"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà.
Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni, in memoriam [19 marzo 2000] *
Caro Primo
Convinto, inattualmente e contemporaneamente, che occorra lavorare di più e meglio nella direzione di Marx (Freud, Benjamin, Sohn-Rethel, Paci, Fachinelli, Lea Melandri, e gli infiniti Altri e le infinite Altre) e che oggi, "nella ideologia dominante, invece, la teologia ha assunto il materialismo storico al proprio servizio, approfittando della congiuntura per la quale esso è oggi quel nano che facilmente si occulta, piccolo e brutto come si ritrova"(cfr E. Sanguineti, Introduzione, K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Roma, Meltemi editore, 1998, p. 9, cors. mio), ho deciso di scriverti di alcunì risultati di mie riflessioni, per sollecitare una ripresa del lavoro critico, della pratica della libertà e della lotta di liberazione. Mi auguro che siano degne della tua stimatissima attenzione. La mia convinzione, per evitare inutili equivoci, è questa: solo con Marx, e con un Marx liberato dalla sua offuscata lucidità, possiamo capire criticamente Platone (la filosofia), Gesù (il messaggio evangelico e la religione cattolico-romana), Hegel (l’identità della filosofia e della religione) e il nostro tempo, non vicerersa. E la mia proposta - presentata qui di seguito come via chiasmatica della conoscenza non è altro che la proposta di un materialismo storíco liberato dalla sua cecità e capace non solo di realizzare "un’ananmesi della genesi" e "risolvere il míracolo greco passando attraverso il denaro" (come ha intuito e tentato Sohn-Rethel), ma anche di sognare meglio quello che hanno sognato tante generazioni e anche noi ancora sogniamo [...]
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Caro Primo,
su questa strada, mi sembra, è la via d’uscita (sul tema, cfr. Michael Walzer, Esodo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1986) dall’Egitto capitalistico e la ‘chiave’, consegnataci dal Dio dei nostri padri e delle nostre madri, per entrare nella Terra... promessa e abitarla in spirito di pace, giustizia, e amicizia. Il comunismo è la cosa semplice, più difficile a farsi.
Dar vita a quello che Tu, nella piccola terra-libreria - lo specchio della tua identità e della tua libertà, il grande spazio aperto e accogliente della Calusca prima e della Calusca City Lights dopo, superando difficoltà e mai perdendo il coraggio e la lucidità, hai saputo far accadere, e mostrarne la possibilità: esseri umani che si incontrano nella libertà, nel rispetto reciproco, e, amichevolmente, fanno Uno (la Relazione Chiasmatica) e questo Uno illumina, spezza le catene e apre i recinti, trasforma le relazioni (a riguardo, ricordo la ‘magica’ giornata - una per tutte, simbolicamente - in cui, in [via] Conchetta, si presentò e si discusse il lavoro di Giorgio Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Roma, Edizioni Sensibili alle foglie, 1993), e realizza un nuovo rapporto sociale di produzione (di esseri umani, di idee, e di cose), apre a una nuova, chiasmatica, prassi e a una nuova misura di tutti gli affari umani.
Nonostante gli inevitabili errori e inciampi, molti sono stati i LUMHI (Libera Università di Milano e del suo HInterland “Franco Fortini”), i nuclei di microutopie (cfr. Sergio Bologna, Due parole tanto per..., in AA. VV., Lezioni sul revisionismo storico, Cox 18 Books, Calusca City Lights, Milano 1999), da te accesi e disseminati per le strade (del mondo e) della Milano che fa male.
Tu hai ben capito che il cielo della metafisica non è che non esiste, e che non è nemmeno il cielo di carta del teatrino politico-religioso capitalistico, ma è lo spazio libero della Relazione amicale e amorosa, già dei nostri padri e delle nostre madri, non lo spazio occupato dal Vitello d’oro del Signore di turno, di Platone, di Hegel, o di Papa Wojtyla - il Dio del Denaro e del Capitale.
Marx, Nietzsche, e Freud, avevano e hanno ragione: la filosofia speculativa e la religione assoluta, quella cattolica, hanno stretto una santa alleanza e inquinato l’al di là, per dominare l’al di qua. Insieme a loro, e ai nostri padri e alle nostre madri, noi non possiamo non riprendere il cammino, bonificare il cielo e liberare noi stessi, noi stesse, e la terra. Come in alto, così in basso: non facciamoci ingannare dal gioco degli specchi. Nello specchio si riflette ciò che noi, volendo e potendo, facciamo o non facciamo, non c’è né il Dio che ci ordina questo e quello, o ci vieta questo e quest’altro, né il modello di quello che dobbiamo o non dobbiamo fare! La religione è l’oppio per i popoli, il platonismo per un popolo... ‘eterno bambino’.
Tu lo sai e ne abbiamo discusso spesso. Intorno alla Terra non c’è il grande nemico, il nulla, come vogliono far credere nel pensiero e nella realtà i vari Faraoni che nel tempo hanno sempre innalzato grandi muraglie (ricordiamoci di Giordano Bruno) e inventato il filo spinato per costruire campi di concentramento di esseri viventi, di animali (enclosures) prima e di esseri umani (Auschwitz) dopo.
Come intorno alla Terra, così intorno e dinanzi all’Io in carne e ossa: non c’è il nemico o la nemica, lo straniero o la straniera, ma altri esseri umani, sensibili e razionali come noi, con cui incontrarsi rispettarsi arrabbiarsi e fare addirittura la guerra, non per annientare o essere annientati, ma, battendosi - come dice e ha fatto per tutta la vita Mandela - senza disonorare l’avversario, per trasformarsi a vicenda, continuare a camminare sulla strada della vita, e crescere insieme, in più di amore (non di odio e distruzione) di sé, degli altri esseri umani, e dell’intera Natura.
La storia siamo noi... A partire da due uniti in Uno, e non da uno che vuole fare l’Uno, e non sa nemmeno Chi è il Primo e come nasce il Primo e chi è Primo Moroni, il nostro leader maximo - l’archivio vivente della nostra memoria.
Tu sai e sapevi la differenza (non solo imparata da tuo padre e da tua madre, ma anche dal tuo grande e saggio maestro, il compagno Mario Spinella - non dai vari accademici platonici) tra socialismo e barbarie e non hai mai confuso “Moro” (alias, il nostro grande Karl Marx) con Stalin (tu stavi attento a quanto facevano Franco Fornari, Elvio Fachinelli e tanti altri psicoanalisti e avevi letto non solo Sigmund Freud ma anche il lavoro del compagno Wilhelm Reich, o grande Primo, e conoscevi benissimo La psicologia di massa del fascismo [Milano, Sugar editore, 1971], come del ‘comunismo’ staliniano - e L’assassinio di Cristo [Milano, Sugar editore, 1972], e come si era diffusa la peste emozionale tra l’umanità!) e Moro (Aldo) con il ‘grande vecchio’ delle Brigate Nere (‘cattoliche’, ‘americane’, e mafiose). E hai capito che le Brigate Rosse (dalla vergogna delle loro radici molto cattoliche e poco cristiane, molto staliniane e poco marxiane) confondevano l’uno con l’altro e uccidevano l’uno e l’altro.
Tu, Primo, non ti sei lasciato confondere le idee e le emozioni, non ti sei fatto terrorizzare da quanto ci accadeva intorno, hai cercato di capire, e hai sempre parlato con chiarezza, intelligenza e cuore, e sei andato avanti con tranquillità e insieme con rabbia e dolore... ma luminosamente.
Conoscevi e conosci la misura e la bilancia delle azioni e delle ricchezze delle persone e hai saputo trovare il passaggio epocale della libertà dalla trappola ideologica degli opposti estremismi (di chi ha detto - “Ho fatto solo il mio dovere”, nell’opera di sterminio del popolo ebraico, del popolo Rom e degli omosessuali di tutti i popoli e nello sganciamento dalla Enola Gay del “Little Boy” su Hiroshima) e del revisionismo storico (stalinista prima e fascista dopo).
E hai saputo praticare ed esercitare, con saggezza e responsabilità, la tua sovranità e la tua libertà, e realizzare, nel Ticinese, nella tua zona (cfr. la bella giornata dedicata alla presentazione e alla discussione del libro di Hakim Bey, dove non si teorizzava se non ciò che tu e la tua Calusca già avevi realizzato e praticavate - e con più lucidità, come giocando e sorridendo feci rilevare nel mio intervento - già da anni: “La TAZ deve essere la scena della nostra presente autonomia, ma può esistere solo a condizione che già ci conosciamo come essere liberi” [T.A.Z. Zone temporaneamente autonome, Milano, Shake edizioni, 1991, p. 48]). Uno spazio chiasmatico di relazioni vive, ricche, e straordinarie, un arcobaleno (come in Sudafrica) a Milano. Un miracolo.
Finalmente siamo arrivati a capo - alla Città del Capo, di Mandela, del Capo di Buona Speranza. Ti ricordi la brutta giornata in cui cercammo di discutere della mente accogliente (op. cit.), e chi giocava il ruolo di avvocato del diavolo (devo dire, molto bravo - perché non sapeva di giocarlo) disse cose che non stavano né in cielo né in terra relativamente al tema, e noi, per poca chiarezza di mente, di cuore, e, soprattutto, bloccati da un amico ‘grande luminare’ che si trasforma in ‘nemico’ e ti confonde le idee, lo lasciammo parlare e parlare nel suo modo pieno di saccenteria e tracotanza, ci bloccò la voce in gola e rese l’atmosfera della Calusca tutta grigia e plumbea.
Tu, alla luce della tua esperienza, competenza, avevi capito il gioco e, con il tuo sapiente eccezionale sorriso, carico di umanità e incoraggiamento, mi sollecitasti ad andare avanti, oltre. Grazie ancora, Primo. Resterai sempre nell’archivio vivente della mia memoria. Nei miei confronti, come con tutti e tutte, sei stato un amico leale e forte, sempre generoso e disponibile, con la tua viva e libera attenzione.
Ti ho veduto da lontano (Taba asi), come salutano e dicono qui gli ultimi sopravvissuti a tutte le miserie della nostra cultura Occidentale - i primi abitatori di queste terre edeniche (da noi, Uomini bianchi, guardatici allo specchio dell’odio di noi stessi, scambiate per giungla) chiamati abitanti della foresta, boscimani. Da Johannesburg ti lancio, a voce, un pianissimo fortissimo - acutissimo: ciao, Primo!
Mi auguro che i boscimani sopravvissuti, nel deserto del Kalahari come nel deserto delle metropoli del mondo, raccolgano il messaggio e te lo trasmettono sul filo del vento - fino alla tua Calusca, nella tua Chiaravalle.
Anche Rolihlahla, questo ragazzo della tribù Xhosa, un grande attaccabrighe, anch’egli un leader maximo formidabile e un archivio vivente della memoria del suo popolo, il compagno Nelson Mandela, ha capito chi sei e ti saluta.
E, insieme, oggi 19 marzo 2000 d. C., nel ricordo del Dio dei nostri padri e delle nostre madri, di Giuseppe e Maria, padre e madre del nostro amico, Gesù il Nazareno, e della primavera che da voi e da noi sta arrivando, salutiamo te e tutti i compagni e tutte le compagne del Pianeta Azzurro.
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Sulla chiusura e il sequesto del Centro Conchetta e della Calusca, si cfr. nel sito,:
La figlia di Primo Moroni: "Ho paura per l’archivio di mio padre"
APPELLO: RIPRENDIAMOCI CONCHETTA (di Marco Philopat).
Per aderire:-> www.petitiononline.com/cox18/.
L’Ultima
Il verso di Jack Hirschman
RITRATTI. Muore a 87 anni il poeta statunitense vicino alla «Beat Generation» di cui fu tuttavia critico. Ai salotti letterari preferiva le periferie, le piazze, i centri sociali, le scuole e le carceri. Nel 2009, insieme a Sarah Menefee, Bobby Coleman e Cathleen Willams, fondò le «Revolutionary Poets Brigade», organizzazione internazionale che oggi è presente in varie città
Jack Hirschman / foto di Marco Cinque
di Marco Cinque (il manifesto, 24.08.2021).
Dopo le ultime grandi voci poetiche della controcultura statunitense, il 22 agosto è venuto a mancare, a San Francisco, anche l’ottantasettenne Jack Hirschman, che assieme all’inseparabile Ferlinghetti e ad Amiri Baraka, formava un gruppo di irriducibili che ha fatto della poesia un’arma per combattere contro ogni guerra, ogni fascismo, ogni ingiustizia.
Ho conosciuto Hirschman nel 1998, assieme alla moglie Agneta Falk, durante un reading internazionale organizzato da Sergio Iagulli, fondatore della Casa della Poesia di Baronissi. La Casa della Poesia è stata un’esperienza unica in Italia, dove il bosniaco Izet Sarajlic, poeta della Sarajevo assediata, assieme allo stesso Hirschman, sono stati le pietre angolari su cui si è costruita una rete internazionale di relazioni culturali, politiche e soprattutto umane senza precedenti.
LE OPERE di Hirschman presenti in Italia sono state tradotte da Raffaella Marzano, poi pubblicate dalla Multimedia Edizioni (condivisa da Marzano con Iagulli). In tutti questi anni Sergio e Raffaella sono diventati la famiglia italiana di Jack, organizzandogli incontri e tour poetici. La biografia di Hirschman è talmente ricca da essere quasi impossibile sintetizzarla; sono anni infatti che la scrittrice e traduttrice Alessandra Bava ci sta lavorando con passione e assiduità. Hirschman era un artista a tutto tondo, pittore e performer, non troppo incline ai palcoscenici accademici e ai salotti letterari, a cui preferiva le periferie, le piazze, i centri sociali, le scuole, le carceri.
Nato a New York, nel Bronx, in gioventù insegnava presso la Ucla University di Los Angeles (tra i suoi studenti figurava anche Jim Morrison, poi leader dei Doors), da dove fu espulso per il suo attivismo politico contro la guerra: promuoveva col massimo dei voti gli studenti passibili di arruolamento, per evitar loro di partire per il Vietnam.
Anche se amico di molti poeti della Beat Generation, Hirschman si differiva politicamente da una corrente letteraria che definiva una «rivoluzione borghese», perfino un «business letterario». In un’intervista affermò che «la Beat Generation non è un’avanguardia. La vera avanguardia è quella capace di lottare contro le ingiustizie ed è vicina alle istanze dei poveri nel mondo. Questa è la responsabilità dei veri poeti».
Hirschman ha pubblicato più di cento libri e un’infinità di traduzioni, da nove diverse lingue, di autori come Majakovskij, Dalton, Pasolini, Scotellaro, Laraque, Celan, Heidegger, Neruda e molti altri.
LA SUA VOCE POTENTE, spesso intrecciata a percorsi sonori e ritmici, è un’esperienza che chi ha avuto la possibilità e la fortuna di vivere non può dimenticare. Epico un suo reading a San Francisco - città in cui egli viveva e in cui è stato nominato «Poeta Laureato» -, che dedicò ai senzatetto, declamando versi davanti a centinaia di homeless. Ma il suo impegno più grande è stato da sempre quello contro la guerra: «Sono nato durante la seconda guerra mondiale, quando si diceva “uccidi i nazisti”. Conosco l’esperienza della guerra in Vietnam, della guerra in Corea e di tutte le guerre. E le guerre sono un’esperienza che non bisogna ripetere, favorire o aiutare. Mai».
