di Federico La Sala *
Al di là dell’etica edipica, generale e "cattolica", e dello spirito del capitalismo: cambiamo il paradigma che finora ha governato il mondo...
L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide vuol essere un ’manifesto’ sul coraggio di servirsi della propria intelligenza, oggi - per diventare uomini liberi e donne libere, cittadini sovrani e cittadine sovrane, non imprenditori e imprenditrici, sfruttatori e sfruttatrici, della propria o dell’altrui ’forza-lavoro’. Esso riprende il discorso avviato in La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica (Antonio Pellicani editore, Roma 1991) e in Della Terra, il brillante colore (Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 1996) e propone una nuova prospettiva di ricerca e una possibile via di uscita da duemila e più anni di labirinto: una ontologia chiasmatica, segnata da una relazione non più azzoppata e accecata dalla cupidigia del sapere-potere edipico-capitalistico, ma da una relazione illuminata dal sapere-potere dell’amore, umano e politico, di sé, dell’altro e dell’altra.
Al fondo di questo lavoro, come di quelli precedenti, c’è la persuasione che “il campo - tavolo da gioco, la ben rotonda sfera entro e su cui ancora stiamo a giocare” (cfr. Le “regole del gioco” dell’Occidente, in La mente accogliente..., cit., pp. 162-189), sta diventando sempre di più un campo di sterminio, e c’è la volontà di contribuire al crescente e vasto sforzo di ritrovare le ragioni e le radici del nostro stesso esistere e di riaffermare - al di là della necessità e del caso - la libera scelta per l’essere, non per il nulla.
Uscire dai cerchi di filo spinato che delimitano dappertutto il nostro presente storico è la scommessa. Come fecero i militari italiani internati nel lager tedesco di Wietzendorf (cfr. il Presepio del lager - Natale 1944, ricostruito nella Basilica di sant’Ambrogio, a Milano, nel Natale 2000) e fece Enzo Paci, anch’egli in un lager tedesco [nello stesso: con Paul Ricoeur, Mikel Dufrenne, Giovannino Guareschi e Altri - fls] nel 1944 (cfr. Nicodemo o della nascita, in Della Terra..., cit., pp. 120-125), oggi non possiamo che riaprire la mente e il cuore alle domande fondamentali e cercare di dare a noi stessi e a noi stesse le risposte giuste: Come nascono i bambini? Come nascono le bambine? Qual è il principio di tutti gli esseri umani? Come si diventa esseri umani? Come io sono diventato Io? Cosa significa che io sono il figlio, la figlia, dell’UNiOne di due esseri umani?... Essi avevano cominciato a capire l’enigma antropologico dell’Egitto dei Faraoni, delle loro Piramidi e delle loro Sfingi, e il ’segreto’ di Betlemme, del presepio di Greccio (1223) e di Francesco e Chiara di Assisi.
Sull’orlo dell’abisso, non ci resta che venir fuori dallo stato (cartesiano-hegeliano) di sonnambulismo: seguire il filo del corpo (l’ombelico!), riacchiappare il senso della vita, e riattivare la memoria delle origini. Con Kant, con Feuerbach, con Marx, con Nietzsche, con Freud, con Rosenzweig, con Buber, e con Kafka ... si tratta di capire il significato della “spada” impugnata dalla “Statua della Libertà”, ritrovare “la fotografia dei genitori” (cfr. America) e riconciliarci con lo spirito di quei due esseri umani, di quei due io, che hanno fatto UNO e dato il via alla più grande rivoluzione culturale mai verificatasi sulla Terra - la nascita di noi stessi e di noi stesse e dell’intero genere umano - e riprendere il nostro cammino di esseri liberi e sovrani, figli della Terra e dello Spirito di D(ue)IO. Camminare eretti, senza zoppicare e con gli occhi aperti, è possibile. Non è un’utopia. (Milano, 20.01.2001 d.C.).
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* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, a Karol Wojtyla, e p. c., a Nelson Mandela), Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp. 7-8.
Sul tema, in rete, si cfr.:
IL PRESEPE DEL LAGER NAZISTA DI WIETZENDORF |
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE... *
Patristica. Sant’Ambrogio e i troppi Naboth dei nostri giorni
La grande attualità del vescovo di Milano è confermata dalla ripubblicata omelia dedicata al vignaiolo biblico vessato dal re Achab. Denuncia durissima contro i ricchi, potenti e sfruttatori
di Alessandro Capone (Avvenire, giovedì 28 gennaio 2021)
«La terra è di tutti, non solo dei ricchi, ma quelli che possono utilizzare ciò che appartiene loro sono assai pochi rispetto a chi non può farlo». Queste parole, che potremmo pensare di papa Francesco, sono in realtà del vescovo di Milano Ambrogio, il quale negli ultimi anni della vita scrisse un omelia su La storia di Naboth, appena pubblicata a cura di Domenico Lassandro e Stefania Palumbo (Loescher, pagine 336, euro 45,00), all’interno della giovane, ma molto promettente, serie patristica della Corona Patrum Erasmiana, promossa dal Centro europeo di studi umanistici ’Erasmo da Rotterdam’ di Torino sotto gli auspici di Renato Uglione.
Nell’opera Ambrogio trae spunto dalla vicenda dell’israelita Naboth (1 Re 21), che aveva una vigna vicino al palazzo del re Achab, il quale, spinto dalla brama di possesso, ordinò a Naboth di cedergli la sua vigna in cambio di un’altra o di denaro. Nulla poté Naboth, che rifiutò di obbedire perché quella vigna era eredità dei suoi padri: per mezzo di un inganno ordito dalla moglie del re, egli fu accusato di bestemmia e lapidato.
La vicenda di Naboth rappresenta il filo conduttore di tutto il testo ambrosiano e consente al vescovo di Milano, il quale oltre che sull’esperienza episcopale poteva far leva anche su quella di politico, di presentare una lucida denuncia del dramma dei poveri del suo tempo, di cui ci offre qualche vivido esempio. Egli infatti si sofferma sui sacrifici di vite umane per soddisfare la fame dei ricchi: uno cade dalla sommità di un tetto per preparare granai più ampi; un altro precipita dalla cima di un albero, mentre ispeziona i tipi di uva; un altro annega in mare per procurare pesci e ostriche... Vengono in mente i sempre attuali ’incidenti sul lavoro’, come osserva Lassandro, ma ancor di più la folla di uomini sfruttati e venduti, di turoldiana memoria, sparsi in tutto il mondo e asserviti a un lavoro mortale utile solo per il godimento di una minoranza.
E ancora il padre, di cui Ambrogio si professa testimone oculare, costretto a vendere all’asta i propri figli per rinviare la pena a cui era condannato per la mancanza di vino sulla tavola del potente. Di questo padre il vescovo descrive la tempesta interiore e la disperazione infinita e denuncia la situazione innaturale a cui l’uomo è costretto: «Come potrei dunque discernere tra i sentimenti della natura, come potrei dimenticarli, come potrei spogliarmi dei sentimenti di un padre?».
È evidente che lo scopo di Ambrogio non è di proporre semplicemente un’interpretazione del sopruso sofferto da Naboth, ma principalmente di sottolineare la necessità di rendere concreta ed efficiente una giustizia sociale basata sui valori evangelici.
Il testo ambrosiano rappresenta dunque la testimonianza drammatica di una società in cui i rapporti economici hanno conseguenze devastanti su quelli umani e sociali e allo stesso tempo propone il manifesto e l’auspicio di una società più equa e solidale, in cui il bene sia realmente, secondo la legge di natura, comune e non a vantaggio di un’élite: «Per tutti è stato creato il mondo, quel mondo che invece voi pochi ricchi tentate di rivendicare solo per voi».
Le parole del vescovo rappresentano pertanto un messaggio perennemente rivoluzionario, che ha conquistato personalità come Concetto Marchesi, Ernesto Buonaiuti e David Maria Turoldo, che nel duomo milanese in una sua predica lesse, senza riferire il nome dell’autore, alcuni passaggi proprio del testo ambrosiano, suscitando profondo scandalo e vibrate proteste dell’uditorio.
Un messaggio scomodo ancora oggi e in perfetta consonanza con quanto papa Francesco ha scritto al punto 120 dell’Enciclica Fratelli tutti: «Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società».
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI.
