praticabile per ridare senso alle parole, come lei stesso desidera. Un esempio: ho riletto di recente quei passi della Monarchia di Dante, in cui viene prospettato come grande momento nella storia dell’umanità la fondazione delle prime città. Semiramide sarà stata pure colei che «libito fe’ licito in sua legge» (Inferno V, 56), ma è anche colei che pose o custodì le mura delle grandi città assire di cui era sovrana.
Ecco cos’è una città: un elemento al tempo stesso di inclusione ed esclusione, che configura il modo in cui si costituisce l’umanità; l’uomo riconosce alcuni come compagni nella propria avventura, cioè con-cittadini ed esclude altri come estranei, se non nemici. Questo movimento di inclusione ed esclusione è sostanzialmente il processo fondativo della città, le cui mura non sono soltanto segno ostile verso il nemico; sono anche, e non a caso, l’elemento che marca il carattere di quella comunità.
La città rappresenta, allora, una mediazione tra natura e cultura; e di conseguenza l’esperienza della cittadinanza si ritrova alla base della nostra stessa modernità. In che modo, allora, un essere umano si realizza nella città? E vi può essere una città globale? Ovvero, possiamo pensare al mondo come un’unica grande città?
La città di oggi conosce, per altro, una drammatica esperienza della diversità, quella che indichiamo con vari termini (non sempre esattamente equivalenti), come multiculturalismo, multietnicità, pluralismo.
È solo un ricordo del passato il modello di convivenza e integrazione della Cordova dell’età d’oro dei musulmani in Andalusia, quando a poca distanza coesistevano la moschea, la sinagoga e la chiesa? Quale delicato equilibrio può proporsi oggi? Gli stessi mutamenti prodotti da scienza e tecnica non potrebbero essere quelli che porteranno prima o poi alla disgregazione della città armoniosa in cui diverse fedi, etnie, forme di vita potrebbero prosperare insieme? E soprattutto, si può andare oltre la mera coesistenza? (...)
Come ci dovremmo regolare con il ruolo politico delle altre religioni? Nel Corano si legge che è volontà di Dio che il Califfo intervenga quando i propri magistrati sono corrotti: questa linea è idealmente migliore del «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»?
CARLO MARIA MARTINI - Come lei sa, nei miei ventidue anni di servizio episcopale a Milano ho posto la città come uno dei cardini riflessivi. Non era un vezzo, ma la coscienza che sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento la città, con le sue dinamiche e le sue contraddizioni, è il luogo dove Dio dialoga con l’uomo. Gerusalemme, addirittura, è il luogo dove Dio prende dimora.
Non saprei bene come un individuo si realizzi nella città. In generale, un essere umano si realizza quando scopre in sé delle potenzialità e può esprimerle contestualizzandole in un determinato ambiente, senza contrastare l’impegno dell’altro, la sua identità, la sua libertà, la sua responsabilità. Tuttavia, il mondo intero ha in sé le stesse dinamiche positive e gli stessi peccati di una città, sicché può essere considerato come un’unica grande città.
Ma lei sottolinea il carattere drammatico della diversità all’interno della città. A me, invece, pare che ciò non sia così drammatico. La diversità è una ricchezza. Modelli nuovi di convivenza pacifica potranno essere raggiunti; anzi, sono già in atto in ogni parte del mondo, a cominciare dalla città che mi è più cara. Pochi sanno, infatti, del movimento che a Gerusalemme unisce i familiari delle vittime della guerra israelo-palestinese in momenti di dialogo e di preghiera comune molto belli e intensi. La diversità è una ricchezza non sempre compresa come tale. E la sofferenza è uguale per tutte le madri, per tutti i figli, di qualsiasi cultura, religione o Stato. Ecco quel superamento della semplice coesistenza cui lei fa riferimento! Condividere il dolore, soprattutto il dolore innocente, subito, costruisce relazioni ben più profonde dell’essere coinquilini della stessa terra. «Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città» (Eb 13, 12). L’immagine di Gesù crocefisso fuori dalle mura di Gerusalemme ci ricorda quali dolorose conseguenze possa avere l’esclusione di ciò che scandalizza, il rifiuto di chi è diverso.
Lei solleva non pochi cruciali problemi. Allora, le rispondo pensando anzitutto che cos’è una città unita: essa è un luogo dove le differenze dialogano per il bene comune, dove si cede alle convinzioni altrui se rappresentano realmente un bene maggiore per tutti. Un luogo dove la Chiesa, per ciò che le compete, e l’Autorità, per ciò che le compete, offrono ai più deboli un sostegno immediato e uno a lungo termine. Anche se non ha il compito di interferire direttamente nella vita politica, la Chiesa senza dubbio ne condiziona lo svolgimento con i suoi interventi, seppure in seconda battuta. La sua sola missione è quella di annunciare Gesù, e questi crocefisso. Non credo, tuttavia, che la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio sia così individualista come sembrano suggerire le sue riflessioni. Sarebbe giusto, se la coscienza fosse egualmente matura in tutti. Ma sappiamo che per alcune coscienze tutto è di Cesare e per certe altre tutto è di Dio. Io penso che sia di Cesare tutto ciò che riguarda il potere, il ben-essere, il ben-avere, il volere; e siano invece di Dio il servizio, l’umiltà, la povertà, l’essere, il dono, la carità. (...)
GIULIO GIORELLO - Credo che la ricerca abbia bisogno di idee, capaci di far parlare i fatti; altrimenti, come ebbe bene a dire un mio maestro, il matematico René Thom, «quel che minaccia la verità non è la falsità, ma l’insignificante». Non basta una miriade di numeri, misurazioni dopo misurazioni, dati e ancora dati: occorre un’idea che ci permetta di rendere comprensibili intellettualmente i fatti più diversi. Non è stato così, per esempio, con l’intuizione di Galileo del pendolo o con la celebre «mela di Newton» che ha mostrato come la forza che fa sì che quel pomo cada è la stessa che fa sì che la Luna non cada sulla Terra? O con la concezione evoluzionistica di Darwin, o con l’idea di Einstein della «relatività del moto»? O con la congettura di Dirac a proposito dell’antimateria?
