di Federico La Sala *
Al di là dell’etica edipica, generale e "cattolica", e dello spirito del capitalismo: cambiamo il paradigma che finora ha governato il mondo...
L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide vuol essere un ’manifesto’ sul coraggio di servirsi della propria intelligenza, oggi - per diventare uomini liberi e donne libere, cittadini sovrani e cittadine sovrane, non imprenditori e imprenditrici, sfruttatori e sfruttatrici, della propria o dell’altrui ’forza-lavoro’. Esso riprende il discorso avviato in La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica (Antonio Pellicani editore, Roma 1991) e in Della Terra, il brillante colore (Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 1996) e propone una nuova prospettiva di ricerca e una possibile via di uscita da duemila e più anni di labirinto: una ontologia chiasmatica, segnata da una relazione non più azzoppata e accecata dalla cupidigia del sapere-potere edipico-capitalistico, ma da una relazione illuminata dal sapere-potere dell’amore, umano e politico, di sé, dell’altro e dell’altra.
Al fondo di questo lavoro, come di quelli precedenti, c’è la persuasione che “il campo - tavolo da gioco, la ben rotonda sfera entro e su cui ancora stiamo a giocare” (cfr. Le “regole del gioco” dell’Occidente, in La mente accogliente..., cit., pp. 162-189), sta diventando sempre di più un campo di sterminio, e c’è la volontà di contribuire al crescente e vasto sforzo di ritrovare le ragioni e le radici del nostro stesso esistere e di riaffermare - al di là della necessità e del caso - la libera scelta per l’essere, non per il nulla.
Uscire dai cerchi di filo spinato che delimitano dappertutto il nostro presente storico è la scommessa. Come fecero i militari italiani internati nel lager tedesco di Wietzendorf (cfr. il Presepio del lager - Natale 1944, ricostruito nella Basilica di sant’Ambrogio, nel Natale 2000) e fece Enzo Paci, anch’egli in un lager tedesco [nello stesso: con Paul Ricoeur, Mikel Dufrenne, Giovannino Guareschi e Altri - fls] nel 1944 (cfr. Nicodemo o della nascita, in Della Terra..., cit., pp. 120-125), oggi non possiamo che riaprire la mente e il cuore alle domande fondamentali e cercare di dare a noi stessi e a noi stesse le risposte giuste: Come nascono i bambini? Come nascono le bambine? Qual è il principio di tutti gli esseri umani? Come si diventa esseri umani? Come io sono diventato Io? Cosa significa che io sono il figlio, la figlia, dell’UNiOne di due esseri umani?... Essi avevano cominciato a capire l’enigma antropologico dell’Egitto dei Faraoni, delle loro Piramidi e delle loro Sfingi, e il ’segreto’ di Betlemme, del presepio di Greccio (1223) e di Francesco e Chiara di Assisi.
Presepe Wietzendorf |
Sull’orlo dell’abisso, non ci resta che venir fuori dallo stato (cartesiano-hegeliano) di sonnambulismo: seguire il filo del corpo (l’ombelico!), riacchiappare il senso della vita, e riattivare la memoria delle origini. Con Kant, con Feuerbach, con Marx, con Nietzsche, con Freud, con Rosenzweig, con Buber, e con Kafka ... si tratta di capire il significato della “spada” impugnata dalla “Statua della Libertà”, ritrovare “la fotografia dei genitori” (cfr. America) e riconciliarci con lo spirito di quei due esseri umani, di quei due io, che hanno fatto UNO e dato il via alla più grande rivoluzione culturale mai verificatasi sulla Terra - la nascita di noi stessi e di noi stesse e dell’intero genere umano - e riprendere il nostro cammino di esseri liberi e sovrani, figli della Terra e dello Spirito di D(ue)IO. Camminare eretti, senza zoppicare e con gli occhi aperti, è possibile. Non è un’utopia. (Milano, 20.01.2001 d.C.).
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* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, a Karol Wojtyla, e p. c., a Nelson Mandela), Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp. 7-8.
Sul tema, in rete, si cfr.:
SARTRE. Atto unico contro i dominatori
di CLAUDIO TOGNONATO (Il manifesto, 21.04.2004)
Natale del 1940 siamo nel campo di concentramento di Treviri dove Jean-Paul Sartre è rinchiuso dopo la sua cattura a Padoux, Lorena, nel nordest della Francia. Inviato al fronte, la guerra è stata per Sartre una lunga attesa che finirà senza nemmeno sparare un colpo. Sarà fatto prigioniero il 21 giugno 1940, proprio il giorno del suo compleanno, e dopo qualche mese verrà trasferito in Germania, ma riuscirà a evadere nove mesi dopo con un falso certificato medico che fa riferimento alla cecità a un occhio, accompagnato da un contraffatto documento d’identità in cui si fa passare per civile.
Dai campi di concentramento nazisti non si evade facilmente, ma il giovane Sartre, che non si limita a essere soltanto un teorico della libertà, riesce a fuggire. La fuga però, era in realtà cominciata durante la stessa prigionia dove si dedica interamente a leggere, scrivere e preparare opere come L’Essere e il Nulla o la trilogia I cammini della libertà. Organizza un seminario su Heidegger, scrive il suo diario (I taccuini della strana guerra), mantiene una copiosa corrispondenza con Simone de Beauvoir alla quale scrive: «se la guerra continuasse a questo ritmo lento e cullante, credo che al momento della pace avrei scritto tre romanzi e dodici opere filosofiche».
Questo periodo di forzata «chiusura» si rivelerà, infatti, fondamentale per permettere quella offensiva esistenzialista che furono gli anni Quaranta e Cinquanta.
Una articolata macchina filosofica, politica e letteraria preparata, confesserà più tardi, «per fornire una ideologia al dopoguerra». È qui, nella baracca «degli intellettuali» e a richiesta di due preti prigionieri divenuti amici, dove Sartre accetta di scrivere e rappresentare una pièce di teatro, Bariona o il figlio del tuono (Christian Marinotti Edizioni, pp. 117, ? 14,50) che solo ora vede la sua prima edizione italiana.
Bariona, un atto unico in sette quadri, è ambientato all’epoca della dominazione romana sulla Giudea. Nel campo di concentramento nazista di Treviri, ai margini della stessa città che diede i natali, nel 1818, a Karl Marx, Sartre sceglie di schierarsi dalla parte degli oppressi, dalla parte degli ebrei. Bariona è il capo di un povero villaggio di montagna che per opporsi e protestare contro l’innalzamento delle tasse decide una sorta di malthusiano «sciopero della natalità»: non si faranno più figli, non ci sarà più nessuno per pagare le tasse, il paese scomparirà e gli esattori romani resteranno a mani vuote.
Bariona sa che non può contrastare gli oppressori, sa che la ribellione di un piccolo paese sarebbe stata soffocata nel sangue e propone allora la lenta estinzione come forma estrema di lotta. Anche quando scopre che sua moglie è incinta Bariona non esita e cerca di convincerla che generare la vita è perpetuare la sofferenza umana. Ma ecco che a un gruppo di pastori appare un angelo che annuncia che a Betlemme è nato il Messia.
L’intero paese, prima fedele al suo capo, ora gli si rivolta contro. Bariona, il figlio del tuono, rifiuta di recarsi a Betlemme e proclama la libertà dell’uomo davanti a Dio: «Quand’anche l’Eterno mi avesse mostrato il suo volto tra le nuvole io rifiuterei ugualmente di sentirlo poiché sono libero, e contro un uomo libero, Dio stesso non può nulla».
A questo punto entrano in scena i Re Magi in viaggio verso Betlemme e Baldassarre (impersonato nella recita dallo stesso Sartre) si rivolge a Bariona in un lungo monologo per dirgli: «Tu soffri e pertanto il tuo dovere è di sperare (...) l’uomo è sempre molto di più di quello che è. Vedi questo uomo, tutto appesantito dalla sua carne, radicato sul luogo dai suoi due grandi piedi e tu dici, stendendo la mano per toccarlo: è là. E ciò non è vero: ovunque sia, un uomo, Bariona, è sempre altrove».
Tutto il villaggio decide di mettersi in viaggio per Betlemme tranne Bariona, che partirà solo in un secondo momento e per una scorciatoia con l’idea di uccidere il Messia. Arrivato a Betlemme di nuovo si troverà di fronte Baldassarre-Sartre che in un altro monologo (tutto sartiano) lo convincerà del contrario. Baldassarre dirà che la sofferenza è umana, ma non bisogna ruminarla né rassegnarsi, conviene piuttosto «accettarla come se vi fosse dovuta ed è sconveniente parlarne troppo, foss’anche con sé stessi» (...) «tu non sei la tua sofferenza. Qualunque cosa tu faccia la superi infinitamente, poiché è proprio ciò che tu vuoi che essa sia.»
La sofferenza non è più rassegnazione, ma l’accettazione della propria contingenza. Bariona si sentirà allora libero e responsabile della sua scelta. Marcerà contro i soldati di Erode, cercherà di rallentare il massacro di neonati per permettere la fuga di Gesù e morirà prima di vedere nascere suo figlio in un finale dove si coniugano la lotta contro l’oppressore e l’accettazione della vita.
Perché questo lavoro teatrale è rimasto in un secondo piano, non solo in Italia, ma in tutto il mondo? perché non è stata inserito a pieno titolo nel teatro di situazioni? perché la prima pièce di teatro scritta da Sartre è diventata l’ultima?
La risposta a queste domande va forse ricercata nel carattere anomalo e perfino discordante di questa che costituisce un’avant première nel contesto della vastissima opera sartriana. Una prima risposta si trova nella lettera che precede il testo, datata 31 ottobre 1962, in cui Sartre precisa: «Se ho preso il mio soggetto nella mitologia del Cristianesimo, ciò non significa che la direzione del mio pensiero sia cambiata, fu un momento, durante la cattività. Si trattava semplicemente, d’accordo con i preti prigionieri, di trovare un soggetto che potesse realizzare, in quella sera di Natale, l’unione più vasta di cristiani e di non credenti».
Questa avvertenza indica in modo esplicito una chiara presa di distanza dal testo. Si dovrà aspettare fino al 1962 perché Sartre autorizzi l’edizione di Bariona limitata di cinquecento copie fuori commercio e destinate in gran parte ai suoi compagni di prigionia; poi ce ne sarà una seconda, nel 1967, anch’essa fuori commercio. La prima pubblicazione «regolare» è riportata in appendice, a pagina 565 de Les écrits de Sartre, cronologie, bibliographie commentée (1970) di Michel Contat e Michel Ribalka.
Nella nostra (sempre più) cattolica Italia la pièce è stata prontamente recensita dal Corriere della Sera e da Famiglia Cristiana - con titoli quali «Sartre, l’ateo che decise di inchinarsi a Gesù» o «L’ateo che scoprì la Speranza» -, leggendo in questo libro ciò che più volte Sartre stesso ha esplicitamente negato. «A vedermi scrivere un mistero, alcuni avranno potuto vedere che attraversassi una crisi spirituale. No! Un medesimo rifiuto del nazismo mi legava ai preti prigionieri nel campo.» Questo è il movente che lo porta a scrivere una pièce su «un soggetto della mitologia cristiana» come dirà con evidente distacco negli anni Sessanta.
Contat e Ribalka annotano che Sartre non ha mai avuto un’opinione molto alta della sua pièce, la considerava un lavoro non riuscito, scritto in pochi giorni e in circostanze molto particolari: «la pièce non era né buona né ben rappresentata: un lavoro di dilettanti, direbbero i critici, e non è stato altro che il prodotto delle circostanze».
Sono proprio le «circostanze» che portano Sartre a scrivere Bariona, dalla quale ne ricaverà un’interessante esperienza per il futuro: «attraverso le luci mi sono rivolto ai miei compagni per parlare della loro situazione di prigionieri, li ho visti all’improvviso attenti e silenziosi e mi sono reso conto di ciò che era il teatro: un grande fenomeno collettivo, religioso.»
Questa prima esperienza lascerà il segno e pochi anni dopo diventerà autore di teatro. Prima ancora di L’Essere e il nulla (1943), scriverà Le Mosche (1943), e in seguito una lunga serie di pièces: Porte chiuse (1945), Morti senza sepoltura (1946), La sgualdrina timorata (1946), Il gioco è fatto (1947), Le mani sporche (1948), L’ingranaggio (1946), Il diavolo e il buon Dio (1948), Kean (1954), Nekrassov (1956), I sequestrati d’Altona (1960). Sartre confesserà (Le Parole) che il suo motto fu sempre «mai un giorno senza una riga» e il lungo elenco delle sue opere ne è una testimonianza.
E’ noto come Sartre sia sempre stato molto critico con se stesso e i suoi lavori. La scarsa considerazione riservata a Bariona ne è una prova, forse eccessiva. Se quel testo fosse stato scritto nella serenità del suo appartamento parigino sarebbe stato sicuramente diverso, più rifinito e più libero, ma il bisogno, urgente e prevalente, di consegnare un messaggio di libertà ai suoi compagni di prigionia ha prevalso sulla forma e la cura del testo.
Nell’introduzione italiana alla pièce Antonio Delogu indica un punto fondamentale che lega la stesura di Bariona all’insieme dell’opera sartriana, l’impegno. Impegno inteso dal filosofo francese «come una missione da vivere con la stessa onestà con cui un cristiano viveva la propria vocazione». Due diverse vocazioni, due impegni fusi nella lotta
Individuo e società... questione antropologica e paradosso del mentitore:
Sociologia, filosofia, psicoanalisi e critica della ragione "pura", troppo "pura"!
Una nota in ricordo e in omaggio al lavoro del sociologo Francesco Alberoni... *
Nonostante Alberoni abbia scritto un lavoro molto interessante e creativo, a partire dal suo celebre "Movimento e istituzione" (1977), intitolato "Genesi" (1989), l’ambiguità del suo orizzonte sociologico è rimasto per così dire intrappolato nella logica dell’individualismo (e non solo metodologico), ha chiuso un occhio (ricordare anche Freud) e non ha saputo sciogliere il nodo della nascita dell’ in_divi_duo, (dal e) del "due in uno" (da non dividere).
Il problema antropologico epocale è ancora quello evangelico giovanneo (e cristologico) di Nicodemo (Enzo Paci, 1944): "come si ri-nasce", "come nascono i bambini". Buon ferragosto (15 agosto 2023).
* IL LUTTO
Addio a Francesco Alberoni, storico rettore dell’Università di Trento *
Indagò Innamoramento e amore. Sociologo e accademico di fama internazionale, aveva 93 anni
ROMA. Grande cordoglio nel mondo della cultura per la scomparsa di Francesco Alberoni, morto ieri sera all’età di 93 anni a Milano. Rettore dell’Università di Trento tra il 1968 e il 1970, nella sua lunga carriera di sociologo, accademico, scrittore, ha indagato i movimenti collettivi e le comunicazioni di massa, i fenomeni migratori e la partecipazione politica. Ma è stato Innamoramento e amore, il saggio uscito per la prima volta nel 1979, tradotto subito in 25 lingue, in cui analizzava e raccontava l’innamoramento come il processo in cui due individui si ribellano ai loro legami precedenti e danno origine, attraverso l’entusiasmo dello ’stato nascente’, a una nuova comunità, a farne una star internazionale.
Francesco Alberoni si è spento al Policlinico dove era ricoverato da alcuni giorni per una complicazione sopraggiunta durante una terapia alla quale era sottoposto per problemi renali. La data dei funerali non è stata ancora stabilita.
Nato a Piacenza il 31 dicembre 1929, dopo la laurea in Medicina, a Pavia, allarga poi i suoi interessi alla psichiatria e alla psicologia, seguendo le orme di Franco Fornari e poi di padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica, poi ancora ai fenomeni sociali e di costume. Dal 1964 è docente di Sociologia alla Cattolica, ma la sua intensa attività universitaria lo vedrà poi rettore dell’Università di Trento tra il 1968 e il 1970, docente all’Università di Catania e alla Statale di Milano.
Nel 1997 è tra i fondatori dello Iulm di Milano e primo rettore fino al 2001. Ma è anche anche consigliere d’amministrazione della Rai tra il 2002 e il 2005 e presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dal 2002 al 2012.
I suoi studi si soffermano in particolare sulla formazione e sulla dinamica dei movimenti collettivi (Movimento e istituzione, 1977), ma Alberoni si occupa anche di comunicazioni di massa (L’élite senza potere: ricerca sociologica sul divismo, 1963), di consumismo (Consumi e società (1964), di fenomeni migratorî (Integrazione dell’immigrato nella società industriale, 1967), di partecipazione politica in Italia (L’attivista di partito, 1967).
Dopo il boom di Innamoramento e amore, bestseller da un milione di copie, verranno L’erotismo (1986), Sesso e amore (2005), Lezioni d’amore (2008), il romanzo I dialoghi degli amanti (2009), e ancora acconti d’amore. Curiosi e un po’ irridenti (2010) e L’arte di amare. Il grande amore erotico che dura (2012) fino al più recente L’amore e gli amori (2017).
Tra le sue opere da ricordare anche Genesi (1989), Valori (1993); L’ottimismo (1994); L’arte del comando (2002); Leader e masse (2007). Parallelamente svolge un’intensa attività di editorialista per il Corriere della Sera che dal 1982 al 2011 ospita, ogni lunedì in prima pagina una sua rubrica intitolata Pubblico e privato che diventerà poi un libro per Rizzoli. Nel 2015 pubblica il volume antologico Il tradimento. Come l’America ha tradito l’Europa e altri saggi, mentre è del 2016 il saggio L’arte di avere coraggio. Condivide i suoi ultimi studi e pubblicazioni con Cristina Cattaneo Beretta, scrittrice, psicoterapeuta e giornalista.
*FONTE: ALTO ADIGE, 14 AGOSTO 2023 (RIPRESA PARZIALE).
MEMORIA E ANTROPOLOGIA E DISAGIO DELLA CIVILTÀ:
DANTE ALIGHIERI, PRIMO LEVI, HANNA HARENDT, ED ENZO PACI.
"IL CANTO DI ULISSE" E IL "PIKOLO" SEGRETO DELLA STORIA...
COME UNO SQUILLO DI TROMBA. L’Ulisse di Dante ad Auschwitz svela a Primo Levi il Pikolo segreto della storia "che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie".
HANNAH ARENDT E IL PROBLEMA DELL’INIZIO, DELLA NASCITA: "Nella grande opera sulla Città di Dio Agostino enuncia, senza però darne spiegazione, ciò che avrebbe potuto divenire il sostegno ontologico di una filosofia della politica autenticamente romana o virgiliana. A suo dire, come sappiamo, Dio creò l’uomo come creatura temporale, homo temporalis; il tempo e l’uomo furono creati insieme, e tale temporalità era confermata dal fatto che ogni uomo deve la sua vita non semplicemente alla moltiplicazione della specie, ma alla nascita, l’ingresso di una creatura nuova che, come qualcosa di completamente nuovo, fa il suo ingresso nel mezzo del continuum temporale del mondo. Lo scopo della creazione dell’uomo fu di rendere possibile un inizio: «Acciocché vi fosse un inizio, fu creato l’uomo, prima del quale non ci fu nessuno», «Initium ... ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit» [Agostino, De civitate Dei, libro XII, cap. 21]. La capacità stessa di cominciamento ha le sue radici nella natalità e non certo nella creatività, non in una dote o in un dono, ma nel fatto che gli esseri umani, uomini nuovi, sempre e sempre di nuovo appaiono nel mondo in virtù della nascita" (H. ARENDT, La vita della mente, Bologna 1987).
UN PRESEPIO NEL LAGER. Nel Natale 1944, Enzo Paci con vari militari (tra cui Paul Ricoeur) prigionieri nel Lager di Wietzendorf, riflette su "Nicodemo o della nascita").
Federico La Sala
E’ morto Gianrico Tedeschi
100 anni compiuti ad aprile, carriera da Visconti a Carosello
(ANSA) - ROMA, 28 LUG - E’ morto ieri sera, nella sua casa di Pettenasco (Novara), Gianrico Tedeschi, decano del teatro italiano. Aveva compiuto 100 anni lo scorso 20 aprile. La notizia è stata data nella tarda serata di ieri dal web magazine Buongiorno Novara. Nato a Milano nel 1920, nella sua lunghissima carriera - iniziata in un campo di prigionia dove era stato portato perché si era rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò - Tedeschi ha lavorato con i più grandi registi, da Luchino Visconti a Giorgio Strehler a Luca Ronconi, ma è stato anche volto del varietà e della pubblicità in tv con Carosello. (ANSA).
Gianrico Tedeschi, 100 anni di vita e di teatro
L’attore compie gli anni il 20 aprile: grande testimone del Novecento, da un palco all’altro, è stato uno dei nostri grandi protagonisti in scena per oltre settant’anni
di ANNA BANDETTINI (la Repubblica, 20 aprile 2020)
Tra le tante cose per cui essere grati a Gianrico Tedeschi c’è una frase: "Sono diventato attore perché sono stato in campo di concentramento". E non ci sarebbe altro da aggiungere per raccontare questo protagonista della scena italiana che con umanità, ironia, simpatia, valori etici oltre che artistici ha attraversato onori e orrori, il teatro e la Seconda Guerra Mondiale, il successo e i lager, in un cammino secolare non ancora terminato.
"Secolare" letteralmente, perché Gianrico Tedeschi compie 100 anni il 20 aprile, qualche mese prima di Franca Valeri anche lei classe 1920, ma del 31 luglio, entrambi testimoni del Novecento, di una storia, una cultura, un mondo che sono le radici del nostro.
Di quel secolo di vita Gianrico Tedeschi, ne ha vissuto tre quarti, quasi settant’anni, in scena, con senso dell’umorismo, del rigore e della semplicità: stralunato Pantalone nell’Arlecchino servitore dei due padroni edizione del’74 di Giorgio Strehler, ironico Peachum nell’Opera da tre soldi sempre di Strehler, e poi negli spettacoli di Visconti, Squarzina, nella commedia musicale di Garinei e Giovannini My Fair Lady del ’64, negli sceneggiati, nel varietà tv, nel cinema.... Un arco che va dal ’47 al 2016 quando con Franco Branciaroli, Ugo Pagliai, Massimo Popolizio ha recitato l’ultimo spettacolo, Dipartita finale.