Nel 2009, assieme a Sarah Menefee, Bobby Coleman e Cathleen Willams, Hirschman fondò le Revolutionary Poets Brigade, un’organizzazione internazionale di poeti politicamente e socialmente impegnati che oggi conta gruppi in diverse città: Los Angeles, Albuquerque, Chicago, Burlington, Parigi, ma anche in svariate città italiane.
Insieme ad Alessandra Bava e altri poeti della capitale, inaugurammo il gruppo delle RPB romane, che ha prodotto diversi reading e un paio di antologie. Tra i tanti, qualche anno fa partecipai a un evento poetico indimenticabile con Jack, nel carcere di Pesaro, assieme a detenute e detenuti. Ricordo che durante l’incontro un detenuto si alzò e, in maniera un po’ provocatoria, chiese a Jack: «ma tu in carcere ci sei mai stato?». Gonfiando il petto sotto gli straccali rossi e sorridendo dietro i suoi folti baffoni, Jack aprì il palmo della mano e rispose: «Sì, cinque volte». Dalla platea allora si alzarono pugni chiusi e si levò un sonoro urlo collettivo, come se la squadra del cuore avesse fatto goal. Le affinità elettive manifestatesi avevano contribuito a trasformare il linguaggio poetico in qualcosa di necessario, concreto, rivoluzionario, tanto che dopo quell’incontro anche i detenuti delle Marche fondarono un gruppo di RPB e pubblicarono una raccolta antologica sul carcere, naturalmente con l’introduzione del loro compagno Jack. Jackissimo per gli amici.
LA POETICA DI HIRSCHMAN è un lungo percorso di coerenza, impossibile da separare dalla sua quotidianità. Ha fatto della poesia non solo un linguaggio attraverso cui esprimere il proprio talento, ma un vero e proprio stile di vita: tra parola e azione, infatti, non ha mai marcato nessuna distanza, nella febbrile ricerca di quella che lui definiva «verità dell’essere».
A fine agosto doveva tornare in Italia, ma non ce l’ha fatta. Ci mancherà tanto Jack, il ragazzaccio del Bronx, ebreo e comunista, che ha dato alla poesia una forza e un’umanità irripetibili. Senza di lui saremo tutti più orfani, anche se i suoi versi, parafrasando Leo Ferrè, continueranno per sempre a «fare l’amore nella testa dei popoli».
Cultura
Un frenetico giro intorno al mondo tra oggetti, corpi e sensazioni
Il poeta. I versi di Lawrence Ferlinghetti dedicati all’emigrazione. Come Montale, interroga la vita per far luce sull’esistenza umana e decifrarne il mistero. Trapiantare il girasole è il sogno del migrante, il girasole la metafora per la luce come vitalità, cambiamento, visione del futuro, verità. La luce come panorama di culture, linguaggi, identità plurime
di Maria Anita Stefanelli (il manifesto, 25.02.2021)
«Portami il girasole impazzito di luce»: l’omaggio a Montale, in italiano, è l’epigrafe di Lawrence Ferlinghetti a «Surreal Migrations» («Migrazioni surreali», in Blind Poet - Poeta Cieco, Giunti 2003, traduzione italiana di Antonio Bertoli), la poesia contenuta in How to Paint Sunlight (Come dipingere la luce) l’edizione paperback del 2001 pubblicata, come molte sue poesie, da New Directions (New York), sulla costa opposta dell’America rispetto a San Francisco, dove è nata, poi fiorita, l’allora «notoria» (anni Cinquanta) City Lights Booksellers and Publishers. SULLE TRACCE del pittore Edward Hopper, il cui desiderio è «dipingere la luce del sole sulle facciate delle case», Ferlinghetti, come il «romantico irrazionale e visionario» che dipinge la solitudine, costruendo oggetti, corpi e sensazioni con la luce, per il quale «la luce viene prima e l’oscurità non è che un’ombra fugace da eliminare con più luce» («A Word»).
Ed eccolo a compiere, con la leggerezza di un bimbo sulla giostra (light, in inglese, traduce «luce» ma anche «leggero») un frenetico giro intorno al mondo, da Praga (dove Jan Hus ha cercato la libertà dall’oppressione) attraverso fiumi, mari, oceani, sempre in direzione ovest, impaziente e di raggiungere il lontano Oriente, il Medio Oriente, il Nord Africa, l’Ellesponto e il Mediterraneo fino alla penisola italica, dove, incalzato dal tempo come il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie, si fionda in discesa attraverso brevi versetti a scalini, approfittando di una lingua nativa, l’inglese (per la verità, parlava anche francese da piccolo), di cui sfrutta i molti monosillabi sui quali facilmente scivola da un fiume all’altro: «Across the rivers of the world/ Across the Rhine/ Across the Rhone/ Across the Seine/ Across the Thames/ Across Anna Livia’s Liffey/ Across Atlantic/ Across Manhattan/ Across Great Hudson/ into the heart of America» e si chiede «Where is the light?».
GIÀ, DOV’È LA LUCE per gli Europei, gli Italiani (come suo padre, insiste, ma non è dato averne certezza), che emigravano in cerca di lavoro, inseguendo il sogno americano, e che emigrano ancora in America? La poetica del fiume di Ungaretti («Questi sono i miei fiumi», ha scritto emulando l’Italiano), l’immagine del girasole di Montale «che conduce/ dove sorgono bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza», il Paradiso di Dante dove il viaggio termina (ma il suo Paradiso, di Lawrence, è diverso!), da questi e altri ancora Ferlinghetti assorbe citazioni e motivi, parole e musica: «Surreal migrations of words/ somewhere between speech and song» (Migrazioni surreali di parole/ da qualche parte tra discorso e canzone).
Tra l’ansia (l’artista ne soffre) e lo spasso (il poeta - Shakespeare docet - inventa pun per puro divertimento) Ferlinghetti, come Montale, interroga la vita per far luce sull’esistenza umana e decifrarne il mistero. Trapiantare il girasole è il sogno del migrante, il girasole la metafora per la luce come vitalità, cambiamento, visione del futuro, verità. La luce come panorama di culture, linguaggi, identità plurime.
«What is Poetry?», si chiede Ferlinghetti nel suo Poetry as Insurgent Art (1975): «È qualcosa da invocare in una selva oscura nel mezzo del cammino della vita».
Ciao, Larry, salutaci il tuo Paradiso.
CAMBIARE IL MONDO, TRASFORMARE LA VITA. Desiderio di rivoluzione ... *
“Abbiamo bisogno di cambiare il mondo, ed è urgente”
di Rachel Kushner (Alfabeta-2, 30 giugno 2019)
Un mio amico di Milano, il primo italiano con cui mi è capitato di parlare di Nanni Balestrini, ha detto: “Nanni? Quando stava per essere arrestato, l’ho portato in macchina in val d’Aosta per aiutarlo a scappare. È passato in Francia con gli sci e io l’ho ripreso a Chamonix”. Con questo amico pensavo che avremmo semplicemente discusso la poesia di Nanni, la sua arte, i suoi romanzi. Forse la sua politica, non una vita in fuga. Ma la vita, e la politica, e l’arte, sono in qualche modo perfettamente fuse nello spirito di Nanni, per cui sentire che il mio amico lo aveva aiutato a salvarsi in Francia nel giro di vite dei tardi anni ’70 non avrebbe dovuto sorprendermi.
In realtà a colpirmi davvero è stata l’idea che Nanni sapesse sciare abbastanza bene da passare il Monte Bianco in sci. In seguito ho saputo che insieme a lui c’era un istruttore. Più volte con Nanni ho cercato di sapere di più su questo fatto, ma a Nanni non sempre piacevano le domande. Una domanda per lui era spesso una scorciatoia per la banalità. Quando l’ho incontrato la prima volta, l’ho subissato di domande sulle persone che aveva conosciuto, sulla sua scrittura, sulla politica dell’autonomia, ma lui mi ha posato una mano sul braccio e ha detto: “Ascolta, parliamo del vino da scegliere. Questo è un pranzo. Siamo a pranzo. Siamo in un ristorante. Comportiamoci da persone civili. Decidiamo cosa mangiare, cosa bere, magari parliamo del tempo. Il resto può aspettare”.
In quel pranzo, quando alla fine siamo arrivati a parlare di politica, è stato molto serio, e astuto, e si è concentrato sulla vita oggi, e sulla vita nel futuro, senza nostalgia, anche se non ha avuto esitazioni nel parlare del passato. Come mi ha detto in seguito, quando l’ho intervistato in modo più formale: “Più che nostalgico, mi considero fortunato per essere vissuto in un periodo straordinario e felice. Ma sarebbe insensato cercare in quel periodo qualcosa che anticipi o qualcosa che possa servire oggi, in una situazione completamente diversa quale è quella in cui ci troviamo, quarant’anni dopo. Tutto è diverso, tutto è cambiato. A servirci sono nuove idee, ed è un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Quegli anni ci offrono solo uno stimolo, o meglio un imperativo: che abbiamo bisogno di cambiare il mondo, e che questo è possibile, necessario, urgente”.
Quel giorno, dopo che abbiamo finito di mangiare, siamo andati nel suo studio per guardare i suoi lavori, i suoi libri. Diverse ore più tardi, mi ha accompagnato a piedi alla stazione. Ci siamo salutati al varco che possono superare solo i passeggeri muniti di biglietto. Ho continuato a voltarmi e Nanni era lì, fermo dove ci eravamo congedati. È rimasto finché il mio treno è arrivato e io sono salita. In qualche modo, in quel momento prolungato in cui lo osservavo fermo a guardarmi, sapevo che non lo avrei più rivisto e mi sono sentita molto triste, e insieme fortunata.
Nanni non ha mai risposto alla domanda per me più importante su Vogliamo tutto. Volevo saperne di più su Alfonso, la persona che ha ispirato quella voce. Ora, guardandomi indietro, non so bene perché lo considerassi così importante. Il punto, credo, è che non riuscivo a capire come Nanni avesse scritto un romanzo così perfetto, un’epopea che assume una voce che canta con tanta forza e comicità e rabbia, e tuttavia ci dà il senso di migliaia, di moltitudini di Alfonso. Chi era questo tizio, Alfonso, com’era davvero? In un certo senso, pensavo che leggere Vogliamo tutto significava immergersi nello spirito di quest’uomo speciale, il leggendario Alfonso. E più ne avessi saputo, più mi sarei calata in lui. Ma Nanni è stato molto cocciuto nel suo rifiuto di dirmi qualcosa su Alfonso. Ha detto: “Tu cerchi di costringermi a ridare ad Alfonso la sua individualità. Questo è l’opposto di quello che io volevo fare nel libro, dove lui non ha nome. Non posso farlo”. Pure, io mi stupisco all’idea che un imperativo artistico sia un imperativo assoluto. Per Nanni Balestrini, non c’è differenza e non c’è compromesso.
CAMBIARE IL MONDO, TRASFORMARE LA VITA....
BRILLANTISSIMO testo e brillantissima "testimonianza" di Rachel Kushner. La scrittrice statunitense, nata nel 1968, mette coraggiosamente il dito su un’operazione artistica e politica tragica: fa emergere ora (2019) ciò che era già chiaro allora, qualche anno dopo la sua nascita, nel 1971, quando fu pubblicato "Vogliamo tutto".
"QUARANTA ANNI DOPO", sollecitato dalla scrittrice, Nanni Balestrini a quanto racconta ( “Più che nostalgico, mi considero fortunato per essere vissuto in un periodo straordinario e felice. Ma sarebbe insensato cercare in quel periodo qualcosa che anticipi o qualcosa che possa servire oggi, in una situazione completamente diversa quale è quella in cui ci troviamo, quarant’anni dopo. Tutto è diverso, tutto è cambiato. A servirci sono nuove idee, ed è un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Quegli anni ci offrono solo uno stimolo, o meglio un imperativo: che abbiamo bisogno di cambiare il mondo, e che questo è possibile, necessario, urgente”) e, contro il suo stesso "cocciuto" rifiuto a rispondere alla domanda su "Vogliamo tutto" ("Volevo saperne di più su Alfonso, la persona che ha ispirato quella voce"), alla fine, è "costretto" ad aggiungere e ad ammettere: “Tu cerchi di costringermi a ridare ad Alfonso la sua individualità. Questo è l’opposto di quello che io volevo fare nel libro, dove lui non ha nome. Non posso farlo”.
La risposta è chiara, ma Rachel Kushner resta "ipnotizzata" e finisce per condividere: "Pure, io mi stupisco all’idea che un imperativo artistico sia un imperativo assoluto. Per Nanni Balestrini, non c’è differenza e non c’è compromesso"!!! E se, invece di Alfonso, "la voce" fosse stata di Rachel?! Dov’è l’imperativo assoluto e l’imperativo artistico di Alfonso e di Rachel - e quello di Adamo ed Eva, e di Maria e Giuseppe?! Ma che "Dio" era quello di Balestrini?! E che "Dio" è quello di Kushner?! E’ un "desiderio di rivoluzione" questo o che?! Boh e bah?!
P. S. Ricordando di Nanni Balestrini, non posso non ricordare anche di Primo Moroni. Sul tema, mi sia lecito, cfr. "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam).
Morto Nanni Balestrini, pioniere ribelle.
Scrittore, animatore culturale, curatore di antologie, portavoce della contestazione giovanile. Aveva 83 anni. Agli esordi componeva versi con un calcolatore Ibm
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 21.05.2019)
I nemici della neoavanguardia lo chiamavano «il poeta cotonato». Milanese, classe 1935, di padre lombardo e madre tedesca, fu Nanni Balestrini ad accendere i fuochi del Gruppo 63: per alcuni una colpa imperdonabile, per altri un grande merito. Era attratto dalle sperimentazioni elettroniche di Berio, Maderna e Stockhausen, e anche lui, allora giovane poeta e redattore della rivista letteraria «Il Verri», utilizzava un «calcolatore» Ibm per comporre versi: con il suo impeto forse incosciente fu Balestrini a convincere il barone siciliano Francesco Agnello a ospitare una riunione di letterati durante la rassegna internazionale della Nuova Musica. E così il 3 ottobre 1963 l’Hotel Zagarella di Solanto accolse il vivace manipolo di giovani intellettuali in bungalow che si affacciavano sul mare del piccolo golfo a ovest di Palermo.
I nomi oggi sono noti: c’erano Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Renato Barilli, Enrico Filippini, Alberto Arbasino, Amelia Rosselli, Furio Colombo, Giorgio Manganelli, Francesco Leonetti... E i cinque poeti che nel 1961 avevano fatto parte dell’antologia I Novissimi: Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani e lo stesso Balestrini.
Tra le presenze silenziose all’Hotel Zagarella c’era Elio Vittorini, mentre Alberto Moravia partecipò opponendosi con vigore (e divertimento) alle tesi dei «ribelli». Tra i giornalisti che seguirono la denuncia contro le Liale del ’63 (Cassola, Bassani) facevano capolino Andrea Barbato e Sandro Viola. Ne venne fuori, sull’«Espresso», una cronaca dal titolo L’avanguardia in vagone letto, tratto da una frase di Eco.