Servendoci di un’etimologia magari fantasiosa, diciamo che intelligenza risponda a inter legere ovverossia «a scegliere fra»: alla capacità di selezionare ciò che è rilevante da ciò che è insignificante. Per questo la ricerca ha bisogno di intelligenza. Ma essa non è nemmeno distinta dalla passione. Talvolta pensiamo ai ricercatori scientifici come a persone asettiche, che si lasciano alle spalle qualsiasi riferimento al mondo della vita appena entrano in laboratorio o si siedono al computer. Non credo che questa sia una caratterizzazione completa dell’impresa scientifica; un’impresa scientifica che non portasse seco la passione del conoscere sarebbe un’impresa di scarso respiro... Ancora una volta vorrei citare un passo di Zadig riguardo alle passioni: «"Ah, quanto sono funeste", diceva Zadig. "Sono i venti che gonfiano le vele e il vascello", ribatté l’eremita, "qualche volta lo fanno affondare; ma senza di loro non potrebbe navigare. La bile rende collerici e malati; ma senza la bile l’uomo non potrebbe vivere. Tutto è pericoloso in questo mondo, e tutto è altrettanto necessario"».
Perché la passione è così importante? La passione è qualcosa che ti prende, ti rapisce, ti trascina, può essere anche un’esperienza dolorosa, il pericolo di cui parla l’eremita a Zadig, ma nello stesso tempo è qualcosa che dà colore a quanto altrimenti sarebbe un’ontologia grigia rivelata dalla scienza. Certo, occorre passione; ma passione qui vuol dire un profondo rapporto con le cose che vengono indagate. Dobbiamo amare il cielo se vogliamo esplorarlo; sentirci rapiti dalle «infinite forme bellissime» (la citazione è da Darwin) del vivente se vogliano studiarne genesi ed evoluzione. La costruzione delle teorie scientifiche, le rielaborazioni che spiegano i fatti, l’applicazione delle idee ai nostri macchinari sono tutte prove di amore per il mondo, un interesse specifico per le singole cose, collegate in un intellegere che è colligere.
CARLO MARIA MARTINI - Rispetto agli scienziati che lei cita, ci sono da fare alcune distinzioni importanti. Mentre Galileo con il pendolo o Newton con la sua leggendaria mela hanno fatto delle sperimentazioni sulla gravità e hanno mostrato appunto che c’è una forza che attrae i corpi verso il centro della Terra, le intuizioni di Darwin o quelle inerenti l’antimateria sono solo delle teorie. Altro è l’esperimento che dimostra un’intuizione teorica, altro l’intuizione non sperimentata né sperimentabile. Ancora, altro è scoprire la composizione dell’acqua, altro comporre l’acqua da un atomo di ossigeno e due di idrogeno. Uno scienziato potrebbe spiegarne bene la differenza. Ma sono d’accordo con lei che l’intelligenza non è solo leggere dentro, ma anche leggere «fra», cioè selezionare, discernere ciò che ha valore da ciò che non ne ha.
Siamo anche d’accordo sul fatto che sia necessaria una grande passione nell’ambito della ricerca. Ricordo gli anni dei miei studi sul Codice Vaticano (B) come anni di grande passione: tutte le scienze chiedono una grande passione. So di alcuni ricercatori che dimenticano di mangiare o di bere durante una fase piuttosto intensa del loro lavoro. Non c’è dubbio che lo scienziato sia tale anzitutto per l’amore appassionato verso ciò che fa e ciò che lo circonda, verso il mistero che avvolge anche le realtà quotidiane che l’uomo comune ritiene ovvie.
Davvero la conoscenza rende più ricco, vero e puro l’amore, e l’amore rende più profonda, paziente e tenera la conoscenza. E pur intuendo dove lei vuol condurmi, e cioè che un amore per essere autentico chiede di essere libero e, quindi, anche la scienza che scaturisce dall’amore per la natura chiede una libertà incondizionata, bisogna fare delle precisazioni.
La libertà, nell’amore come nella scienza, chiede di essere sempre accompagnata alla responsabilità. Il gesuita Bernard Lonergan, pensatore tra i più originali del Novecento seppure non adeguatamente conosciuto, coniuga oggettività della conoscenza e soggettività umana proprio attraverso la responsabilità, nella quale deve necessariamente confluire il processo conoscitivo. Il vincolo per la scienza è quindi che essa sia rispettosa della dignità umana e della libertà della persona. Ha idea di cosa potrebbe diventare la scienza senza nessun vincolo? Lei non crede che finirebbe con l’essere molto simile alle sperimentazioni «a fin di bene» praticate nei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale? Che alcuni diventerebbero «null’altro che» delle cavie?
Contro la dittatura della violenza
(Prima Domenica di Avvento Anno A)
di don Aldo Antonelli
“Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra” (Isaia 2, 4).
Parole di fuoco, che bruciano come paglia i principi delle politiche guerrafondaie che in questi ultimi anni hanno ripreso vigore e potenza; nel contempo fanno razzia delle accortezze prudenziali della chiesa silente e benedicente. I La Russa di casa nostra e i Ruini “domestici eius” vengono delegittimati e scomunicati da queste espressioni che come lampi squarciano il buio assassino di una storia impastata di sangue e violenza, illegalità e soprusi, dimentichi che “i cannoni non tuonano mai amore di patria, ma sillabano sempre in lettere di piombo la suprema ragione dell’oro”, come amava ripetere don Tonino Bello. Dopo le stragi delle due guerre mondiali, il mondo smembrato, disastrato e lacerato, ebbe l’ardire di sognare un domani diverso, al punto di scolpire queste parole di Isaia sul frontale d’ingresso del Palazzo delle Nazioni Unite. Esse stanno ancora lì, ma fuori del palazzo, bellamente scolpite su pietra, mentre i popoli lì dentro rappresentati continuano a produrre, commerciare ed usare armi e legittimare le guerre: monumento all’ipocrisia! Così come la scritta “La giustizia è uguale per tutti”, che fa bella mostra di sé nelle Aule dei tribunali che assolvono i potenti e condannano i poveri disgraziati. Così come le grandi enunciazioni sulla Pace in una Chiesa che benedice gli eserciti e battezza come eroi i mercenari. Un’ipocrisia condannata senza mezzi termini: “Guai a voi, scribi a farisei ipocriti che costruite le tombe dei profeti e adornate le tombe dei giusti” (Mt.23,29).