Da lì, Tedeschi si è ritirato nella sua bella casa, un’ex canonica della chiesa, vicino a Pettenasco, sul Lago d’Orta, con la moglie, l’attrice Marianella Laszlo che incontrò nel ’68 quando recitavano Le Nuvole di Aristofane. Vive sereno, anche se come in un suo tempo sospeso e inconsapevole, a parte qualche momento - e proprio Marianella tempo fa raccontava che vedendo sempre Salvini in tv, una sera Gianrico le chiede chi fosse; lei glielo spiega e Gianrico: ’L’è un bel pistola". Per il compleanno, si è fatto promettere, nessun festeggiamento, tanto più che le due figlie e i nipoti sono obbligatoriamente lontani per l’emergenza Covid. "Vedremo quando passerà la buriana", confessa Marianella. Ma i cent’anni sono la straordinaria occasione per ritrovare una storia di valori civili, artistici, umani come è quella di Tedeschi una storia che il suo vasto pubblico ha conosciuto poco a poco, con discrezione. Milanese di via San Gregorio al 3, Gianrico Tedeschi dice di essere diventato un sognatore lì, in quella casa di ringhiera con bagno esterno, due stanze per i genitori e tre figli, "dove si studiava e si mangiava tutto nello stesso tavolo".
Si diploma ma ventenne va sottotenente in guerra, viene catturato in Grecia, si rifiuta di andare a Salò e tra il 1943 e il 1945 è internato nei campi di concentramento di Beniaminovo e Sandbostel in Polonia e Wietzendorf in Germania. È durissimo. "Il nostro modo di resistere era metter su spettacolini", ha raccontato. Recitava l’Enrico IV di Pirandello ai compagni di lager che sono, oltre a Enzo de Bernard, il fratello della futura prima moglie Laura, intellettuali come Enzo Paci, Giovannino Guareschi, Giuseppe Lazzati, Giuseppe Novello e Roberto Rebora che gli dice: "Sei un attore nato". Fare teatro? "Mio papà era appassionato di teatro ci portava tutte le domeniche e io, che avevo sei anni, mi annoiavo da morire. Poi una volta mi ha portato al Teatro Dal Verme a vedere Ermete Zacconi in Spettri di Ibsen. La sua recitazione mi ha talmente impressionato che da lì ho cominciato ad andare volentieri a teatro".
Questi e altri ricordi li racconta ampiamente la figlia di Tedeschi, la sociologa Enrica - la sorella minore è Sveva, avuta da Marianella - in un dialogo-biografia uscito tre anni fa da Viella, molto ricco e sapiente nell’intreccio di vita personale e sociale, teatro e storia. Si intitola Semplice, buttato via, moderno. Il ’teatro per la vità di Gianrico Tedeschi, cioè proprio come lui intende il lavoro dell’attore: non aulico, ridondante e coi birignao sia convenzionali che sperimentali, ma ’semplice, buttato via, moderno’, scivolando talvolta nello stupore, nell’inquietudine, nella diffidenza verso l’eccesso di emozioni, nello straniamento comico.
E così che Tedeschi entra nell’antologia dei grandi attori del teatro italiano: dopo l’Accademia inizia con un grande attore come Ruggero Ruggeri, poi col teatro di Strehler, di Visconti - Tre sorelle, La Locandiera accanto a Mastroianni - di Luigi Squarzina, via via fino a Luca Ronconi per cui nel 2011 è il cinico industriale Oldfield in La compagnia degli uomini di Edward Bond al Piccolo, passando per successi come Il cardinale Lambertini di Testoni, un sardonico Sior Todero Brontolon con la regia di Andrée Ruth Shammah che lo ha diretto in tanti spettacoli, Noblesse Oblige, I promessi Sposi alla prova...
Moderno, anzi quasi postmoderno, Tedeschi lo è anche nel mescolare alto e basso, classico e pop, Thomas Bernhard nell’indimenticabile Il riformatore del mondo regia di Maccarinelli e Carosello, lo show pubblicitario degli anni Settanta, Goldoni e i varietà tv, Jules Dessin con Steno e Monicelli al cinema dove ha girato oltre quaranta film, fino a Viva l’Italia di Roberto Andò in una incessante e divertita voglia di fare, come succede a tanti altri grandi vecchi che forse per non perdere tempo moltiplicano forza e emozioni dentro l’involucro del personaggio.
"L’attore è qualcuno che vede il mondo come un grande gioco. Magari tragico, ma gioco", ha ripetuto nel 2013 quando interpretava Farà giorno con la regia di Maccarinelli, dove è un ex partigiano che incontra un giovane di destra, una storia che rispecchia temi che erano anche suoi. E ancora: "Ho 96 anni e mi diverto ancora a recitare", ha confessato nel 2016 quando era in scena con Dipartita finale. E l’amico Ugo Pagliai che era in scena con lui lo raccontava così: "Ha ancora una voce squillante, e indubbiamente è quello che si muove più di tutti in scena. È la tipica espressione beckettiana di un essere umano, dice delle frasi astratte con uno sguardo così disperato e così pieno di vita che è una cosa meravigliosa. È piegato su se stesso, però nonostante questo c’è una fiamma dentro di lui che è difficilissimo spegnere. È un’energia pazzesca, e io me la godo un po’ ogni sera".
il libro
I prigionieri che dissero no a Salò
«Inutilmente Mussolini insistette»
Nel volume «I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi 1943-1945» (il Mulino) le ricerche di Avagliano e Palmieri sulle lettere e sui diari degli Imi
di Aldo Cazzullo *
«Noi non vogliamo restare qui, come qualcuno insinua, per vigliaccheria, quasi imboscati. Siamo tutti ex combattenti, molti decorati, molti volontari. Noi non siamo degli attendisti, come qualcuno ci chiama. Non è per calcolo né per capriccio né per puntiglio, ma solo per coerenza, per un principio di dignità, di onore, di giustizia. Noi siamo uomini, vogliamo essere uomini».
È il 5 aprile del 1944. Sono trascorsi sette mesi dalla sera di settembre in cui la radio ha annunciato l’armistizio e l’esercito italiano si è sfaldato. Per centinaia di migliaia di militari italiani catturati e deportati in Germania è stato un inverno durissimo, di prigionia e lavoro coatto, poiché hanno scelto di non continuare a combattere al fianco degli ex alleati e di non aderire alla Rsi. Uno di loro è il capitano Giuseppe De Toni, nato a Modena, classe 1907, comandante italiano del campo di Hammerstein, che scrive clandestinamente questa lunga e appassionata lettera al fratello Nando, che lo aveva invitato ad optare per uscire dal lager.
La storia degli oltre seicentomila internati militari deportati nei lager nazisti, gli Imi, che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 rifiutarono di continuare a combattere con la Germania nazista e di aderire alla Repubblica sociale, è una pagina assai rilevante della partecipazione italiana alla Seconda guerra mondiale e della Resistenza, ma è stata a lungo trascurata. Nel 2009 ad aprire la pista a questo percorso fu l’antologia delle lettere e dei diari degli Imi curata da Mario Avagliano e Marco Palmieri. A undici anni di distanza arriva in libreria il nuovo saggio dei due giornalisti e studiosi, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi 1943-1945 (il Mulino).
In questo libro Avagliano e Palmieri, con il rigore storico che li contraddistingue e un sapiente uso della diaristica e della corrispondenza coeva, per lo più inedita o scarsamente conosciuta, e di altri documenti come i rapporti della censura, le relazioni delle autorità italiane e tedesche, i volantini e i manifesti di propaganda tedesca o della Rsi, conducono il lettore in un appassionante viaggio nel mondo degli Imi, che ci fa scoprire aspetti nuovi o poco noti, dal loro bagaglio di umanità alla capacità e al coraggio di resistere a tutte le avversità, raccontando attraverso le storie individuali la storia collettiva degli internati militari italiani.
I nazisti vietarono severamente agli Imi di tenere diari. «Premetto - avverte infatti un tenente, Giorgio Marras, alla data del 22 gennaio 1944 - che se mi trovano questo diario mi fucilano». Ma nonostante il pericolo la pratica dei diari è abbastanza diffusa, perché «raccontare - come annota Lino Monchieri il 3 ottobre 1943, subito dopo la cattura - è mio dovere. Qualcuno dovrà pure sapere cosa succedeva qui...», anche se «queste disordinate note - è la consapevolezza del capitano Guido Baglioni, il 12 luglio 1944 - non potranno mai rendere i giorni di disperato tormento, di sconforto, di fame e abbrutimento superati più per miracolo che per forza di volontà».
Il viaggio nella memoria si snoda in quindici tappe, quanti sono i capitoli, accompagnate dalle parole vive dei protagonisti dell’epoca (non solo gli internati ma anche i loro familiari e i loro oppressori). La vicenda degli Imi è analizzata nel suo complesso, dalla reazione all’annuncio dell’armistizio alla cattura da parte dei tedeschi, dal viaggio in tradotta verso i lager alle sofferenze patite nei campi e al lavoro coatto, fino alla liberazione e al ritorno in patria. Un’attenzione particolare è stata rivolta alle motivazioni della scelta di fronte alle offerte di adesione alle SS da parte dei tedeschi e a quelle rivolte ai militari italiani dagli emissari della Rsi dopo il ritorno di Mussolini.
Il libro scandaglia tutti gli aspetti della vita quotidiana degli Imi, caratterizzata dall’ossessione della fame, ma anche dagli sforzi compiuti per difendere la loro dignità di soldati e di uomini nell’inferno dei campi, come la fede religiosa, le iniziative culturali, gli espedienti per ricevere e diffondere informazioni (i giornali parlati e le radio clandestine), il rapporto con la popolazione civile, i contatti con i prigionieri e i deportati di altre nazioni, le storie d’amore e di sesso, che in alcuni casi dopo la liberazione si tradussero in matrimoni e in figli (qualcuno tornò a casa con la moglie o la fidanzata tedesca o polacca).
Vengono approfonditi anche profili nuovi o poco conosciuti, come i campi di punizione, le violenze dei carcerieri, le fughe, la collaborazione con la resistenza locale, i casi di resistenza armata, la deportazione dei carabinieri, la seconda prigionia subita dagli Imi liberati da parte dei russi di Stalin o degli jugoslavi di Tito. Gli ultimi due capitoli riguardano la liberazione, il rientro in patria e la difficile reintegrazione degli ex internati.
La vicenda degli Imi, del resto, è stata per decenni pressoché dimenticata, per diversi motivi: il desiderio del Paese di voltare pagina e non sentir più parlare della guerra e delle responsabilità del fascismo; la loro resistenza in nome di un re e di una dinastia andati via dall’Italia; la scelta del silenzio da parte degli stessi reduci, delusi dal mancato riconoscimento della propria esperienza come contributo alla Resistenza; il fardello di aver combattuto la guerra voluta dal fascismo e la memoria della rovinosa dissoluzione dell’esercito all’indomani dell’armistizio, in un clima di tutti a casa. Basti dire che nel 1950, e fino al 1977, agli Imi venne negata la concessione della qualifica di Volontario della libertà perché «questo ministero (della Difesa) è del parere che sia doveroso mantenere una differenziazione fra i civili che volontariamente presero parte all’attività partigiana (...) e i militari che negando la propria collaborazione ai nazifascisti e subendo l’internamento si attennero semplicemente ai doveri derivanti dal proprio stato», senza il «presupposto della volontaria partecipazione alle ostilità contro i nazifascisti».
Eppure nell’esercito degli Imi si ritrovano numerosi personaggi che raggiungeranno posizioni di spicco nella cultura, nell’economia, nello spettacolo e nella politica del dopoguerra, come Alessandro Natta, Vittorio Emanuele Giuntella, Giovanni Ansaldo, Oreste Del Buono, Mario Rigoni Stern, Tonino Guerra, Luciano Salce e Giovannino Guareschi, la cui foto con la matricola di Imi campeggia nella copertina del libro e che, come raccontano Avagliano e Palmieri, con la sua straordinaria verve fu uno dei protagonisti del «no» alla Rsi e della vita culturale e artistica nei lager. Altri internati saranno genitori di personaggi famosi, come l’ufficiale Ferruccio Guccini, catturato in Grecia, padre del cantautore Francesco; Carmelo Carrisi, padre del cantante Al Bano; Giuseppe Di Pietro, padre del magistrato ed ex ministro Antonio; Giovanni Carlo Rossi, padre di Vasco.
Quello che ora è stato tardivamente riconosciuto, e che dagli scritti coevi degli Imi emerge nitidamente, è che ai militari italiani disarmati e internati si deve il primo rifiuto in massa della guerra e del fascismo, con una «specie di plebiscito - come lo ha definito Vittorio Emanuele Giuntella - da parte di una generazione che non aveva mai partecipato a consultazioni elettorali», ferma restando un’aliquota non trascurabile di aderenti di cui pure bisogna tenere conto. In entrambi i casi la scelta non è necessariamente dettata da motivazioni di natura politico-ideologica, ma nel caso dei non optanti risponde in particolare a sentimenti confusi di stanchezza della guerra, sfiducia verso il regime, fedeltà alla divisa e al giuramento prestato al re, smobilitazione interiore, attendismo o mera imitazione dei compagni e dei superiori. Una scelta che gli internati pagano ad un prezzo altissimo, visto che il censimento in corso da parte dell’Anrp (Albo degli Imi caduti nei Lager nazisti 1943-1945) ha accertato al momento 50.834 caduti. Con questo libro Avagliano e Palmieri sviscerano e riempiono di senso il sacrificio di quei militari italiani, e furono la grande maggioranza, che fino alla fine decisero di dire «no», come Giovannino Guareschi indica nella dedica del volume: «Ingannato, Malmenato, Impacchettato / Internato, Malnutrito, Infamato / Invano Mi Incantarono / Inutilmente Mussolini Insistette».
* Corriere della Sera, 23 gennaio 2020 (ripresa parziale).
Gli internati militari italiani dimenticati dell’8 settembre
In seicentocinquantamila decisero di non collaborare con i tedeschi e finirono ai lavori forzati nei lager
di Andrea Parodi (La Stampa, 08.09.2017)
«Raccontare poco non era giusto, a raccontare il vero non si era creduti, allora ho evitato di raccontare. Sono stato prigioniero e bon, dicevo». Così un Internato Militare Italiano a chiusura delle sue memorie, quasi scusandosi. Poche, rassegnate parole che riassumono un disagio diffuso tra gli oltre 650 mila militari italiani che quell’8 settembre 1943 scelsero volontariamente di non continuare a combattere a fianco dei nazisti.
L’annuncio di Badoglio («Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza») lascia nel caos un esercito che contava due milioni di uomini. Delusi, impreparati e peggio equipaggiati. Esausti di combattere dopo le gravi sconfitte in Africa e in Russia, con la certezza di una vittoria che non sarebbe mai arrivata.
Nelle ore immediatamente successive all’Armistizio il Regio Esercito si sfalda. Inizia la Resistenza. Per i soldati italiani catturati dai tedeschi inizia un’esperienza terribile: quella del lager. I nazisti non offrono terze scelte: «o con noi, o contro di noi». L’alternativa a prendere un fucile e cominciare a sparare ad angloamericani e italiani badogliani era solo quella di essere internati nei lager di Germania e Polonia. Nemmeno come prigioniero di guerra, status riconosciuto internazionalmente, ma come Internato Militare Italiano, o Imi. Definizione coniata da Adolf Hitler in persona.
È stata questa degli Imi la forma di Resistenza più numerosa. Può sembrare paradossale, proprio perché non se ne parla mai. Il rifiuto a collaborare con il nuovo nemico nazista, preferendo l’Italia di Badoglio e di Brindisi a quella di Mussolini e di Salò, è un fenomeno vastissimo.
Molti italiani possono vantare un nonno, uno zio o comunque un parente che è stato Internato Militare Italiano. Semplicemente lo ignora. Il paradosso si riassume nella citazione delle memorie dell’Imi: tornati dalla guerra non hanno voluto raccontare. Hanno preferito integrarsi in silenzio nella società. Parlando della loro esperienza bellica, anche con dovizie di particolari, per tutto ciò che riguarda gli eventi prima dell’8 settembre e liquidando con poche e sofferte parole i due anni «prigioniero in Germania». Meglio dimenticare al più presto. Assolutamente difficile che abbiano utilizzato le parole giuste: «campo di concentramento». Non si usava.
Gli Imi erano impiegati come schiavi (nelle aziende agricole come contadini, nelle fabbriche e nelle miniere come operai). La notte tornavano in luoghi di terrore e di morte, contrassegnati con un numero. Senza assistenza sanitaria, senza tutele, senza dignità umana. I nazisti, per costringerli alla resa, li facevano gelare nell’inverno tedesco e gli diminuivano il cibo. Si soffriva la fame più nera. La memorialistica parla spesso di bucce di patate marce trovate tra la spazzatura.
Significative le parole del poeta Tonino Guerra: «Nella vita sono stato felice soprattutto quando mi hanno liberato: per la prima volta ho ammirato il volo di una farfalla senza il desiderio di mangiarla». Gli effetti della fame si trovano anche nelle pagine del Diario di Giovannino Guareschi, animatore della vita culturale nei lager insieme, tra gli altri, a Gianrico Tedeschi: «Quando mi faccio la barba da sotto la pelle vedo il mio scheletro. Non pensavo che anche le ossa potessero dimagrire». Il risultato fu che in circa 50 mila morirono di stenti, per le malattie, per le sevizie dei nazisti, per i bombardamenti alleati.
Il silenzio di questi protagonisti de «l’altra Resistenza» (come l’omonimo libro di Alessandro Natta, pubblicato da Einaudi solamente nel 1997) si è interrotto intorno alla metà degli Anni 80, con l’età della pensione degli Imi. Una grande occasione perduta per molti familiari, che ancora oggi non comprendono.
Gli storici hanno avuto grandi responsabilità. In Italia nel dopoguerra ci si è concentrati sulla memorialistica partigiana, che ha di fatto monopolizzato l’eredità della lotta di Liberazione. Non è un caso che il primo storico a occuparsi con grande attenzione al tema degli Imi sia stato proprio un tedesco nel 1990: Gerhard Schreiber, scomparso poche settimane fa. Che coniò una definizione in tre parole: «Traditi, disprezzati, dimenticati».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LAGER DI WIETZENDORF, 1944. Basilica di S. Ambrogio, Natale 2000: il Presepio degli Internati Militari Italiani. In memoria di Enzo Paci e a onore del Cardinale Martini.
Lager di Unterlüss, la rivincita degli eroi dimenticati
Un libro ricostruisce la storia dei 44 ufficiali italiani internati che nel ’45 si rifiutarono di diventare schiavi di Hitler: sei di loro pagarono con la vita
di Mirella Serri (La Stampa, 26.04.2016)
Gaetano era di Torino e quando fu catturato si trovava in Albania con la IX armata; Michele, originario di Campobasso, era in Slovenia per difendere il confine; Antonio, 31 anni, combatteva a Larissa, in Grecia, e allorché, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, chiese al capitano cosa si doveva fare, ottenne questa risposta: «Quello che volete». Gaetano Garretti di Ferrere, Michele Montàgano, Antonio Rossi rientrarono nel nutrito contingente di militari italiani che, fatti prigionieri dopo la fuga del re Vittorio Emanuele III e l’occupazione tedesca della Penisola, ebbero il coraggio di dire «No!» e si rifiutarono di combattere sotto le bandiere del Reich. Con altri duecento commilitoni manifestarono un’ulteriore audacia: si sottrassero al lavoro coatto al servizio di Hitler.
Il 24 febbraio 1945 diventarono i protagonisti di uno degli episodi più significativi della Resistenza italiana, compiendo un gesto di altissimo «onore militare e personale», come lo definisce Andrea Parodi nel libro Gli eroi di Unterlüss. La storia dei 44 ufficiali Imi che sfidarono i nazisti (Mursia, pp. 216, € 16). Una vicenda che, ci avverte l’autore, è rimasta fino a oggi inedita. E che non sarebbe mai stata ricostruita se Parodi stesso non si fosse imbattuto nei documenti di un suo prozio, Carlo Grieco, che non solo non aveva mai raccontato ai parenti e alla moglie di essere stato un ufficiale Internato Militare Italiano, ma non aveva mai nemmeno rivelato di essere stato un eroe di guerra.
Gelo, pioggia e ratti
Gaetano, Michele (vivacissimo ancora oggi, con i suoi 94 anni ben portati), Antonio (padre dell’economista Nicola Rossi) e tanti altri, dopo essere stati catturati e designati non come prigionieri di guerra ma come Italienische Militär-Internierte, detti anche Imi (in modo che non dovessero essere loro riconosciute le garanzie della Convenzione di Ginevra), furono chiusi nel Lager di Wietzendorf. Qui si trovarono con il futuro dirigente politico Alessandro Natta e lo scrittore Giovanni Guareschi, pronti a resistere alla sollecitazione di diventare «optanti» e di indossare la divisa delle SS. Alloggiati in baracche dal cui soffitto pendevano ghiaccioli, e con la pioggia che cadeva sui loro letti infestati da ratti parassiti e pidocchi, nutriti con brodaglie di rape e qualche buccia di patata, furono ridotti allo stremo delle forze.
Successivamente, però, dall’estate del 1944, il loro status mutò: furono considerati alla stregua di «lavoratori civili», per poter essere sottoposti a fatiche e privazioni senza godere delle tutele della Croce Rossa Internazionale. Al Lager arrivavano ogni giorno gli imprenditori per scegliere i loro sottoposti o schiavi. Misuravano la corporatura, la massa muscolare, controllavano bocca e denti: per i tedeschi, «noi eravamo civili», ricorda Montàgano, «ma continuavamo a sentirci ufficiali del Regio esercito italiano».
Un drappello di 214 italiani fu mandato a Dedelstorf a costruire una pista di volo: gli ufficiali, consapevoli della propria dignità e del proprio ruolo, incrociarono le braccia. Il gruppo in realtà non era compatto: alcuni avrebbero voluto trattare con gli uomini di Hitler, chiedere incarichi meno pesanti. Altri invece firmarono un documento esponendo le ragioni di un netto rifiuto. All’alba del sesto giorno, la sveglia fu drammatica. Un ufficiale della Gestapo li convocò accusandoli di tradimento, poiché «lo sciopero in Germania è considerato un delitto». Per questo era necessaria una punizione esemplare: vennero selezionati 21 condannati a morte.
Atroci torture
Tra i prescelti non rientrava nessuno di coloro che avevano sposato la posizione più intransigente. Così si fecero avanti prima 31 militari e poi altri 13 chiedendo di sostituire i compagni già designati per la fucilazione. I tedeschi si riunirono in un conciliabolo che durò otto ore: non solo erano stupefatti di tanta audacia ma, prevedendo la disfatta, riflettevano anche sulle ripercussioni che sarebbero derivate da quell’assassinio di ufficiali che non si piegavano. Nel frattempo i 44 volontari furono rinchiusi in un piccolo cortile all’interno del campo di aviazione, così come si trovavano, scalzi e svestiti, con la temperatura di parecchi gradi sotto zero. Poi, a colpi di manganello, gli internati furono fatti salire su un rimorchio trainato da un trattore che si avviò per i campi.
