di Federico La Sala
[da: La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-161].
«Ho cominciato a considerare con attenzione il concetto di bisessualità e considero la tua idea in proposito come la più significativa per il mio lavoro, dopo quella di "difesa"» (S. Freud a W. Fliess, 04.01.1898).
Proseguendo nel suo «viaggio attraverso la psicanalisi, e oltre»[1], Fachinelli è giunto finalmente dinanzi al mare. «Sulla spiaggia», questo è il titolo del primo e più originale scritto [2] de La mente estatica[3]. Dopo aver tentato, con coraggio e decisione, di passare di qua e di là, sembra che abbia trovato un passaggio decisivo, e riconquistato - al di là di una psicanalisi entrata concettualmente in irrimediabile crisi - la posizione originaria di Freud (come di ogni grande scienziato) di fronte all’inconscio e all’ignoto: «La rinuncia alla sopravvalutazione della qualità della coscienza diventa condizione prima indispensabile per qualsiasi visione esatta dello svolgimento dello psichico. Secondo l’espressione di Lipps, l’inconscio è il cerchio maggiore, che racchiude in sé quello minore del conscio [...] L’inconscio è lo psichico reale nel vero senso della parola, altrettanto sconosciuto - sottolinea Freud - nella sua natura più intima quanto lo è la realtà del mondo esterno, e a noi presentato dai dati della coscienza in modo altrettanto incompleto, quanto il mondo esterno dalle indicazioni dei nostri organi di senso»[4].
Con La freccia ferma [5], ma soprattutto con Claustrofilia[6], egli si era posto il problema di abbandonare la strada del "padre", ma molte erano ancora le resistenze e le paure. Lo sguardo era ancora quello di Freud: «Per indicare al lettore la via in cui mi muovo, vorrei citare - egli scrive - le parole di John Locke nell’Introduzione al Saggio sull’intelletto umano: «È di somma utilità al marinaio di conoscere la lunghezza della sua fune, anche se con essa egli non può scandagliare tutte le profondità dell’oceano. È bene che egli sappia che essa è abbastanza lunga per raggiungere il fondo in quei luoghi che sono necessari per dirigere il suo viaggio e per avvisarlo delle secche che potrebbero rovinarlo. Il nostro compito non è quello di conoscere tutte le cose, ma solo quelle che concernono la nostra condotta». Questo passo stupendo - egli prosegue - coglie il nucleo del sapere scientifico in generale. Se non presumo troppo, mi piacerebbe che esso fosse anche l’emblema di quel particolare sapere - sulla fune e sull’oceano, come si vedrà - che qui cerco di sviluppare»[7].
Tuttavia fatti nuovi accadevano e nuove idee prendevano corpo: nel corso del lavoro analitico, un paziente lo butta e lo trattiene. nella linea d’ombra - e la "nave" resta immobile [8] - ma, poi, ne viene fuori e giunge a definire un’area dello sviluppo precoce - una zona in cui Freud non s’era mai avventurato - che chiama, appunto, area claustrofilica[9]. Con questa nuova acquisizione, e con la decisione di affrontare i problemi connessi alla nascita, il suo instabile equilibrio con Freud, con la psicanalisi, e, non ultimo, con l’oceano, si modifica profondamente.
Nel 1985, sulla spiaggia di san Lorenzo a mare, in un pomeriggio ventoso di settembre, guardando affascinato il nastro del mare, «dal fondo del torpore, quasi dal sonno, un pensiero solitario» emerge e lo conquista: «Dopo lo squarcio iniziale, la psicanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità: quella di difendersi, controllare, stare attenti, allontanare... Ma certo, questo è il suo limite: l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno. Bardato, corazzato [...] Ma se questo è vero bisogna rovesciare la prospettiva, mettersi dall’altro lato (della barricata, mi viene da scrivere: ma usando questa parola, resto nell’ambito dell’arte militare). Non inibizione, rimozione, negazione, eccetera: i diversi stratagemmi, le difese parziali di un’impostazione difensiva generale»[10].
La suggestione lockeana viene lasciata cadere. La fune-coscienza, «come misura di tutto lo psichico»[11], è riconosciuta per quello che è - uno strumento funzionale a vecchie strategie, una metafora inadeguata per le nuove prospettive che si intravedono.
La questione, infatti, ora è decisamente un’altra: non si tratta solo di cambiare strada, si tratta soprattutto di cambiare "casa". Si tratta di ristrutturare la coscienza: trasformare una coscienza chiusa in una coscienza aperta [12], o, detto altrimenti, "passare" da una monade con porte e finestre sbarrate (o, addirittura, inesistenti - come la concepiva Leibniz) a una monade con porte e finestre aperte, sul mare. E il fulcro di questo movimento è individuato in una disposizione della coscienza caratterizzata dall’accoglimento e non dalla vigilanza, dall’intrepidezza, «atteggiamento infinitamente più ricco e alla fine forse più efficace» della paurosa prudenza di chi edifica ed innalza barriere e muraglie: «Quest’idea dell’accettare e della sua importanza - scrive Fachinelli -mi è venuta in forma pura, astratta, nel momento in cui assonnato, ho accettato e direi quasi ascoltato ciò che mi veniva da non so dove»[13].
Sembra un’indicazione di Heidegger [14], o, più generalmente, di qualche mistico, ma non è così. La ricerca di Fachinelli, invece, ha una densità specifica e una tensione tutta propria: si colloca all’interno di un orizzonte critico-’dialettico’ (per capirsi) e apre la strada a percorsi nuovi, verso una soluzione inaudita e (per molti versi) impensabile dell’oltrepassamento della metafisica e, insieme, dell’uomo da esso "prodotto".
Sulla spiaggia, dinanzi al mare. Una situazione banalissima può metaforizzarci in tutte le direzioni e in tutti i sensi. Chi viene proiettato a due passi e chi addirittura nell’universo. Chi nel più alto dei cieli e chi all’inferno. A ciascuno secondo la sua sapienza e a ciascuno secondo la sua capienza. Infiniti livelli. E tutto dipende dalla propria disponibilità ad accogliere. La cosa è concessa, non voluta - egoistamente.
Non si tratta né di arroganza, né di aristocraticismo, come potrebbe apparire a chi guarda superficialmente o, peggio, dall’alto del suo turrito castello: «E che volete far, Signor Sarsi, se a me solo - scrive Galilei nel Saggiatore - è stato conceduto di scoprir tutte le novità celesti, ed a niun altro nissuna?».
Ai miei occhi - scriveva Newton (e la considerazione vale anche per Galilei) - «appaio essere stato null’altro che un ragazzo intento a giocare sulla riva del mare, distraendomi di tanto in tanto con la scoperta di un ciottolo più liscio o di una conchiglia più aggraziata delle altre, mentre il grande oceano della verità si estende, del tutto sconosciuto, dinanzi a me»[15].
È vero che «gli uomini furono condotti allo studio della filosofia, come in realtà lo sono ancora oggi, dalla meraviglia»[16], ma è anche vero che questo vale per chi ha occhi per vedere, orecchie per sentire. A parità di condizioni, ciò che decide è la disponibilità ad accogliere, ad accettare, ad ascoltare, a vedere, quanto ci viene incontro o quanto ci sorprende e stupisce.
Siamo immersi in un oceano di luce (E=mc2), ma chi mai (fisico o no) ha avuto il coraggio di accogliere e allevare pensieri simili: «Che aspetto avrebbe il mondo se io mi trovassi a cavallo di un raggio di luce?»[17]. Einstein aveva sedici anni ed era studente di ginnasio, quando aprì la "porta" della sua coscienza a tali idee; ne aveva 26, nel 1905, quando in poche settimane scrisse il suo primo saggio - non solo sulla luce o, come dice il titolo, Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento - sulla teoria della relatività speciale (o ristretta) e aprì la strada a «un intero continente di nuove idee» (J. Thomson). Ricordando con piacere questo periodo, molto tempo dopo, Einstein ebbe a dire a Leo Szilard: «Sono stati gli anni più felici della mia vita. Nessuno s’aspettava da me che fossi la gallina dalle uova d’oro»[18].
L’ "avventura" di Fritjof Capra non è iniziata diversamente: «In un pomeriggio di fine estate, seduto in riva all’oceano, osservavo il moto delle onde e sentivo il ritmo del mio respiro, quando all’improvviso ebbi la consapevolezza che tutto intorno a me prendeva parte a una gigantesca danza cosmica. Essendo un fisico, sapevo che la sabbia, le rocce, l’acqua e l’aria che mi circondavano erano composte da molecole e da atomi in vibrazione, e che questi a loro volta erano costituiti da particelle che interagivano fra loro creando e distruggendo altre particelle. Sapevo anche che l’atmosfera della Terra era continuamente bombardata da una pioggia di raggi cosmici, particelle di alta energia sottoposte a urti molteplici quando penetrano nell’atmosfera. Tutto questo mi era noto dalle mie ricerche nella fisica delle alte energie, ma fino a quel momento ne avevo avuto esperienza attraverso grafici, diagrammi e teorie matematiche. Sedendo su quella spiaggia, le mie esperienze precedenti presero vita; vidi "scendere" dallo spazio esterno cascate di energia, nelle quali si creavano e si distruggevano particelle con ritmi pulsanti; "vidi" gli atomi degli elementi e quelli del mio corpo partecipare a questa danza cosmica di energia; percepii il suo ritmo e ne "sentii" la musica; e in quel momento seppi che questa era la danza di Siva, il Dio dei Danzatori adorato dagli Indù»[19].
Sulla spiaggia. Tenere aperta la coscienza sull’orizzonte marino: una preziosa indicazione, da coniugare con quest’altra - «l’accoglimento non è simmetrico alla difesa». Qui non si parla di un banale capovolgimento (tipo, al posto dell’io l’es) o di azzeramento di uno dei due poli della relazione (riduzionismo e hybris-dismo, in un senso o nell’altro). Si indica e si parla di una metamorfosi connessa alla scoperta e all’utilizzo di un altro piano (sempre negato e rimosso) della "casa", che da sempre abitiamo: «c’è un funzionamento diverso, un’altra logica»[20]. Non si tratta più né di barricarsi, vigilare, difendersi, né di armarsi e andare all’attacco; si tratta di accogliere. Accogliere: femminile ... un altro "raggio di luce". Si tratta di capire, di rendersi conto che il femminile è «nel cuore, il cuore di molte esperienze», «anche di questa - precisa Fachinelli - mia esperienza»[21].
Senza equivoci e senza serrate. Il messaggio non è per soli uomini o per sole donne (per uomini soli o per donne sole). Né è ai soli travestiti che egli pensa [22]. Si parla e si tratta del venir fuori dalla trappola (o dalla gabbia) in cui tutti siamo. È a W. Reich che occorre pensare: «Fondamentalmente la vita è semplice. La complica solo la struttura umana, quando è caratterizzata dalla paura di vivere».
Fachinelli ha ripreso le indicazioni di Reich [23] e le "stravolge": l’attenzione deve essere spostata, non si tratta né di demolire né di saltare oltre le barriere, ma «piuttosto di lasciar affluire, lasciar defluire», e, così, «i paletti della difesa finiranno, forse, per scendere alla deriva»[24]. Non servono né i carri armati né gli astuti r-aggiramenti: quando si lasciano affluire e si lasciano defluire le cose, le cortine di ferro cadono da sole. Accogliere, si tratta di ripartire da questo punto di vista nuovo: «Le cose che vengono da un’altra parte: come un accento imprevisto che muta, che sposta l’intera figura. Da questo punto di vista, limiti ben evidenti della psicanalisi. E limiti ben evidenti dell’antropologia fondata su di essa»[25].
Né demonizzare, né omologare [26]. Accogliere: femminile... qui la questione non è solo e più psicanalitica. L’indicazione è più profonda di quanto non sembri. Non solo mette in discussione la psicanalisi e l’antropologia fondata su di essa (nel senso attivo e passivo), ma offre elementi preziosi per focalizzare meglio il vortice che muove il più generale processo di riorientamento gestaltico che è attualmente in corso in molti e diversi campi del sapere contemporaneo [27].
È, per dirla in breve, una "chiave" decisiva per aprire finalmente le porte e le finestre della coscienza dell’intera storia occidentale: svegliarsi dal sonno della ragione narcisista e imperialista, che sogna il «Dov’era l’Es, deve divenire l’Ego» (Freud), e di riconoscere i molteplici, infiniti, altri modi di essere e di creare; e liberarsi sia di quelle concezioni astoriche e asociali, pessimistiche e catastrofiche, che ci vogliono porcospini o lupi («Homo homini lupus: chi ha il coraggio - scrive Freud ne Il disagio della civiltà - di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?»), sia della malattia delle catene (Nietzsche) che esse comportano. Per uscire dalla preistoria (Marx), molte sono le chiavi di cui abbiamo bisogno. Ma questa fornita da Fachinelli, sembra essere tra le più importanti - riguarda noi, il soggetto.
È in questa direzione che Fachinelli sollecita a pensare: «Al momento di diventare sciamani, si dice, gli uomini cambiano sesso. È così posta in rilievo la profondità del mutamento necessario. Il femminile come atteggiamento recettivo non abolisce però il maschile, gli propone un mutamento parallelo»[28]. A tal punto, però, inoltrandosi e inoltrandoci nel «mare aperto» (l’espressione è nietzscheana), si aprono prospettive vertiginose e problemi a non finire: venir fuori «da interi millenni di labirinto» (Nietzsche) è impresa non disperata, ma delicata - è un sogno d’amore, ad occhi aperti [29].
Arianna offre a Teseo il filo, ma non lo fa per dar vita a un’altra thalassocrazia. Fachinelli guarda a Creta -«Cnosso, Pesto, le potenze aperte sull’orizzonte marino»[30] - ma non è lì il luogo per nascere o, se si vuole, per passare. Né «Nausicaa, Ulisse», né «le regge di Creta aperte verso il mare, senza difese»[31]. Qui siamo nel regno di Edipo, entro cui è rimasto prigioniero lo stesso Freud [32]. A Creta c’è Minosse, Pasifae, il Mino-tauro e il labirinto. Arianna abbandonata da Teseo salirà sul carro di Dioniso-Ade, Teseo uccide (fa morire) il padre e andrà (con Giasone, il monosandalos) alla conquista del vello d’oro (la madre): c’è il vicolo cieco, per entrambi. E’ la tragedia dell’eterno ritorno della volontà di potenza - un gioco sisifoideo [33].
Idea dell’accettare e sua importanza: questa è la "piccola porta" [34] attraverso cui Fachinelli esce dall’orizzonte freudiano. E grazie all’aiuto dello stesso Freud: "Il sogno osa generalmente di più di quanto si permetta il sognatore da sveglio. Di qui, l’idea di Freud di trasferire questo oltrepassamento alla coscienza vigile, nella cura dei nevrotici. Il sogno testimonia ciò che vuoi essere - ciò che puoi essere, allora" [35]. Il pensiero, invero, è alquanto oscuro e criptico, ma cerchiamo di capire e chiarire.
La cosa è importante. Da essa dipende - se è bene impostata la "reazione" - la "fusione nucleare" della coscienza, "a freddo".
"Traduciamo" e generalizziamo. Chi entra nello stato di sonno e sogna, nel sogno si comporta diversamente da come si comporta nello stato di veglia. Freud, avendo capito che "lo stato di sonno rende possibile la formazione del sogno, in quanto riduce la censura endopsichica»[36], ha cercato di trasferire e ottenere - nello stato di veglia - il tipo di coscienza propria del sogno. Egli non vi è riuscito: le ragioni sono proprio nelle modalità ("a caldo") che egli sceglie, soluzioni prevalentemente figlie di una intelligenza armata e astuta - quella di Ulisse e della sua dea protettrice, Atena.
Fachinelli si rende ben conto di tutto questo ma, sopravvivendo in lui ancora toni venatorii e thalassocratici (Creta, Ulisse, cacciatori, tagliole e «altre immagini di taglio»), non riesce a comprendere a pieno tutta la portata dell’idea dell’accettare. Ad ogni modo la "fusione" è avvenuta ed egli ha fatto passi da gigante in questa direzione.
Raccogliendo ed esplicitando, possiamo dire che la coscienza - facendosi accogliente - "fonde" e libera energie come prospettive in tutte le direzioni, sia nello stato di veglia sia nello stato di sonno, e sia in direzione dell’inconscio sia in direzione dell’ignoto.
Contemporaneamente, scompare l’assolutezza e l’onnipotenza di quella modalità della coscienza che «conferisce un privilegio generalmente sovrano alla difesa»[37] e si autopone come coscienza tout court, ed emergono dal buio (anche del tempo) altri modi di "abitare" (non esistono solo le casematte o i castelli), che soltanto superficialmente possono essere accostati a quelli concepiti secondo la logica della difesa: «Diminuzione della vigilanza, allentamento della difesa. Allentamento nel sogno, nel fantasticare, nell’inventare, nell’usare droghe - insomma in quella phantastica umana dove, a tratti, passa un messaggio inatteso»[38].
Sulla spiaggia, dinanzi al mare... riaffiora la domanda di Galilei: «Chi vorrà asserire, già essersi saputo tutto quello che è al mondo di scibile?».
L’orizzonte si ristruttura, si arricchisce, si allarga e si illumina - vertiginosamente. Oltre Aristotele. Oltre Freud: «II concetto di difesa definiva all’inizio le difficoltà e le impasses di un comportamento alterato; rapidamente è diventato normativo, capace di stabilire leggi e criteri, anche per il comportamento non alterato. E questo perché si è presupposta implicitamente una continuità tra l’uno e l’altro. L’anormale è diventato, con qualche differenza quantitativa, il normale»[39].
Oltre la psicanalisi - lettino di Procuste: «Miseria incurabile della teoria della sublimazione, che tenta di spiegare ciò che, se è sublime, è sublime sin dal principio. La psicanalisi dischiara: ecco un letterato chiaramente nevrotico; un filosofo ossessivo; un matematico quasi psicotico, un musicista autistico... Ma la legna da ardere non spiega di per sé il divampare del fuoco»[40].
Oltre Freud... riappare Nietzsche. Non c’è più un sopra e un sotto, un alto e un basso: «Chi può stabilire che cos’è essenziale e non essenziale, importante e non importante? Chi può giurare: questo è il centro e quella la periferia?»[41]. Ritroviamo questioni vitali di politica dell’esperienza [42]: «E oltre, il territorio della mistica. Non la religione istituita. Ma la mistica come zona irriducibile, inassimilabile, refrattaria alla religione stessa. Apex mentis. Mistica che è nello stesso tempo rapporto percettivo, percezione possibile ad alcuni, se non comune a tutti. Molte mistiche? evitare i codici che, invariabilmente, da sempre rifiutano o sequestrano questi tipi di esperienze»[43].
La ridefinizione del rapporto tra veglia e sonno è nel programma di Freud: «[...] lo stato di sonno rende possibile la formazione del sogno, in quanto riduce la censura endopsichica. Certo, siamo tentati di considerare questa conclusione come l’unica possibile in base ai dati di fatto dell’oblio dei sogni, e di sviluppare partendo da essa altri corollari sui rapporti energetici tra sonno e veglia. Ma per ora intendiamo fermarci qui [...] Qui interrompiamo per riprendere più oltre»[44]. Ma oltre, egli non è mai andato. Resterà per lo più confinato entro le coordinate cartesiane, a riguardo. La sua attenzione rimarrà fissamente legata alla censura e non verrà mai più fuori dalla logica oppositiva di una intelligenza armata ed astuta. Cercherà di vincere le resistenze, di sorprendere il "nemico", di abbattere le difese, ma l’impresa si fa interminabile e ... fallimentare [45]. Anzi, l’effetto sarà solo quello di caricare la coscienza sempre più di armi e di chiuderla entro un grande sistema di fortificazioni: «Dentro il suo castello dalle sette mura, la principessa non riesce più a muoversi»[46].
Come Kafka - davanti alla legge, Freud ha "visto" la porta aperta e non ha capito, non è entrato: «La resistenza al fatto che i pensieri del sogno divengono coscienti può forse essere aggirata anche senza dover subire in sé una riduzione»[47]. La paura del guardiano della soglia (il padre) lo ha bloccato e, passato l’attimo, la porta si è richiusa. Per tutta la vita, poi, tenterà ancora e insistentemente di entrare, cercherà di abbattere o di aggirare la porta, ma non ci riuscirà. Edipo abbatte il primo ostacolo (uccide il padre), abbatte il secondo ostacolo (la sfinge - madre cattiva), ma finisce sempre per sposare la madre e prendere il posto del padre. Un tentativo impossibile. Dal cerchio non si esce, il complesso edipico non è risolvibile [48]; e la sconfitta personale viene teorizzata ed elevata a legge - per tutti, dappertutto e per sempre. Girando, girando, alla fine, il Conquistador (così Freud si definiva: «niente altro che un conquistador per temperamento - un avventuriero, se volete tradurre il termine») -realizzata la sua «accumulazione originaria» (Il Capitale) - si da ad innalzare la sua Piramide (Teoria) e la sua Sfinge (Istituzione) intorno alla "sua" proprietà: «La psicanalisi - scrive nel 1914 - è una mia creazione».
Su questa strada, progressivamente, identificazione dopo identificazione, egli finisce per assumere la maschera del più terribile nemico della storia del suo popolo: non avendo vinto Roma (Annibale), non essendo giunto nella terra promessa (Mosè), si fa egiziano e diventa il Faraone con il cuore di pietra [49]. Chi osa pensare diversamente è subito espulso dal suo regno. Egli nega, rimuove, cancella le tracce ed ediphica. In un circolo vizioso si tengono insieme la Sfinge e la Piramide: l’una a salvaguardia dell’altra. Platone andò a scuola dai sacerdoti egiziani (Nietzsche), «Freud e Ferenczi si rifecero esplicitamente per fondare l’istituzione» alla Repubblica di Platone [50]. Il trionfo dell’ istinto di morte è garantito in "eterno"...
Ma con la morte non si scherza - «il deserto cresce: guai a colui che nasconde in sé dei deserti»[51]. Nella notte più buia, nessuna maschera può aiutare a nascondersi e nessun lampo di genio può aiutare a vedere - come Dante sapeva (Inf., III, v. 9), ogni egoica speranza e ogni motto di spirito (WITZ) debbono essere lasciati fuori (AUS-CH). Forse, dinanzi alla prova più tragica che il suo popolo (nonostante tutto) ed egli stesso stava per affrontare, Freud, infine, avrà capito e deposto le armi della sua intelligenza, e si sarà piegato («la più scottante mortificazione») a quella verità da lui stesso acquisita nel corso dell’indagine, «che non solo egli [l’Io] non è padrone in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene»[52].
«Segnale dell’avvenire»[53]. Nella comunicazione presentata al Convegno Internazionale su «Psicanalisi Psichiatria Antipsichiatria», tenutosi a Milano nel 1969, e intitolata significativamente e provocatoriamente «Che cosa chiede Edipo alla sfinge?», l’analista «dissidente» interroga la psicanalisi e gli stessi psicanalisti. E contro quella che è divenuta ormai solo una «psicanalisi della risposta»[54], Fachinelli riafferma tutto il valore - e tutta la centralità - dell’«ascolto analitico», e sollecita i suoi colleghi a «un lavoro senza fissa dimora, per così dire», a costituire anche «in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica»[55]. Sicuro di sé, egli annuncia sviluppi futuri. Tra le righe, qui, già si legge una tensione profonda a ripensare il discorso epistemologìco dalle radici, al di là della tradizione baconiana e kantiana [56]: alla base e all’inizio del lavoro scientifico, c’è l’ascolto - o, per dirlo con la consapevolezza sopraggiunta, l’accoglimento - non l’interrogazione; l’interrogazione viene dopo.
Fiducioso, egli così conclude il suo intervento: «Mi sembra chiaro che in queste direzioni ci incontreremo con altri ricercatori - sociologi, psichiatri, psicologi, antropologi - non certo in vista di una eclettica collaborazione interdisciplinare, come si usa dire e fare, ma perché avremo scoperto un luogo di base da cui partire per ricerche differenziate e molto spesso divergenti, se non in aperta polemica fra loro. Soprattutto però mi sembra chiaro che reincontreremo, sulla strada di Tebe, una sfinge senza più maschera, e un soggetto, di cui non conosciamo ancora il nome col quale potremo forse scambiare giuste domande e giuste risposte»[57].
Andando avanti e riemerso dal gorgo claustrofilico si ritrova davanti questioni decisive, fondamentali, non più annullabili, né rinviabili: Istinto di morte e conoscenza; Psicoanalisi della nascita e castrazione umana; La marionetta e il burattino [58]... È in gioco la vita, la vita o la morte «dell’Io in un senso non psicologico» [59], soltanto.
Giunto «sulla spiaggia», Fachinelli ritrova se stesso, e, al contempo, non trova più il Conquistador, ma lo scienziato, l’uomo accogliente e creativo - il Freud che sapeva del mare [60]. E, così, il dialogo come la discussione si riapre e si reimposta, correttamente.
Con Freud, oltre - in una nuova direzione e in modo nuovo: contro le sfingi e contro l’imbalsamazione degli uomini come delle teorie. Di fronte a Freud Fachinelli, finalmente, si pone come Galilei dinanzi ad Aristotele, come un ricercatore dinanzi a un altro ricercatore: «Aristotele fu un uomo, vedde con gli occhi, ascoltò con gli orecchi, discorse col cervello. Io sono un uomo veggo con gli occhi, e assai più che non vedde lui: quanto al discorrere, credo che discorresse intorno a più cose di me; ma se più o meglio di me, intorno a quelle che abbiamo discorso ambedue, lo mostreranno le nostre ragioni, e non le nostre autorità»[61].
Sulla spiaggia, davanti al mare, tutto acquista un’altra dimensione e appare nella sua luce più propria: «Progetto infantile: svuotare il mare con un secchiello! O setacciarne la sabbia. Anche il progetto di Freud - prosciugare l’inconscio, come la civiltà ha prosciugato lo Zuiderzee - è infantile»[62]. I libri di Aristotele stanno al gran libro dell’universo, come i libri di Freud stanno al mare: una proporzione preziosa e tuttavia incolmabile.
Di fronte all’inconscio come di fronte all’ignoto, non c’è hybris che duri. Accogliere: femminile... non è cosa di poco conto. Comporta un radicale rivolgimento del nostro atteggiamento di pensiero. Ed è, forse, una delle condizioni essenziali per concepire diversamente la storia...
Già solo quella della psicoanalisi è tutta da riscrivere. Da questo nuovo punto di vista, accolto,il contributo e il ruolo sponsale di Breuer e di Fliess prima, e di tanti altri "eretici" dopo, rispetto alla «straordinaria fecondità»[63] di Freud, è tutto da riconsiderare. Il non accettare la propria femminilità - fino a scambiarla e a ridurla a omosessualità - ha portato direttamente Freud e la psicanalisi nel buio più nero.
Aprendo la Piramide e accogliendo la luce, si potrebbe riprendere il cammino dall’inizio - con Breuer, con Fliess e con Freud, insieme. È l’unico filo che ci è rimasto, per uscire dal labirinto - non quello di Arianna, ma quello di Bloch: la Speranza [64]. Ricominciare proprio dall’idea abbandonata, dalla "figlia" di Fliess e Freud: «E ora la cosa più importante! Il mio prossimo libro, per quanto posso vedere, si intitolerà La bisessualità nell’uomo; investigherà la radice del problema e dirà l’ultima parola, che mi sarà permesso di dire, sull’argomento; l’ultima e la più profonda... L’idea stessa è tua. Ricorderai che ti dicevo anni fa, quando tu eri ancora specialista del naso e chirurgo, che la soluzione risiedeva nella sessualità. Anni dopo tu mi correggesti e dicesti bi-sessualità, e vedo che hai ragione. Probabilmente dovrò prendere a prestito ancora di più da te e forse sarò spinto dall’onestà a chiederti di apporre la tua firma al mio libro; ciò significherebbe un’estensione della parte anatomico-biologica, che a me riuscirebbe assai scarsa. Per parte mia dovrei occuparmi dell’aspetto mentale della bi-sessualità e della spiegazione del lato nevrotico. Questo dunque è il mio prossimo progetto che spero ci unirà ancora nella ricerca scientifica»[65].
Su questa strada, poi, non potremmononriaprirela questione della fecondità,e ripensarla intutta la sua portata e in tutta la sua importanza - come una decisiva categoria ontologica, secondo l’indicazione di Lévinas.
In tale direzione - tenendo presente che «l’origine biologica di questo concetto non neutralizza in alcun modo il paradosso del suo significato e delinea una struttura che va al di là dell’empiria biologica»[66] - forse, potremo comprendere (finalmente e meglio) che «la fecondità fa parte del dramma stesso dell’io», che «la fecondità attesta un’unità che non si oppone alla molteplicità, ma, nel senso preciso del termine, la genera»[67], e così aprirci a nuove possibilità e nascere a un avvenire che non sia - ancora una volta e sempre - «un avvenire del Medesimo»[68].
L’accogliere: femminile... mina alla radice il «narcisistico godimento» di quel soggetto che «vuole signoreggiare in sé e intorno a sé e sentirsi padrone», che «possiede la volontà di ridurre il molteplice all’unità» e, «subordinato un impulso apparentemente antitetico», una «erompente risoluzione all’ignoranza, al volontario isolamento, un serrar le proprie finestre, un intimo dir di no a questa o quella cosa, un non lasciarsi avvicinare, una sorta di condizione difensiva contro quel molto che può essere conosciuto, un contentarsi dell’oscuro, dell’orizzonte che rinchiude, un dir di sì e un consentire all’ignoranza»[69]; e pone all’ordine del giorno - in modo inedito - la realizzazione del sogno illuministico: l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso[70].
NOTE
1 E. Fachinelli, Il bambino dalle uovo d’oro. Brevi scritti con testi di Freud, Reich, Benjamin e Rose Thè, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 9.
2 Questo scritto era già apparso in «Lettera Internazionale», 6, 1985.
3 E. Fachinelli, La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989.
4 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Torino, Boringhieri, 1973, p. 553.
5 E. Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Milano, edizioni L’Erba Voglio, 1979.
6 E. Fachinelli, Claustrofilia. Saggio sull’orologio telepatico in psicanalisi, Milano, Adelphi, 1983.
7 E. Fachinelli, Claustrofilia, cit., p. 12.
8 J. Conrad, La linea d’ombra, Torino, Einaudi, 1989. A riguardo, cfr. la bella recensione di A. Asor Rosa, La nave è immobile, «La Repubblica», 22.3.1989.
9 E. Fachinelli, Claustrofilia, cit., p. 11.
10 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 15-6. "
11 Ibid., p. 18.
12 In analogia, cfr., già, le riflessioni su «Gruppo aperto o gruppo chiuso?», in E. Fachinelli, Il bambino..., cit., pp: 114-141.
13 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 23.
14 M. Heidegger, L’abbandono, Genova, II melangolo, 1983.
15 La citazione, notissima, è ripresa da: J. Bronowski, L’ascesa dell’uomo. Storia dell’evoluzione culturale, Milano, Fabbri Editori, 1976, p. 234.
16 Aristotele, Metafisica, Libro I, 982 b, 10.
17 J. Bronowski, op. cit., pp. 245-7. A riguardo, cfr. anche E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 69.
18 J. Bronowski, op. cit., pp. 252-254.
19 F. Capra, Il Tao della fisica, Milano, Adelphi, 1982, pp. 11-12. «La scoperta del parallelo fra i koan zen e i paradossi della fisica quantistica [...] stimolò grandemente il mio interesse per il misticismo orientale e acuì la mia attenzione [...] La scoperta di queste somiglianze non fu dapprima nulla più di un esercizio intellettuale, anche se molto stimolante, ma poi, in "un tardo pomeriggio dell’estate del 1969, ebbi un’esperienza molto intensa che mi fece considerare con molta maggiore
serietà i paralleli tra fisica e misticismo» (cfr. F. Capra, Verso una nuova saggezza. Conversazioni con Gregory Bateson, Indira Gandhi, Werner Heisenberg, Krishnamurti, Ronald David Laìng, Ernest F. Schumacher, Alan Watts e altri personaggi straordinari, Milano, Feltrinelli, 1988, pp. 26-27). Altri noti lavori sono: F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Milano, Feltrinelli, 1984, e, F. Capra - C. Spretnak, La politica dei verdi, Milano, Feltrinelli, 1986.
20 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 23.
21 Ibid., p. 21.
22 Su questo, cfr. la coraggiosa e importante prefazione al libro di fotografìe di Lisetta Carmi, I travestiti, Roma, Essedì Editrice; e l’articolo Travestiti, «L’erba voglio», 11, 1973, ripreso poi in: E. Fachinelli, Il bambino..., cit., pp. 202-211. Qui, anche, già si "covano uova" che saranno deposte poi «Sulla spiaggia».
23 Su W. Reich, cfr. E. Fachinelli, Il bambino..., cit., pp. 52-70.
24 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 21.
25 Ibid., p. 24.
26 L’espressione è ripresa da quell’interessante e coraggioso libro che «cerca di muoversi nello spazio etico che si trova tra demonizzazione e omologazione sulla base dell’idea che entrambi gli atteggiamenti vivano male la trascendenza dell’altro» di F. Cassano (Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro, Bologna, II Mulino, 1989, p. 8). Il tema centrale della sua riflessione è molto prossimo al tema dell’accogliere: si tratta di «deporre l’elmo» (p. 9) dell’intelligenza astuta e armata, quello di Atena-Metis. L’invito a non demonizzare e a non omologare è rivolto, per quanto riguarda la ricerca di Fachinelli (ma la cosa vale anche per quella di Cassano, come qualcuno ha già fatto), a S. Vegetti Pinzi, che chiude una sua recensione de La mente estatica (cfr. Dalla psicoanalisi all’estasi un viaggio della conoscenza, «Corriere della sera», 30.4.1989) con la seguente considerazione: «Si tratta, come è evidente, di una indagine ad alto rischio dove la psicoanalisi, sganciata dalla pratica clinica e dalla referenza teorica, esplora i territori dell’immaginario e le potenzialità della suggestione».