Abbandonati gli studi di economia, redattore della Bompiani (con Eco) e poi della Feltrinelli (fino al ’72, anno della morte di Giangiacomo), Balestrini è stato un precoce accanito sperimentatore, creatore e pioniere di nuove forme, combinatore di collage, indagatore sconfinante ovunque - nel teatro, nella musica, nel balletto, nelle arti visive - con assemblaggi e bricolage che facevano inorridire i pacifici fautori del romanzo tradizionale e della poesia postermetica. Il primo frutto narrativo del suo furore avanguardistico fu Tristano (Feltrinelli 1966), definito un «romanzo multiplo», che nelle intenzioni doveva essere un progetto di esemplari illimitati e diversi l’uno dall’altro, composto di materiali preesistenti, scarti e rimasugli della narrativa rosa, dei libri di geografia e di navigazione, dei saggi storico-politici. In realtà si trattò di un omaggio ironico all’archetipo del romanzo amoroso ma in forma di inventario provocatorio della merce verbale capitalistica, percepita come sostanza già un po’ deperita.
È con Vogliamo tutto (Feltrinelli 1971) che Balestrini si impone all’attenzione del pubblico (con traduzioni pressoché immediate), trattando il tema dell’autunno caldo del 1969, la mobilitazione sindacale e le rivendicazioni delle fabbriche del Nord. A colpire nel segno è il «montaggio creativo», un altro lavoro combinatorio, che questa volta si avvale della registrazione della voce al magnetofono di un operaio salernitano, Alfonso Natella, emigrato a Torino e coinvolto nella protesta: documenti prelevati direttamente dalla realtà, restituiti senza sintassi né punteggiatura, quasi come pure «impressioni» ritmiche e referenziali, la cui organizzazione per blocchi narrativi intercambiabili è spinta al limite del nonsense. Natella è l’operaio-massa vittima dell’alienazione, personaggio collettivo «ossessionato dalla ricerca di una fonte di reddito per consumare e sopravvivere», incapace però di accettare la nuova ottica produttiva.
Il «rifiuto di ogni valenza soggettiva e consolatoria» è anche la cifra dei versi di Balestrini, a partire da Il sasso appeso (Scheiwiller 1961), con il suo linguaggio programmaticamente alieno ai registri alti. Agitatore instancabile per natura, gli si deve l’invenzione del mensile Quindici, e alla fine degli Anni 70 la fondazione di un altro mensile, Alfabeta: nella cui redazione raccolse gli amici di sempre, la studiosa Maria Corti, il poeta Antonio Porta, Umberto Eco e Pier Aldo Rovatti, gli scrittori Francesco Leonetti, Mario Spinella e Paolo Volponi, il grafico Gianni Sassi. Un gruppo formidabile, da cui nacque quella che Romano Luperini ha definito «l’ultima rivista del Novecento italiano, l’ultimo nucleo culturale che tenne acceso il dibattito letterario, politico e culturale»: uno spazio che riuniva varie anime, dai critici legati al Pci alle espressioni radicali extraparlamentari, dall’accademia strutturalista agli eredi della neoavanguardia, dal pensiero debole al postmoderno internazionale.
Intanto, coinvolto nell’ondata di arresti che dal 7 aprile 1979 coinvolsero per associazione sovversiva e banda armata molti esponenti di Autonomia operaia, Balestrini evitò il carcere rifugiandosi in Francia fino all’84, quando fu assolto e potè tornare in Italia. Già nel 1976, il suo «sismografo» ipersensibile aveva registrato i sommovimenti e le paure degli anni di piombo ne La violenza illustrata (Einaudi), un nuovo libero montaggio-laboratorio, questa volta fatto di deposizioni processuali, dissertazioni, cronache di guerriglia.
Guardando alla sua energia proteiforme, anche i suoi (numerosi) detrattori dovranno riconoscere la strenua fedeltà di Balestrini a un’idea di letteratura contaminata, «sporca», a suo modo testimonianza civile dei luoghi più caldi della contemporaneità (per esempio le curve da stadio ne I furiosi, Bompiani 1994 ). A testimonianza della sua tenacia nella lotta, ancora nel 2010 tornò nell’arena della più stretta militanza rilanciando una nuova serie di Alfabeta con giovani compagni di strada come Andrea Cortellessa, Maria Teresa Carbone e Andrea Inglese. Cercava il dialogo con le generazioni più giovani e lo ottenne.
Balestrini. Addio al Poeta dell’Avanguardia
Con Eco, Arbasino e altri era stato fondatore e voce di uno dei movimenti letterari più creativi degli anni Sessanta e Settanta: il suo “Vogliamo tutto” è stato il manifesto di una intera generazione
di Furio Colombo (Il Fatto, 21.05.2019)
E adesso? Nanni Balestrini, ventenne allora, ottantenne nel giorno della chiusura, ha sempre provveduto alla esistenza, alla convivenza, allo stare e ritornare insieme, al rilanciare la fune cui aggrapparsi per continuare un legame che avrebbe dovuto evaporare negli anni e che è stato chiamato Gruppo 63.
È vero, si è disperso, ma per un ritrovarsi continuo, in un intrico di rapporti che - dalla citazione alla collaborazione professionale -, finisce solo, di volta in volta, per ragioni di destino, mai per noia o caduta di interesse. Qui sto usando la parola “destino” nel senso spagnolo di destinazione, perché uno dei più importanti eventi del Gruppo 63 ha avuto luogo a Barcellona (nel 1966), complici un gruppo di architetti, una attivissima casa editrice e alcuni pittori catalani già celebri. Erano gli ultimi giorni del franchismo, ma la Catalogna si considerava libera, e Balestrini non ha avuto alcuna esitazione nel convocare la nostra riunione in Spagna (dove il Gruppo aveva già la sua filiale).
Infatti ignorare i confini e non tener conto “dei nostri valori tradizionali” era già lo spirito profondo del gruppo che Balestrini aveva, allo stesso tempo, portato nel gruppo e assorbito dal gruppo. Esempi: da un lato Balestrini aveva agganciato la piccola (e poi molto cresciuta) casa editrice Wagenbach di Berlino, e gli scrittori del Gruppo tedesco 47. Dall’altra, con Arbasino autore della Gita a Chiasso (il messaggio era: “Andate almeno al confine svizzero per intravedere il resto del mondo, e sapere che c’è vita fuori dai sacri confini della patria”), aveva lanciato il manifesto della nuova aggregazione di poeti, scrittori, filosofi, musicisti, pittori, scienziati, liberi da ogni superstizione sovranista (la parola non esisteva, ma c’erano già i post-fascisti).
Balestrini non aveva (e dunque il Gruppo 63) e non ha mai avuto agganci politici nel senso italiano della espressione. La destra aveva trovato nel Gruppo 63 i suoi nemici (contro la tradizione, scherziamo?). Il centro non si fidava e non si sarebbe neppure accostato. Craxi era celebre per il suo rude modo di rivolgersi alla cultura con parole come “intellettuali dei miei stivali”. Il Pci non trovava l’oggetto “avanguardia” (parola comunque sospetta) nei suoi scaffali, neppure sotto la voce “sperimentalismo” (che avrebbe potuto essere un escamotage del capitalismo in cerca di infiltrazioni tra i giovani), e non apprezzava humour e satira che il gruppo spargeva intorno, anche per avere spazio e respiro rispetto all’assedio perdurante della letteratura del sentimento.
Nasce Quindici, il giornale del gruppo, dal disegno e formato unico (nel senso di enorme ed elegantissimo), proposto e realizzato (la produzione), ovviamente, da Balestrini, scritto dal gruppo, cominciando con Umberto Eco, atteso dai grandi settimanali per cogliere titoli e argomenti. Qui la politica si accosta in un altro modo, in forma di rivoluzione. Si tratta di decidere se e a chi dare la parola, nel mondo giovane che esplode al di fuori del gruppo, ma quasi contiguo. Il Gruppo 63 dice no, perché scarta e respinge la violenza. Interrompe le pubblicazioni. Comincia una stagione difficile, afona. La festosa creatività che era stata il segno del gruppo diventa un lavorare più intenso e isolato.
Balestrini scrive Vogliamo tutto, forse il libro simbolo di quegli anni (che sono anche gli “anni di piombo”), la più attendibile interpretazione di quello che sta accadendo, che non chiede adesione ma fornisce il più straordinario murale di un’epoca. Eco pubblica Il nome della Rosa con il suo immenso, leggendario successo. E qui leggereste, in ogni altra storia di gruppi culturali, che il legame si scioglie e ognuno torna alla suo unico mondo. Ma non è stato così. Nel 2016 a Milano, c’erano tutti alla mostra di Balestrini (figure ottenute da un collage di parole) a cominciare da Eco.
Poche sere fa, da Otello, a Roma, Angelo Guglielmi (il critico divenuto manager), Giovanni Battista Zorzoli (lo scienziato divenuto letterato) e Balestrini erano insieme a cena, in un incontro convocato da Balestrini per un nuovo numero della rivista Alfabeta.
Il rigore della speranza
Vogliamo tutto. Nanni Balestrini scrisse anche «L’orda d’oro»: è il lavoro che portò a termine insieme a Primo Moroni nell’anniversario del ’68, vent’anni dopo
di Sergio Bologna (il manifesto, 21.05.2019)
Se qualcuno di noi, sociologo, storico orale, giornalista, avesse nel 1969, in pieno autunno caldo, intervistato Alfonso Natella noi avremmo oggi in archivio una delle tantissime testimonianze conservate come un bene prezioso ma che pochi leggono. Consegnata, quella testimonianza, a uno scrittore, a un poeta come Nanni Balestrini, è diventata un simbolo inestinguibile dei valori del ’68 operaio e non solo. La potenza del linguaggio letterario si esprime in Vogliamo tutto con quella valenza universale che riesce a condensare storia e memoria, utopia e iperrealismo, calcolo e speranza.
Sì, calcolo anche. Perché una lotta operaia dove sono in gioco interessi grossi, dove ciascuno si gioca il posto di lavoro, dove, se finisce bene, si cambia la storia d’Italia e il rapporto tra istituzioni, da dove può nascere addirittura un nuovo modo di produrre l’automobile - una cosa così né s’improvvisa né può riuscire senza che una serie complessa d’intelligenze, di conoscenze, una massa pesante d’esperienze vengano messe assieme, trasformate in sentire collettivo, codificate in parole d’ordine... e si decida di cominciare.
Di quegli anni, di quelle lotte, noi dovremmo proprio ripensare l’idea di spontaneità e dovremmo combattere lo stereotipo dell’operaio meridionale neoassunto che si ribella «perché è incazzato». Vogliamo tutto è la voce di un sapere antico che non ha difficoltà a decodificare i meccanismi delle moderne tecno-strutture. Altro che mera incazzatura, da lì sono nate le azioni e le riflessioni che hanno trasformato la medicina del lavoro, il modo d’insegnare, di fare informazione e anche, forse, il modo di scrivere. Balestrini ha avuto il grande merito di capire che se c’era una continuità nell’esperienza di avanguardia letteraria, quella che lo aveva visto tra gli iniziatori del Gruppo 63, la si poteva trovare solo nel rapporto coi movimenti del ‘68/’69. Aveva capito che fare cultura era un’altra cosa dopo il ’68.
E qui si potrebbe riaprire il capitolo del rapporto tra intelletti e movimenti sociali con intenzioni rivoluzionarie. Un tema fin troppe volte esplorato ma che, riconsiderato alla luce dell’esperienza umana di Nanni, può presentare ancora qualche spunto stimolante. In che senso? A mio avviso per capirlo occorre prendere in mano dopo Vogliamo tutto il lavoro che Balestrini porta a termine assieme a Primo Moroni, L’orda d’oro. Lo scrivono in una situazione in cui noi ci siamo trovati l’anno scorso: l’anniversario del ’68. Come in Vogliamo tutto Balestrini s’era scelto quale interlocutore una persona che meglio poteva rappresentare l’autunno operaio, così nel 1988 si sceglie come interlocutore la persona che meglio poteva interpretare lo spirito del movimento del 1977: Primo Moroni. Il libro va a ruba, è introvabile, lo prende in mano Sergio Bianchi, lo arricchisce di contributi e lo stampa con Feltrinelli nel 1997, una terza edizione uscirà nel 2003 e l’anno scorso, 2018, lo abbiamo ancora riletto e usato nelle commemorazioni del cinquantenario. Non è usuale che un libro di storia dopo 30 anni sia ancora rivelatore.
Ecco, bastano queste due opere per consentirci di fare il paragone con un altro che ha caratterizzato la sua vita di scrittore, saggista, poeta, sulla base di un rapporto coi movimenti: Franco Fortini. Due approcci più diversi al rapporto tra cultura, scrittura e movimenti è difficile immaginarli.
Franco ha interpretato il suo ruolo come quello di un profeta, di un censore, come quello di una guida che continua a richiamare al retto cammino una moltitudine che procede un po’ disordinata. La sua voce quindi si leva sopra il movimento, si deve sentire forte. Aspro dev’essere il suo tono che richiama i confusionari al rigore, alla coerenza e i sovraeccitati alla misura. La voce di Nanni invece non si sente, si confonde con quelle della moltitudine, una voce che non ostenta saggezza ma contiene tanto sapere tacito. Non c’è il minimo protagonismo nei suoi rapporti con il movimento mentre, credo - a partire da me stesso - di protagonismo e di narcisismo è infestata la dimora di quelli che vengono definiti «intellettuali». E magari alcuni ci cascano e pensano davvero di esserlo, mentre sono invece, ahimé, inutili rompiscatole.
Franco Fortini e Nanni Balestrini si sono mossi su due dimensioni diverse, hanno interpretato due ruoli ben distinti ma ambedue indispensabili: il ruolo del battistrada (oggi diremmo della leadership) e quello che Primo Moroni definiva «il ruolo della struttura di servizio».
Nel mio viaggio con Nanni
La ricerca del linguaggio la poesia e la pratica come irripetibile luogo di comunanza e parola che si rigenera nel «noi»
di Giairo Daghini (il manifesto 21.5.19)
E noi facciamone un’altra, era un leit motiv di Nanni quello di ricominciare sempre da capo tornando al luogo da dove si è partiti. Come la rivoluzione. Come il linguaggio. Ma per farne un altro. Il linguaggio senza fine del divenire. Ho compiuto molti viaggi con Nanni, sempre scavalcando delle frontiere. Il confine è uno spazio che vale come separazione, limitazione o come possibilità di connessione e attraversamento. Lui lo ha sempre pensato e scritto come spazio di apertura e di sperimentazione. Il confine liberato dagli aculei dei reticolati per la creazione di nuovi territori. O come la forma del linguaggio liberata dalle paludi della sintassi. Nella sua opera grafica, nei suoi découpages geografici saltano i confini chiusi e si ridisegnano nuovi ambienti del vivente.
Ho iniziato quel viaggio con Nanni molti anni fa, nel 1960 quando con «Linguaggio e opposizione» egli opponeva al comune linguaggio convenzionale, il linguaggio magmatico del parlato fatto di ritmi inconsueti , di grovigli, di immagini spropositate come il luogo di straordinarie apparizioni di fatti e pensieri. «Di qui - diceva - si fa strada l’idea di una poesia che nasca e viva diversamente. Una poesia più vicina all’articolarsi dell’emozione e del pensiero in linguaggio, espressione confusa e ribollente ancora, che porta su di sé i segni del distacco dallo stato mentale, della fusione non completamente avvenuta con lo stato verbale».