I 44 erano convinti che sarebbero stati passati per le armi: invece furono spediti a Unterlüss, uno dei Lager più duri di tutto il Reich, dove furono sottoposti a atroci torture. Sei di loro morirono, tre uccisi dalle botte dei sorveglianti. Per quelli che si salvarono, l’esistenza nel dopoguerra non fu facile e dovettero aspettare decenni perché il loro gesto eroico fosse riconosciuto: era qualcosa di anomalo, che non rientrava nei parametri più noti e accreditati della Resistenza. Gli ex militari, in generale, erano guardati con sospetto, come ex fascisti.
«Di questa Resistenza senza armi», afferma Parodi, «si è diffidato a lungo anche se ha contribuito a portare la libertà e la democrazia nel nostro paese». Nei Lager del Terzo Reich furono deportati circa 710 mila militari italiani registrati come Imi e tra loro ben circa 600 mila decisero di boicottare e ostacolare, a costo della vita, lo sforzo bellico dei tedeschi.
Wietzendorf, un presepe tra i fili spinati
di Annamaria Sigalotti (Fogli d’arte, 12/18/2012)
Era l’inverno del 1944. Nel lager di Wietzendorf, cittadina tedesca tra Amburgo e Hannover, erano rinchiusi migliaia di soldati italiani che, all’indomani dell’armistizio di Cassibile, con il quale l’Italia firmava la propria resa alla Forze alleate, avevano deciso di non collaborare con i nazisti e di non aderire alla Repubblica di Salò. La tragedia della guerra, le punizioni corporali, il duro lavoro nell’industria bellica e mineraria, la fame, il freddo e l’ombra della morte sempre presente non avevano privato queste persone della fede, della speranza e del coraggio, della dignità di essere uomini.
Natale era ormai alle porte e grazie alla perizia artistica del sottotenente d’artiglieria Tullio Battaglia, artista-letterato e giovane professore di disegno, Gesù Cristo poteva nascere anche tra le baracche di un campo di concentramento del nord della Germania, illuminando la Notte Santa di chi, con la nostalgia di casa nel cuore, stava vivendo la follia e l’inferno di una triste pagina della nostra storia.
Con un coltellino tascabile (miracolosamente scampato a ogni perquisizione), una robusta forbicina e un cardine di porta usato come martello, alla luce fioca di una candela che ogni prigioniero contribuì a alimentare togliendo una piccola parte all’esigua razione giornaliera di margarina, Tullio Battaglia costruì una quindicina di esili figure di trenta/trentacinque centimetri d’altezza, ricavate dal legno dei giacigli e con un po’ di filo spinato per scheletro, rivestite da parti di indumenti e da piccoli ricordi di famiglia di ogni internato.
Tutti i prigionieri donarono, infatti, qualcosa di proprio, un brandello della loro vita passata, per costruire le statuine. Gesù Bambino è fatto, per esempio, con un fazzoletto di seta del tenente Bianchi di Milano. Il pelo dell’agnello è la fodera del pastrano del capitano Bertoletti di Como, passato per i monti della Grecia e per la disfatta del fronte russo. Un lembo del pigiama del tenente bersagliere Montobbio di Milano disegna il turbante e la fascia di un re magio. La collana dell’altro sapiente giunto da Oriente è il pendaglio del braccialetto del tenente artigliere Mendoza di Vigevano. Un’estremità della tonaca del cappellano, padre Ricci, è il vestito di San Francesco. E, proseguendo, il pelo della pecorella è il tessuto sfilacciato della musetta da cavallo del tenente Mori di Arezzo. Il cestino arriva dalla calza della Befana per i due figli del capitano Gamberoni di Bologna. Le mostrine dei Lupi di Toscana del tenente Vezzosi di Milano fanno da risvolto alle maniche del guerriero longobardo. I pizzi che ornano il manto della Madonna sono i ritagli di un fazzoletto donato dall’amata al suo fidanzato in partenza per la guerra. Ogni pezzo di tela, latta, juta ricorda, dunque, un uomo, un brano di storia d’Italia scritta su un campo di battaglia.
Ci sono in questo presepe, oggi uno dei beni più preziosi, e forse meno conosciuti, del tesoro della Veneranda Basilica di Sant’Ambrogio in Milano, tutti i personaggi classici della Natività: la Vergine Maria, il Bambin Gesù, Giuseppe, i re magi, la gente umile, qui rappresentata da una povera contadina nel tipico costume lombardo, da uno zampognaro abruzzese, da un pastore calabro e da una tessitrice che confeziona la bandiera italiana. Un po’ in disparte si intravedono anche un militare internato, nella sua divisa lacera, e un soldato tedesco che, illuminato dall’amore per il Bambinello, depone finalmente a terra le armi. Non manca nella sacra rappresentazione di Tullio Battaglia neppure la figura di San Francesco, il «poverello di Assisi» al quale si deve la prima raffigurazione del presepe come oggi lo conosciamo. E’, invece, assente il bue, con il suo grande collare e la sua grossa campana: è stato lasciato a Wietzendorf, a scaldare e a tener compagnia a quei soldati che lo hanno visto nascere e che non sono riusciti a ritornare a casa.
Guardando questo presepe, povero di materiali, ma ricco di significati, vengono in mente le parole di Bertolt Brecht: «Oggi siamo seduti, alla vigilia di Natale, noi, gente misera, in una gelida stanzetta, il vento corre fuori, il vento entra. Vieni, buon Signore Gesù, da noi, volgi lo sguardo: perché tu ci sei davvero necessario». Il commemorare la nascita di Gesù era realmente indispensabile nel lager di Wietzendorf; c’era bisogno di credere che la fede e la speranza in un domani migliore avrebbero vinto qualsiasi difficoltà.
Informazioni utili
Presepe di Wietzendorf. Veneranda Basilica di Sant’Ambrogio, piazza Sant’Ambrogio, 15 - Milano. Orari di visita: dal lunedì al sabato, dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 14.30 alle 18.00; domenica, dalle 15.00 alle 17.00. Informazioni:
Ebrei, politici e soldati: gli italiani nei lager
In una mostra al Vittoriano il racconto, settant’anni dopo, della liberazione dei campi di sterminio nazisti
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 23.01.2015)
ROMA «Il senso di questa mostra è chiarire che la liberazione dei campi non fu, come si crede, un momento felice». Lo storico Marcello Pezzetti, direttore della Fondazione Museo della Shoah, schiaccia un tasto e le immagini mostrano dei movimenti incerti sotto un cumulo di cadaveri, gambe che si ritraggono, dita che s’aggrappano al terreno, «negli ultimi giorni i nazisti avevano ricavato pure degli Sterbelager, depositi di moribondi», i giovani ricercatori dello staff le avranno viste infinite volte eppure anche loro, tutt’intorno, hanno un moto di orrore e pietà. Hanno setacciato per mesi campi e sottocampi del sistema di sterminio per aggiornare i dati e recuperare documenti, oggetti, immagini inedite o rarissime, tra i filmati degli Alleati ci sono anche quelli girati da Hitchcock.
Martedì, settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, verrà inaugurata al Vittoriano di Roma la grande mostra su «La liberazione dei campi nazisti». Un racconto senza precedenti della drammatica Endphase decisa dai nazisti accerchiati fin dall’estate del 1944, mentre da Ovest e da Est avanzano Alleati e russi. Tra le «marce della morte» da un campo all’altro e gli ultimi massacri, in poche settimane morirono più di trecentomila dei settecentomila prigionieri rimasti.
Il 27 gennaio 1945 i sovietici liberano Auschwitz-Birkenau ed è diventata la data simbolo, il Giorno della Memoria. Ma l’«ultima fase» ha un prologo già nella notte tra il 22 e il 23 luglio 1944, a quattro chilometri da Lublino, quando l’Armata Rossa entra nel lager di Majdanek. E prosegue con le liberazioni di Groß-Rosen (sempre ad opera dei sovietici, 13 febbraio), Stutthof (sovietici, 9 maggio, ma l’evacuazione era iniziata a gennaio), Mittelbau-Dora e Buchenwald (americani, 11 aprile), Bergen-Belsen (inglesi, 15 aprile), Flossenbürg (americani, 23 aprile), Sachsenhausen (sovietici, 22-23 aprile), Dachau (americani, 29 aprile), Ravensbrück (sovietici, 30 aprile), Neuengamme (inglesi, 2 maggio) e Mauthausen (americani, 5 maggio).
È il compimento della Shoah e insieme una svolta. Campo per campo, al Vittoriano viene elencata in particolare la sorte degli italiani: gli ebrei ma anche i «politici» - antifascisti, persone che si erano rifiutate di aderire a Salò - e gli internati militari. Dopo Auschwitz, si moltiplicano le marce forzate dei prigionieri. «All’interno dei lager cominciano a cadere le motivazioni razziali», spiega Pezzetti. «Il criterio di selezione dei nazisti comincia a diventare tra abili e non abili al lavoro. Anche un “politico” può essere selezionato per il gas. Ebrei e non ebrei si trovano a morire assieme».
Da Berlino non arrivano più direttive chiare, Himmler si contraddice, prendono potere i capi locali. Tra le cose più notevoli della mostra, la grande mappa animata che rappresenta l’avanzata dei fronti e le evacuazioni progressive dei campi. Ci sono foto scattate da tedeschi che da casa vedevano passare le colonne di prigionieri. Una donna con la sua bambina riesce a saltare giù da un treno. È l’impazzimento finale.
A Stutthof un vagone ferroviario viene adattato a camera a gas, tremila ebrei vengono portati su una spiaggia del Mar Baltico e lì massacrati da SS, Hitlerjugend e popolazione. A Gardelegen, il 14 aprile, gli americani scoprono un capannone con più di mille prigionieri bruciati vivi dai nazisti il giorno prima.
Denutrizione e malattie fanno il resto: solo a Bergen-Belsen cinquemila persone muoiono nei dieci giorni dopo la liberazione. Tra i documenti, la prima lettera che Primo Levi manda da Katowice a casa, il 6 giugno 1945: «Come i pochi compagni italiani superstiti, io sono vivo per miracolo».
E nell’Aula irruppe lo Spirito Santo
di Gian Arturo Ferrari (Corriere, 03.10.2013)
E così alla fine lo Spirito Santo si è poi deciso a scendere nell’aula tutt’altro che sorda e grigia (ma quella era Montecitorio...), bensì rutilante di rosso e oro, del Senato. Ma che cosa c’entra lo Spirito Santo, si chiederà il lettore? C’entra, c’entra. Perché è stato evocato - prudentemente, cautamente, copertamente, cioè indirettamente e obliquamente - da Enrico Letta. Il quale nel suo discorso di cui adesso, a cose fatte, si possono apprezzare le asciutte eleganze, ma che deve essere stato pronunciato con la bocca secca, ha inserito una nobile e severa citazione di Benedetto Croce.
«Ciascuno di noi - disse Croce alla Costituente l’11 marzo 1947 e ha ripetuto Letta - si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso». Una frase da etica protestante, che riecheggia la lapide posta nell’Abbazia di Westminster di fronte alle tombe delle sorelle regine, Maria (cattolica) ed Elisabetta (anglicana), dove si auspica che «vengano qui ricordati tutti coloro che nell’età della Riforma diedero la vita per amore di Cristo e di fronte alla propria coscienza».
Un richiamo alla coscienza, specie se profonda, non abituale nella nostra cultura e nel nostro costume. Quest’aria più fina (Letta aveva iniziato citando un altro padre della patria, Luigi Einaudi) deve aver colto un po’ di sorpresa i senatori e fatto correre un brivido nelle loro menti. Che così spronate hanno cercato di mostrarsi all’altezza, rispolverando antichi soprammobili ovvero cercando di far fuoco con la legna che avevano sottomano. E dunque il senatore D’Anna ha riagguantato un Voltaire (non dei più incisivi, per la verità): «quando i diritti di un uomo sono minacciati, sono in pericolo i diritti di tutti», l’uomo essendo naturalmente Berlusconi.
Il medesimo Berlusconi, in anticipo sul discorso di Letta, aveva fatto ricorso, nell’intervista di Panorama, a Giovannino Guareschi e al suo bellissimo «non muoio neanche se mi ammazzano». Ma scambiando la prigionia nazista con la molto successiva condanna penale per diffamazione, aveva destato le ire dell’Anrp, Associazione nazionale reduci dalla prigionia, e del suo presidente, Enzo Orlanducci, dato che la frase di Guareschi è il motto dei militari italiani internati in Germania per non aver voluto aderire a Salò. I quali internati non gradiscono che il loro motto venga fatto proprio da chi è stato condannato per evasione fiscale.
Da ultimo l’ineffabile senatore Scilipoti, dicendosi intenzionato a seguire ad oltranza Enrico Letta, ha concluso trionfalmente «Insomma, per dirla con una citazione della Primavera di Praga, “continuons le combat”». Incurante del fatto, ma qui la lingua avrebbe dovuto insospettirlo,che il «continuons le combat» (continuiamo la lotta), preceduto dal canonico «ce n’est qu’ un debut» (non è che l’inizio), costituisce non uno qualsiasi, ma «il» motto per eccellenza del Maggio francese e nulla ha a che vedere né con Praga né con la sua primavera. Per non dire che si fa un po’ fatica a immaginare il medesimo Scilipoti, ma se è per questo anche Enrico Letta, nei panni di un sessantottino o di un giovane praghese di fronte ai carri armati.
Per tornare o meglio per venire allo Spirito Santo, il saggio Letta nella sua citazione del discorso di Croce che risale al 1947 ha omesso il seguito. Che suona così: «Io vorrei chiudere questo mio discorso, con licenza degli amici democristiani dei quali non intendo usurpare le parti, raccogliendo tutti quanti qui siamo a intonare le parole dell’inno sublime: “Veni, creator spiritus, mentes tuorum visita, accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus”. Soprattutto a questi: ai cuori». E proprio in cuor suo, senza dirlo, Enrico Letta deve aver sperato che lo Spirito Santo visitasse quelle menti. È stato accontentato, ma oltre ogni più rosea aspettativa. Lo Spirito Santo, tenuto come una carta coperta dentro la citazione di Croce, ha dato prova della sua potenza esplosiva. Non conosce mezze misure. Li ha illuminati tutti, anche Berlusconi. Troppa grazia.
«Il modello? Il dialogo misterioso nel sepolcro di Gesù»
di Carlo Maria Martini (Avvenire, 12 settembre 2012)
Solitamente si dà della comunicazione una definizione empirica: comunicare è «dire qualcosa a qualcuno». Dove quel «qualcosa» si può allargare a livello planetario, attraverso il grande mondo della rete che è andato ad aggiungersi ai mezzi di comunicazione classici. Anche quel «qualcuno» ha subìto una crescita sul piano globale, al punto che gli uditori o i fruitori del messaggio in tempo reale non si possono nemmeno più calcolare.
Questa concezione empirica, alla luce dell’odierno allargamento di prospettive, dove sempre più si comunica senza vedere il volto dell’altro, ha fatto emergere con chiarezza il problema maggiore della comunicazione, ossia il suo avvenire spesso solo esteriormente, mantenendosi sul piano delle nude informazioni, senza che colui che comunica e colui che riceve la comunicazione vi siano implicati più di tanto.
Per questo vorrei tentare di dare della comunicazione una descrizione «teologica», che parta cioè dal comunicarsi di Dio agli uomini, e lo vorrei fare enunciando qui alcune riflessioni che potrebbero servire per una nuova descrizione del fenomeno.
Nel sepolcro di Gesù, la notte di Pasqua, si compie il gesto di comunicazione più radicale di tutta la storia dell’umanità. Lo Spirito Santo, vivificando Gesù risorto, comunica al suo corpo la potenza stessa di Dio. Comunicandosi a Gesù, lo Spirito si comunica all’umanità intera e apre la via a ogni comunicazione autentica. Autentica perché comporta il dono di sé, superando così l’ambiguità della comunicazione umana in cui non si sa mai fino a che punto siano implicati soggetto e oggetto.
La comunicazione sarà dunque anzitutto quella che il Padre fa di sé a Gesù, poi quella che Dio fa a ogni uomo e donna, quindi quella che noi ci facciamo reciprocamente sul modello di questa comunicazione divina. Lo Spirito Santo, che riceviamo grazie alla morte e resurrezione di Gesù e che ci fa vivere a imitazione di Gesù stesso, presiede in noi allo spirito di comunicazione. Egli pone in noi caratteristiche, quali la dedizione e l’amore per l’altro, che ci richiamano quelle del Verbo incarnato. Di qui potremmo dedurre alcune conclusioni su ogni nostro rapporto comunicativo.
Primo. Ogni nostra comunicazione ha alla radice la grande comunicazione che Dio ha fatto al mondo del suo Figlio Gesù e dello Spirito Santo, attraverso la vita, morte e resurrezione di Gesù e la vita di Gesù stesso nella Chiesa. Si capisce perciò come i Libri sacri, che in sostanza parlano di questa comunicazione, siano opere di grande valore per la storia del pensiero umano. È vero che anche i libri di altre religioni possono essere ricchi di contenuto, ma questo è dovuto al fatto che sottostà a essi il dato fondamentale di Dio che si dona all’uomo.
Secondo. Ogni comunicazione deve tenere presente come fondante la grande comunicazione di Dio, capace di dare il ritmo e la misura giusti a ogni gesto comunicativo. Ne consegue che un gesto sarà tanto più comunicativo quanto non solo comunicherà informazioni, ma metterà in rapporto le persone. Ecco perché la comunicazione di una verità astratta, anche nella catechesi, appare carente rispetto alla piena comunicazione che si radica nel dono di Dio all’uomo.
Terzo. Ogni menzogna è un rifiuto di questa comunicazione. Quando ci affidiamo con coraggio all’imitazione di Gesù, sappiamo di essere anche veri e autentici. Quando ci distacchiamo da questo spirito, diveniamo opachi e non comunicanti.
Quarto. Anche la comunicazione nelle famiglie e nei gruppi dipende da questo modello. Essa non è soltanto trasmissione di ordini o proposta di regolamenti ma suppone una dedizione, un cuore che si dona e che quindi è capace di muovere il cuore degli altri.
Quinto. Anche la comunicazione nella Chiesa obbedisce a queste leggi. Essa non trasmette solo ordini e precetti, proibizioni o divieti. È scambio dei cuori nella grazia dello Spirito Santo. Perciò le sue caratteristiche sono la mutua fiducia, la parresia, la comprensione dell’altro, la misericordia
L’attenzione ai non credenti
di Carlo Sini (l’Unità, 1 settembre 2012)
Ho incontrato per la prima volta il cardinale Martini in occasione della preparazione dei programmi per la Cattedra dei non credenti. Mi accolse nel suo studio in Arcivescovado, in ora serale. Nella penombra mi venne incontro con quel fare semplice e cordiale, mai affettato e mai impostato, che tutti coloro che lo conoscevano ricordavano e ammiravano in lui. Il tratto accogliente contrastava, senza che lui certo se ne avvedesse, con quella sua figura singolarmente alta e ieratica che non poteva non colpire chi per la prima volta lo incontrava e che comunque restava impressa poi nella memoria.
Parlammo del dialogo che, qualche giorno dopo, ci avrebbe visti insieme nell’aula magna della Università degli studi di Milano. L’argomento di quell’anno, per la Cattedra, era il tempo e io avevo proposto di concentrare il mio intervento su Agostino. Mi aspettavo qualche discreta domanda relativa alla impostazione che intendevo dare al discorso, ma con signorile distacco e discrezione Martini non vi fece il minimo cenno.
Si trattava semplicemente di un contatto preliminare per conoscerci un po’ e fu soprattutto lui a parlare di sé, del suo amore per gli studi teologici, purtroppo da tempo limitati dai suoi incarichi pastorali, della sua convinzione che la ricerca vive di libertà: l’iniziativa della Cattedra dei non credenti era pensata appunto in questo spirito di carità e di apertura.
Parlava con una modestia non affettata e con una serenità di tono che da un lato attraevano alla confidenza, dall’altro e nel contempo imponevano un istintivo riserbo. Da tempo avevo maturato una meditata stima per questo arcivescovo di Milano che coraggiosamente si adoperava e si esponeva in favore dei diritti del lavoro e della giustizia sociale e si batteva per l’accoglienza dei fratelli che venivano da lontano.
Per la mia relazione all’università mi preparai con molto impegno, naturalmente: anche i non credenti hanno, a loro modo, un’anima; ma Martini, prendendo dopo di me la parola, disse letteralmente: «Il professor Sini ci ha messo in parete!» Alludeva scherzosamente, con questa metafora da scalatori, ai passaggi forse troppo ardui della mia relazione. Per parte sua, abbassò considerevolmente il livello e il tono: parlava per i suoi credenti e per il buon popolo di Dio, senza nessuna pretesa di ben figurare. Anche in questo lo ammirai: a ognuno la sua parete e la sua parte, con reciproco rispetto e trasparente onestà.
Un seconda volta incontrai Martini in occasione della enciclica «filosofica» di papa Woityla: si trattava di un convegno organizzato dalla diocesi milanese per il quale ero invitato a portare una interpretazione «laica» del testo. Non feci mistero della mia posizione critica su certe tesi, ma Martini non mi ascoltò: dopo aver aperto i lavori e ringraziato i presenti, se ne andò, adducendo impegni improrogabili.
Aveva fatto il suo dovere, organizzando al meglio la manifestazione; ebbi però l’impressione che dell’enciclica non fosse entusiasta. Se ripenso alla conversazione privata all’Arcivescovado e ai suoi riferimenti al modo di intendere gli studi religiosi, l’insistenza dell’enciclica in favore di una filosofia universale che caratterizzerebbe l’intera umanità, consapevole o inconsapevole, non poteva trovarlo consenziente, o così mi parve e mi pare.
La grande e nobile figura di Martini mi ricorda ciò che disse Enzo Paci in occasione del discorso di Paolo V all’ONU: se un papa parla così, noi non possiamo che rallegrarcene. Lo spirito soffia dove vuole e non chiede a noi di decidere dove, come e per chi. La Cattedra per i non credenti ne è stato un segno indelebile.
L’altra Resistenza nei lager
Le testimonianze dei deportati politici, una diversa forma di lotta
di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 17.01.2012)
Nei campi di concentramento tedeschi, oltre agli ebrei costretti a portare la stella gialla, furono rinchiusi migliaia di partigiani, antifascisti e resistenti civili, con la tuta a strisce e un triangolo rosso all’altezza del cuore.
Ora la storia dimenticata dei deportati politici italiani viene raccontata per la prima volta attraverso i loro scritti. Centinaia di lettere e diari, documenti quasi tutti inediti, sono stati raccolti nel libro Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945 (Einaudi), di Mario Avagliano e Marco Palmieri, che avevano già raccontato con le medesime toccanti modalità (il mosaico delle scritture private) le vicende degli internati militari e degli ebrei italiani perseguitati.