27 Uno per tutti, cfr. il testo di F. Capra, Verso una nuova saggezza..., cit., nota 19.
28 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 21-22.
29 II primo riferimento è a M. [Lea] Melandri, Come nasce il sogno d’amore, Milano, Bompiani, 1988; il secondo è a uno dei temi centrali dei lavori di M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza; La marionetta e il burattino; Psicoanalisi della nascita e castrazione umana, Roma, Armando Editore, rispettivamente del 1972, 1974, e 1975. I due richiami, ovviamente, non sono affatto casuali, rispetto alla ricerca portata avanti in questi anni da Fachinelli. Di M. Melandri ricordo ancora l’altro suo importante lavoro, L’infamia originaria, Milano, edizioni L’Erba Voglio, 1977.
30 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 23.
31 Ibid., p. 16.
32 «Freud è interamente compreso nella rete del complesso di Edipo» (cfr. E. Fachinelli, II bambino..., cit., p. 154).
33 Su questi problemi, cfr. F. La Sala, Le "regole del gioco" dell’Occidente e il divenire accogliente della mente [di seguito, in La mente accogliente...cit., pp.162-189].
34 Ogni secondo, nel tempo, "era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia" sono le ultime parole delle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin (cfr. W. Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962, p. 63). Il richiamo è voluto. Fachinelli, infatti, ha sempre posto e dedicato molta attenzione all’opera di Benjamin, cfr. Il bambino... cit., pp. 158-168, e La mente estatica, cit., p. 42 e nota. e pp. 90-92.
35 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 20.
36 S. Freud, L’interpretazione..., cit., p. 477.
37 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 19-20.
38 Ibid., p. 20.
39 lbid., pp. 23-24
40 Ibid., p. 24.
41 Ibid., p. 23.
42 R.D. Laing, La politica dell’esperienza, Milano, Feltrinelli, 1968;e, ancora, R.D. Laing, Nascita dell’esperienza, Milano, Mondadori, 1982.
43 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 24.
44 S. Freud, L’interpretazione..., cit., p. 477.
45 «Un’analisi basata sistematicamente sullo smantellamento delle difese incontra ad ogni passo quel pericolo che le ha fatte erigere. [...] L’analisi assume allora il senso di un decondizionamento ad infinitum. Interminabilità, eccetera» (cfr. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 20-21).
46 Ibìd., p. 22.
47 S. Freud, L’interpretazione..., cit., p. 477.
48 S. Freud, Il tramonto del complesso edipico, in: S. Freud, La vita sessuale, Torino, Boringhieri, 1970, pp. 209-217.
49 Nota è la costante attenzione e ambivalenza di Freud nei confronti di Mosè. Dal 1934 al 1938, Freud lavora a L’uomo Mosè e la religione monoteistica (Torino, Boringhieri, 1977), e in quest’opera egli avanza e fa sua l’ipotesi che «Mosè è un egiziano probabilmente di origine nobile che il mito ha fatto ebreo».
50 E. Fachinelli, Il bambino..., cit., p. 243.
51 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte IV, «Tra le figlie del deserto».
52: S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Torino, Boringhieri, 1969, p. 258.
53 Questo è il titolo della sezione che comprende «Che cosa chiede Edipo alla sfinge?» e il «Programma per un teatro proletario di bambini» di Walter Benjamin, cfr. E. Fachinelli, Il bambino..., cit., p. 143.
54 Op. cit., p. 152.
55 Ibid.,p. 155.
56 Essa è condensata e condensabile nella considerazione kantiana, secondo cui «la ragione deve accostarsi alla natura, certo per venire ammaestrata da questa, non però nella qualità di uno scolaro, che si fa suggerire tutto ciò che vuole il maestro, bensì nella qualità di un giudice
investito della sua carica, il quale costringe i testimoni a rispondere alle domande che egli propone loro» (cfr. I. Kant, Critica della ragione pura, Prefazione alla seconda edizione, trad. it. di G. Colli, Milano, Adelphi, 1976, p. 21).
57 E. Fachinelli, Il bambino..., cit., p. 157.
58 Sono richiamati, ancora una volta, contro il generale e diffuso stile ediphicatorio, i lavori di M. Fagioli (espulso dalla Società Psicoanalitica Italiana, insieme ad A. Armando, agli inizi del 1976).
59 La citazione è ripresa da: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1968, p. 181. La questione a cui si allude non è affatto da sottovalutare, è cruciale per Freud, per lo stesso Wittgenstein, come per noi: «L’Io, l’Io è il mistero
profondo!» (op. cit.). Questo è il nodo da sciogliere per uscire dallo «stato di minorità» edipico.
60 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 23.
61 G. Galilei, Il Saggiatore, in Opere, Edizione Nazionale, a cura di A. Favaro, 20 voll., Firenze 1929, voi. VI, p. 538. Sulla centralità di questo "atteggiamento" nel lavoro e nella ricerca di Galilei, cfr. U. Curi, Schemi logici e forme reali del sapere in Galilei, in: U. Curi, La linea divisa. Modelli di razionalità e pratiche scientifiche nel pensiero occidentale, Bari, De Donato, 1983, pp. 135-156.
62 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 21.
63 Ibid., p. 180.
64 E. Bloch, Il princìpio Speranza (1954-1959). A riguardo, si tengano anche presenti le considerazioni di E. Paci sul tema «Modalità e novità in Bloch», in: E. Paci, Idee per una enciclopedia fenomenologica, Milano, Bompiani, 1973, pp. 576-586. In tale dirczione, forse, si potrà elaborare un nuovo percorso che non porti né tra le braccia del Freud conquistador, né tra le braccia dello Jung «mago-pastore, Seel-sorger» (cfr. E. Fachinelli, «A proposito di Jung», in Il bambino..., cit., p. 74), e né tra le braccia dello Hillman discepolo di Dioniso (cfr.
J. Hillman, Il mito dell’analisi, Milano, Adelphi, 1979, tutta la terza parte «Sulla femminilità psicologica», e, particolarmente, le pp. 279-307).
65 S. Freud, Le origini della psicoanalisi: lettere a Wilhelm Fliess 1887-1902, Torino, Boringhieri, 1968, pp. 254-256 (lettera del 7 agosto 1901). - Per problemi e suggestioni connessi a tale linea di ricerca, cfr. F. La Sala, Le due metà del cervello, «Alfabeta», 17, 1980, p. 11, recensione del lavoro di P. Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento, Milano, Feltrinelli, 1980. [Si cfr., inoltre AA.VV., I gemelli. Il vissuto del doppio, a cura di Liana Valente Torre, Firenze, La Nuova Italia, 1989].
66 E. Lévinas, Totalità e Infinito, Milano, Jaca Book, 1980, p. 286. Polemizzando sia con l’empirismo sia con l’idealismo, Feuerbach già ne aveva intuito le ricche potenzialità: «Le idee scaturiscono soltanto dalla comunicazione, solo dalla conversazione dell’uomo con l’uomo. L’uomo si eleva al concetto, alla ragione in generale, non da solo, ma insieme con l’altro. Due uomini [esseri umani, fls] occorrono per creare l’uomo, sia l’uomo spirituale, sia quello fisico [...]» (cfr. L. Feuerbach, Prìncipi della filosofia dell’avvenire, Torino, Einaudi, 1971, 126).
67 E. Lévinas, op. cit., p. 282.
68 Ibid., p. 276.
69 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, af. 230, Milano, Adelphi, 1976, voi. VI, t. II, pp. 139-140.
70 I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
UOMINI E DONNE. SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. AL DI LA’ DELL’ "EDIPO".
ELVIO FACHINELLI. Oltre Freud, una seconda rivoluzione copernicana
Elvio Fachinelli (1928-1989). Per il ventennale della morte.
Federico La Sala
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA: COME JUNG DIVENNE JUNG: LA ROTTURA TEORICA CON FREUD (1912), "I SIMBOLI DELLA TRASFORMAZIONE" (SULLA "STRADA DI DAMASCO"), E IL PROBLEMA DI "NICODEMO O DELLA NASCITA" (ENZO PACI: "COME NASCONO I BAMBINI"). *
"SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784). Un omaggio a Romeo Pulsoni: una nota a margine del suo "Il coraggio di trasformarsi" ("Insula Europea", 12 Gennaio 2025):
"[...] arduo e forse impossibile per me commentare “i simboli della trasformazione" in C. G. Jung, e nello stesso tempo cercare di demarcare quello che a mio parere è fondamentale per discernere il culturale dal terapeutico e dallo spirituale e cioè la differenza tra il cambiamento tra la trasformazione e la trasfigurazione.
Jung intende il processo di auto-realizzazione come un continuo cammino di trasformazione. La meta del processo di trasformazione consiste nell’unificazione degli opposti, nell’autorealizzazione dell’uomo. [...] Il contrasto di fondo in cui si trova l’uomo è la tensione tra spirito e istinto. [...] La trasformazione degli istinti avviene dunque, secondo Jung, a causa dell’attivazione dell’archetipo: ma gli archetipi vengono attivati tramite riti e simboli, e portati alla conoscenza. Jung chiama i simboli “trasformatori”. Come una centrale di energia idrica trasforma la pressione dell’acqua in energia elettrica, così i simboli trasformano l’energia biologica in energia spirituale. [...]
Per il cristiano il più importante simbolo della trasformazione è l’eucarestia. Jung chiama la Santa Messa “rito del processo di individuazione (...) il suo compito è quello di trasformare l’anima dell’uomo empirico, che è solo una parte di esso, nella sua totalità, che si esprime in Cristo” (volume XI, p. 262: Il simbolo della trasformazione nella messa). [...]
La trasformazione dell’uomo inizia nel suo subconscio. Spesso è una situazione difficile a costringerlo a occuparsi del subconscio; sovente sono archetipi che di colpo appaiono nei suoi sogni o che incontra nei riti della sua fede o nella lettura. [...]
La caduta da cavallo sulla via di Damasco provoca il cambiamento, il percorso successivo lungo dolce e soave sono la trasformazione, l’unione del subconscio al conscio. [....]
La grande aspirazione degli uomini è la trasformazione dell’umano nel divino, del mortale nell’immortale. La via della trasformazione consiste in varie iniziazioni o riti che cambiano sempre più la figura interiore degli iniziati, anche se, come nel caso di Nicodemo, sono domandati sconti. [...]" (Romeo Pulsoni, op. cit.).
* http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4365#forum3185426.
"VERE DUO IN CARNE UNA": PER UNA STORIA CRITICA DELL’ARITMETICA E DELLA GEOMETRIA DELLA "SOLITUDINE".... E DEL "CONTRATTO #SOCIALE" TEOLOGICO-POLITICO DEL TRAGICO "PREISTORICO" PRESENTE,
RIPRENDERE IL PROGRAMMA DI KANT (CON BERNHARD RIEMANN E HERMANN VON HELMHOLTZ) *
RICORDANDO (E RICORDATO) CHE JEAN PAUL RICHTER, sulla strada di Jean - Jacques Rousseau, precisa e chiarisce (prima di tanti altri e di tante altre) che "PER MANCANZA DEL DUE NON [SI] PUO’ CONTARE FINO A UNO" ("Levana, 1807), sia opportuno fondamentale uscire dall’orizzonte del "#solipsismo" (e del #narcisismo edipico-tragico della "#cosmoteandria" teologico-politica) e ACCOGLIERE L’INDICAZIONE E LA LEZIONE DI #VITTORIO #MATHIEU:
OGNI ESSERE UMANO E’ UN "DUE IN UNO". SU QUESTA STRADA DI "UN SOGGETTO ATTIVO E RECETTIVO", si comprende come Kant abbia potuto aprire (così ULISSE E DANTE) la porta della caverna polifemica e platonico-paolina, comprendere le ragioni stesse della "#Claustrofilia (E. Fachinelli, 1983), e, con e oltre Newton, portarsi "sulla spiaggia" (E. Fachinelli, 1985), e offrire la chiave per un ri-orientamento gestaltico e antropologico, e, al contempo, per una ri-comprensione del #partorire, del nascere, e del rinascere (Federico LA Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", 1991).
* SUL "VERE DUO IN CARNE UNA". NOTE SUL PROGRAMMA DI KANT, mi sia lecito, cfr. il primo capitolo di un mio lavoro del 2010: Federico LA Sala, "KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE" ).
PSICOANALISI E RELIGIONE: FREUD O JUNG? (EDWARD GLOVER, 1967).
Una nota a margine del lavoro "archeologico" in progress sull’#Hamlet di #Shakespeare da parte di Paul Adrian Fried, sul tema "Carl Jung, la via di Damasco di Saulo e la follia di Amleto" del 03 dicembre 2024
Assumendo il "#paradigma" di "#Damasco" (di san Paolo, Saulo di Tarso), la cultura europea (lasciando fuori non a caso #GiordanoBruno nell’epoca di Elisabetta I e #Shakespaeare e lo stesso #Freud rifugiato a #Londra) è stata segnata dalla #cecità, indotta dalla "#luce abbagliante" e dalla "#caduta", condivisa più da Jung (1933) e meno da Freud (1929), e, alla fine, senza troppe #differenze, è rimasta ancora ferma a #Tarso, a due passi dalla #Aleppo di "ieri" e di "oggi"!
Non è ora di cambiare rotta e registro e rifare un altro "#presepe" (https://www.leparoleelecose.it/?p=50421#comment-489123 ) e portarsi oltre il tragico cosmoteandrico paradigma paolino: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3)?!
JUNG NELL’IMMAGINARIO DEL CATTOLICESIMO PAOLINO: "I SIMBOLI DELLA TRASFORMAZIONE" (SULLA STRADA DI "DAMASCO")
Una nota a margine del "coraggio di trasformarsi" (di Romeo Pulsoni - "Insula europea") *
Il coraggio di trasformarsi
di Romeo Pulsoni ("Insula europea", 12 Gennaio 2025)
Sarà arduo e forse impossibile per me commentare “[i simboli della trasformazione" in C. G. Jung, e nello stesso tempo cercare di demarcare quello che a mio parere è fondamentale per discernere il culturale dal terapeutico e dallo spirituale e cioè la differenza tra il cambiamento tra la trasformazione e la trasfigurazione.
Jung chiama i simboli “trasformatori”. Come una centrale di energia idrica trasforma la pressione dell’acqua in energia elettrica, così i simboli trasformano l’energia biologica in energia spirituale.
“I simboli funzionano come trasformatori, in quanto trasferiscono la libido da una forma inferiore a una superiore” (volume V, p. 232), alla stregua del plancton che dà inizio alla catena alimentare e quindi a forme di vita più evolute.
Il processo della trasformazione viene sempre attivato dal contrasto fra istinto e spirito, fra conscio e subconscio, fra ragione e sentimento, in quanto i contrasti entrano in dialogo fra loro. Tuttavia, questo processo di trasformazione non è sempre visibile. All’inizio e per lungo tempo non si avverte nulla della trasformazione interiore, ma un po’ alla volta ci si accorge che qualcosa dentro di noi è cambiato. È un processo vitale. Come la pianta spesso cresce senza che ce ne accorgiamo, così avviene nella trasformazione di un uomo.
Come avvenga il cambiamento da energia dell’istinto in energia spirituale, Jung lo descrive con l’esempio del giovane. Per un bambino è normale avere nostalgia della madre. Ma se un adulto concentra la propria libido principalmente sulla madre, resta infantile e si radica in lui immaturità e debolezza. Per maturare interiormente deve orientare la propria libido su un simbolo, su immagini dell’inconscio, su archetipi, che trasformano la sua energia dall’istinto. Jung sostiene che non appena si rende necessario il distacco dalla madre, appare l’archetipo della madre, per esempio la madre Chiesa. Con ciò il giovane può distaccarsi interiormente dalla madre e “avviene un cambiamento vitale” (volume V, p. 235). Una via di trasformazione dell’istinto è per Jung il sacrificio, come è più chiaramente rappresentato dalla morte sulla croce di Gesù.
“Il sacrificio non comporta affatto una regressione, ma esso è al contrario una felice trasposizione della libido sull’equivalente simbolico della madre, e quindi una spiritualizzazione di essa” (volume V, p. 261). Jung chiama il processo di trasformazione anche introversione.
L’uomo orienta la propria energia verso l’interno e in questo modo è in grado di trasformarla. L’introversione viene provocata da riti, preghiere, e sacrifici. Questi atti rituali “hanno come scopo di dirigere la libido verso l’inconscio e di costringerla in tal modo verso l’introversione” (volume V, p. 290).
La trasformazione è vitale per l’uomo. Ogni attaccamento al passato fossilizza la vita. Una legge fondamentale della vita è che “tutto ciò che è giovane invecchia, ogni bellezza avvizzisce, ogni calore si raffredda, ogni splendore si offusca, ogni verità diviene piatta e banale. Tutto ciò che infatti prese forma un giorno, e tutte le forme vanno soggette all’usura del tempo; invecchiano, si ammalano, si disintegrano- a meno che non si trasmutino. Ora esse possono trasmutare, giacché una invisibile scintilla che un giorno le generò è capace di una generazione infinita, essendo eterna la sua forza... Una verità è valida solo quando è suscettibile di mutamento e testimonia di sé in nuove immagini, in nuove lingue, come un vino nuovo che viene messo in botti nuove” (volume V, p. 290). Mi si consenta il legame con Marco 2,21-22: “Nessuno cuce una toppa di tessuto grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo scuarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. E nessuno versa un nuovo vino in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi”.
Un momento decisivo per la trasformazione è la mezza età. In questo periodo della vita tanti cercano di aggrapparsi disperatamente al passato e ostacolano così la necessaria trasformazione. Trasformazione, però, qui non vuol dire che il passato viene eliminato, ma viene unito al nuovo e integrato in esso. Secondo Jung, verso la metà della vita appare l’ombra che fino ad allora era stata respinta. Ogni uomo ha due poli, amore e odio, disciplina e non disciplina, intelletto e sentimento, anima e animus. Nella prima metà della nostra vita viviamo soprattutto un solo polo. L’altro entra nell’ombra. A metà della vita questo chiede la parola. Se si incomincia a vivere l’ombra e si reprime ciò che è vissuto fino ad allora, non si progredisce. Si vive il contrario ugualmente in modo unilaterale come il passato. Proprio attraverso i contrasti, i poli opposti, Jung vuole spezzare la ristrettezza della coscienza “e costruire così uno stato di coscienza più ampio e più elevato” (volume VIII, p. 423). Non possiamo risolvere i nostri problemi di vita una volta per tutte. Dobbiamo sempre dedicarci ad essi, altrimenti ci fossilizziamo.
“Chi non ricorda certi amici e compagni di scuola, che da giovani erano esemplari e promettenti, e che, dopo molti anni, si ritrovano inariditi e limitati dalla monotonia quotidiana?” (volume V, p. 290). Si sono attaccati con tutte le forze alle soluzioni una volta che le hanno trovate e hanno rifiutato ogni trasformazione ulteriore. Essi non diventeranno mai pienamente uomini.
La trasformazione dell’uomo inizia nel suo subconscio. Spesso è una situazione difficile a costringerlo a occuparsi del subconscio; sovente sono archetipi che di colpo appaiono nei suoi sogni o che incontra nei riti della sua fede o nella lettura.
Jung pensa che l’uomo spesso abbia bisogno di crisi, nelle quali la sua capacità vitale esterna venga paralizzata, cosa che gli permette di unire il subconscio al conscio. E qui parliamo, secondo me, del cambiamento, evento improvviso necessario per impedire una imminente catastrofe.
La caduta da cavallo sulla via di Damasco provoca il cambiamento, il percorso successivo lungo dolce e soave sono la trasformazione, l’unione del subconscio al conscio.
Il processo non può arrestarsi al cambiamento di rotta, esso indica che la direzione precedente era sbagliata e l’inversione presagisce un cammino. Attestarsi ad essa, equivale al comportamento infantile di chi vuole in modo immorale tutto e subito: “è immorale perché distrugge l’uomo. L’uomo si forma nel tempo e col tempo. Il tempo è la sua storia che si costruisce” (Hallier-Megglé, Il monaco e lo psichiatra, San Paolo 2003)
“Darò loro un altro cuore e infonderò in essi uno spirito nuovo, rimuoverò il cuore di pietra dal loro corpo e metterò in essi un cuore di carne” (Ezechiele 11, 19). Una vita di successo può ostacolare la trasformazione dell’uomo, perché gli fa dimenticare “la sua dipendenza dall’inconscio”.
Spesso sono delle condizioni esterne, come abbiamo visto, a costringere l’uomo a intraprendere il cammino della trasformazione, la quale, in ultima analisi, avviene sempre per la tensione tra i due poli opposti nell’uomo, per l’opposizione tra spirito e istinto e per l’opposizione tra conscio e subconscio. Nell’uomo i simboli possono trasformare l’energia, perché uniscono in sé conscio e inconscio. Quando l’uomo inizia un dialogo col suo inconscio, può attivarsi in lui il processo di trasformazione. Questo processo ha come meta la totalità, la completezza, termini con cui Jung traduce l’espressione biblica di perfezione. Per Jung, in ultima analisi, è solo l’immagine di Dio che si oppone “in maniera frenante alla semplice istintività” (volume VIII, p. 59).
La grande aspirazione degli uomini è la trasformazione dell’umano nel divino, del mortale nell’immortale. La via della trasformazione consiste in varie iniziazioni o riti che cambiano sempre più la figura interiore degli iniziati, anche se, come nel caso di Nicodemo, sono domandati sconti.
In Jung il fine della trasformazione è la perfezione, per le religioni misteriche il fine del processo di trasformazione era (è) l’essere trasformati in natura divina. Qui trasformazione significa “liberazione del corpo dai vincoli della natura materiale, trasfigurazione corporea”: “dopo sei giorni Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche...” (Marco 9, 2-3). Per qualche istante ai discepoli appare la sembianza divina, vedono qualcosa che era con Gesù da sempre ma nascosto ai loro occhi.
Il cambiamento è l’inizio, la trasformazione è il viaggio, la trasfigurazione è il punto di arrivo: autorealizzazione, perfezione, vita in Dio sono denominazioni diverse dello stesso obiettivo?
Come cammino di trasformazione, il guardare avviene sia a livello psicologico che spirituale. Nello stesso modo in cui guardo una persona, così essa mi guarderà.
Tornando a Jung anche un racconto può trasformare, come anche lo yoga, gli esercizi spirituali, la meditazione; ci sono “processi naturali di trasformazioni, che ci accadono sia che lo vogliamo sia che non lo vogliamo, sia che lo sappiamo sia che non lo sappiamo...I processi naturali si annunciano soprattutto nel sonno” (volume VIII, pp. 127-128).
Nell’incontro con uomini, o leggendo dei libri, possiamo entrare in contatto con le fonti interiori e scoprire in noi l’amico dell’anima, che ci vuole condurre al mistero della nostra vita (volume VIII, p. 119). Jung sostiene che tutti portiamo dentro di noi un “amico dell’anima” che è immortale e vuole trasformare ciò che in noi è mortale in immortale.
Meta di ogni trasformazione è: “la trasformazione di ciò che in me è mortale in sostanza immortale; perché si libera dall’involucro mortale ch’io sono e si desta alla propria vita” (volume VIII, p. 131).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Federico La Sala
UN "BAMBINO" SULLA SPIAGGIA DELL’#OCEANOCELESTE (KEPLERO A #GALILEO, 1611): ISAAC NEWTON (1643 - 1727).
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA, RIVOLUZIONE COPERNICANA, E IMMAGINAZIONE SCIENTIFICA E TEOLOGICO-POLITICA...
“If I have seen further it is by standing on ye sholders of Giants.” (Isaac Newton). A ben riflettere, nel trecentesimo anniversario della #nascita di #Kant (1724 -2024), è bene anche ripensare all’intera opera di Newton ("Trattato sull’Apocalisse") e, dalle sue stesse parole, a un possibile "sottile" richiamo "cristologico", a sé stesso come un "#bambino" (#Cristo), portato sulle spalle dal #gigante "#Cristoforo" (che a sua volta diventa un altissimo "#Cristofaro", come da parola di #Alexander #Pope, poeta amatissimo da Kant).
NOTA. #Filologia #Antropologia #Teologia e #Pedagogia. "On The #Shoulders Of #Giants" (#OTSOG). "Senza di loro non vedremmo nulla, su di loro vediamo più lontano di questi San Cristoforo" (cfr. #Umberto #Eco, Introduzione all’edizione italiana: "Dicebat Bernardus Carnotensis" del libro di Robert K. #Merton, "Sulle spalle dei giganti", Società editrice il Mulino, Bologna1991).
CON FREUD, FACHINELLI, BATESON, E FOUCAULT, OLTRE: RIPARTIRE DA SHAKESPEARE, DALLA GRAZIA ("CHARIS"), E DALLA "NEXOLOGIA".
LA DIAGNOSI SOMIGLIA ALLA GRAZIA: RIPETIZIONE E RIPRESA.
Una formidabile sintesi sul problema e un brillante #segnavia per procedere bene e oltre. Ripartire proprio da quanto
"Porzia risponde:
RIPARTIRE DA SHAKESPEARE, DALLA INDICAZIONE DI "PORZIA" (NELLE VESTI DELL’AVVOCATO "BALDASSARE"):
A RENDERE OMAGGIO ALLE "FIGURE" DI PORZIA E A BALDASSARRE, E, PER MEGLIO, ACCOGLIERE LE INDICAZIONI DI SHAKESPEARE, forse, è da riflettere di più e meglio sul "Chi" fa la diagnosi.
"COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (S. FREUD, 1937): PORZIALMENTE. Se la "diagnosi #somiglia alla grazia", proprio da questo "dettaglio’ emerge la #questione su cui invita a riflettere Shakespeare ("#Amleto"), dal "biblico" #androcentrismo del #somigliare...
PARZIALMENTE: #PAOLINISMO. Da secoli Il #nodo dei "#nodi" (compreso il nodo dei "#Borromeo") è proprio ’nascosto" (come aveva cominciato a capire Freud e, quasi sicuramente, con l’aiuto dello stesso Shakespeare) nella lezione sulla grazia di "Dio" ("Charitas) del teologo di tutti i teologi dell’Occidente, Paolo di Tarso (1 Corinzi 13):
"DIA-GNOSI" DELLA "CADUTA": "THE TIME IS OUT OF JOINT" (#HAMLET, I.5). IN "PRINCIPIO" COSA "C’ERA", COSA C’E’, IL "DEUS #CHARITAS EST" GIOVANNEO O IL "DEUS #CARITAS EST" DEL #LATINORUM (ALESSANDROMANZONI)?
SHAKESPEARE CON PORZIA E BALDASSARE HA BEN CAPITO LA LEZIONE DEI "DUE SOLI" (#DANTEALIGHIERI) E SA BENISSIMO DELL’#AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE.
NOTE:
Al di là del #paolinismo (dell’#hegelismo e del #lacanismo): "#Psiche e #Polis" (#Platonismo) e "#Costruzioni nell’#analisi" (S. Freud, 1937).
ANTROPOLOGIA E #PSICOANALISI: "LA FERMA FERMA" (E. Fachinelli, 1979). Purtroppo, bisogna dirlo la Società Psicoanalitica Italiana, all’altezza del XXI Congresso (in coincidenza con l’anniversario della #nascita di #Kant, trecento anni fa, 1724) ha perso tutto il coraggio degli inizi (del "#sàpereaude!" oraziano come dell’#illuminismo kantiano) del suo "fondatore" (#COPERNICO, #DARWIN, e #FREUD): non riesce ad "#apriregliocchi" su una vera e propria "seconda" #rivoluzionecopernicana in progress e continua ad agitare "la_can_na" per l’aria - almeno dal 1989, dalla morte contemporanea di #CesareMusatti e di #ElvioFachinelli.
MEMORIA E STORIA: L’ITALIA, IL VECCHIO E NUOVO #FASCISMO, E "LA FRECCIA FERMA". La lezione sorprendente e preveggente di Elvio Fachinelli.
ARCHEOLOGIA, #STORIAELETTERATURA, E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929): "RIVEDERE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" E’ POSSIBILE. "L’#Interpretazione dei #Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della "Divina Commedia" (Pg. II, 46-48) di #DanteAlighieri.
NOTA:
PSICOANALISI E #SOCIETA: "TENTATIVI DI ANNULLARE IL #TEMPO" E "#COSTRUZIONI NELL’ #ANALISI" ...
Una breve nota a margine di un intervento di Sergio Benvenuto ("Anti-Deleuze", "Le parole e le cose", 29 aprile 2024).
IL TITOLO DEL XXI CONGRESSO NAZIONALE DELLA Società Psicoanalitica Italiana (Roma, 24-25-26 MAGGIO 2024) E’ “PSICHE E POLIS”. Incapaci di riuscire ad “aprire gli occhi” fuori dalla famosa “caverna” e guardare il “mondo” al di là della luce “del sapere del “Maestro di color che sanno”, del sole e delle altre stelle del cielo aristotelico, è più che “verosimile la tesi promossa da George #Lakoff (in #Moral #Politics): che i grandi conflitti politici, quelli che portano anche a distruzioni e miserie immani, sono una proiezione espansiva, cosmica, delle nostre primitive relazioni con mamma, papà, la balia, la zia... In analisi, emerge la straordinaria pregnanza del Piccolo Mondo Antico”. (cfr. S. Benvenuto, "Anti-Deleuze", cit.).
"ANTI-EDIPO": "[...] Il primato dei crucci privati mi ha certamente colpito ma non sorpreso. Perché non ho mai creduto alla predicazione di #Deleuze e #Guattari. Come è noto, costoro rimproveravano alla psicoanalisi soprattutto freudiana di voler “familiizzare” tutto, di ridurre tutti i conflitti detti psichici a storie di mamma, papà, inauspicato fratellino, toccamenti di pisellino o patatina tra bambini... Mentre, altroché, i veri problemi inconsci sono cose serie, politiche, lotta di classe, rivoluzione degli oppressi, ecc. Gli schizofrenici, in particolare, vibrano per le sorti drammatiche del mondo. [...]" (Benvenuto, cit.).
"LA #FRECCIA #FERMA". A quanto pare, l’evidenza appare al massimo del suo livello: il tempo si è fermato! A questo punto, a che vale chiedersi ”se certi colleghi possano portarmi esperienze ben diverse”, quando “La freccia [è] ferma” (E. Fachinelli, 1979), per quanto qualche “vecchia #talpa” possa essere ancora benvenuta nella sua volontà di scavare, può mai contribuire a trovare la via d’uscita? Così non si butta la "Psiche" del #Bambino ("Edipo") e l’acqua sporca della Città di #Tebe?, della "Polis" t(al)ebana?! Boh e bah?!
PIANETA TERRA (#EARTHRISE). Individuo ("Psiche") e Società ("Polis"): una relazione chiasmatica aperta alla luce del Sole copernicano (e galileiano e kantiano)! Nel 1989, il tema del 36º congresso internazionale dell’ International Psychoanalytical Association (IPA), tenutosi a Roma (con #Musatti, morto il #21marzo 1989, e #Fachinelli, morto il 21 dicembre 1989) era quello dell’#oikos, del "terreno comune" in psicoanalisi - e non solo!
Nota:
CON #KANT E #FREUD, #OLTRE. "UNA SCELTA DECISIVA PER L’INDIVIDUO E PER LA SPECIE". Un nuovo #paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO #FACHINELLI. Antropologia, psicoanalisi, e #critica della #ragione hegeliana (e lacaniana).
Una nota a margine del lavoro di Pietro Barbetta: *
Brillante breve saggio sulla storica figura della cultura psicoanalitica e filosofica italiana, "Elvio Fachinelli - Psychoanalysis of Dissension in Italy" ("Qeios", 24 aprile 2024): pur partendo dall’importante #caso dell’#uomo con il #magnetofono (cfr. J.-J. #Abrahams, "L’uomo col magnetofono: dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista", con note di J.-P. #Sartre, J.-B #Pontalis, B. #Pingaud e E. #Fachinelli, edizioni L’erba voglio, Milano 1977), seguendo il filo di una obsoleta #storiografia freudiana (e fachinelliana), a mio parere, si perde l’equilibrio e ne esce una #visione della ricerca fachinelliana del tutto riduttiva, schiacciata nella valorizzazione pure importante dell’indicazioni di Sándor #Ferenczi.
Sul tema, mi sia lecito, si cfr. il capitolo intitolato "Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli" all’interno di un mio "vecchio" lavoro, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica" (Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-161): "Con #Freud, #oltre - in una nuova direzione e in modo nuovo: contro le sfingi e contro l’imbalsamazione degli uomini come delle teorie".
DA RICORDARE: "L’#Interpretazione dei #Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della #DivinaCommedia (Pg. II, 46-48) di #DanteAlighieri.
Note:
L’ipotesi della distruzione in Sigmund Freud
di Elvio Fachinelli ("Il Corpo", 1, marzo 1965).*
"[...] Si pensi al programma ambizioso iscritto sul frontespizio della Interpretazione dei sogni: Acheronta movebo; trent’anni dopo, nelle ultime pagine de Il disagio nella civiltà, la mantenuta coerenza del proposito appare velata d’amarezza: "M’inchino al rimprovero... di non saper recare alcuna consolazione."Né disperazione, è chiaro; ma piuttosto la consapevolezza del profilarsi - al limite di separazione fra ciò che siamo e il futuro visibile dell’utopia - di una scelta decisiva per l’individuo e per la specie" (* ).