FLS
Gli internati militari italiani dimenticati dell’8 settembre
In seicentocinquantamila decisero di non collaborare con i tedeschi e finirono ai lavori forzati nei lager
di Andrea Parodi (La Stampa, 08.09.2017)
«Raccontare poco non era giusto, a raccontare il vero non si era creduti, allora ho evitato di raccontare. Sono stato prigioniero e bon, dicevo». Così un Internato Militare Italiano a chiusura delle sue memorie, quasi scusandosi. Poche, rassegnate parole che riassumono un disagio diffuso tra gli oltre 650 mila militari italiani che quell’8 settembre 1943 scelsero volontariamente di non continuare a combattere a fianco dei nazisti.
L’annuncio di Badoglio («Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza») lascia nel caos un esercito che contava due milioni di uomini. Delusi, impreparati e peggio equipaggiati. Esausti di combattere dopo le gravi sconfitte in Africa e in Russia, con la certezza di una vittoria che non sarebbe mai arrivata.
Nelle ore immediatamente successive all’Armistizio il Regio Esercito si sfalda. Inizia la Resistenza. Per i soldati italiani catturati dai tedeschi inizia un’esperienza terribile: quella del lager. I nazisti non offrono terze scelte: «o con noi, o contro di noi». L’alternativa a prendere un fucile e cominciare a sparare ad angloamericani e italiani badogliani era solo quella di essere internati nei lager di Germania e Polonia. Nemmeno come prigioniero di guerra, status riconosciuto internazionalmente, ma come Internato Militare Italiano, o Imi. Definizione coniata da Adolf Hitler in persona.
È stata questa degli Imi la forma di Resistenza più numerosa. Può sembrare paradossale, proprio perché non se ne parla mai. Il rifiuto a collaborare con il nuovo nemico nazista, preferendo l’Italia di Badoglio e di Brindisi a quella di Mussolini e di Salò, è un fenomeno vastissimo.
Molti italiani possono vantare un nonno, uno zio o comunque un parente che è stato Internato Militare Italiano. Semplicemente lo ignora. Il paradosso si riassume nella citazione delle memorie dell’Imi: tornati dalla guerra non hanno voluto raccontare. Hanno preferito integrarsi in silenzio nella società. Parlando della loro esperienza bellica, anche con dovizie di particolari, per tutto ciò che riguarda gli eventi prima dell’8 settembre e liquidando con poche e sofferte parole i due anni «prigioniero in Germania». Meglio dimenticare al più presto. Assolutamente difficile che abbiano utilizzato le parole giuste: «campo di concentramento». Non si usava.
Gli Imi erano impiegati come schiavi (nelle aziende agricole come contadini, nelle fabbriche e nelle miniere come operai). La notte tornavano in luoghi di terrore e di morte, contrassegnati con un numero. Senza assistenza sanitaria, senza tutele, senza dignità umana. I nazisti, per costringerli alla resa, li facevano gelare nell’inverno tedesco e gli diminuivano il cibo. Si soffriva la fame più nera. La memorialistica parla spesso di bucce di patate marce trovate tra la spazzatura.
Significative le parole del poeta Tonino Guerra: «Nella vita sono stato felice soprattutto quando mi hanno liberato: per la prima volta ho ammirato il volo di una farfalla senza il desiderio di mangiarla». Gli effetti della fame si trovano anche nelle pagine del Diario di Giovannino Guareschi, animatore della vita culturale nei lager insieme, tra gli altri, a Gianrico Tedeschi: «Quando mi faccio la barba da sotto la pelle vedo il mio scheletro. Non pensavo che anche le ossa potessero dimagrire». Il risultato fu che in circa 50 mila morirono di stenti, per le malattie, per le sevizie dei nazisti, per i bombardamenti alleati.
Il silenzio di questi protagonisti de «l’altra Resistenza» (come l’omonimo libro di Alessandro Natta, pubblicato da Einaudi solamente nel 1997) si è interrotto intorno alla metà degli Anni 80, con l’età della pensione degli Imi. Una grande occasione perduta per molti familiari, che ancora oggi non comprendono.
Gli storici hanno avuto grandi responsabilità. In Italia nel dopoguerra ci si è concentrati sulla memorialistica partigiana, che ha di fatto monopolizzato l’eredità della lotta di Liberazione. Non è un caso che il primo storico a occuparsi con grande attenzione al tema degli Imi sia stato proprio un tedesco nel 1990: Gerhard Schreiber, scomparso poche settimane fa. Che coniò una definizione in tre parole: «Traditi, disprezzati, dimenticati».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LAGER DI WIETZENDORF, 1944. Basilica di S. Ambrogio, Natale 2000: il Presepio degli Internati Militari Italiani. In memoria di Enzo Paci e a onore del Cardinale Martini.
UN APPELLO PER LA PACE: UN NUOVO CONCILIO, SUBITO! *
Caro Cardinale Martini
“Era””, “è ”: GESU’, IL SALoMONE, IL PESCE (“Ixthus”), sempre libero dalle reti del Pastore-Pescatore (del IV sec.)!
di Federico La Sala *
Karol Wojtyla, il grande Giovanni Paolo II è morto! E se è vero che “il mondo - come ha detto il nuovo papa - viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori”, è anche vero che nel IV secolo - con il ‘pallio’ ... di Roma, comincia “la grande politica” - muore il cristianesimo e nasce l’impero cattolico-romano. La religione ebraica diventa passato, archeologia, e la religione cattolico-romana diventa storia, presente e futuro. Contro ogni tentennamento, la “Dominus Jesus” non è stata scritta invano e la prima Omelia (24 aprile 2005) di Ratzinger - Benedetto XVI ha chiarito subito, senza mezzi termini, a tutti i fratelli e a tutte le sorelle, chi è il fratello maggiore (e chi sono - i fratelli maggiori)... chi è il nuovo Papa, e qual è la “nuova Gerusalemme”.
Per Ratzinger - Benedetto XVI non c’è nessun dubbio e nessun passo indietro da fare. Finalmente un passo avanti è stato fatto. Guardino pure i sudditi dell’Urbe, e dell’Orbi: il “distintivo” cattolico è qui! Ma Wojtyla? Giovanni Paolo II? La visita alla Sinagoga di Roma? Toaff? - La Sinagoga?! Toaff?! Gerusalemme?!: “Roma omnia vincit”, non Amor...! Rilegga l’Omelia (www.ildialogo.org/primopiano): la Chiesa cattolico-romana è viva, vince alla grande, im-mediaticamente! Rifletta almeno su questi “passaggi”:
"Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo [...] Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del Ministero Petrino; entrambi questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle letture di oggi". "Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. [...]
"E questa volontà non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita - questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio. Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica magari in modo anche doloroso e così ci conduce a noi stessi. [...] In realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della Chiesa.[...]. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo. La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore [...]. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi”.
In verità, Nietzsche, uno dei tre grandi - con Marx e Freud - maestri del sospetto che stimava Gesù, ma nient’affatto il cattolicesimo - definito da lui, un platonismo per il popolo, l’aveva già detto - e anche in modo più profetico: “il deserto avanza. Guai a chi nasconde il deserto dentro di sé!” (Così parlò Zarathustra).
Cosa pensare? Che fare, intanto? Aspetterò. Sì! Aspetterò! Per amore di tutta la Terra e “per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come una lampada. Allora tutti i popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria”(Isaia).
Federico La Sala
(AGI) - Roma, 27 nov. - Lunedi’ prossimo alle ore 12 il segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini, visitera’ la scuola primaria-ICS di via dei Garofani a Rozzano, dove il preside ha ’cancellato’ la festa del Natale. "Portero’ in dono agli alunni dell’istituto un presepe - spiega Salvini - con garbo, discrezione e senza voler imporre nulla a nessuno. Ma il presepe fa parte delle nostre tradizioni e della nostra cultura e religione: non e’ giusto che i nostri figli siano costretti a rinunciarvi".
A meno di un mese dal Natale e in un periodo in cui le radici religiose assumono un significato anche politico, scoppia la polemica sui simboli che caratterizzano la Nativita’: presepe, albero e festeggiamenti in genere.
A far ’scalpore’ e’ che a negare i tradizionali riti che accompagnano il periodo natalizio sono due scuole, a Rozzano, nel Milanese e a Romano D’Ezzelino, nel Vicentino. Episodi che hanno fatto insorgere il centrodestra, che chiama in causa il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini.