La memoria della deportazione politica è stata trascurata nel dopoguerra, ma il fenomeno riguardò circa 24 mila persone (1.500 donne) e quasi la metà di loro, oltre diecimila, morirono nei Konzentrationslager nazisti. A Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Bergen-Belsen, Flossenbürg e nel lager femminile di Ravensbrück furono deportati, e spesso assassinati, italiani di ogni parte della penisola, antifascisti e partigiani di tutte le fedi politiche, operai colpevoli di aver scioperato e cittadini protagonisti di atti di Resistenza civile e senz’armi.
«Questa, Gemma, è la mia guerra» scrive un deportato dall’interno del campo di Bolzano. «Sopporto rassegnato: il corpo potrà soffrire, l’anima potrà soffrire, ma una cosa non muore: l’Idea. E la Patria è l’idea divina», manda a dire a casa un altro deportato.
Il saggio di Avagliano e Palmieri inizia dal momento della cattura e delle torture subite in carcere - San Vittore a Milano, Marassi a Genova, le Nuove a Torino, il Coroneo a Trieste, Regina Coeli a Roma e così via - per estorcere informazioni sui compagni di lotta. «Mi martellarono in faccia qui al carcere, poi al loro covo» scrive Luigi Ercoli da Brescia. «Siccome non volevo parlare con le buone allora hanno cominciato con nerbate e schiaffi (non spaventarti). Mi hanno rotto una mascella (ora è di nuovo a posto). Il mio corpo era pieno di lividi per le bastonate; però non hanno avuto la soddisfazione di vedermi gridare, piangere e tanto meno parlare», scrive alla famiglia la staffetta partigiana Jenide Russo.
Mentre in uno straordinario biglietto clandestino da Regina Coeli, Enrica Filippini Lera ci fa rivivere dall’interno il momento in cui vennero prelevati centinaia di detenuti trucidati dalle SS di Herbert Kappler alle Fosse Ardeatine: «Abbiamo passato ore angosciose che non potremo mai dimenticare. Ho avuto sempre tanta forza e tanto coraggio ma in quel momento ero come distrutta. L’orrore è qualcosa che stritola che distrugge. È come se mi avessero strappato dei figli e sono qui trepidante ancora e vorrei difendere tutti».
Voci dal lager è un’emozionante antologia, ma è anche un saggio politico, incentrato su due concetti non scontati: c’è una continuità tra la repressione del regime e l’occupazione nazista; e la Resistenza non fu solo fazzoletti rossi e «Bella ciao», ma opera di militari, ebrei, donne, civili. Come osservano Mario Avagliano e Marco Palmieri, «non si è ancora riflettuto a fondo sul fil rouge che lega la soppressione delle libertà politiche e civili durante il Ventennio 1922-1943 e la successiva repressione di ogni forma di opposizione armata, politica, sindacale e civile nel tragico epilogo della Repubblica di Salò e dell’occupazione tedesca del 1943-1945».
Un dato esemplificativo: oltre il 25 per cento dei deportati fu catturato in operazioni di rastrellamento e su 716 operazioni di cui si conosce la composizione dei reparti che le eseguirono, ben 224 (il 31,3 per cento) furono condotte da unità militari o di polizia della Repubblica sociale.
Una parte della storiografia fa tuttora fatica a considerare i deportati e i prigionieri politici (nonché gli internati militari) come protagonisti a pieno titolo della Resistenza e della guerra di Liberazione, al pari dei partigiani che combatterono nelle città, sulle montagne o all’estero, nonostante il collegamento diretto tra gli uni e gli altri, che risulta evidente anche dalle lettere e dai diari proposti nel saggio di Avagliano e Palmieri. E se ciò poteva essere comprensibile nell’immediato dopoguerra, quando la Resistenza era considerata esclusivamente come una guerra militare e armata, lo è molto meno oggi, dopo gli studi che hanno analizzato e riportato in piena luce la rilevanza della Resistenza cosiddetta civile e senz’armi in tutta Europa.
ENZO PACI: "Parigi 30 marzo 1960. Ho trovato Ricoeur alla Gare de Lyon. Non ci vedevamo da quindici anni. Da Wietzendorf era partito all’improvviso. Dormivo. Non volle svegliarmi e lasciò un pane nel mio giaciglio [...]" (Enzo Paci, Diario fenomenologico, Milano 1961, pp. 97-08).
L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
Dal “Diario fenomenologico” di Enzo Paci, una tracciadi di lettura della "Crisi delle scienze europee" di Edmund Husserl
a c. di Federico La Sala*
4 febbraio 1960.
Nel patto biblico tra Dio e l’uomo c’è una clausola fondamentale: “Sia chiaro” dice Dio “che creatore sono soltanto io che ti ho creato e non tu. Io sono, su questo punto, un Dio geloso”. Come può essere nato un pensiero di questo genere?
Per una analisi fenomenologica vedo due vie. La prima è la proiezione, in Dio, del padre. Il figlio, per essere uomo, deve ribellarsi al padre. È la via del complesso edipico, la via di Freud. Ovviamente la proiezione si pone come divieto e come gelosia proprio perché il divieto deve essere superato. L’uomo diventa “virile” per la violazione della proibizione. Se il padre è Dio, raggiunge il massimo della umana virilità e cioè diventa Dio. Questa posizione è immatura. Infatti il padre è sempre divinizzato. La sostituzione al padre è eroica: il figlio diventa o Dio o il Diavolo. La maturità dell’uomo in quanto uomo viene raggiunta proprio quando cade la divinizzazione del padre. Se il padre diventa un uomo, anche il figlio diventa un uomo. Di solito ciò avviene quando il figlio, di fatto, diventa padre. di un nuovo figlio, e così via. Di fronte a suo figlio, il figlio divenuto padre si pacifica col proprio padre: ora lo può. Spetta a lui l’essere divinizzato.
La seconda via. Nell’atto sessuale procreante non mi accoppio per avere un figlio. Nella esperienza jn prima persona di me stesso e dell’altro nell’atto sessuale non sento di. procreare, non ho I’esperienza in prima persona del “far nascere”. L’evidenza sessuale è l’evidenza dell’altro in me e di me nell’altro. Non può essere I’evidenza del figlio che non c’è ancora.. Se le conseguenze saranno procreative, nota Husserl, lo saprò dopo. Dai fatti. Ma posso pormi la domanda: “come avviene?” Fenomenologicamente questo “come” deve essere sperimentato dal soggetto. Ma il soggetto è il soggetto che inizia la sua nascita in seguito alla fecondazione. Non sono io ma è mio figlio, o sono io, ma nell’atto del mio nascere. C’è qui .rn distacco. Il distacco che si inizia subito, appena compiuto I’atto sessuale. Anche la donna si estrania da me. Ciò che ha di mio in sé è ancora mio, ma non sono più io.
Nell’amore, all’inizio, ho proiettato me stesso in lei: è diventata la “mia vita”. Proprio per questo devo possederla: per “riavere la mia vita”. Ma la “mia vita”, invece di essermi restituita, diventa concretamente un’altra vita. Così si diventa padre, diventando un altro soggetto. Ma così si è figli: si inizia geneticamente la propria storia, la storia della propria soggettività. Procreare e nascere sono due operazioni mie, di me soggetto, che mi sfuggono.
La prima mi sfugge nèl distacco che segue all’atto sessuale dal quale ha inizio, appunto, la procreazione. La seconda operazione, il nascere, mi sfugge perché che sia mia mi viene detto da altri. Non è in prima persona. Non posso ricordare la mia vita intrauterina e la mia nascita. Le due operazioni, che mi sfuggono, sono proiettate in Dio che diventa il solo creatore.
C’è un’implicazione: lo studio scientifico della procreazione e della nascita è, alla fine, la genetica. Come scienza fenomenologica rientra, in qualche modo, nell’antropologia, oltre che nella psicologia e nella somatologia, in quanto il suo problema si pone come studio delle modalità e del significato della genesi, sperimentata soggettivamente, e per ciò fenomenologicamente. Una delle conseguenze dell’implicazione scientifica è la seguente: lo studio scientifico della genesi, lo studio scientifico obiettivo, può porsi come un sostituto dell’atto sessuale.
Uno scienziato si può accorgere, magari tardi, che la conoscenza scientifica si è per lui sostituita alla “conoscenza” in senso biblico e cioè all’atto sessuale. Ciò può accadere al filosofo in quanto ricercatore della genesi del mondo. O allo storico: la genesi è la storia.
La feticizzazione è fascinosa perché sostituisce l’atto sessuale creativo. I,e tecniche possono esercitare, da questo punto di vista, un’attrazione magica. Una tecnica può sostituire I’atto sessuale e, in cibernetica, la procreazione mancata. Il tecnico vorrà costruire il figlio come un homunculus nell’inconsapevole desiderio di sostituire agli uomini le macchine. L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
* Enzo Paci, Diario fenomenologico, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 95-97.
IL "TRUCCO" DI SAN PAOLO. “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1 Co 11,1):
di Raymond Gravel
in “www.lesreflexionsderaymondgravel.org” del 20 ottobre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
XXX Domenica del tempo ordinario A: Esodo 22, 20-26; Matteo 22, 34-40.
Dopo una prima controversia con i farisei a proposito dell’imposta dovuta all’imperatore di domenica scorsa, eccone un’altra con uno dei farisei, un dottore della legge, a proposito del grande comandamento della Legge, non un comandamento tra i 613 (248 prescrizioni e 365 proibizioni), che dovrebbe essere considerato più importante degli altri, ma un comandamento che riassuma tutti gli altri. Non ci sono 36 comandamenti, risponde Gesù al dottoere della legge, ce n’è uno solo, quello dell’Amore, ma che ha due destinatari: Dio e il prossimo. Non l’uno senza l’altro. Tutti e due insieme... Cosa vuol dire?
1. L’Amore: una sorgente e due fiumi. Il teologo francese Patrick Jacquemont scrive: “La Parola di Dio acquista tutto il suo senso: amerai il Signore Dio tuo... amerai il prossimo tuo. Il secondo comandamento è simile al primo, ma non c’è un solo amore. C’è una sorgente unica, e due fiumi differenti”. È perché ci si sa amati da Dio che possiamo amarlo... ma possiamo amarlo solo amando l’altro, gli altri. È l’essenza dell’amore che fa sì che si ami. Non per niente, san Giovanni nella prima lettera dirà: “Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). In fondo, ciò che san Giovanni vuol dire, è che amare Dio significa partecipare del suo amore, amando gli altri. Quindi, amando gli altri, si ama Dio.
Alla domanda del dottore della Legge: “Maestro, nella Legge, qual è il più grande dei comandamenti?” (Mt 22,36), cioè il comandamento nel quale sono compresi tutti gli altri? Gesù, che è lui stesso principio di unità, dà la risposta. Riunisce le due parti della Legge, i comandamenti riguardanti l’amore di Dio e quelli riguardanti l’amore del prossimo; li fonde ed unifica la loro espressione, che formula in termini identici, presi dalle Scritture: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5), e “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lev 19,18b). Si tratta di un amore senza restrizioni, che impegna tutta la persona, cuore, anima e mente.
2. L’Amore cristiano: due principi di unità. Unificando l’amore di Dio e del prossimo, il Cristo del Vangelo ci dà due principi di unità:
1) La parabola del giudizio universale (Mt 25,31-46). Cristo si identifica con il prossimo: “Ciò che avete fatto ad uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). E più di così: si identifica con i suoi fratelli, con i cristiani che sono poveri, sprovvisti di tutto, emarginati, perché le loro situazioni di povertà danno l’occasione agli altri, ai non cristiani di incontrare Cristo e di riconoscerlo.
Già nell’Antico Testamento, il Dio dell’Alleanza aveva un debole per i poveri. Nel brano del libro dell’Esodo che abbiamo oggi, i poveri sono l’immigrato, in ebreo ger, cioè lo straniero residente, quel gruppo di persone che aveva uno statuto sociale intermediario tra i cittadini israeliti e gli schiavi. Quelle persone non potevano possedere terre; dovevano solamente offrire il loro servizio agli altri. Erano quindi economicamente deboli: “Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Es 22,20). La vedova e l’orfano sono un’altra categoria di deboli nelle società ebrea di allora; senza risorse, vivevano spesso in miseria: “Non maltratterai la vedova e l’orfano” (Es 22, 21). E che cosa fare per non sfruttare i poveri? Prestare loro del denaro senza interessi e lasciare loro la loro dignità: “Se prendi in pegno il mantello del tuoprossimo, glielo renderai al tramonto del sole” (Es. 22,25).
2) “Seguitemi” (Mt 4,19). La legge dell’amore di Cristo non si riduce ad un codice o a un registro; è Gesù stesso che è la nostra legge, una legge viva, una persona con cui siamo in comunione, il cui Spirito ci abita e di cui noi siamo il corpo. Cosa che san Paolo traduce così: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1 Co 11,1). Come cristiani, siamo dei cristi viventi, ed è a questo titolo che dobbiamo amare come lui.
Allora, se attualizzo la Parola oggi, le leggi, i precetti della religione, non possono applicarsi che in riferimento alla Legge dell’Amore proposta dal Cristo del Vangelo. Dipende dalla nostra fedeltà a Cristo il fatto che l’Amore sia l’essenziale, non solo nella nostra relazione con Dio, ma soprattutto nella nostra relazione con gli altri; altrimenti, anche l’amore di Dio è impossibile. E il prossimo, non sono solo le persone che la pensano come noi e che ci sono vicine; sono anche e soprattutto coloro che sono diversi da noi e talvolta anche difficili da amare.
Terminando, vorrei leggervi questa breve riflessione del francese Éric Julien: “Perché è così difficile amare Dio? Perché questo vuol dire amare il prossimo. E perché è così difficile amare il prossimo? Perché bisogna amarlo come se stessi, e pochissime persone sanno amarsi al loro giusto valore. E come si fa per amare se stessi? Si cerca di guardarsi come ci guarda Cristo. Con rispetto, tenerezza e... pazienza infiniti”.
Quando Martini parlò di accidia politica
di Aldo Maria Valli (Vino Nuovo: http://www.vinonuovo.it/, del 5 marzo 2011)
La vicenda Rubygate e dintorni quale sfida comporta per chi partecipa alla politica secondo un’ispirazione cristiana? Ho pensato di poter dare un contributo rifacendomi a una pagina del cardinale Carlo Maria Martini che risale al 1999. Era la vigilia della festa di sant’Ambrogio e quel giorno, nel tradizionale discorso alla città di Milano (intitolato Coraggio, sono io, non abbiate paura!) l’arcivescovo parlò dell’accidia politica, o pubblica accidia, definendola come l’esatto contrario di quella che la tradizione classica greca e il Nuovo testamento chiamano parresìa, ovvero la libertà di chiamare le cose con il loro nome. "Si tratta - disse il cardinale - di una neutralità appiattita, della paura di valutare oggettivamente le proposte secondo criteri etici, che ha quale conseguenza un decadimento della sapienzialità politica".
Ecco qua spiegato, in poche righe, un fenomeno al quale abbiamo assistito con grande dolore in questi anni. Da parte di molti, di troppi, dentro la Chiesa c’è stata una mancanza di parresìa. Chierici e laici, politici e intellettuali troppo spesso, pur fregiandosi con ostentazione dell’etichetta di cattolici, sono caduti nell’accidia politica, arrivando a coprire, giustificare, relativizzare. L’espressione più clamorosa sta nello sciagurato commento di monsignor Fisichella alla bestemmia pronunciata da Berlusconi, quando l’alto esponente vaticano invitò a "contestualizzare". Su questa strada si perde tutto: credibilità, profezia, testimonianza.
"Normalmente - diceva il cardinale Martini in quel discorso di dodici anni fa - lo scadimento etico della politica, in un corpo sano, dovrebbe essere rilevato e punito da un calo di consenso". Già: normalmente. Se da noi questo non è avvenuto vuol dire che il corpo non era, e non è, sano. Aristotele diceva che il male è destinato a distruggersi da sé, ma oggi non sembra più così. Perché? E’ questo il terreno sul quale i credenti (preferisco usare questa espressione rispetto a quella, troppo abusata e strumentalizzata, di "cattolici") devono interrogarsi seriamente.
Martini già nel 1999 dava una risposta. Sosteneva che se il degrado etico della politica non viene chiamato con il suo nome e "punito consequenzialmente" (diceva proprio così: punito) ciò avviene a causa della mancanza di un’opinione pubblica degna di questo nome. Laddove questa opinione, questa capacità di elaborazione critica dei dati politici, è debole o non esiste quasi più, la politica è svincolata da ogni limite. Se al posto di una sana opinione pubblica, capace di esprimere una "resistenza condivisa e critica", la politica trova davanti a sé solo individui, ognuno mosso da interessi particolari, il gioco è fatto: il male può dilagare.
Ecco l’operazione tentata dal berlusconismo: far morire l’opinione pubblica riducendola a massa formata da individui ispirati soltanto da un tornaconto personale. Ed ecco perché il berlusconismo non può tollerare le manifestazioni come quella del 13 febbraio: quel mare di donne, ma anche di uomini, è per il berlusconismo il pericolo mortale, la dimostrazione che, per quanto ci abbia provato a lungo e tenacemente, il mondo di plastica del Silvio’s show non ha ancora soppresso e sostituito del tutto il mondo vero.
Martini diceva che il livello d’allarme lo si raggiunge quando "lo scadimento etico della politica non è neppure più percepito come dannoso per la polis". Diciamo che il berlusconismo è arrivato a un soffio (stavo per dire un pelo, absit iniuria verbis) da questo traguardo: riuscire a non far percepire più il male come tale. Non c’è riuscito, c’è ancora un margine di manovra, ed è su questo che occorre lavorare.
Cito ancora Martini, veramente profetico: "Non dovremmo più aspettare decadenze dolorose peraprire gli occhi". Ma i credenti dove sono? Che cosa fanno? Come reagiscono? Il cardinale invitava a invocare lo Spirito (che per i credenti è l’aiuto, il difensore, l’avvocato, il rappresentante della giustizia). Bisogna invocarlo "perché guidi a mettere le ragioni del consenso al di sopra dell’ansia del consenso", è perché, là dove lo scoraggiamento si fa strada "scatti un sussulto di profezia pieno di speranza, che faccia aprire gli occhi a quella visione di futuro che in linguaggio filosofico si può chiamare utopia". E’ un vero parlare da pastore che guida il suo gregge. E trovo bellissimo il riferimento all’utopia, la meta che va considerata non come irraggiungibile ma come stimolo continuo.
Ma state a sentire che cosa aggiungeva il cardinale. I cattolici, diceva, vanno spesso incontro a un grande rischio, quello di lasciarsi adulare. Lo spiegava già sant’Ambrogio: "Dobbiamo stare attenti a non prestare ascolto a chi ci vuole adulare, perché lasciarsi snervare dall’adulazione non solo non è prova di fortezza, ma anzi di ignavia". Non è formidabile? Noi sappiamo come Dante sistemò gli ignavi. Poiché in vita non agirono mai in base al principio di bene e di male, limitandosi ad adeguarsi alle convenienze, il poeta li piazza nell’antinferno, una specie di non luogo che non è paradiso, non è purgatorio e non è nemmeno inferno, qualcosa di neutro e incolore, come neutri e incolori furono loro in vita, incapaci di parlare chiaramente e di prendere posizione. Ecco, dice Martini, quando ci viene detto che la posizione dei cattolici in politica deve essere ispirata alla moderazione, io sento puzza di ignavia. E’ vero, c’è certamente una moderazione buona, che si esprime nel rispetto dell’avversario, ma (sentite bene!) "l’elogio della moderazione cattolica, se connesso con la pretesa che essa costituisca solo e sempre la gamba moderata degli schieramenti, diventa una delle adulazioni di cui parlava Ambrogio, mediante la quale coloro che sono interessati all’accidia e ignavia di un gruppo, lo spingono al sonno".
Mi sembra che ce ne sia a sufficienza per riflettere e discutere. Ma non prima di aver aggiunto che Martini, in quello scritto, esortava i credenti a essere non moderati, ma audaci. Rappresentanti di "una socialità avanzata che non scollega mai la libertà dalla responsabilità verso l’altro". Meditate gente, meditate!
Il consumismo offende il senso del Natale. No a ipocrisie e false promesse di felicità
di Carlo Maria Martini (Corriere della Sera, 23.12.2010)
Eminenza sono qui a domandarle una riflessione sul significato del Natale, oggi: che valore ha
oggi questa scelta di fronte alle stortura della politica, alla crisi economica, alle violenze
quotidiane, fisiche e psicologiche che i giornali rilanciano in un clima di complessiva angoscia. Le
chiedo una parola di speranza, per i nostri figli soprattutto.
Paolo Verdi, Roma
Vorrei chiederle un messaggio di speranza per questo Natale, per me e per tutte le persone che, pur
frequentando attivamente la Chiesa, si confrontano quotidianamente con la malattia delle persone
care che ci vivono accanto (malate seppur giovani!).
Barbara Niccoli, Roma
Ho come una remora a parlare con Lei del Natale, eminenza carissima: sono credente, ho passato una lunga parte della mia vita in chiesa, sono stato anche volontario. Ho vissuto per mia moglie e per i miei figli, che ora ripagano e mi sono a loro volta vicini. La mia esistenza è un esempio di osservanza, anche altalenante, ma assidua: i peccati ci sono stati, come no, così come gli errori, anche grossolani e i momenti di cedimento. Nel complesso però non mi sento una persona malvagia. Il Natale è il momento più autentico in cui mi viene più facile riflettere, insieme alla mia famiglia, sui mali che mi hanno accompagnato e sui mali del mondo. Mi aiuti. Andrea Filippazzi, Roma
Oggi il Natale ha quasi perduto il suo senso originario. Lo «celebrano» anche uomini di altre religioni. Perfino parecchi non credenti vivono in questo giorno una qualche forma di liturgia profana. Non v’è alcuno che rifiuti per Natale qualche dono o almeno una buona cena. Per questo non parlo volentieri del Natale. Da quando ho conosciuto un po’ meglio la Sacra Scrittura, è la Pasqua che mi attrae e mi pone dinnanzi a un preciso programma di vita.
Benché il Natale sia una splendida manifestazione della gloria di Dio in Cristo e del suo amore per noi, i discorsi che si fanno a partire dal Natale sanno spesso di buonismo e di speranza a buon mercato. Essi sono un segno di poca lealtà con se stessi e con gli altri. Infatti diciamo delle cose che non sono vere e a cui nessuno crede. Ci auguriamo a vicenda lunga vita, felicità, successo, ci facciamo doni che vogliono dire l’affetto che ci portiamo, ma per lo più sappiamo che non è così.