* Cfr. AA, VV., "La negazione freudiana", "Nuova Corrente", 61/62, 1973, 159-171; poi, in E. Fachinelli, "Il bambino dalle uova d’oro", Milano, Feltrinelli 1974, pp. 13-29).
STORIA E IMMAGINARIO: GUGLIELMO IL CONQUISTATORE, NAPOLEONE (E IL #SOGNO DI #FREUD, ARRIVANDO IN #INGHILTERRA, DI SBARCARE A #PEVENSEY, 1938).
Arazzo di #Bayeux: "[...] L’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito di varie pezze per una lunghezza totale di 68,30 metri, sino alla fine del XVIII secolo era conservato nella collezione della Cattedrale di Bayeux, mentre ora è esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant di Bayeux.
Nel 2007 l’#UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo. [...].
Progettando l’invasione dell’Inghilterra, Napoleone lo volle a Parigi a fini di propaganda nel novembre 1803 [...].
il 6 dicembre 1803, nel pieno dei preparativi per l’invasione, su #Dover era apparso un luminoso corpo celeste (probabilmente un bolide) con traiettoria sud-nord, che consentiva paragoni benauguranti, ai fini della spedizione, con la #cometa apparsa nel 1066. L’arazzo tornò a Bayeux nel febbraio 1804, ormai noto a livello nazionale ed internazionale [...]"(https://it.wikipedia.org/wiki/Arazzo_di_Bayeux).
PSICOANALISI E #CRISTIANESIMO: #PAOLINISMO ("#ANDROLOGIA", "#VIROLOGIA", DEL "#CORPOMISTICO"). Freud scrive nell’estate-autunno del 1929 “Il disagio della civiltà”, in cui discute del senso del comandamento biblico “amerai il prossimo tuo come te stesso” ... e comprende anche, come precisa, che "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" ("Disagio della civiltà", 1929), ma non riesce ad andare oltre l’orizzonte della tragedia della polis tebana (e della biblica "caduta").
"KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE". Avendo mosso l’#Acheronte (con l’aiuto di Virgilio), Sigmund Freud riesce sì a venir fuori dall’inferno ma, sognando di essere Guglielmo il Conquistatore, a raggiungere Londra nel 1938 e a non sciogliere il #nodo della tradizione mosaica, cristiana, e romana, e, cum grano salis, a essere trascinato fino alla fine dalla corrente "acherontica" della tradizione faraonica, paolina, e costantiniana (#Nicea 325-2025):
Sogno in W.R. BION
Per evidenziare il contributo innovativo di Bion alla teoria psicoanalitica del sogno è utile partire dal concetto di lavoro onirico, introdotto da Freud nel sesto capitolo della Interpretazione dei sogni (1899).
A cura di Michele Bezoari *
Il lavoro psichico da cui scaturisce il sogno consiste, per Freud, di due fasi successive: la produzione dei pensieri inconsci e la loro trasformazione nel contenuto manifesto del sogno. Solo questa seconda operazione, in quanto specifica dei sogni, è stata da lui considerata come il vero e proprio lavoro onirico e descritta mettendone in luce le modalità impiegate per eludere la censura (condensazione, spostamento, raffigurazione simbolica, elaborazione secondaria).
La ricerca di Bion si è, invece, focalizzata sulla prima fase, cioè sulla formazione dei pensieri inconsci mediante un processo dal quale derivano, come lo stesso Freud aveva ipotizzato, anche i pensieri coscienti. Per indicare la novità del suo apporto Bion ha usato inizialmente il termine lavoro-del-sogno-alfa, ridefinito in seguito funzione alfa (1962, 1992).
Questa funzione opera trasformando le impressioni emotivo-sensoriali (elementi beta) in immagini (gli elementi alfa) idonee alla costruzione dei pensieri sia consci che inconsci. Si tratta di un lavoro onirico basilare e necessario per la vita psichica: lavoro che, a differenza di quello che porta alla formazione del sogno, si svolge di continuo, non solo quando dormiamo ma anche quando siamo svegli. È un processo paragonabile, secondo Bion, alla digestione.
Nell’ottica bioniana il contenuto manifesto del sogno è un’aggregazione di elementi alfa articolati in forma narrativa durante il sonno e successivamente rielaborati durante la veglia. Il nucleo del sogno come evento vissuto dal soggetto dormiente è un’esperienza emotiva, che la funzione alfa elabora nel tentativo di renderla pensabile, analogamente a quanto accade per le esperienze emotive vissute nello stato di veglia.
Parlando di “sogno necessario” e affermando che ogni uomo deve poter “sognare” un’esperienza emotiva mentre gli capita, sia che gli capiti nel sonno sia che gli capiti da sveglio, Bion (1962) si riferisce dunque al primo livello di pensiero onirico. Per evitare di essere frainteso dal lettore, egli usa - almeno inizialmente - le virgolette quando con i termini “sogno” e “sognare” intende il prodotto e l’attività della funzione alfa, non il sogno e il sognare propriamente detti (che devono la loro specificità allo stato di coscienza peculiare del sonno), né le fantasticherie della veglia talvolta chiamate, nel linguaggio comune e anche da Freud, “sogni a occhi aperti”.
La nuova teoria è compatibile, come dichiara lo stesso Bion, con i concetti classici di rimozione, censura e resistenza impiegati da Freud a proposito del sogno. Ma questi meccanismi vengono ora considerati al servizio della funzione alfa, che crea e differenzia i pensieri inconsci e quelli consci per mezzo di una membrana virtuale in continuo sviluppo denominata barriera di contatto. Più che prodotti dall’inconscio, essi sarebbero dunque meccanismi produttori dell’inconscio.
Con Bion viene pienamente riconosciuta al sogno quella capacità di generare nuovi significati della vita emotiva che Freud aveva solo in parte e tardivamente ammesso, legato com’era al suo assunto teorico di considerare il sogno come una deformazione di significati già presenti nell’inconscio (Riolo 1983).
Ma non tutti i sogni sognati, ricordati ed eventualmente raccontati hanno lo stesso valore per la pensabilità dell’esperienza emotiva. Adottare la prospettiva bioniana non significa considerare il contenuto manifesto del sogno come se raccontasse “la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità” (Meltzer 1984).
Per Bion il lavoro simbolopoietico della funzione alfa, nelle sue varie fasi, è soggetto a influenze contrastanti che tendono ad evitare invece che a favorire la consapevolezza di emozioni troppo dolorose. Il materiale onirico può essere inconsciamente usato come bugia - invece che per accostarsi alla verità - e la stessa funzione alfa può invertire il suo corso, come accade nei disturbi psicotici, trasformando anche i simboli già prodotti in elementi quasi concreti (simili agli elementi beta originari), non più utilizzabili per il pensiero ma destinati all’evacuazione nel corpo, nel comportamento o nel mondo esterno con modalità allucinatorie.
Alla luce degli sviluppi bioniani anche il posto del sogno in analisi viene in parte riconfigurato.
Mentre il sogno della notte è un tentativo di rendere pensabile l’esperienza emotiva del sognatore addormentato, nella seduta analitica il sogno raccontato dal paziente si inserisce nel contesto di un dialogo che ha come nucleo emotivo ciò che egli sta vivendo nella relazione con l’analista. È compito dell’analista cercare di sintonizzarsi con questa esperienza emotiva in atto per favorirne la simbolizzazione condivisa, mettendo la propria funzione alfa al servizio di quella del paziente grazie a una disposizione mentale definita da Bion reverie [], che integra il concetto freudiano di attenzione fluttuante.
L’analista, afferma Bion (1992), deve poter “sognare” l’analisi mentre questa avviene, ma naturalmente - precisa con un pizzico di umorismo - non deve addormentarsi. Obiettivo dell’analista è realizzare insieme al paziente una “trasformazione in sogno” (Ferro 2009) dei fatti della seduta. Tra questi fatti il racconto di un sogno ha un carattere speciale in quanto è espressione (più o meno riuscita) del lavoro onirico notturno del paziente e, soprattutto, in quanto può offrire al pensiero associativo della coppia analitica spunti inediti per esplorare nuove prospettive di senso (Bezoari e Ferro 1994).
Interpretare il sogno equivale per Freud a disfare i travisamenti del lavoro onirico notturno per risalire ai pensieri già presenti nell’inconscio del sognatore. Per Bion si tratta piuttosto di portare avanti il lavoro del sogno nella veglia, mettendo a frutto anche le potenzialità creative delle trasformazioni oniriche descritte da Freud (condensazione, spostamento, raffigurazione) per produrre nuovi pensieri, idonei a rappresentare l’esperienza emotiva in divenire. Come dice Ogden (2005) ispirandosi a Bion, scopo dell’analisi è migliorare nell’analizzando la capacità di “sognare i suoi sogni non sognati o interrotti”.
Bibliografia
Bezoari M., Ferro A. (1994). Il posto del sogno all’interno di una teoria del campo analitico. Riv.Psicoanal., 40, 251-272.
Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.
Bion W.R. (1992). Cogitations. Pensieri. Roma, Armando, 1996.
Ferro A. (2009). Trasformazioni in sogno e personaggi del campo psicoanalitico. Riv.Psicoanal., 55, 395-420.
Freud S. (1899). L’interpretazione dei sogni. O.S.F., 3.
Meltzer D. (1984). La vita onirica. Roma, Borla, 1989.
Ogden T. (2005). L’arte della psicoanalisi. Milano, Cortina, 2008.
Reverie, Spipedia enciclopedia SPIWEB https://www.spiweb.it/la-ricerca/ricerca/spipedia/
Riolo F. (1983). Sogno e teoria della conoscenza in psicoanalisi. Riv.Psicoanal., 29, 279-295.
L’ESCA AL "POLONIO" E LA "CARPA DELLA VERITÀ": IL PUNTO DEL CAPITONE (LACAN) E LE ANGUILLE DI "AMLETO" (FREUD).
UN PUNTO DA APPROFONDIRE.Una citazione da le "Costruzioni in analisi" (S. #Freud, 1937):
JACQUES LACAN E IL GIOCO DEL DEMIURGO PLATONICO. "IL PUNTO DI CAPITONE": "Al tempo di Lacan, i materassi erano fatti di lana e i materassai li facevano cucendo la fodera con dei punti tramite un ago ritorto. I punti che tengono insieme le due fodere e la lana si chiamano “punti di capitone”.
Il punto di capitone è il nodo dell’imbottitura e Lacan ne fa la metafora del nodo che lega il piano dei significanti con il piano dei significati, altrimenti separati, come accade nella psicosi. [...] Lacan dice che il rapporto del significante e il significato è mobile, tende a disfarsi, invece nei punti in cui il significante si incrocia con il significato si producono effetti di senso. Il punto di capitone è la nozione necessaria per situare l’intenzione di significazione, cioè l’intenzione che mobiliterebbe il significante. Per colui che ascolta, ma anche per chi parla, quando si ascolta qualcosa che è stato detto è sempre nel momento successivo, in après coup, che si può accedere a quest’intenzione di capire qualcosa." (Cinzia Crosali, 2014).
FREUD E LE ANGUILLE (BURATELLI maschi E CAPITONI femmine), E L’ANATOMIA DEGLI ORGANI RIPRODUTTIVI. TRIESTE 1876: "il giovane Sigmund Freud, grazie ad una borsa di studio ministeriale, svolge presso la Stazione Zoologica di S.Andrea una ricerca sul sistema riproduttivo dell’anguilla. Freud esamina circa 400 anguille e scrive la sua prima pubblicazione: Beobachtungen über Gestaltung und feineren Bau der als Hoden beschriebenen Lappenorgane des Aals (osservazioni sulla conformazione e intima costituzione dell’organo globoso dell’anguilla, descritto come testicolo)." (OGS-ISTITUTO DI OCEANOGRAFIA).
PSICOANALISI, "NEXOLOGIA", E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: "[...] Il paradosso di Freud è stato quello di tentare una scienza dell’individuo [...]. E se il suo tentativo può dirsi, in parte, riuscito, ciò si deve al fatto che la sua non è stata una ricerca individualizzante; non è stata una ricerca di psicologia, nel senso stretto, nel senso classico della psicologia individuale. E’ stata sin dal principio una rilevazione dei nessi, dei rapporti peculiari attraverso i quali passa l’individuo singolo dalla sua nascita, e attraverso i quali egli si forma come individuo. In questo senso il termine psicoanalisi, da lui dato al campo di ricerca da lui dato al campo di ricerca messo in luce, è fuorviante, significa un aggancio e un compromesso con la disciplina accademica chiamata psicologia [...] Con Freud, invece si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali; comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore. Di essa, la psicoanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare" (cfr. E. Fachinelli, "Il paradosso della ripetizione","L’erba voglio" - Rivista, n. 5, 1972; poi, in E. F., "Il bambino dalle uova d’oro", Feltrinelli, Milano, 1974).
Federico La Sala
ALLA RICERCA DELLA LINGUA D’AMORE: LETTERATURA, PSICOANALISI, E QUESTIONE ANTROPOLOGICA.
Note a margine del carteggio tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West e tra SigmundFreud e Wilhelm Fliess...
PREMESSO CHE "Una stanza tutta per sé" è un saggio pubblicato nell’ottobre del 1929, e il romanzo Orlando ("Orlando: A Biography") era stato pubblicato l’anno prima, nel 1928, forse, può essere una buona traccia per ulteriori approfondimenti porre accanto e "coniugare" il carteggio tra "Judith, la sorella di Shakespeare", Virginia Woolf e Vita Sackville-West (“Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio”, Donzelli, 2019) e il carteggio tra "Guglielmo il Conquistatore", Sigmund Freud e Wilhelm Fliess ("Lettere a Wilhelm Fliess, 1887-1904", Boringhieri, 1986): nel fuoco della relazione e della ricerca delle due coppie sono proprio i temi dell’antropologia e del "disagio della civiltà" (S. #Freud, 1929), con le loro profonde tragiche radici nel "Simposio" di Platone e nella tradizione del "platonismo per il popolo" (Nietzsche):
A) ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI: «Ho cominciato a considerare con attenzione il concetto di #bisessualità e considero la tua idea in proposito come la più significativa per il mio lavoro, dopo quella di "difesa"» (S. Freud a W. Fliess, 04.01.1898).
B) "DE AMORE": L’AMORE E LA PAROLA. "[...] cosa succede e dove si può arrivare considerando il tradimento della tradizione amorosa/letteraria soltanto un punto di partenza? Il risultato naturale di questo anticonformismo - che non si interroga più sul conforme, quanto sull’autenticità di quel che resta, quando il conforme viene spazzato via - ha nell’immediato un nome: Orlando, il romanzo che Virginia scrive proprio in quegli anni (la cui musa è proprio Vita), che trasforma il celebre eroe in un essere che sperimenta il maschile e il femminile [...] La stesura di Orlando è un modo per Virginia di superare una crisi non solo letteraria appunto (in quel momento sta completando a fatica la stesura di alcuni saggi), ma anche il tentativo di sublimare la sua gelosia per Vita, di cui ormai ha imparato a riconoscere/misurare le distanze mutevoli, trasformandola in un personaggio, e dunque in qualcosa di eterno." (Caterina Venturini, "Ti nomino meglio che posso: la lingua d’amore di due donne libere. Sul carteggio tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West", Femministerie 26 settembre 2019).
ILLUSIONE E CORAGGIO DI SAPERE (KANT, 1784): L’INDICAZIONE DI FACHINELLI...
SPIPEDIA - LA RICERCA
A cura di Almatea Kluzer Usuelli *
“Illusione” (dal latino illudere : deridere, farsi beffe, scherzare), é “ogni errore dei sensi o della mente che falsi la realtà” (Lessico Universale Italiano).
Nella letteratura psicoanalitica il termine illusione ha mantenuto fino ad un certo punto la medesima connotazione e il valore eminentemente negativo che gli é attribuito nel linguaggio comune, in contrapposizione con ‘realtà’ ‘verità’ e simili.
Nel saggio “L’avvenire di un’Illusione” Freud esamina il fenomeno religioso in rapporto all’impotenza infantile. L’illusione, che costituisce il fondamento delle credenze religiose, permetterebbe di soddisfare il bisogno di protezione da parte di una figura paterna. Il suo perdurare nell’età adulta è visto come un segno di infantilismo . Anche se “la voce dell’intelletto é fioca, essa non ha pace finché non ottiene udienza.. E questo é uno dei pochi punti che consentano un certo ottimismo per l’avvenire dell’umanità. . . a lungo andare nulla può resistere alla ragione ” (L’avvenire di un’illusione,p.482)
Winnicott ha dato una connotazione nuova al termine illusione, promuovendolo a concetto fondamentale nella teoria e nella pratica psicanalitica. Secondo questo Autore il soggetto e l’oggetto nascono, differenziandosi progressivamente, dalla coppia madre-bambino, nell’ambito dell’area transizionale, attraverso la creazione di una serie di oggetti: transizionali, appunto, in quanto si collocano in una zona di passaggio tra bambino e mamma, tra quello che diventerà l’Io e il non io, il Soggetto e l’Oggetto, il mondo interno e il mondo esterno ecc.
Immaginiamo quest’area all’inizio come un’impercettibile fessura: mamma e bambino costituiscono un’unità, le cure materne si adeguano ai bisogni del bambino in modo tale da creare in lui un’illusione di completezza, di onnipotenza magica.
Le inevitabili imperfezioni delle cure materne, fatte di ritardi, di inadeguatezza, di distrazioni, confluiscono nell’esperienza della separazione e provocano in lui una graduale percezione dei propri limiti, dei propri confini.
Quest’evoluzione può avvenire in modo non traumatico, quando l’impercettibile fessura dell’inizio si allarga, diventando uno spazio sempre più vasto, popolato di oggetti transizionali, rappresentanti simbolici dell’unità primitiva, intermediari tra io e non io.
In questi oggetti si materializza l’illusione (fondata sull’esperienza del rapporto con la “madre sufficientemente buona”) della congruenza tra sé e mondo esterno. In quest’area perdura la fiducia, l’illusione che l’oggetto, l’Altro, pur separato dal soggetto, corrisponda ai suoi bisogni,alle sue aspettative, sia predisposto a ciò, e che tutto quanto ci circonda si disponga intorno a noi con una certa coerenza o addirittura in bell’ordine provvidenziale.
Le delusioni inevitabili, i vissuti di frustrazione, mancanza, assenza, impotenza, introducono il soggetto nella dimensione del limite, nella “realtà” della propria finitezza; ma in condizioni ottimali questa consapevolezza acquisita si costituisce come un sapere che non intacca la capacità di illusione, così come del resto la capacità di illusione non oscura la visione chiara e distinta della “realtà” dei propri limiti.
C’é evidentemente qualcosa di paradossale in questa doppia visione, che non porta all’esclusione di uno dei due atteggiamenti tra loro contradditori.
Si potrebbe pensare ad un’organizzazione psichica, dove le diverse aree di funzionamento non sono tra loro integrate, senza tuttavia entrare in conflitto l’una con l’altra.
Se questo schema può corrispondere ad una struttura primitiva della mente, sorge tuttavia l’interrogativo di come possano coesistere nella vita adulta la capacità di illusione con il riconoscimento del limite che impone il “reale”. Nel suo percorso maturativo, l’Io tende verso una sempre maggiore integrazione e, nello sforzo di costituirsi come un’unità, riduce la sua tolleranza nei confronti del paradosso e delle contraddizioni. Debbono quindi intervenire particolari “accorgimenti” per permettere all’Io di accogliere e di sopportare la compresenza di ambiti di esperienza contradditori.
Possiamo identificare questi “accorgimenti” con i meccanismi di difesa costituiti dal diniego e dalla scissione dell’io? Forse. In questo caso essi non sarebbero più soltanto i segni della psicosi e della perversione, ma verrebbero promossi a meccanismi fondamentali della psiche, in quanto permetterebbero all’Io di sospendere il giudizio, e di mantenersi in un’ area di relativa ambiguità, necessaria alla sua sopravvivenza.
Tuttavia vorrei precisare alcune differenze fondamentali relative alla funzione del diniego e della scissione nella costituzione dell’oggetto transizionale e rispettivamente del feticcio: mentre il feticcio si costituisce a partire dal diniego dell’assenza, l’oggetto transizionale é per così dire un prodotto della presenza materna e nasce in un ambito di indifferenziazione tra io e non io, tra quello che diventerà il mondo interno e il mondo esterno. In questo caso il diniego si instaurerebbe secondariamente, a protezione dell’area transazionale, contro un eccesso di “alterità”, di “realtà” inassimilabile.
Il termine illusione dunque, nell’opera di Winnicott, ha assunto una connotazione e un valore nuovo: non più sinonimo di errore, bensì fondamento ontologico del soggetto. In questo contesto la realtà non si contrappone all’illusione, ma é invece definibile come illusione condivisa.
Un approccio del soggetto al mondo esterno non sufficientemente sostenuto dall’illusione, produrrebbe un’incapacità di dare un senso all’esperienza.
Bibliografia
Freud,S.(1927).L’avvenire di un’ illusione.O.S.F.,10.
Kluzer Usuelli,A. (1992) The Significance of Illusion In The Work of Freud and Winnicott: a Controversial Issue. Int J. Psycho-Anal. 19,179
Winnicott,D.W.1971. Playing and Reality. New York, Basic Books.
Winnicott,D.W.1987. Lettres vives. Editions Gallimard,Paris.
* Fonte: SPI-WEB, LA RICERCA
*
NOTA
"ILLUSIONE" E CORAGGIO DI SAPERE (KANT, 1784): L’INDICAZIONE DI FACHINELLI. C’è illusione e "illusione": con D. W. #Winnicott e W. R. Bion, #ElvioFachinelli ha saputo portarsi #SullaSpiaggia (1985) e, andando oltre "l’avvenire di un’illusione" (S. Freud, 1927), ha osato cominciare ad esplorare l’#oceano della "area perinatale" (E. #Fachinelli, "La mente estatica", 1989). CON #KANT E #FREUD, #OLTRE (cfr. Federico LA Sala, "La #mente #accogliente. Tracce per una #svolta_antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-161).
FLS
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI. LA CRISI DELLE SCIENZE: ENZO PACI, "AUT AUT", E L’ENIGMA DEL SOGGETTO. *
Quel gesto fenomenologico che ha fatto cultura
di Pier Aldo Rovatti *
Se mi chiedessero di dire in una battuta che cosa ha prodotto il settantennio di vita della rivista “aut aut”, messa al mondo nel 1951 dal filosofo Enzo Paci e oggi tutt’altro che estinta, risponderei senza esitazione: “il gesto fenomenologico”.
A tale atteggiamento o pratica di pensiero è stato dedicato anche il fascicolo della rivista attualmente in circolazione, in cui si guarda tanto al lunghissimo passato quanto a un futuro ancora da realizzare: sì, perché siamo ancora lontani dall’avere ben compreso questo gesto e dall’essere riusciti a metterlo in atto.
Di cosa si tratta? È un tentativo di dar corpo alla parola “critica”, forse più facile da collegare a quella cultura che voleva prendere distanza dai dogmatismi e dagli ideologismi del ventennio fascista di quanto sia riconoscibile oggi in una situazione nella quale tutti ci riempiamo la bocca di un’idea di democrazia alquanto superficiale e di tanti propositi culturali che spesso risultano vuoti e dai piedi di argilla. Parliamo infatti di pensiero critico, di responsabilità e di etica pubblica, ma non sembra proprio che riusciamo a dare troppo peso a quello che diciamo, come se dalla bocca di molti intellettuali uscisse soltanto un esile vapore, un flatus vocis che si disperde subito nell’aria.
Il gesto fenomenologico avrebbe invece la pretesa di tenere i piedi ben piantati sulla terra e di non consumarsi subito in una vacua cortina fumogena, come capita alla gran parte dei prodotti dell’attuale mondo della comunicazione, frettolosi e dunque superficiali. Questo gesto è invece qualcosa che ci coinvolge integralmente: non un semplice pensiero, qualcosa che ci passa per la testa e che comunque si riduce all’ambito del mentale, al contrario riguarda la nostra intera soggettività. È un atteggiamento “concreto” che concentra l’insieme delle nostre facoltà e ci mette completamente in gioco.
Detto altrimenti, questo gesto ci espone agli altri, non è una postura comprimibile nella privatezza, perciò ha sempre una dimensione pubblica, nel senso appunto dell’esposizione e del confronto. Siamo lontani dall’idea di una filosofia come disciplina a sé, dotata di una sua autorevolezza, piuttosto siamo vicini a un impegno di pensiero che ci chiederebbe di uscire dal bozzolo di un “io” separato, vale a dire di tentare di liberarci dalla presa di qualunque egoismo (egologia, egolatria) e dunque anche di sospettare di ogni pervasiva psicologia.
Perciò il gesto fenomenologico, così difficile da mantenere, così facile da inquinare e infrangere, dunque raro, è innanzi tutto un atteggiamento autocritico: ciascuno di noi, ogni “soggetto”, dovrebbe cominciare con il togliersi di dosso la camicia di forza dell’egoismo, tentare almeno di farlo, se vuole che il suo gesto agisca come un gesto critico. Non è certo lo scenario che vediamo ogni giorno perché, invece, abbiamo costantemente davanti una scena opposta in cui non si scorge quasi nessuna traccia di tale necessaria critica di sé stessi.
Ma cosa significa quel parolone, “fenomenologico”, che accompagna la parola “gesto”? Qui compare la specificità filosofica che caratterizza i settant’anni della rivista. È chiaro che il rimando è a Husserl e soprattutto alla sua ultima opera La crisi delle scienze. Si parte da una diagnosi di perdita di senso, cioè appunto di “crisi”, che non investe soltanto il mondo scientifico e la sua tecnicizzazione, come aveva fatto negli anni Trenta lo stesso Heidegger (peraltro, inizialmente discepolo di Husserl), ma investe per intero la cultura poiché riguarda lo stile di vita di ciascuno. Il titolo preciso di quest’opera di Husserl, che davvero ha fatto testo per comprendere un’epoca, certo non ancora conclusa, è: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (in italiano è stata pubblicata dal Saggiatore, lo stesso editore di “aut aut”).
“Fenomenologia” e in più “trascendentale”? Non è poi così difficile arrivare al nocciolo di una frase che potrebbe giustamente allarmare i non addetti (tra i quali, in questo caso, vorrei potermi collocare a mia volta): quel “trascendentale” è lì per dirci che non dobbiamo confondere fenomenologia con fenomeno (o con qualcosa di semplicemente fenomenico) perché ciò che viene messo in gioco è l’idea di soggetto e di soggettività nella sua concretezza non superficiale.
Per mantenere o ritrovare il suo carattere fenomenologico, questa idea non dovrà essere soltanto la meno idealistica, categoriale, metafisica possibile, perché non basta che la concretezza equivalga a ciò che è empirico, ma dovrebbe riuscire a dar corpo a una soggettività che non è mai fissabile attraverso un’etichetta. Perciò il termine fenomenologia risulta essenziale per mettere in primo piano proprio il problema del soggetto.
Aggiungo, per far capire l’importanza di tale problema, che il soggetto che viene così evocato non è mai traducibile in un concetto chiuso, di cui si possa costruire una scienza comunemente intesa. È piuttosto, come diceva lo stesso Husserl, un “enigma” che non possiamo cessare di sondare e di rilanciare, qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei nostri vissuti e con la nostra stessa vita.
Qualcosa che fa tutt’uno con lo stile di vita di ognuno di noi, come ha mostrato con chiarezza Paci nelle pagine del suo personale Diario fenomenologico (ora riedito da Orthotes). E proprio da qui discende l’intero corredo critico di “aut aut”, cioè - per indicarne solo qualche aspetto - l’importanza della “sospensione del giudizio” (la famosa epoché, rilanciata anche da Franco Basaglia nella sua critica alla psichiatria ufficiale), l’importanza di non isolare mai il sapere dall’etica con il rischio di svuotare il “gesto” facendolo diventare unicamente una tecnica di pensiero, o anche l’importanza di conservare a ogni costo l’apertura del dubbio e la possibilità del “sempre di nuovo”.
Perché questo gesto non può essere mai considerato un atteggiamento esclusivamente individuale? La tonalità “politica” della rivista, presente fin dal suo inizio, può ritrovarsi nella risposta a quest’ultima domanda, nel senso che non si dà soggettività senza intersoggettività, cioè che nel vissuto personale è sempre presente e attiva l’esperienza dell’“altro” ed è quindi comunque decisiva un’esperienza del noi.
Senza il compito dello stare assieme in una comunità possibile e necessaria di soggetti, il gesto fenomenologico perde il suo significato, letteralmente si annulla nel suo senso e nei suoi obiettivi. Siamo ancora lontani da questo telos, dall’impegnarci seriamente nella pratica di una simile finalità, e allora si comprende perché il tragitto che “aut aut” ha iniziato fin dal primo fascicolo non sia affatto esaurito.
[articolo uscito in versione ridotta su “La Stampa” il 20 settembre 2021]
*Fonte: Aut Aut, 23/09/2021
NOTA:
L’ENIGMA DEL SOGGETTO E LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO. Note su un dialoghetto "platonico" diffuso in rete:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (KANT).
COSA PENSANO I due BAMBINI nella pancia della madre "della VITA DOPO IL PARTO"? Ma l’autore "scrittore" di questo "bel" testo (sopra) ha mai sollecitato i "due bambini" a pensare sul come sono ’arrivati’ là dove sono, su come nascono i bambini?, e ha mai visto il Sole? O vive ancora nel pancione della Mamma-Terra, nella caverna di Platone (ama il mondo chiuso e la claustrofilia) e, per il trauma della nascita, si è sempre rifiutato di aprire gli occhi alla luce del Sole e vedere la Terra dalla Luna, dallo spazio?!
"ACHERONTA MOVEBO" (IL "MUOVERE LE ACQUE INFERNALI" DI FREUD) E AFFRONTARE IL TRAUMA DELLA NASCITA (OTTO RANK): SAPERE AUDE! ("IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA" DI KANT) !
Senza la critica di Kant del sogno dell’amore cieco e zoppo della ragion pura (di Socrate/Platone) non si può riconoscere a Diotima piena cittadinanza né nell’Accademia né nella Polis. La logica della tragedia (Edipo) porta davvero la peste!
La Sibilla Delfica (dell’oracolo di Apollo) a Socrate disse la verità, ma la storiografia ha preferito credere al sogno della nascita del cigno e alla storia di Platone, figlio di Zeus / Apollo!
Nietzsche perché ha scavato nella nascita della tragedia? Freud cosa cercava a Tebe?! Come Edipo, già a partire dal caso Dora, chiarirsi le idee sulla morte e uccisione del padre ("Interpretazione dei sogni") e sul desiderio incestuoso nei confronti della #madre, fare luce su "L’uomo #Mosè" e sull’esistenza di "Dio"! Con Dante e come Dante ha avuto il coraggio di agitare le acque infernali e uscirne: a Londra, è arrivato!
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO, IL TRAUMA DELLA NASCITA, E LA VITA DOPO IL PARTO.
"OTTO RANK, IL DOPPIO E LA PSICOANALISI" (alcune mie note, in "Psicoterapia e Scienze Umane", 4, 1980, pp. 75-79) ). Se Freud osò agitare e rompere le acque infernali ("Acheronta movebo) e riuscì a portare alla luce la psicoanalisi, è da dire, però, che non fu altrettanto attento a riconoscere il trauma della nascita e a portarsi oltre le colonne d’Ercole dell’Edipo.
Andando in America, nel 1909, Freud era ancora fiducioso e ottimista nella possibilità della psicoanalisi di affrontare il diffondersi della peste; ma nel 1924, con la sua parziale comprensione del complesso di Edipo, non riesce ad accogliere la sollecitazione di Otto Rank a riflettere sul trauma della nascita e l’avvenire della sua stessa creatura comincia a oscurarsi.
Elvio Fachinelli (1928-1989) ha saputo vincere la Claustrofilia (1983), si è portato "Sulla spiaggia" (1985), ma l’ Accademia platonica della Filosofia come della Psicoanalisi ha continuato a chiudere un occhio su come nascono i bambini. E il platonismo continua a oscurare il cielo...
Federico La Sala
Il linguaggio e la parola nella talking cure,
di Maria Grazia Antinori, Psicoterapeuta. *
L’incontro analitico avviene nella stanza d’analisi, uno spazio accogliente ma allo stesso tempo discreto, il paziente si distende sul lettino assumendo una posizione rilassata che facilita la regressione; l’analista si siede alle sue spalle, fuori dal campo visivo. L’unica regola analitica attiva per il paziente è quella delle libere associazioni e del pensiero fluttuante, ossia parlare liberamente, possibilmente senza autocensure, seguendo il flusso spontaneo dei pensieri.
L’analisi si svolge in una sorta di contenitore psichico e temporale che è il setting, che comprende anche gli accordi condivisi tra i due protagonisti come tempi ed orari delle sedute, onorario, regolazione delle assenze ecc.. In questa cornice dove l’agire è sospeso, l’aspetto fondamentale della talking cure, la cura con le parole (Freud, 1937), è proprio il linguaggio che paziente ed analista costruiscono insieme. Il senso, il valore, le modalità della comunicazione all’interno del gioco tra transfert e controtransfert, sono l’unica forma di azione in un setting che impone l’astinenza da tutte le altre forme di agito.