Mi si perdoni, ma come non rilevare una vena di ipocrisia anche nella contestualizzazione di questo brano nella liturgia della prima domenica di Avvento, là dove l’attesa non è rivolta, comunemente, alla venuta (Avvento) del Regno, bensì al Natale di Gesù Cristo, come se il Cristo non fosse già nato, non fosse già vissuto e non avesse parlato ed operato...! Cosicché quello che dovrebbe essere un messaggio da adulti, a che facciano scelte ardite per un futuro di pace, si riduce a sostanziarsi in una festa da “bambini” che accende la fantasia e spegne la profezia.
Dovremmo mettere fuori dal nostro cuore il concetto o, per usare la bellissima espressione di don Mazzolari, “l’esaltazione pagana della guerra"; il che comporterebbe quel necessario risveglio cui fanno appello l’invito paolino (“è ormai tempo di svegliarsi dal sonno”) e la raccomandazione evangelica (“Vegliate dunque”)! Discorso da adulti, quindi, nella convinzione che la politica può superare la guerra solo se la nega e che urge più che mai “disarmare gli animi armando la ragione” (C. M. Martini).
Contro quella che Italo Mancini soleva chiamare “l’ancestrale vocazione al massacro della cultura occidentale”, ed appunto nella vigilanza richiesta dai tempi della corruttela, si rende necessario un non più procrastinabile trapianto delle tanto declamate radici cristiane dalle presunzioni dell’orgoglio di parte alla responsabilità “pensante” dell’amore universale. "La ragione principale per cui la guerra c’è ancora non sta né in un segreto desiderio di morte della specie umana, né in un insopprimibile istinto di aggressione, né infine e più plausibilmente, nei seri pericoli economici e sociali che il disarmo comporta, ma nel semplice fatto che sulla scena politica non è ancora comparso nessun mezzo in grado di sostituire questo arbitro definitivo degli affari internazionali(...) Il guaio non è tanto che non abbiamo abbastanza sangue freddo da pensare l’impensabile, quanto piuttosto che non pensiamo" (Annah Arendt)
Aldo Antonelli
Quale pacifismo? Teorie e pratiche, dalla kantiana pace perpetua a Gandhi e Luther King, in un saggio di Losurdo
L’anima violenta della non violenza
di Gianni Vattimo (La Stampa - TuttoLibri, 10.04.2010)
Se il tratto specifico del pensiero critico è la messa in discussione delle mitologie che condizionano le opinioni correnti, i libri recenti di Domenico Losurdo sono certamente un ottimo esempio di questo tipo di pensiero. Losurdo, che è professore di filosofia all’università di Urbino, ha pubblicato nel 2008 per Carocci un illuminante libro sulla «leggenda nera» di Stalin decostruendo con larghissima informazione storica gran parte degli elementi che hanno dominato la nostra storiografia sul periodo staliniano e sulla figura di Stalin. E proponendo la tesi (ragionevole) che Stalin per gran parte della sua vita di statista ― che comprende gli anni della lotta decisiva contro il nazismo, della quale l’Occidente deve essergli grato ― praticò la violenza in modi non molto diversi, eticamente, da quelli propri degli altri stati della sua epoca.
Ora Losurdo, in un nuovo saggio per Laterza, si dedica alla decostruzione ― mai pregiudizialmente ostile ma anzi piena di autentica simpatia per il nocciolo essenziale ― della non violenza. Per far questo fornisce una storia dettagliata delle teorie e pratiche pacifiste e non violente, a cominciare dalle origini nella idea kantiana della pace perpetua, e dai primi movimenti pacifisti sorti nel Nordamerica ottocentesco intriso di fondamentalismo biblico, della eredità puritana e degli ideali della rivoluzione anti-inglese del 1776.
E’ in questo ambiente che, intrecciato con la questione della schiavitù, si afferma un vasto movimento non violento, con la fondazione nel 1828 di una American Peace Society, che ha una consorella a Londra. Prima ancora della guerra di secessione in Nordamerica tra il Sud schiavista e il Nord abolizionista (1861-1865), il pacifismo inglese e americano si confronta con varie altre rivolte anticoloniali, come quella, nel 1857, dei soldati indiani arruolati nell’esercito inglese. Si tratta di decidere se la violenza dei ribelli è legittima o se hanno ragione gli inglesi a reprimerla con la forza, giustificando l’azione come repressione di criminali comuni. Dilemmi analoghi, sia pure in termini diversi, si troveranno di fronte i non violenti nordamericani in occasione della guerra di secessione.
Gli schiavi hanno ragione a volersi liberare; possono farlo con la violenza? Uno degli esponenti storici del pacifismo, Charles Stearns, ritiene che non si possa assistere inerti alle violenze degli schiavisti. E si risolve a giustificare l’uso della violenza contro di loro considerando che l’ideale della non violenza proibisce solo di togliere la vita ad altri esseri umani, mentre questi non sono umani e dunque possono essere combattuti e uccisi. Siamo nell’anno 1856, quando ormai il conflitto armato tra il Nord e il Sud si avvicina. L’attacco che John Brown compie in Virginia, nel 1859, contro un deposito di munizioni del governo, sperando di innescare così una ampia rivolta di schiavi, determina vaste discussioni nel movimento pacifista, che è anche, da sempre, abolizionista e perciò incline a sostenere la lotta anche armata degli schiavi. Anche Henri De Thoreau ammette che possa ricorrere alle armi quando ogni altro mezzo per far valere il diritto si sia rivelato inutilizzabile.