L’ascolto di quelle emozioni, di quel linguaggio era anche la linea di comportamento di noi che in quegli anni facevamo intervento ai cancelli delle fabbriche dove era arrivata una nuova generazione di lavoratori. Il nostro intervento di antagonismo a quel lavoro, a quello sfruttamento si incontrava sul suo fare poesia come opposizione al dogma e al conformisno che minaccia il nostro cammino, che solidifica le orme alle spalle, che ci avvinghia i piedi, tentando di immobilizzarne i passi. Con la sua poesia, con la musica di Demetrio Stratos, con il nuovo linguaggio filosofico del marxismo e della fenomenologia ho praticato il viaggio di quegli anni.
DOMENICA 6 MAGGIO
16.45: In memoria di Primo Moroni (presentazione del numero speciale della rivista «Primo Maggio» a lui dedicato)
Chi ha partecipato al ’68, all’autunno caldo ed ai movimenti sociali del decennio successivo ricorderà la rivista
“Primo Maggio”. L’avevamo fondata nel 1973, sarebbe durata fino al 1988. Cercavamo un editore, ci portarono in
piazza Sant’Eustorgio a Milano, dove c’era una piccola libreria, un bugigattolo, ma gestita da un grande uomo,
Primo Moroni.
È scomparso vent’anni
fa, vittima della malattia del secolo. Per ricordarlo abbiamo ripescato quel titolo “Primo Maggio”, anche perché
aveva un sottotitolo intrigante: “saggi e documenti per una storia di classe”. Volevamo fare una rivista di “storia
militante” ed è questo che suscitò l’interesse di Primo Moroni, un uomo di straordinaria sensibilità culturale che
colse al volo cosa c’era dietro quel termine di “storia militante”.
C’era la consapevolezza che scrivere di storia,
riorganizzare la memoria, ricostruire il passato, è un’attività, un mestiere, che richiede grande passione politica,
esige la scelta di stare dentro le cose e non di astrarsene per guardarle con distacco e giudicarle “obbiettivamente”.
Noi volevamo essere parziali, schierati da una parte, da quella di coloro che lavorano ma non godono dei frutti del
loro lavoro, di coloro che creano ma non godono dei frutti della loro creatività, di quelli che dicono la verità ma per
questo hanno la vita dura. E questo, nella pratica della storia, porta spesso a sorprendenti scoperte o a riscoprire
vicende su cui era calato il silenzio.
Noi che abbiamo fondato questa rivista, dato che siamo ancora in circolazione,
malgrado i decenni che ci portiamo sul gobbo, per ricordare Primo abbiamo chiamato a raccolta persone che lo
avevano conosciuto - ma anche giovani che ne hanno solo sentito parlare - per costruire con loro questo “numero
speciale” con tematiche
che avevamo già affrontato con lungimiranza 40 anni fa o tematiche di oggigiorno.
Abbiamo fatto un prodotto
online e non abbiamo trovato posto migliore per renderlo disponibile che il sito della fondazione creata da Luigi
Micheletti, un altro grande uomo, operaio di fabbrica, comandante partigiano, piccolo imprenditore, che ha
investito la sua piccola fortuna in quella
Biblioteca di storia contemporanea che a Brescia custodisce documenti di grande importanza per la storia del
Novecento. Anche Luigi aveva capito perfettamente il senso dell’uso pubblico della storia e, non contento di aver
fondato un centro di studi e di documentazione, ebbe l’idea di costituire anche un Museo dell’industria e del
lavoro del Novecento.
Qui ne parla Pier Paolo
Poggio. A lui ed ai suoi giovani collaboratori, che ci hanno permesso di confezionare questo prodotto digitale, va il
nostro ringraziamento. Ma anche a tutti gli amici che hanno voluto essere presenti in questo omaggio a Primo
Moroni, un uomo che ha segnato la cultura milanese ed ha contribuito a trasformarla ben oltre il perimetro del
cosiddetto underground.
Primo è stato
qualcosa di ben diverso dall’immagine stucchevole che di lui spesso viene fatta, personaggio pittoresco dei Navigli
che canta le gesta della vecchia mala. Primo è stato un innovatore
* Fonte: http://www.deriveapprodi.org/wp-content/uploads/wordpress/9.-omaggio-a-primo-moroni1.pdf
Un grande ritorno: un numero speciale di Primo Maggio.
di Valerio Evangelisti (Carmilla, 31 marzo 2018)
Chi abbia vissuto intensamente gli anni ’70 e ’80, all’interno di un movimento che cercò di modificare radicalmente i rapporti di classe nella società italiana e seppellire una “sinistra” di patetica obsolescenza, non può avere dimenticato “Primo maggio”. Una rivista raffinata e combattiva, che, senza mischiarsi alle inevitabili miserie ricorrenti del campo antagonista, proponeva a ogni numero analisi brillanti, stralci di memoria, parametri inediti di conflittualità (spesso mutuati da modelli americani), metodologie di studio non accademiche come la storia orale.
Ne uscirono 35 numeri, tra il 1973 e il 1989. La buona notizia è che, per ricordare la scomparsa di uno dei suoi fondatori, il grande Primo Moroni (per sapere chi fosse vedi qui), un gruppo di redattori, tra cui Cesare Bermani, Sergio Bologna, Bruno Cartosio ecc., ha deciso di fare uscire un numero 36 speciale. Non quale operazione nostalgica, ma piuttosto come una sorta di aggiornamento ai (tristi) anni nostri. Il fascicolo è scaricabile gratuitamente in pdf da questo sito. Mi auguro che abbia dei seguiti.
Ricordo che a “Primo maggio” Cesare Bermani ha dedicato un volume, per Derive Approdi, corredato da un cd che contiene l’intera collezione della rivista.
Le spine di C17
di Franco Berardi Bifo (alfapiù, 21 gennaio 2017)
In singolare e spiritosa coincidenza con l’inizio della prima presidenza del Ku Klux Klan, comincia oggi a Roma una conferenza dal titolo C17. Si svolge in parte al centro sociale ESC, dove parlerà una folta schiera di pensatori contemporanei, da Saskia Sassen a Silvia Federici a Christian Marazzi e tanti altri. E in parte si svolge alla Galleria d’arte moderna dove ci saranno performance di vario genere, a cominciare con Franco Piperno che ci insegna come leggere il cielo e ci racconta come si è letto il cielo nel corso dei secoli e dei millenni. Guardare il cielo in modo consapevole e immaginativo è il modo migliore di cominciare, perché così il tema del comunismo si ripresenta nella sua cornice più vasta, quella che contiene la sensibilità, l’immaginazione e il desiderio (che d’altra parte è parola che scende etimologicamente dalle stelle).
La questione del comunismo ritorna?
Il comunismo del ventesimo secolo è morto, questo è fuori discussione.
La tragedia del secolo passato ha avuto tre attori protagonisti: il comunismo il fascismo e la democrazia. Il fascismo apparve sconfitto, morto e sepolto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Poi venne l’epoca della guerra fredda: i due attori sopravvissuti si contesero l’egemonia sul mondo fino al collasso finale del comunismo sovietico e al trionfo della democrazia.
Il comunismo apparve allora definitivamente liquidato, irreversibilmente condannato perché la democrazia prometteva di rispondere alle domande cui il comunismo sovietico non aveva dato risposta: benessere, pace, allegria.
Il decennio novanta cominciò però subito con una spiacevole sorpresa. Invece della pace promessa la democrazia americana lanciò la guerra nel Golfo.
E nel secolo nuovo anche la promessa di benessere economica è andata svanendo, così che la miseria si è diffusa insieme alla rabbia e all’impotenza.
Molti hanno allora cominciato a pensare che la democrazia non può convivere a lungo con il capitalismo senza diventare un’odiosa ipocrisia.
L’odio per l’ipocrisia democratica ha allora riportato il fascismo sulla scena.
E poiché le sorprese non finiscono mai, in pochi anni partiti razzisti, autoritari quando non apertamente fascisti si sono impadroniti del potere in gran parte del mondo.
Hitler ritorna? Se ritorna è moltiplicato per dodici e per di più ha la bomba nucleare. E poiché la democrazia si è rivelata un’illusione, una maschera dietro cui si nasconde la violenza economica del capitalismo finanziario globale, dobbiamo riconoscere che il comunismo è urgente.
L’urgenza la sentono molti, forse la maggioranza della società, ma molto pochi chiamano quest’urgenza con il suo vero nome: comunismo.
La sofferenza si diffonde, ma pochi sanno che la cura non è farmacologica, perché la cura si chiama comunismo.
Artisti attivisti e pensatori si sono quindi dati appuntamento a Roma, e sarebbe bello se riuscissero a trovare parole, gesti e forme capaci di nominare questa urgenza.
Ci riusciranno?
Io sono andato a leggermi alcuni documenti che introducono questa conferenza e particolarmente le pagine che sono uscite sul Manifesto una settimana fa, una intervista di Benedetto Vecchi con Sandro Mezzadra e una di Francesco Raparelli con Toni Negri.
Confesso che entrambe queste interviste mi hanno molto deluso, come chi fosse invitato ad un pranzo succulento e si trovasse a dover sorbire un’insipida minestrina da ospedale.
Negri ci ha ripetuto negli ultimi anni che la moltitudine si oppone all’impero. Ma la moltitudine oggi si esprime votando per i peggiori nazionalisti o respingendo i profughi che fuggono dalla guerra e dalla fame, e costruendo campi di concentramento lungo le coste del Mediterraneo.
Ora, in questa intervista sul Manifesto dice che occorre trasformare la sofferenza del bisogno in un noi desiderante, e siamo tutti d’accordo naturalmente. Ma questa frase, che è il centro del suo ragionamento, è un’ovvietà poco interessante, perché vorremmo sapere come questo passaggio dalla miseria psichica e sociale dell’oggi può trasformarsi in solidarietà felice.
Mezzadra ripete alcune cose che abbiamo sentito mille volte negli ultimi anni ma sembra dimenticarsi che nel frattempo, proprio in questo ultimo anno, in questo maledetto anno dell’apocalisse 2016, tutte la parole degli ultimi decenni sono diventate vecchie perché il razzismo si è impadronito del governo del mondo.
Negri e Mezzadra (e tutti i documenti che introducono questo appuntamento C17) dimenticano di pronunciare il nome dell’uomo del Ku Klux Klan che proprio in questi giorni si insedia al governo del mondo.
La rimozione non ci sarà di nessun aiuto, eppure è sotto il segno della rimozione che questo appuntamento comincia.
La sintesi di queste interviste sembra essere in un titolo scelto dal Manifesto: I movimenti saranno una spina nel fianco del potere.
Ma questa sintesi è sconsolante. La spina? Il fianco? Ma di che stiamo parlando?
I movimenti sono scomparsi e non ritorneranno, perché sono stanchi di essere una spina in un fianco tanto pingue che della spina neppure se ne accorge.
Speriamo che questi giorni di discussioni e di sperimentazioni ci permettano di intravvedere un orizzonte un po’ più originale ed efficace di questo.
NOTA:
LE SPINE DEL "C17" 0 DEL "C22"?! CHI SIAMO NOI IN REALTA’?!
CONCORDO PIENAMENTE CON L’INTERVENTO DI BIFO ...
A PRIMO MORONI, IN MEMORIA. E ALLA SUA LIBRERIA "CALUSCA", IN UNA BREVE "LETTERA", nel marzo del 2000, così scrivevo:
=[...] "Caro Primo, su questa strada, mi sembra, è la via d’uscita (sul tema, cfr. Michael Walzer, Esodo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1986) dall’Egitto capitalistico e la ‘chiave’, consegnataci dal Dio dei nostri padri e delle nostre madri, per entrare nella Terra... promessa e abitarla in spirito di pace, giustizia, e amicizia. Il comunismo è la cosa semplice, più difficile a farsi.
Dar vita a quello che Tu, nella piccola terra-libreria - lo specchio della tua identità e della tua libertà, il grande spazio aperto e accogliente della Calusca prima e della Calusca City Lights dopo, superando difficoltà e mai perdendo il coraggio e la lucidità, hai saputo far accadere, e mostrarne la possibilità: esseri umani che si incontrano nella libertà, nel rispetto reciproco, e, amichevolmente, fanno Uno (la Relazione Chiasmatica) e questo Uno illumina, spezza le catene e apre i recinti, trasforma le relazioni (a riguardo, ricordo la ‘magica’ giornata - una per tutte, simbolicamente - in cui, in [via] Conchetta, si presentò e si discusse il lavoro di Giorgio Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Roma, Edizioni Sensibili alle foglie, 1993), e realizza un nuovo rapporto sociale di produzione (di esseri umani, di idee, e di cose), apre a una nuova, chiasmatica, prassi e a una nuova misura di tutti gli affari umani.
Nonostante gli inevitabili errori e inciampi, molti sono stati i LUMHI (Libera Università di Milano e del suo HInterland “Franco Fortini”), i nuclei di microutopie (cfr. Sergio Bologna, Due parole tanto per..., in AA. VV., Lezioni sul revisionismo storico, Cox 18 Books, Calusca City Lights, Milano 1999), da te accesi e disseminati per le strade (del mondo e) della Milano che fa male [...]
Forse è bene riprenderla e rileggerla, questa Lettera. Il suo titolo è proprio sul tema "Chi siamo noi in realtà. Relazioni chiasmatiche e civiltà" (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3920). E, fondamentalmente, non lo sappiamo ancora!
Federico La Sala
L’ultimo Marx
di Alfio Neri (Carmilla, 24 dicembre 2016)
Non era solo un vecchio malandato. La salute di Marx era malferma ma il suo cervello funzionava. Avere problemi fisici non significa essere rincoglioniti.
La tradizione marxista lo descrive come un vecchio infermo, un santo laico che aveva appena fatto in tempo a finire la sua immane opera.
La verità è diversa. Il vecchio tabagista non mollò mai, anche dopo aver smesso di fumare. Marx non fu mai la sfinge granitica dei monumenti sovietici e non ebbe mai la triste certezza dogmatica dei suoi peggiori seguaci.
Diffidò sempre delle dottrine tascabili sfornate dai suoi seguaci più ottusi.
Non recitò mai la parte del profeta barbuto che indica il sol dell’avvenire.
Dalle lettere si vede molto bene che non si fidava di parecchia gente; spesso gli stessi che, più avanti, avrebbero fatto del marxismo il loro mestiere.
Di Kautsky pensava che fosse una “mediocrità”1. Il suo giudizio sul futuro massimo dirigente della socialdemocrazia tedesca mostra il suo enorme intuito.
La leggenda che, alla fine della sua vita, il vecchio ex-tabagista avesse soddisfatto la propria curiosità intellettuale è falsa. Marx continuò a studiare e a proporre soluzioni nuove fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle opere complete stanno per essere pubblicati gli ultimi duecento quaderni.
Il lavoro filologico ha riportato alla luce gli appunti personali di questi anni. Da questi materiali emerge un autore diverso da quello consueto. Il profilo intellettuale appare completamente nuovo.
I nuovi documenti e l’implosione dell’URSS hanno liberato Marx dalla necessità di interpretarlo alla luce della ragion di stato e del dogmatismo dottrinario.
Il rinnovato interesse sulla sua figura e il nuovo materiale fanno pensare che la reinterpretazione della sua opera sia destinata a continuare. Il punto di svolta ermeneutico, per Marcello Musto, inizia con la rilettura della parte terminale della sua opera.
In questa sede non bisogna adagiarsi sull’elegia.
La dignità della sua morte ricorda le trame di un racconto ottocentesco in cui le tragedie personali si intrecciano nelle grandi tempeste della storia moderna.
Tuttavia, al di là della questione umana, leggere la storia dell’ultimo Marx come il racconto storico di un uomo dalla vita romanzesca, non ha molto senso.