Ma anche dalle file del centrosinistra si levano alcune voci critiche: "Siamo all’abdicazione culturale", dice ad esempio il vicesegretario vicario dell’Udc Antonio De Poli, mentre il deputato Pd Edo Patriarca parla di "operazione di laicismo esasperato, un’operazione di desertificazione della nostra cultura". (AGI) .
* AGI - 27 NOV 2015
Docenti e genitori con preside Rozzano
’Siamo amareggiati, non è stato cancellato nulla’ *
Redazione ANSA MILANO *
(ANSA) - MILANO, 29 NOV - Un gruppo di insegnanti dell’Ics Garofani di Rozzano e alcuni genitori si sono ritrovati davanti a scuola esponendo uno striscione ’Io sto con Parma’, riferito al dirigente finito nella bufera per non aver autorizzato iniziative natalizie religiose. "Siamo molto amareggiati, non ci sono stati nè divieti, nè cancellazioni - hanno detto - le feste così come programmate a settembre avranno luogo, compresa una festa nelle classi dove saranno accolti i genitori, che è la famosa festa di Natale".
"Poiché da più parti si è sostenuta la mia inadeguatezza al ruolo, mi rivolgo alla Direzione dell’Ufficio Scolastico Regionale affinché valuti l’opportunità di attribuire ad altro collega la reggenza", ha scritto il preside in una circolare sul sito della scuola. "Non esistono iniziative ’cancellate’ o ’rinviate’ - precisa - L’unico diniego che ho opposto riguarda la richiesta di due mamme che avrebbero voluto insegnare canti religiosi ai bambini cristiani: cosa che continuo a considerare inopportuna".
ROZZANO, 28 NOVEMBRE 2015 *
NATALE E DINTORNI
[di Marco Parma]
Potrei anche ringraziare quegli incauti che hanno sollecitato l’attenzione dei media sulla mia mo desta persona, se me lo fossi meritato. Purtroppo, invece, la bufera mediatica che si è sol levata si basa su notizie in parte distorte e in parte infondate.
In primo luogo, non ho mai fatto rimuovere crocefissi né dalle aule del Comprensivo Ga ro fa ni né d a quelle delle altre scuole che ho gestito e diretto nel corso di più di vent’anni di mo desta carriera, per un motivo molto semplice: non c’erano.
In secondo luogo, non ho rimandato né cancellato nessun concerto natalizio né altre iniziative programmate dal collegio docenti e dal consiglio di istituto ; mi sono, viceversa, a doperato per sostenerle : tanto il concerto del 17 dicembre dei ragazzi della secondaria quanto quello dei bimbi della primaria, in programma per il 21 gennaio , oltre ai m omenti di festa prenatalizia che si svolgeranno, come di consueto, in tutte le classi .
Non esistono iniziative “cancellate” o “rinviate”. L’unico diniego che ho opposto riguarda la richiesta di due mamme che avrebbero voluto entrare a scuola nell’interval lo mensa per in segnare canti religiosi ai bambini cristiani: cosa che continuo a considerare inopportuna.
Poiché da più parti si è sostenuta la mia inadeguatezza al ruolo, mi rivolgo nel frattempo al la Direzione dell’Ufficio Scolastico Regionale affinché valuti l’opportunità di attribuire ad altro collega la reggenza dell’istituto. In tale prospettiva, colgo l’occasione per ringraziare i bam bini, i genitori, gli insegnanti , la segreteria e i collaboratori per l’affetto e la stima con cui mi hanno accolto fra loro dal settembre 2014 fino a questo difficile passaggio: sentimen ti che contraccambio di cuore, con sincera ammirazione per la passione e la tenacia che il perso na le scolastico dimo stra ogni giorno.
IL DIRIGENTE SCOLASTICO
Marco Parma
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Fonte: Sito dell’Istituto Comprensivo Statale di via dei Garofani - Rozzano
Anch’io sto con Parma, il preside di Rozzano vittima di una campagna isterica che trasforma Gesù in soldatino di piombo
di
Gad Lerner (lunedì, 30 novembre 2015)
Come la maggioranza dei genitori e degli insegnanti della scuola primaria Garofani di Rozzano, anch’io voglio esprimere solidarietà al suo dirigente dimissionario, Marco Parma. Fatto oggetto di una campagna denigratoria che ha assunto toni isterici, oltre che ripiegata sul più vieto conformismo, per la decisione di escludere cori religiosi dalla festa della scuola.
Lo ha spiegato bene oggi Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, sul “Corriere della Sera”: non esiste un’unica ricetta per affrontare la materia complessa delle diversità e della libera manifestazione plurale del credo religioso nelle scuole.
Personalmente, non mi sarei mai sognato di cantare “Tu scendi dalle stelle” quando frequentavo la scuola: farlo senza crederci, mi sarebbe parso offensivo nei confronti di chi ha fede nella divinità di Gesù. Non a caso esiste la possibilità di esonerarsi dall’insegnamento confessionale della religione, così come (purtroppo) viene praticato in Italia.
Il preside Parma nella sua scuola ha messo l’albero di Natale e, suppongo, non avrebbe avuto difficoltà a ospitare pure un presepe. Solo ha pensato che fosse sbagliato far cantare la nascita del Cristo anche a bambini che cristiani non sono, o, peggio, dividere per appartenenza i bambini al momento del coro.
Mi pare una scelta rispettabile, in ogni caso, che la si condivida o meno.
Invece gli è piovuta addosso la marea del conformismo identitario, capitanata da chi ne detiene oggi il copyright, cioè il solito Matteo Salvini. Lui ha promesso di andare davanti alle scuole portandoci il presepe, come un novello emulo dei Re Magi.
Peccato che le statuine del presepe in mano a Salvini somigliano piuttosto a pupazzi di guerrieri giapponesi, o al massimo a soldatini di piombo.
MANZONI, MARX, E LA CRITICA DELL’ECONOMIA TEOLOGICO-POLITICA
IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA LA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
MARX E LA CRITICA DELL’ECONOMIA TEOLOGICO-POLITICA. " Me ne stavo seduto pensieroso, misi da parte Locke, Fichte e Kant e mi dedicai a una profonda ricerca per scoprire in che modo una lisciviatrice può essere connessa al maggiorascato, quando mi trapassò un lampo (...)" (K. Marx, "Scorpione e Felice").
"SCORPIONE E FELICE". RIDENDO E SCHERZANDO, MARX TROVA "LA PIETRA FILOSOFALE" DEL SUO CAMMINO.
APPELLO A SOSTEGNO DI PAPA FRANCESCO *
L’arrivo del Papa «venuto dalla fine del mondo» che assume il nome di Francesco presentandosi non come Pontefice Massimo, ma come Vescovo di Roma, provoca reazioni scomposte dentro la Curia vaticana che, falcidiata da scandali e corruzioni, considera il Papa come corpo «estraneo» al suo sistema consolidato di alleanze col potere mondano, alimentato da due strumenti perversi: il denaro e il sesso.
Dapprima il chiacchiericcio sul «Papa strano» inizia in sordina, poi via via diventa sempre più palese davanti alle aperture di papa Francesco in fatto di famiglia, di «pastorale popolare» e di vicinanza con il Popolo di Dio per arrivare anche - scandalo degli scandali - a parlare con i non credenti e gli atei.
Dopo lo sgomento di un sinodo «libero di parlare», l’attacco frontale di cinque cardinali (Müller, Burke, Brandmüller, Caffarra e De Paolis), tra cui il Prefetto della Congregazione della Fede, ha rafforzato il fronte degli avversari che vedono in Papa Francesco «un pericolo» che bisogna bloccare a tutti i costi.
Rompendo una prassi di formalismo esteriore, durante gli auguri natalizi, lo stesso Papa elenca quindici «malattie» della Curia, mettendo in pubblico la sua solitudine e chiedendo coerenza e autenticità.
Come risposta all’appello del Papa, il giorno dopo, il 24 dicembre 2014, Veglia di Natale, scelto non a caso, il giornalista Vittorio Messori pubblica sul Corriere della Sera «una sorta di confessione che avrei volentieri rimandata, se non mi fosse stata richiesta», dal titolo «I dubbi sulla svolta di Papa Francesco», condito dall’occhiello: «Bergoglio è imprevedibile per il cattolico medio. Suscita un interesse vasto, ma quanto sincero?».