La psicoterapia è un osservatorio privilegiato dei fenomeno linguistici che normalmente caratterizzano qualsiasi relazione umana. Il linguaggio è profondamente intriso di vita in uno scambio diretto e costante con l’esperienza sensibile, una sorta di sentimento atmosferico sfuggente ma allo stesso tempo influente nell’orientare la ricerca di una rappresentazione in cui si sovrappongono elementi di familiarità ed estraneità in un processo aperto tra interno ed esterno, tra conosciuto ed estraneo. La psicoterapia diventa un tentativo di rappresentare e costituire nel linguaggio, la complessità della nostra esperienza tra vissuti ordinari ed eventi inattesi, trasformando l’inquietudine e l’angoscia in fonti di creatività.
L’analista e il paziente partendo dai loro linguaggi privati, condividono il compito di costruire una lingua comune pur avendo ruoli asimmetrici; l’analista aiuta il paziente a trovare nuove strade e questo può avvenire solo se i due protagonisti dell’incontro analitico, riescono a forgiare e a condividere un linguaggio comune.
Il linguaggio quindi non è semplicemente il mezzo di comunicazione ma assume la posizione del “terzo analitico” ossia il medium comunicativo e al contempo anche il mezzo attraverso cui l’esperienza prende vita. La teorizzazione del “terzo analitico”, è dello psicoanalista Ogden che nei suoi scritti ha molto riflettuto sull’uso e la funzione del linguaggio.
Secondo Ogden, l’analista lotta con il linguaggio, all’interno della relazione analitica, nel tentativo di dire al paziente qualcosa che è fedele all’esperienza emotiva sia inconscia che conscia. La consapevolezza dei propri stati d’animo è mediata dalle parole, si conosce attraverso le parole, si pensa con le parole. -“Fondamentale per un’esperienza analitica che abbia un buon esito è lo sviluppo dell’uso di un linguaggio adeguato al compito di comunicare a se stessi e agli altri qualcosa di quello che uno sente e pensa. Non esiste una forma ideale per il colloquio analitico, al contrario il modo in cui l’analista e l’analizzando parlano uno all’altro è qualcosa che devono inventare per se stessi” (Ogden, 2008, p. 32)
La psicoanalisi è fondata su un paradosso, è una teoria in continua evoluzione che si è sviluppata in circa un secolo, e allo stesso tempo, ogni analisi è unica ed irripetibile in quanto l’analista deve reinventare la psicoanalisi per ogni singolo paziente: “l’analista deve imparare da capo come essere analista con ogni nuovo paziente e in ogni nuova seduta” (Ogden, 2008, p. 7) pur mantenendo fermi e certi elementi quali gli scopi terapeuti, il ruolo, le responsabilità e i valori. Il compito costante dell’analista è quello di creare le condizioni nelle quali l’analizzando, con la partecipazione dell’analista, possa migliorare la sua capacità di sognare i suoi sogni non sognati ed interrotti (Ogden, 2008, p. 7).
Il “terzo analitico” si fonda sulla costruzione di una lingua comune metaforica che veicola una vera esperienza emotiva. “Una persona si rivolge a uno psicoanalista perché si trova in uno stato di sofferenza emotiva che non è in grado di definire, inoltre non è in grado di sognare (cioè di fare lavoro psicologico inconscio) o è così disturbata da ciò che sta sognando che i sogni vengono interrotti. Fino a quando è incapace di sognare la sua esperienza emotiva, l’individuo non può cambiare, non può crescere, non può diventare qualcosa di diverso da ciò che è stato. Il paziente e l’analista si impegnano in un esperimento, nei confini della situazione analitica, che ha lo scopo di creare le condizioni nelle quali l’analizzando (con la partecipazione dell’analista) possa migliorare la sua capacità di sognare i suoi sogni non sognati e interrotti. I sogni sognati dal paziente e dall’analista sono contemporaneamente i loro sogni (rêverie) e quelli di un terzo soggetto che allo stesso tempo è il paziente e l’analista e nessuno dei due. Partecipando alla sua attività di sognare i sogni non sognati e interrotti, l’analista riesce a conoscere il paziente in un modo e a un livello di profondità che gli consente di dirgli qualcosa che è fedele all’esperienza emotiva, sia inconscia che conscia, che avviene nella relazione analitica in un momento dato. Ciò che l’analista dice può essere usato dal paziente per il lavoro psicologico conscio e inconscio, cioè per sognare la sua propria esperienza, così da potersi sognare più pienamente nell’esistenza” (Ogden, 2008, pp. 13-14).
La responsabilità dell’analista, è nei confronti del benessere del paziente, piuttosto che nel mettere in atto le regole analitiche, fondamentale, ancora una volta è il linguaggio adatto al compito di comunicare, l’analisi è un impresa continua, un’invenzione unica.
La psicoanalisi a partire da Bion nell’ultimo quarto di secolo, ha iniziato a dare valore alla capacità dell’analista e del paziente di non sapere, di sostenere uno stato di non conoscenza; non sapere è una precondizione per essere in grado di immaginare, funzione indispensabile per poter pensare, giocare, sognare, modificare i dati di un problema e ogni tipo di attività creativa. E’ lungo e complesso il processo che porta un analista a maturare una tale flessibilità e modulazione del linguaggio: “Semplicemente parlare a un paziente, nella mia esperienza, normalmente implica “parlare semplicemente”, cioè parlare in modo semplice e chiaro, libero da cliché, gergo, e da toni di voce “terapeutici” o in atro modo “sapienti” (Ogden, 2009, p. 4).
Ogden nella sua lunga e vasta esperienza di analista con pazienti incapaci di sognare ad occhi chiusi ed aperti, ha osservato come spesso si sia ritrovato in conversazioni apparentemente non analitiche incentrate su i libri, i film, gli spettacoli, la politica e qualsiasi altro argomento che l’analizzando volesse introdurre. Questo parlare di argomenti diversi e lontani dall’analisi, in realtà si è rivelato una preziosa opportunità, una forma di sognare da svegli, un parlare come sognare: parlare come sognare appare superficialmente come non analitico, ma, secondo me, nelle analisi alle quali mi sto riferendo, esso rappresenta un risultato significativo, in quanto spesso è la prima forma di conversazione che ha luogo in queste analisi che viene sentita reale e viva dal paziente e da me” (Ogden, 2009, p. 10). Questa nuova esperienza, progressivamente nel tempo, apre nuove possibilità nella relazione analitica, conducendo il paziente ad acquisire la possibilità di parlare al proposito del sognare, cioè di aprirsi al discorso autoriflessivo nel rapporto analitico e nella vita stessa. Questi pazienti sperimentano la loro aumentata capacità di sognare e di pensare e di parlare a proposito del loro sognare e di pensare e di parlare a proposito del loro sognare come un’esperienza di svegliarsi a sé stessi (...) Nella nostra scoperta del parlare-come-sognare, questi pazienti ed io stiamo riscopriamo il sognare e la libera associazione” (Ogden, 2009, p. 10).
Questo modo di procedere di Ogden, sembra un esempio ideale dell’atteggiamento analitico suggerito da Bion, ossia di incontrare ogni paziente in ogni nuova seduta come se fosse la prima volta, mettendo da parte quello che già si conosce liberandosi da quello che si è imparato dall’esperienza. “Solo allora (l’analista) può provare a liberarsi da ciò che pensava di sapere, in modo da essere recettivo a tutto ciò che non sa” (Bion, 1970)
Bibliografia
* Fonte: ARPIT (Dott.ssa Maria Grazia Antinori, Febbraio 11, 2016).
POESIA E ANTROPOLOGIA. CAMBIAMENTO “CLIMATICO”. IL PUNTO DI SVOLTA...
CI SONO TUTTI GLI ELEMENTI. Riaffioramenti di antiche vie di ricerca antropologica e psicoanalitica . Nel lontano gennaio del 1898, il giorno QUATTRO, Sigmund Freud così scriveva al suo amico, il dr. Wilhelm Fliess: «Ho cominciato a considerare con attenzione il concetto di bisessualità e considero la tua idea in proposito come la più significativa per il mio lavoro, dopo quella di “difesa”». Il programma di Kant è messo all’ordine del giorno? O no?! Boh.....
P. S. IN CAMMINO VERSO IL LINGUAGGIO.
FILOSOFIA, PSICOANALISI, E RELATIVITÀ. Riprendere il filo dal “quattro” di Italo Testa, ripartendo dalla lettera di Freud a Fliess del “quattro” gennaio del 1898, con il richiamo al programma di Kant, vuol essere un’indicazione di lavoro di “filosofia a venire” (J.-L. Nancy), al di là dei “Quattro” di Heidegger (cfr. “In cammino verso il Linguaggio”: il commento a “Una sera d’inverno” di Georg Trakl), accogliendo il contributo di Elvio Fachinelli, una sollecitazione a ri-pensare il “nexologico” rapporto tra soggetto-oggetto, tra realtà-realtà (esterna) e realtà psichica, e venir fuori con Freud dall’orizzonte dialettico hegeliano e lacaniano!
Qualche giorno fa, sul filo di una ri-segnalazione di un libro dello psicoanalista Christopher Bollas, (“Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia”, 2016), non a caso, parlavo di una OTTIMA SEGNALAZIONE che sollecita non solo a leggere e rileggere le opere del brillantissimo Christofer Bollas, ma anche a ricordare uno dei primi psicoanalisti, appunto Fachinelli, che ha messo a fuoco il nodo della “coppia freudiana” (cf. Pietro Barbetta, ”Prenderli al volo prima che precipitino”) e su cui (a mio parere) ancora c’è da riflettere (FACHINELLI E FREUD NELLA NAVE DI GALILEI: LA CONVERSAZIONE CONOSCITIVA...). O no?!
P. S. 2 - ALLE ORIGINI DELLA PSICOANALISI. Non c’è che dire: ripartire da "quattro"!
PSICHIATRIA, ARCHEOLOGIA DELLE SCIENZEUMANE, E CREATIVITÀ! Prima di scrivere RELATIVITÀ, nella nota precedente, avevo scritto ARCHEOLOGIA ma, volendo e dovendo dare giusto rilievo alla portata rivoluzionaria del "primo principio della dinamica" e ricordare la relatività di Galilei, ho sostituito l’uno con l’altro. Ora, un ricordo-commento ’veloce’ di un’amica ha favorito la sovrapposizione del titolo dell’opera di Michel Foucault ("Le parole e le cose. Archeologia delle scienze umane") per dire del titolo dell’opera di John L. Austin ("Come fare cose con le parole") e ha "riportato" il "racconto" al punto da dove il filo è partito: il legame tra il "quattro", il progetto di Italo Testa, la rivista elettronica "Le parole e le cose", ove il testo è apparso, e il quattro gennaio 1898, il giorno dell’invio della lettera di Sigmund Freud a Wilhelm Fliess: all’origine stessa della psicoanalisi. Che dire? Due passi avanti e uno indietro, per saltare meglio... “quattro”!
Dante e la relazione con l’altro
di Francesco Roat ("Leggere:Tutti", 6 Maggio 2021)
Nei primi mesi di quest’anno all’insegna delle celebrazioni dantesche, già molti libri sono stati pubblicati sul poeta italiano per antonomasia. Uno fra i più interessanti m’è parso lo scorrevole ma al contempo puntuale saggio di Filippo La Porta su Dante e la relazione con l’altro - come recita il sottotitolo del testo ‒, non solo per l’originalità tematica ma innanzitutto per via della sua intelligente proposta d’approccio a un classico da non attualizzare forzosamente o (peggio ancora, come spesso purtroppo accade) da trasformare in monumento museale/ideale intorno a cui intessere retorici peana. Sono inoltre d’accordo con il nostro noto critico letterario sul fatto che Dante sia prezioso per noi giusto in quanto distante e quindi, almeno in parte, inafferrabile.
L’accento/intento del libro è rivolto dunque al tema del rapporto con il prossimo nella Divina Commedia; rapporto che suggerisce una: “etica del rispetto dell’integrità dell’altro”, la quale percorre tutta l’opera dantesca, con i giusti distinguo del caso, in quanto La Porta è ben consapevole di come l’Alighieri sia talvolta preso da improvvisi eccessi collerici nei confronti di certi dannati all’inferno: scompostezze che però non inficiano l’atteggiamento compassionevole di fondo del poeta, rivelandone semmai il tratto umano, troppo umano. Certo, vi sono contraddizioni irrisolte in Dante ‒ ad esempio quelle: “tra etica e politica, tra carità e giustizia, tra il farsi pusilli di Francesco e la missione imperiale di Arrigo VII di cacciare gli empi, tra intervento sulla realtà e accettazione della realtà” ‒ ma la sua pietas e il suo sincero amore cristiano per l’umanità dolente restano innegabili.
Condivido altresì con La Porta l’idea che sia possibile cogliere nella Commedia “un paradigma conoscitivo diverso”, per cui (specie nella terza Cantica) la conoscenza dell’altro da sé non si configuri quale esplorazione/gestione invasiva, bensì come accoglienza, apertura e attesa. In questo senso, emblematica appare la contrapposizione fra il vagabondo e trasgressivo Ulisse che vaga per il mondo assetato di sempre nuove esperienze/competenze e l’umile pellegrino Dante che, pur restando immobile, è in grado di attraversare inferno, purgatorio e paradiso grazie alla sua altissima maestria poetico-intuitiva, e grazie alla sua disponibilità ad incontrare la verità dell’altro, dell’oltre o dell’altrove.
Ancora, per meglio focalizzare “l’idea di relazione che sta a cuore a Dante”, La Porta convoca una serie di Beatrici novecentesche: figure femminili ausiliatrici rievocate qui affinché ognuna di loro possa divenire una sorta di guida al lettore che intenda percorrere un pellegrinaggio alla ricerca non già di Dio ma dell’umano e della sua verità, senza alcuna pretesa esaustiva; nella consapevolezza cioè di non poterla mai possedere del tutto. Parlo di figure quali Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano e Hannah Arendt: pensatrici capaci di ispirare un modello di conoscenza non più fondato sul dominio e sulla supponenza autoritaria d’una razionalità illusa di giungere ad una signoria teoretica sul mondo. Conoscere altrimenti, allora, significa in primo luogo disponibilità recettiva, empatia, ascolto mai pregiudiziale, permeabilità e persino vulnerabilità.
Si tratta appunto di prestare attenzione. D’una attenzione non-giudicante e disponibile all’accoglienza dell’alterità. D’uno sguardo disponibile ad avvertire quasi misticamente la meraviglia che accende il cuore d’entusiastico stupore nei confronti dell’universo, della vita e di ogni presenza: animata o inanimata che sia.
Allora la cosiddetta realtà può davvero mostrare aspetti inediti, può rivelarsi ricca di senso. Ma, dice bene La Porta: “Per scoprirla occorre mettersi in disparte, lasciare il proprio pensiero permeabile all’oggetto: conoscere non consiste in un’attività ma in una passività che accoglie”.
Accettazione non significa però approvazione o giustificazione. È giusto e necessario aprirsi all’altro, come è altrettanto doveroso prendere le distanze dal suo comportamento/pensiero quando non lo si approvi.
Mi sembra sia quello che cerca di fare Dante nelle prime due Cantiche. Egli non giudica i peccatori, anzi in genere cerca di capirli. All’interno della sua concezione religiosa medioevale essi sono già stati giudicati da un’Istanza superiore; non tocca perciò all’uomo farlo. I personaggi che egli incontra non possono più essere aiutati, ma compresi. E forse, come sostiene l’autore di questo saggio, l’imperativo morale più alto non è tanto aiutare il nostro prossimo quanto lasciarlo libero di essere quale egli è. Ed in quest’etica del rispetto altrui sta senz’altro la grande lezione sempre attuale che ognuno può ricavare ‒ oggi come ieri e, si spera, anche domani ‒ dai versi sempre così appassionatamente umani di Dante.
UN SASSO NELLO STOMACO DELLA PSICANALISI: IL “CASO” DELLO “PSICANALISTA «COL MAGNETOFONO»”!
«Disse Freud: “Tre sono i mestieri impossibili: governare, educare, psicoanalizzare”. Tutte e tre sono attività che hanno a che fare con l’inconscio. E proprio per questo non possono essere attività scientifiche. Ciò non toglie che il politico, l’educatore e lo psicoanalista debbano conoscere le scienze che li riguardano, debbano ispirarsi a esse, ma non sono essi stessi scienziati. Queste pratiche di cura sono aperte a tutte le alee della contingenza: ogni società e ogni epoca è diversa dall’altra, ogni educando è diverso dall’altro, ogni analizzante è diverso dall’altro. Guai generalizzare! La scienza generalizza, le pratiche di cura particolarizzano.» (Sergio Benvenuto, “Ti metti alla pari con Lacan! Patafisica psicoanalitica”, Le parole e le cose, 26 aprile 2021).
ACCOLTA QUESTA PREMESSA che ci colloca in un orizzonte-paradigma che presuppone e accetta la distinzione tra “le scienze” e “le pratiche”, per uscire da “un certo dogmatismo in psicoanalisi” (come dal “dogmatismo settario marxista”), forse, è proprio opportuno, per cercare di portarci “sulla spiaggia” e ristabilire il contatto con il mare aperto, ricordare il “caso” dello “psicoanalista «col magnetofono»”, Elvio Fachinelli!
UNA CURIOSA IMMOBILITA’. Nel 1977, Fachinelli pubblica il testo di uno straodinario caso, quello di “J.-J. Abrahams. L’UOMO COL MAGNETOFONO dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista, con note di J.-P. Sartre, J.-B. Pontalis, B. Pingaud e E. Fachinelli” (edizioni L’ERBA VOGLIO). Nel suo intervento, dal titolo “La parola contaminata”, egli scrive: “Leggendo i commenti preposti (nell’edizione originale di «Les Temps Modernes», 1969), al testo di Abrahams, si ha ora il seno di una curiosa immobilità. Sartre pone una domanda, parziale se si vuole, ma pungente: quella della violenza (o del potere) che sta dentro la relazione psicanalitica; Pontalis e Pingaud rispondono in modo generale e come di lato: scacco della reciprocità, testimoniato nell’opera stessa di Sartre (Pontalis); reciprocità come esito finale, come conquista (Pingaud). Le spade si sono incrociate, senza dubbio, ma i duellanti non sono andati oltre la prima mossa. E il testo di Abrahams risulterebbe così un exploit solitario, fermo come un sasso nello stomaco della psicanalisi - che ne ha digeriti ben altri. Senonché alcuni mesi fa è uscita una raccolta di vari scritti di Abrahams (L’homme au magnétophone, Le Sagittaire, Paris, 1976) che a mio parere riapre il problema e permette, forse, di far muovere quel sasso [...]”.
FAR MUOVERE QUEL SASSO! Nel 1979, Fachinelli pubblica “La Freccia Ferma. Tre tentativi di annullare il tempo” (edizioni L’ERBA VOGLIO), nel 1983 “CLAUSTROFILIA. Saggio sull’orologio telepatico in psicanalisi” (Adelphi), e, nel 1985, un breve testo “Sulla spiaggia” ( “Lettera Internazionale”, 2, n. 6, autunno 1985).
Con evidenti “segnali” di grande audacia teorica., Fachinelli si mette in gioco, coraggiosamente, e si porta “al di là del bene e del male” - al di là del femminile e del maschile e al di là della debolezza e della forza: depone le armi dialettiche della “intelligenza astuta” hegelo-lacaniane e osa aprire la porta a un nuovo orizzonte-paradigma, a una nuova antropologia e a una nuova psicoanalisi.
Nel febbraio del 1989, stampa “La mente estatica”: “La metamorfosi dei sensi, non un loro oltrepassamento, è anche - scrive Fachinelli - al centro del trasumanar dantesco”. Che dire? Non è ora di uscire dall’inferno, e dal presente lockdown?!
DOC.: L’ARTISTA «COL VIDEO-REGISTRATORE»(2021)!
Primo Maggio
Fedez e il video della telefonata con la Rai: «Sul palco devo essere libero di dire quello che voglio, non lo stabilite voi»
Fedez dopo il discorso del Primo maggio pubblica il video della telefonata con la Rai: «La vicedirettrice di Rai 3 Ilaria Capitani mi esorta ad “adeguarmi a un sistema”»
di Greta Sclaunich *
Fedez accusa i vertici di Rai3 di avergli chiesto di omettere nomi e partiti dal suo intervento sul palco del Concertone, la Rai controbatte smentendo pressioni e censure preventive. Ma il cantante non ci sta e, subito il suo discorso sul palco del concerto del Primo Maggio, ribatte su Twitter: «La Rai smentisce la censura. Ecco la telefonata intercorsa ieri sera dove la vice direttrice di Rai 3 Ilaria Capitani insieme ai suoi collaboratori mi esortano ad “adeguarmi ad un SISTEMA” dicendo che sul palco non posso fare nomi e cognomi».
Pubblicando il video della telefonata, nel quale si sente la discussione molto accesa con i dirigenti di Rai3 [...] *
*Corriere della Sera (ripresa parziale).
VITA, FILOSOFIA, E PSICOANALISI. ELVIO FACHINELLI (1928-1989):
LA FRECCIA FERMA [1979], CLAUSTROFILIA [1979] ... E LOCKDOWN, OGGI [2021]
PREMESSO E CONSIDERATO CHE "In Italia la vicenda di Abrahams e il suo gesto di rottura arrivano nel 1977 grazie alla casa editrice di Elvio Fachinelli, L’erba voglio. La vicenda riverbera fino ai nostri giorni e il dialogo psicoanalitico viene ripubblicato, a cura di Giacomo Conserva, Pietro Barbetta e Enrico Valtellina, per Ombre corte. 1967-1977-2017: l’uomo col magnetofono non c’è più, ma la sua registrazione testimonia ancora di qualcosa che, nell’era della tecnica, forse non ha più così risonanza: i rapporti di potere all’interno dei setting di psicoterapia" (Gianluca D’Amico, "Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono", Psicologia Fenomenologica, 21.04.2021), è da DIRE (a mio parere, ovviamente) che la situazione del "lavoro psicoanalitico" OGGI è ancora (purtroppo) come (e peggio di) IERI: "Leggendo i commenti [...]" al testo di Abrhamms, scrive Fachinelli (nel 1977) - "si ha ora il senso di una curiosa immobilità". Niente è cambiato! E tutto è fermo: una questione al di là del bene e del male, al di là della debolezza e della forza e al di là del femminile e del maschile (sul tema, cfr. La lezione di Dante - e Nietzsche, oggi)!
Giusto: "Che la vicenda di Abrahams instilli in noi tecnici della salute mentale il dubbio. Il dubbio sul nostro sapere; il dubbio sull’uso che ne facciamo di questo sapere di fronte alla persona che incontriamo e che ci chiede aiuto. Il delicato e strano equilibrio di cui parlavamo prima è un equilibrio che dovrebbe farci oscillare e renderci consapevoli di questo esercizio di oscillazione: a tratti posso pendere dalla parte della tecnica, del come si fa; a tratti mi sarà necessario pendere dalla parte della soggettività che eccede la tecnica e, quindi, chiedermi non tanto come si fa a guarire questo disturbo ma chi è questo persona che ho di fronte e chi sono io per lei: appunto, l’enigma dell’intersoggettività.
Niente di magico e spirituale, anzi. Si tratta, per l’appunto, di un esercizio: fare pratica di pensiero debole direbbe il filosofo Pier Aldo Rovatti. Prendere distanza dalla tecnica, immergersi nella dimensione profondamente interpersonale dell’esperienza per costruire e ricostruire costantemente questa fragile sensazione di reciprocità con l’Altro" (G. D’Amico, cit.)!
Ma per fare questo passo, al di là della vecchia antropologia, occorre portarsi "Sulla spiaggia" (1985), deporre le armi dialettiche della "intelligenza astuta" hegelo-lacaniana, e "mettersi in gioco, coraggiosamente", come ha sollecitato a fare e ha fatto Fachinelli ("La Mente estatica", 1989).
Federico La Sala
SULLA SPIAGGIA. DINANZI AL MARE: MEMORIA , STORIA, E RICERCA ANTROPOLOGICA E FILOSOFICA...
PER RIPRENDERE E PROSEGUIRE, SE SI VUOLE, IL LAVORO E LA RIFLESSSIONE DI ELVIO FACHINELLI ("LA MENTE ESTATICA", FEBBRAIO 1989) E DI FRANCO CASSANO ("APPROSSIMAZIONE", APRILE 1989), CREDO, SIA OPPORTUNO PARTIRE DALLE LORO OPERE: RISPETTIVAMENTE, dal libro "La mente estatica" di Fachinelli (pubblicato da Adelphi nel febbraio del 1989) e, insieme, dal libro "Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro" di Cassano (pubblicato dalla casa editrice "Il Mulino" nell’aprile del 1989) e, alla luce dei loro particolari programmi di ricerca volti a pensare e a superare "la frontiera", ricordare che la Caduta del Muro di Berlino avviene - senza violenza - nei primi giorni del mese di novembre del 1989.
"DEPORRE L’ELMO". Nel saggio dedicato all’analisi del lavoro di Fachinelli (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1568), contro i vari tentativi di neutralizzare la sua proposta ("Né demonizzare, né omologare"), così annotai :
A distanza di trenta e più anni, non sembrano esserci altre vie, se non quella di deporre l’elmo e uscire dall’orizzonte della dialettica hegeliana, e praticare "esercizi di esperienza dell’altro". O no?!
CON #KANT E #FREUD. Un "vecchio" omaggio alla #ricerca e al #coraggio di #ElvioFachinelli e di #FrancoCassano. Sulla #spiaggia. Di fronte al #mare (nota 26, qui: http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1568): con "#Approssimazione. Esercizi di #esperienza dell’#altro":
Grottesco fachinelliano
di Dario Borso (Sinistra in rete, 14 agosto 2020).
Appena laureatosi in Medicina a Pavia, Elvio Fachinelli si trasferì nel 1953 a Milano, dove lavorò per qualche anno come microbiologo in una grossa industria farmaceutica. Di sera, frequentava una compagnia così descritta quasi mezzo secolo dopo dal poeta Elio Pagliarani, allora giornalista del quotidiano socialista “L’Avanti!”:
In un dibattito riportato su “Il Tempo” del 19 dicembre 1976, Fachinelli aveva ironicamente specificato le dinamiche del gruppetto, dichiarando che nel 1955
E un appunto sparso datato 20 dicembre 1954 (il primo in assoluto conservatoci) fotografa la posizione di Fachinelli stesso, ironica e disincantata:
II. Entriamo nella seconda metà degli anni Cinquanta: nel mondo, crisi del modello sovietico dopo la morte di Stalin e rivolta d’Ungheria; in Italia, inizio del boom economico con Milano apripista. E nel nostro gruppetto di area socialista, due ali che si divaricheranno col tempo sempre più, per forma mentis ancor prima che per idee politiche: Fortini e Amodio da un lato, Pagliarani e Majorino dall’altro4.
Coetanei questi ultimi di Fachinelli, poeti d’avanguardia entrambi con interessi sociali preminenti: Majorino esordì nel 1959 per l’editore Arturo Schwarz con La capitale del Nord, un poemetto sulla Milano industriale5; Pagliarani si affermò nel 1960 su “Il Menabò” di Vittorini con La ragazza Carla, poemetto che ha a protagonista una dattilografa milanese.
Pagliarani aveva iniziato a comporlo nel 1954, e l’idea primigenia era stata di farne un soggetto cinematografico da presentare a Zavattini e De Sica6.
In quello stesso anno Fachinelli iniziò come inviato speciale al Festival di Venezia una collaborazione a “Cinema nuovo”, rivista di area marxista che si batteva per un rinnovamento critico del neorealismo; e sempre nel 1954 pubblicò sotto pseudonimo in vari settimanali racconti brevi di vita moderna che sono interpretabili a tutti gli effetti come soggetti cinematografici.
Interessante infine, sempre a proposito di Pagliarani, l’esergo dubitativo che l’autore pose alla riedizione mondadoriana del 1962 de La ragazza Carla e altre poesie:
L’amico è Fachinelli, e l’aneddoto è perfettamente in linea con quelli riportati qui in Grottesche, come il lettore avrà modo di constatare.
III. In effetti il 1962 fu un anno decisivo per Fachinelli: neospecializzato in neuropsichiatria, inizia a lavorare sotto la direzione di Gaddo Treves alla casa di cura “Villa Turro”. Enzo Morpurgo, psichiatra e psicanalista amico di entrambi, così descrive quel particolare rapporto lavorativo:
Quando Gaddo morì, troppo presto, di malattia cardiaca, Elvio gli dedicò un necrologio che cominciava con le parole: “A Gaddo Treves, mio ironico maestro”. Certamente l’ironia apparteneva più a Elvio, che era di temperamento controllato e distaccato, come si conviene a chi è ironico, che non a Gaddo che era passionale anche nella sua vis comica.7
Ad accomunare i due fu pure la passione per il cinema, che spinse il più anziano a partecipare come esperto in materia al telequiz “Lascia o raddoppia?” oltreché a recitare, diretto da De Sica, nel film del 1961 Il giudizio universale8.
Sempre nel 1962 Fachinelli inizia un’analisi didattica con lo psicanalista Cesare Musatti e in contemporanea traduce con la moglie Herma Trettl L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud9.
Aprendosi al campo psicanalitico, avrà certo incrociato o ripreso Psicopatologia della vita quotidiana e Il motto di spirito, due classici freudiani strettamente imparentati anche dal punto di vista formale, in quanto sono gli unici a presentare una serie nutrita di aneddoti gustosi - che in fondo è la struttura di Grottesche.
E un altro spunto può averlo fornito il Diario fenomenologico di Enzo Paci, uscito per Il Saggiatore verso la fine del 1961: ugualmente alieno da connotazioni strettamente private, rispetto al diario di Paci quello di Fachinelli, da cui provengono le Grottesche, si sarebbe tentati di chiamarlo un diario psicosociologico, nel cui primo quaderno a risaltare è il valore emblematico che singoli aneddoti assumono riguardo al passaggio epocale da una realtà agricola a una industriale - una fenomenologia del miracolo economico insomma, con un’attenzione particolare per le tensioni paradossali che esso immette nei costumi degli italiani10.
IV. Sta di fatto che a metà 1963 Fachinelli inizia a redigere il suo diario a spron battuto, tant’è che a fine 1964 ha già collezionato circa duecento annotazioni.
Come vedrà il lettore dalle mie note al testo, le annotazioni hanno tutte una rispondenza reale, si riferiscono cioè a fatti realmente accaduti.
Da ciò la ricerca di uno stile piano, zavattiniano potremmo dire, che si avvale di metariferimenti al margine sporadici ma precisi: Baudelaire (“Trouver la frénésie journalière”)11; Jules Renard (“La creazione vera, cioè povera”)12; Montaigne (“Je n’ay pas plus faict mon livre que mon livre m’a faict, livre consubstantiel à son autheur, d’une occupation propre, membre de ma vie”)13.
E decisivo comunque, come messa a punto stilistica, è un appunto sparso del 18 marzo 1964:
V. Il diario rallenta nel decennio 1965-74, ma non si arresta e anzi guadagna in qualità. Complice l’affinamento dell’approccio psicanalitico, la scelta dei fatti si orienta sul loro carattere paradossale, e ciò ha effetto sullo stile, che volge più decisamente all’aforisma, con una sensibilità particolare per la pointe.
Anche qui traspaiono abbastanza nette due sollecitazioni “estreme”, proprie cioè di territori estranei alla letteratura canonica: da una parte la frequentazione di raccolte kōan della tradizione zen, da cui Fachinelli trascrive lietamente sorpreso14; dall’altra la fonte inesauribile dell’infanzia.
Come noto, all’inizio degli anni Settanta Fachinelli fu tra gli animatori di un asilo nido autogestito, ma anche dopo fu sempre ricettivo agli echi che venivano dalla scuola primaria, come dimostra appunto una raccolta di temini delle elementari che comparve sul numero di marzo-aprile 1975 de “L’erba voglio” con titolo redazionale L’occhio storto - storto appunto, capace cioè di scoperchiare la realtà da un’angolatura eretica, come questi due “pensierini” di Lucia e Bernardo che riporto perché del tutto assonanti con gli aforismi di Grottesche:
Per tutti gli anni Ottanta infine prende corpo nel diario una vena epigrammatica spesso e volentieri caustica, che prende a bersaglio la figura dell’intellettuale in tempo di riflusso.
VI. Verso la fine del 1985 Fachinelli riprende in mano i quaderni del diario e inizia a trascrivere gli aforismi più significativi lì contenuti in un nuovo quaderno recante a titolo Grottesche. La scelta del titolo, a metà tra il letterale sostantivato delle decorazioni antico-romane e il metaforico aggettivato del genere letterario ottocentesco16, si capisce da sé; ma è interessante notare come nel corpus freudiano la categoria di grottesco, pur così imparentata con l’altra fondamentale di unheimlich, sia del tutto assente17.
Assai lunga, in ambito critico, la sfilza di sinonimi o limitrofi per circostanziarlo: il comico, il paradossale, il parodico, il caricaturale, il bizzarro, il macabro... o, a tentare una dinamica: quando il comico diviene inquietante, e il paradossale assurdo...
Ma vale forse restare all’instar omnium ovvero al dato bruto, riprendendo l’esempio segnalato da Pagliarani nel suo esergo: cosa rende grottesca la giovane impiegata? Prendere un sonnifero che la inchioda in catalessi al letto da sabato sera a lunedì mattina, ossia che annulla il tempo libero, di svago, del piacere. Grottesca è l’assenza totale del Lustprinzip, grottesco il dominio assoluto del principio di realtà, che riduce la ragazza a un automa. Il grottesco insomma è iperrealismo puro, realizzato (iperrealizzato, verrebbe da dire, se non rasentassimo così anche noi il grottesco), un raddoppiamento della realtà che è poi un altro modo per definire la ripetizione col suo Zwang.