La prima lettera espone bene questo stato di cose. Il Natale fa emergere le storture della politica, la gravissima crisi economica che stiamo attraversando, le violenze quotidiane fisiche e psicologiche. E si potrebbero aggiungere tante altre cose ancora.
Molti uomini e donne attendono in questo giorno qualcosa, un evento o magari una persona che li tiri su, che restituisca loro l’ottimismo ingenuo che hanno irrevocabilmente perduto; qualcosa di nuovo e di grande, che potrebbe farli tornare indietro. Ma questa speranza è fallace, perché si basa solo sulle nostre forze e dimentica lo Spirito di Dio, il solo capace di aiutarci in maniera efficace. Dopo i giorni delle feste tutto ritorna più o meno come prima. È come un dirsi reciprocamente «ce la faremo», pur sapendo tutti che non è vero.
Per vivere bene il Natale e ricavarne quel conforto che è giusto attendersi da questa festa, è necessario sforzarsi di capire ciò che viene detto nei Vangeli. In essi, soprattutto nel Vangelo secondo Luca, emerge un progetto di uomo che vive il dono di Dio nella meraviglia, nella gratitudine e nel distacco. Questo uomo nuovo può essere o un semplice come i pastori o uno studioso come i Magi.
Tutti sono chiamati a partecipare all’esperienza dei pastori a cui fu detto: «Vi annunzio una grande gioia» (Lc 2,10). Chi partecipa di questa gioia, si difenderà da quel pericolo che è il Natale del consumismo, che ci impone di non sfigurare davanti ad amici e parenti concostosi regali. Pur avendo la coscienza che molte famiglie fanno fatica a far quadrare il bilancio del mese, si continua a spendere denaro pubblico e privato nella maniera più folle.
Si tratta di una gioia semplice, intima, che può convivere anche con momenti di sofferenza e di strazio. Il bambino Gesù è l’immagine di questa fiducia e abbandono alla Provvidenza. Qui va ricordata la parola di Gesù: «chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15). Se noi riusciamo ad affidarci alla Provvidenza di Dio, accettiamo ogni cosa con fiducia, perché fa parte del disegno del Padre.
Il Natale guarda alla Pasqua e il presepio contiene allusioni alla morte e risurrezione di Gesù. Esse erano presenti nella riflessione dei Padri. Così, ad esempio, il tema del legno della croce veniva ricordato dalla culla di legno in cui giace Gesù. Le pecore offerte dai pastori ricordano l’agnello immolato. Anche la Madre che si curva sul Figlio ci richiama alla pietà di Maria che tiene tra le braccia il Figlio morto.
La liturgia ambrosiana si esprime così: «L’Altissimo viene tra i piccoli, si china sui poveri e salva». Dunque, il senso del Natale ci riporta al centro della nostra redenzione e ci procura una gioia che non avrà mai fine. Un simile atteggiamento positivo può convivere anche con grandi dolori e penosi distacchi. So bene che questi sentimenti di dolore sono i segni di grandi ferite, che si riaprono soprattutto in questi giorni. Quando si vede a tavola un posto vuoto, riemerge il mistero del Crocefisso con le sue piaghe.
Ci sarebbe ancora da trattare di come il presepio può essere contemplato anche da non credenti e da atei. Io penso che questo fascino derivi dall’atmosfera profondamente umana che in esso si respira. Una umanità che sa guardare anche al lato invisibile della realtà e si compendia nella preghiera «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama» . Buon Natale a tutti!
IL CASO. Si chiama "Anno Zero" e si basa su un famoso
testo teatrale dell’autore francese scritto nel lager: la vita rinasce dalle macerie
Sartre e il Messia: l’altro film sull’Aquila
Alcune scene sono state girate nella Basilica di Collemaggio.
Regista e protagonista è Nilo Vallone: la tragedia del terremoto è rivissuta ridando spazio alla speranza
DALL’AQUILA ANDREINA SIRENA (Avvenire, 11.05.2010)
Il terremoto aquilano sembra ispirare recentemente più di una cinepresa. Mentre sta per affollare le sale Draquila con l’obiettivo puntato sulla classe politica e sul suo presunto ’vampiraggio’ verso i terremotati,
Anno Zero di Milo Vallone affronta la tragedia dell’Aquila da un punto di vista originale e spiritualmente intenso. Il film prende le mosse dal testo teatrale di Sartre, Bariona o figlio del tuono, elaborato durante il periodo di detenzione del filosofo nel campo di concentramento di Treviri nel ’40, durante l’occupazione tedesca della Francia. Scritto sulla spinta di alcuni cattolici prigionieri con lui nel campo, è ritenuto uno dei testi letterari più alti sulla Natività. Attraverso la storia di Bariona, il regista abruzzese ha voluto analizzare la fenomenologia della catastrofe nell’animo umano.
Bethaur è un misero villaggio della Giudea, vicino Betlemme. Il governo romano ha appena deciso di aumentare le imposte a sedici dracme segnandone la definitiva rovina. Bariona, capo di questa esigua comunità, esasperato dalle richieste del governo oppressore, invita il popolo all’autoestinzione attraverso la sterilità, imponendo l’aborto persino a sua moglie. Mettere al mondo bambini vorrebbe dire infatti perpetuare schiavitù per il nemico politico.
Nella pellicola Bariona (interpretato magistralmente dallo stesso Milo Vallone) inasprisce il proprio dolore tramutandolo in odio e rimorso. Ieratico e inflessibile nel suo scetticismo, tradisce uno sguardo pieno di un mistero che non vede risposta, come chi custodisce una verità che fatica a tornare a galla.
Siamo nell’anno zero, il giorno prima della nascita di Cristo. Accanto al villaggio sta per accadere qualcosa che cambierà il corso della storia. Una scena raccoglie alcuni pastori attorno al fuoco che raccontano di strani odori nell’aria. Odori di germogli come un’imminente celebrazione di primavera. E’ il sentore di una rinascita in pieno inverno. Mentre si attende la fine giurando di non procreare, un avvenimento è nell’aria ma, ostinatamente, Bariona sceglie di non riconoscerne i segni. Non chiederà grazia, non si piegherà, la sua dignità andrà a convergere nell’odio perché «contro un uomo libero Dio non può nulla» e «il Messia non verrà mai poichè la vita è una caduta interminabile dove precipitiamo in un’infame vecchiezza».
Ma il film, pertinente al testo, non suggella il trionfo di questo stato d’animo e dice a tutti che una rinascita è possibile. L’incontro col re magio Baldassarre e lo sguardo di Giuseppe verso suo figlio apriranno il cuore di Bariona ad un’insolita opzione fino a portarlo al sacrificio di se stesso in nome di una promessa più grande della rivolta. Un tortuoso cammino interiore conduce dunque il protagonista da un’ostinata negazione di un senso alla domanda sulla speranza, fino all’inaspettato miracolo della fede, lasciato coincidere col giorno della nascita di Cristo. La minaccia della distruzione fisica e morale non diventa vittimismo, non sfocia nella rivolta o nella rassegnazione.
Il prologo e l’epilogo della pellicola, affidati ad Edoardo Siravo, sono stati girati nella Basilica di Collemaggio, nel capoluogo abruzzese. La fede non a caso risorge tra le rovine e le macerie di un popolo, a ricordare che l’uomo non è la sua sofferenza e la sua dignità non consiste nella disperazione. Milo Vallone, ispirato dal testo di Sartre, decide di non attardarsi sul terrore e sull’odio che una catastrofe porta con sé. Lascia alle spalle le rivendicazioni politiche per assegnare un senso più alto alle vicende umane. La vicinanza ossessiva della macchina da presa sui piedi scalzi e sugli sguardi rivela la volontà di un procedere nel cammino, di un monito a non fermarsi. Il gran teatro del mondo ferito da una catastrofe così immane diviene così luogo in cui riflettere sull’uomo e concedere l’infrazione alla speranza.
Il film del regista abruzzese, in bianco e nero, ricorda il cinema nordico di Dreyer (la disperazione della morte e l’inaspettato miracolo di Ordet ). C’è dentro l’angoscia kafkiana e l’alienazione dell’individuo tanto cara a Bergman, con una certa fissità ed espressività di sguardo che evocano invece il Vangelo pasoliniano. I volti (sia quelli delle comparse popolari che degli attori professionisti abruzzesi) sono convincenti. La bellezza è quella degli occhi e dei segni e non delle chirurgie estetiche. Il budget scarno e l’apparente semplicità di ripresa vanno a favore della forza evocativa del testo e della grandezza del contenuto. Il film, che uscirà a breve in dvd, sta girando in Italia con una distribuzione non convenzionale, in una sorta di tournée presentata del regista stesso.
Claudio Napoleoni e la “produzione di uomini”
Autore: Ravaioli, Carla
Una relazione svolta in un seminario sul pensiero di Claudio Napoleoni, a vent’anni dalla sua morte, organizzato dalla Fondazione della Camera dei Deputati, Roma 27 ottobre 2009 *
Engels ne “L’origine della famiglia” distingueva tra “la produzione delle merci e la produzione degli uomini”, che pure vedeva strettamente contigue. In più di un secolo e mezzo di vistosissima trasformazione del mondo, anche i parametri di lettura e di analisi della realtà sociale sono andati diversificandosi, specializzandosi, separandosi. Oggi è la produzione delle merci (nella complessità delle sue problematiche specifiche, e soprattutto nella sua funzione primaria all’interno del sistema capitalistico) l’oggetto centrale della scienza economica. Mentre “la produzione degli uomini” se n’è andata via via distaccando, dando luogo alla nascita di una vasta serie di nuove discipline, sociali, antropologiche, psicologiche, comportamentali, ecc., alcune impostesi come capitoli determinanti della cultura contemporanea.
Questo non ha però impedito all’economia (proprio in quanto produzione di merci) di collocarsi al centro non solo dell’interesse politico ma dell’esistere umano nella sua totalità: da un lato come indiscusso “valore” prioritario, costante termine di riferimento e misura di giudizio dell’agire collettivo, dall’altro come formidabile produttrice di modelli, comportamenti, scelte individuali e di gruppo, di progetti di vita. In sostanza non solo determinando il netto prevalere della “produzione delle merci” sulla “produzione degli uomini”, ma tendenzialmente inducendo l’assimilazione o il divoramento e la cancellazione di questa da parte dell’altra.
Claudio Napoleoni è stato un grande economista, come tale riconosciuto e largamente apprezzato, e però nei confronti della centralità dell’economico rispetto a ogni altro momento dell’umano ha sovente espresso dissenso, mentre nel suo riflettere mai perdeva di vista quella dimensione dell’esistere che Engels appunto indicava come “produzione degli uomini”, e che la moderna sociologia definisce “riproduzione”. Anzi in qualche misura mostrava di privilegiarla, come ambito cui non solo appartiene in tutte le sue forme la continuità vitale della specie, ma in cui trovano spazio i rapporti più ricchi, le passioni più profonde, le libertà totali; in cui si esprime insomma al suo massimo, in positivo e in negativo, la qualità umana.
In questo senso va letto questo titolo un po’ criptico del mio intervento, cui sono stata cortesemente invitata, e che intendeva richiamarsi a un momento di confronto attivo tra Claudio e me, cioè a un dialogo, apparso nell’88, in appendice alla seconda edizione di un mio libro di due anni prima: titolo “Tempo da vendere - Tempo da usare”, sottotitolo “Produzione e riproduzione nella società microelettronica”. Un lavoro che nasceva come critica della storica divisione del lavoro tra uomini e donne, ancora oggi in larga misura perdurante, benché sempre più le donne siano partecipi anche del lavoro di mercato; ma si impegnava poi nell’analisi della diversa qualità del tempo impiegato nelle due distinte funzioni: tempo di lavoro, il primo, cioè pezzi di vita “venduti” a un imprenditore contro un determinato compenso; il secondo, tempo “usato” in un vastissimo arco di impegni, attività, rapporti, che travalicano l’ambito familiare, fino a coincidere di fatto con la vita. Tutto il discorso era sostanzialmente improntato a un giudizio duramente critico di una razionalità sociale, che con la produzione e il mercato sempre più tende a coincidere e identificarsi.
Il libro in questione era piaciuto molto a Claudio, che me ne aveva scritto in una lettera assai più significativa di un formale ringraziamento per l’omaggio, e nella quale già andava abbozzando un possibile approfondimento di alcuni momenti della materia affrontata. Subito infatti, quando glie lo proposi, accettò di commentare e sviluppare i contenuti del mio lavoro, in appendice a una seconda edizione. E lo fece, senza riserve usando quella sua straordinaria capacità di muoversi tra l‘osservazione della più modesta ferialità quotidiana e l’azzardo di ipotesi decisamente utopiche, individuando tra le due dimensioni una stretta reciprocità di senso, e perfino di utilità fattuale: usando la prima come difesa dal rischio della speculazione astratta e la seconda come spinta al superamento di una politica sempre più pigra e casuale, priva di obiettivi capaci di oltrepassare il contingente, come quella che ormai apparteneva alle sinistre.
In questa chiave non solo approvò con entusiasmo la proposta che avanzavo nel libro, di recupero dell’idea di una riduzione forte e generalizzata degli orari di lavoro; e non solo riconobbe la possibilità di giungere a questo modo a un’equa distribuzione del lavoro, sia produttivo che riproduttivo, tra uomo e donna (ciò che giudicava come una prospettiva di grande arricchimento per ambedue), ma a lungo si soffermò a considerare un altro aspetto del problema che io proponevo: lo scarsissimo utilizzo del progresso da parte delle sinistre.
In effetti, via via che il prodigioso cammino compiuto da scienza e tecnologia evidenziava la possibilità di sostituire in misura crescente il lavoro umano con le macchine, quando dunque il lungo sogno di liberazione dal lavoro alienato appariva ormai un obiettivo concreto, i movimenti operai non hanno saputo vedere e usare a proprio favore la portata rivoluzionaria del momento: di fatto regalando i frutti del progresso al capitalismo. Il quale, in piena coerenza con la propria logica, lo ha usato soltanto per aumentare il prodotto: ignorando gran parte delle possibilità insite nella rivoluzione microelettronica, avviando quel processo di produttivismo perseguito ad ogni costo, di mitizzazione del Pil, di quasi “sacralizzazione” della crescita, cui anche i ceti popolari e operai furono via via conquistati, subornati dalla pubblicità e sedotti dal consumismo. Posizioni rimaste d’altronde immutate anche quando i vantaggi di questo processo non apparvero più così scontati; e mentre il Pil poco o tanto continuava ad aumentare, l’occupazione si faceva via via più problematica, e il precariato andava affermandosi in tutto il mondo come strumento privilegiato di prosperità aziendale.
La paura della disoccupazione tecnologica è stata certo la causa prima di questi comportamenti. E però, notava Claudio, c’è anche altro. C’è “il ruolo che le sinistre hanno storicamente attribuito al lavoro, in ciò conformando la propria cultura alla cultura classica borghese in modo decisamente subalterno: indicando nel lavoro - non importa quale - il fondamento non solo della vita individuale, ma della vita associata, e quindi della società intera, e quindi della politica “. Claudio insiste su questo aspetto: “Nella tradizione teorica del movimento operaio non c’è una rottura con l’ideologia borghese del lavoro”, dice; e parla di “una sorta di complesso di inferiorità delle sinistre nei confronti di quelle che vengono chiamate le leggi economiche”.
Dura e per lui dolorosa severità di giudizio, che però non gli impediva di credere alla possibilità di uno scatto capace di allargare gli orizzonti di una politica senza respiro, e intravedere i traguardi di una profonda trasformazione. Tra questi appunto un forte taglio del lavoro non automatizzabile (ad esempio una settimana di trenta ore) gli pareva non solo il primo da mettere in campo, ma quello più capace di conseguenze addirittura rivoluzionarie, su molti versanti.
Ne seguirebbe innanzitutto (conveniva con me) non solo la possibilità di un uso diverso, liberamente scelto, del proprio tempo, ma la definizione di una diversa qualità del tempo. Sottrarre cospicue porzioni del nostro tempo al mercato, all’obbligo dell’efficienza e della produttività, ai meccanismi della concorrenza, a rapporti per loro natura violenti, significherebbe la possibilità di costruire la giornata - e dunque la vita - secondo ritmi più distesi, pause cariche di senso, momenti di ricchezza psicologica e mentale altamente gratificanti, nella totale assenza di traguardi “utili” secondo la convenzione.
E in tutto ciò - insisteva - avrebbe certo un’influenza decisiva il superamento dell’attuale divisione del lavoro tra i sessi, che la riduzione degli orari grandemente aiuterebbe. Al di là della fine dell’intollerabile sfruttamento del lavoro familiare ancora interamente scaricato sulle donne, l’aumento e la maggior qualificazione della presenza femminile nel mercato del lavoro, e quindi di quella dimensione psicologica mentale temperamentale che storia e cultura hanno identificato con il “femminile”, potrebbero segnare un mutamento decisivo in un mondo nato e sviluppatosi secondo modelli della più rigida convenzione maschile. Quella cesura tra produzione e riproduzione, che certo ha radici antiche e storia assai più lunga di quella del capitale, ma che indubbiamente la società industriale capitalistica ha radicalizzato e in qualche modo istituzionalizzato, potrebbe trovare superamento in quell’approccio cui Claudio alludeva parlando della capacità di “appropriarci della realtà come di un tutto”, e che avrebbe voluto alla base della politica delle sinistre; desiderio, ahimé, dalle loro scelte sistematicamente deluso.
In perfetta coerenza con questo impianto del suo ragionamento, sempre rapportandosi all’ipotesi di riduzione del lavoro, e dunque di abbandono del produttivismo imperante, Claudio faceva riferimento anche alla crisi ecologica planetaria, di cui lucidamente già allora (cioè più di ventidue anni fa) valutava la minaccia. Merita riportare per intero le sue parole: “E’ dimostrato che la crescita indefinita di beni materiali da un lato incontrerebbe limiti invalicabili nella esauribilità delle risorse naturali, dall’altro comporterebbe crescenti costi ambientali: l’inquinamento dell’aria e delle acque, la distruzione dei suoli, il dissesto degli assetti urbani, i fenomeni di congestione e così via, già oggi pervenuti a livelli intollerabili. E’ qui infatti, nella drammaticità del problema ambientale, che i limiti sociali dello sviluppo si manifestano nel modo più evidente”. Una diagnosi dell’insensatezza del modello produttivo oggi invalso nel mondo, che dovrebbe far seriamente riflettere economisti, imprenditori e politici, che - quasi tutti - soltanto rilancio della produttività, ripresa della crescita, aumento del Pil, sanno pensare come cura del pianeta, proprio a causa dell’iperproduttivismo gravemente malato.
Utopia, era la critica spesso rivolta a Napoleoni, anche da parte di suoi grandi estimatori. Lui ne era pochissimo impressionato, e affermava convinto: “Posti a un livello minore, i problemi non hanno risposta”.
E Lévinas in prigione divenne filosofo
Escono i «Taccuini della cattività» del pensatore lituano di origine ebraica: mentre per il suo popolo si spalanca il baratro della Shoah, l’intellettuale pur in carcere intuisce gli abissi di luce della Scrittura. Ma legge anche Bloy, Proust, Tolstoj... E soprattutto si convince: non sarà un romanziere, bensì un teorico.
DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ (Avvenire, 29.10.2009)
E’ mai possibile dentro un’umida cella perduta in mezzo alla follia della guerra scoprire la profondità infinita del Volto? Nel caso di Emmanuel Lévinas, il grande filosofo di origine lituana e francese d’adozione, è proprio quello che potrebbe essere accaduto a partire dal giugno 1940. A fornire una prova a tratti eloquente di quest’ipotesi affascinante è la pubblicazione postuma dei taccuini del pensatore ebraico durante la prigionia.
Un autentico evento letterario, curato dal filosofo cattolico Jean-Luc Marion, con cui l’editore Grasset ha voluto inaugurare l’edizione dell’opera omnia del filosofo scomparso 14 anni fa. In quel tragico 1940, Lévinas ha 34 anni e non è più un semplice immigrato lituano, dato che Parigi gli ha appena concesso la naturalizzazione.
Con la sua prima opera pubblicata in Francia un decennio prima, Lévinas si era già fatto conoscere interpretando il pensiero di Husserl e Heidegger. Al punto che il libro venne consigliato da Raymond Aron a un certo giovane Jean-Paul Sartre. Ma, per quanto brillante, si trattava ancora di un’interpretazione della fenomenologia tedesca, più che di una filosofia autenticamente originale.
Poi verranno i 4 anni della prigionia ad Hannover, in Germania, dopo l’arresto a Rennes nel giugno 1940. Lévinas scompare dalla vita dei propri cari, presto inghiottiti in gran numero nel pozzo senza fondo della Shoah.
Ma laddove si sarebbe dovuta accentuare solo la disperazione, la sua vita prende invece una piega imprevedibile. Le condizioni di prigionia sono ben più che spartane. Però gli è consentito di leggere e scrivere. E fra una pagina letta e la seguente, le annotazioni che Lévinas comincia a consegnare in modo sempre più parossistico al proprio taccuino diventano il sismografo impressionante di uno sguardo filosofico che si allunga in fretta. Di un’anima che cresce soprattutto al contatto con il senso magmatico dell’Alleanza.
Finora molti interpreti di Lévinas si erano accorti che mancava almeno un tassello nella ricostruzione della genesi di un pensiero tanto fecondo, riversatosi negli anni della maturità in opere come Totalità e infinito. E adesso, la lettura completa dei Taccuini della cattività (pp. 512, euro 25) offre spesso l’impressione della scoperta di quella tessera mancante.
Nel 1966 Lévinas evocherà pubblicamente il senso acuto e lancinante dell’«ingiustificato privilegio di esser sopravvissuto a 6 milioni di morti». Ma quella riflessione prende proprio oggi un senso incomparabilmente più preciso. Perché gli anni della guerra furono appunto per il pensatore quelli di uno spaventoso iato: mentre «fuori« si spalancava per il popolo ebreo l’abisso inesorabile del genocidio, fra le mura della prigionia l’intellettuale scopriva gli abissi di luce delle proprie origini ebraiche. E risale probabilmente proprio agli anni di questo iato struggente, quella sensibilità per l’«incommensurabile » così acuta poi in tutta la futura produzione levinasiana.
Fra gli aspetti più sorprendenti rivelati dagli inediti vi sono anche le esitazioni interiori dell’intellettuale, a lungo convinto di aver trovato nella letteratura la propria vocazione più autentica, ma poi uscito dal carcere definitivamente filosofo. Come se l’invenzione narrativa non si addicesse più per lui a un mondo il cui volto era stato tanto sfigurato dagli orrori della guerra.