L’attacco è mirato e frontale, «richiesto», una vera dichiarazione di guerra, felpata in stile clericale, ma minacciosa nella sostanza di un avvertimento di stampo mafioso: il Papa è pericoloso, «imprevedibile per il cattolico medio». È tempo che torni a fare il Sommo Pontefice e lasci governare la Curia. L’autore non fa i nomi dei «mandanti», ma si mette al sicuro dicendo che il suo intervento gli «è stato richiesto».
Ci opponiamo a queste manovre, espressione di un conservatorismo, che spesso ha impedito alla Chiesa di adempiere al suo compito «unico» di evangelizzare. Papa Francesco è pericoloso perché annuncia il Vangelo, ripartendo dal Concilio Vaticano II, per troppo tempo congelato. I clericali e i conservatori che gli si oppongono sono gli stessi che hanno affossato il concilio e che fino a ieri erano difensori tetragoni del «primato di Pietro» e dell’«infallibilità del Papa» solo perché i Papi, incidentalmente, pensavano come loro.
Noi non possiamo tacere e con forza gridiamo di stare dalla parte di Papa Francesco. Con il nostro appello alle donne e agli uomini di buona volontà, senza distinzione alcuna, vogliamo fare attorno a lui una corona di sostegno e di preghiera, di affetto e di solidarietà convinta.
La «svolta di Papa Francesco» non genera dubbi, al contrario coinvolge e stimola la maggioranza dei credenti a seguirlo con stima e affetto. Il ministero del Vescovo di Roma e la sua teologia pastorale suscitano speranza e anelito di rinnovamento in tutto il Popolo di Dio e il suo messaggio è ascoltato con attenzione da molte donne e uomini di buona volontà, non credenti o di diverse fedi e convinzioni.
Desideriamo dire al Papa che non è solo, ma che, rispondendo al suo incessante invito, tutta la Chiesa prega per lui (cfr. At 12,2). È la Chiesa dei semplici, delle parrocchie, dei marciapiedi, la Chiesa dei Poveri, dei senza voce, dei senza pastori, la Chiesa «del grembiule» che vive di servizio, testimonianza e generosità, attenta ai «segni dei tempi» (Matteo 16,3) e camminando coi tempi per arrivare in tempo.
Allo stesso modo, molti non credenti, atei o di altre religioni, uomini e donne liberi, gli esprimono pubblicamente la loro stima e la loro amicizia. La sètta di «quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re» (Luca 7,25) e non possono stare con un Papa di nome Francesco che parla il Vangelo «sine glossa».
Papa Francesco, ricevi il nostro abbraccio e la nostra benedizione.
Roma, 25 dicembre 2014 - Natale di Gesù
Firmano:
Comunità di San Torpete Genova, con Paolo Farinella, prete
Ornella Marcato e Fabio Cozzo, coniugi
«Una Chiesa a più voci» di Ronco di Cossato Biella con Mario Marchiori, prete
Comunità Le Piagge Firenze, con Alessandro Santoro, prete
Noi Siamo Chiesa - Italia con Vittorio Bellavite, presidente
Aldo Antonelli, prete
Benito Fusco, fratello dei Servi di Maria
Luigi Ciotti, prete - Presidente di Libera
Centro Studi «Edith Stein» Lanciano, con Amedeo Guerriere, diacono e Carmine Miccoli, prete
Franco e Anna Borghi, coniugi
Luisa Marchini, laica
Beati i costruttori di pace, con Albino Bizzotto, prete
(Seguono altre firme)
*
PETIZIONE:
FERMIAMO GLI ATTACCHI A PAPA FRANCESCO
Creata da: Paolo Farinella
«Il modello? Il dialogo misterioso nel sepolcro di Gesù»
di Carlo Maria Martini (Avvenire, 12 settembre 2012)
Solitamente si dà della comunicazione una definizione empirica: comunicare è «dire qualcosa a qualcuno». Dove quel «qualcosa» si può allargare a livello planetario, attraverso il grande mondo della rete che è andato ad aggiungersi ai mezzi di comunicazione classici. Anche quel «qualcuno» ha subìto una crescita sul piano globale, al punto che gli uditori o i fruitori del messaggio in tempo reale non si possono nemmeno più calcolare.
Questa concezione empirica, alla luce dell’odierno allargamento di prospettive, dove sempre più si comunica senza vedere il volto dell’altro, ha fatto emergere con chiarezza il problema maggiore della comunicazione, ossia il suo avvenire spesso solo esteriormente, mantenendosi sul piano delle nude informazioni, senza che colui che comunica e colui che riceve la comunicazione vi siano implicati più di tanto.
Per questo vorrei tentare di dare della comunicazione una descrizione «teologica», che parta cioè dal comunicarsi di Dio agli uomini, e lo vorrei fare enunciando qui alcune riflessioni che potrebbero servire per una nuova descrizione del fenomeno.
Nel sepolcro di Gesù, la notte di Pasqua, si compie il gesto di comunicazione più radicale di tutta la storia dell’umanità. Lo Spirito Santo, vivificando Gesù risorto, comunica al suo corpo la potenza stessa di Dio. Comunicandosi a Gesù, lo Spirito si comunica all’umanità intera e apre la via a ogni comunicazione autentica. Autentica perché comporta il dono di sé, superando così l’ambiguità della comunicazione umana in cui non si sa mai fino a che punto siano implicati soggetto e oggetto.
La comunicazione sarà dunque anzitutto quella che il Padre fa di sé a Gesù, poi quella che Dio fa a ogni uomo e donna, quindi quella che noi ci facciamo reciprocamente sul modello di questa comunicazione divina. Lo Spirito Santo, che riceviamo grazie alla morte e resurrezione di Gesù e che ci fa vivere a imitazione di Gesù stesso, presiede in noi allo spirito di comunicazione. Egli pone in noi caratteristiche, quali la dedizione e l’amore per l’altro, che ci richiamano quelle del Verbo incarnato. Di qui potremmo dedurre alcune conclusioni su ogni nostro rapporto comunicativo.
Primo. Ogni nostra comunicazione ha alla radice la grande comunicazione che Dio ha fatto al mondo del suo Figlio Gesù e dello Spirito Santo, attraverso la vita, morte e resurrezione di Gesù e la vita di Gesù stesso nella Chiesa. Si capisce perciò come i Libri sacri, che in sostanza parlano di questa comunicazione, siano opere di grande valore per la storia del pensiero umano. È vero che anche i libri di altre religioni possono essere ricchi di contenuto, ma questo è dovuto al fatto che sottostà a essi il dato fondamentale di Dio che si dona all’uomo.
Secondo. Ogni comunicazione deve tenere presente come fondante la grande comunicazione di Dio, capace di dare il ritmo e la misura giusti a ogni gesto comunicativo. Ne consegue che un gesto sarà tanto più comunicativo quanto non solo comunicherà informazioni, ma metterà in rapporto le persone. Ecco perché la comunicazione di una verità astratta, anche nella catechesi, appare carente rispetto alla piena comunicazione che si radica nel dono di Dio all’uomo.
Terzo. Ogni menzogna è un rifiuto di questa comunicazione. Quando ci affidiamo con coraggio all’imitazione di Gesù, sappiamo di essere anche veri e autentici. Quando ci distacchiamo da questo spirito, diveniamo opachi e non comunicanti.
Quarto. Anche la comunicazione nelle famiglie e nei gruppi dipende da questo modello. Essa non è soltanto trasmissione di ordini o proposta di regolamenti ma suppone una dedizione, un cuore che si dona e che quindi è capace di muovere il cuore degli altri.
Quinto. Anche la comunicazione nella Chiesa obbedisce a queste leggi. Essa non trasmette solo ordini e precetti, proibizioni o divieti. È scambio dei cuori nella grazia dello Spirito Santo. Perciò le sue caratteristiche sono la mutua fiducia, la parresia, la comprensione dell’altro, la misericordia
L’operazione-anestesia sul cardinal Martini
di Vito Mancuso (la Repubblica, 9 settembre 2012)
Con uno zelo tanto impareggiabile quanto prevedibile è cominciata nella Chiesa l’operazione anestesia verso il cardinal Carlo Maria Martini, lo stesso trattamento ricevuto da credenti scomodi come Mazzolari, Milani, Balducci, Turoldo, depotenziati della loro carica profetica e presentati oggi quasi come innocui chierichetti.