Jean Paul, il primo e forse massimo teorico-pratico del grottesco, dette una definizione icastica del tema: “Antropoliti: uomini impietriti”18.
Ma per tornare a Fachinelli: che in questo senso andasse anch’egli, lo possiamo desumere dal fatto che la categoria di grottesco gli si presenta a metà anni Ottanta in contemporanea con l’altra di estatico19.
E pure questa seconda categoria fuoriesce dal dizionario freudiano, in direzione opposta al grottesco, quasi a formare due condizioni-limite dell’umano: da una parte l’iperrealtà orrida della pietra, dall’altra l’irrealtà sublime della brezza marina20.
ROVELLI - i quanti, l’epistemologia e l’interdisciplinarietà
di Giorgio Mattana *
“E pensare che oggi qualcuno vede scienze naturali, scienze umane e letteratura come ambiti impermeabili l’uno all’altro ...” (p. 127). Helgoland è un appassionante libretto in cui il fisico Carlo Rovelli espone con leggerezza, adottando la forma del racconto scientifico-filosofico, la sua interpretazione “relazionale” della meccanica quantistica, nonché la visione del mondo a suo avviso più coerente con essa. Nel 1925 il giovane Werner Heisenberg, sulla sperduta isoletta del Mare del Nord Helgoland, detta anche Isola Sacra, in una sorta di ritiro spirituale, concepisce la teoria dei quanti. A definirne il formalismo matematico contribuiranno altri giovani scienziati: Pascual Jordan, Paul Dirac e Wolfgang Pauli. Max Born, quarantenne, è il più anziano del gruppo. Alcuni la chiamano “la fisica dei ragazzi”, ma è una svolta epocale. Si uniranno poi all’impresa Ervin Schrödinger, Louis de Broglie e altri. Padri spirituali ne sono a vario titolo Max Planck, con la sua fondamentale costante, Niels Bohr con il suo modello dell’atomo, e Albert Einstein, che peraltro non ne accetta le implicazioni indeterministiche, con l’idea dei “quanti” di energia.
La teoria dà conto in modo mirabile di una serie di sconcertanti risultati sperimentali che tormentavano i fisici del primo Novecento, ma scuote al tempo stesso dalle fondamenta l’immagine scientifica del mondo. Ancora più della relatività generale di Einstein, che modificava radicalmente la concezione dello spazio e del tempo della meccanica newtoniana e del senso comune, rendendoli dipendenti da masse e movimenti e fra loro inscindibilmente interconnessi.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg, che stabilisce l’impossibilità di accertare contemporaneamente la posizione e la velocità di un elettrone, variabili che nel mondo macroscopico permettono di calcolare la traiettoria di ogni corpo in movimento, sfidava le basi della fisica classica, nella quale Rovelli sembra a tratti includere la stessa relatività, al fine di sottolineare la sconvolgente novità dell’immagine della natura riflessa dalla meccanica quantistica.
La peculiarità del testo non risiede tuttavia nella brillante esposizione dei caposaldi della teoria, già oggetto di numerose trattazioni divulgative incluse quelle dello stesso Rovelli, ma nell’illustrazione della sua interpretazione “relazionale” e delle sue più significative ricadute filosofiche e interdisciplinari. Il principio di indeterminazione, la misteriosa costante di Planck, l’effetto fotoelettrico, la sovrapposizione quantistica illustrata dall’apologo di Schrödinger del gatto sveglio/addormentato, che Rovelli sostituisce a quello vivo/morto, lo sconcertante fenomeno dell’entanglement, per cui due particelle venute a contatto nel passato mantengono una sorta di legame reciproco anche a migliaia di chilometri di distanza, ci fanno gettare lo sguardo su un abisso dove la realtà ordinariamente intesa scompare. Il mondo della fisica classica, erede del meccanicismo settecentesco, fatto di materia e movimento, viene soppiantato da un mondo di relazioni e di eventi che prende forma dalle fondamentali intuizioni di Heinsenberg sulla fisica degli “osservabili”.
Perché cercare di capire cosa fa l’elettrone, e con esso tutte le altre particelle della fisica subatomica, quando non lo osserviamo? E se l’elettrone non seguisse alcuna orbita? E se prendesse forma, assumesse questa o quella caratteristica, per esempio emettere luce, solo nell’interazione con noi? Quello che si profila è un radicale mutamento di paradigma scientifico-filosofico, una nuova visione della natura basata sulla considerazione che l’interazione fra osservatore e osservato codificata da Heisenberg è la regola, non l’eccezione.
Nulla esiste in assoluto, tutto è in relazione a qualcosa, proprio come l’elettrone esiste nella relazione con noi e assume interagendo con i nostri strumenti di misura posizione, velocità o energia. Non esiste un elettrone “in sé”, con una sua orbita definita che non riusciamo a cogliere per l’imperfezione del nostro sistema osservativo. Non esiste una natura popolata di oggetti con proprietà assolute, nulla esiste in “sdegnoso” isolamento: tutto è in relazione ad altro, tutto interagisce con altro, tutto è in relazione con tutto. Il sasso è in relazione con il suolo a cui si “manifesta” con il suo peso, la velocità è sempre in relazione al sistema di riferimento, l’alto e il basso esistono solo in relazione alla superficie terrestre. È un’ontologia di relazioni, di cui gli oggetti rappresentano i “nodi”, di sistemi fisici che si rispecchiano gli uni negli altri. E tali relazioni non poggiano su nulla di solido, come stabiliva la fisica della materia e del movimento, delle qualità primarie oggettive in sé esistenti e di quelle secondarie. La grammatica del mondo scoperta dalla fisica quantistica non è costituita da semplice materia e movimento. “La relazionalità che permea il mondo scende fino a questa grammatica elementare. Non possiamo descrivere nessuna entità elementare se non nel contesto di ciò con cui è in interazione” (148).
Dietro la fisica degli “osservabili” di Heisenberg c’è Ernst Mach, profondamente influenzato dalla lezione humeana, che ha proposto l’empiriocriticismo come la cornice concettuale più adatta a inquadrare l’impresa conoscitiva umana, successivamente adottata dai neopositivisti del Circolo di Vienna. Dell’epistemologia machiana, anche detta fenomenismo, Rovelli sottolinea lo spirito antimetafisico, la scrupolosa aderenza ai dati dell’esperienza e lo smascheramento degli errori e dei paradossi connessi al bisogno di oltrepassarli postulando un mondo di oggetti, cose o enti sussistenti in modo assoluto e dotati di proprietà definite una volta per tutte. Contro Mach si era scagliato Lenin in nome del materialismo attaccandone il portavoce russo Bogdanov, ma dalla disamina di Rovelli è il materialismo che esce sconfitto, in quanto rappresentante della vecchia metafisica, non diversamente dalle idee platoniche e dallo spirito assoluto di Hegel.
L’empiriocriticismo machiano si presta invece ottimamente a fare da sfondo a quel mutamento di paradigma (Kuhn) o a quella rottura epistemologica (Bachelard) che ci propone la meccanica quantistica. La teoria più strana, controintuitiva e sconvolgente che sia mai stata concepita, ma anche la più riccamente confermata: “non ha mai sbagliato”. Non si dimentichi che a non essere prevedibile è il comportamento della singola particella, che le sue leggi sono probabilistiche e che in quanto tali sono state sempre confermate, per non dire delle loro innumerevoli applicazioni tecnologiche. Da essa Rovelli deriva una visione più “leggera” della natura, come trama di relazioni e gioco di specchi, priva di un fondamento assoluto e di un punto di vista privilegiato, così nuova da chiamare in causa un pensiero ancora più radicale e “altro” di quello machiano. La dottrina di Nāgārjuna, pensatore indiano del secondo secolo, asserisce esplicitamente “che non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro” (p. 150). L’assenza di esistenza indipendente è “vacuità”: “le cose sono vuote nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro” (p. 151). “La lunga ricerca della ‘sostanza ultima’ della fisica, passata attraverso materia, molecole, atomi, campi, particelle elementari ... è naufragata nella complessità relazionale della teoria quantistica dei campi e della relatività generale” (p. 153).
Le ricadute interdisciplinari dell’interpretazione della realtà proposta da Rovelli sono facilmente intuibili, sia a livello generale sia per quanto riguarda la psicoanalisi, dove non può non trarne alimento la concezione relazionale della mente affermatasi negli ultimi decenni. L’evoluzione della teoria da un modello strettamente unipersonale verso modelli sempre più caratterizzati in senso relazionale, dalla concezione kleiniana delle relazioni oggettuali, alla visione winnicottiana della relazione madre-bambino, al modello bioniano della rêverie e della relazione contenitore-contenuto, fino alla teoria del campo e ai modelli intersoggettivisti e relazionali, sembra ormai un fatto acquisito. Come in fisica il mondo degli oggetti si stempera in un più fluido e cangiante mondo dove la lama di un coltello assomiglia alla spumeggiante cresta di un’onda dell’oceano, dove le cose si palesano le une alle altre nell’interazione, proprio come all’osservatore umano, così in psicoanalisi l’osservazione della mente in interazione con un’altra mente ne ha evidenziato le caratteristiche relazionali. E come non ha senso parlare in assoluto delle proprietà di un oggetto, così non ha senso parlare di un soggetto che non sia in relazione con altri soggetti che ne riflettono l’immagine e ne vengono riflessi, in una complessa trama di relazioni di cui rappresentano i nodi.
Si potrebbe addirittura ipotizzare che l’evoluzione relazionale della psicoanalisi sia consistita nell’abbandonare l’implicito isomorfismo con il mondo della fisica classica, popolato di oggetti, cose o enti concepiti come in sé conclusi e privi di relazione ad altro, per approdare a una visione più fluida, molteplice e interattiva della soggettività, sempre legata a una complessa e mutevole rete di relazioni esterne e interne. Ma l’utilità del punto di vista relazionale riguarda anche il rapporto della psicoanalisi con le altre discipline, riecheggiando le più condivisibili acquisizioni postmoderne sul carattere prospettico e contestuale di ogni attività conoscitiva, senza assecondarne le più radicali e discutibili derive scettiche e nichiliste. Si tratta di una visione relativa e complessa della conoscenza, basata sul lutto della verità unica e della spiegazione definitiva, ma compatibile con l’esistenza di specifici criteri di referenzialità e validazione all’interno di ogni disciplina. La congruenza fra metodo e oggetto permette di vedere la psicoanalisi come una disciplina caratterizzata da uno specifico metodo di indagine e da un altrettanto specifico sistema concettuale e linguistico, adeguati alla conoscenza di un determinato oggetto e irriducibili ad altri metodi e sistemi. Su questa base essa può dialogare con le altre discipline nella consapevolezza della relatività delle proprie conoscenze, ma anche della loro irriducibilità a quelle delle altre scienze, alla ricerca di una descrizione sempre più articolata, complessa e verosimilmente mai definitiva del soggetto umano.
*Fonte: Spi-Web, 12 Novembre 2020
Capire il mondo con la fisica quantistica
di Pietro Greco *
Helgoland, il nuovo libro che Carlo Rovelli ha pubblicato con Adelphi (pag. 230, euro 15,00), è forse anche il più ambizioso scritto dal fisico teorico esperto di loop quantum gravity che si divide tra la Francia e il Canada. Pensate: il suo obiettivo è far sì che tutti - ma proprio tutti, fisici e poeti, filosofi e cittadini comuni - discutano dei fondamenti della meccanica quantistica, la teoria fisica più fondamentale, più precisa e, insieme, più bizzarra che loro, i fisici, abbiano mai elaborato.
Il libro parte da un’isola tedesca, Helgoland, appollaiata nella parte meridionale del Mare del Nord: una dimensione geografica che sembra contenere in sé un’ambiguità. In quest’isola nel 1925 un ragazzo tedesco di 23 anni, Werner Heisenberg, inventa la meccanica quantistica. Il che significa che dà, finalmente, una veste formale, matematizzata, alla fisica dei quanti. Che già vanta tre padri fondatori - Max Planck, Albert Einstein e Niels Bohr - e alcuni tratti che sconcertano i fisici.
Era stato Max Planck il primo, nell’anno 1900, a scoprire i quanti. O meglio, il quanto elementare d’azione, che scardinava il concetto di continuo in fisica: l’energia non si trasmette con continuità, ma mediante pacchetti discreti. Per quanti, appunto. La cosa era talmente sconcertante che lui stesso, Max Planck, non ci voleva credere. Pensava di aver scoperto un mero artificio matematico capace di venire a capo di un problema di poco conto e, invece, aveva realizzato una delle scoperte più importante nella storia della fisica e, quindi, del pensiero umano.
Erano poi passati cinque anni quando un altro tedesco, un semplice e giovane impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna, aveva realizzato un’altra scoperta fondamentale: “i quanti di luce”. Oggi li chiamiamo fotoni. Non solo la luce (anche la luce) procede per pacchetti discreti, ma questi pacchetti hanno una duplice natura: di onda e di corpuscolo. E ora manifestano l’una ora manifestano l’altra natura: Il trionfo dell’ambiguità.
Passa ancora qualche anno e il terzo, il danese Niels Bohr, propone che gli elettroni si muovano intorno al nucleo degli atomi seguendo orbite discrete, non una qualsiasi traiettoria. Un ulteriore trionfo della discontinuità in natura accompagnata da un altro fatto sconcertante: gli elettroni possono saltare da un’orbita all’altra istantaneamente, senza che sia possibile seguirne la traiettoria. Semplicemente perché non c’è traiettoria. È come se la Terra potesse muoversi intorno al Sole solo descrivendo la sua attuale traiettoria o quella di Marte o quella di Giove, ma nessun’orbita intermedia. Non solo: è come se la Terra potesse saltare istantaneamente dalla sua orbita a quella di Marte e poi di Giove senza seguire alcun percorso.
Già questi tra mattoni fondamentali della fisica dei quanti creano non pochi problemi a chi crede nella continuità e nella causalità dei fenomeni fisici: ovvero in tutti i fisici del tempo.
Le novità, negli anni della “fisica quantistica antica” non mancano e vanno oltre quelle proposte da Planck, Einstein e Bohr. Emerge, forte, la necessità di mettere ordine, ovvero di formalizzare in termini matematici tutte queste stranezze. È quello che fa Werner Heisenberg nel suo solitario soggiorno a Helgoland nel 1925.
La formalizzazione è ben strana: intanto perché fa uso di una matematica, quella delle matrici, piuttosto particolare. Ma anche perché spazza via il concetto di visualizzabilità in fisica: è inutile che io cerchi di avere un’immagine tangibile dei microscopici oggetti quantistici, io posso parlare solo degli osservabili, delle cose che posso misurare. Quindi è inutile chiedersi dove sia la Terra quantistica mentre “salta” nell’orbita di Marte, che percorso segua e persino quanto tempo impieghi. Quello che posso dire è solo che ho verificato che la Terra prima era nella sua orbita e poi la trovo nell’orbita di Marte.
Inaccettabile, per molti fisici.
Ecco, però, intervenire un altro fisico, l’austriaco Erwin Schrödinger, ed elaborare un’equazione - ancora oggi nota come equazione d’onda di Schrödinger - che descrive un oggetto quantistico come un’onda, appunto. Almeno la visualizzabilità ma in qualche modo anche la continuità sembrano recuperate. Non dura molto, il maestro di Heisenberg, il tedesco Max Born, insieme al suo al suo allievo Pascual Jordan, dimostrano che quella di Schrödinger non è la funzione di un’onda, ma è una funzione di probabilità. Non ci dice dove sta, in ogni istante, la Terra quantistica, ma qual è la probabilità che io la trovi in un certo punto. È come dire che un elettrone posso trovarlo in un certo istante in orbita intorno a un nucleo, in orbita intorno a un altro nucleo, al bar di Alfredo o su un’altra galassia. Tutto quello che posso dire apriori è la probabilità, senza dubbio diversa, che lo trovi in un dato istante intorno al suo nucleo, al nucleo di un atomo vicino, al bar di Alfredo o di un’altra galassia.
Aggiungete a questo che nel 1927 lo stesso Werner Heisenberg elabora il “principio di indeterminazione”: non solo non posso conoscere con precisione la posizione e la velocità con cui si muove quell’elettrone, ma se aumento la precisione con cui misuro la posizione perdo informazione sulla velocità e viceversa. Il che significa, scrive lo stesso Heisenberg, che il determinismo in fisica è finito, non perché io non posso conoscere con precisione assoluta il futuro - come poteva fare l’intelligenza evocata a inizio Ottocento da Pierre Simon de Laplace nel suo “manifesto del determinismo” - ma perché non possono conoscere con precisione assoluta il presente.
Fermiamoci qui. In quei turbinosi anni ’20 del XX secolo. la fisica mette in discussione tra concetti che non sono solo suoi, ma anche della filosofia e persino del senso comune: la continuità dell’azione, la causalità rigorosa, la stessa realtà. Di più: propone l’azione a distanza tra oggetti quantistici correlati. Cosa significa? Mettiamo che io e il mio gemello abbiamo l’obbligo di indossare calzini di colori diversi. Se io indosso calzini bianchi, lui deve indossare calzini rossi. Se io sto sulla Terra e indosso i calzini rossi mentre lui si è spostato dall’altra parte della nostra galassia, il mio gemello potrà ottemperare al suo obbligo solo dopo aver avuto notizia della mia decisione: almeno centomila anni dopo (le notizie possono viaggiare alla velocità della luce). Ma se io sono un oggetto quantistico e “decido” di indossare calzini bianchi, istantaneamente, fosse pure dall’altra parte della galassia, il mio gemello indosserà calzini rossi.
Se vi si confonde la testa non preoccupatevi, succede anche ai fisici. Che si dividono subito in due scuole: quella di Bohr e di moltissimi altri (Heisenberg compreso) che dicono: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole così è e più non dimandare; e quella che fa capo ad Albert Einstein (e a Schrödinger) che dicono, ok la meccanica quantistica funziona, ma ci devono essere delle variabili nascoste che possono rendere più “realista”, mano bizzarra la teoria.
La fortuna della prima interpretazione - detta “di Copenaghen” - è che è fatta propria dalla gran parte di chi occupa una cattedra di ordinario nei dipartimenti di fisica. Ma negli anni ’50 del secolo scorso ecco che prima Louis de Broglie poi, soprattutto, David Bohm mettono a punto una “teoria dalle variabili nascoste” che funzione bene proprio come l’interpretazione cara a “quelli di Copenaghen”.
Chi ha ragione?
Passano non molti anni e l’irlandese John Bell dimostra che la teoria “realista” della meccanica quantistica può funzionare e restituirci almeno l’idea di una realtà oggettiva del mondo che non dipende dalla misura di un fisico, a patto che si accetti l’azione istantanea a distanza, perché le connessioni tra particelle quantistiche esistono, sono stati empiricamente dimostrate, e vengono chiamate entanglement.
Resta il problema micro-macro: perché e quand’è che degli oggetti cessano di comportarsi nel modo quantistico assurdo e si comportano come vediamo comportarsi gli oggetti nella nostra quotidianità?
La fenomenologia macroscopica - rispondono tre italiani, Giancarlo Ghirardi, Alberto Rimini e Tullio Weber - è una proprietà emergente: quando abbiamo un numero congruo di oggetti quantistici, questi interagiscono e statisticamente si comportano come vuole la fisica classica.
Se continuate ad avere il mal di testa non vi preoccupate. La stessa sensazione ce l’hanno anche i più esperti tra i fisici. Anche perché il problema dell’interpretazione dei fenomeni quantistici è molto più complesso di quanto non vi abbiamo detto finora.
È un problema che ha, allo stato, molte proposte di soluzione. Nessuna definitiva.
Tra queste c’è la meccanica quantistica relazionale, “inventata” proprio da Carlo Rovelli nel 1995 e poi ripresa da altri. L’idea di fondo è che non esiste nulla di assoluto in sé, né i corpuscoli né l’energia. Il mondo non è fatto di cose, ma piuttosto di relazioni. Esistono solo le relazioni tra le cose. Come sostiene Rovelli dobbiamo guardare alla realtà come a un’immagine riflessa in specchi che a loro volta si riflettono in altri specchi.
Rovelli fonda la sua interpretazione della meccanica quantistica in questa prospettiva relazionale, che, ripetiamo, è una di quelle attualmente in campo per risolvere quello che Karl Popper chiamava “il gran pasticcio dei quanti”. Non sappiamo se avrà successo, certo è un’utilissima ipotesi di lavoro. Ma, in realtà, non sappiamo neppure se mai verremo a capo di tutti i problemi aperti dalla meccanica quantistica.
Ma quello che Carlo Rovelli ci propone nella seconda parte di Helgoland è qualcosa di più. Propone che tutti noi - fisici, filosofi, artisti, persone non esperte- assumiamo la prospettiva relazionale anche per interpretare il mondo, macroscopico, in cui viviamo. Anche in questo caso, anzi ancor più in questo caso, non sappiamo se quella proposta da Rovelli è la chiave giusta per capire il mondo. Non sappiamo se davvero tutto è solo relazione. E tuttavia il suo ambizioso progetto ci sembra convincente: tutti - fisici, filosofi, artisti, cittadini non esperti - possiamo e dobbiamo discutere dei fondamenti della fisica. Perché per capire il mondo non possiamo prescindere da essa, la meccanica dei quanti.
HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER: VITA E FILOSOFIA. IL PROBLEMA DELLA NASCITA... *
Arendt, sempre al di là del dove, e ora stretta in una striscia
Questioni tedesche/Graphic. Dall’infanzia prussiana, all’università con Strauss, Löwith, Marcuse, Lévinas, alla bohème berlinese, all’esilio parigino, a N.Y. «Le tre fughe di Hannah Arendt» di Krim Krimstein, da Guanda
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, Alias Domenica, 13.10.2019)
Nell’opinione comune, i filosofi sono gente reclusa in studi foderati di libri e priva, in sostanza, di biografia e accessi al mondo. Fu Hannah Arendt, per esempio a citare una frase di Heidegger su Aristotele, secondo cui lo stagirita «visse, lavorò e morì». L’immagine del filosofo come essere estraneo alla vita e alla realtà è stata formata nell’Ottocento da un libretto divertente e maligno di Thomas de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, in cui il gran saggio è mostrato come un vecchio un po’ rimbambito che vaga per le vie di Königsberg e si sbrodola a tavola.
In realtà, un buon numero di pensatori ebbe una vita turbolenta e attiva. Pitagora esaltava le pratiche sportive e Platone, oltre che essere esperto di lotta, tentò a più riprese di influenzare il governo di Siracusa, per essere infine venduto come schiavo dal vendicativo tiranno Dionisio il vecchio, con cui era entrato in conflitto. Quanto a Cartesio, si sa che prima di chiudersi in una capanna a meditare sul cogito era stato soldato nella guerra dei trent’anni. E non parliamo di Leibniz, matematico, diplomatico ed esperto di miniere, o di Voltaire che corrispondeva con i principi di tutta Europa e interveniva pubblicamente contro la tortura e la pena di morte.
La rinuncia alla filosofia
È forse pensando alla leggenda grigia dei filosofi maldestri e appartati che il cartoonist Krim Krimstein ha dedicato una storia a fumetti o graphic novel a Hannah Arendt, la filosofa che meno corrisponde all’immagine del pensiero solitario ed estraneo al mondo. In Le tre fughe di Hannah Arendt. La tirannia della verità (traduzione di Antonella Bisogno, Guanda, pp. 233, e 20,00) Krimstein realizza il singolare tentativo di fondere la biografia di Arendt con il suo pensiero. L’aspetto più interessante in questa vicenda è l’estraneità di Arendt alla filosofia in senso stretto. Come si legge nel prologo («Umano troppo umano. Introduzione a una vita»): «Come mai questa persona, probabilmente la più grande filosofa del ventesimo secolo, ha rinunciato alla filosofia, e, nonostante questo, il suo pensiero rimane per l’umanità una via praticabile per progredire?».
La domanda rimane senza risposta, nel romanzo a fumetti, e non poteva essere diversamente. Dagli anni Ottanta in poi, la critica, in centinaia di libri e saggi, si è sbizzarrita sulla questione, cercando la soluzione nel tormentato romance di Arendt con Heidegger, il filosofo che cedette al nazismo, nell’incapacità della filosofia contemporanea di pensare la politica e, spiegazione che mi sembra la più ragionevole, in una personalità poliedrica, che cercava la spiegazione dei problemi che la assillavano nella filosofia, certamente, ma anche nella teoria politica, nella storia, nella letteratura e nella poesia. Più che rinunciare alla filosofia, come certamente la stessa Arendt ha affermato, si può dire che la nostra filosofa si sentiva stretta nella galleria soffocante di pensatori accademici, che pure aveva frequentato e variamente apprezzato, da Husserl a Jaspers e allo stesso Heidegger.
Krimstein riversa in immagini la storia di questo personaggio eccentrico, sempre al di là di dove si cerca di fissarla: ebrea, ma affascinata dal pensiero cristiano, allieva dei tre massimi pensatori di area tedesca, ma soprattutto affine al cugino acquisito Walter Benjamin, l’irregolare per eccellenza, attratta dalla dimensione della politica, ma impossibile da classificare in uno schieramento (anarchica e per certi versi tradizionalista, aristocratica e profondamente democratica, sionista in gioventù e critica di Israele e così via).
Tutta questa complessità, d’altronde era giù iscritta nella biografia, che la vede intellettuale a Berlino e studentessa di filosofia a Marburg, perseguitata dai nazisti e fuggiasca in Francia, esule negli Stati Uniti, accademica onorata e infine rigettata dagli intellettuali ebrei e ignorata dagli amici per avere scritto in modo non convenzionale e assai penetrante del processo a Eichmann nel 1961.
Pensatrice fuggiasca per definizione, può Arendt essere inquadrata in modo appropriato da un romanzo a fumetti? Come può il suo pensiero paradossale, ovvero la supremazia dell’azione rispetto al pensiero, che appare nelle sue opere fondamentali (Vita activa e La vita della mente), essere tradotto in vignette?
Krimstein sceglie di privilegiare la biografia rispetto alla teoria, come è inevitabile. E così ci scorrono davanti le immagini dell’infanzia in Prussia, dell’università - in cui frequentò compagni destinati a diventare famosi (Leo Strauss, Karl Löwith, Herbert Marcuse, Emmanuel Lévinas), della bohème berlinese, dell’esilio parigino, della vita intellettuale di New York e infine della solitudine che precedette la morte. Ecco allora che, attraverso la vita di questa filosofa per certi versi inafferrabile, un pezzo di Novecento, con le sue tragedie immani e le sue illusioni scorre davanti agli occhi (si spera) di gente giovane, curiosa e insoddisfatta delle categorie e dei pregiudizi dell’opinione corrente.
Tra le lenzuola di Heidegger
Resta, nell’operazione di Krimstein, qualcosa che probabilmente Arendt non avrebbe troppo apprezzato, e cioè il rilievo eccessivo attribuito alla sua vita intima e sentimentale. Se c’è un aspetto sul quale Arendt rompe con quasi tutta la filosofia del Novecento è la sua critica radicale dell’interiorità. In Vita activa, appare quasi un gesto di disprezzo nei confronti di una certa filosofia, che pretende di chiudersi nella contemplazione della vita soggettiva e dell’anima, invece che del mondo. In questo Arendt si distacca radicalmente dalla fenomenologia e dal suo amato Agostino (Noli foras ire! In interiore homine habitat veritas). Forse Krimstein avrebbe dovuto rammentarlo mentre si accingeva a disegnare Arendt e Heidegger che si scambiano effusioni a letto discettando di morte e verità...
Ma non dovremmo fargliene una colpa. A un periodo di critica, giusta o sbagliata, aspra o apologetica, del pensiero di Arendt è seguita una serie di libri che, in nome della verità biografica, si soffermano sulla sua relazione con Heidegger, ai limiti del gossip filosofico. È mettendo da parte questo genere letterario francamente scadente che il discorso su Arendt può ripartire.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LA VITA DELLA MENTE. Conclusioni" (H. ARENDT): AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO"
"NICODEMO O DELLA NASCITA": LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
VITA E FILOSOFIA: METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
IL LATO GROTTESCO DELLA PSICOANALISI
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 08/01/2020)
Nei giorni scorsi ricorreva il trentennale della morte di Elvio Fachinelli, psicoanalista e intellettuale tra i più significativi in Italia negli anni Settanta-Ottanta, avvenuta a Milano il 21 dicembre del 1989. A commemorarne la scomparsa è appena stata pubblicata per i tipi di ITALO SVEVO e alla cura dedita e filologicamente attenta di Dario Borso, rigoroso studioso di Hegel e Kierkegaard, parte dei diari che Fachinelli ha tenuto con regolarità dai primi anni Sessanta sino ai suoi ultimi giorni con il titolo: Grottesche. Notizie, racconti, apparizioni. Si tratta di una serie di aforismi di natura psicosociale che scandagliano un tema centrale di tutta la sua ricerca: la difficoltà dell’essere umano di abitare generativamente la contingenza illimitata dell’esistenza, di stare nell’aperto della vita, di affidarsi alla pulsazione estatica dell’inconscio.
Erede della lezione freudiana, per Fachinelli la psicologia individuale è già da sempre psicologia sociale; lo sguardo dell’analista attraversa obliquamente - secondo un movimento più topologico che topico - le vicissitudini della vita individuale e della vita collettiva. Il suo metodo è laico nel senso anch’esso freudiano del termine: ignora le verità assolute, incontrovertibili; sottopone al vaglio ininterrotto del pensiero critico i suoi oggetti.
Ma cosa indica la categoria del grottesco? Grottesca appare innanzitutto la vita che rinuncia alla sua fondamentale apertura, che si separa dalla trascendenza interna dell’inconscio per chiudersi nell’adattamento conformistico al principio di realtà. Questa vita si difende grottescamente dalla vita stessa. Essa preferisce il chiuso all’aperto, l’adattamento alla creazione, l’irrigidimento del confine alla "brezza marina". È la tendenza della psicoanalisi ortodossa che nella sua istituzionalizzazione ha finito per tradire la sua stessa invenzione, quella dell’inconscio come apertura illimitata, luogo "femminile" di una "gioia eccessiva".
La prima faccia del grottesco risulta dal rigetto fobico di questa apertura e dallo schiacciamento - "iperrealistico" lo definisce Borso nella sua introduzione della vita che si riduce a quella di un automa senza desideri preda di una ripetizione sterile. È la vita del paziente nevrotico ossessivo protagonista della parte iniziale de La freccia ferma per il quale «il tempo è segmentato in una serie di tempuscoli, ognuno dei quali è chiuso e delimitato in sé». Ne abbiamo una descrizione efficace: «solo e sicuro nella sua auto come un mollusco nella sua valva. Si mette le dita nel naso, scorreggia, prega, eccetera». È questo il primo volto del grottesco; la vita che smarrisce la sua trascendenza per compattarsi con l’esistente. Declinazione quotidiana della pulsione securitaria: meglio il chiuso, l’ottundimento identitario, dell’estasi che spalanca pericolosamente la vita verso l’infinito come piega interna e ingovernabile del finito.
Esiste però un secondo volto del grottesco; esso si palesa quando l’Ideale vorrebbe esercitare un dominio assoluto sull’esistenza singolare. Grottesca appare allora la rimozione della vita individuale nel nome del carattere universale dell’Idea. È un punto di chiave di tutto il pensiero di Fachinelli. La psicoanalisi ha elevato l’infimo, il dettaglio, il particolare ad una dignità sconfessata dalla ragione filosofica e politica classica. Viceversa il dominio dell’Idea è una malattia endemica del fanatismo rivoluzionario e del tono fondamentalistico e settaristico della sua predicazione. Fachinelli, intellettuale di sinistra, la squaderna con ironia amara davanti ai nostri occhi: «è paradossale - scrive - il destino di molti rivoluzionari. Lavorano sul serio a una cosa che, per essere fatta, per diventare realmente popolare, implica l’entusiasmo, il senso di avventura, la novità - e sono spietati nell’ucciderla».
Si tratta di un fantasma rigoristico, sacrificale ed eroico insieme: «attesa della palingenesi, mito della purezza e della violenza». La distinzione è severa e rigida; da una parte il bene dall’altra il male, da una parte i puri dall’altra gli impuri. È l’”ossatura paranoica" di ogni ideologia che esclude la laicità del pensiero. È la tentazione di tutti coloro che, identificandosi ad una Causa che annichilisce il particolare, vorrebbero farsi maestri e padroni della Causa stessa. Ma questo inno esaltato dell’Ideale non può evitare il continuo inciampo nel particolare che crede di rimuovere. L’oratore di estrema sinistra che arringa il suo popolo ad agire nel nome dell’Ideale di purezza, osserva Fachinelli, «cade in continui lapsus di date e di nomi»; un noto scrittore di estrema sinistra non riesce a dormire perché pensa continuamente ai soldi; «la sinistra ha sostituito il sorriso con il ghigno».
Il grottesco sarebbe suscitato dal ritorno del rimosso del particolare nelle maglie anonime della predicazione purista dell’universale. Ma tutte le critiche che lo spirito laico di Fachinelli muove al settarismo della sinistra sono le stesse che rivolge alla psicoanalisi ortodossa. La malattia è comune; il senso del grottesco anche. Fantasma di purezza, attitudine paranoica a concepire la differenza come deformità minacciosa, sclerotizzazione del linguaggio in codici morti, lontananza siderale dall’esperienza dell’apertura illimitata della vita: «trionfo dell’esegesi psicoanalitica; malore della psicoanalisi».