Naturalmente, un’ampia parte del libro di Losurdo è dedicata allo studio dei grandi classici della non violenza, come Gandhi e Tolstoi, giù giù fino a Capitini e Martin Luther King. Con le loro contraddizioni spesso dimenticate: soprattutto quelle di Gandhi, che sia ai tempi del soggiorno in SudAfrica e della guerra dei Boeri, sia negli anni della prima e della seconda guerra mondiale si impegna in varie forme nel sostegno dell’azione, anche bellica, della parte che ritiene più «giusta e meno violenta». Non senza qualche cedimento alla retorica della «virilità» e della forza di carattere che, come in molta ideologia militarista europea degli stessi anni, sarebbero sviluppate proprio dalla guerra e dalla vita militare.
Molta attenzione Losurdo dedica alla relazione tra ideali della non violenza e movimento socialista. Mentre Gandhi predica una sorta di disposizione al martirio (resistenza passiva, digiuno), nei socialisti come Lenin la vocazione all’eroismo si accompagna a un forte senso realistico e storicistico. Che evita al pensiero socialista le acrobazie a cui i non violenti motivati religiosamente sono costretti per giustificare qualunque uso della forza, come accadeva appunto nel caso archetipico dell’abolizionismo nordamericano.
E’ una contraddizione che non si lascia mai risolvere teoricamente, almeno secondo Losurdo. E che si rinnova ogni volta che, come anche oggi, il metodo della non violenza sembra imporsi non solo per motivi etici, ma anche per considerazioni tattiche: difficile che oggi una rivoluzione abbia successo se pensa di misurarsi con la violenza soverchiante della conservazione. Su questo, sia pure solo per prudenza tattica, anche Lenin sarebbe gandhiano
LE ARMI NON VIOLENTE
di Enzo Traverso, (il manifesto, 25.09.2010)
In questo ultimo libro Domenico Losurdo affronta «Il mito della non violenza». L’autore evidenza tuttavia il fatto che il rifiuto delle armi non è stato sempre una scelta coerente del pacifismo. Nel Novecento sono stati infatti molti i non-violenti che hanno sostenuto «guerre giuste». Nel saggio è però assente una analisi puntuale delle tesi sull’uso della violenza come necessario strumento per conseguire l’emancipazione dall’oppressione
Alcuni anni fa, quando è iniziata la sciagurata guerra occidentale contro l’Iraq, i balconi di case e palazzi italiani si sono ornati di bandiere arcobaleno che invocavano «pace», le stesse di molti manifestanti che cercavano di impedire il decollo dei bombardieri dalle basi americane del Mediterraneo. Il loro messaggio era chiaro, bisognava opporsi a una guerra di conquista. Queste bandiere, tuttavia, non sono state inalberate né in Iraq né in Afghanistan, e neppure in Libano o in Palestina, dove gli eroi, tra chi condanna l’invasione di truppe straniere, sono invece i martiri e i combattenti che (con motivazioni e ideologie diverse, sulle quali ci sarebbe ovviamente molto da discutere) usano le armi. Per chi non condivide il pessimismo antropologico di tanta parte del pensiero conservatore - e di quelli che, come Wolfgang Sofsky, pensano ci si debba rassegnare alla malvagità e alla violenza, ontologicamente inscritte nella natura umana -, il pacifismo appare come un ideale nobile. Il progetto kantiano di «pace perpetua» - la fissazione di un ordine capace di mettere fine per sempre alla guerra - è ancor oggi dibattuto da giuristi e filosofi politici. Il problema è come mettere fine alle guerre. Per i marxisti si tratta di rimuovere le cause della violenza che risiedono nel capitalismo e nell’imperialismo, fonti di oppressione nazionale, sfruttamento e spaventose disuguaglianze sociali. I pacifisti pensano invece di poter conquistare pace e giustizia praticando la non-violenza come modello etico (in Occidente ispirandosi soprattutto ai valori del cristianesimo). Nella loro storia, questi due percorsi non sono tuttavia lineari. Entrambi sono costellati di contraddizioni e irti di ostacoli. Nel suo ultimo libro - La non-violenza. Una storia fuori dal mito (Laterza, pp. 287, euro 22) -, Domenico Losurdo non si interessa al primo (quello del «partito di Lenin») ma piuttosto al secondo (quello del «partito di Gandhi»), tracciando una storia del pacifismo «fuori dal mito».
Ambivalenze gandhiane
Proprio perché ispirati a ideali nobili e mossi dal desiderio di combattere l’ingiustizia, i pacifisti hanno spesso dovuto cercare di soddisfare esigenze inconciliabili, con il risultato di rinunciare in molti casi ai loro obiettivi iniziali, di rimanere prigionieri delle loro incoerenze o di rinunciare ad alcuni dei loro principi. Losurdo passa in rassegna alcune di queste «revisioni» particolarmente emblematiche. Negli Stati Uniti, l’ American Peace Society, creata nel 1828 da umanisti cristiani che consideravano inderogabile la morale illustrata dal «Discorso della Montagna», decise di sostenere Abramo Lincoln durante la guerra civile. Il portavoce del movimento abolizionista non-violento, William L. Garrison, vestì addirittura i panni del crociato, presentando l’oligarchia schiavista del Sud come una forza satanica e l’esercito unionista del Nord come uno «strumento nelle mani di dio». Nel Novecento, l’avvento del nazismo produrrà una svolta analoga in seno al pacifismo cristiano, come testimoniano le prese di posizione di Reinhold Niebhur negli Stati Uniti, di Dietrich Bonhöfer in Germania, che pagherà con la vita la sua partecipazione alla Resistenza, e di Simone Weil, che morirà in esilio a Londra, al servizio della Francia libera, dopo essersi arruolata in Spagna nel 1936 in una milizia repubblicana. Ma gli stessi dilemmi hanno attraversato le coscienze di personalità il cui pacifismo non attingeva a fonti religiose, come ad esempio Albert Einstein che rinunciò alla non-violenza dopo l’ascesa di Hitler al potere, fino a diventare uno degli ispiratori, presso l’amministrazione Roosevelt, del progetto Manhattan da cui nacque la prima bomba atomica.