A partire dall’omelia di Scola per il funerale, sulla stampa cattolica ufficiale si sono susseguiti una serie di interventi la cui unica finalità è stata svigorire il contenuto destabilizzante delle analisi martiniane per il sistema di potere della Chiesa attuale. Si badi bene: non per la Chiesa (che anzi nella sua essenza evangelica ne avrebbe solo da guadagnare), ma per il suo sistema di potere e la conseguente mentalità cortigiana.
Mi riferisco alla situazione descritta così dallo stesso Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al papa stesso”.
E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.
Quello che è rilevante in queste parole non è tanto la denuncia del carrierismo, compiuta spesso anche da Ratzinger sia da cardinale che da Papa, quanto piuttosto la terapia proposta, cioè la libertà di parola, l’essere trasparenti, il dire la verità, l’esercizio della coscienza personale, il pensare e l’agire come “cristiani adulti” (per riprendere la nota espressione di Romano Prodi alla vigilia del referendum sui temi bioetici del 2005 costatagli il favore dell’episcopato e pesanti conseguenze per il suo governo). È precisamente questo invito alla libertà della mente ad aver fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e a inquietare ancora oggi il potere ecclesiastico.
Diceva nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme: “Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balìa degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”. Ecco il metodo-Martini: la libertà di pensiero, ancora prima dell’adesione alla fede.
Certo, si tratta di una libertà mai fine a se stessa e sempre tesa all’onesta ricerca del bene e della giustizia (perché, continuava Martini, “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio”), ma a questa adesione al bene e alla giustizia si giunge solo mediante il faticoso esercizio della libertà personale. È questo il metodo che ha affascinato la coscienza laica di ogni essere pensante (credente o non credente che sia) e che invece ha inquietato e inquieta il potere, in particolare un potere come quello ecclesiastico basato nei secoli sull’obbedienza acritica al principio di autorità. Ed è proprio per questo che gli intellettuali a esso organici stanno tentando di annacquare il metodo-Martini.
Per rendersene conto basta leggere le argomentazioni del direttore di Civiltà Cattolica secondo cui “chiudere Martini nella categoria liberale significa uccidere la portata del suo messaggio”, e ancor più l’articolo su Avvenire di Francesco D’Agostino che presenta una pericolosa distinzione tra la bioetica di Martini definita “pastorale” (in quanto tiene conto delle situazioni concrete delle persone) e la bioetica ufficiale della Chiesa definita teorico-dottrinale e quindi a suo avviso per forza “fredda, dura, severa, tagliente” (volendo addolcire la pillola, l’autore aggiunge in parentesi “fortunatamente non sempre”, ma non si rende conto che peggiora le cose perché l’equivalente di “non sempre” è “il più delle volte”).
Ora se c’è una cosa per la quale Gesù pagò con la vita è proprio l’aver lottato contro una legge “fredda, dura, severa, tagliente” in favore di un orizzonte di incondizionata accoglienza per ogni essere umano nella concreta situazione in cui si trova.
Martini ha praticato e insegnato lo stesso, cercando di essere sempre fedele alla novità evangelica, per esempio quando nel gennaio 2006 a ridosso del caso Welby (al quale un mese prima erano stati negati i funerali religiosi in nome di una legge “fredda, dura, severa, tagliente”) scrisse che “non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete - anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite - di valutare se le cure che gli vengono proposte sono effettivamente proporzionate”. Questa centralità della coscienza personale è il principio cardine dell’unica bioetica coerente con la novità evangelica, mai “fredda, dura, severa, tagliente”, ma sempre scrupolosamente attenta al bene concreto delle persone concrete.
Martini lo ribadisce anche nell’ultima intervista, ovviamente sminuita da Andrea Tornielli sulla Stampa in quanto “concessa da un uomo stanco, affaticato e alla fine dei suoi giorni”, ma in realtà decisiva per l’importanza dell’interlocutore, il gesuita austriaco Georg Sporschill, il coautore di Conversazioni notturne a Gerusalemme.
Ecco le parole di Martini: “Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti”. È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II (vedi Gaudium et spes 16-17), è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo e a come in essa si lavori sistematicamente per offuscarlo.
Dio chiese un Martini e si presentò padre Carlo Maria
di Paolo Farinella, prete *
Genova 05-09-2012. - Padre Carlo Maria Martini è morto. Padre Carlo Maria Martini vive più che mai. Il fatto saliente della settimana e dell’anno è la figura di questo nuovo Ambrogio che ha segnato non solo la diocesi di Milano, ma la Chiesa tutta e anche il mondo lontano da essa. La folla silenziosa di credenti e non credenti che, davanti a lui, morto, scorre come un fiume tranquillo, è il «segno dei tempi» di cui parla il Vangelo (Mt 16,3) che fu lampada e luce ai passi del padre Carlo. Abbiamo visto, abbiamo contemplato come ha vissuto e come è morto. Anzi, come ha voluto morire. La coerenza nella verità della sua vita sono stati esemplari fino all’ultimo ed è vero che si muore come si vive.
Lo sfondo sul cielo nuvoloso di Milano era di contrasto. Da una parte il popolo che coglie il cuore del Padre e voleva testimoniare che le sue parole, sigillo autentico della Parola, sono arrivate anche là dove forse nessuno immaginava. Il padre Martini è per tutti il sacramento del «Dio fuori del campo», che ha superato per sempre i confini della Chiesa che cerca di imprigionarlo per andare alla ricerca degli uomini e delle donne di buona volontà, ma anche quelli senza alcuna volontà. Dio non è cattolico, ora lo sappiamo, perché egli è alla fine di ogni percorso di vita, di amore, di giustizia. Dio è il desiderio.
Dall’altra parte c’è la gerarchia ufficiale che subisce la morte del cardinale Martini e, se avesse potuto, ne avrebbe fatto a meno. Come restare inerti di fronte alla affermazione del padre che in punto di morte, quasi come un grido testamentario sibila senza più voce e con sofferenza che «la Chiesa è indietro di due secoli»? Quale Chiesa? Quella che è su Marte o Mercurio o quella di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, il papa pauroso che teme l’irruzione del Dio della Storia? E’ stata dura per gli ecclesiastici corazzieri della «chiesa a loro immagine e somiglianza» apprendere che il Padre, consapevole della morte e lucido di cuore e di fede, abbia rifiutato ogni accanimento come forse avrebbero voluto e imposto i pasdaran difensori a oltranza della vita di Eluana Englaro (tanto non era lo loro!), con tubi, tubicini, sonde e macchine di ogni genere per allungare la parvenza di vita disumana e la sofferenza gratuita. Padre Carlo Maria ha chiesto di morire in modo naturale, cioè in maniera umana, salvaguardando la dignità sua e delle persone che lo accudivano.
Imponente nella sua persona, alta e slanciata, era timido e sempre consapevole della sua inadeguatezza di fronte alla coscienza di ciascuno che egli vedeva come un gigante. Quando lo incontravo a Gerusalemme e parlavamo di studi biblici, osservando i miei lavori sulla grammatica greca a confronto con la sintassi ebraica, mi diceva: «Sono queste le cose che dobbiamo fare: creare strumenti perché gli altri possano leggere sempre più intimamente la Bibbia». Non si preoccupava dell’integrità dell’ortodossia, ma di offrire strumenti scientifici, cioè altamente spirituali, perché ognuno fosse in grado di lavorare con la propria testa e con il proprio cuore.
Muore il Padre Martini al compimento del 50° anniversario del concilio Vaticano II, che egli amò, difese e protesse anche davanti al papa, anche davanti alla curia romana che tutto fece e tutto sta facendo per evirarlo di ogni sprazzo di vita. Egli è speculare a Giovanni XXIII e lo dimostra la folla che assiepa il suo letto di morte e di vita. Come il 3 giugno del 1963, il popolo romano e del mondo si raccolse radunandosi spontaneamente in piazza San Pietro per «adorare, amare e tacere» davanti al vecchio profeta che volle il concilio; allo stesos modo il 3 settembre 2012 «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7.9) assiepava il duomo amborsiano davanti all’uomo che era stato per tutti «il testimone di Dio».