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. Un omaggio a Kurt H. Wolff:
UNA METODOLOGIA PER L’ANALISI QUALITATIVA: RESA E CATTURA DI WOLFF (di ROBERTO CIPRIANI)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
Meditare la vita
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 Febbraio 2019)
Nonostante sia “mushotoku” ossia, secondo la definizione Zen, senza scopo né spirito di profitto, si parla spesso della meditazione a partire dai (molti) benefici psicofisici che è in grado di produrre in chi vi si dedica con una certa continuità; tuttavia tale approccio rischia di tradire il senso originario e decisamente più profondo di questa pratica che, come spiega con una prosa ispiratissima e a tratti poetica Chandra Livia Candiani, consiste piuttosto nel fare i conti con se stessi per provare, e non necessariamente imparare, a stare con quel che c’è:
Si tratta di un passo molto denso, sul quale vale la pena di meditare, che prende immediatamente le distanze da un uso strumentale della meditazione che è piuttosto presentata come un vero e proprio stile di vita, una postura grazie alla quale, zittendo il brusio del pensiero e delle sue rendicontazioni, ripristinare una certa intimità con il mondo.
Meditare, come scriveva infatti María Zambrano, “è riconquistare il sentire originario delle cose, del paesaggio, della gente, degli uomini e dei popoli, il sentire della realtà immediata che apre la realtà del mondo” (Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 87).
Non si pensi che questo significhi accedere a una dimensione straordinaria: si tratta piuttosto di apprendere a prestare attenzione a quelli che Chandra chiama “i miracoli del noto, del così già tanto visto che lo si dà per scontato.” Riuscendo a fare “spazio intorno a quei gesti tanto ordinari”, la meditazione “li fa brillare e permette che aprano un varco nell’oscurità in cui si solito viviamo, nel nostro quotidiano sonno. Allora pian piano si ricevono le visite di quella consapevolezza” (p. 19) che si rivela una “forma di amore” (p. 40), una premura e un’attenzione realmente maieutiche perché capaci di facilitare la fioritura di ciò di cui si prendono amorevolmente cura, rivelandosi capaci, prosegue idealmente Zambrano, di chiamarle “non solo a rivelarsi, ma a divenire, a divenire presenti» (M. Zambrano, L’uomo e il divino, Ed. Il lavoro, Roma, 2009, p. 246), a farsi vive, direbbe, altrove, Chandra.
Che vuol dire che questa particolare forma di «intimità» con ciò che accade, in noi e fuori di noi, è «impersonale»? Significa che essa non pone più l’io al centro della propria narrazione ma il Sé, ossia, come spiegava Jung, qualcosa che “anche noi siamo”. L’esperienza che ne consegue non è affatto spersonalizzante, essa chiama anzi in causa l’intero psichismo dell’individuo, ma si dà in virtù di quella che la psicoanalista Marion Milner definiva “una resa creativa” dell’ego, (M. Milner, Una vita tutta per sé, Moretti &Vitali, 2013, pp. 207, 12 euro) grazie alla quale il soggetto smette di girare attorno al proprio ombellico, a parlare sempre di sé, per provare piuttosto a essere davvero presente a sé e a osservarsi. Scrive Chandra:
Una forma di meditazione zen invita a prendere coscienza dei propri pensieri e stati d’animo, a riconoscerli con chiarezza, a etichettarli con una definizione chiara (ad esempio “ansia”) e poi a dirsi, mentalmente, “non io”. Non siamo di fronte ad un invito alla negazione, tutt’altro, bisogna avere piena coscienza degli stati d’animo che ci attraversano, ma occorre imparare a non identificarsi con essi, ad esercitare quello che il buddismo chiama, “non attaccamento”. Questa capacità che “consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto”, spiega Simone Weil, si chiama “attenzione” (Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, 2008, pp. 197) che a sua volta - come Chandra la consapevolezza e Zambrano il sapere filosofico - considera una forma d’amore.
Allo stesso modo, il pensiero non è affatto svilito nelle sue funzioni, al contrario; proprio perché non ha coperto le emozioni, sostituendosi ad esse, può rielaborarle e contribuire a chiarirne il senso, il significato, la portata, dando vita a quello che lo psicoanalista Thomas H. Ogden chiama “pensiero trasformativo”. Siamo di fronte ad un pensiero che segna “il passaggio da una mentalità basata sull’evacuazione dell’esperienza emotiva disturbante, non mentalizzata, a una mentalità in cui si prova a sognare/pensare la propria esperienza e, più avanti, il passaggio dalla conoscenza della realtà della propria esperienza, al divenire la verità della propria esperienza” (Thomas H. Ogden, Vite non vissute. Esperienza in psicoanalisi, Raffaello Cortina editore, 2016, p. 27).
Si capisce qui come quella sospensione del pensiero come atteggiamento giudicante o anche solo intellettualizzante che Chandra scorge al centro della meditazione e che, ancora una volta sotto altre forme, sta anche al cuore dell’analisi (“prego astenersi da giudizi” a vantaggio delle “libere associazioni”), non abbia nulla a che vedere con la condanna del pensiero, ma costituisca piuttosto un metodo per valorizzarlo appieno, imparando innanzitutto a prendere posizione sulle sue prese di posizione, permettendoci di comprendere come, spesso, gli schemi abituali attraverso i quali organizza la nostra esperienza non siano gli unici possibili.
Per questa ragione, lo psicoanalista Christopher Bollas si spinge ad affermare che “la psicoanalisi è una forma speciale di pratica meditativa che permette agli assiomi del sé di emergere” (C. Bollas, La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina Editore, 2013, p. 106). Nonostante si tratti di due percorsi di consapevolezza evidentemente differenti, è possibile scorgere tra loro alcune suggestive analogie che vorrei qui indicare: entrambi invitano a liberarsi dalle idealizzazioni per imparare ad essere se stessi e a stare con quel che (si) è, cosicché ciò che Chandra dice dell’esperienza della meditazione, vale senz’altro anche per quella della psicoanalisi: “non mi chiede di essere esemplare, non mi chiede di essere eroica, non mi chiede di tendere a niente di ideale, non cancella, non acuisce, sta. Con me. [mi permette di] Imparare a stare” (p. 4).
Non solo, dunque, non si tratta di percorsi per uscire dalla condizione che ci preoccupa ma, semmai, per imparare, come direbbe Hegel, “a soggiornarci, a guardarla faccia in ogni suo farsi,” (G. W. F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Bompiani, Torino, 2000, p. 87.) al tempo stesso non per accettarla e rassegnarsi ad essa ma, come spiega bene Chandra, per accoglierla (p.75) e solo dopo averla accolta, poterla rielaborare, sino a cambiarle di segno e di significato.
Certo è possibile che si abbia l’impressione che simili svolte, le stesse che sottolinea Ogden, avvengano all’improvviso, come a seguito di un insight particolarmente fecondo; tuttavia esse sono piuttosto il frutto di una pratica costante che nel tempo ci ha esercitato a stare, ad ascoltare, a comprendere e poi, grazie a questi passi, a concepire e vivere diversamente, ciò che ci faceva problema; non solo a inquadrarlo da un altro punto di vista, ma anche a porci diversamente rispetto ad esso.
Ma non si tratta di scoprire una verità profonda sull’esistenza, che si svela dietro le apparenze che la nascondevano, quanto, piuttosto, di sviluppare la possibilità di sperimentare, concepire e poi restare fedele, a una diversa maniera di vivere, di sentire, di concepire se stessi, il mondo e l’esistenza tutta. Una fedeltà che sarà stimolata da un senso di consonanza con ciò che nell’esercizio di queste pratiche sarà stato percepito come maggiormente autentico e significativo rispetto ai precedenti e abituali schemi di recettività e di elaborazione dei nostri pensieri e delle nostre emozioni.
L’irriducibilità di questo processo a uno schema impersonale - nel senso, questa volta, di valido per tutti, indipendentemente dalle specificità di ciascuno -, sottolinea come tanto la meditazione, quanto la psicoanalisi nelle sue diverse forme, non siano tecniche ma arti (Chandra, p. 59): le prime indicano procedure valide in se stesse che, se correttamente applicate, conducono necessariamente a risultati prevedibili e già testati, le seconde sono invece attività che coinvolgono l’intero psichismo dell’individuo e non possono verificarsi che secondo i suoi personali talenti, ossia le peculiarità di ciascuno, assumendo una piega e uno sviluppo mai del tutto prevedibili a priori e sempre, in qualche modo, unici. Mentre le tecniche richiedono di compiere atti oggettivi, le arti chiamano in causa comportamenti soggettivi nei quali gli individui non sono semplici esecutori di procedure ma interpreti, proprio come lo si può affermare di un artista del quale si dice che ha dato prova di una straordinaria interpretazione, frutto non solo del suo sapere ma, non di meno, della sua personalità e del suo percorso di vita.
Per questo entrambe, da ultimo, restano depotenziate se confinate in una o due ore a settimana nelle loro reciproche stanze di riferimento e compiono davvero la loro missione solo se il soggetto assume su di sé la responsabilità di estenderne l’esperienza alla vita di tutti i giorni. Scrive Chandra:
Che cosa c’è di male a sviluppare una vita un po’ più quieta e a incentrarla sull’io, vi chiederete? Niente in sé, ma non è per questo che nascono sia la meditazione che la psicoanalisi; entrambe, nel solco della filosofia antica, mirano piuttosto alla piena fioritura delle nostre potenzialità, che non significa diventare straordinari ma divenire, appieno, se stessi, compiendo quello che Jung chiamava il processo di individuazione. E non è forse delle possibilità di quel tanto vituperato io che comunque si parla in questo processo, non è lui che deve diventare se stesso? potreste chiedervi. No, spiega Jung, il soggetto di questo processo deve essere il Sé, centro della personalità non solo conscio e pienamente consapevole di non essere il padrone di casa, per citare Freud.
In gioco, come intende sottolineare il titolo di questo articolo che mi accingo a concludere, non c’è l’io ma la vita. Meditare sulla vita permette di meditare anche sull’io, meditare sull’io rischia di non dischiudere mai le questioni della vita. Ma soprattutto chiunque meditasse a fondo sulla propria condizione esistenziale finirebbe per comprendere, per dirlo con le fulminanti parole del filosofo e psicoanalista Miguel Benasayag, che “la mia vita non sono io” (M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2016, p. 120), che, semmai, ne faccio parte.
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA, E ANATOMIA DELL’UOMO A UNA DIMENSIONE... *
Julia Kristeva
De Beauvoir. Quando la donna diventò soggetto
di Francesca Rigotti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.06.2018)
Il prossimo anno ricorrerà il settantesimo dalla pubblicazione di Il secondo sesso, di Simone de Beauvoir (1949), ma non è una cattiva idea cominciare fin d’ora a celebrarlo. Perché quel libro ha rappresentato un evento culturale, una svolta antropologica, una rivoluzione copernicana: con esso, grazie ad esso il soggetto donna si afferma sulla scena dalla quale non sarà più possibile cacciarlo via. E questo per merito di una filosofa e scrittrice, aristocratica, esistenzialista e comunista nonché femminista dell’uguaglianza, il cui status di autrice originale, col suo approccio che è una sintesi di esistenzialismo, hegelianesimo, marxismo e antropologia, si è finalmente consolidato dopo decenni di alterna fortuna.
Lo riconosce Julia Kristeva, migrante venuta da lontano non normalista francese, a sua volta femminista differenzialista e teorica della psicoanalisi, disciplina verso la quale Simone de Beauvoir non nascondeva la propria antipatia e diffidenza. Eppure la vita e l’opera di De Beauvoir (1908-1986) hanno rivoluzionato mentalità e costumi, imprimendo «un’accelerazione all’emancipazione del secondo sesso dopo millenni di dominazione patriarcale e maschile» - riconosce Kristeva in questa raccolta di saggi che invita a rileggere le pagine di una filosofa dalla scrittura romanzesca e di una scrittrice dall’argomentazione filosofica proprio nella nostra epoca polverizzata, nella quale parecchie donne sembrano riadagiarsi nel conformismo sociale.
Alcune correnti femministe rimproverano a De Beauvoir di aver insistito sul registro universale dell’eguaglianza finendo per non vedere, se non negare, il corpo femminile con le sue caratteristiche specifiche tra cui la maternità e l’omosessualità femminile. Eppure ciò non è sufficiente - ribatte proprio Kristeva - a cancellare l’importanza del pensiero di De Beauvoir oggi, non come passaggio storico superato ma in quanto presentificazione degli atti di affermazione del soggetto donna. Operazione che Simone de Beauvoir conduce, sottolinea Kristeva, nei saggi come pure attraverso i romanzi, nei quali la singolarità individuale dei personaggi si trasforma in universalità collettiva politica. Una sfida raccolta anche da Il secondo sesso, ove si invita a singolarizzare il politico e a politicizzare il singolare.
Il lascito di De Beauvoir a tutte le donne è in ogni caso il culto della libertà: la libertà è la sua stella polare, la libertà di Socrate, di Pascal, dell’Illuminismo, di Hegel, di Marx, di Arendt. La libertà che spetta alle donne se riusciranno a uscire dalla condizione di minorità per ottenere la piena eguaglianza, nella polifonia delle posizioni delle donne, femministe o meno, universaliste, differenzialiste, #me too, femen, non una di meno, e se non ora quando. Si potrebbe credere che per riconoscere questo ruolo fondamentale a Simone de Beauvoir Kristeva la spinga verso criteri differenzialisti che non erano i suoi; a me sembra invece che Kristeva rimanga sempre rispettosa e attenta alle peculiarità del pensiero di De Beauvoir di cui affronta persino i sogni, quelli di cui la scrittrice fa dono al lettore in A conti fatti: sogni di cadute e voli, di maternità e fughe e di fughe dalla maternità, nei quali si mostra la geniale capacità dell’autrice di svelare ciò che è più intimo conciliandolo con i disagi dell’epoca per trasformarli in priorità politiche.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud)
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO
Federico La Sala
MAGGIO 68. LA BRECCIA. E. Morin: «una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro ... una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo...»
Edgar Morin
Torno a raccontare il Sessantotto. La rivoluzione non è finita
dii Mario Baudino (La Stampa, 13.05.2018)
Edgar Morin pubblica per Cortina una raccolta di scritti sul ’68 e la intitola La breccia. È la metafora che il grande sociologo francese usò fin da subito, cronista in diretta del Maggio, antropologo della rivolta studiata dall’interno, in due lunghi articoli su Le Monde. Ora, a distanza di cinquant’anni, lui che nato Edgard Nahoum nel 1921 ha vissuto adolescente il ’36 e la esaltante vittoria delle sinistre nella Francia pre-bellica, ha combattuto nella Resistenza (trasformano il suo nome di battaglia in cognome anagrafico), ha partecipato ai movimenti che contestavano la guerra d’Algeria e soprattutto non ha mai smesso di studiare le dinamiche sociali e culturali, è convinto che quella breccia non si è ancora chiusa.
In che senso, professore?
«Nel senso che il Maggio francese non fece certo crollare la società borghese e forse non la cambiò di molto, ma aprì una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro. La nave della società pareva solidissima, e invece scoppiò una rivolta generazionale. Gli adolescenti rivendicarono un’utopia libertaria, che contagiò tutti, gli operai, i borghesi, gli intellettuali. Finì presto, con la ricomposizione del vecchio sistema sociale e la deriva marxista leninista, ma quel che accadde fra il 3 e il 13 maggio rappresenta una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo, nessuno va da più dallo psicanalista o dal medico, nessuno ha più problemi nervosi».
Una sospensione improvvisa, ludica e fragilissima, del freudiano disagio della civiltà?
«Le cui tracce, oggi, si vedono però nel volontariato, nel mondo dell’economia solidale, nella volontà di una vita migliore senza inquinamento e senza sopraffazione. Questa è la breccia ancora aperta, la vera eredità, anche se la società è cambiata da allora. Pensi al mito del progresso».
In quel momento, non solo in Francia ma un po’ in tutto il mondo, una generazione di giovanissimi cominciò a dubitarne.
«Negli Anni Sessanta si era formata una bio-classe, con una cultura comune, valori condivisi, persino un certo modo di vestire. La loro fu una rivolta contro gli adulti, che coinvolse e trascinò con sé gli adulti. Il fenomeno non si è più ripetuto. E oggi, in tutti i Paesi, sappiamo che la legge del progresso non è più vera. Il futuro non significa automaticamente un miglioramento, ma semmai incertezza e angoscia. Le conquiste sociali di un tempo non esistono più, il dubbio coinvolge persino l’idea di democrazia e dei suoi valori. Tutto questo, senza che i più ne avessero la percezione, è cominciato allora».
Nostalgia?
«No, nostalgia mai. Ma ricordo la prima delle giornate del Maggio, il clima di festa, di libertà, di originalità. Il Super-Io dello Stato e della società si erano paralizzai, erano spariti. Sono momenti speciali, rarissimi. Ne ho vissuti anche altri: la liberazione di Parigi nel ’44, la rivoluzione dei garofani in Portogallo nel ’74, la caduta del Muro nell’89»
Le primavere arabe?
«Nei primi giorni, anche se poi, a differenza di questi altri momenti storici, si sono drammaticamente trasformate nel loro contrario».
Una lettura in prospettiva dal ’68 a oggi sembra dirci che l’utopia libertaria è destinata a essere sconfitta dal ritorno della politica e dell’ideologia.
«Oggi c’è la necessità di ripensare la politica, di lavorare alla ricostruzione di un pensiero politico: guardi i nostri due Paesi. Macron, con la sua avventura personale, ha decomposto la vecchia politica, ma non è riuscito nella ricomposizione di un pensiero nuovo. In Italia siete alla compiuta decomposizione dei partiti storici, e anche qui la necessità di una ricomposizione è evidente, anche se al momento non se ne vede la prospettiva. In gran parte dell’Europa trionfano forze di destra, revansciste, nazionaliste, populiste».
Nel suo Insegnare a vivere (uscito due anni fa sempre per Cortina) lei punta sull’insegnamento. Non su una ennesima riforma della scuola o dell’Università, ma su un nuovo orizzonte che superi la barriera tra saperi tecnologico-scientifici e formazione umanistica.
«Ci sono molte vie d’uscita dalla nostra attuale situazione, ma questa resta per me la principale».
Anche contro chi rivendica la propria ignoranza come un valore?
«Viviamo in una società di illusioni, come quella che ha appena citato. Un solo fatto è certo: la vera educazione per vivere non esiste ancora. Neppure io so quale sia. Ho scritto un libro. Spero che la si scopra insieme».
Recensione
Hulin, Michel, La mistica selvaggia. Agli antipodi della coscienza
Milano, IPOC, 2012, pp. 246, euro 20, ISBN 9788896732748.
di Marco Cirillo (16/10/2012)*
La mistica è un fenomeno sostanzialmente unitario, “non esiste da un lato una piccola mistica, marginale, incompleta, nebulosa, e persino degenerata o patologica, e dall’altro una Grande Mistica, l’unica autenticamente religiosa, la strada maestra che condurrebbe alla conoscenza di Dio” (p. 245). Questa è la tesi che sorregge il libro di Michel Hulin, che ha il merito di aiutare il lettore ad avvicinarsi a questa realtà posta “agli antipodi della coscienza” e a pensare le differenze religiose e ideologiche a riguardo come al prodotto di un’opera interpretativa secondaria, anche se inevitabile.
La comprensione dell’esperienza mistica, è stata a lungo impedita a causa di una “scissione delle ricerche in due filoni che, fondamentalmente, si ignorano e si disprezzano a vicenda” (p. 15): un approccio “dall’alto”, proprio degli storici delle religioni, dei filosofi e degli ecclesiastici, che porta avanti un’esplorazione dall’interno delle varie manifestazioni spirituali; un altro invece, “dall’esterno e dal basso”, considera e analizza le testimonianze dei o sui mistici secondo paradigmi estrinseci, in primis quello della patologia mentale.
Conseguenza di questa scissione è “il carattere rovinoso che ne consegue per l’intelligibilità stessa del fenomeno mistico” (p. 17) poiché in entrambi i casi l’esito è l’impossibilità di andare oltre il già noto, limitandosi a fornire prove e supporti alle proprie opinioni, metafisico-teologiche o positivistico-scientistiche che siano. E tuttavia si può trovare una “terza via”, magari più tortuosa ma che arriva al cuore del problema. Per questo “cercheremo di mostrare il valore proprio del fenomeno mistico, ovvero il suo potere di rivelazione, indissociabile da quell’elemento “patologico” che il riduzionismo invoca allo scopo di demistificarlo [...] Il che porta a osservare, d’altra parte, come determinate strutture dell’essere-al-mondo “normale”, “”sano di mente” o “non alterato”, contengano di fatto un significato negativo, e come la distruzione di queste strutture, attraverso la disorganizzazione mentale che annuncia l’estasi, riceve lo statuto di una “negazione della negazione”, riportando così alla luce una positività latente” (p. 23).
L’autore tratteggia, nel primo capitolo, una critica del riduzionismo freudiano, partendo dal carteggio (che copre l’intero arco degli anni Venti) tra il padre della psicanalisi e lo scrittore francese Romain Rolland, che aveva descritto il tema qui designato come “mistica selvaggia” nei termini di un “sentimento oceanico” o “sensazione oceanica”. L’espressione di Rolland viene criticata da Freud nelle prime pagine del Disagio della civiltà ma in maniera piuttosto ambigua, “come se Freud, pur proclamandosi estraneo all’Oceanico, si fosse tuttavia sentito intimamente toccato, forse minacciato, da tale tema, al punto di accendere una sorta di controfuoco con cui proteggere la propria costruzione teorica e le proprie scelte di vita” (p. 35). Questa minaccia con cui Freud è chiamato a confrontarsi, è rappresentata da quel particolare stato modificato di coscienza che è appunto l’esperienza mistica spontanea. Le testimonianze, pur riportando casi soggettivi, e diversificati, consentono tuttavia di individuare una forma ed un contenuto unico. La morfologia è quella di “una frattura, uno strappo nella trama ordinaria dei giorni e delle ore: accade qualcosa che non è stato ricercato, né previsto, e nemmeno presentito” (p. 50). Quanto all’oggetto, esso, nonostante “l’inadeguatezza congenita e definitiva del linguaggio umano rispetto ad un certo ordine di realtà [...] può essere associato alla parola Gioia” (p. 51).
L’analisi dell’estasi nella sua forma spontanea serve a Hulin per sostenere l’impossibilità di accettare la risposta freudiana alla domanda circa l’essenza della gioia mistica, la sua origine e la sua destinazione: “Freud è naturalmente portato a renderne conto in termini di sopravvivenza di elementi precedenti [...] I soggetti esposti all’esperienza mistica sarebbero dunque prima di tutto coloro che, in funzione delle circostanze particolari della loro storia individuale, avrebbero preservato nel proprio intimo alcune tracce di quel solipsismo originario della coscienza infantile” (p. 53-54).
Se il narcisismo viene posto come il senso originario dell’esistenza individuale, l’estasi non può che essere concepita, regressivamente, come un ritorno ad una “libido autoerotica” che riporta la totalità del reale al principio di piacere, secondo una concezione riduzionistica e meccanicistica del funzionamento della psiche.
La critica alla spiegazione psicologista della mistica conduce l’autore sulle tracce di un’ulteriore lettura naturalizzata del fenomeno, quella dell’indianista americano J. Moussaieff Masson, il quale offre una rilettura della teoria freudiana che, sebbene resti nel solco del riduzionismo, ha comunque il merito di superare Freud nel sottolineare tutte le ambiguità e le zone d’ombra di un fenomeno che non è possibile liquidare sbrigativamente come una sorta di déjà-vu patologico.
Il secondo capitolo è dedicato quindi all’approfondimento del fenomeno mistico e del suo contenuto di beatitudine, che deriva dall’abbandono delle dicotomie bello/brutto, nobile/vile, puro/impuro, importante/insignificante, cui il pensiero è costantemente legato. Servendosi del contributo delle neuroscienze, Hulin critica la pretesa opposizione tra le vie ascetiche che conducono all’estasi e quelle chimiche, ossia l’utilizzo di stupefacenti e allucinogeni: “le pratiche ascetiche, considerate in sé stesse, si presentano come tecniche psicofisiologiche fra le altre, manipolazioni dell’organismo con effetti in via di principio individuabili, se non misurabili. Da questo punto di vista non esistono fra le droghe e le altre tecniche differenze di natura, ma soltanto differenze per quanto riguarda le modalità d’azione” (p. 92).
Se le sostanze psichedeliche presentano un lato oscuro che consiste in una straordinaria crescita del grado di vulnerabilità del soggetto agli stimoli esterni, il lato “glorioso” di tale esperienza mostra quattro temi dominanti, vale a dire una condizione di serenità che oltrepassa le vicende dell’esistenza, la sensazione della fondamentale interconnessione esistente tra tutti i viventi, e della loro intrinseca bontà, la percezione di un ritorno ad uno stato primordiale, in un certo senso “di natura”, ed infine la considerazione del precedente stato di coscienza come condizione essenzialmente povera e deludente. A questo punto “risulta difficile sospingere l’esperienza della droga fuori dal campo della mistica, per lo meno nella sua versione selvaggia” (p. 116).
E tuttavia la stessa esperienza della droga conferma il suo lato oscuro già citato in precedenza, che Hulin accosta al ruolo di un attore, il quale pur potendo interpretare sulla scena il ruolo del santo, riuscendo addirittura ad incarnarne l’anima, una volta tornato nella vita reale deve tornare a fare i conti con la consapevolezza della propria esistenza banale: il balzo in avanti temporaneo che la droga consente di compiere a chi ne fa uso non consiste in un reale progresso della vita spirituale, piuttosto è un modo allucinato per intravedere ciò che, solo una costante pratica ascetica potrebbe portare a raggiungere in maniera libera e in un certo senso, meritata.
Se è dunque potere della droga ottenere il duplice effetto di generare esperienze mistiche e, al contempo, disturbi psichici, “la parentela fenomenologica fra questi due tipi di universo si manifesta in tutta la sua chiarezza” (p. 138). Hulin ci accompagna così lungo le pagine del libro di Pierre Janet De l’angoisse à l’extase: non esiste, è questa la tesi centrale del suo studio, una soluzione di continuità tra le manifestazioni mistiche tradizionalmente accettate ed i fenomeni considerati patologici, ma “la ripartizione dei devianti in psicopatici e mistici riflette prima di tutto l’accoglienza che la società riserva loro, a seconda che essa sia sensibile o meno al loro discorso, ne favorisca o intralci l’inclusione sociale” (p. 153).
La discussione sulla mistica selvaggia, a questo punto, rivela tutta la profondità della sua dimensione filosofica. “Mettere fra parentesi i codici teologici delle grandi religioni implica che il loro immenso valore sarà pienamente percepito solo dopo una preliminare deviazione. Questa deviazione rimanda a un’analisi fenomenologica che si sforzi di riafferrare allo stato nascente il senso vissuto, immanente, della gioia mistica, dunque innanzitutto della gioia tout court e, per il suo tramite, dell’esperienza affettiva in generale” (p. 162).
Prima di soffermarsi sulle considerazioni finali, Hulin passa in rassegna quindi due grandi temi della riflessione sull’uomo: l’affettività e la coscienza.
“La libido sciendi non è che una forma particolare, certamente privilegiata, della libido in generale, e la coscienza intellettuale, lungi dal poter ambire a una qualche autonomia di principio, poggia sulla coscienza affettiva come sua condizione di possibilità” (p. 165). La stessa dimensione della temporalità si costituisce a partire dalla dicotomia fondamentale piacevole/spiacevole funzionale all’autoconservazione; infatti è proprio in vista di un interesse, di un attenzione nei confronti di ciò che può risultare un vantaggio o un pericolo per l’esistenza, che gli oggetti dell’esperienza possono essere trattenuti nel ricordo o rappresentati in anticipo, che cioè l’uomo può guardare in avanti o indietro dispiegandosi così nel tempo. Al contrario, un individuo immaginato privo di ogni legame con la dimensione, affettiva e intellettuale al tempo stesso, del piacevole e dello spiacevole, non potrebbe essere considerato come situato ancora nel tempo. “Riassumendo, la proprietà di successione degli oggetti dell’esperienza non si presenta mai alla coscienza sotto forma di un semplice dato esterno che essa si limiterebbe a registrare. La proprietà di successione non è che la proiezione all’esterno di un’insoddisfazione essenziale che abita la coscienza” (p. 187).
La panoramica sulle dimensioni costitutive fondamentali dell’esser-ci umano, porta Hulin a concludere che: “la coscienza morale rimane necessariamente una coscienza incarnata e desiderante, incapace in quanto tale di trascendere l’orizzonte di esperienza definito dalle reazioni positive e negative dell’organismo nei confronti dell’ambiente” (p.194). Da ciò deriva come corollario il fatto che “gli oggetti dell’esperienza non possiedono in sé stessi nulla di attraente o ripulsivo, ma sono costituiti come tali dall’atteggiamento (di accoglienza o di rifiuto) della coscienza che giunge ad incontrarli” (p. 197), ed è su questa base che si innesta una visione essenzialmente pessimistica della condizione umana. Così come afferma la dottrina buddhista infatti “dukka non è tanto la sofferenza quanto l’alternanza di pene e gioie, la loro inestricabile mescolanza, il loro contrasto, il loro reciproco condizionamento” (p.204).
A conclusione del libro Hulin cerca di mettere in luce, attraverso il concetto di “ascesi”, la possibilità che l’uomo ha di superare tale dialettica. La mistica in generale, come fenomeno unitario, supera di gran lunga gli aspetti pscicopatologici cui è pur sempre legata come attesta l’esperienza. Ma essa supera altresì i diversi tipi rintracciabili in base alle spiegazioni e alle interpretazioni, pur necessarie ed inevitabili, che vengono date a posteriori ai singoli vissuti. “L’estasi resta uguale sotto tutti i cieli e in ogni tempo. Ma se mai si potesse incontrare un vissuto mistico allo stato puro, è vero che esso sparirebbe dal nostro campo di rappresentazione qualora lo lasciassimo sussistere, volatile com’è, vergine di interpretazione [...] Selvaggia può diventare allora, l’interpretazione del fenomeno mistico, non il fenomeno stesso” (p. 246).
Indice
Prefazione
Introduzione
1. I. L’oceano interiore
1. Freud, Romain Rolland e il sentimento oceanico
2. L’esperienza mistica spontanea
3. Una embriologia della psiche?
4. Estasi e meccanismi di difesa
1. II. Dall’estasi all’angoscia
1. L’esperienza mistica indotta
2. Paradisi e inferni artificiali
3. Estasi e psicopatologia
1. III. Affettività e assoluto
1. L’enigma dell’assoluto
2. Sentire e comprendere
3. Sofferenza e temporalità
4. Al di qua del bene e del male
5. Ascesi e vita mistica
1. IV. Conclusione
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..... *
Chi dice che è morta? Prima che terapeutica l’invenzione freudiana è una rivoluzione etica. E la scommessa più ardita si chiama “desiderio”. Da assecondare così
di Massimo Recalcati (la Repubblica, Robinson, 25.03.2018)
Che cosa resta della grande lezione di Freud? Cosa resiste della esperienza sovversiva dell’inconscio? Cosa della grande rivoluzione culturale rappresentata dalla psicoanalisi è destinato a non essere cancellato? Il progresso delle neuroscienze, l’affermazione delle psicoterapie cognitivo-comportamentali, la potenza chimica dello psicofarmaco, la promessa di terapie brevi ed efficaci centrate sul cosiddetto “ sintomo bersaglio”, sembra abbiamo messo definitivamente all’angolo la psicoanalisi riducendola a uno spettro condannato a circolare solo nel museo delle cere del Novecento. Lo si grida da più parti e ormai da molto tempo: la psicoanalisi è morta, le sue categorie teoriche irrimediabilmente compromesse da un irrazionalismo di fondo che rifiuta di confrontarsi con la valutazione scientifica, la sua efficacia terapeutica dubbia, la proverbiale lunghezza delle sue cure assolutamente sfasata rispetto al ritmo performativo richiesto dallo spirito del nostro tempo e indice di una fumisteria epistemologica e clinica priva di fondamenti.
Perché allora dovremmo insistere nel difendere tenacemente l’invenzione di Freud? Il nucleo di questa invenzione è etico prima che terapeutico. Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certamente della natura borghese dell’Io o dell’individualismo liberista, ma di quella singolarità assai più ampia che sconfina in zone dell’essere che eccedono la coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto il concetto stesso di identità. Certamente questo riguarda la sessualità umana che
Freud rivela essere sempre parzialmente contaminata da quella infantile e pregenitale come se non esistesse una sessualità cosiddetta “matura”, “genitale”, perché essa vive e si nutre di fantasmi che provengono dalle esperienze infantili del corpo pulsionale.
Ma la prima vera e grande sovversione etica imposta da Freud è quella che ci costringe a modificare la nostra ordinaria concezione della malattia e della sofferenza psichica. Questo è un contributo ancora attualissimo e nevralgico della psicoanalisi: l’eccessivo compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto - tra coscienza, preconscio e inconscio, tra Es, Io e Super- io - ci costringe infatti a ridisegnare la nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria: l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di fuori, ma del nostro stesso essere, della nostra più propria intimità.
L’inconscio freudiano è infatti “uno stato nello stato” - un “territorio straniero interno” - che obbedisce a una legislazione che eccede radicalmente quella che governa il funzionamento normativo dell’Io. Nei sogni, nelle nostre più quotidiane sbadataggini, nei lapsus, nei sintomi di una singolarità eccedente l’Io parla, manifesta la propria voce dissonante disturbando il funzionamento diurno della coscienza e del pensiero. Ne deriva, appunto, un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto. Se queste procedure egoico-narcisistiche di esclusione si rafforzano, se il soggetto persegue una rappresentazione solo ideale di sé stesso finalizzata a scongiurare l’esistenza di quelle parti di sé giudicate “incompatibili” con questo stesso Ideale, la vita si atrofizza e si ammala. È un principio clinico che riguarda tanto la vita individuale quanto quella collettiva: i confini che disegnano la nostra identità devono essere plastici, capaci più di integrare lo straniero interno che di scindere e segregare. La psicoanalisi incoraggia una politica anti-segregativa.