Più complesso è il caso di Gandhi, di cui Losurdo demolisce impietosamente il mito, mettendone in luce tutte le ambiguità. A una ricostruzione attenta del suo itinerario intellettuale e politico, Gandhi appare tutt’altro che pacifista, benché si sia sempre dichiarato difensore della non-violenza come obbligo morale (dharma). Nel 1900 sostiene la missione internazionale tesa a reprimere la rivolta dei boxer in Cina e, negli stessi anni, si schiera con la Gran Bretagna durante la guerra dei boeri in Sudafrica. La prima guerra mondiale lo vede attivo per reclutare in India i soldati dell’esercito britannico ma negli anni Trenta la sua non-violenza diviene intransigente, al punto di suggerire la resistenza passiva agli etiopi di fronte all’invasione dell’esercito fascista italiano. Con lo stesso spirito, nel luglio 1940, a poche settimane dalla sconfitta francese, scrive una lettera aperta «a tutti i britannici», ai quali propone di cedere le armi e lasciarsi invadere dalle forze tedesche: «vi farete massacrare tutti, uomini, donne e bambini, ma rifiuterete di dar loro la vostra lealtà». Agli occhi di Churchill, Gandhi non era altro che un «fachiro fanatico e asceta» della peggior specie. Il leader indiano non si illuse mai di poter difendere la sua causa sostenendo le forze dell’Asse - un’illusione nella quale caddero invece altri nazionalisti - soprattutto perché aveva capito che, anche vincitrice, la Gran Bretagna sarebbe uscita dalla guerra talmente indebolita da non potersi opporre all’indipendenza dell’India. Più che filosofico o spirituale, il suo pacifismo era, secondo Losurdo, di natura squisitamente politica. Nessuno prima di lui aveva colto l’efficacia della non-violenza come metodo di lotta capace di suscitare l’indignazione morale, presentando il conflitto fra colonizzati e colonizzatori come uno scontro fra vittime e carnefici. L’indignazione morale - come ha confermato in seguito la guerra del Vietnam - può rivelarsi un fattore decisivo per la soluzione di un conflitto.
Illusioni ideologiche
Ciò spiega il fascino esercitato da Gandhi su Martin Luther King, che cercava di applicarne gli insegnamenti nella lotta contro la white supremacy americana, ma non poteva fare a meno di rendere omaggio alla memoria degli schiavi che, come Nat Turner, si erano ribellati e avevano combattuto a fianco dell’Unione durante la guerra civile. Altri, a cominciare da Malcolm X e Frantz Fanon, hanno denunciato la violenza della segregazione e del colonialismo, indicando però nella contro-violenza degli oppressi la via inevitabile dell’emancipazione. Se la violenza assume ai loro occhi una dimensione liberatrice, la sua natura rimane reattiva e strumentale. Simmetrico al mito di Gandhi è quello che fa di Malcolm X e Fanon i cultori di una violenza cieca e fine a se stessa. Vedere nella violenza, sulla scia di Marx ed Engels, una «levatrice della storia», non significa esaltarla, idealizzarla, considerarla come un valore in sé o come un metodo di lotta normativo. Losurdo ha cura di separare le concezioni del «partito di Lenin» dal culto della violenza teorizzato da Sorel, ammirato da Mussolini e oggetto di critiche severe da parte di Gramsci e Sartre.
La rassegna critica di Losurdo non risparmia Hannah Arendt, figura non priva di ambiguità. Durante la guerra, essa riconosceva la legittimità di una resistenza armata ebraica contro il nazismo - salutò l’insurrezione del ghetto di Varsavia e si batté per la creazione di un esercito ebraico in seno alle forze alleate - nella quale vedeva «la sola via d’uscita morale e politica». Negli anni Sessanta, tuttavia, si mostrò particolarmente miope nei confronti delle rivoluzioni coloniali: il Terzo Mondo era ai suoi occhi soltanto «un’ideologia e un’illusione». In un suo saggio del 1972, si legge che la liberazione degli oppressi non è mai venuta dalle loro lotte, piuttosto «da coloro che non erano oppressi e non erano degradati ma non potevano sopportare che altri lo fossero"» In molti scritti degli anni Quaranta, l’esule ebrea aveva argomentato che l’emancipazione ebraica in Germania era naufragata perché concessa dal potere e non conquistata. Ora, con un atteggiamento paternalistico degno dei riformatori prussiani di fine Settecento, essa spiegava che i neri e i colonizzati non dovevano lottare per la propria liberazione ma attendere che fosse loro conferita da un governo di bianchi e dalla chiaroveggenza delle potenze coloniali. Insomma, sembrava aver dimenticato il nesso tra imperialismo ottocentesco e nazismo che aveva esplorato nel suo libro Le origini del totalitarismo. Questo nesso era invece al centro de I dannati della terra in cui Fanon scriveva che «il nazismo ha trasformato la totalità dell’Europa in vera colonia».