Come se, dietro quel volto sfigurato, occorresse definitivamente impegnarsi a ricercare di nuovo in fretta il Volto; quello più intimo e autentico della creatura come riflesso possibile di quello del Creatore. Negli anni del carcere, la progressiva evaporazione dell’iniziale vocazione letteraria maturò paradossalmente di lettura in lettura. Le Sacre Scritture gli permettono di assaporare fino al midollo «il sapore biblico dell’elezione ».
Ma a spalancargli l’anima è anche la scoperta febbrile del cristiano Léon Bloy, accanto a Proust o a grandi classici ottocenteschi come Anna Karenina, che susciterà in Lévinas riflessioni talora tanto fulminee da essere poi trascritte in frammenti enigmatici come questo: «Percepire l’animalità in ogni cosa. L’inautenticità, la menzogna, il favoreggiamento».
Altre volte, è il contesto del carcere, vissuto per lo più accanto ad altri prigionieri di origine ebraica, a tradursi in impressioni sconcertanti all’insegna del paradosso: «La mano sacrilega del carceriere poteva perquisire fin dentro le vostre lettere e come penetrare nell’intimità dei vostri ricordi. Ma abbiamo scoperto che di ciò non si moriva. Abbiamo appreso la differenza fra avere ed essere. Abbiamo appreso quante poche cose e poco spazio occorra per vivere. Abbiamo appreso la libertà».
Poi, un giorno, ai prigionieri giunge la notizia della Liberazione. E per un Lévinas ormai come «trasfigurato» quelle ore rappresentano un’esperienza mistica, oltre che storica. Scrive il filosofo che è il momento in cui «le preghiere della sera prendevano un altro senso.
Dopo tanti giri, esse raggiungevano il loro senso letterale. Sì, Dio ha amato Israele di un amore eterno ». E per sempre, una volta «fuori» dalle mura paradossalmente protettrici della prigione, Lévinas conserverà il ricordo di «questi istanti di meraviglia incomunicabile davanti alla verità di un testo al quale, in un solo slancio, l’Universo intero ha appena apportato conferma».
intervista
Nancy: non fu un «buonista» E nemmeno un sognatore
Sui «Carnets de captivité» di Emmanuel Lévinas uscirà prossimamente sulla rivista «Humanitas » (Morcelliana) un’intervista a Jean-Luc Nancy. Ne proponiamo uno stralcio.
DI FRANCESCA NODARI (Avvenire, 29.10.2009)
Jean-Luc Nancy è uno dei massimi pensatori viventi. Tra le sue numerose opere tradotte in italiano La comunità impersonale (Cronopio, 1992), Il mito nazi (Il melangolo, 1992), Essere singolare plurale (Einaudi, 2001), Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo (Bollati Boringhieri, 2005), Indizi sul corpo (Ananke, 2009).
Professor Nancy, come si articola questo libro che esce a 14 anni dalla morte di Lévinas?
«Il libro si compone di ’Quaderni’ scritti da Lévinas durante la guerra, soprattutto durante la prigionia, e di un insieme di note e testi brevi del periodo immediatamente successivo. Contiene insieme tutto ciò che è legato alla guerra e quel che in quel periodo costituisce il cantiere filosofico di Lévinas».
In quale senso già nel diario di guerra si possono individuare «in nuce» i grandi temi della filosofia di pensatore ebreo lituano?
«Nei Quaderni si trova in modo molto evidente la forma aurorale dei più grandi temi: l’insufficienza dell’essere e la necessità dell’altro; l’affermazione che la filosofia resta monologica quando si deve instaurare un dialogo vero; la messa in questione della sufficienza del ’sé’ ; l’affermazione cardinale dell’infinito. Si vede parimenti l’importanza dell’eros - parola che era anche il titolo di un progetto di romanzo che Lévinas tentò di scrivere in quel periodo. Uno degli aspetti più sorprendenti dei Quaderni è, in effetti, un interesse molto grande per la letteratura - con numerosi riferimenti - e il desiderio di scrivere un romanzo con la messa in scena di temi filosofici».
Quale ruolo gioca nel dibattito contemporaneo la responsabilità assunta fino alla sostituzione, allo strapparsi il tozzo di pane dalla propria bocca, al «farsi ostaggio dell’Altro» cui Lévinas continuamente richiama?
«La dimensione molto forte, anche provocatrice - grazie alla parola ’ostaggio’ - introdotta da Lévinas ha aperto una dissimmetria essenziale: non è più possibile pensare né un ’soggetto’ e (dopo il ’riconoscimento’) un altro, né più soggetti, ma si di deve pensare un’incommensurabilità di principio tra l’’io’ e l’’altro’ - gli altri, quindi, come dico io. Ma il rischio che si corre sulla scia di questo pensiero presso i ’lévinasiani’ (come sempre accade quando si dà una specie di dottrina), è un distorcimento che considera anzitutto i valori oblativi, sacrificali, generosi e che conduce inavvertitamente a un moralismo dell’altruismo. Lévinas è molto più profondo, e lo è malgrado se stesso o malgrado la lettera dei suoi testi. Non si tratta di far passare l’altro davanti a me né di offrirmi al suo posto, ma di comprendere che la vera costituzione di un ’io’ passa per questa alterazione: addirittura un’alienazione in, attraverso e per gli altri. Si potrebbe dire - questo lo farebbe protestare! - che è un radicalizzazione di Hegel: un ’per sé’ si costituisce solo fuoriuscendo dal suo ’in sé’ ed essendo ’per/e attraverso l’altro’. Quel che dovrebbe essere preponderante, nel pensiero contemporaneo, non è ripetere una morale altruista, generosa, eccetera. Si tratta di comprendere che l’io - o la persona, perfino l’individuo -, la singolarità di un’esistenza non si genera che attraverso il ’fuori’ interminabile delle alterità. Non si tratta, ad esempio, di raccomandare l’accoglienza degli stranieri: si deve pensare che l’estraneità è dappertutto, che la mondializzazione porta a una potenza molto elevata questo mescolamento permanente e polimorfo dell’estraneo e del proprio - e che noi andiamo verso un tempo in cui queste nozioni stesse verranno ridefinite, trasformate. Non è moralmente che noi abbiamo bisogno degli altri: è ontologicamente».
Quali ricordi conserva di Lévinas, quali incontri o conversazioni le sono più cari?
«Non vi sono stati molti incontri, ma sono stati ogni volta molto vivaci, molto calorosi. Non ricordo tutto, ma non posso dimenticarmi del suo bel umore amichevole, tranquillo, e sorridente nel condividere un pasto quando temevo di non ricordare qualche osservanza della kasherut (cosa che non dovrebbe certo essere rivelata!). Mi ricordo anche di una conversazione durante un viaggio in macchina (con sua moglie) ove parlammo di Derrida e della rimarchevole forza dei suoi primi scritti. Ho ancora il ricordo molto divertente di un colloquio sulla psicoanalisi, quando parlava del sogno per dire che l’approccio freudiano gli restava estraneo ed evocare altri modi di accostarsi al sogno, come nella Bibbia. In seguito, in un corridoio, mi rivelò: ’Veramente il sogno mi tocca molto poco’. E più tardi nello stesso colloquio Philippe Lacoue-Labarthe ed io presentammo un testo che titolammo: ’Il popolo ebreo non sogna’».
Italiani nei lager: fu vera Resistenza
Anche la storia «ufficiale» ormai concorda: i 600 mila Imi deportati in Germania combatterono una guerra silenziosa e senz’armi ma con effetti militari e politici molto concreti.
Un’antologia Einaudi raccoglie le loro memorie
DI ROBERTO BERETTA (Avvenire, 08.10.2009)
In un italiano un po’ arcaico Imi significherebbe «posti in basso», oppure «di infima condizione». Ed è oggettivamente difficile trovare una sigla più allusiva per significare la condizione degli Internati Militari Italiani : i 650 mila connazionali arrestati dai nazisti dopo l’8 settembre 1943 e deportati nei campi di lavoro in Germania. «Imi» di nome e di fatto: perché sprofondati in quella che, nell’universo concentrazionario hitleriano, potrebbe essere paragonata alla palude degli ignavi, nemmeno degnati - da una parte - della qualifica di prigionieri di guerra (per non farli accedere ai benefici della Convenzione di Ginevra e all’assistenza della Croce Rossa) e - dall’altra, per mezzo secolo dopo la Liberazione - del prestigio di aver partecipato anche loro, col sangue e a pieno titolo, alla Resistenza.
Ma tutt’altro che ignavi essi furono; e anzi, per restare fedeli al giuramento di soldati ma non combattere contro i fratelli di patria, pronunciarono lungo 20 mesi il «no» della dignità a chi voleva riportarli in Italia arruolandoli nelle truppe di Salò. Per fortuna però, da un quindicennio a questa parte (complice un benemerito «revisionismo»), la considerazione di questi «partigiani anomali» sta crescendo, sia nell’opinione pubblica sia nell’interesse degli studiosi. Lo dimostra - tra l’altro - l’antologia ragionata su Gli internati militari italiani che Mario Avagliano e Marco Palmieri hanno appena compilato con «diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945» (Einaudi, pp. 336, euro 20). «Oggi si parla di 4 diverse Resistenze - così lo storico Giorgio Rochat nella prefazione -, senza una graduatoria: la resistenza contro i tedeschi delle forze armate l’8 settembre. Poi la guerra partigiana e la deportazione.
La partecipazione delle forze armate nazionali alla campagna angloamericana in Italia. E infine la resistenza degli Imi nei lager tedeschi». Un chiarimento che suona da definitivo riconoscimento della storia «ufficiale» per il muto sacrificio di quegli uomini, sul quale peraltro (a parte i meritori studi scientifici di ricercatori tedeschi) e nonostante i forse 200 diari di superstiti pubblicati soprattutto dal 1985 in qui, resta molto da lavorare: «Se c’è un capitolo misconosciuto della guerra di liberazione - attaccano infatti gli autori - è la storia degli Imi».
A cominciare dal loro numero: su circa 2 milioni di effettivi dell’esercito nazionale all’8 settembre, i nazisti ne catturarono poco più della metà (58.000 in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani; altri 200.000 riuscirono a fuggire quasi subito). 94.000 - quasi tutte camicie nere - passarono direttamente con Salò. Dunque «al netto» i deportati italiani furono 710.000, più 20.000 considerati invece prigionieri di guerra e mandati sul fronte orientale come lavoratori aggregati all’esercito tedesco. «Entro la primavera 1944 - scrivono Avagliano e Palmieri - 103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la Rsi, come combattenti o come ausiliari lavoratori.
In totale, quindi, tra i 600 e i 650 mila rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi e furono rinchiusi in numerosi campi di prigionia. Soldati e sottufficiali avviati al lavoro coatto; ufficiali fiaccati da mesi di fame e di stenti nei lager». Infatti circa 50.000 non torneranno a casa: 23.300 stroncati da inedia e malattie, 4600 uccisi dai nazisti, 2700 periti sotto i bombardamenti, 10.000 morti per «cause varie» durante il lavoro obbligatorio, altri 5-7000 periti sul fronte orientale.
Un olocausto però non vano, pure in termini strettamente militari: anzitutto il rifiuto degli Imi di farsi nuovamente arruolare «sottrasse alla disponibilità di Hitler e Mussolini oltre 600.000 uomini utilizzabili sui vari fronti», soprattutto in Italia; e se ciò non avrebbe cambiato le sorti del conflitto, però sarebbe stato in grado di allungarne considerevolmente i tempi. Ma poi «la scelta degli Imi ebbe ripercussioni anche sul piano politico italiano, finendo per rappresentare, di fatto, un contributo diretto alla Resistenza nazionale e alla lotta antifascista».
Infatti - «considerato che ogni famiglia aveva almeno un parente o un conoscente internato in Germania» - «la vicenda degli Imi rappresentò per l’opinione pubblica uno dei principali motivi di delegittimazione del governo repubblicano fascista» contribuendo «a creare in patria, direttamente tra la popolazione, terreno fertile o addirittura aperta adesione alla Resistenza». Infine il «no» degli Imi contribuì al «riscatto italiano grazie al quale il Paese nel dopoguerra poté presentarsi tra le nazioni democratiche, vincitrici sul nazifascismo... Gli Imi vennero a contatto con i loro ex nemici e l’intera Europa assistette al loro sacrificio, più duro di quello dei prigionieri di guerra e molto più simile a quello dei deportati politici e razziali». È quanto mai consolante che la storiografia «ufficiale» e militante (i due autori fanno parte dell’Anpi) si spinga a considerazioni tanto esplicite su una Resistenza «altra» rispetto a quella partigiana: «Anche gli Imi combatterono un’altra guerra. Una guerra senz’armi, fatta di resistenza alla fame, al freddo, alle violenze e al lavoro coatto, alla sopraffazione fisica, morale e spirituale». Tra l’altro «il ’no’ all’adesione non era una scelta facile. Non va dimenticato che a quella generazione di italiani era stato insegnato per vent’anni a dire ’sissignore’».
Anche per questo - scrive ancora Rochat - «dinanzi a questa scelta di massa bisogna ritrovare la capacità di stupirsi, anche di scandalizzarsi. Questi 650.000 prigionieri erano degli sconfitti che avevano vissuto il fallimento del regime fascista in cui erano cresciuti, la misera fine delle guerre di Mussolini, lo sfacelo delle forze armate dopo l’8 settembre... Tutti avevano ragione di sentirsi traditi dal re e da Badoglio... Ciò nonostante, una grande maggioranza di questa massa di sbandati preferì la fedeltà alle stellette e la prigionia agli appelli a passare dalla parte di Hitler... Rimane un caso unico la scelta di massa di questi militari italiani... Una scelta per la patria senza maiuscole né aggettivi, la comunità nazionale in cui tutti potevano riconoscersi». Una lezione preziosissima tuttora.
Prigionieri dell’8 settembre
L’odissea dei fedeli senza Stato
La tragica storia dei seicentocinquantamila internati militari italiani che negarono la loro adesione alla Repubblica sociale viene ora ripercorsa in un libro che raccoglie diari, lettere e testimonianze dai lager nazisti. Così tra il 1943 e il ’45 nacque la prima forma di silenziosa resistenza dei traditori traditi
di Franco Marcoaldi (la Repubblica, o6.o9.2009)
«Il cervello è un vulcano di pensieri: la vita, la casa, i tedeschi. La testa mi scoppia. Che fare? Alle 24, invece del cambio, arrivano altri uomini armati. Uno dice: "Altro che pace!" É la guerra di nuovo. Contro i tedeschi, stavolta». Così l’allievo ufficiale Lino Monchieri annota nel proprio diario la sensazione di assoluto smarrimento di fronte al collasso dell’8 settembre, collasso di un esercito e di una intera nazione, a cui farà seguito la cattura e la deportazione nel Terzo Reich di centinaia di migliaia di soldati e ufficiali italiani, la maggior parte dei quali, negando la loro adesione alla Repubblica Sociale, daranno vita alla prima forma di resistenza contro il nazifascismo.
La storia, a lungo rimossa, dei seicentocinquantamila internati militari italiani viene ora ripercorsa in un importante libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, che raccoglie diari e lettere dai lager nazisti nel periodo 1943-1945. E niente come questa grande massa di documenti personali (compreso un capitolo dedicato a chi decide di stare dalla parte dei tedeschi e dei repubblichini), riesce a dar conto di una vicenda storica complessa e tragica, in cui l’umiliazione di un intero popolo si intreccia a una progressiva presa di coscienza individuale e collettiva, a una fedeltà nelle proprie convinzioni pagata molto duramente. E per nulla ricompensata dalla nazione italiana.
Dopo lo sbandamento seguito all’8 settembre, i tedeschi disarmano circa un milione di uomini, «di cui 196.000 fuggono o vengono liberati, 94.000 aderiscono subito, oltre 13.000 muoiono prima di arrivare nei lager e ben 710.000 vengono deportati con lo status di Imi». Dall’Italia, dalla Francia, dai Balcani, cominciano a partire alla volta del Terzo Reich lunghe tradotte dove i militari italiani vengono stipati come bestie, dentro vagoni sigillati: «Cerchiamo di sdraiarci alla meglio», scrive l’allievo ufficiale Giovanni Notte, «ma è impossibile. Sembra che nani maligni si siano divertiti ad allungare i piedi e le gambe. Se allunghi un piede, trovi subito dieci, venti piedi e un buon numero di persone che urlano».
L’impatto con i lager, se possibile, è ancor più terrificante di questa peregrinazione alla cieca nel cuore dell’Europa: l’offesa patita dai carcerieri, ex alleati, risulta da subito insopportabile. Chi è stato tradito dal proprio Stato ora deve, in sovraprezzo, sentirsi definire traditore. Trattato come un "sottouomo" dai suoi aguzzini.
Le condizioni igieniche sono pietose: «Il campo era privo di fogne», ricorda il sottotenente Gastone Petraglia. «L’acqua sporca stagnava lungo rigagnoli scavati nella sabbia e molto vicini alle baracche. Si beveva acqua inquinata e non potabile. Oltre a ciò lo spurgo delle latrine andava a finire nelle vicinanze di quelle pompe infiltrandosi in tal modo nell’acqua». Se a tutto ciò si assommano gli effetti dell’intollerabile freddo di un primo, rigidissimo inverno, ecco spiegato l’immediato dilagare di tubercolosi, dissenteria, malaria, tifo petecchiale.
Ma il nemico numero uno è e sarà per tutto il periodo della prigionia, la fame. Una fame lancinante, onnipresente: un buco nero che niente riesce a placare. La brodaglia quotidiana di rape e pane di segala, chiamata in gergo sbobba, è assolutamente insufficiente. Così c’è chi finisce per contendere il fieno ai cavalli, per mangiare la legna bruciata. Il rischio della pazzia è sempre dietro l’angolo e difatti non mancano casi in cui sotto il materasso di prigionieri morti di inedia, si trovano pagnotte nascoste e accumulate nel corso dei mesi. Il cibo diventa una vera e propria ossessione che popola le fantasie notturne degli internati. Giuseppe Volpi racconta di un ricorrente "sogno aritmetico": «Turbato che il mio accantonare un settimo di razione mi desse in due giorni solo un quinto in più, stanotte ho fatto di nuovo le operazioni con le frazioni ed ho trovato la soluzione. Mettendo via un settimo più un quinto al giorno, e cioè dodici trentacinquesimi, pari per difetto a un terzo, avrò alla domenica due razioni».
Al risveglio, però, queste elucubrazioni lasciano il tempo che trovano. E nella crescente disperazione si tenta la strada del mercato nero: un orologio, un paio di guanti e di stivali contro lardo, pane, tabacco. Nel lager polacco di Benjaminowo la "borsa" ha luogo nei cessi, e i detentori del "listino" sono i polacchi destinati alla pulizia dello sterco, altrimenti detti "merdaioli". «Il mercato», annota il sottotenente Antonio Rossi, «deve svolgersi di nascosto e perciò avviene nell’interno del gabinetto ed il "merdaiolo" per far entrare la merce nel campo la mette in una cassetta che poi sprofonda nel carro sporco. E non è raro che qualche pagnotta non sia proprio pulita».
Sì, la fame è la parola chiave attorno a cui ruota tutta la vita del prigioniero. E ben lo sanno i tedeschi, che battono e ribattono su questo tasto nella loro reiterata proposta di adesione alla Repubblica Sociale rivolta agli ufficiali italiani (diverso il caso di sottufficiali e truppa, che dopo l’iniziale rifiuto vengono spediti al lavoro coatto per rimpiazzare la manodopera tedesca impegnata sui fronti di guerra).
Dunque il "no" ai nazisti da parte di ciascun ufficiale è reiterato, continuo, ciò che rende ancor più commovente e ammirevole questa lotta senza armi contro il nazifascismo. E ripropone la domanda su quali siano state le ragioni che hanno spinto un numero così alto di militari a perseverare nella propria scelta. Lo spettro delle motivazioni è quanto mai ampio e gli autori del libro (oltre a Giorgio Rochat, nella sua prefazione) ne danno puntualmente conto: soprattutto all’inizio gioca un ruolo fondamentale la stanchezza nei confronti della guerra; imprescindibile è l’attaccamento alla divisa e alle stellette, il giuramento dato al re e non a Mussolini; mentre assume un peso crescente l’odio maturato giorno dopo giorno nei confronti dei carcerieri tedeschi. Il fatto è che ciascuno di questi uomini, per la prima volta in vita sua e dopo essere stato imbevuto per anni e anni di ideologia fascista, ora deve fare i conti con la propria coscienza. E maturare individualmente le proprie decisioni, nelle peggiori condizioni possibili. «Siamo soli», scrive il capitano medico Guglielmo Dothel, «non combattiamo più per nessuno ma solo per noi stessi in nome della nostra coscienza, del nostro onore, della nostra dignità di uomini».
La scelta, oltretutto, si rivela tanto più difficile perché la condizione assolutamente anomala di "internato militare" (pervicacemente voluta da Hitler), impedisce qualunque controllo e conforto da parte degli organismi internazionali preposti, in primis della Croce Rossa. Senza contare la percezione di un totale abbandono da parte di ciò che resta dello Stato italiano, mentre per contro montano le pressioni di quei familiari che invitano i loro congiunti a lasciar perdere e a ritornare a casa.
Paradossalmente, è proprio all’interno del lager che i nostri militari troveranno le energie necessarie a portare fino in fondo la propria decisione, rinsaldata da una crescente consapevolezza antifascista. Sì, è nel lager, perché lì nasce quella singolarissima comunità che Giovanni Guareschi definirà «Città Democratica»; il primo germe di democrazia con cui vengono a contatto giovani cresciuti tra fasci littori, adunate di Balilla e Avanguardisti, e che ora - nel luogo più impensato, tremendo - si trovano a discutere della libera scelta individuale. E ad apprendere, in lunghe serate trascorse in baracca, i primi rudimenti di filosofia, politica, storia italiana, poesia, musica, teatro. Pensate solo quale concentrato di intelligenze e talenti era presente nel già citato campo di Benjaminowo: Guareschi, il caricaturista Novello, il poeta Rebora, il filosofo Enzo Paci, l’attore Gianrico Tedeschi. Che incredibile scuola di vita, deve essere stata.
In una lettera inviata dal capitano Giuseppe De Toni al fratello Nando e letta da Radio Londra, è scritto: «Ho letto di Madri, Mogli, Figli che chiedono, implorando in buona fede una firma disonorevole; io stesso ho ricevuto, e non una sola volta, una invocazione rivolta al mio cuore di marito e padre, un appello diretto alla ragione. É la prova suprema per un uomo. Ma c’è qualcosa in me, in noi, che supera ogni lato affettivo, ogni tentazione, ogni lusinga, qualcosa che ci permette di vincere anche il nostro egoismo che si fa spesso tanto prepotente».