Per quanto si possa perdonare chi legge l’ultimo Marx con le lenti dell’analitica della finitudine umana, non è lecito proporre la vicenda intellettuale del vecchio Marx nell’ottica di un’estetica del tramonto. Il materiale mostra che il vecchio scorbutico (era davvero molto scorbutico) continua a combattere e studiare.
Nei suoi ultimi due anni, Marx studia antropologia, non passa il tempo a leggere romanzetti rosa.
La nascita di un movimento socialista in Russia lo pone di fronte a nuove importanti questioni. Vera Zasulič (fuggita dopo aver tentato di assassinare lo Zar) gli chiede se, nella sua opinione, sia possibile arrivare al socialismo senza passare per una fase di egemonia borghese.
Per dare una risposta alla questione inizia a studiare in profondità l’argomento ed entra in campi di studio che fino ad allora aveva trascurato.
I manoscritti inediti e le bozze delle lettere (inviate e non inviate) indicano che non era per niente soddisfatto delle risposte teoriche che aveva già formulato. Si accorge che la comunità rurale slava poteva essere lo strumento adeguato per passare dal feudalesimo al socialismo senza passare per il capitalismo2.
Marx non pubblica nulla di rilevante ma lo svolgimento dei materiali che elabora è antitetico a quello del marxismo storico.
Il percorso dialettico del suo pensiero gli evita di avvicinarsi alla questione in modo dottrinario e gli fa vedere subito cose che i suoi futuri seguaci non sarebbero mai stati capaci di comprendere.
Del resto è evidente che non si fidava di quelli che dicevano di ispirarsi ai suoi scritti. Sconfessa Hyndman perché era riformista3, ma le sue parole per i sedicenti discepoli ‘ortodossi’ non erano poi tanto diverse.
Di fronte a chi si dichiarava suo seguace, rispondeva con ironia “quel che è certo è che io non sono marxista”4. Il punto di partenza per rileggere Marx sono queste sue ultime parole.
Adesso è finalmente possibile fare un bilancio perché tutta la sua opera sta diventando finalmente accessibile5. Le nuove interpretazioni di Marx non possono che iniziare da qui, dalle sue ultime ricerche.
Nessuna elegia funebre, nessun interesse antiquario, nessuna estetica del tramonto, la posta in gioco è sempre la trasformazione del mondo.
Note
1. Cfr. p. 46. Nell’epistolario Marx definisce Kautsky saccente, sputasentenze e di vedute ristrette; per quanto diligente per Marx rimane un mediocre. Engels definisce Kautsky un pedante, un dottrinario e un cavillatore nato. Come lato positivo trova che abbia un gran talento nel bere. ↩
2. Cfr. pp. 49-75. ↩
3. Cfr. pp. 84-87. ↩
4. Cfr. p. 25. ↩
5. Fra le opere che possono essere un nuovo punto di partenza critico segnalo il notevole E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, 2009 (dimostra come l’opera di Marx sia costitutivamente aperta) e il pionieristico M. Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli, 1981. ↩
Primo Moroni: difendere la libertà diffondere la libertà ovunque
Sempre poco allineati. Esistenze indipendenti
A cura dell’Archivio Primo Moroni. Con la partecipazione di Sergio Bologna, Giairo Daghini.
Primo Moroni nacque a Milano nel 1936. Interrotti anzitempo gli studi in una scuola di avviamento professionale, si cimentò prima come addestratore di cani e poi come cameriere nella trattoria del padre. Irrequietezza e contrasti lo spinsero ad abbandonare la famiglia, a perfezionarsi alla scuola alberghiera di Stresa e a lavorare all’estero. In Costa Azzurra, all’hotel Negresco di Nizza, divenne capocameriere, chef de rang.
Nel 1953 si iscrisse al Partito comunista. Molti ed eterogenei furono dunque gli universi sociali con i quali entrò in contatto: dall’alta borghesia, cólta e spregiudicata nei comportamenti, alla solida comunità delle sezioni di partito. Frequentando i locali notturni milanesi, Moroni scoprì la passione e l’inclinazione per il ballo e iniziò a studiare danza classica. Partecipò a importanti concorsi internazionali distinguendosi nel charleston (vinse un campionato europeo) e nel rock’n roll, giungendo alle finali dei campionati mondiali. Un incidente al ginocchio, durante un’esibizione, mise fine alla sua carriera di ballerino.
Autodidatta, nella sua formazione culturale e politica Moroni trasse alimento dalla frequentazione della Casa della cultura. Centro organizzativo di concerti, spettacoli, mostre d’arte, presentazioni di libri, la Casa aveva i suoi principali punti di riferimento in Rossana Rossanda e Mario Spinella.
Nel 1963 lasciò il Pci. Per alcuni anni lavorò come investigatore privato e poi come addetto alle vendite di importanti editori (Fabbri, Mondadori, Vallardi). In breve, grazie alla tenacia e alle indubbie capacità, divenne responsabile di settore per la Antonio Vallardi.
Influenzato dagli autori della beat generation, dal movimento milanese dei capelloni, da riviste come «Quaderni Piacentini» e «Classe operaia», maturò una nuova cultura politica. Sul finire del 1967 si licenziò dalla Vallardi e con la liquidazione aprì, assieme ad altri, il circolo «Si o Si club». Oltre a gestire un ristorante, organizzare concerti, spettacoli, letture di poesia, dibattiti politici e culturali aperti a migliaia di iscritti, il club introdusse nel dibattito temi di forte rilevanza sociale come l’aborto e la questione femminile.
Nel 1970 si sposò con Sabina Miccoli, dal matrimonio con la quale nacque la prima figlia Maysa. Il club chiuse nel 1969 e nell’inverno 1971-72 Moroni aprì la libreria Calusca nel quartiere Ticinese che divenne un punto di riferimento nazionale per la diffusione delle pubblicazioni dei movimenti di estrema sinistra, un luogo di incontro per militanti e insegnanti e di reperimento di materiali sulla storia del movimento operaio.
Moroni non militò nei gruppi della sinistra extraparlamentare formatisi dopo il Sessantotto ma, attraverso la libreria, svolse un’opera di collegamento e riflessione trasversale sulle lotte sociali e sui loro riferimenti storici, per l’intero arcipelago di gruppi e movimenti.
La Calusca fu anche editore. Molto rilievo ebbe «Primo maggio», rivista di storiografia militante fondata da Sergio Bologna. A partire dalla Calusca, Primo e Sabina svilupparono una rete nazionale di distribuzione editoriale, la Cooperativa Punti Rossi che, formata da 65 tra librerie e centri di documentazione, permise la circolazione di produzioni editoriali alternative, di base e locali fino ad allora escluse dalla distribuzione commerciale.
Con la fine degli anni Settanta lo scenario mutò profondamente. Mentre la ristrutturazione economica andava distruggendo i poli industriali, iniziò la proliferazione dei gruppi armati. L’attività di diffusione di materiali di informazione politica molto radicali comportò alcune perquisizioni da parte della polizia, mentre numerosi habitués della Calusca furono arrestati in relazione alla loro militanza. A seguito di questi processi, la libreria registrò un sensibile cambiamento della domanda culturale, sempre più orientata verso psicoanalisi, medicina e alimentazione alternative, esoterismo e poesia.
Negli anni Ottanta Moroni orientò il suo impegno soprattutto verso le questioni giudiziarie e carcerarie che coinvolgevano molti suoi compagni. Attento al ruolo modernizzante dei movimenti, fu tra i primi a valorizzare le potenzialità controculturali dei gruppi punk milanesi impegnati nell’occupazione di nuovi spazi di socializzazione e autoproduzione musicale e culturale.
Nella primavera 1986 iniziò un nuovo rapporto sentimentale con Anna Pellizzi, dal quale nacque Chiara. In questi anni lavorò come ricercatore esterno per il Consorzio Aaster fondato e diretto da Aldo Bonomi, dedito ad analisi territoriali, sociologiche e culturali. Pubblicò, con Balestrini, L’orda d’oro, dove ricostruiva la storia dei movimenti politici e controculturali della nuova sinistra. Nel 1992 riaprì la libreria Calusca City Lights, in omaggio al poeta-libraio-editore Lawrence Ferlinghetti, all’interno del centro sociale autogestito Cox 18 di Milano e partecipò alla nascita delle riviste «Altreragioni» e «DeriveApprodi».
Morì a Milano nel 1998.
FILOSOFIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
SENZA UNA TEORIA DELLO STATO, LA "NOSTRA" FILOSOFIA DEL CONFLITTO CONTINUA IL SUO VIAGGIO: "DALL’OPERAISMO ALLA BIOPOLITICA". Sul lavoro di Dario Gentili ("Italian Theory"), una riflessione di Roberto Esposito - con alcune note
John Martin-Primo Moroni, La luna sotta casa, Sahke edizioni (Recensioni)
Milano, 1985. Nella città che sta vivendo gli anni del secondo boom economico, tra costruttori edili e politici rampanti, pulsa una controcultura fieramente antagonista: quella dei punk del Centro Occupato Virus. Giovanissimi, vivono con attitudine sfrontata la propria indole ribelle. Non sono facile da trattare e rispettano pochi o nessuno. Però, in un sabato pomeriggio d’inverno, raccolti in un gruppetto all’interno della libreria Calusca, all’arrivo di un signore sessantenne che indossa camicia a tinta unita e spesso maglione di lana, si zittiscono di colpo.
"Quello è Primo Moroni" mi dice uno di loro.
Aveva vent’anni anni all’epoca e di Primo Moroni non sapevo niente di quello che poi avrei scoperto.
Arrivato a Milano negli anni 50, Moroni è stato il più attento tra gli osservatori delle lotte e dei movimenti giovanili che hanno via via investito la capitale morale d’Italia. Agitatore culturale, libraio nella sopracitata Calusca dagli anni 70, scrittore con Nanni Balestrini e poi in proprio di libri dedicati alle dinamiche sociali dal basso, Moroni è stato un personaggio a tutto tondo. Fedele a se stesso nel tempo, e per questo punto di riferimento per molte generazioni di giovani-contro. Proprio a Moroni è dedicato La luna sotto casa di John Martin. Il libro raccoglie le molte ore di registrazioni in cui Primo Moroni racconta la vita controculturale lungo quarant’anni di storia milanese, e non solo. A Moroni in persona si devono invece gli ultimi capitoli, dedicati ai nuovi usi degli spazi urbani e alla rinascita della destra meneghina.
Alla pubblicazione è allegato un cd che contiene la registrazione di una conferenza milanese di Moroni a fine anni 80.
Forte di uno stile giornalistico scorrevole, utilizzando informazioni dettagliate, cartine e schemi vari, Martin apre il libro mettendo in pagina la Milano degli anni 50 ricostruita da Moroni. Una città in bilico tra le miserie della guerra appena lasciata alle spalle e il modernismo della prima banda giovanile apparsa sul territorio italiano: i Teddy Boys. La loro è una Milano divisa tra rock’n’roll, malavita e i miti made in Usa Elvis Presley e James Dean. Ed è tra loro che si diffonde per la prima volta il gergo giovanile, mutuato da quello della malavita, che farà d’ora in poi da segno di riconoscimento per qualsiasi controcultura. All’era dei Teddy Boys corrisponde la prima grande trasformazione edilizia di una città che, letteralmente, esplode di energia e voglia di crescere.
Parallelamente, prende le mosse una speculazione che, grazie alla ricchezza portata del mattone, comincia a dividere la comunità tra ricchi e poveri. Poi vengono gli anni 60 e l’ondata dei Beat: più politicizzati e più colti dei Teddy Boys. È nel movimento Beat, che a Milano trova la forza per pubblicare il primo magazine, Mondo Beat nel 1966, affondano le radici scrittori e poeti americani come Jack Kerouac e Allen Ginsberg. Grazie all’alleanza tra letteratura e coscienza politica, il Beat riesce ad attrarre folle di giovani un po’ ovunque nel mondo.
Una stagione che termina con l’arrivo dei coraggiosi e cupi anni 70, dei quali Moroni segna idealmente l’inizio con due eventi milanesi: la nascita di Re Nudo, il primo giornale italiano dedicato interamente alla controcultura, e, un anno più tardi, il concerto dei Led Zeppelin al Vigorelli funestato da scontri tra autonomi e polizia. Nelle pagine di La luna sotto casa però scorrono anche gli altri anni 70: quelli dell’impegno e delle occupazioni, della nascita dei centri sociali (il Leoncavallo nel 1975) e delle radio libere (Radio Popolare nel 1976).
L’ultima parte del libro disegna una mappa dei circoli punk degli anni 80, in una città percorsa da fermenti ed evoluzioni assai vive, purtroppo spesso appiattita dalle ricostruzioni giornalistiche sulla «Milano da bere» del celebre slogan pubblicitario del tempo.
Al termine delle oltre 200 pagine del libro di Martin, la sensazione è di aver rivissuto, attraverso uno sguardo lontano dai soliti cliché, la storia della più internazionale tra le città italiane. Una Milano che sarebbe più che interessante sentire raccontata oggi dalla voce e dallo sguardo di Primo Moroni. Scomparso nel 1998, non ha avuto il tempo di vedere la città dei nuovi cantieri in zona Fiera, dei troppi parcheggi sotterranei e dello scandalo delle consulenze della giunta Moratti. Peccato. Mi sa che avrebbe avuto cose interessanti da dire al riguardo.
Primo Moroni di Milano conosceva mille e una storia. Nella sua figura un po’ allampanata, con la bella faccia da Rasputin, si condensava tutto il sapere alternativo, punk, underground e politico. Grande narratore, poteva rispondere a qualsiasi domanda, anche la più balzana. Per esempio, chi altro avrebbe potuto raccontare la storia del mitico commissario del Ticinese "el Dundina", così soprannominato perché invece di arrestare i ladruncoli dava loro quattro sberle facendoli appunto "dondare". O spiegare l’esatta differenza tra falchetto, sbarbà de vita e balordo nelle 26 bande di strada che si dividevano la città prima dei Teddy Boys cantati da Svampa e Celentano. Oppure descrivere i rituali del whisky-a-gogo, il nuovo locale degli anni ’60, dove si doveva entrare accompagnati, e quindi non si poteva più cuccare. O ancora, svelare gli stretti rapporti tra i capelloni di Mondo Beat e i pariniani della Zanzara...
LA LUNA E L’ASFALTO - E si potrebbe continuare per ore perché la Milano di Moroni era un microcosmo universale. E mentre se ne stava appollaiato sul suo sgabello nella libreria Calusca di piazza Sant’ Eustorgio, magari fumando un sigaro o ascoltando Patty Pravo "la più grande rivoluzionaria dopo Rosa Luxemburg", spiegava ai compagni che "non serve andare a cercare la felicità altrove" perché "sotto l’asfalto c’è il mare e, dietro ogni angolo, c’è sempre la luna!". S’intitola appunto "La luna sotto casa. Milano tra rivolta esistenziale e movimenti politici" il libro che ora esce per le edizioni ShaKe, firmato a quattro mani da Moroni e John N. Martin.
LIBRAIO APPASSIONATO - La genesi del libro la racconta Martin, che è laureato in architettura e si occupa di musica pop italiana, spiegando come un giorno di circa 20 anni fa si fosse timidamente presentato da Primo per chiedergli una mano nell’ideazione della sua tesi su Milano e i movimenti giovanili. E da lì furono "sei mesi ininterrotti di pranzi, racconti, cartine, mappe, aneddoti, percorsi, analisi, risate, confidenze e confronti...".