Oscurati dalle teorie del complotto
Dopo aver passato in rassegna e sottoposto a una critica acuta le contraddizioni del «partito di Gandhi», Losurdo avrebbe potuto dedicare la stessa attenzione a quelle, non meno vistose e drammatiche, che hanno attraversato la storia del «partito di Lenin». Il rapporto tra violenza e politica, in effetti, solleva interrogativi e dibattiti anche tra chi, come i marxisti, riconosce il carattere legittimo e in talune circostanze storiche ineluttabile del ricorso alla violenza. Questo problema è al centro delle polemiche che, durante la guerra civile russa, oppongono i bolscevichi ai menscevichi, ai socialdemocratici e agli anarchici. Gli scritti di Lenin, Trotzki, Martov e Kautsky meriterebbero di essere rivisitati con occhio critico almeno quanto quelli di Gandhi o le controversie tra Martin Luther King e Malcolm X. I dibattiti della guerra civile russa sul rapporto tra violenza e politica sono riaffiorati durante la guerra civile spagnola, divenendo oggetto di un confronto teso fra Trotzki, che difendeva l’eredità del bolscevismo, Victor Serge, che si orientava verso una critica libertaria della rivoluzione russa, e John Dewey, che respingeva il comunismo in nome dei principi liberali. L’eco di queste discussioni non è assente, in tempi recenti, negli scritti di marxisti come Etienne Balibar o John Holloway. Sarebbe interessante conoscere l’opinione di Losurdo in materia.
Dispiace - per quanto non sia del tutto sorprendente - che, a conclusione di un libro interessante ed acuto, egli non possa esimersi, a proposito del Tibet o del movimento studentesco che nel 1989 invase la Piazza Tienanmen di Pechino, dal riproporre argomenti d’altri tempi, quando le rivolte antiburocratiche in seno ai paesi del blocco sovietico venivano automaticamente bollate come frutto di «complotti» imperialisti. L’oscurantismo «feudale» del Dalai Lama non giustifica la politica cinese in Tibet, allo stesso modo in cui l’oscurantismo dei talebani non giustifica l’invasione americana dell’Afghanistan. È una constatazione banale, ma alcuni passaggi del suo libro la rendono necessaria.
GIOBBE SANTABARBARA: SE UNA COSA EMERGE CHIARA *
Se una cosa emerge chiara come il sole dalle interviste sulla situazione della nonviolenza oggi in Italia che in queste mesi sono apparse sul nostro notiziario come frutto dell’inchiesta tenacemente condotta da Paolo Arena e Marco Graziotti, e’ la molteplicita’ dei percorsi, dei punti di vista, delle culture e delle esperienze, delle vicende individuali e collettive, morali e politiche, di studio, d’impegno ed esistenziali che incontrano la nonviolenza, in essa si incontrano, trovano nella nonviolenza un riferimento e una scelta comuni e necessari. E trovano la nonviolenza come approfondimento ed illimpidimento delle proprie ed altrui ragioni. In un colloquio corale in cui i volti e le voci sono di un’infinita, preziosa varieta’. Cosicche’ sovente leggendo di seguito due interviste puo’ accadere di trovarvi espresse opinioni molto diverse e finanche opposte su molte rilevanti questioni. Ed a noi sembra che questa sia una ricchezza e un invito ulteriore all’ascolto reciproco e all’impegno comune.
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Su questo foglio e’ stato gia’ scritto piu’ volte, e lo scriviamo una volta di piu’, che la nonviolenza non e’ un insieme di dogmi, ma una molteplicita’ di esperienze; che la nonviolenza e’ innanzitutto la lotta contro la violenza e la menzogna; che la nonviolenza e’ fallibilista e misericordiosa, concreta ed antitotalitaria, cosciente del limite ed all’ascolto dell’altro; che la nonviolenza e’ aperta e plurale, ed ogni persona che ad essa si accosta apporta un contributo originale di valore infinito.
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E forse non dispiacera’ se riproponiamo una volta ancora il breve testo seguente, gia’ apparso piu’ volte su questo foglio, con cui diversi anni fa cercammo di proporre alcune sintetiche considerazioni forse ancora non disutili. Eccole.
"I. Una premessa terminologica
Scriviamo la parola "nonviolenza" tutta attaccata, come ci ha insegnato Capitini, per distinguerla dalla locuzione "non violenza"; la locuzione "non violenza" significa semplicemente non fare la violenza; la parola "nonviolenza" significa combattere contro la violenza, nel modo piu’ limpido e piu’ intransigente.
Chiamiamo le persone che si accostano alla nonviolenza "amici della nonviolenza" e non "nonviolenti", perche’ nessuno puo’ dire di essere "nonviolento", siamo tutti impastati di bene e di male, di luci e di ombre, e’ amica della nonviolenza la persona che rigorosamente opponendosi alla violenza cerca di muovere verso altre piu’ alte contraddizioni, verso altri piu’ umani conflitti, con l’intento di umanizzare l’agire, di riconoscere l’umanita’ di tutti.
Con la parola "nonviolenza" traduciamo ed unifichiamo due distinti e intrecciati concetti gandhiani: "ahimsa" e "satyagraha". Sono due parole densissime che hanno un campo semantico vastissimo ed implicano una concettualizzazione ricca e preziosa.
Poiche’ qui stiamo cercando di esprimerci sinteticamente diciamo che ahimsa designa l’opposizione alla violenza, e’ il contrario della violenza, ovvero la lotta contro la violenza; ma e’ anche la conquista dell’armonia, il fermo ristare, consistere nel vero e nel giusto; e’ il non nuocere agli altri (ne’ con atti ne’ con omissioni), e quindi innocenza, l’in-nocenza nel senso forte dell’etimo. Ahimsa infatti si compone del prefisso "a" privativo, che nega quanto segue, e il tema "himsa" che potremmo tradurre con "violenza", ma anche con "sforzo", "squilibrio", "frattura", "rottura dell’armonia", "scissura dell’unita’"; in quanto opposizione alla lacerazione di cio’ che deve restare unito, l’ahimsa e’ dunque anche ricomposizione della comunita’, riconciliazione.