Egli nel 1999 durante un sinodo Padre carlo Maria chiese la convocazione di un nuovo concilio e fu messo a tacere in modo sbrigativo e perentorio. L’imposizione del silenzio gli venne dall’arcivescovo Dionigi Tettamanzi, segretario della Cei, a cui il papa Giovanni Paolo II aveva dato ordine di metterlo a tacere. Grande fu la sofferenza del discepolo che dovette per obbedienza riprendere il maestro. Grande fu la statura del maestro che seppe tacere, sapendo che il seme era gettato. L’idea infatti non morì e oggi è molto più avanti di quanto non si creda.
I papi e le curie possono rallentare il cammino della Chiesa, ma non possono fermare la Storia, né tanto meno imbrigliare lo Spirito che sempre e comunque soffia dove vuole (cf Gv 3,8). Il papa nell’Angelus di domenica 2 settembre 2012, vigilia della liturgia dell’arriverderci a Padre Martini, non lo ha nominato nemmeno per sbaglio e il Vaticano e la Cei si sono affrettati a precisare che la scelta di Martini di rifiutare l’accanimento terapeutico era in linea con la dottrina della Chiesa. Ilsistema cercherà con ogni mezzo di annettere Padre Martini, santificandolo (senza esagerare) per svuotarlo di senso e del suo carisma. Illusi, i profeti non pososno essere spenti perché brillano di luce non propria.
E’ l’operazione consueta dell’Istituzione pagana con i profeti che crocifigge da vivi e osanna da morti. Così va il mondo, così va la chiesula mondana di cui il mondo e noi facciamo volentieri a meno. E’ strano, anzi è normale, che il popolo colga l’essenza del Vangelo, mentre i clericali ecclesiastici, spesso accuratamente paganeggianti, si sentano smarriti e non capiscano il senso delle parole del Signore:
«Ma egli rispose loro: “Quando si fa sera, voi dite: ‘Bel tempo, perché il cielo rosseggia’;e al mattino: ‘Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo’. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi?”» (Mt 16,2-3)
Abbiamo visto morire il Padre Martini e ora sappiamo che non dobbiamo piangere perché è tornato «al principio», ma che dobbiamo ringraziare Dio perché ci ha ritenuti degni di conoscerlo, ascoltarlo, amarlo e vivere la sua vita e la sua morte risorta di «Giusto di Dio».
Padre Martini è morto nel pomeriggio di venerdì 31 agosto 2012, «erano circa le quattro del pomeriggio», l’ora della ricerca della dimora del Signore e della conoscenza di «dove» abita il Maestro (Gv 1,35-39). Il Padre è andato a vedere, è entrato ed è rimasto ad attendere noi che lo abbiamo amato. Intanto per gli Ebrei iniziava lo Yom Shabàt, il Giorno di Sabato e nelle sinaghoghe, tutti in piedi rivolti alla porta d’ingresso, cantavano «Lekà Dodì -Vieni Amore mio», l’inno al sabato che entra come una sposa adorna per il suo Sposo. Nella stessa ora, mentre nel tempio di Gerusalemme, alle quattro del pomeriggio il sommo sacerdote scannava l’agnello per il sacrificio «tamid - perpetuo», padre Carlo entrava nella «città santa, Gerusalemme ... [dove non è] alcun tempio perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio ... e le sue porte non sono mai chiuse durante il giorno, perché non vi sarà più notte». (Ap 21,10.22-25). Tutto torna, tutto è Grazia. Tutto è Dono. Anche noi brindiamo con Dio con un Martini alla salute del Regno che viene, anche per i meriti di Padre Carlo Maria Martini.
* Il Dialogo, Venerdì 07 Settembre,2012 (ripresa aprziale).
Carlo Maria Martini
di Henri Tincq
in “Le Monde” del 6 settembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Con il cardinale Carlo Maria Martini, morto venerdì 31 agosto a Gallarate (Lombardia) all’età di 85 anni, scompare una delle figure più brillanti e stimate della Chiesa cattolica. Esegeta di fama mondiale, rettore a Roma dell’Istituto biblico e in seguito della prestigiosa università gregoriana, questo gesuita, nato a Torno il 15 febbraio del 1927, entrato nella Compagnia di Gesù nel 1944, ordinato prete nel 1952, era stato nominato da Giovanni Paolo II, nel 1979, arcivescovo di Milano, la più grande diocesi del mondo, dalla quale diede le dimissioni nel 2002, per ragioni di età e di salute.
Il carisma singolare di quest’uomo non si riduceva all’immagine di capo dell’ala “progressista”. Personalità di spiritualità profonda, autore di una sessantina di opere (commentari biblici e meditazioni), di predicazioni e di conferenze che sono risuonate a Milano e nel mondo, esigerà sempre dalla sua Chiesa “il coraggio della riforma”.
Moltiplicherà i gesti di riconciliazione tra “fratelli” cristiani separati, e intraprenderà una relazione filiale con il popolo ebraico. Aveva espresso la volontà di essere sepolto a Gerusalemme, dove si era ritirato dopo le dimissioni. Sollecitato dai media italiani, l’arcivescovo di Milano diventa un protagonista sulla scena politica. Isolato nell’episcopato, contribuisce all’apertura, negli anni 80, di un cattolicesimo sino ad allora identificato in Italia con la sola Democrazia Cristiana.
Sostiene il pluralismo, evitando qualunque forma di riaffermazione identitaria, qualsiasi iniziativa tendente ad una riconquista di influenza cattolica: “Vogliamo essere solo noi stessi, al servizio di una società, e senza fare torti a nessuno”. Da quel momento, incarnerà un’alternativa riformatrice ai vertici della Chiesa. Non cesserà più di portare come un fardello una reputazione, abbondantemente sopravvalutata, di oppositore numero 1 a Giovanni Paolo II e di potenziale successore. Se le sue relazioni con il papa polacco sono eccellenti, Carlo Maria Martini non manca però di solidi avversari. L’Opus Dei, Comunione e liberazione e altri gruppi, italiani e stranieri, che premono per una riaffermazione autoritaria del cattolicesimo, a lungo hanno paventato che potesse succedere a Giovanni Paolo II.
Dal 1987 al 1993 presiede la Conferenza dei vescovi europei, divenendo uno dei protagonisti della reintegrazione delle Chiese dei paesi dell’Est ex-comunista e animando, nel 1988, il primo incontro ecumenico di Basilea. Ed è durante il sinodo europeo del 1999 in Vaticano che esprime il “sogno” di “un confronto universale di tutti i vescovi” - la parola “concilio” non è pronunciata, ma tutti la pensano - per ridar vigore alla Chiesa del XXI secolo e “sciogliere certi nodi disciplinari e dottrinali che riappaiono continuamente come punti caldi” di contestazione e intralciano il cammino della Chiesa.
Il cardinal Martini pensa al posto limitato delle donne, alla crisi del clero, alla distribuzione dei compiti tra preti e laici, alla proibizione di accedere ai sacramenti per i divorziati risposati. Nel 1997, aveva auspicato che “un futuro concilio riveda tutta la questione” dell’accesso delle donne al sacerdozio. L’obbligo del celibato dei preti non è per lui “un dogma di diritto divino”. L’ordinazione di uomini sposati può essere anche “ una possibile risposta per delle regioni in profonda crisi”, affermava in un’intervista a Le Monde nel 1994.
La voce del cardinal Martini è dunque quella di un uomo libero che chiede che siano dibattuti collettivamente temi ritenuti tabù, che la Chiesa restauri una vera pratica della “collegialità” (equilibrio di poteri tra sede romana e vescovi locali). Se la chiesa è rispettata per la sua lotta a favore dei diritti umani, spiega, il fossato che la separa dalla cultura moderna è dovuto al suo funzionamento, ancora segnato dall’ “intransigentismo” del XIX secolo, che lascia poco spazio al dibattito interno.
In un intervista postuma, pubblicata sabato 1 settembre dal Corriere della Sera, afferma: “La Chiesa è stanca. La nostra cultura è invecchiata, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita. I nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Abbiamo paura?” Il cardinale lascia in eredità questo ultimo consiglio: “La Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal papa e dai vescovi. A cominciare dalle domande poste dalla sessualità e dal corpo”.