A quasi 10 anni dalla morte di Primo Moroni, libraio appassionato che leggeva la città ma anche ex campione di rock’ n’roll, collaboratore di riviste e innumerevoli pubblicazioni, e soprattutto punto di riferimento obbligato della sinistra milanese e italiana, la sua voce ci viene ora restituita da questo grande affresco collettivo, questa minuziosa mappa sociale che racconta di disagio urbano e di teppisti, di cave esistenzialiste e di Barbonia City, di Re Nudo e della stagione del punk.
"Primo non era solo un affabulatore o un visionario, ho verificato e controllato parola per parola tutto quello che mi raccontava - spiega John Martin -. Il modello che ho utilizzato per la lettura di una grande città credo potrebbe essere applicato anche altrove. I "vuoti" urbani, fisici o morali, che si creano, là dove non ci sono servizi e la gente viene lasciata sola, vanno riempiti in modo positivo altrimenti nascono la devianza, le bande. Così i Teddy Boys, per esempio, si riappropriavano del centro città da dove erano stati sfrattati... Dopo il ’68 la città diventa un magnete, un unico centro che attira i beat, i capelloni che legano con gli studenti, cosa avvenuta solo in Italia. E da lì nascono tutta la controcultura e l’underground fino al ’77, ultimo grande canto del cigno".
IL FILM DEL "ROSPO" - Il libro con il suo linguaggio "politico", datato ma ancora pungente, svela le dinamiche di classe dietro alle trasformazioni urbanistiche e all’evoluzione dei comportamenti di gruppo, squadernando dati, nomi di strade, piazze, cinema, locali, riviste e ogni genere di dettaglio. Sono innumerevoli le perle: dalle azioni-strategie delle balere periferiche a frequentazione mista (sfida con le ragazze del quartiere ospitante, tentativi di seduzione, rifiuti, rilanci...) alla storia del film "La vita urlata" che Pasolini doveva girare insiema a Serpì e Rocco, protagonista la banda della Baia del Re, guidata dal Rospo, alias Pietro Marconi, Teddy Boy del Ticinese. Ma la lavorazione del film venne bloccata, causa arresto dei sette giovani scritturati.
Teddy boys, beat, capelloni e punk. Per i più, sono semplici balordi figli della moda, influenzati dai 45 giri di turno. Ma la tesi di qualcuno, con tanto di cartine topografiche alla mano, è un’altra: la gioventù di oltre mezzo secolo è stata bruciata dall’urbanistica, potente strumento cartaceo di chi governa il territorio. A dirlo è un libro edito dalla Shake Edizioni, pubblicato in questi giorni: La luna sotto casa, scritto da John N. Martin (architetto ed esperto di pop italiano) e Primo Moroni (libraio, scrittore e guida spirituale per molti, anche dopo la sua morte nel 1998).
«La luna sotto casa è il muretto dove si trovano i giovani del quartiere - spiega Martin - un posto dove si può vivere. Adesso la luna sotto casa non c’è più, è scomparsa». La città presa ad esempio è Milano. Nel libro viene riportato un dettagliato studio delle bande giovanili della metropoli. Con un’età dell’oro di riferimento, gli anni Quaranta e «il quartiere di via Larga, dove c’erano centinaia di persone che alle balere di valzer preferivano i locali di boogie woogie». Dura poco.
Nel 1953, a qualche urbanista viene in mente di sventrare il quartiere. Arriva la «racchetta», «un asse di scorrimento veloce da Venezia a Torino che passa vicino a piazza San Babila». Con i primi sfratti parte la politica di espulsione dal centro. I ragazzi si arrabbiano: nascono i teddy boys, «gruppi di persone che si riconoscono nel vestito ribelle alla Marlon Brando, perché non si ha più un quartiere di appartenenza».
I teddy boys rompono le vetrine a suon di rock and roll e ben presto arriva la campagna di repressione attuata da alcuni giornali. I giovani e dannati spariscono, ma arriva il beat. Si passa a un’altra concezione, quella del mondo sotto casa. La città, geograficamente e non, diventa un magnete di controinformazione, un punto dove è possibile «comunicare in maniera alternativa. Alla fermata del metrò di Cordusio, qualcuno decide di occupare il posto con duecento macchine da scrivere». Non c’è solo la musica.
Nascono le prime pubblicazioni underground dei Sessanta. Si conquista spazio, ma si trova rifugio sempre nelle periferie. La tendopoli di via Ripamonti, a sud di Milano, viene ribattezzata dai giornali Barbonia City, «un centro sociale all’aperto, il primo spazio liberato della città prima dell’Albergo Commercio in piazza Fontana». Poi la musica, tra il ’73 e il ’76, sfuma nella psichedelia. Peccato, perché è un bel momento.
La mappa alternativa trova un punto di riferimento nel quartiere dove lavora Moroni, la zona Ticinese con la libreria Calusca. Ma quando il Pci manca il sorpasso della Dc, nel 1976, crolla tutto. Rimane solo il nichilismo, emblema perfetto per i punk, che «conquistano agibilità nei bar, nelle strade e nelle piazzette - scrive Moroni - Trecentocinquantamila cittadini vengono sradicati dai propri quartieri. Tutto sembra diventare confuso e invivibile». È il periodo del nomadismo punk, e qui si ferma il libro. Ma è un concetto, per i tipi della Shake, ancora attuale. Dai tempi dei teddy boys, la musica non è cambiata. Le città, più o meno cordialmente, respingono anche i nuovi nomadi, con o senza giradischi sotto il braccio.
Per uno come il Drago del Giambellino, quel Gino Cerruti cantato da Giorgio Gaber, ce ne sono stati altri dieci che non sono entrati nelle canzoni, ma che in strada c’erano davvero. A darsi cazzotti. A spupazzarsi le prime ragazze in minigonna, a correre sulle prime bicilindriche. Essere primi in qualche cosa, questa era una delle leggi. Non è che si sappia molto di Pietro Marconi detto "il Rospo", capo della banda dei ragazzi della Baia del Re oppure del "Moffa" della Trecca.
E allo stesso modo s’è persa la memoria di quei gruppi, come "per esempio le compagnia di piazza Santo Stefano-Richini-Pantano", che amavano suddividere "i membri per fasce d’età: da 15 a 18, da 19 a 23, da 24 a 28 anni, secondo modalità simili a quelle operate dalle bande americane, come i Cobras di Manhattan".
Però riecco i "Teddy Boys", che tra il 1956 e il 1961 spopolano a Milano e nel look ricalcano il Marlon Brando del film "Il selvaggio". Invece del giubbotto stile "chiodo" indossano sulle moto i giacconi degli operai, ritoccati dalle zie alla bell’e meglio. Ma fanno nascere il primo locale moderno, i "Whisky a gogo", con la musica del disco di vinile che sostituisce l’orchestrina delle sale da ballo. Il Piper, il locale che diventa famoso a Roma, ha succursali dovunque, anche sul Naviglio.
I "Teds" (pare più bresciano che inglese, ma questa era l’abbreviazione) rappresentavano il classico modello dell’uomo da non sposare, ma con il quale uscire: ad accorgersene, quando gli scrittori erano scrittori, fu Pierpaolo Pasolini. Aveva in mente di girare un film "usando" i veri Teds. Purtroppo (per lui e per loro), quegli entusiasti, rumorosi, atletici attori non professionisti "vennero arrestati giorno prima delle riprese".
Sono centinaia le informazioni sotterranee che emergono dal libro La luna sotto casa, di John Martin e Primo Moroni, shake edizioni. Compaiono nomi di persone, di strade, di locali notturni, di cinema, di piazze e, piano piano, in quel caos di "cemento armato" che trasformò la Milano dei vecchi quartieri, sembra di afferrare il filo di una trama. Quella scritta sulla propria pelle non da quelli che volevano essere "primi", ma dagli "ultimi": dai figli dei poveri che, all’improvviso, hanno urlato il loro basta. Basta alla "società dei sacrifici" e via alla lotta per autoaffermarsi. Senza però cambiare troppo. Anzi, cercando di rispettare una non ben identificata ma ruvida legge della strada, intrisa di lealtà reciproca, di sicurezza di gruppo. A volte si lottava con grande confusione. A volte si finiva inquadrati nella politica. Ma comunque si cercava qualcosa di nuovo, si sognava di cambiare almeno un po’il mondo: e in meglio.
La forza e il limite di questo libro di 250 pagine stanno nella scelta del linguaggio. Le prime parole sono queste: "Per le bande giovanili milanesi degli anni ’40 e ’50 lo scenario politico legato ai partiti e ai loro rapporti di forza rappresenta una sfera a cui sono sostanzialmente indifferenti". Proviamo a riscriverlo così: "Ai giovani cresciuti negli anni della seconda guerra mondiale ed entrati nelle prime bande di strada non fregava niente della politica".
Vogliamo dire che il volume non racconta avventure, successi e insuccessi personali. C’è qualche pagina dedicata al furbacchione di quartiere che s’è aperto una galleria d’arte, all’amico che ha fatto fortuna negli States. Ma il testo è una sorta di mappa umana. Raccoglie una serie di analisi storiche e sociali, aggiungendo le lezioni e i preziosi ricordi di Primo Moroni.
A quasi dieci anni dalla morte di questo signore toscano arrivato a Milano negli anni Cinquanta, continua a sentirsi la mancanza di uno come lui, librario della Calusca, la libreria del movimento giovanile. Uno che dietro gli scaffali dei libri coltivava una grande curiosità per gli emarginati, per i movimenti politici, per i gangster di piccolo calibro che s’arrangiavano.
Moroni è stato il primo a inquadrare la filosofia spicciola della "Ligera", la mala milanese, in una prospettiva non solo criminale. Grazie a lui, sappiamo che le bande storiche "sono ventisei e risultano così dislocate: sei entro la cerchia dei navigli, una entro la cerchia dei Bastioni, cinque tra i bastioni e la circonvallazione delle Regioni, quattordici oltre". Ritroviamo persino un vocabolarietto delle bande (per esempio riecco spuntare una parola scomparsa, il "falchetto: elemento che arriva da altra banda"). E ci sono persino alcune spiegazioni ormai desuete e un po’inquietanti, come la differenza tra garga e ruccheté: il primo è uno "sfruttatore di donne che segue l’etica della strada", mentre il secondo fa lo stesso mestiere, ma "senza scrupoli".
Lo sguardo del libro va molto oltre la strada. Viene voglia di andarsi a riprendere i vecchi giornali dell’epoca e ricostruire un po’meglio che cos’erano i beat, quando nacquero e come funzionavano i centri sociali, il boom delle radio private, le radio "libere" dalla fuffa dei radiogiornali: perché c’era tutto un mondo giovanile in movimento che aveva bisogno di nuove parole.
Viene da dire che oggi, stretto tra le tenaglie del feroce precariato e dello sballo nottambulo, il mondo giovanile sembra - fatte le dovute eccezioni - un po’troppo immobile anche per meritarsi le stesse inchieste che fiorivano negli anni Settanta. Un po’troppo nichilisti e rassegnati, oggi, e un po’troppo sognatori e violenti ieri: perciò si spera, prima o poi, di ritrovarsi nella classica via di mezzo.
ShaKe Edizioni
«20 anni dopo il muro vi spiego il mio dissenso»
di Rossana Rossanda *
Non è un incidente se il manifesto, che si definisce ancora «quotidiano comunista», ha elegantemente glissato sul ventesimo anniversario del 1989; non per distrazione, ci strillano da vent’anni che la distruzione del muro di Berlino segnava la fine del comunismo, «utopia criminale». Noi su quella «utopia» ambiziosa eravamo nati, ed eravamo stati i primi a denunciare nella sinistra che con essa avevano chiuso da un pezzo i «socialismi reali». Li denunciavamo nell’avversione del partito comunista e nella scarsa attenzione delle cancellerie e della stampa democratiche. Il movimento del ’68 ne aveva avuto un’intuizione, ma non il tempo né la preparazione per andare oltre.
Avevamo aggiunto che almeno dalla crisi del 1974 l’egemonia dell’occidente non mirava più alla messa a morte del comunismo, ma a quella del compromesso socialdemocratico nella sua veste keynesiana. Questo ammetteva che il conflitto tra capitale e lavoro era intrinseco al sistema e per evitare involuzioni fasciste occorreva garantire il lavoro dipendente e una parte consistente di beni pubblici. Se no anche la società europea sarebbe andata, nell’ipotesi migliore, a quella che non Lenin ma Hannah Arendt aveva definito un’americanizzazione fondata sulla libertà politica e la schiavitù sociale. Non è fin risibile, tutt’al più dipietresco, battersi contro le derive autoritarie e presidenzialiste di Berlusconi, e non solo, quando dalla metà degli anni settanta sono tornate a risuonare come novità le trombe di Von Hajek, la correzione rooseveltiana è stata definita, anche dalla nuova sinistra, statalista dunque fascistizzante, e sul «meno stato più mercato» nonché «la crisi fiscale dello stato sociale» si divagava anche sulle nostre pagine, mentre l’Unione europea si avviava con una liberalizzazione dopo l’altra?
E come si poteva non chiedersi, alla luce di questo esito, perché il gigantesco tentativo del 1917 era finito così? L’errore era cominciato quando, perché, dove? Stava in Stalin, in Lenin, in Marx? Cioè nella ipotesi stessa che fosse possibile una società libera non sovradeterminata dalla proprietà e dal mercato? Eppure, dopo la prima rivista del manifesto, i primi anni del giornale e i convegni del 1978 e del 1981, non ce lo chiedemmo più.
Possiamo darci tutte le giustificazioni, per prima la difficoltà a sopravvivere come testata, ma era una resa non confessata all’egemonia della destra, del neoliberismo, dunque dei neocon negli Usa, e della Commissione in Europa. Malamente nascosta dall’esorcismo: sono problemi del novecento, oggi sono superati dalle nuove realtà e dalle soggettività delle nuove generazioni. Come se le une e le altre ne avessero risolta almeno una. Come se oggi il presidente degli Usa, Barack Obama, non vedesse dimezzata dalle lobbies e dai poteri sistemici che pesano sul suo stesso partito, la sua riforma sanitaria, non fosse inchiodato in Medioriente e riuscisse a eliminare una sola delle pratiche che hanno dato origine alla crisi finanziaria del 2008.
La sinistra è a pezzi e noi non stiamo meglio. Né come finanze, né come peso nell’opinione, né fra di noi. «Isoletta socialista», senza padroni, non ci troviamo di fronte a qualcosa che avevamo già intravisto nei socialismi reali: produttività scarsa, demotivazione, fine di un progetto comune, ciascuno per sé, insofferenza verso gli altri?
Quando ho lasciato la redazione nel 1993, battuta dall’assemblea la proposta di applicare una piccola dose di Marx anche a noi stessi, ho sperato che le cose ci avrebbero fatto crescere, che occorreva calma e pazienza. Il 10 novembre mi sono finite tutte e due. Datevi una mossa.