Satyagraha e’ termine ancora piu’ denso e complesso: tradotto solitamente con la locuzione "forza della verita’" puo’ esser tradotto altrettanto correttamente in molti altri modi: accostamento all’essere (o all’Essere, se si preferisce), fedelta’ al vero e quindi al buono e al giusto, contatto con l’eterno (ovvero con cio’ che non muta, che vale sempre), adesione al bene, amore come forza coesiva, ed in altri modi ancora: e’ bella la definizione della nonviolenza che da’ Martin Luther King, che e’ anche un’eccellente traduzione di satyagraha: "la forza dell’amore"; ed e’ bella la definizione di Albert Schweitzer: "rispetto per la vita", che e’ anch’essa un’ottima traduzione di satyagraha. Anche satyagraha e’ una parola composta: da un primo elemento, "satya", che e’ a sua volta derivato dalla decisiva parola-radice "sat", e da "agraha". "Agraha" potremmo tradurla contatto, adesione, forza che unisce, armonia che da’ saldezza, vicinanza; e’ la forza nel senso del detto "l’unione fa la forza", e’ la "forza di attrazione" (cioe’ l’amore); e’ cio’ che unisce in contrapposizione a cio’ che disgrega ed annichilisce. "Satya" viene tradotto per solito con "verita’", ed e’ traduzione corretta, ma con uguale correttezza si potrebbe tradurre in modi molto diversi, poiche’ satya e’ sostantivazione qualificativa desunta da sat, che designa l’essere, il sommo bene, che e’ quindi anche sommo vero, che e’ anche (per chi aderisce a fedi religiose) l’Essere, Dio. Come si vede siamo in presenza di un concetto il cui campo di significati e’ vastissimo.
Con la sola parola nonviolenza traduciamo insieme, e quindi unifichiamo, ahimsa e satyagraha. Ognun vede come si tratti di un concetto di una complessita’ straordinaria, tutto l’opposto delle interpretazioni banalizzanti e caricaturali correnti sulle bocche e nelle menti di chi presume di tutto sapere solo perche’ nulla desidera capire.
*
II. Ma cosa e’ questa nonviolenza? lotta come umanizzazione
La nonviolenza e’ lotta come amore, ovvero conflitto, suscitamento e gestione del conflitto, inteso sempre come comunicazione, dialogo, processo di riconoscimento di umanita’. La nonviolenza e’ lotta o non e’ nulla; essa vive solo nel suo incessante contrapporsi alla violenza.
Ed insieme e’ quella specifica, peculiare forma di lotta che vuole non solo vincere, ma con-vincere, vincere insieme (Vinoba conio’ il motto, stupendo, "vittoria al mondo"; un motto dei militanti afroamericani dice all’incirca lo stesso: "potere al popolo"); la nonviolenza e’ quella specifica forma di lotta il cui fine e’ il riconoscimento di umanita’ di tutti gli esseri umani: e’ lotta di liberazione che include tra i soggetti da liberare gli stessi oppressori contro il cui agire si solleva a combattere.
Essa e’ dunque eminentemente responsabilita’: rispondere all’appello dell’altro, del volto muto e sofferente dell’altro. E’ la responsabilita’ di ognuno per l’umanita’ intera e per il mondo.
Ed essendo responsabilita’ e’ anche sempre nonmenzogna: amore della verita’ come amore per l’altra persona la cui dignita’ di essere senziente e pensante, quindi capace di comprendere, non deve essere violata (e mentire e’ violare la dignita’ altrui in cio’ che tutti abbiamo di piu’ caro: la nostra capacita’ di capire).
Non e’ dunque una ideologia ma un appello, non un dogma ma una prassi.
Ed essendo una prassi, ovvero un agire concreto e processuale, si da’ sempre in situazioni e dinamiche dialettiche e contestuali, e giammai in astratto.
Non esiste una nonviolenza meramente teorica, poiche’ la teoria nonviolenta e’ sempre e solo la riflessione e l’autocoscienza della nonviolenza come prassi. La nonviolenza o e’ in cammino, vale da dire lotta nel suo farsi, o semplicemente non e’.
Esistono tante visioni e interpretazioni della nonviolenza quanti sono i movimenti storici e le singole persone che si accostano ad essa e che ad essa accostandosi la fanno vivere, poiche’ la nonviolenza vive solo nel conflitto e quindi nelle concrete esperienze e riflessioni delle donne e degli uomini in lotta per l’umanita’.
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III. Tante visioni della nonviolenza quante sono le persone che ad essa si accostano
Ogni persona che alla nonviolenza si accosta da’ alla sua tradizione un apporto originale, un contributo creativo, un inveramento nuovo e ulteriore, e cosi’ ogni amica e ogni amico della nonviolenza ne da’ una interpretazione propria e diversa dalle altre. Lo sapeva bene anche Mohandas Gandhi che defini’ le sue esperienze come semplici "esperimenti con la verita’", non dogmi, non procedure definite e routinarie, non ricette preconfezionate, ma esperimenti: ricerca ed apertura.
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IV. La nonviolenza come insieme di insiemi
Io che scrivo queste righe propendo per proporre questa definizione della nonviolenza cosi’ come a me pare di intenderla e praticarla: la nonviolenza e’ cosa complessa, un insieme di insiemi, aperto e inconcluso.
1. E’ un insieme di concetti e scelte logico-assiologici, ovvero di criteri per l’azione: da questo punto di vista ad esempio la nonviolenza e’ quell’insieme di scelte morali che potremmo condensare nella formula del "principio responsabilita’" in cui ha un ruolo cruciale la scelta della coerenza tra i mezzi e i fini (secondo la celebre metafora gandhiana: tra i mezzi e i fini vi e’ lo stesso rapporto che c’e’ tra il seme e la pianta).
2. E’ un insieme di tecniche interpretative (il riconoscimento dell’altro, ergo il rifiuto del totalitarismo, della cancellazione o della sopraffazione del diverso da se’), deliberative (per prendere le decisioni senza escludere alcuno) ed operative (per l’azione di trasformazione delle relazioni: interpersonali, sociali, politiche); come esempio di tecnica deliberativa nonviolenta potremmo citare il metodo del consenso; come esempio di tecniche operative potremmo citare dallo sciopero a centinaia di altre forme di lotta cui ogni giorno qualcuna se ne aggiunge per la creativita’ di chi contro la violenza ovunque si batte.