La prima grande lezione etica della psicoanalisi consiste nel favorire una concezione indebolita della soggettività che consenta il transito e l’apertura in alternativa a ogni sua illusione identitaria di padronanza che finisce per irrigidire i propri confini contribuendo alla loro chiusura.
Quale è il volto dello straniero che si tratta di accogliere? Innanzitutto quello del desiderio che esprime la dimensione radicalmente insacrificabile della singolarità. Si tratta di un’altra grande e ardita scommessa della psicoanalisi: non contrapporre la ragione al desiderio - come la luce all’ombra - ma fare della “ voce del desiderio” la voce stessa della ragione. È questo un punto nevralgico presente nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce la sua attitudine, la sua vocazione, il suo talento fondamentale. Questo desiderio - assimilato kantianamente da Freud alla “voce della ragione” - non può essere normalizzato, irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà. La difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico, anti-dogmatico, anti-fondamentalista, critico nei confronti di ogni tentativo di assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale.
È il tratto, se si vuole, irriducibilmente “ femminista” della psicoanalisi: la cura è cura per il particolare, per la sua differenza assoluta, per l’incomparabile, per la vita non nel suo statuto generico e biologico ma nel suo nome proprio, nel suo volto unico e irriproducibile. Questo comporta un attrito fatale nei confronti di tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare della vita. La vita del desiderio - la vita della singolarità - è sempre vita storta, difforme, deviante, bizzarra, anomala.
La psicoanalisi opta per l’accoglienza di questo “straniero interno” come condizione di possibilità per l’accoglienza della vita in tutte le sue forme più divergenti. Essa contrasta politicamente ogni conformismo del pensiero, ogni attitudine all’adattamento passivo, ogni ideale moralistico di normalità. Non esiste infatti mai un “rapporto giusto col reale”, affermava Lacan. Ciascuno ha il compito di trovare la propria misura della felicità.
La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario. La sua vocazione è antifascista nel senso più radicale e militante del termine: veglia affinché la tentazione autoritaria che spinge l’uomo verso il padrone o verso il suo carnefice che promette la tutela autoritaria da ogni rischio che la libertà della vita fatalmente impone, sia avvistata per tempo.
La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale ad amare più le catene della propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani di una autorità che, in cambio della cessione della propria libertà, assicurerebbe la protezione della vita. È la dimensione “fascista” della psicologia delle masse che costituisce un grande capitolo della ricerca sociale e politica della psicoanalisi oggi più che mai attuale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Sabina Spielrein
di Nicole Janigro (Doppiozero, 01 marzo 2018)
Sabina Spielrein è una delle irregolari, rappresenta il lato in ombra della storia della psicoanalisi che da una parte accompagna la liberazione femminile, dall’altra tende a conservare la legge del primato e della complicità maschile. Il suo destino è segnato dall’essere donna, ebrea e russa. E proprio tutto questo rende così interessante inseguire, quasi stessimo nella trama di un giallo, la passione di Sabina. Cancellata, dimenticata, Sabina Spielrein (1885-1942) era solo una nota a piè di pagina nelle opere di Freud e di Jung. Poi è stata casualmente ritrovata nei sotterranei del Palais Wilson a Ginevra dove, prima di tornare in Russia, aveva lasciato i suoi documenti, lo scambio di lettere con Jung e Freud e pagine del suo diario.
Così, con il Diario di una segreta simmetria di Aldo Carotenuto, del 1980, Sabina è diventata la protagonista di un intrigo vertiginoso che condensa l’avventura delle origini della psicoanalisi, la Grande guerra, la rivoluzione sovietica e l’olocausto.
Un personaggio quasi letterario, cinematografico attraverso il film Prendimi l’anima, ricostruito attraverso i carteggi raccolti da Kerr in Un metodo molto pericoloso nella pellicola A Dangerous Method, con un’intensa Keira Knightley, storicamente determinato nel bellissimo documentario Ich hiess Sabina Spielrein di Elisabeth Màrton, come se la sua figura, in analogia a tante vicende del primo secolo di vita della psicoanalisi, potesse essere meglio narrata dalla struttura del romanzo.
Sabina Spielrein. Una pioniera dimenticata della psicoanalisi, curato da Coline Covington e Barbara Wharton, è il testo che permette al lettore di conoscere la doppia vita di Sabina. La vita vissuta attraverso pagine di diario, cartelle cliniche che segnano il suo ricovero al Burghölzli, scritti finora inediti e lettere (per la prima volta la versione integrale in italiano anche delle lettere di Jung).
Arriva al Burghölzli nel 1904 con una diagnosi di isteria e trova a Zurigo la guarigione, Jung, ma anche la possibilità di studiare medicina che in patria le era preclusa. L’incontro tra Sabina e Jung sarà l’occasione della prima lettera di Jung a Freud, produrrà l’incontro tra Sabina e Freud, mentre il distacco tra Sabina e Jung scorre in contemporanea al distacco tra il maestro ebreo di Vienna e l’allievo ariano di Zurigo. Un plot dove le dinamiche esistenziali del loro triangolo si mescolano alle conquiste teoriche: isteria, talking cure, traslazione. È il primo caso al quale Jung applica il metodo freudiano, è il caso per il quale chiederà aiuto a Freud, e Freud parlerà per la prima volta di controtransfert, dopo aver messo in guardia Jung da “la felicità perfetta sotto mentite spoglie”. È il qui e ora della relazione tra la paziente e il suo medico, quello che affascina della lettura epistolare. E la cosiddetta controtraslazione, non considerata più un ostacolo ma il mezzo più potente della trasformazione analitica, quel Leitmotiv che oggi unisce le psicologie del profondo, agita ancora i sogni e le coscienze degli analisti.
Sabina Spielrein è il successo di Jung, “il mio caso da manuale”. L’esperienza con questa giovane donna russa lo porterà molto vicino a un’idea di cura come “un’esperienza emotiva correttiva”, quel nuovo complesso che deve liberare un io non abbastanza forte dal dominio del complesso morboso. Ma è anche la sua fatica - non a caso nelle lettere Jung la accomuna a Otto Gross: “in tutta questa faccenda anche le idee di Gross mi hanno occupato un po’ troppo il cervello. (...) Gross e la Spielrein sono amare esperienze. Non ho dato tanta amicizia a nessuno dei miei pazienti, e con nessuno ho mietuto tanto dolore” (lettera a Freud del 4/6/1909).
Entrambi gli permettono di legittimare il suo bisogno d’amore - Sabina nel suo fare Anima, Gross con la sua teoria antimonogamica. Affinità elettive e competizione per chi ha pensato prima un’idea si confondono, sono i “misteriosi parallelismi”, è il concetto di pulsione di morte che Freud deve anche all’originale testo di Sabina, La distruzione come causa del divenire (1912). E lei tiene testa anche teoricamente a Jung e Freud: L’origine delle parole infantili papà e mamma (1922) stimola riflessioni sulle stratificazioni linguistiche, sulle due forme del pensare e sul piacere stesso della parola in analisi. Rimarrà fedele al suo sentimento per Jung, conserverà quell’intelligenza del cuore capace di quel e-e che la condurrà a cercare di riconciliare i due ex amici.
Risucchiata dalla storia collettiva della seconda guerra mondiale, la sua morte avvenne in circostanze rimaste a lungo sconosciute. Ma Sabina lascia a Ginevra tracce che sfuggiranno alla cancellazione nazista e comunista: la vita ritrovata interrompe un lungo oblio. E il testo Sabina Spielrein. Una pioniera dimenticata della psicoanalisi presenta numerosi interventi di analisti e studiosi che offrono diversi punti di vista sul significato della sua figura e in particolare sul casus belli: quando Sabina parla della poesia che passa tra lei e Jung allude al sentimento d’amore o all’atto?
Alla fine tornerà in Unione Sovietica dove seguirà la sua vocazione fino al sacrificio. Nell’estate del 1942 morirà, insieme alle due figlie, a Rostov, in un massacro nazista che fece ventottomila vittime.
A ventun’anni, prima di lasciare la clinica, aveva affidato al suo medico le ultime volontà: «Il corpo dovrà essere cremato. Nessuno potrà assistervi. Divida le ceneri in tre parti. Metta una parte in un’urna e la mandi a casa mia. Sparga la seconda parte sulla terra del nostro campo più grande. Lì pianti una quercia con la scritta: “Anch’io fui una volta un essere umano. Il mio nome era Sabina Spielrein”. Mio fratello Le dirà che cosa fare con la terza parte».
Psicoanalisi contaminata. Il caso di Jean-Jacques Abrahams Recensione di "Un singolare gatto selvatico"
di Alessandro Siciliano *
Jean-Jacques Abrahams ha 32 anni quando, nel dicembre 1967, si presenta per l’ultima volta nello studio del suo analista. Era in analisi dall’età di 14 anni, per volontà del padre, e dopo diverse interruzioni decide intorno ai 28 anni di interrompere definitivamente la sua terapia, da sempre vissuta come violenta e obbligata. Tre anni dopo accade l’episodio che lo renderà celebre fra le marginalità della storia della psicoanalisi e che sarà discusso da Sartre, Pontalis, Pingaud, Fachinelli, Deleuze e Guattari, Castanet, negli anni fra il ’69 e il ’77.
Tale episodio costituisce un evento, una “irruzione”, dice Fachinelli; un oggetto sconosciuto e irriconoscibile agli occhi dell’analista prima, dei commentatori poi, si presenta sulla scena del setting psicoanalitico. Jean-Jacques Abrahams entra nello studio del suo analista e accende un magnetofono, un vecchio registratore, con l’intenzione di registrare il colloquio. “Credevo di dovergli [all’analista] far parte del risultato delle mie riflessioni, fatte nell’intervallo, sullo scacco di ciò che era stata questa interminabile relazione analitica”. L’atteggiamento è recriminatorio, il paziente chiede all’analista che gli vengano “resi dei conti”, che risponda a una imputazione pronunciata nei confronti dell’analista e della psicoanalisi tutta. Il Dialogo psicoanalitico finisce con l’internamento del protagonista in ospedale psichiatrico. Abrahams fugge dunque dall’ospedale, sbobina il nastro e lo invia alla redazione della rivista Le Temps Modernes, dove viene pubblicato nel 1969, con commenti critici di Jean-Paul Sartre, Jean-Bertrand Pontalis e Bernard Pingaud.
La vicenda sarà discussa da tanti altri, in primis da Deleuze e Guattari ne “L’Anti-Edipo”. Negli anni della contestazione, Jean-Jacques Abrahams, con il suo gesto di denuncia assolutamente sui generis, acquista una certa notorietà, producendo un dibattito sullo statuto della psicoanalisi: pratica di liberazione del soggetto o dispositivo borghese di regolamentazione del desiderio?
Ci viene data occasione, oggi, di ritornare a parlare e discutere di tutto ciò, grazie al lavoro di Pietro Barbetta, Enrico Valtellina, Giacomo Conserva e degli altri autori di Un singolare gatto selvatico, edito da Ombre Corte. “Ulteriore tappa della fortuna di Jean-Jacques Abrahams”, questo piccolo volume ripropone il celebre “dialogo psicoanalitico” tra Abrahams e il suo analista, pubblicato per la prima volta nel ’69 in Francia e nel ’77 in Italia, a opera di Elvio Fachinelli, sulla rivista “L’Erba voglio”; a seguire, i testi di Sartre, Pontalis e Pingaud, il bellissimo commento di Fachinelli, le distopie realizzate del nostro Abrahams, e poi Lea Melandri sull’esperienza di “L’Erba Voglio”, Antonello Sciacchitano su psicoanalisi e psicoterapia, Alfredo Riponi sulle risonanze del testo biblico nella parola di Abrahams.
Cos’è che rende interessante la performance di Abrahams? Di fatto non sappiamo nulla della storia che fa da contesto all’evento in questione. Tuttavia, se leggiamo i suoi scritti, in particolare Fallofonia e Che si fotta il sonoro, il profilo dell’avversario, della cosa contro cui Abrahams si scaglia senza riserve si fa più chiaro. E in fondo, viene da pensare che forse ogni contestazione abbia in sé un richiamo abrahamsiano.
C’è infatti una progressione in Dialogo psicoanalitico, Fallofonia e Che si fotta il sonoro: il primo è una denuncia del dispositivo analitico, la talking cure, il rapporto terapeutico basato sulla parola; il secondo è un testo in cui si critica un altro dispositivo, il dispositivo dei dispositivi, il linguaggio; nel terzo testo, Abrahams inveisce contro l’avvento del sonoro nel cinema, dunque contro la voce.
Psicoanalisi, linguaggio, voce. “Se la specie umana è pressappoco una delle poche in cui ci si uccide l’un l’altro è sicuramente a causa del linguaggio” (p. 116). Questa linea interpretativa ci permette di cogliere meglio le questioni in causa nel Dialogo psicoanalitico.
Leggendo il Dialogo, appare chiaro come l’oggetto della contestazione del protagonista sia la tecnica psicoanalitica. “Non si può guarire là sopra!”, rimprovera Abrahams indicando il divano. La pratica analitica, dice, non aiuta a “guardare in faccia gli altri”, a viverci assieme, non insegna nulla di buono sulla impossibilità in gioco nei rapporti e nei legami sociali. Nel prescrivere l’astensione dall’azione, per favorire e incentivare l’analisi della vita psichica attraverso il medium della parola, la psicoanalisi ostacolerebbe l’elemento propulsivo, trasformativo dell’azione umana, disinnescherebbe la possibilità per l’uomo di risolvere la causa del proprio disagio e della propria angoscia nella realtà, attraverso un’azione che punti a toccare, a trasformare la realtà.
Un elemento in particolare disturba Abrahams, elemento che ha a che fare con una certa violenza. Nel Dialogo psicoanalitico sono frequenti i momenti in cui i due “attori” si accusano vicendevolmente di violenza, violenza fisica del paziente, violenza simbolica dell’analista. Ed è proprio contro questa “violenza simbolica” che il nostro intende fare qualcosa, per riscattare sé stesso e tutte le altre vittime di tale violenza.
“In cosa consiste questa violenza?”, si chiede Fachinelli nel suo commento, scorgendo nel Dialogo psicoanalitico e negli altri due testi una collocazione precisa di tale violenza: “Ciò che conta soprattutto è la traduzione in parole effettuata dall’analista, o meglio il presupposto di traducibilità - implicito nella sua posizione e nella sua tecnica - di tutto ciò che proviene dall’altra parte. Insomma, il conflitto dentro l’analisi è solo in parte conflitto tra chi interpreta e chi viene interpretato; più profondamente, esso si concentra intorno alla decisione di permutazione o equivalenza verbale di quanto accade” (p. 46).
Psicoanalisi, linguaggio, voce. Sotto accusa è dunque la legge fondamentale di ogni civiltà umana: la legge della parola. Sotto accusa, secondo Fachinelli, è quella strana legge non scritta, ma scritta ovunque e da sempre, che impone che tutto il reale passi attraverso la strettoia del simbolico. Jacques Lacan, utilizzando Ferdinand De Saussure, parlerà di significante. L’essere umano si costituisce prendendo le distanze, emancipandosi dal reale attraverso la mediazione del significante, attraverso cioè una struttura che abolisce la cosa nella sua immanenza per conservarla nella trascendenza del simbolo di quella stessa cosa (la hegeliana Aufhebung). Nell’habitat umano, le cose significano altre cose, e la significazione è il movimento che collega tutte le cose e che crea un discorso. Il discorso sarà dunque un modo per fondare un legame sociale tra esseri umani attraverso la stabilizzazione di determinate significazioni, di determinati sensi. Nell’ordine del discorso si “dirà” ciò che è ammesso e ciò che non lo è, ciò che è riconoscibile, visibile, dicibile, conscio, e ciò che è irriconoscibile, invisibile, indicibile, inconscio. La voce del Padrone pronuncia un discorso che denota, inquadra la vita come vita umana; il soggetto, dice sempre Lacan con un gioco di parole, è assoggetto, in posizione di sudditanza rispetto all’Altro. Nell’habitat umano, il reale è dunque cancellato originariamente, pertanto insiste e torna sempre allo stesso posto.
Tutta la lotta di Abrahams sembra andare contro questo funzionamento. Il gesto del nostro uomo col magnetofono veicola una obiezione fondamentale, mirabilmente colta da Fachinelli, contro un dispositivo terapeutico (che sarebbe scorretto identificare nella psicoanalisi, come se esistesse La psicoanalisi) fondato rigidamente sul “presupposto di traducibilità” in parola di tutto ciò che non è parola. “Un movimento teorico che, riferito non a ciò che taglia fuori, ma a ciò che si annette, dobbiamo pure chiamare predace, tende perciò ad abbinarsi a una pratica della “trasformazione”, del “controllo”, che in alcuni suggerimenti estremi delinea una “somministrazione” del codice della normalità”. Ciò che l’uomo col magnetofono mette in atto, continua Fachinelli, è “un movimento di cui occorre sottolineare insieme la problematicità e la positività, e che passa attraverso la parola contaminata, per così dire, vale a dire una parola non scissa, o il meno scissa possibile, da ciò che non è parola” (p. 47).
Ci sembra allora importante avere l’occasione di ricordare, o incontrare per la prima volta, il personaggio concettuale di Jean-Jacques Abrahams, grazie al lavoro di questo vitalissimo gruppo di studiosi, consolidatosi attorno all’interesse per le marginalità, letterarie, psicoanalitiche, filosofiche, storiche. Ricordiamo infatti un altro bel lavoro a cura di Barbetta e Valtellina, Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale (Manifestolibri, 2014), dedicato allo “studente di lingue schizofrenico” che, con i suoi due romanzi in neolingua, ha insegnato più di qualunque teoria su linguaggio e schizofrenia. Così come in Wolfson, anche nell’uomo col magnetofono possiamo trovare una importante lezione, messa in scena ad opera di quello che di solito è l’oggetto dei saperi “psi”, oggetto piuttosto recalcitrante. E possiamo intendere questa lezione, a condizione, però, di sospendere le difese rispetto all’evento, che in psicoanalisi possono prendere il nome di “diagnosi”, “passaggio all’atto”, “follia”.
* http://www.psychiatryonline.it/node/6845, 22 giugno, 2017
Il grande filosofo bulgaro naturalizzato francese, considerato uno dei massimi intellettuali contemporanei, aveva 77 anni *
E’ morto Tzvetan Todorov. Il grande filosofo bulgaro naturalizzato francese, considerato uno dei massimi intellettuali contemporanei, aveva 77 anni. L’annuncio è arrivato dal suo agente francese, dopo una lunga malattia. La notizia arriva poche settimane dopo la morte di un altro straordinario pensatore contemporaneo, Zygmunt Bauman, che con Todorov condivideva molti campi di studio.
Storico, filosofo, critico strutturalista e sociologo, celebre teorico della letteratura e studioso di grande originalità dei temi dell’alterità, dello spaesamento e dei totalitarismi, Todorov nasce nel 1939 a Sofia, in Bulgaria, dove si laurea in filologia nel 1963 e si trasferisce a Parigi dove inizia il dottorato, studia con Roland Barthes e cinque anni dopo diventa direttore del centro nazionale francese della ricerca scientifica. Di lì inizia la sua proficua attività accademica e saggistica.
Una delle sue opere più famose era "La paura dei barbari", in cui Todorov teorizzava il rischio della deriva violenta dell’Europa: a causa del clima di paura e tensione perenni, il rapporto con l’altro può diventare sempre più difficile. A questo proposito, diceva tempo fa in un’intervista a Repubblica, subito dopo l’attentato di Nizza: "Dobbiamo evitare di diventare anche noi dei ’barbari’, di diventare torturatori come quelli che ci odiano. Il multiculturalismo è lo stato naturale di tutte le culture. La xenofobia, le pulsioni sull’identità tradizionale non sono destinate a durare. Una cultura che non cambia è una cultura morta".
A proposito della società attuale e del suo futuro, Todorov sosteneva: "Le offese e gli attentati che abbiamo subìto sono gravi, ma non penso che mettano in pericolo la sopravvivenza della democrazia. Al contrario, si assiste a una convergenza delle forze politiche del Paese e a un rafforzamento della solidarietà in seno alla popolazione. Intensificare la raccolta di informazioni continuerà a essere una misura indispensabile, a patto che resti sotto il controllo giudiziario. I nemici interni invece seguono un altro percorso". A questo proposito, nel 2015 Todorov aveva partecipato al festival RepIdee di Repubblica a un incontro insieme al direttore Ezio Mauro dal titolo "Vigiliamo sulle derive della democrazia".
Tra i suoi libri più famosi ci sono "La letteratura fantastica" (Garzanti, 1970), "La conquista dell’America. Il problema dell’altro" (Einaudi, 1984), "Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana (Einaudi, 1989), "Michail Bachtin" (Einaudi,1990), "Di fronte all’estremo" (Garzanti, 1991).
In Italia il suo ultimo libro "Resistenti" è uscito per Garzanti l’anno scorso. A giorni, fa sapere la casa editrice italiana, era previsto il ritorno in libreria, in edizione economica, di un altro suo noto saggio, "Il caso Rembrandt", in cui descrive l’umanità e la filosofia dell’opera del grande pittore olandese. La sua bibliografia è stata tradotta in 25 paesi.
Tra i vari riconoscimenti ottenuti nel corso della sua carriera da Todorov, si contano il Premio Principe delle Asturie per le Scienze sociali, il Premio Charles Lévêque dell’Accademia Francese di Scienze Morali e Politiche, il primo Premio Maugean dell’Académie Française, il Nonino e il premio "Dialogo tra i continenti" nell’ambito del Grinzane Cavour.
I tabù del mondo
Se la morte non è un abisso da vincere
Freud non pensava al corrompersi delle cose come a un male da sconfiggere. Per lui è proprio la caducità a generare bellezza Il trascorrere del tempo, il suo divenire inesorabile ci fa apprezzare i dettagli più insignificanti e arricchisce il senso della nostra esistenza
La meditazione filosofica come precisa Schopenhauer non sorge platonicamente dallo spettacolo del mondo quanto piuttosto dal trauma e dall’incontro con il dolore
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 16.10.2016)
Davanti a me il ricordo indelebile delle mani nodose di mio nonno paterno che decretavano inesorabilmente, con gesti lenti e precisi, la morte di un coniglio impaurito. Un colpo secco alla testa, poi le operazioni di scuoiamento. È attraverso questa pratica antica della vita contadina che ho fatto da bambino il mio primo incontro con la morte. Restavo basito di fronte a quella mescolanza di violenza e tranquillità chiedendomi come era possibile integrare il ritmo naturale della vita - uccidere l’animale per nutrirsi - con la brutalità ordinaria che orientava i gesti antichi del nonno.
Non era, il suo, un desiderio sadico: stava lavorando per prepararci la cena, non stava uccidendo con piacere la sua vittima. Tuttavia, il ritmo naturale della vita contadina non poteva assorbire del tutto lo sconcerto dell’incontro con la nuda morte. Quel coniglio, scelto casualmente tra i suoi simili rinchiusi nella stessa gabbia, mi faceva incontrare una dimensione di non-senso che già da bambino intuivo non essere per nulla estranea alla vita.
La morte introduceva nella vita un tabù che mi appariva psichicamente indigeribile. La morte del coniglio non mi spingeva a pregare, né a fare alcun lavoro del lutto. Quella morte mi obbligava semplicemente a pensare. La meditazione filosofica, come precisa Schopenhauer, non sorge tanto, platonicamente, dallo spettacolo del mondo, dalla meraviglia di fronte all’essere, quanto piuttosto dal trauma, dall’incontro spesante nei confronti del male, del dolore e della morte. È la morte, come egli scrive, il vero punctum pruriens della metafisica.
Le pagine heideggeriane di Essere e tempo, che scoprii con entusiasmo a vent’anni, lasciarono in me una traccia indelebile: la morte non è l’ultima nota che conclude, aggiungendosi dall’esterno, la melodia dell’esistenza; essa è, piuttosto, radicalmente inclusa, un’imminenza sovrastante, una impossibilità sempre presente, una pressione sempre in atto che non lascia in pace.
Cosa da ragazzo avevo amato così profondamente in Gesù se non l’offerta radicale di sé, l’esposizione del suo corpo trafitto, se non il suo passaggio attraverso l’abisso della morte? Non era la potenza dell’amore a salvarci dal nostro destino di conigli? La vittoria sulla morte non avveniva attraverso l’ascesi epicurea, non avveniva allontanandola semplicemente dalla vita (dove c’è vita non c’è morte e dove c’è morte non c’è vita affermava Epicuro), ma accadeva nella morte, nell’incontro con l’alterità assoluta della morte.
Era questa l’esperienza decisiva di Cristo: scendere negli abissi della morte, scendervi come uomo, per vincere la morte, per risorgere dal suo ventre scuro e ricongiungersi al padre. Si trattava dello stesso passo che ritrovai più tardi in Heidegger? Liberare la vita dalla paura e dall’orrore della morte, renderla risorta.
Come spesso accade, la mia fede in Dio incontrò un primo scacco il giorno in cui, adolescente, mi recai all’ospedale Niguarda di Milano per trovare un amico coetaneo colpito da un tumore al cervello. Aveva già perso la vista e giaceva al buio cantando in modo surreale una vecchia canzone d’alpini. Portava il mio stesso nome e quando provai a chiamarlo e lui girò la testa bendata verso di me senza rispondermi scoppiai a piangere. Perché Dio non aveva ascoltato le mie preghiere? Dov’era mentre le metastasi distruggevano il cervello del mio amico? Cosa c’è di più assurdo di questo? Cosa c’è di più assurdo, scrive in apertura de Il Mito di Sisifo Camus, della morte di un bambino, della fine di una giovane vita?
La lettura dell’articolo di Freud titolato Caducità offrì una risposta nuova ai miei interrogativi. Freud non pensava alla morte come un abisso da vincere, ma come condizione della vita. È il trascorrere del tempo, il suo divenire inesorabile a farci apprezzare i dettagli apparentemente più insignificanti della vita. Il corrompersi delle cose, anziché generare disperazione, introduce ad una esperienza della bellezza non disgiunta da quella della caducità: «Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida». Il senso tragico della vita non sopprime la vita, né il suo senso, ma la arricchisce. Nel Freud di Caducità trovavo un “sì!” alla vita che non implicava la resurrezione dei corpi, la loro salvezza eterna, ma che si fondava, al rovescio, sulla loro estrema caducità.
Freud era ben consapevole della paura degli uomini nei confronti della morte e della loro attitudine a trovare rimedi, illusioni, “scacciapensieri”. Per questa ragione una psicoanalista come Gennie Lemoine ha potuto affermare che dalla vita non ci si deve attendere nulla; si tratta solo di fare, di vivere; nella vita bisogna fare perché, in effetti, non c’è altro da fare.
L’assunzione della propria morte sfronda la realtà dall’Ideale, ma non annulla la possibilità dell’amore. Anzi, l’amore - ed è qui che ritrovo il motivo decisivo della testimonianza di Cristo - può salvare dalla morte e dalla distruzione. Esso è come la bellezza della rosa che sa essere eterna nel battito di un solo giorno.
Dopo millenni di riflessione, la nostra identità ("tautòtes" - greco) ancora nella culla o, meglio, nella bara ("taùto" - napoletano)
SENTIMENTI. Un legame gioioso e maturo non è una passione esclusiva: esige una presa di distanza per comprendere e accettare l’inaccessibilità dell’altro
In amore ascoltate Spinoza per evitare il rischio Bovary
di Ilaria Gaspari (Corriere della Sera, La Lettura, 10.07.2016)
Se Madame Bovary avesse letto Madame Bovary, ha scritto Flaiano, avrebbe probabilmente frenato le sue fantasticherie di «pornografia sentimentale». Un effetto dissuasivo ancora più forte l’avrebbe ottenuto, credo, con un paio di proposizioni dell’ Etica di Spinoza.
La povera Emma modellò la sua infelicità sulle molte possibilità narrative degli amori tormentati. Sognando di balli, duelli, eroine esangui nel gorgo della passione, imbrigliò l’amore nella fantasticheria di una forza che trascina alla rovina.
L’amore fa soffrire, doveva sospirare fra sé l’infelice signora Bovary, boccheggiante di noia, con la testa piena di romanzi d’appendice e un marito prosaico che nel frattempo sorbiva rumorosamente la soupe à l’oignon. A furia di sospirarlo, ci credette; pur di vivere quell’avventura romantica che si era imbastita non fece caso allo squallore della scappatella con Rodolphe. E finì avvelenata.
E pensare che l’antidoto a questo veleno si poteva trovare facilmente, distillando un po’ dell’ Etica di Spinoza; non un romanzo (qualcuno ha detto che non esistono romanzi sugli amori felici), e nemmeno un libretto di istruzioni o un decalogo che insegni a sfuggire alle relazioni fallimentari. Ma un libro per lettori coraggiosi; un libro petroso che, se lo si ascolta bene, può curare molti dei mali che nascono quando si vive prigionieri del luogo comune secondo il quale l’amore deve far soffrire.
Di Spinoza non si ricordano grandi amori. Le lettere raccolte dagli amici con cui coltivò una lunga corrispondenza dal suo esilio di reietto dopo lo herem, il decreto che lo «scomunicò», sono scritti dottrinali, con qualche fortuito scorcio sulla sua vita nascosta - troppo poco, però, per poterne ricostruire le vicende. Tutte le biografie ce lo consegnano come una sorta di santo eretico, un saggio stoico capace di condurre una vita esemplare, sobria e morigerata. Strana figura, quella di Spinoza, l’ateo virtuoso che sarà riesumato, ancora avvolto nel suo odore di santità, da un gruppo di giovanotti inquieti nella Germania di fine Settecento. Ma Spinoza dell’amore ha detto una cosa fondamentale: che amare non significa possedere l’altro, ma vederlo così com’è, comprendere che esiste al di fuori di noi; e quindi che l’amore vero non fa soffrire, ma anzi, è pura gioia.
L’ Etica parla molto di amore, ne costruisce una vera fenomenologia. L’amore è per Spinoza il motore di quella comprensione del mondo che, sola, permette all’uomo di rendersi veramente libero. L’amore gioioso di cui parla Spinoza è tutto il contrario di una passione esclusiva che procede per slanci di insicurezza e narcisismo, che segrega e fa soffrire; l’amore di cui parla Spinoza è la strada per uscire da se stessi e addentrarsi nel mondo.
Spinoza è stato forse il primo filosofo a costruire un’etica che sapesse farsi beffe della morale come scienza che addomestica il corpo a una teoria di valori astratti; ha sovvertito i termini dell’antica opposizione monolitica fra passione e ragione.
L’amore non è necessariamente una passione, nel senso di qualcosa che si subisce, dice Spinoza, che inventa il concetto nuovo di affetto, e trasfigura così la nozione classica di passione aprendole la possibilità di trasformarsi in un atto di conoscenza. Se la passione ci getta in balia di quello che proviamo, l’affetto è un mezzo per capire e conoscere il mondo anche attraverso le emozioni che suscita in noi. Come i colori nascono da combinazioni di giallo, rosso e blu, anche la tavolozza degli affetti è fatta di tre affetti primari: il desiderio - una sorta di primordiale istinto di sopravvivenza -, la gioia e la tristezza. Se la tristezza è un negarsi al mondo, la gioia è uno slancio verso un legame più intenso con la realtà - per Spinoza, che usa una parola della Scolastica, perfezione.
Spinoza racconta un amore che è una pura espressione della gioia: una gioia particolare però, innescata dalla presenza di una causa esterna - l’oggetto dell’amore. L’amore, essendo gioia, ci rende più attivi, più «perfetti», più immersi nella realtà; ma non è possibile se non alla presenza di un altro, che coincide con lo scatenarsi di questa gioia. Simone Weil è stata perfettamente spinoziana quando ha scritto che l’amore ha bisogno di realtà; e che amare è riconoscere l’esistenza di altri esseri umani.
Qui inciampò la povera Madame Bovary: trincerandosi in un amore asfittico, non fece troppo caso alla causa esterna se non come a una proiezione delle sue fantasticherie scopiazzate dai romanzi, e non seppe allarmarsi quando quella gran passione, invece di renderla più attiva e più viva, la paralizzò, impedendole anche di indovinare quello che poteva passare per la testa di Rodolphe. Chi non riconosce l’esistenza dell’altro, infatti, è incapace anche di quell’esercizio di empatia che rende l’amore uno strumento di conoscenza dell’altro, ma anche di sé.
«Chi immagina che ciò che ama sia affetto da Gioia o Tristezza, sarà anch’egli affetto da Gioia o Tristezza», dice la proposizione 21 della terza parte dell’ Etica : l’amore induce un mimetismo che ci porta a provare, per empatia, quello che immaginiamo provi la persona che amiamo; a condividerne le paure, gli odi e gli amori. Ma questo slancio empatico sarebbe solo una prova di narcisismo - o di bovarismo - se non tenessimo ben fermo l’aspetto fondamentale della teoria spinoziana dell’amore: cioè il fatto che si può parlare di amore solo in presenza di una causa esterna, di un altro che sta fuori di noi.