Rossanda, sul comunismo avete sbagliato anche voi
di Piero Sansonetti *
Come molte altre persone di sinistra della mia generazione - cioè di quella che ha iniziato a fare politica nel 1968 - ho per Rossana Rossanda una stima che sconfina nella venerazione. Quindi mi è molto difficile polemizzare con lei, sono intimidito e affetto da complesso di inferiorità. Però questo articolo che Rossanda ha scritto per il Manifesto subito dopo l’anniversario della caduta del muro di Berlino (articolo molto polemico con il suo giornale e con tutta la sinistra; articolo intitolato: "il mio dissenso") mi ha messo di fronte al"mio" dissenso da Rossana Rossanda e questa volta voglio esprimerlo. Anche perché non è solo un dissenso, e un disagio, verso il pensiero politico di Rossanda; ma è una cosa più ampia, che riguarda quasi tutti i padri nobili della sinistra italiana, cioè i miei maestri - da Ingrao, a Tronti e tanti altri - e una certa loro "pigrizia" - se posso usare questa parola un po’ aspra - che da tanto tempo vorrei rimproveragli ma no oso. Stavolta oso.
Riassumo tre dei concetti espressi da Rossanda nell’articolo che pubblichiamo qui sopra. Il primo è una affermazione presa a prestito da Hannah Arendt: finiremo con il ritrovarci in una società americanizzata, cioè in una condizione di libertà politica e schiavitù sociale. Il secondo è una domanda: dove è cominciato l’errore - si chiede Rossanda - con Stalin, con Lenin, con Marx? Il terzo è l’analisi dell’errore. Che in sostanza - schematizzo - consiste nel non aver saputo difendere lo Stato dal mercato, il lavoro dal capitale, e perciò essere rimasti senza un pensiero e una pratica anti-capitalistici.
Perché dissento? Provo a dirlo molto schematicamente. Io semplicemente credo che l’errore che ha fatto fallire la rivoluzione d’ottobre, e ha cancellato il comunismo, è un errore che sta nella rivoluzione d’ottobre e nel comunismo. E sta nel terzo concetto espresso da Rossanda: non penso che il problema della sinistra sia stata la sua incapacità di costruire una fortezza di idee anticapitaliste, credo che sia stato l’opposto: pensare che l’anticapitalismo fosse tutto - fosse esauriente - e che il sapersi battere eroicamente sulla trincea dove si scontrano capitale e lavoro salariato fosse risolutivo. Penso che nessuna delle due cose sia vera oggi, e penso - soprattutto - che non fosse vera nemmeno all’inizio del cammino. Il capitalismo è un aspetto, una fase, un versante della storia della sopraffazione: non è possibile separarlo da tutto il resto, consideralo l’unica fonte della sopraffazione e contentarsi di questo.
Se per caso ho ragione, vuol dire che l’errore non era marginale: era proprio uno sbaglio nelle fondamenta, nel presupposto. Così grande da andare anche molto oltre la nostra area. Perché penso che sia sbagliata anche la convinzione di Hannah Arendt. Non è vero che l’americanizzazione vuol dire schiavitù sociale e libertà politica. La libertà politica, da molto anni, è in fase di continuo ridimensionamento. In tutto l’occidente e in particolare negli Stati Uniti. La libertà politica oggi è poca cosa rispetto a quella degli anni sessanta, e così la libertà individuale, di pensiero, la libertà sessuale, la libertà sociale.
Come non era vero che si poteva costruire un mondo giusto sul piano sociale ma illiberale - l’illusione del comunismo - non era vero neppure il contrario: non si poteva realizzare una grande libertà fondandola sulla schiavitù economica. È un errore di giudizio che non ci riguarda? Ci riguarda eccome, è fondamentale. Io credo che aver pensato che i due campi - destra e sinistra, capitalismo e comunismo - si potessero dividere sui due Gradi Valori (uno per la libertà l’altro per l’uguaglianza) sia stato uno sbaglio. Non credo che sia possibile nemmeno pensare una lotta per l’uguaglianza che non parta dai grandi temi della libertà, e dunque della liberazione da sopraffazioni che - nella maggior parte dei casi - non dipendono solo dal sistema economico e dallo sfruttamento capitalistico.
E allora? Niente, non so andare avanti. Dico solo a Rossanda, a Ingrao, a Tronti, e tantissimi altri, che se continuano a restare prigionieri dell’idea che il problema della sinistra sia solo quello di rafforzare il suo radicamento nella classe operaia, è un guaio. Non perché il mondo sia cambiato (non solo perché il mondo è cambiato) ma perché neppure 50 o 90 anni fa le cose stavano così. Il leninismo è stata una rovina per la sinistra. E non credo che ce ne siamo liberati.
E allora, l’unica cosa che posso dire è che bisogna porsi di fronte a nuovi "pezzi" di pensiero politico - per esempio il femminismo, per esempio l’ambientalismo, per esempio il pensiero della nonviolenza - non come qualcosa da accogliere e sottomettere al proprio pensiero e alle proprie abitudini, ma come qualcosa che cambia noi stessi, come qualcosa non da annettere ma a cui sottomettersi.
Non mi pare, Rossanda, che nessuno di voi sia disposto a questo. Mi sbaglio? E credo che da quella data che tu indichi nel tuo articolo (1978-1981) voi - che avevate guidato grandi rotture culturali nella sinistra, fino a quel momento - non siate più riusciti a produrre molto di nuovo, in termini di pensiero.
E siccome tutta la generazione più giovane di intellettuali è subalterna al vostro pensiero e al vostro carisma, è l’intera sinistra ad essere rimasta senza capacità di pensare. Forse per questo è moribonda, o forse è morta.
"Le ragioni di un decennio" di Giovanni De Luna, storico e ex militante di Lotta Continua
Violenza, errori e memoria
Cosa sono stati gli anni ’70
"Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche", è l’invito dell’autore esteso a tutti i protagonisti di quella stagione
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 23.10.2009)
Anni Settanta, il passato che non passa. Un decennio irrisolto, schiacciato inesorabilmente nella sua declinazione plumbea, ancora oggi invocato a sproposito come un fantasma molesto. A questa iconografia granitica, alimentata prima dal silenzio più tardi dall’«epica brigatista» e ancora da «un’ipertrofia della memoria» che travolge la conoscenza storica, tenta di porre rimedio il volume di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria (Feltrinelli, pagg. 254, euro 17, con le fotografie di Dario Lanzardo).
Già il titolo, a ricalco di un celebre libro di Paolo Spriano, rivela la natura insolita dell’impianto, né solo saggio storico né autobiografia. Oltre che studioso contemporaneista, De Luna è anche un ex militante di Lotta Continua, che oggi decide di misurarsi senza indulgenza con quell’evo così complicato, con la deriva violenta ma anche con le modalità più innovative dell’impegno politico.
Allo sguardo del testimone s’affianca così la lente dello storico, fino a produrre un’analisi disincantata del decennio. Il risultato è una fotografia lucida di un’occasione perduta, ferma nel ritrarre le potenziali energie che affluivano dal movimento ma anche i gravi errori di Lotta Continua e ferma nel denunciare le zone grigie di uno Stato che ancora evita di fare i conti con le sue ambiguità.
Perché il decennio dei Settanta è una storia che non passa? Il libro prende spunto dai morti dimenticati, espulsi dalla memoria pubblica. Militanti di sinistra che non erano del Pci o del Psi, non terroristi né poliziotti né vittime del terrorismo. I nomi sono quelli di Tonino Miccichè, Francesco Lo Russo, l’anarchico Franco Serantini e molti altri ancora, tutti «dediti con passione e generosità alla causa degli ultimi»: tutte vittime innocenti di una mano che è rimasta impunita. Così come non è mai stato trovato un colpevole in chiave giudiziaria per nessuna delle stragi riconducibili alla strategia della tensione: undici carneficine, centocinquanta morti, seicentocinquantadue feriti rimasti senza giustizia.
Quel che ne ricava lo studioso è che «lo Stato ha rinunziato a fare luce ogni volta che si sospettava un coinvolgimento dei suoi apparati». Un grado di coinvolgimento su cui si potrà pronunciare soltanto lo storico del futuro, essendo stato finora impedito l’accesso alle carte e agli archivi. Se il passato dunque non passa - è una delle tesi del libro - è anche perché l’opinione pubblica non ha mai potuto penetrare «il cuore nero della storia repubblicana» simboleggiato dai morti rimasti senza giustizia.
Fu proprio il «dilatarsi patologico» della sfera dell’invisibile a creare un disagio diffuso verso le istituzioni democratiche. Una sfiducia estesa in larghi strati della collettività, tra studenti, giornalisti e intellettuali. Più che alla teoria del doppio Stato e della doppia lealtà, lo studioso preferisce richiamarsi a Norberto Bobbio, il quale teorizzava l’esistenza in tutte le democrazie di una dose fisiologica di arcana imperi, ma anche la necessità di contenere il più possibile la «simulazione» e «l’inganno» insite nella segretezza.
Gli esordi di quel decennio furono invece segnati da una «pesante opacità», che finì per rendere «indecifrabili» e «inquietanti» le istituzioni dello Stato democratico. Era fondato questo senso diffuso di ostilità? Non peccava di ingenuità e di enfasi allarmistica? Lo storico - forte del senno di poi - non lo esclude. Però non può neppure trascurare i segnali sinistri che allora scuotevano le coscienze.
L’ansia di verità - in formazioni politiche come Lotta Continua - si coniugò con quella che lo studioso definisce una «rigidezza dottrinale ossessiva», con «giudizi politici superficiali» («il fanfascismo» o la «fascistizzazione dello Stato»), con «impazienze esistenziali», con la sostanziale incapacità di comprendere cosa stava avvenendo nelle pieghe più profonde della società italiana («la forza pervasiva dei mercati», «l’universalizzazione delle tecniche informatiche», «la marcata omologazione dei consumi e degli stili di vita», «il nuovo ruolo delle grandi banche e delle società multinazionali»). «Nessuno di questi scenari fu nemmeno intuito», scrive De Luna. «Rinchiusi nel Novecento, Lotta Continua e gli altri movimenti nati dal Sessantotto vi lessero solo ed esclusivamente una sorta di resa della democrazia e si consegnarono interamente al passato, affacciandosi con una sorta di impotente subalternità all’esplosione di violenza che nella seconda metà degli anni Settanta insanguinò la lotta politica».
Tra «concorrenza» alle Brigate Rosse e «netta alternativa» oscillò quella formazione, evocata fin dal primo congresso di Rimini (aprile 1972) nelle sue tonalità cupe ed aggressive. Riaffiorano i titoli del quotidiano, che festeggiano l’assassinio di Oberdan Sallustro, il dirigente della Fiat Concord ammazzato dai guerriglieri argentini. È questo il contesto in cui matura «la martellante campagna di stampa contro Luigi Calabresi, che fa da sfondo al delitto del commissario». Da «un compagno non può averlo fatto» si passa rapidamente «a un compagno può averlo fatto e, se lo ha fatto, ha fatto bene».
Poi il pendolo prese ad oscillare in direzione opposta, ma «la virata fu troppo brusca, troppo poco elaborata, troppo verticistica perché Lotta Continua fosse in grado di interpretare con efficacia il suo nuovo ruolo di avversario dichiarato del terrorismo nascente». Il resto è storia nota.
Il passato può passare - è la conclusione di De Luna - soltanto se ciascuno oggi è disposto ad assumersene la responsabilità, sul modello della commissione sudafricana su Verità e Riconciliazione. «Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche», è l’invito dello storico, ma l’esortazione andrebbe estesa a tutti i protagonisti di quella stagione. «Imparare a perdonare», scrive Hannah Arendt, «vuol dire fare in modo che la vita vada avanti».
Ma per perdonare occorre che vi sia chi si assuma la responsabilità di quelle derive. E perché il passato possa passare è anche necessario che sulla troppa memoria prevalga la storia, la reale conoscenza d’una stagione di sconfitte, rispetto alla quale Le ragioni di un decennio può essere considerato un prezioso contributo.
28 FEBBRAIO 2009
28 febbraio manifestazione nazionale contro le logiche securitarie, per l’autogestione e gli spazi sociali
Milano ore 15
piazza XXIV maggio
28 FEBBRAIO 2009
Le mani moleste della Proprietà e del Controllo sono in grande attività:
Trasformano la salute in un affare per imprenditori
Ci raccontano che la migliore cura è l’espulsione
Cancellano l’edilizia popolare e trasformano in merce i bisogni
Negano i diritti, la solidarietà
Per salvaguardare i loro loschi affari ingabbiano la cultura, cacciano le persone, cancellano la storia
In città ridotte a macchine per fare soldi, vogliamo liberare spazi, luoghi in cui stare e tempi da attraversare
Con la forza dei nostri desideri e con le armi della solidarietà vogliamo sconfiggere l’ossessione di controllo di chi nega il diritto all’esistenza e l’avidità di chi trasforma la conoscenza in un lusso
Per la salvaguardia e l’ampliamento dei diritti, contro la meschinità del razzismo di governo e contro la cementificazione delle città e delle menti
28 febbraio manifestazione nazionale contro le logiche securitarie, per l’autogestione e gli spazi sociali
Milano ore 15
piazza XXIV maggio
le compagne e i compagni di Milano
Occupato di nuovo il Conchetta
nessun incidente, nel centro si fa festa
Il centro sociale Conchetta è stato rioccupato e all’interno è stata organizzata una festa. Pino, componente dell’associazione Cox 18- Milano 2000, racconta della nuova occupazione. "Da tempo aspettavamo il momento giusto per farlo ed è stato possibile grazie a un passaparola via Internet e sulle radio".
Lo storico luogo d’incontro milanese era stato sgombrato il 22 gennaio sorso fra le polemiche. I ragazzi sostenevano il valore storico dell’archivio di libri contenuto al suo interno e si erano opposti con una manifestazione alla quale avevano partecipato circa diecimila persone. Il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, aveva espresso il proprio apprezzamento per l’operazione di sgombero sostenendo che "non ci possono essere strutture che vivono nell’illegalità".
"Ci siamo ripresi un posto che è nostro di diritto", hanno spiegato i militanti del Cox 18. La decisione di tornare nel centro è arrivata dopo aver partecipato all’udienza davanti al giudice civile in cui si discuteva il ricorso degli esponenti del centro sociale, che chiedevano il reintegro nel possesso dell’immobile. "L’avvocato del Comune ha spiegato che lo sgombero non è stata una decisione loro - ha spiegato Stefano - e a questo punto c’è qualcosa che non va: noi avevamo un contenzioso con il Comune e invece è stata la polizia a sgomberarci. Allora abbiamo deciso di riprenderci i nostri spazi, la nostra libreria e il nostro archivio".
Nei prossimi giorni saranno organizzate altre iniziative all’interno del centro sociale. "E’ nostro e non ce ne andremo", spiegano i militanti del Cox 18, ai quali la Digos ha chiesto per ora solo di non creare problemi al quartiere. "Ma noi - spiegano - non abbiamo mai fatto nulla per disturbare il quartiere, dal quale abbiamo sempre ricevuto grande solidarietà".
* la Repubblica/Milano, 13 febbraio 2009.
La politica culturale di Milano è un’immagine da deformare. *
La chiusura del centro sociale Cox18 ed annesso archivio Primo Moroni rappresenta una scelta liberticida ed anti-culturale che non puo’ passare inosservata.
I finanziamenti alla cultura diminuiscono progressivamente e si decide contemporaneamente di soffocare con la violenza chi - come il Cox18 - si autorganizza spontaneamente per fare e diffondere cultura fra la cittadinanza.
L’Archivio Primo Moroni con la sua raccolta di libri, riviste e documenti su tematiche socio- economiche, storiche, politico-filosofiche, legate ai conflitti nelle società contemporanee ha svolto un’azione di educazione culturale delle nuove generazioni proprio perchè in simbiosi con il centro sociale che lo ospitava.