3. E’ un insieme di strategie: e ad esempio una di esse risorse strategiche consiste nell’interpretazione del potere come sempre retto da due pilastri: la forza e il consenso; dal che deriva che si puo’ sempre negare il consenso e cosi’, attraverso la noncollaborazione, contrastare anche il potere piu’ forte.
4. E’ un insieme di progettualita’ (di convivenza, sociali, politiche): significativo ad esempio e’ il concetto capitiniano di "omnicrazia", ovvero: il potere di tutti. La nonviolenza come potere di tutti, concetto di una ricchezza e complessita’ straordinarie, dalle decisive conseguenze sul nostro agire.
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V. Un’insistenza
Insistiamo su questo concetto della nonviolenza come insieme di insiemi, poiche’ spesso molti equivoci nascono proprio da una visione riduzionista e stereotipata; ad esempio, e’ certo sempre buona cosa fare uso di tecniche nonviolente anziche’ di tecniche violente, ma il mero uso di tecniche nonviolente non basta a qualificare come nonviolenta un’azione o una proposta: anche i nazisti prima della presa del potere fecero uso anche di tecniche nonviolente.
Un insieme di insiemi, complesso ed aperto.
Un agire concreto e sperimentale e non un’ideologia sistematica e astratta.
Un portare ed agire il conflitto come prassi di umanizzazione, di riconoscimento e liberazione dell’umanita’ di tutti gli esseri umani; come responsabilita’ verso tutte le creature.
La nonviolenza e’ in cammino. La nonviolenza e’ questo cammino. Il cammino vieppiu’ autocosciente dell’umanita’ sofferente in lotta per il riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani.
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VI. Una grande esperienza e speranza storica
Non patrimonio di pochi, la nonviolenza si e’ incarnata in grandi esperienze e speranze storiche, due sopra tutte: la Resistenza, e il movimento delle donne; ed e’ il movimento delle donne, la prassi nonviolenta del movimento delle donne, la decisiva soggettivita’ autocosciente portatrice di speranza e futuro qui e adesso, in un mondo sempre piu’ minacciato dalla catastrofe e dall’annichilimento della civilta’ umana".
* Fonte: TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 356 del 27 ottobre 2010
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
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In greco logos significa non solo discorso, ma anche pensiero, il dialogo pacifico, disarmato, capace di far prevalere il logos migliore. Non solo non dovremmo temere questo confronto, ma anzi dovremmo valorizzarlo e considerarlo il luogo stesso in cui si costruisce la pace.
In verità, siamo solo e ancora degli esseri umani ‘preistorici’, con un solo occhio,
Ormai è più che evidente: siamo sempre più intelligenti e sempre più creativi, ma anche sempre più stupidi e cretini - pericolosamente! Con Kant, infatti, Garroni comincia ad aprire tutti e due gli occhi, ricomincia a ‘vedere’ meglio, e subito, e con entusiasmo, traccia una mappa per riannodare il filo con la strada della critica e spingersi oltre, e più a fondo!
C’è una dichiarazione di portata enorme: una assunzione di coscienza e di responsabilità decisiva per restituire a Kant tutta la sua grandezza e a noi stessi e a noi stesse la possibilità di diventare esseri umani maggiorenni - uscire da interi millenni di labirinto e da uno stato di minorità di lunghissima durata. E cominciare a capire, infine, quanto questa incomprensione sia stata e sia all’origine della nostra passata e presente catastrofe culturale
Kant, tenuto in grande considerazione per i suoi trattati sulla logica e la ragione, scrisse: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”.
Per una società aperta, al di là di una scienza “su palafitte” e di una cecità “preistorica”, necessaria un’altra soggettività. *
Siamo ancora ignoti a noi stessi (Nietzsche). E la ragione è presto detta: abbiamo preferito e preferiamo più le tenebre che la luce,
Sì, colui che creò le leggi che governano il “cielo stellato” materiale creò anche ‘la legge morale in noi’. Quella ‘legge che è in noi’, sviluppata e rafforzata mediante la Parola di Dio, può guidarci nella ricerca della felicità e dello scopo della vita.
“Immanuel Kant e altri come lui . . . diedero risalto al diritto dell’individuo di fare le proprie scelte”.
Norma di condotta etica, sociale o giuridica . . . [legge] morale, regola d’azione che l’uomo trova nella propria coscienza, e che gli serve di guida per discernere il bene dal male.
‘La legge scritta nel proprio cuore’. Coloro che non sono sotto una diretta legge di Dio, come la Legge data per mezzo di Mosè, sono “legge a se stessi”,
l’apostolo Paolo dice che la mancanza di accurata conoscenza può rendere debole la coscienza del cristiano. La coscienza può essere una guida buona o cattiva, a seconda della conoscenza ed esperienza di ciascuno. La coscienza può essere contaminata e perciò può trarre in inganno. Alcuni, agendo continuamente contro coscienza, la rendono insensibile
Trovo dunque nel mio caso questa legge: che quando desidero fare ciò che è giusto, ciò che è male è presente in me. Realmente mi diletto nella legge di Dio secondo l’uomo che sono interiormente, ma vedo nelle mie membra un’altra legge che combatte contro la legge della mia mente e mi conduce prigioniero alla legge del peccato che è nelle mie membra. Misero uomo che sono! Chi mi libererà dal corpo che subisce questa morte? Grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Così, dunque, con la [mia] mente io stesso sono schiavo della legge di Dio, ma con la [mia] carne della legge del peccato.
Quindi chi pensa di stare in piedi badi di non cadere. Poiché se voi vivete secondo la carne siete sicuri di morire; ma se mettete a morte le pratiche del corpo mediante lo spirito, vivrete.
(Il denaro non fa la felicita’...figurati la miseria).
Distinti Saluti.