Una chiesa povera e umile
Carlo Maria Martini deplorava infatti da molto tempo la rottura, sulle questioni di etica sessuale, tra la chiesa da un lato e scienziati e coppie dall’altro. “Se le nostre posizioni vengono percepite come minacce, proibizioni, condanne, è perché noi non facciamo sforzi sufficienti per far comprendere ciò che è veramente in gioco e sostanziale”, affermava ancora nel 1994 a Le Monde. Sottolineava volentieri “gli sviluppi negativi e infelici” dell’enciclica Humanae vitae sulla regolazione delle nascite, pubblicata nel 1968 da Paolo VI. “Decidere in solitudine su temi come la sessualità e la famiglia” non è mai una cosa buona, faceva osservare, e auspicava una nuova enciclica su quel tema. Nel suo libro del 2008 Conversazioni notturne a Gerusalemme il tono è calmo e lucido. “Ho sognato”, confessa in una sorta di testamento spirituale, “una Chiesa povera e umile che non dipende dalle potenze di questo mondo. Una Chiesa che dona coraggio a coloro che si sentono piccoli e peccatori”.
Durante il conclave dell’aprile 2005 che segue la morte di Giovanni Paolo II, il cardinal Martini incarna le speranze degli ambienti progressisti. Le possibilità di essere eletto sono minime, a motivo dell’età e del morbo di Parkinson, ma anche perché i cardinali elettori che, come lui, non si rassegnano all’opzione conservatrice, sono fortemente minoritari. Il cardinale Ratzinger, sul cui nome il cardinal Martini chiede alla fine del conclave di far convergere i voti, è eletto con il nome di Benedetto XVI. Quest’ultimo gli renderà visita a giugno.
Durante i funerali del cardinal Martini, celebrato lunedì 3 settembre a Milano, il papa, in un messaggio letto all’inizio della messa, ha reso omaggio a un “servitore infaticabile del Vangelo e della Chiesa”, che “che non ha solo studiato le Sacre Scritture ma le ha amate intensamente”.
Una chiesa che non si sottrae a riformare se stessa
di mons. Giovanni Giudici (www.paxchristi.it, 4 settembre 2012)
La notizia, per quanto attesa, del ritorno alla casa del Padre di Carlo Maria Martini, Cardinale e Arcivescovo emerito di Milano, ci rende partecipi della sofferenza di coloro che lo hanno conosciuto. Ci sarà tempo e modo di riflettere sulla sua figura e sulla sua lezione. In queste ore, basti il ricordo della sua attenzione alle ragioni alte della giustizia e della pace, come pure del tratto umano di rispetto per ogni persona e ogni causa che aveva a che fare con la libertà e la dignità umana. Ambedue questi aspetti non sono estranei alla sua opera di biblista e di pastore. In certo modo l’essersi lasciato lui stesso plasmare dalla Parola di Dio mostra quale è la radice e lo sfondo della sua testimonianza.
Questo piemontese austero e riservato, con la fama di uomo di ricerca e dedito a studi severi, posto alla guida della diocesi di sant’Ambrogio e di san Carlo, ha saputo essere in pari tempo padre sollecito, un fratello maggiore, un signore amabile e accogliente. Con questa semplicità di uomo tra gli uomini, prima e più dell’eminente studioso e pastore di fama mondiale, ha saputo condividere la condizione comune degli uomini, su tutti i fronti della sua personalità e del suo ministero.
A partire dallo studio e dalla meditazione, e dalla predicazione della Parola, tutto il suo magistero e la sua azione pastorale sono riconducibili a un solo fine: educare i cristiani alla familiarità con la Parola e mostrarne ai non credenti la portata e la sapienza umana. L’umanità condivisa senza riserve da Martini, alla luce della Parola, lo ha condotto ad una interpretazione del cristianesimo come amico dell’intelligenza e della libertà. Da qui ancora la sua visione di una Chiesa povera, libera, sciolta, aggettivo cui spesso ricorreva per descrivere la Chiesa. Comunità strutturata sì, ma immune da ogni tentazione di potere e da propositi di costrizione.
Egli ci ha fatto sperimentare una Chiesa concentrata nella proclamazione di una parola che sa illuminare, confortare, chiedere cambiamenti. Vivendo con intensità il presente egli ci ha presentato una Chiesa che illumina e giudica le parole dell’uomo, comprese le parole della politica. Sui temi della pace si è posto, con semplicità e apertura di cuore, come segno e speranza di riconciliazione.
Ci ha proposto una Chiesa che accompagna con fiducia le opere dell’uomo, che apprezza il portato della scienza e della cultura moderna, anche in quelle zone grigie‚ che stanno al confine tra ciò che già possiamo giudicare, perché è conosciuto, e ciò che ancora ci pone interrogativi sulla sua qualità etica. In particolare una Chiesa che non si sottrae al dovere di riformare se stessa e di rileggere talune sue posizioni tradizionali. Quanti hanno fede nella comunione dei santi sono certi che misteriosamente continuerà ad accompagnarci.
Mons. Giudici
Vescovo di Pavia - Presidente di Pax Christi Italia
Quel cammino con i non credenti
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera - Milano, 4 settembre 2012)
Che cosa significano la personalità e il magistero dell’arcivescovo Carlo Maria Martini per un «non credente», per giunta donna, e di origine ebraica da parte di padre? Innanzitutto capacità di ascolto e poi riconoscimento di una appartenenza, direi all’umanità, che supera ogni genere di divisioni, sbarramenti, differenze e certificazioni.
All’opposizione «credenti e non credenti» sostituiva, come si sa, quella tra «pensanti e non pensanti» ove, alla seconda, non corrisponde nessuno in quanto alle domande più radicali non ci si può sottrarre. Nella vita procediamo verso un orizzonte a tratti oscuro, a tratti luminoso, mai definito una volta per tutte.
In questo senso siamo tutti in viaggio verso un luogo inesplorato di cui, più che la meta, Martini indicava la mappa: i testi sacri della cristianità, la Bibbia e il Vangelo. E in particolare la zona intermedia tra l’uno e l’altro, lo spazio in cui l’attesa s’illumina di speranza e la Salvezza diviene una possibilità concreta già nella Città terrestre, ancor prima di approdare nella Città celeste.
Quando, nel 1996, fui chiamata a parlare dalla «Cattedra dei non credenti» sul tema «La violenza è dentro di me?», non sapevo perché ero stata prescelta tra tanti possibili candidati. E non lo so tuttora. Forse per una certa incollocabilità: per non essermi mai schierata con un partito o identificata con una istituzione pur restando aperta al sociale, disponibile alle sue richieste.
La sera precedente m’invitò a cena e, intorno a una tavola frugale, cui partecipavano anche altri due o tre prelati, mi chiese che cosa ne pensavo dei bambini che crescono a Milano, in una città così poco favorevole all’infanzia.
Raramente ho trovato un interlocutore più attento e seriamente impegnato a comprendere i problemi e, se possibile, trovare soluzioni praticabili. Quanto alla successiva conferenza, mi chiese di riflettere sulla mia vita, sul fatto di essere nata, con un cognome evidentemente ebreo, nell’anno della emanazione delle «Leggi speciali» che inaugurarono le persecuzioni antisemite in Italia.
La seconda parte del mio discorso avrebbe invece dovuto esporre l’etica femminile. Trattai il tema nel segno della «differenza sessuale» contrapposta all’omologazione e proposi che, in quanto donne, dovremmo cercare di acquisire, non tanto autorità, quanto autorevolezza.
La serata, aperta dal biblista padre Salmann, proseguì con lo straordinario accostamento di Lalla Romano tra violenza e poesia. Ma il contributo più rilevante fu la riflessione sull’intero ciclo di conferenze che il cardinal Martini volle concludere così: «Dipende anche da ciascuno di noi se allo Spirito è dato ancora oggi di operare attraverso la nostra voce e le nostre mani».
Il pubblico era innumerevole e l’attenzione, nonostante l’ora tarda, senza cedimenti. Forse quelle potenzialità non ebbero l’esito sperato ma sono convinta che nulla vada perduto e che la folla, che ha sfilato due giorni per portargli l’ultimo saluto sia l’erede, talvolta inconsapevole, di quella grande stagione. Testimonianza di una Milano custode di un patrimonio di intelligenza e di sensibilità, di cultura e di solidarietà che ci fa sperare, anzi credere, in un domani migliore.