Un archivio sociale in coppia ad un centro sociale attivo nel quartiere è infatti il migiore antidoto alla violenza sessista e razzista che si sta diffondendo nella società civile grazie all’ignoranza e alla mancanza di momenti di socialità diffusa ed è proprio per questo che si è scelto di chiudere l’esperienza di Cox18?
Cosa ne pensono ricercatori, professori universitari e studenti che in questi anni hanno usufruito degli archivi per il loro lavoro?
Cosa dicono a questo proposito le Accademie di Belle Arti che sempre meno trovano sponda nella società civile per le loro attività?
Milano si prepara in vista dell’Expo del 2015 ad ospitare un grande evento internazionale culturale e precisamente il congresso mondiale su biblioteche ed informazione che si terrà nell’estate 2009 in collaborazione con l’ International Federation of Library Associations and Institutions.
Invitiamo tutti gli archivi sociali a fare un’azione di controinformazione internazionale affinchè Milano non riesca nel suo paradossale intento di promuovere un’immagine di se’ come soggetto che promuove e valorizza i beni culturali.
L’immagine di Milano e della sua politica culturale è in realtà un grigio muro granitico sul quale è necessario graffitare con i mille colori del nostro dissenso.
*
Centro studi politici e sociali - Archivio storico "Il sessantotto" di Firenze
Archivio 99 sulla memoria digitale
Possiamo ripartire da Conchetta
Data di pubblicazione: 25.01.2009
Autore: Cesareo, Giovanni
A Milano non stanno sgombrando un centro giovanile, ma aggredendo a morsi una città e un mondo. Da il manifesto 25 gennaio 2009, con una postilla e un appello (f.b.)
Avverto una certa aria di rassegnazione, anche se rabbiosa, attorno al violento e vergognoso sgombero di Conchetta. Come se ormai fossimo giunti alla fine di una epoca, lunga bella forte, per molti aspetti unica, e non rimanesse che prenderne atto, purtroppo. Qualcuno lo ha perfino scritto che ormai siamo in un’altra epoca e che non c’è più che coltivare semmai il ricordo del glorioso passato.
E se invece proprio questo sgombero si trasformasse in un nuovo inizio? Se si ricominciasse proprio da qui, opponendosi in tutti i modi alla chiusura di Conchetta? Se si chiamassero a raccolta tutte le forze - vecchie e nuove - per dimostrare che, sia pure in una Milano diversa e una Italia abbuiata, non c’è nessuna fine, ma anzi ci sono modi nuovi di praticare le tradizioni che sono state costruite per decenni e decenni? I simboli hanno sempre avuto un grande valore e Conchetta è un simbolo forte, come è già stato testimoniato su queste pagine.
«Lotta dura senza paura» scriveva ieri su queste pagine Ivan Della Mea, che ha 66 anni. Io ne ho 82, ma ho la stessa inesausta voglia. E se la abbiamo noi, certamente ci sono tantissimi giovani e ragazzini che non saranno da meno. Si tratta, oltre tutto, di una lotta piena di significati, perché Conchetta evoca non soltanto un obiettivo politico ma anche, e forse soprattutto, un obiettivo culturalmente assai alto. Non per caso non si è ancora, ripeto ancora, avuto il coraggio di toccare l’archivio di Primo Moroni, che contiene anche materiali donati da molti di noi perché pensavamo che quello fosse il posto più fecondo per la loro utilizzazione.
La cultura di Conchetta non è, in gran parte, assimilabile ad altre - in primo luogo perché si è sempre fondata sulle relazioni e poi perché ha raccolto i contributi di persone che concepivano la cultura come fondamentale nutrimento della vita, della vita quotidiana di ciascuno. Ricordo, su questo piano, quando, insieme con Franco Fortini, Sergio Bologna, Primo Moroni e un gruppo di altri fondammo Altre Ragioni, il cui titolo fu proposto proprio da Fortini. Fu lì, a Conchetta, che quella rivista nacque ed era naturale che fosse così. E ricordo che quando riuscii a fare invitare Primo Moroni alla trasmissione Parlato Semplice - rubrica della mattina prodotta da Rai Educational - i suoi interventi rappresentarono una riconosciuta novità, una riconosciuta novità culturale per il programma.
Sì, è importante ricordare che Conchetta è stata la sede del Cox 18 di Primo Moroni e che questo ha segnato la sua storia, peraltro costruita anche a fatica da tanti altri, anche prima di lui. Dunque oggi non solo difendere Conchetta ma ricominciare da Conchetta può essere, tra l’altro, il modo giusto per dimostrare che, nonostante tutte le controversie e le sconfitte che conosciamo, la sinistra - la vera sinistra - può tuttora camminare e anzi è capace di rinnovare il suo passo. E come meglio potrebbe farlo se non partendo da un luogo che porta sulle spalle tanto passato ed è al contempo capace di tuffarsi nel futuro?
postilla
Questo caso potrebbe anche intitolarsi Cox 18: la gentrification e i bifolchi. Bifolchi che conosciamo bene anche se sono travestiti da manager o sedicenti operatori culturali, ma ormai da lustri propongono in pratica una sola idea del mondo: chi ha i quattrini spopola, gli altri o fanno le loro puttane o si levano di torno. Normalmente con le brutte maniere.
La scusa per usare queste brutte maniere si trova sempre: il traffico, l’esposizione internazionale per nutrire i pescecani del pianeta, il necessario spazio di manovra per i metri cubi dell’archistar di turno. Il caso specifico tocca stavolta (come ben racconta Cesareo) un punto molto alto, ovvero non solo il presente, ma la storia e la memoria di un pezzo di città e di società. Che si vuole spazzar via, magari relegandola sul web, nello spesso modo in cui si relegano parcheggiati nello sprawl metropolitano i ceti operai o i commercianti cinesi.
La prospettiva, che sfugge anche agli stessi bifolchi dal portafoglio imbottito, è quella di un mondo appiattito e mentalmente desertificato, fatto di labirinti metropolitani su cui incombono ubiqui gli schermi dei predicatori. Si concludeva con queste immagini, allora apparentemente catastrofiche, il libro di Nanni Balestrini e Primo Moroni, L’Orda d’Oro, sottotitolo: 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale. [di seguito a titolo di puro esempiodel tipo di memoria che si va a distruggere allego qualche pezzo di materiali scritti da Primo Moroni, che sono poi confluiti nel libro, e che mi trovo ancora sull’hard disk dopo aver collaborato ad alcune correzioni e editing negli anni ’80]
Avevano ragione? Magari no, ma forse si. Comunque, il consiglio è almeno di leggere e aderire all’appello scritto da Marco Philopat per Cox 18 (f.b.)
Fabrizio Bottini: Eddyburg
APPELLO
Migliaia di firme da tutta l’Italia per salvare Cox18
Pubblichiamo l’appello che da ieri mattina circola in rete per sostenere il centro sociale Cox 18 sgomberato vigliaccamente dal Comune di Milano. Ieri sera alle 19 era già stato sottoscritto da 2.700 persone di tutta Italia.
Per aderire: www.petitiononline.com/cox18/.
Riprendiamoci Conchetta
In questi mesi un po’ ovunque a Milano, nel contesto della mostra It’s Difficult di Alfredo Jaar, si potevano scorgere cartelli con la domanda «Cos’è la cultura?».
La risposta di Letizia Moratti e Riccardo De Corato ci è giunta in questi giorni, con la chiusura di uno dei luoghi culturalmente più dinamici e stimolanti della città. Il tutto in nome di uno spirito legalitario di cui gli stessi amministratori non sembrano dare prova quando in gioco ci sono questioni edilizie, sanità privata o poteri forti.
Con sgomento abbiamo appreso dello sgombero di Cox 18. In una città sempre più tetra e asfittica, Cox 18 ha rappresentato per tutti noi un punto di riferimento importante. Una programmazione musicale di alto livello, aperta sul mondo a 360 gradi, che dava a molti, e a prezzi irrisori, la possibilità di confrontarsi con le produzioni più innovative o, in altre serate, di ballare o fare quattro chiacchiere. Questo sarebbe già abbastanza, ma non è certo tutto. Nel corso degli anni Cox 18, con al suo interno la Libreria Calusca e l’Archivio Primo Moroni, ha costituito un luogo unico di confronto fra le idee. Tutti noi abbiamo presentato i nostri libri, abbiamo organizzato dibattiti o vi abbiamo assistito. Se c’era un’idea, in Cox 18 la si poteva realizzare, magari testandola per poi portarla altrove. Presentazione di libri, si diceva, ma anche rassegne cinematografiche, convegni, seminari, spettacoli teatrali o di danza, mostre o installazioni. E magari tutto insieme, unendo forme e mondi distanti. Non è questa la sede per illustrare quello che Cox 18 ha fatto in più di dieci anni. Noi lo sappiamo e ci auguriamo che il collettivo di gestione sappia, in queste settimane, rendere consapevoli coloro che non lo sono dell’importanza di Cox 18, della sua storia, del livello delle iniziative che in questi anni si sono succedute.
C’è un’immagine che rende chiaramente l’idea di che cosa sia la cultura per Letizia Moratti e Riccardo De Corato: i poliziotti che si avventano sui libri della Calusca e dell’Archivio Moroni per sequestrali e spedirli al macero. Fortunatamente qualcuno li ha fermati, almeno per il momento. Ma Cox 18 è sotto sequestro. Non può finire così. Ormai siamo quasi al capolinea. Non resta più molto, in questa città, che non sia consumo scadente o trash provinciale. Da qualche parte bisogna iniziare a fare qualcosa per porre fine al «genocidio» culturale avanzato in questi ultimi anni.
Mobilitiamoci per difendere Cox 18, la Libreria Calusca e l’Archivio Primo Moroni.
L’ARCHIVIO PRIMO MORONI *
I molti che l’hanno conosciuto possono dirlo: Primo Moroni ha sempre dialogato con chi andava in Calusca per libri e riviste, per portarvi le proprie edizioni, incontrarsi e discutere con altri compagni, o farsi "raccontare" da lui il "com’è andata". Nel corso fluido della narrazione, cercando tra la massa di materiali stipati dietro il bancone, forse caotica ma ben disegnata nella sua mappa mentale, Primo vi attingeva immancabilmente l’opuscolo, il foglio volante, il libro "giusto", a sostegno del suo argomento o utile all’interlocutore.
Di quella mappa fa parte anche la grande quantità di materiale documentario che, raccolto nell’intero arco della sua lunga e densa "presenza alla storia", è andata via via ad arricchire la sua biblioteca personale: una parte significativa delle culture espresse dai movimenti rivoluzionari e dalle esperienze corrosive dei sistemi di valori conservativi, monocentrici e patriarcali, negli anni Sessanta-Settanta, poi negli Ottanta e fino a oggi, in Italia e all’estero.
Per quanto frammentario, quel che oggi ne rimane dopo molteplici peregrinazioni e traversie (tra cui ingenti sequestri da parte degli organi repressivi dello Stato italiano), e cioè le varie migliaia di libri e riviste, poi i documenti, il fittissimo numero di opuscoli, i bollettini "ciclinprop.", i testi o gli audiovisivi prodotti dall’ampia e variegata area dell’"editoria diffusa" e del "no copyright", basta a delineare tanto una straordinaria visione d’insieme di quegli anni quanto uno spaccato minuto, fin nelle pieghe intime e strette, di collettivi sconosciuti ai più o di esperienze dimenticate.
D’altro canto, la Libreria Calusca, fondata da Moroni nel 1971, è stata sin dai suoi inizi un crocevia di innumerevoli percorsi di elaborazione teorica, controinformazione, controculture, pratiche sociali non omologate. Così anche quando, nel 1992, la libreria ha preso il nome di "Calusca City Lights": è allora che si è aperta alla convivenza con i giovani dello spazio occupato di Cox 18, che vi esprimevano nuove soggettività e forme di lotta, e con i ragazzi e le ragazze della Shake Edizioni Underground, che nel Centro portavano la propria esperienza punk, poi cyberpunk e cyberfemminista. Qui in Conchetta, la Calusca di Primo ha proseguito la sua funzione di connettore tra costellazioni, traiettorie e modi d’essere financo divergenti, di sensore delle soggettività e dei cambiamenti sociali, facendosi spazio condiviso, tale da oltrepassare radicalmente la dimensione del "negozio di libri" e del "consumo culturale".
Tutto questo, con lo spessore di incontri reali, di vite con-vissute, costituisce l’humus e dà respiro al molto che resta della biblioteca di Primo.
Lui avrebbe voluto farne un centro di documentazione: già l’aveva pensata così, nel concreto, accarezzando tra l’altro l’idea di un archivio in rete collegato con altri, prima di tutto con quello della Calusca-gemella, a Padova (si veda "Il Centro di documentazione Calusca City Lights", in Primo Moroni, Calusca City Lights, Milano, s.d.).
Attorno all’idea di Primo, dopo la sua morte, ci siamo ritrovati, conoscendosi poco o nulla, in un gruppo di compagne e compagni sia esterni che interni a Cox 18. L’abbiamo fatta nostra, perché ne condividiamo il senso per l’oggi e la proiezione futura. Inoltre, glielo dobbiamo. Per alcuni di noi la cura di questo progetto è anche una forma minima di affettuosa, necessaria "restituzione": sullo sfondo della prossimità, della conoscenza, dell’amicizia politica.
Non è sostituibile la capacità di orientamento nelle stratificazioni della storia, delle vite, delle lotte che ha rappresentato il segno distintivo della figura di Primo Moroni. E neppure la sua dote quasi sensitiva di ascolto e vibrazione a ogni segnale di cambiamento, né la propensione alla relazione teorico-politica, pregnante e vitale, tra quanto mai "archiviato" è depositato nei libri d’archivio e le trasformazioni dei soggetti, della città e dell’intorno globale. Ma, tuttora, creare connessioni è quanto ci aspetta: "Leggi e fai circolare!".
Ineludibile premessa è la conservazione più rigorosa dei materiali e la realizzazione delle migliori condizioni per un’agile consultazione. Proponimenti, questi, che assumono un significato politico aggiuntivo se soltanto si considera quella parte di scritti che, realizzati dall’"umanità sofferente che pensa" e dall’"umanità pensante che viene oppressa" (Marx a Ruge, maggio 1843) nel corso degli sconvolgimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta, sono poi stati dispersi, negati o travisati, seguendo la sorte di tanti tra i soggetti che li avevano prodotti. Vogliamo evitare che quelle o analoghe testimonianze restino preda del "grande freddo". Oppure che si riducano a oggetto di ricerca per quell’umanità che pensa ma non soffre. Che, soprattutto, ignora il "rapporto immediato e sostanziale" esistente tra quei materiali e gli affrontamenti storici di allora.
La complessità del compito, dunque, non ci sfugge. E neppure la limitatezza dei mezzi. Ma rimane ferma l’intenzione di mantenere integro lo spirito che ha animato il progetto dell’archivio come ogni altra iniziativa di Primo Moroni: non solo quindi una "struttura di servizio" per ciò che una volta era chiamato "il movimento", ma un ambito di sperimentazione dove il tempo scorra diversamente e le ore e i minuti non vengano misurati in termini di prestazioni o di tornaconto, non scandiscano flussi di danaro che altro non è se non l’equivalente generale del nulla. Va da sé che l’archivio sarà autonomo e autogestito, avverso alle noiosissime, e sempre uguali, leggi del mercato.