De Toni intuisce che in Italia si comincia a insinuare che gli Imi siano in realtà degli attendisti, addirittura degli imboscati. «Siete in buona fede e solo per questo possiamo perdonare la vostra debolezza. Ma da voi, da tutti voi, non attendiamo solo un aiuto materiale, pur tanto prezioso, quell’aiuto che salva la nostra esistenza fisica. Noi attendiamo, come ancor più prezioso, più necessario, il vostro aiuto morale, il conforto della vostra comprensione, il vostro incitamento a resistere».
Purtroppo le cose non andranno nel senso auspicato dal capitano. Quando, finita la guerra, gli internati militari italiani sopravvissuti all’orrore del lager torneranno in Italia, troveranno una patria a dir poco distratta. L’unica Resistenza ufficialmente riconosciuta è quella dei partigiani. L’onore militare e la fedeltà al re sono monete vecchie, ormai fuori corso. La ferita aperta dalla catastrofe istituzionale dell’8 settembre va dimenticata a tutti i costi. Così la ribellione silenziosa e disarmata di centinaia di migliaia di italiani si trasforma in una esperienza di cui è meglio tacere, che induce addirittura a un sentimento di vergogna.
E quella drammatica storia finisce per essere allontanata dalla memoria collettiva di un paese che ancor oggi, a sessantacinque anni da quegli avvenimenti, paga un altissimo prezzo per la mancanza di un passato condiviso. Aveva ragione Guareschi: «I più pericolosi nemici dell’Italia, mi vado convincendo che sono proprio gli italiani».
Il genetista Cavalli-Sforza racconta i meccanismi che hanno scandito il progresso
dell’Homo sapiens. L’appuntamento al Festival della Mente
L’evoluzione culturale batte quella biologica
Così la specie umana ha conquistato il pianeta
di Luigi Luca Cavalli-Sforza (Corriere della Sera, 29.8.2009)
Che l’uomo sia un animale, non vi sono dubbi. Che abbia alcune caratteristiche diverse dagli altri animali, è chiaro. Ma se ci avviciniamo al problema con il solo aiuto dell’osservazione e del ragionamento, cioè scientificamente, quali sono queste caratteristiche? Vi sono naturalmente differenze biologiche tra l’uomo e gli animali, anche quelli più vicini a noi.
Sappiamo che le differenze biologiche tra individui e tra specie stanno nel programma che serve a un individuo per costruire se stesso. Sappiamo che questo programma è scritto nel Dna e l’eredità biologica è resa possibile dalla copiatura, a ogni generazione, del Dna di ogni individuo per passare il Dna copiato a un figlio, che la usa come modello per costruire se stesso, ma anche per farne copie per i suoi discendenti e così via. Ma sappiamo che in ogni processo di copiatura possono avvenire errori e gli errori di copiatura del Dna sono trasmissibili, perché i figli costruiscono se stessi e poi copiano il modello che hanno ricevuto, per passare il programma ai loro figli (introducendo nuovi errori).
Gli errori di copiatura sono chiamati mutazioni genetiche e sono responsabili dei cambiamenti ereditari. Più spesso questi cambiamenti sono in peggio, perché gli errori di copiatura del Dna sono casuali e possono recare danno anche fatale in un organismo delicato e complesso come quello di un vivente. Ma qualcuno può essere benefico, ad esempio vi è sempre una possibilità che uno di essi porti una maggior capacità di resistere a una delle tante cause di malattie, magari molto diffuse come è, e anche da noi era, la tubercolosi.
Se il portatore della mutazione è resistente, così potranno essere i suoi figli che portano il Dna copiato e lo trasmettono e il tipo mutato aumenterà automaticamente di frequenza nelle generazioni successive. Questo è un esempio di quella che Darwin ha chiamato selezione naturale. Ma specie in organismi lenti come noi, che impieghiamo trent’anni a riprodurci, in media, e formiamo coppie che hanno solo pochi figli, possono essere necessarie migliaia di anni, magari anche molti di più perché una popolazione in cui è avvenuta una mutazione in un individuo divenga interamente del tipo mutato.
Archeologia e genetica ci hanno mostrato che la nostra separazione dalla scimmia più vicina a noi vivente oggi, lo scimpanzé, cominciò circa sei milioni di anni fa in Africa. I nostri più vecchi antenati scesero dagli alberi e svilupparono la capacità di correre sulle gambe e liberare le mani, cominciando a usarle per fabbricare strumenti: i primi oggi riconosciuti hanno tre milioni di anni. Gli strumenti furono perfezionati al punto che un po’ meno di due milioni di anni fa l’uomo cominciò a espandersi, dall’Africa all’Asia e all’Europa, probabilmente anche grazie all’aiuto dell’uso del fuoco. La testa dell’uomo e con essa il cervello cominciarono a crescere di volume molto presto e l’aumento continuò fino a portare il volume del cervello a quattro volte il valore iniziale, che invece nello scimpanzé e in altri primati rimase invariato.
Una delle cause più importanti nell’aumento del cervello fu l’acquisizione del linguaggio, cioè la capacità di articolare i suoni in modo da scambiarci facilmente idee e informazioni. Aumentò così molto la velocità di quella che chiamiamo evoluzione culturale, cioè l’accumulo di nuove conoscenze. Anche gli animali hanno evoluzione culturale, ma molto meno intensa e meno facilmente trasmessa agli altri che nella nostra specie. Le novità culturali sono nuove idee: invenzioni, scoperte, innovazioni, molte della quali hanno lo scopo di migliorare le condizioni di vita. Le novità culturali non sono cambiamenti del Dna; a differenza di essi possono trasmettersi a un largo numero di individui nel corso di una generazione e con i moderni mezzi di comunicazione in tempi brevissimi. Inoltre, mentre le novità genetiche, cioè le mutazioni sono casuali, quelle culturali sono dirette a scopi precisi, di solito benefici.
L’evoluzione biologica ha quindi perduto molta importanza nella nostra specie, perché quella culturale soddisfa le nostre necessità assai più presto. Anche per questo, troviamo che le differenze genetiche fra le popolazioni umane viventi oggi sono modeste. Oggi siamo sei miliardi; poco più di 55 mila anni fa eravamo una piccola tribù africana di forse mille o duemila individui, ma tutti i suoi membri avevano un linguaggio sviluppato come quelli esistenti oggi. Tutti vivevano di caccia, pesca, raccolta di vegetali, cioè di cibo naturale.
In un tempo breve si sparsero in tutto il mondo, comprese America e Oceania, raggiungendo circa 10 mila anni fa la saturazione demografica permessa dalle risorse locali, che furono sufficienti per arrivare a un numero di abitanti del mondo stimato fra uno e 15 milioni. Ma cominciò allora, in diverse parti del mondo, la produzione del cibo mediante la coltura di vegetali e l’addomesticamento di animali e permise una nuova crescita demografica fino ai sei miliardi di oggi, un aumento di circa mille volte negli ultimi 10 mila anni.
La selezione naturale continua a essere importante, ma è ora largamente diretta dalle novità prodotte dall’evoluzione culturale assai più che da quella biologica. Per darne un semplice esempio: quando 30 mila anni fa i nostri antenati popolarono la Siberia, non ebbero bisogno di attendere la comparsa di mutazioni che permettessero la crescita di una fitta pelosità o altri meccanismi biologici di difesa dal freddo. Quella pelosità che avevamo in comune con le scimmie, da cui siamo separati da almeno sei milioni di anni, era scomparsa da tempo, forse per i pericoli cui è esposto un animale peloso che vive vicino al fuoco (anch’essa una selezione naturale indotta da un’innovazione). Per popolare la Siberia si vestirono di pelli di animali cucite con ago e filo e costruirono case molto resistenti al freddo, tutti prodotti di invenzioni utili. In questi e molti altri modi il numero di appartenenti alla nostra specie è aumentato in modo enorme e questo è il grande successo di selezione naturale che dobbiamo largamente all’evoluzione della cultura, ma l’evoluzione biologica ha avuto poco tempo per agire e quella culturale ha sopperito largamente alle necessità di adattamento ad ambienti diversi.
Un’altra Resistenza
I militari internati che dissero no
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 16.02.2009)
L’altra Resistenza, dice il titolo di un celebre libro di Alessandro Natta. Di Resistenze - anche di formazione molto diversa, pur nella comune lotta contro il fascismo e soprattutto contro l’occupatore nazista - ce ne furono, come si sa, molte. Quella di Giustizia e Libertà, quella repubblicana, socialista, cattolica, monarchica, comunista; quest’ultima la più rilevante e organizzata, quella che ha dato il maggior contributo di sangue e che si è pure resa più colpevole di criminose violenze eccedenti la terribile logica della Guerra civile. Come è noto, le divergenze politiche all’interno della Resistenza portarono, specie ai confine orientali d’Italia, anche a scontri sanguinosi e a delitti fratricidi, quali ad esempio l’eccidio di Malga Porzús.
I resistenti al fascismo e soprattutto al nazismo e le vittime - furono diversi non solo quanto a posizione politica, ma anche per appartenenza etnica, come soprattutto gli ebrei o gli zingari, e per quel che riguarda l’estrazione sociale. Una di queste categorie di deportati, di resistenti al Leviatano nazista, di cui certo si parla (è stata di recente ricordata e onorata dal presidente Napolitano, col suo forte senso dell’Italia) ma di cui in genere non si parla abbastanza, col rilievo che essa merita, è quella dei militari italiani, massacrati (come a Cefalonia) o catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre in seguito a quel pauroso sbandamento e talora pure all’ignavia di alcuni loro comandanti - e deportati in Germania o trattenuti nei Balcani; rispettivamente circa 550.000 e 100.000, come riporta una recente pubblicazione di Nicolino de Roberto.
Qualificati dai nazisti come «internati» e privati dunque dei diritti riconosciuti, secondo le convenzioni internazionali, ai «prigionieri di guerra », questi militari, soldati e ufficiali, rifiutarono, in stragrande maggioranza, di aderire al nazismo e alla Repubblica di Salò sua alleata, scegliendo così il Lager e durissime condizioni di sofferenza e di umiliazione. Questa loro scelta è stata tanto più difficile e meritoria in quanto non era facile specialmente per chi non era ideologicamente inquadrato in una formazione politica - capire, nella confusione e nel caos dell’ Italia spaccata in due, quale fosse veramente l’Italia. Vanno parimenti ricordati quei militari che, prigionieri degli inglesi o degli americani, rinunciarono alla libertà per non aderire all’Italia badogliana, spinti da un senso di onore comprensibilmente rafforzato dall’incertezza della situazione e dalla fellonia del re fuggiasco.
L’internato militare in un Lager Tedesco era solo, dinanzi ai suoi oppressori e alla sua scelta; solo con la sua coscienza e il suo sentimento, perlopiù senza il sostegno morale e psicologico di una appartenenza politica, che aiuta a scegliere e a combattere, come l’appartenenza a un reggimento in una battaglia.
Quella scelta, essi l’hanno fatta per amore dell’Italia e per un senso profondo dell’onore, oltre che per l’intelligenza che ha fatto loro capire da che parte stava l’umanità. Anch’essi sono protagonisti di quel riscatto della patria e della libertà da cui è nata l’Italia democratica, con la sua Costituzione che oggi si vuole non correggere o aggiornare, bensì distruggere nei suoi fondamenti, che rappresentano la base della nostra vita civile. E’ sconcertante che questa sovversione provenga da chi governa il Paese fondato sulla Costituzione. Oggi quegli ex internati non rappresentano una forza politica né un movimento ideologico e tanto meno una riserva di voti. Forse per questo non siamo loro grati come dovremmo; questi giorni dedicati alla memoria sono una buona occasione per ricordarci a fondo anche di loro.
Giorno della Memoria 2009
venerdì 23 gennaio, ore 9.00
Teatro Derby
Via Mascagni, 8 - Milano
CONVEGNO INTERNAZIONALE
LA MEMORIA E L’ATTUALITA’ DEI GIUSTI
COME VEDERE IL NEMICO CON GLI OCCHI DELL’AMICO
In occasione del Giorno della Memoria 2009, Ga.Ri.Wo. (Comitato per la Foresta Mondiale dei
Giusti) e l’UGEI (Unione Giovani Ebrei Italiani) promuovono, con la collaborazione dell’Unione
delle Comunità ebraiche e della Comunità ebraica di Milano, il Convegno internazionale “La
memoria e l’attualità dei Giusti. Come vedere il nemico con gli occhi dell’amico”, per indicare
l’esempio morale dei Giusti alle nuove generazioni. Al Convegno interverranno autorevoli
personalità internazionali, sia del mondo accademico che impegnati nella battaglia per la tutela dei diritti umani e nel dialogo per la riconciliazione nella società civile.
Programma
Saluti
Manfredi Palmeri, Presidente del Consiglio Comunale di Milano.
Claudia De Benedetti, Vicepresidente dell’Unione delle Comunità ebraiche d’Italia.
Interventi
Gabriele Nissim
Scrittore e presidente Ga.ri.wo., autore del libro Il tribunale del bene.
Robert Satloff
Storico e direttore del Washington Institute for Near East Policy (WINEP), autore del libro Tra i
Giusti - Storie perdute dell’Olocausto nei paesi arabi.
Raymond Kevorkian
Storico, docente all’Université Paris-VIII-Saint-Denis, direttore della Bibliothéque Nubar Armena,
autore del libro, Le Génocide des Arméniens (Broché) Odile Jacob · 2006.
Raf Alfonso Arbib, Rabbino Capo di Milano.
Svetlana Broz
Scrittrice, direttrice di Ga.ri.wo. Sarajevo, autrice del libro I giusti nel tempo del male.
Testimonianze dal conflitto bosniaco, edizioni Erickson, Gardolo, 2008.
Daniele Nahum
Presidente Unione Giovani Ebrei d’Italia.
Quei 600mila no a Salò
Tanti furono i nostri militari che dopo l’8 settembre rifiutarono la Rsi e vennero internati nei lager tedeschi. Uno studio racconta finalmente la loro vicenda. Fra di loro nomi come Lazzati, Natta, Paci e Guareschi. I nazisti li considerarono traditori e li trattarono spesso in modo disumano. Ma seppero reagire e crearono persino una clandestina ’università dei lager’
di ANTONIO AIRÒ (Avvenire, 26.01.2008)
Hanno un nome, un cognome, un grado militare. Ma non sono persone. Sono solo dei numeri. Che indicano il loro essere ’schiavi’ destinati a lavorare per un salario men che simbolico e segnati da una fame continua. Due patate, una scodella di rape, e una fetta di pane nero, questa all’incirca la razione quotidiana. Sono gli IMI (Internati Militari Italiani).
Seicentomila: generali, ufficiali, sergenti, caporali, soldati, marinai, avieri, distribuiti in 350 lager tedeschi, costretti a vivere in condizioni disumane, in aree create appositamente per annullare la loro dignità. Hanno in grande maggioranza rifiutato di aderire, «nonostante l’alternanza di minacce e di blandizie, di violenze e di promesse» al regime di Salò.
Sono infatti 180.000 quelli che in vari modi e forme, spesso carichi di riserve e di distinguo, accettarono di arruolarsi nelle truppe della Repubblica Sociale e di combattere con le truppe tedesche in Italia. Solo una minoranza per condivisione ideale del fascismo, molti per poter rientrare dalle loro famiglie, parecchi per disertare dopo aver compiuto il periodo di addestramento. Solo nel lager di Biada Podlaska, in territorio polacco ai confini della Russia, 2600 ufficiali accettarono la RSI , mentre 147 dissero no ai nazifascisti. Pagandone ovviamente le conseguenze.
Gli IMI, dopo l’8 settembre erano stati deportati in Germania. Il nostro esercito era allo sbando. Hitler e i suoi gerarchi li ritengono dei traditori. E sono sostanzialmente lasciati al loro destino anche dal Duce e dal suo governo. Non sono classificati prigionieri di guerra; quindi non valgono per loro le convenzioni internazionali e non possono usufruire degli aiuti della Croce Rossa (abbastanza generosa con i militari degli altri Paesi in guerra con la Germania provocando anche qualche invidia nei nostri costretti alla fame quotidiana). Non hanno diritti, ma solo pesanti e insopportabili obblighi.
Ma la tragedia degli IMI - come nota in un suo libro il giornalista Luca Frigerio - è «un caso unico, probabilmente, nella storia di tutti tempi» con prigionieri che ’volontariamente’ e in numero così imponente, scelgono di restare nei lager andando incontro a umiliazioni, violenze e anche razzismo nei loro confronti, a trasferimenti continui e penosi da un campo di concentramento all’altro in condizioni inaccettabili. Con questi militari condivisero la loro sorte numerosi cappellani militari, come, il francescano Ernesto Caroli, il fondatore dell’Antoniano di Bologna, e un gruppo anche di crocerossine.
Non molti i no derivanti dalla maturazione di una coscienza democratica e antifascista (ma fra gli IMI ci furono Giuseppe Lazzati e Alessandro Natta); più numerosi specie tra gli ufficiali i no per fedeltà alla casa Savoia.
«La maggioranza dei militari - rileva Frigerio - non aderirono perché non avevano nulla a che fare con i tedeschi». Quella che prevale nelle testimonianze dirette dei pochi sopravvissuti ai lager, e affidati a diari personali che Frigerio ha letto, è un’affermazione di dignità e quindi di libertà. «Nonostante le loro condizioni, migliaia di internati, riuscirono ad evadere non fisicamente ma moralmente e spiritualmente. Continuare a pensare in un campo di concentramento è già un gesto di rivolta e di liberazione». L’attore Gianrico Tedeschi confessa che nel lager è nata la sua vocazione teatrale ricordando anche di avere messo insieme con Giovanni Guareschi, un altro IMI, una rassegna d’arte varia. «Con noi c’era anche un tale che suonava la fisarmonica, ma dove sia riuscito a trovarla davvero non l’ho mai capito...».
Nonostante la condizione di depravazione in cui cerca di sopravvivere la stragrande maggioranza degli internati, le testimonianze rivelano anche il sorgere di ’università dei lager’ con conferenze, incontri, lezioni, passaggio di libri, perfino un giornale parlato e una minuscola radio ’chiamata Caterina’ messa in piedi da due ingegnosi ufficiali. Tra i maestri di questa singolare università, Lazzati (che ritorna più volte nelle testimonianze degli IMI), il filosofo Enzo Paci, lo scrittore Roberto Rebora, il caricaturista Giuseppe Novello, oltre a Guareschi. «Si leggeva e si discuteva di tutto, ma gli IMI rimanevano un’orda di ’morti di fame’».
Quella degli internati militari è stata fino agli anni recenti una storia dimenticata e anche rimossa dagli stessi protagonisti. Forse gli IMI hanno fatto loro il giudizio di Primo Levi «qualunque cosa avessero raccontato, non sarebbero stati creduti». Luca Frigerio ha il merito, anche con le foto scattate nei lager e sfuggite ai controlli dei nazisti, di ridare voce a questa resistenza sconosciuta morale degli IMI.
Luca Frigerio
NOI NEI LAGER
Testimonianze di militari italiani internati nei campi nazisti (1943-45)
Paoline. Pagine 298. Euro 16
Lazzaro e la croce dei sopravvissuti
di GOFFREDO FOFI (Avvenire, 26.01.2008)
Nel 1955 lo scrittore Jean Cayrol, che era stato prigioniero dal 1942 al 1945, arrestato trentenne dalla Gestapo come membro della Resistenza, nel lager di Mauthausen con il triangolo rosso dei politici, ci divenne noto come autore del testo di un film documentario che ci sconvolse, Notte e nebbia di Alain Resnais. L’«operazione Notte e Nebbia», in tedesco Nacht und Nebel, abbreviata NN, fu quella, così battezzata dai nazisti, della deportazione e di milioni di persone, ebrei, resistenti, zingari, omosessuali...
Jean Cayrol, scomparso nei primi giorni di febbraio di due anni fa, ebbe anche lui la vita segnata dall’esperienza concentrazionaria e in questi giorni la sua figura è al centro di un grande convegno organizzato dall’Università Roma 3 e dal Centro studi italo-francesi, che si chiude domani in occasione della Giornata della memoria («Jean Cayrol. Dalla Notte e dalla Nebbia»).
La sua attività di saggista, poeta e romanziere, e in quanto dirigente delle Editions du Seuil di personaggio autorevole e influente nella storia della cultura francese dagli anni del dopoguerra in avanti, non poteva che tornare più e più volte su quel vissuto, sul suo ’estremismo’ e sul modo in cui questo aveva modificato la sua prospettiva su tutto: della vita, della società, della comprensione e della reazione al mondo. Per sé ma anche per gli altri.
È singolare (ed è imperdonabile) che un testo di eccezionale importanza come il suo saggio Lazare parmi nous, del 1950, elaborazione di un articolo apparso su ’Esprit’ un anno prima con il titolo D’un romanesque concentrationnaire, venga tradotto solo ora in Italia, grazie a Marco Dotti e alla casa editrice Medusa, con il titolo di Il ritorno di Lazzaro. È singolare (e imperdonabile), perché esso è di un’intensità teorica sconvolgente, e però a suo modo luminosa anzi incandescente. Esso è in qualche modo una risposta alla domanda di Celan, che fu tra l’altro il traduttore in tedesco del commento per Notte e nebbia (e più tardi di Sartre) se fosse possibile ancora scrivere e poetare dopo Auschwitz, ma Cayrol non si domanda se si può scrivere, e si sofferma piuttosto su come sarà possibile al sopravvissuto di scrivere, sul «romanzesco concentrazionario» dei Lazzari tornati vivi dai campi della morte.
«Scrittore deportato» e non deportato diventato scrittore dopo il ritorno alla vita, come Dotti precisa, Cayrol parla di «un’arte che già, forse, ha trovato il suo primo indagatore e il suo primo storico nell’inquieto Albert Camus». Quest’arte può solo descrivere «la più strana delle solitudini» che possa capitare a un uomo di sopportare, la scomparsa dell’erotismo dalla vita vera, il vedere in ognuno la folla e il plurale e non più il singolo, la differenza di quel che si sogna rispetto a ogni interpretazione precedente, lo sdoppiamento di chi si guarda come si guarda a un morto, e lo sguardo portato sugli altri da lontano, come dal mondo dei morti...