Nel giorno delle esequie del Card. C. M. Martini
di Alberto Simoni op (Koinonia-forum, n. 314 del 3 settembre 2012)
Cari amici,
una chiesa che dice (senza esserlo) e una chiesa che è (senza dirlo): ecco il quadro che abbiamo sotto gli occhi in questi giorni di rivelazione in morte del card. C.M.Martini, che sembra fare da cartina di tornasole di quella che Galli della Loggia - parlando di correnti della chiesa (Corriere della Sera, 2 settembre) - chiama “Una federazione di popoli diversi”.
In questo momento di grazia, non ci sono solo riti e celebrazioni da sbrigare, ma segni dei tempi da cogliere e frammenti da raccogliere, perché niente si perda. È quanto mi permetto di fare ancora una volta con i vari messaggi che in queste ore ci mettono in comunione e ci fanno pensare.
Parlando all’Angelus del 2 settembre della Legge di Dio che “è la sua Parola che guida l’uomo nel cammino della vita”, Benedetto XVI dice tra l’altro: “Ed ecco il problema: quando il popolo si stabilisce nella terra, ed è depositario della Legge, è tentato di riporre la sua sicurezza e la sua gioia in qualcosa che non è più la Parola del Signore: nei beni, nel potere, in altre ‘divinità’ che in realtà sono vane, sono idoli. Certo, la Legge di Dio rimane, ma non è più la cosa più importante, la regola della vita; diventa piuttosto un rivestimento, una copertura, mentre la vita segue altre strade, altre regole, interessi spesso egoistici individuali e di gruppo”. Ma forse questo coraggioso guardarsi allo specchio non basta, se finisce lì.
Sarebbe bastato invece che avesse semplicemente detto che qualcuno nella chiesa ha cercato per tutta la vita di risvegliare la coscienza e la memoria di questo Popolo di Dio e di farlo uscire dalla sua falsa sicurezza. E questo qualcuno è stato il card. C.M.Martini, che però il Papa si è guardato bene dal ricordare e dal proporre come servo della Parola e come guida alla chiesa di Dio, lasciando quella chiesa che lo ascolta nella illusione di essere al sicuro nel proprio ovile e suscitando invece disillusione in quella chiesa della diaspora che, insieme a tutte le donne e gli uomini di questo mondo, è alla ricerca di un pastore e di un ovile dove si possa entrare ed uscire.
Passi che il Papa non vada a Milano per testimoniare che è Pastore di tutta la Chiesa, ma che ignori il Pastore di una chiesa che è nel cuore dei più può far parte di giochi diplomatici ma non è un bell’esempio di collegialità: perché continuare a nascondere sotto il moggio le lampade che lo Spirito accende tra il Popolo di Dio? Ma se anche tutto ciò fa tristezza, non può impedire che gridino le pietre. E forse dal card. Martini c’è da imparare a far convivere, senza confonderle, “ragioni di Stato” con istanze evangeliche...
Da una parte l’amore dei fedeli dall’altra la freddezza del Papa
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2012)
Il segreto di Martini sta nei volti di quanti alla vigilia dei funerali si sono seduti nei banchi del duomo di Milano semplicemente per pensare a lui. Il segreto sta nel silenzio del Papa all’Angelus domenicale, quando avrebbe dovuto scegliere se indicarlo o no come esempio. E non lo ha fatto. Il segreto sta nei buddisti e nei musulmani e nei non-credenti, che hanno partecipato alla messa. E nei rabbini ebrei che sono andati in fila a fare le condoglianze in arcivescovado.
Non è questione dell’impatto mediatico di questi giorni. Carlo Maria Martini viveva nel cuore di una massa enorme di cattolici, che aspettavano l’apparire dei suoi libri e delle sue frasi illuminanti, sparse con misura sulle pagine del Corriere della Sera in una rubrica di colloquio con i lettori che - apprendiamo dallo stesso direttore Ferruccio Bortoli - “spiacque a Roma”, cioè al Vaticano. I fedeli amavano Martini perché dava voce ai loro dubbi, alla loro ansia di trovare risposte a problemi difficili, perché dava forma teologica a scelte di coscienza che sentono giuste e in sintonia col loro essere cristiani. I cattolici del quotidiano, quelli delle parrocchie, del volontariato, dell’associazionismo, amavano - anzi amano - Martini, perché la sua cultura teneva insieme la parola della Bibbia e i nodi esistenziali con cui credenti e diversamente credenti devono misurarsi. Ha colpito come una folgore, ieri nel duomo, l’applauso scrosciante indirizzato al cardinale Tettamanzi perché ha detto la semplice parola “Noi ti amiamo”. Un contrasto fortissimo con il compatto silenzio riservato al messaggio papale letto dal cardinale Comastri e all’omelia del cardinale Scola.
Perché Ratzinger ha dedicato a Martini parole molto belle, di affettuosa stima, ne ha lodato l’impegno generoso, la “grande apertura d’animo”, la carità, l’incontro e il “dialogo con tutti”. Ma nella scelta precisa delle parole affiorava l’ergersi di una barriera fredda, che non permette la condivisione dell’esperienza di Martini: il distacco profondo da tutto quello che Martini ha detto e scritto negli ultimi anni. A partire dal grido finale “La Chiesa è indietro di 200 anni”, lanciato dal cardinale poche settimane prima della sua morte.
In tutti i discorsi cesellati, ascoltati durante i funerali, il crinale è stato uno solo: Carlo Maria Martini è un indicatore del futuro o no? Soltanto il cardinale Tettamanzi ha espresso ciò che la folla sentiva di pancia, di cuore e di testa: “Ti abbiamo amato per il tuo sguardo capace di vedere lontano...”. E la vox populi ha reagito con l’ovazione.
Il segreto di Martini sta in tutte quelle donne cattoliche, giovani e anziane, impegnate in famiglia o immerse nella vita professionale, che sentivano la sua disponibilità ad aprire le porte dell’istituzione ecclesiastica ad una partecipazione reale, determinante, del mondo femminile nel cammino della comunità dei fedeli. Quelle donne che ieri in duomo osservavano che di femminile c’era solo il canto delle soliste e due suore e tre laiche nel corteo delle offerte, sommerse da una nuvola di tonache maschili.
Il segreto di Martini sta in quei giovani - vicini o lontani dall’istituzione ecclesiastica - che ne amavano l’assenza di teatralità, lo stile controllato di chi non vuole strappare punti alla hit parade dei consensi, ma propone cose su cui riflettere, rimuginare, da cui lasciarsi interrogare. La sua capacità di attrazione riluce anche nella volgarità dei suoi avversari come il ciellino Antonio Socci, felice di proclamare che le massime del cardinale era “terribilmente banali” e ansioso di accusarlo di avere “accarezzato il Potere, quello della mentalità dominante...” e di essere stato “ospite assiduo dei salotti mediatici”.
La folla, che si è recata a vedere la sua bara nei giorni scorsi e ieri straripava in piazza Duomo, amava soprattutto il suo coraggio di parlare, di dire apertamente che ci sono problemi che la Chiesa deve affrontare e risolvere. L’Italia cattolica si sta desertificando. Sono morti cattolici non intimiditi come Lazzati, Scoppola, Alberigo. Ora che si è spenta anche la voce autorevole di Martini la scena è popolata da persone che parlano per piccoli accenni, che temono di apparire dissenzienti, che hanno paura di essere bollati come critici fuori dal coro.
Avranno nostalgia di Martini i credenti e i diversamente credenti, interessati a riflettere su quanto di “infinito” c’è nell’uomo, ma avidi di un confronto vero, non fra chi sa tutto e chi deve essere ammaestrato. Sentiranno bisogno delle sue ultime riflessioni quanti - di nascosto, e ce ne sono tanti tra preti e vescovi - condividono il suo giudizio su una Chiesa che “non si scuote”, che sembra avere paura invece di coraggio. Se il cardinale Scola ha evocato un cattolicesimo, in cui esistano “diversità di sensibilità e letture diverse delle urgenze del tempo”, in cui ci sia spazio per la pluriformità nell’unità, manca ancora molto perché questa visione diventi realtà praticata nella Chiesa di Roma.
Martini non lascia successori. Nel collegio cardinalizio non ci sono voci, come la sua, pronte a proporre un concilio o un vertice di capi cristiani insieme al pontefice. Ma poiché la sua visione di riforme si contrappone alla Chiesa in trincea dell’era ratzingeriana, il porporato sarà ben presente in spirito e scritti al futuro conclave.