Cayrol dice che «in ogni invenzione letteraria, si arriva dunque a un’impenetrabilità degli esseri che si evolveranno in un mondo infinitamente diviso. Si arriva anche a un’incomunicabilità fra interlocutori, da qui l’abuso del monologo, la ricerca di frasi lapidarie, d’inscrizioni bibliche. L’eroe non ama che gli si risponda. Basta a se stesso, desidera lasciare in sospeso la domanda. Non teme il mutismo e talvolta noterà, con una certa soddisfazione, il crescente malessere dell’altro. Siccome ogni parola, un giorno, gli è stata vietata, si è disabituato al meraviglioso movimento delle labbra, al colore del parlato, al verbo fatto carne», e a tratti ci è impossibile non pensare a certe opere di Primo Levi. «Insomma, l’eroe lazzariano non è mai là dove si trova. Deve compiere un immenso lavoro di riflessione, pensare senza sosta che si trova là e non altrove, che ha vissuto un mondo che non si trovava da nessuna parte e le cui frontiere non sono segnate, perché sono le frontiere della morte».
«Un uomo così ha un bisogno folle di amore», conclude Cayrol, e il secondo saggio raccolto in questo libro, Attesa, appena più rasserenato e disteso, parla infatti della speranza, di come sia difficile ma anche di come possa essere possibile passare «dal Venerdì Santo alla Pasqua». Cayrol trova nel cristianesimo la sua soluzione, e lo dice a piena voce, rivendicando una sorta di umanesimo essenziale e primario, che è bensì tragicamente condizionato dal fatto che «la speranza chiede uomini infinitamente riconciliati, uomini che non risistemano i bagagli ogni giorno per preparare una nuova fuga».
Questo volume ha un ultimo dono da offrire al lettore, un piccolo gruppo di poesie scritte da Cayrol prigioniero: «Ecco venire il tempo delle libertà insanguinate»... «Pensiamo a quelli che sono morti / cantando con la bocca chiusa»... Di Jean Cayrol vorrei anche ricordare che per Alain Resnais fu autore della sceneggiatura di un film bellissimo, Muriel o il tempo di un ritorno (1963). Vi si parlava pur sempre di Lazzaro, ma stavolta il ritorno era dalla guerra d’Algeria.
Jean Cayrol
IL RITORNO DI LAZZARO
Medusa. Pagine 88. Euro 11,00
2008, il Giorno della Memoria in Italia
Il 27 gennaio 1945, verso mezzogiorno, la prima pattuglia alleata giunse in vista del lager di Auschwitz. Il mondo seppe di una verità che ancora ferisce e grida l’orrore dell’Olocausto. Con una legge pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000 la Repubblica italiana, come altri stati europei, riconosce il 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, come "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte e affinché simili eventi non possano mai più ripetersi.
Dal 27 gennaio 2001, data della liberazione di Auschwitz, tutta l’Italia si riunisce intorno alla Memoria dell’Olocausto. Incontri, seminari e eventi mediatici si svolgeranno per tutta la giornata. Il Convegno internazionale su "L’antisemitismo e i moderni crimini contro l’umanità", in programma domani e lunedì 28 a Palazzo Barberini, rappresenta il culmine delle manifestazioni, svoltesi anche in settimana, per il Giorno della Memoria.
Un incontro organizzato dal ministero dei beni culturali e dalla presidenza del consiglio che sarà aperto domani sera, a cui parteciperanno Romano Prodi, Francesco Rutelli e dal presidente dell’Unione delle comunità ebraiche (Ucei) Renzo Gattegna.
L’intera settimana - accompagnata da una forte programmazione tv e radio, sia pubblica sia privata - è stata comunque caratterizzata da una serie di manifestazioni e di cerimonie, quasi tutte all’insegna di un doppio anniversario che si è intersecato con il Giorno della memoria: il 60/mo della Costituzione e il 70/mo delle Leggi Razziali del novembre del 1938.
E proprio questi due temi sono stati, tra l’altro, al centro del discorso del presidente Napolitano al Quirinale - nella manifestazione in onore dei ’Giusti tra le Nazioni’ - il 24 gennaio scorso quando ha affermato:"Noi non abbiamo dimenticato e non dimenticheremo mai la Shoah. Non dimentichiamo gli orrori dell’antisemitismo, che è ancora presente in alcune dottrine, e va contrastato qualunque forma assuma". Così come la cerimonia nella Risiera di San Sabba a Trieste, nell’unico campo di sterminio in territorio italiano, dove il ministro della pubblica istruzione Fioroni ha sottolineato "la vergogna" e "le scuse" per le Leggi Razziali.
Per domani sono moltissime le manifestazioni programmate in tutta Italia. Anche il Carnevale di Acireale dedicherà attenzione alla Memoria, e la trasmissione di Rai Uno "Domenica In" tutta la puntata. Ecco ilcalendario delle principali città.
ROMA: Casa della memoria: proiezione del film ’La strada di Levi’; presentazione del film documentario ’La deportazione e l’internamento dei militari italiani nei Lager nazistì; ’Pedalando nella memoria’, in ricordo di Settimia Spizzichino una delle pochissime ebree romane tornate da Auschwitz. Centro studi Cappella Orsini, ’La promessa della casa in ordine, Cultura e consenso nell’Italia fascistà. Casa del Cinema: documentario di History Channel ’Fuga da Auschwitz’.
GENOVA: Palazzo Ducale: Cerimonia commemorativa con Anna Foa.
MILANO: Museo di storia contemporanea, presentazione della mostra ’Dal Lager.Disegni di Lodovico Belgiojoso’; Conservatorio Verdi, Concerto per la Memoria.
FIRENZE: Università, Laurea Honoris Causa alLo scrittore David Grossman; Palazzo Medici Riccardi, convegno in onore di Alberto Nirenstajn; Teatro Goldoni, concerto del violinista Yehezkel Yerushalmi. Anche l’Unesco ricorderà il Giorno della memoria: il 28 gennaio a Parigi il direttore generale, Koïchiro Matsuura, commemorerà le vittime della Shoah alla presenza di Isaac Herzog, Ministro israeliano per gli Affari sociali e il Welfare e Ministro per la Diaspora e la Lotta contro l’antisemitismo, di Xavier Darcos, Ministro francese dell’Educazione e Simone Veil, Presidentessa onoraria della Fondazione per la Memoria della Shoah.
TORINO: Al Cimitero monumentale dalle 9.30, preghiera di commemorazione dei caduti e omaggio alla lapide in memoria degli Ebrei, al cippo ex Internati e a quello della Deportazione. Un momento di raccoglimento e le celebrazioni proseguiranno, alle ore 11, in Sala Rossa, dove il sindaco Sergio Chiamparino riceverà il presidente regionale dell’associazione ex internati, Pensiero Acutis, e il presidente della Comunità Ebraica, Tullio Levi.
(red )
Leggi razziali
Non si gioca con la Storia
di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 08.09.2008)
È difficile crederlo. Ma Gianni Alemanno, vincitore delle elezioni di aprile e nuovo sindaco di Roma si è dimostrato più fascista del capo di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini. Questi, cinque anni fa, in visita a Gerusalemme, aveva parlato del fascismo come epoca del «male assoluto». Per Alemanno (diventato, grazie ad alcuni dirigenti della comunità ebraica di Roma, vicepresidente della Fondazione del Museo della Shoà fondato nella capitale) le cose non stanno così.
In un’intervista al Corriere della Sera di ieri definisce le leggi razziali come il «male assoluto» ma, nello stesso tempo, giudica il fascismo «un fenomeno più complesso». Se il regime mussoliniano adottò quelle leggi, dice in sostanza Alemanno, fu per un cedimento alla Germania nazista e non in conseguenza di un carattere essenziale dell’Italia fascista. Per gli studiosi, non solo italiani, le dichiarazioni del sindaco di Roma corrispondono a una visione del fascismo che non ha un effettivo fondamento storico. Chi conosce, sulla base dei documenti a disposizione, la nascita e l’evoluzione del movimento fascista non può avere oggi la visione semplicistica e assolutoria che ci propone il sindaco di Roma.
Innanzitutto ad Alemanno occorre ricordare che una corrente antisemita c’è sempre stata nel movimento fascista dagli anni dell’esordio. Un personaggio come Giovanni Preziosi, direttore della rivista antisemita La vita italiana e negli ultimi anni esponente importante del fascismo trionfante e poi della Repubblica Sociale Italiana, ha militato sempre nel movimento mussoliniano e ha detto con chiarezza fin dagli anni venti che cosa pensava degli ebrei.
In secondo luogo, la campagna di discriminazione razziale non incomincia in Italia nell’ottobre 1938 ma parte, sul piano culturale, almeno quattro anni prima con la circolare di Mussolini del 3 aprile 1934 sulla censura e il sequestro dei libri proibiti: il primo libro sequestrato è il romanzo Sambadù amore negro della scrittrice Maria Volpi alias Mura che mostrava in copertina un’italiana che baciava un africano nero.
L’inizio punta, insomma, sul contrasto tra neri e bianchi che, con l’impresa di Etiopia, provoca decreti razzisti di discriminazione nella nuova colonia italiana che è all’origine dell’impero fascista.
Quanto al 1938, l’Italia fascista anticipa e precorre con le sue leggi razziali la legislazione nazionalsocialista, introducendo divieti e misure che escludono drasticamente dalla società italiana tutti gli ebrei.
Ma, a parte quella che è una ricostruzione, sia pure sintetica, della vicenda italiana che sfocerà qualche anno dopo nella Shoà consumata nell’alleanza con Hitler, ha senso staccare la storia del fascismo da quella del razzismo antisemita?
A nostro avviso non ha nessun senso perché il legame tra fascismo e antisemitismo ha percorso dall’inizio l’evoluzione del movimento mussoliniano e ne ha segnato in maniera tragica la terribile conclusione. In tutta l’Europa dove il fascismo non ha vinto non abbiamo mai assistito a fenomeni di razzismo e antisemitismo paragonabili a quelli dell’Italia fascista e della Germania nazista. E dunque non si può liquidare il fascismo come «un fenomeno più complesso» e non sottolineare il legame tra i due fenomeni. Nè ha senso alcuno difendere il fascismo come se nulla avesse a che fare con l’antisemitismo né liquidare quelli che vi aderirono parlando della loro supposta buona fede.
Alemanno, sempre nell’intervista al Corriere della Sera, non nega di portare sul petto la catena con la croce celtica e si ostina a parlarne come di un simbolo esclusivamente religioso quando l’esperienza storica del Novecento sa bene che quello fu un simbolo dei movimenti fascisti e, in particolare, del nazionalsocialismo. Reticenze e piccole ambiguità, insieme ad errori storici di fondo, poco si addicono, mi pare, a chi in questo momento è sindaco di una grande capitale come Roma.
Antifascismo. La Repubblica condivisa
di Furio Colombo (l’Unità, 09.09.2008)
«Il Presidente della Repubblica ha ricordato la dignità dei militari italiani che furono deportati in Germania perché rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò. Di diverso avviso il ministro della Difesa». Cito dal Tg 1, ore 20, 8 settembre. In linguaggio deliberatamente piatto non nasconde il fatto certamente eccezionale: il ministro della Difesa La Russa, post-fascista, è di «diverso avviso» sul fascismo.
Infatti la vera frase del ministro è un omaggio alla Repubblica fascista di Salò nel giorno in cui il capo dello Stato stava celebrando, da solo, la Resistenza contro i tedeschi a Roma. C’era anche il sindaco di Roma, alla cerimonia, Alemanno, post-fascista anche lui. Il sindaco aveva detto il giorno prima il suo sentimento di rispetto verso il fascismo. Dunque, per prima cosa, è doveroso inviare da questo giornale un pensiero grato e solidale al Presidente Napolitano che ha celebrato la Resistenza italiana non con le autorità presenti ma insieme a tutti gli italiani che, come lui, credono nella Resistenza e nella Costituzione. Per i più giovani, forse, è utile un chiarimento.
Che cos’è il fascismo? È un progetto di potere che non bada a spese di vite umane per affermare e rafforzare quel potere. Ha due nemici: chiunque all’interno di un Paese colpito dal fascismo, si opponga. E chiunque (o qualunque altro Paese) fuori dai confini nazionali, sia o diventi ostacolo all’espandersi del regime fascista. Ha tre comandamenti che, in Italia, erano scritti a caratteri immensi su tutti i muri: «Credere, Obbedire, Combattere». Il primo comandamento impone l’accettazione fanatica di una dottrina inventata. Nel caso italiano si chiamava «mistica fascista». I praticanti di quella mistica (cittadini di tutte le età) non avevano scampo. L’intimazione di credere è sempre una intimazione violenta. Significava che un livello superiore, forte abbastanza da lanciare quella intimazione, aveva conquistato potere assoluto con sangue, sottomissione, violenza e complicità.
Obbedire significava l’umiliazione di tutti davanti ai pochi che decidono di vita e di morte. Ci sono sempre, nella storia di tutti i popoli. Sono sempre i peggiori. E cadono fuori dalla storia a causa delle rivolte di libertà. Ma quando comandano non badano a sangue, dolore, umiliazione, morte per farsi ubbidire. Combattere è il comandamento obbligato. Se sei fascista, o sottoposto al fascismo, c’è sempre qualcun altro da uccidere, persona, famiglia, gruppo o popolo.
Il fascismo per vivere ha bisogno di censura ferrea al fine di impedire anche il minimo alito di libertà. Il fascismo ha bisogno di paura perché ognuno, fascisti e non fascisti, resti al suo posto senza discutere. Il fascismo ha bisogno di miti per organizzare riti che sono sempre evocazioni di stragi. Quei miti sono invenzioni nel vuoto di cultura e di storia, e quei riti sono sempre armati, in attesa che siano pronte nuove vittime da immolare sugli altari della Patria. La Patria è un mostro al quale, come tributo di grandezza e di difesa dei sacri confini, bisogna sempre tributare un doppio sacrificio: i propri figli, mandati comunque a combattere, dopo aver creduto e obbedito, perché non ci può essere pace fino alla vittoria del fascismo (al di là di un mare di sangue). E il sacrificio di altri popoli, scelti secondo una fantasia arbitraria (il fascismo non deve rendere conto a nessuno) dunque malata, in base a una dottrina di sangue, anch’essa malata che predica: «molti nemici molto onore». Vuol dire che a ogni guerra segue altra guerra, ad ogni persecuzione altra persecuzione.
Il fascismo italiano, giunto a uno dei momenti più alti e pieni del suo mortuario potere (1938) ha visto e identificato gli ebrei, gli ebrei italiani (italiani da secoli, al punto che persino alcuni di essi erano e si dichiaravano fascisti) come nemico finale e mortale. Nemico da identificare, braccare, catturare, distruggere.
Per sapere quanto il progetto fosse esteso e totale, profondamente fascista e completamente auto-generato dal fascismo, basterà rileggere il pacchetto delle leggi razziali italiane. Da esse non traspare l’impeto brutale e cieco di un momento di barbarie. Si tratta invece di un disegno accurato e giuridicamente impeccabile per sradicare ogni vita, ogni professione, ogni lavoro, dal laticlavio senatoriale al lavoro manuale. L’impossibilità di dare, di avere, di possedere, di lavorare, di restare, di andare via, di essere padri, madri, coniugi, figli, fratelli, neonati, malati, vegliardi morenti, bambini nelle scuole. Tutto chiuso, impedito, escluso, proibito, vietato, ogni porta murata subito e per sempre.
Quando, da parlamentare della tredicesima legislatura, ho scritto, firmato, fatto firmare (anche da deputati di Forza Italia e di An) la «legge che istituisce il Giorno della memoria», questo ho inteso fare: affermare che la Shoah è un delitto italiano. Senza le leggi italiane e il silenzio quasi totale degli italiani, la Germania nazista non avrebbe potuto imporre a tutta l’Europa il suo delitto. Tremendo delitto. Ne è una prova la Bulgaria dove - come testimonia in un suo non dimenticato libro Gabriele Nissim - il presidente del Parlamento locale Dimitar Peshev, uomo di destra in un Paese occupato da tedeschi nazisti e da italiani fascisti, si è rifiutato, insieme alla sua assemblea, di approvare le «leggi per la difesa della razza» scrupolosamente copiate dal modello italiano. I persecutori tedeschi e italiani non hanno potuto toccare un solo cittadino ebreo bulgaro.
«Il Giorno della memoria», vorrei ricordare a chi ne ha discusso su questo giornale ieri, esiste non per dare luogo a una cerimonia, ma per ricordare che gli ebrei italiani e gli ebrei stranieri che avevano creduto di trovare rifugio in una Italia buona, sono stati cercati, isolati, catturati e messi a disposizione dei carnefici tedeschi da fascisti italiani. E tutto ciò è avvenuto nel silenzio di altri italiani che a quel tempo avevano un’autorità e un ruolo. I perseguitati, in Italia, sono stati aiutati e salvati, quando possibile, quasi solo da persone e famiglie che hanno rischiato in segreto la vita, dunque da persone verso cui l’Italia ha un debito immenso (l’Italia, non gli ebrei che non avrebbero dovuto essere vittime), un debito che non è mai stato riconosciuto o celebrato. È anche per questo - ricordare e onorare l’italiano ignoto che non ha ceduto, che non ha ubbidito, che non ha combattuto la sporca guerra della razza, che esiste il «Giorno della Memoria».
Ma esiste anche per ricordare che il Parlamento fascista italiano ha approvato all’unanimità, al grido di «viva il Duce» alla presenza di Mussolini, le leggi dette «per la difesa della razza», articolo per articolo, fra discorsi deliranti, il cui testo si può ancora trovare negli archivi di Montecitorio, e frenetici applausi.
«Il Giorno della memoria» esiste per rispondere a chi osi pronunciare la inaccettabile frase sull’«onore dei combattenti di Salò», per esempio l’attuale ministro Italiano della Difesa La Russa. I combattenti di Salò sono stati coloro che hanno cercato, arrestato, ammassato nelle carceri italiane e poi consegnato alle guardie e ai treni nazisti quasi tutti gli ebrei italiani che nei campi di sterminio sono scomparsi. Sono stati quegli onorati combattenti di Salò a consegnare Primo Levi ai nazisti per il trasporto ad Auschwitz. Negli Stati Uniti, nessuno, per quanto di destra, si sognerebbe di difendere la schiavitù come una onorevole pagina della storia americana. E in nessun paese d’Europa si è mai assistito a una celebrazione di governo verso coloro che hanno collaborato con i nazisti e fascisti che occupavano i loro Paesi.
Le parole del sindaco di Roma e del ministro della Difesa italiano sono più gravi perché riguardano l’immenso delitto della Shoah di cui l’Italia fascista è stata co-autrice e co-protagonista. E’ vero che l’Italia fascista, con il suo codice di violenza, il suo impossessamento crudele delle colonie (di cui Gheddafi, oggi ha chiesto e ottenuto il conto) e la sua relativa modernizzazione dell’Italia ha avuto in quegli anni un suo prestigio e un suo peso in Europa. Ma proprio per questo il delitto razziale italiano si è esteso al peggio di tutta la sanguinosa Europa fascistizzata, e la responsabilità del regime italiano in quegli anni e in quel delitto è stata immensa.
Molti avranno notato che il Presidente della Repubblica, l’8 settembre a Roma, ha parlato da solo a nome dell’Italia libera (libera dal fascismo e dalla persecuzione razziale) nata dalla Resistenza e ha indicato il solo vero valore condiviso: la Costituzione.
È un giorno di tristezza e vergogna per coloro che c’erano, in Italia, quando gli ispettori della razza entravano nelle scuole, quando le brigate nere provvedevano a trovare e consegnare ai tedeschi gli italiani ebrei. Ed è bene ricordare al ministro della Difesa di questa Repubblica, nata dalla Resistenza che gli è estranea, che nella sua Repubblica di Salò i delatori venivano compensati (dai fascisti, non dai tedeschi) con lire cinquemila per ogni ebreo catturato e mandato a morire.
È un giorno di gratitudine verso Giorgio Napolitano che ha detto agli spettatori di sequenze televisive che saranno sembrate un film brutto come un incubo, che è la Resistenza, non Salò, il fondamento dell’Italia democratica, che è la Costituzione antifascista il nostro codice condiviso.
Il resto, aggiungo in nome della memoria che ho cercato di mantenere viva nella legge che porta quel nome, è spazzatura della storia.
furiocolombo@unita.it
La Resistenza e la memoria
La strategia dei comunisti
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 30.06.2015)
Caro Di Muccio,
Confesso di non sapere che cosa sia effettivamente accaduto in via delle Botteghe Oscure quando Alessandro Natta (futuro segretario del Partito comunista italiano) cercò di pubblicare negli anni Cinquanta le sue memorie sull’anno e mezzo trascorso in uno dei campi di «internamento» dove i tedeschi tennero i militari italiani che rifiutarono di aderire alla Repubblica di Mussolini. Per molto tempo abbiamo conosciuto quella vicenda soprattutto grazie ai ricordi di Giovannino Guareschi, Giovanni Ansaldo e altre persone meno note al grande pubblico. Ma credo che Aldo Cazzullo abbia ragione quando constata la pluralità culturale e politica della Resistenza. E credo che lei abbia ragione quando osserva che il Pci cercò di monopolizzarla svalutando qualsiasi altro apporto.
La strategia del partito comunista obbediva ad almeno due esigenze. In primo luogo occorreva dimostrare che il Pci aveva avuto un ruolo nazionale e non poteva essere accusato di avere servito gli interessi dell’Urss. L’accusa non era del tutto infondata, soprattutto quando furono in causa i confini orientali. Ma Palmiro Togliatti voleva che il partito fosse percepito come una forza nazionale. Non lo chiamò «Partito comunista d’Italia», come dopo la scissione del Congresso di Livorno nel 1921, ma Partito comunista italiano; e volle che sotto il suo nome e dietro la bandiera rossa, apparisse una fettina di tricolore.
In secondo luogo, una Resistenza celebrata e dominata dal Pci doveva sottintendere che la lotta contro i fascisti e i tedeschi era soltanto la fase iniziale di un processo rivoluzionario destinato a rinnovare radicalmente lo Stato e la società. La promessa della rivoluzione rimase, per parecchio tempo, parte integrante della retorica del partito e finì per produrre qualche inconveniente. Fu sempre più difficile per il Pci, con il passare del tempo, dimostrare che poteva essere contemporaneamente un partito rivoluzionario e di governo. Una tale duplicità lo esponeva al rischio di essere poco credibile sia agli occhi di molti moderati, sia a quelli di coloro per cui la rivoluzione era un ideale irrinunciabile. Fu questa almeno una delle ragioni per cui il partito, dopo l’inizio della fase del compromesso storico, fece molta fatica a controllare quella fazione del suo «popolo» stalinista che Rossana Rossanda riconosceva come parenti in un Album di famiglia.
Tutto questo appartiene fortunatamente al passato. Ma il clima e lo stile, nelle celebrazioni del 25 Aprile, restano ancora tenacemente, per molti aspetti, quelli di un tempo. Osservo infine che quella festa ricorda la fine di una guerra civile e che la pacificazione, in questi casi, è possibile soltanto quando tutti riconoscono che dignità e onestà non furono il monopolio dei vincitori.