Per amare davvero, bisogna accettare la distanza, il segno che l’oggetto del nostro amore è reale. Robert Musil, in una sua pagina quasi di diario, Percezioni finissime, racconta la scoperta vertiginosa di questa distanza che ci separa dall’altro. Lo scrittore è a letto, con la febbre, in una camera d’albergo; ascolta nel dormiveglia, senza vederla, la toilette della moglie che si prepara per andare a dormire; e sente per la prima volta, nel frusciare della camicia da notte, nelle forcine che cadono sotto la spazzola, la vita segreta di lei: «Con piccoli gesti incoscienti e innumerevoli, di cui non sai renderti conto, tu t’immergi in un vasto spazio dove nemmeno un soffio di me stesso t’ha mai raggiunta. Lo sento per caso, perché ho la febbre e ti aspetto».
La povera Emma Bovary non dovette mai guardare Rodolphe con questi occhi, né ascoltarlo così, nel buio; eppure, se l’avesse fatto, le sarebbe stata risparmiata la vita. La vita, magari; non quel pungolo di dolore che si cerca di anestetizzare, nel nostro tempo che demonizza la sofferenza, con terapie di coppia e poste del cuore e manuali di self-help, e che però fa parte anche dell’amore più gioioso. Nell’atto di comprendere e accettare l’inaccessibilità dell’altro, nel vedere il segreto di un’intimità senza desiderare di violarla o di annientarla, un dolore c’è. Un dolore sottile che - direbbe Spinoza - non si può domare a furia di ragionamenti, né cancellare con i sillogismi; ma viene abbracciato dall’amore vero, un affetto più forte della gelosia e della smania di possesso.
Solo se abbracciamo quel dolore, e troviamo il coraggio di guardare chi amiamo sapendo che non lo possederemo mai, possiamo provare a sfuggire all’epigrafe su cui Leo Longanesi ha fissato lo sberleffo di chi rifiuta per accidia la fatica della libertà: «Visse infelice, perché costava meno».
Mistica, filosofa, poetessa, la badessa di Bingen visse nel XII secolo e illustrò le sue profezie che anticipano Jung
Il Libro Rosso di Ildegarda la donna che volò via dal Medioevo
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 04.06.2016)
«Simon Pietro disse loro: Maria si allontani da noi, poiché le donne non sono degne della Vita! Gesù disse: ecco, io la trarrò a me per renderla maschio, perché anche lei divenga uno spirito vivo simile a voi maschi. Perché ogni femmina che diventerà maschio entrerà nel Regno dei Cieli». È il capitolo 121 del “Vangelo di Tommaso”, il più famoso dei testi gnostici ritrovati nel 1945 a Nag-Hammadi. L’insegnamento lasciato sepolto dal V secolo nell’apocrifo gnostico bizantino riaffiora in uno scenario medievale tedesco. Siamo all’inizio del XII secolo, in riva al Reno. La monaca benedettina siede davanti a uno scrittoio, sorretta dall’alto schienale di una sedia. È pronta a scrivere o trascrivere qualcosa: tiene in mano l’occorrente, due tavolette di cera nera a due colonne ciascuna. È nera anche la veste claustrale, su cui è drappeggiato
un mantello marrone, e le maniche della cotta bianca stringono i polsi che reggono lo stilo.
È lei stessa a ritrarsi così, nella miniatura in cui la grande ruota del firmamento scintilla di carminio e lapislazzulo, schiacciando in basso, in un piccolo riquadro illuminato, il minuscolo autoritratto dell’autrice. Il viso è rivolto verso la parte principale del foglio, che la sovrasta con la visione da cui traboccano “squame di fuoco lucido”, a ferirla «sotto forma di scintille».
Ildegarda, badessa di Rupertsberg presso Bingen nell’Assia, studiosa di scienze naturali, di medicina e di musica, nonché dello pseudo Dionigi Areopagita, scrittrice, compositrice, teurga, drammaturga, era dotata di talenti multiformi e affetta da violenti disturbi. «La forza delle visioni misteriose, segrete e stupefacenti » la tormentava da quando aveva cinque anni. Tacere ciò che vedeva e sapeva le aveva fatto trascorrere una giovinezza macerata nell’ansia e diventare col tempo sempre più «misera e debole, figlia di enormi sofferenze, tormentata da molte e gravi infermità corporali», come annota negli incipit dei suoi cosiddetti libri profetici, ora tradotti nella raccolta che consegna integralmente al lettore italiano le sue visioni: lo Scivias, il Liber vitae meritorum e il Liber divinorum operum (Ildegarda di Bingen, Visioni, a cura di Anna Maria Sciacca, prefazione di Enrico dal Covolo, Castelvecchi).
Dettate da una misteriosa voce e da lei solo compitate, per essere a loro volta trascritte con l’aiuto del vecchio monaco segretario Volmar, le visioni di Ildegarda sono affiancate in due manoscritti - quello di Wiesbaden, perito nell’incendio del 1945 e sopravvissuto solo in copia, e quello della Biblioteca Governativa di Lucca, identificato da Tritemio e ancora oggi consultabile in originale - dalle formidabili esplosioni di forma e colore delle miniature, che risalgono all’autrice e illustrano dal vero i paesaggi di una frastagliata geografia dello spirito.
Nel nastro policromo dell’illustrazione scorrono incessanti le schegge visive, “appuntite, piccole e grandi”, di una tradizione universale, si dilatano “sfere d’ombra e cerchi di luce”, roteano mandala, si serrano labirinti, si schiudono meandri, e le geometrie astratte si popolano di figure ermetiche e di presenze animali. Un bestiario che si è tentato invano di interpretare, accostandolo ora a quello dell’Apocalissi di Giovanni, ora al medioevo fantastico delle cattedrali tedesche, ora ai bestiari, agli erbari, alle tabulae della tradizione tardoantica, o perfino alle allegorie della Commedia dantesca o al Libro rosso di Jung.
«Nel millecentoquarantunesimo anno dall’Incarnazione di Gesù Cristo, quando avevo quarantadue anni e sette mesi», si legge nella prefazione allo Scivias, «un globo di fuoco abbacinante, proveniente dal cielo aperto, invase tutto il mio cervello e pervase il mio cuore e il mio petto come una fiamma che non ustiona, ma scioglie nel suo calore immenso».
Ildegarda udì una voce chiamarla homo: «L’uomo che ho voluto e ho scosso per mio arbitrio e capriccio con meraviglie più grandi dei segreti degli antichi», diceva la voce, «l’ho steso a terra, perché non si rialzasse in esaltazione di spirito. Il mondo non ha prodotto in lui né gioia né diletto, né progresso nelle cose che gli erano sue, perché l’ho privato di qualsiasi aggressività e ostinazione, facendolo rimanere timoroso e spaventato, senza alcuna sicurezza di sé, in preda al senso di colpa».
Fu così che Ildegarda si consentì di consegnare alle parole e alle immagini ciò che fino ad allora non aveva «manifestato a nessuno, ma serbato per tutto il tempo in silenzio».
Impiegò dieci anni a trascrivere ciò che in quei «momenti rovinosi del suo cuore » lei, uomo, vedeva e sentiva non «secondo l’intelligenza dell’inventio umana e nemmeno secondo la volontà di comporre umanamente, ma secondo il tenore della parola così come è voluta, mostrata, descritta» da un’entità più grande e profonda «che sa, vede e dispone ogni cosa nel segreto dei suoi misteri»: secondo la visione «non del cuore o della mente, ma dell’anima», còlta «non in sonno né in estasi», ma «da sveglia, con occhi e orecchie umani», e però “interiormente”, in “luoghi scoperti” dentro di sé. È in questo modo che Ildegarda diventò maschio e realizzò il comandamento gnostico del Vangelo di Tommaso.
Nel secolo di Federico Barbarossa, che consigliò e sfidò, e di Bernardo di Chiaravalle, con cui corrispose e che la ammirò, ingaggiò le gerarchie ecclesiastiche cattoliche con tale coraggio e tanta abilità da non venirne mai considerata eretica, ma anzi eletta a autorità dottrinale e ascoltata nei sinodi. Le sue prediche risuonavano a Treviri, a Colonia, a Liegi, a Magonza, a Würzburg, a Metz; i suoi drammi e poemi sacri nelle chiese di tutta Europa.
Era detta la Sibilla del Reno anche per la chiaroveggenza che esercitava in politica, quando imperatori e papi le si rivolgevano a consulto, di persona o nelle lettere ancora oggi conservate dal suo prezioso epistolario.
La scrittura “maschile” di Ildegarda è solo uno degli esempi di quella grande e formidabile tradizione femminile, fino a poco tempo fa misconosciuta o marchiata dal sigillo della pura irrazionalità, che è la letteratura delle mistiche. Ildegarda è solo un combattente, anche se indubbiamente di alto grado, nell’esercito di donne colte e sofisticate, dal carattere libero e dalla prosa superba, che da Eloisa a Margherita Porete, da Angela da Foligno a Brigida di Svezia, da Caterina da Siena a Maria Maddalena de’ Pazzi, da Margherita Maria Alacoque a Veronica Giuliani alle due Terese, d’Avila e di Lisieux, ha sfidato le oppressioni della cultura dominante. Donne che furono giudicate anoressiche, isteriche, forse epilettiche, ma attraverso le quali l’intelligenza e l’indipendenza femminili hanno sfidato secoli di oscurità.
«È donna chi non ha l’intelletto maschio che sradica dalla sua memoria tutte le passioni, che sono femmine, chi non sa servirsi di quella sola collera, che è potenza dell’anima distruttrice dei pensieri», aveva scritto nel quarto secolo Evagrio Pontico nelle sue Centurie (47).
In questo senso, quella delle sante mistiche è il più grande esempio, forse, di letteratura autenticamente maschile.
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986):
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Elvio Fachinelli. Al cuore delle cose
di Enzo d’Antonio (Satisfiction, 15.04.2016)
Interrogare in profondità la realtà, l’attualità, la storia collettiva e le storie individuali con lo sguardo attento a coglierne i momenti di discontinuità, le cesure irriducibili a spiegazioni rassicuranti, indisponibili a rientrare nei vari recinti ideologici che l’epoca mette a disposizione, unendo alla perspicacia dell’analisi la partecipazione e l’empatia di chi si colloca dentro le cose, per cambiarle. Il titolo della raccolta di scritti politici di Elvio Fachinelli, Al cuore delle cose, allude a questa duplice attitudine dello psicanalista di Luserna, che come scrive il curatore Dario Borso nella sua breve quanto esauriente introduzione al libro, “di Musatti, ergo di Freud, adottò lo sguardo obliquo, lo scarto del cavallo che spiazzato sa spiazzare”,e lo utilizzò nella sua attività di “analista” della società italiana dagli anni Sessanta fino alla morte, nel 1989.
La raccolta comprende la totalità dell’attività pubblicistica di Fachinelli, vale a dire gli articoli (oggi introvabili) comparsi su settimanali e quotidiani, dall’Espresso al Corriere e Repubblica, e testi più complessi composti per riviste come, tra le altre, i Quaderni Piacentini e L’erba voglio, da lui fondata con Luisa Muraro e Lea Melandri. Ma che gli scritti si concentrino sul commento dell’attualità o affrontino questioni teoriche, lo stile del pensiero appare sempre volto ad allargare lo spettro della comprensione per cogliere i nessi tra i fenomeni, “macro” o “micro” che siano; per arrivarne al “cuore”, ovvero per salvarli anche e soprattutto nel loro sottrarsi alle spiegazioni consolidate.
Così, in un intervento a caldo sul movimento del ’68 Fachinelli sgombra il campo dall’assimilazione della lotta contro la repressione e l’autoritarismo alla ribellione alla figura paterna (già al tramonto), e sulla scorta della distinzione lacaniana tra desiderio e bisogno coglie la novità del movimento nella dialettica del desiderio all’interno dei gruppi che attuano la rivolta; mantenersi in stato di desiderio dissidente, mai appagabile, paritario per tutti, eliminando la figura del leader, spostare sempre in avanti gli obiettivi: ecco la condizione necessaria di sopravvivenza nel tempo del gruppo, del suo costituirsi come movimento politico, e della sua discontinuità e novità rispetto ai movimenti precedenti, che l’ortodossia marxista non comprende. Un’interpretazione nuova e appunto spiazzante, come lo è la conclusione, affidata a un’intervista rilasciata vent’anni dopo, nel 1988: il gruppo chiuso, spiega Fachinelli ripercorrendo la sua esperienza, ha prevalso su quello aperto, il processo di accomunamento è stato soffocato dal bisogno di sicurezza interna. Da qui la frammentazione e debolezza del movimento, che rinvia la rivoluzione futura.
Ma, avverte Borso, questo libro è come “un mosaico, o più ancora un puzzle”, e così vediamo in vari luoghi riaffacciarsi, assieme a molti altri temi che si rincorrono per variazioni e rimandi da un articolo all’altro, questo del desiderio dissidente, o meglio dei “resti notturni della vita dell’uomo, quella parte di scarto che, partendo dal sogno, dalla fantasia, dal desiderio, tende la realtà e risulta irriducibile all’esistente” nella sua relazione creativa con la vita politica e la produzione culturale, di cui Fachinelli è l’appassionato cronista.
Così, da un rimando all’altro scorrono le pagine del libro e trent’anni di realtà italiana, finché arriviamo all’ultimo articolo, scritto nell’anno della morte: un apparentemente enigmatico ritratto di don Abbondio, anzi della sua ben nota mancanza di coraggio, che poiché non può darsi da sé né ricevere dall’esterno (Dio), non complicherà mai la tranquillità e continuità della sua esistenza terrena. All’ombra di questo paradosso riposano inerti pensiero e azione. Per Don Abbondio la viltà è “prudenza” e il coraggio nient’altro che “imprudenza”, utopia, un “voler raddrizzare le gambe ai cani”. Insomma, estremismo politico.
A questo punto, giunti alla fine, tornano in mente le riflessioni di metà anni Settanta sulla situazione di stallo della politica italiana, che solo “piccoli gruppi animati soprattutto da ciò che a tutti gli altri sembra straordinaria imprudenza” possono aiutare a modificare. Come quel piccolo gruppo che avvia l’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano, esperienza di cui Fachinelli è protagonista e che racconta in una densa forma diaristica (Elvio cacato); o l’altro di via Ciovassino, col quale avvia una riflessione inedita sul diffondersi tra i giovani dell’eroina. E capiamo allora il senso etico del coraggioso tentativo di Elvio Fachinelli di combattere i narcotici effetti della “prudenza” sul pensiero e la vita dei suoi simili.
Enzo d’Antonio
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anche in queste cose quanto ristretta, impaurita, e alla fine irrazionale, la tesi razionalistica del sogno come elemento “marginale”, separato dalla realtà. Il sogno invece come elemento permanente su cui si costruisce, e contro cui si costruisce, la realtà E quindi: sempre obbligato; sempre pertinente alla situazione data.”
Una raccolta di scritti politici ripropone la figura di Elvio Fachinelli, psicoanalista originale che mette in discussione un pilastro della lezione freudiana
L’inconscio alla ricerca di una nuova lingua
La parte più nascosta di ognuno non è la sede dell’irrazionale. Bensì l’occasione di trasformazione del soggetto
È utopico pensare di costituire nel sociale relazioni di eguaglianza tra non uguali? Delle comunità di non alienati?
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 13.04.2016)
La recentissima pubblicazione di alcuni scritti politici di Elvio Fachinelli, curati con attenzione dal filosofo Dario Borso, col titolo semplice ma suggestivo “Al cuore delle cose” (Derive Approdi), suggerisce un bilancio dell’opera di una tra le figure più notevoli e originali della psicoanalisi italiana. Fachinelli si è ricollegato per primo in Italia, sebbene in modo mai scolastico, ad alcune profonde intuizioni di Lacan conferendo loro uno sviluppo singolare. Fra tutte lo sforzo di costruire una nuova lingua della psicoanalisi. Il suo codice si è, infatti, logorato, cristallizzato, è divenuto un tecnicismo privo di vita. Si rilegga in questa luce la breve ma folgorante introduzione a La freccia ferma (1979) dove Fachinelli dichiara di mettere tra parentesi la terminologia psicoanalista classica, al fine di poter seguire il filo di una interrogazione originale che in quel libro egli muove sul senso del tempo.
Ma il punto dove più sensibilmente si manifesta il lacanismo originale di Fachinelli concerne la concezione dell’inconscio. Come per Lacan anche per lui l’inconscio non è l’istintuale, l’irrazionale, l’animale che un rafforzamento pianificato dell’Io - posto come obbiettivo principale della terapia analitica - dovrebbe governare sino a sedare. L’inconscio non è il luogo di una minaccia che deve essere scongiurata, ma di un’apertura che può diventare un’occasione di trasformazione del soggetto. Più radicalmente, per Fachinelli la dottrina psicoanalitica è stata colpevole di essersi eretta come una vera e propria “difesa” nei confronti dell’inconscio finendo per perdere il contenuto più specifico della propria invenzione. La sua tesi diventa sempre più chiara e audace col passare degli anni. Quello che in La freccia ferma attribuiva a una certa degenerazione scolastica della psicoanalisi, in La mente estatica (1989) viene descritto come un problema già presente nell’originaria posizione di Freud. Per Fachinelli la psicoanalisi stessa, già con Freud, tende a difendersi dall’inconscio, non essendo altro che un tentativo (“infantile”) di arginarne la forza eccedente.
L’apertura di La mente estatica, nell’intensissimo racconto fenomenologico delle proprie percezioni sulla spiaggia di San Lorenzo, pone al centro l’interpretazione della psicoanalisi come barriera, argine, difesa nei confronti dell’eccedenza dell’inconscio. La sua tesi è chiara: «La psicoanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità: quella di difendersi, controllare, stare attenti, allontanare... Ma certo questo è il suo limite: l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno. Bardato, corazzato».
Questa “apologia della difesa” anziché rendere possibile l’incontro con l’inconscio come occasione, apertura, desiderio, finisce per sbarrarne l’accesso. È la metafora, giudicata da Fachinelli “soffocante”, che Freud offre dell’inconscio come “salotto” borghese separato dall’”anticamera”. Metafora «triste come la sua casa in Bergstrasse, con la finestra dello studio rivolta a un muro di cemento».
Come intendere l’inconscio senza ricondurlo paranoicamente a una minaccia? In diverse occasioni Fachinelli ha ricordato l’importanza della rilettura lacaniana del famoso detto di Freud Wo es war soll Ich werden ( tradotto da Cesare Musatti in italiano: «Dove era l’Es, deve subentrare l’Io»). Quello che Fachinelli trova decisivo di questa lettura è l’accento nuovo che Lacan pone non tanto sull’Io come istanza deputata a bonificare l’Es, ma sull’Es come luogo di una apertura inedita, di una possibilità nuova e, al tempo stesso, antica, scritta da sempre, che chiama il soggetto alla sua ripresa, alla sua soggettivazione in avanti. Fachinelli si spinge a pensare, con Lacan, l’inconscio all’avvenire e non più come mera ripetizione del già stato. Così in La mente estatica può scrivere che il sogno non è solo la ripetizione di tracce mnestiche già scritte, ma il testimone di «ciò che vuoi essere» e di «ciò che puoi essere ». Si tratta di cogliere «l’inaudita penetranza dell’inconscio», la sua capacità di «creare il futuro», di «osare».
Un secondo grande tema della riflessione di Fachinelli, presente anche in questa raccolta di scritti politici, è il legame sociale, o, più precisamente, la possibilità di realizzare una comunità umana non alienata: «È possibile emancipare le relazioni tra chi gestisce il potere e chi lo subisce essendone escluso? È utopico pensare di costituire delle relazioni di eguaglianza tra non uguali?», si chiede Fachinelli. La relazione di uguaglianza non può essere una relazione che appiattisce le differenze ma che le emancipa dalla dipendenza. La relazione di uguaglianza non può mai essere relazione tra uguali. Non si dà, infatti, Comunità possibile se non sullo sfondo di una impossibilità condivisa: l’impossibilità della Comunione, di fare e di essere Uno con l’Altro, di scrivere il rapporto sessuale, direbbe Lacan.
È questo un tema decisivo in Fachinelli (la sola condizione in comune è l’impossibilità del comune) che troverà, in anni più recenti sviluppi considerevoli. Ma la particolarità psicoanalitica della riflessione di Fachinelli consiste nel mettere in connessione la problematica della Comunità con quella della femminilità. La versione dell’inconscio di Freud risente, infatti, di una priorità del “sistema vigilanza-difesa” che denuncia una chiara “impostazione virile”. La sua alternativa sarà allora quella di dare ospitalità e accoglienza al femminile come luogo dell’eccesso.
Si tratta di un movimento di apertura che riguarda innanzitutto gli psicoanalisti e la psicoanalisi: «Accogliere chi? Un ospite interno. Accoglierlo prima di esaminarlo ed eventualmente respingerlo. Intrepidezza, atteggiamento infinitamente più ricco e alla fine forse più efficace della prudenza di chi edifica muraglie». Questa accoglienza è un nome del femminile: «Diminuzione della vigilanza, allentamento della difesa». Si tratta, ancora una volta, di mettere in movimento “un’altra logica”. Di nuovo risorge forte il problema della lingua, di un’altra lingua per la psicoanalisi. «Come scrivere tutto questo?», si chiede Fachinelli. Come dare figura all’eccedenza del femminile? All’ospite che ci attraversa? «Vento sulla fronte, rombo del mare, luce torpore, pensiero dell’accettazione, gioia con senso di gratitudine, verso chi?».
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IL LIBRO Fachinelli Al cuore delle cose ( a cura di Dario Borso, Derive Approdi, pagg. 250, euro 18)
Essere giusti con Freud
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 23.04.2016)
Fabio [Elvio, fls] Fachinelli è stato una figura significativa della Società Psicoanalitica Italiana tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Pensatore elegante e originale, era poco incline all’ortodossia. La sua morte prematura privò la psicoanalisi del nostro paese di una voce «fuori dal coro». Massimo Recalcati, analista lacaniano, gli ha tributato recentemente un giusto riconoscimento. Nel farlo, ha sottolineato la sua presa di distanza dalla concezione freudiana dell’inconscio. La critica di Fachinelli a Freud, che Recalcati condivide e rilancia, seppure colga una prospettiva importante, lo fa a spese di una valutazione giusta del criticato. Questo non è privo di conseguenze: la critica che non coglie bene il suo bersaglio, non coglie bene neppure la propria prospettiva.
Dire che l’inconscio non è una minaccia, ma il luogo di un’apertura dell’essere che può trasformare il soggetto, è giusto. L’affermazione che secondo Freud l’uomo deve difendersi dal suo inconscio, arginarlo come pericolo interno, è infondata. Freud aveva una concezione omeostatica dell’apparato psichico: privilegiava la capacità della psiche di mantenere l’equilibrio del suo lavoro (la rappresentazione della realtà sul piano affettivo e ideativo) al variare delle condizioni esterne. Delle spinte pulsionali, alloggiate nell’inconscio, non aveva una percezione paranoica, considerava insidioso il loro conflitto con la realtà esterna. Nel suo modo di pensare l’essere umano è sano quando riesce a tener conto della realtà senza reprimere troppo le spinte vitali che vengono dal suo corpo.
Nella prospettiva freudiana l’Io, l’istanza dell’apparato psichico preposta all’autoconservazione, deve prevenire «un soddisfacimento pulsionale immediato e senza riguardi per nulla e nessuno» che rovinerebbe il rapporto con il mondo esterno, mettendo in discussione sia l’appagamento del desiderio sia quello del bisogno e quindi anche la sopravvivenza fisica del soggetto. Nello svolgere questa funzione l’Io non si comporta nei confronti delle pulsioni come se dovesse sbarrare l’accesso a un invasore. Nella metafora che Freud ha usato per rendere chiara la sua asserzione che “L’Io non è padrone in casa propria”, l’Io è il Re, la coscienza è il primo ministro e le forze pulsionali e i processi inconsci ad esse associate sono il popolo. L’Io è un monarca costituzionale che governa in nome e per il bene del suo popolo. Non ascolta solo il primo ministro.
Con la sua celebre asserzione «Dove era l’Es, l’Io deve avvenire», Freud non intendeva affatto dire che l’Io dovesse «bonificare» l’Es (l’inconscio pulsionale) come sostiene Recalcati, sulla scia di un accostamento tra Fachinelli e Lacan. L’Io era visto da Freud come prodotto di una differenziazione dell’Es che tiene conto delle condizioni oggettive dell’esistenza umana: deve crescere nel luogo dell’Es, come la casa si innalza sulle sue fondamenta. Tra l’Io e le forze pulsionali Freud non ha immaginato una divisione insormontabile, una barriera di difesa contro un nemico. Ha visto il loro rapporto in termini di continuità nella discontinuità, come processo di trasformazione perenne della materia umana. Questo processo è la matrice della nostra reale apertura al mondo, che alle sue radici è inconscia.
Il limite vero nel discorso di Freud deriva dal suo percepire l’apertura prevalentemente come rischio e dall’inclinazione conseguente a interpretare il piacere come ritorno dell’organismo a uno stato di equilibrio precedente. Ancorando, tuttavia, i processi trasformativi nel rapporto con la realtà, egli si allontanò da una concezione metafisica dell’inconscio.
GLI OFFENDICULA DI PIPPO BAUDO
di Elvio Fachinelli *
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L’analista cammina sulla superficie liscia e lucente dell’intervista all’uomo-spettacolo e non incontra ostacoli. Finché, a un certo punto, urta contro un sassolino roseo, anzi Rosa... È un nome, il nome della zia Rosa alla quale è stata dedicata persino una canzone e che ci viene presentata dall’attore-giornalista come una figura di «ballerina», di «complice» nell’ambito familiare. Possiamo da ciò arguire che si tratta di una persona accettante, consenziente, entusiasta delle imprese «esibitive» del bambino Pippo Baudo? Se così è stato, e non sembra eccessivo affermarlo, allora abbiamo davanti una figura di madre chiamata a compensare le difficoltà suscitate dalla madre vera, matriarca ostinata e severa, capo della casa, che non ha mai visto di buon occhio - perlomeno fino a un certo punto! - l’attività di entertainer e si è augurata per il figlio qualcosa di più «serio», quanto meno la presentazione del telegiornale...
Di fianco alla madre «complice», avremmo perciò per il giovane Baudo un’altra madre - non approvante, forse vietante, forse giudicante - che provoca un rancore non sopito («Lo dico a costo di offendere mia madre, ma lo debbo dire»).
È un sassolino, si è detto, e si potrebbe ritenere senza alcuna importanza rispetto alla riuscita trionfale di Baudo, nata dall’esercizio e dallo sviluppo di un talento, di un gusto per lo spettacolo, di un piacere di stare in scena che risalgono alla primissima infanzia.
Ma qui l’analista incontra sulla sua strada un altro sassolino da nulla in apparenza, che questa volta è segnato da un grazioso nome latino: gli offendicula («bisogna mettere gli offendicula»). Termine non dei più noti e frequenti, che ha in sé qualcosa di elegante e impertinente insieme, degno di un umanista ironico. E che non ci aspetteremmo di trovare sulla bocca del popolarissimo presentatore di Domenica In.
Ermanno Rea, l’intervistatore, ha guardato nella sua libreria e vi ha trovato libri in serie, casuali, acquistati per fare arredamento. Sarà. Ma gli offendicula testimoniano che la mente dell’intervistato non è così uniforme come le copertine dei suoi volumi d’enciclopedia. Non è così liscia e piatta come l’immagine sul teleschermo dei suoi spettacoli. Vi si svolge in sordina quasi un dibattito tra aspirazione alla serietà, alla severità, al rigore, termini che ricorrono continuamente nell’intervista, e il principio dominante, assoluto, dello spettacolo a ogni costo. «Se la cosa fa spettacolo, m’interessa; se non fa spettacolo, non m’interessa». Se la cultura fa spettacolo, allora via libera a scrittori e intellettuali; sono richiesti e benvenuti; se non fa spettacolo, bocca chiusa. E Spinoza non fa spettacolo, ci vien detto in un punto dell’intervista; di conseguenza, lo si cancelli.
Ma Spinoza, cancellato, si vendica e mette gli offendicula; la sua severità si sposta sullo spettacolo: ed ecco allora che, quando Giorgio Bocca tuona contro la melassa delle domeniche televisive, il cuore di Baudo sanguina e si ode un grido: il mio spettacolo è serio, serissimo; è una sfida, una battaglia, un fronte di lotta. Il rigore della madre innominata si è insinuato nella madre ballerina e l’ha fatta incespicare.
Raccontare il discontinuo
ELVIO FACHINELLI. Psicoanalista di formazione freudiana, lo scrittore trentino è stato un interprete critico della società, contribuendo all’esperienza dell’educazione non-autoritaria di Porta Ticinese
di Marco Dotti (il manifesto, 05.03.2016)
Il 21 dicembre 1989, un giovedì, a Milano, moriva Elvio Fachinelli. In quelle ore, in un altrove che credevamo non ci riguardasse troppo ma coglieva forse meglio e certo più di tanti scenari il cuore infinitamente nero del nostro tempo che proprio Fachinelli aveva saputo indagare con il rigore eccentrico del flâneur, Nicolae Ceausescu, uno di quei piccoli uomini senza rigore e senza smalto che talvolta fanno la storia, si affacciava dal suo palazzo presidenziale e ripeteva una menzogna di lungo corso.
Nelle parole pronunciate in quello che fu il suo ultimo discorso pubblico, il conducător mostrava un misto di incredulità e disprezzo. Incredulità rispetto ai fatti di Timişoara, alle rivolte, ai minatori, allo sgomento per la «necessaria» repressione. Disprezzo per una una realtà che non solo gli era sfuggita di mano, ma proprio non vedeva più, continuando imperterrito a parlare di «società plurilateralmente sviluppata» e di «splendore del socialismo romeno». Il giorno dopo, di quello splendore e di quello «sviluppo onnilaterale» sarebbe rimasta solo la polvere. Il ritorno all’ordine non aveva avuto luogo. E noi, scomparso Fachinelli, avevamo uno sguardo in meno per cogliere ciò che davvero stava mutando fuori, dentro e persino oltre di noi.
Elvio Fachinelli era nato a Luserna, in Trentino, nel dicembre di sessantun anni prima. Aveva trascorso gli anni dell’infanzia a Melun, una cinquantina di chilometri da Parigi, dove si erano trasferiti i genitori - il padre era impegnato nel settore edile -, si era laureato in medicina a Pavia, specializzato all’Ospedale Maggiore di Milano dove conobbe Enzo Morpurgo, cominciò a lavorare presso una casa di cura, tra i suoi colleghi figurava anche Franco Fornari, e infine fu avviato all’analisi da Cesare Musatti. «Probabilmente, con i criteri attuali», osserverà Fachinelli, «sarebbe giudicata un’analisi selvaggia - come del resto le analisi fatte dalle prime generazioni di psicoanalisti. Eppure secondo me è stata una buona analisi: ho ricevuto sorprese, e questo per me è fondamentale in ogni analisi. Ho imparato e mi sono anche divertito».
Servirebbe tutta un’archeologia di quegli incontri e di quei - topologicamente parlando - «divertimenti» per capire il «dopo» di una delle teste più lucide e attive dell’altra cultura, quella né contro per posa, né dentro per vocazione. Semplicemente diretta al cuore delle cose. Confliggere - ma su questo si è detto e scritto tanto - non sarebbe mai stato «il» problema per Fachinelli che, editore, redattore, parte attiva di imprese al limite dell’utopia - ricordiamo l’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano, aperto il 12 gennaio del 1970 - non è stata figura di second’ordine nel panorama culturale italiano. Né apocalittico, né integrato Fachinelli mostrava una modalità atipica ma non esclusiva di venire ai ferri corti con le cose. Toccare il loro cuore era ben più necessario che colpire retoricamente al cuore un Moloch di per sé senza cuore.
Il «dopo», a partire dal 1967 ci consegna un Fachinelli già co-curatore della Traumdeutung freudiana per il primo volume delle Opere edite da Boringhieri. Ma a Fachinelli, nel 1965 divenuto membro della Società Psicoanalitica italiana e avviatosi alla professione di analista, non bastava l’interpretazione dei sogni. Bisognava muovere anche da un’altra urgenza: interpretare i segni. Soprattutto quando scendono in strada. Soprattutto quando più che i sogni, sono gli incubi a coprire con la loro ombra con quella cosa che - dopo il diluvio lacaniano - abbiamo persino timore di pronunciare: il reale. All’inizio del suo lavoro, Freud pose non a caso un esergo virgiliano tratto dall’Eneide, esergo che sarà sempre molto caro a Elvio Fachinelli che lo riprenderà in una memorabile puntata di Fuori Orario dove, nonostante la malattia avanzasse, continuò a tenere una rubrica fissa: «Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo». Se non posso smuovere i fiumi del cielo, muoverò quelli dell’inferno. In qualche modo, il rapporto col concreto e con la realtà fantasma che troppi, con l’alibi di Lacan hanno teso a ridicolizzare, era tenuto in massimo conto da Fachinelli, che al corteggiatissimo Lacan conosciuto a Roma e frequentato a Milano oppose un gran rifiuto, quando il 30 marzo del 1974 rifiutò l’investitura a presiedere la sezione italiana dell’École freudienne.
«L’incubo è reale, questa volta, ed è qui la sua importanza collettiva», scriveva Fachinelli in un testo pubblicato su L’Espresso il 7 novembre del 1971 con il titolo «Ritorno all’ordine». Parlava di un caso di cronaca, uno di quei faits divers che di lì a poco avrebbero invaso spazio e campo del sociale tutto, per non parlare del politico allora ritenuto autonomo da quel sociale. Parlava Fachinelli - ma senza la fredda anatomia del semiologo - della scomparsa di tre bambine a Marsala. Una di essere venne ritrovata morta alcuni giorni dopo, uccisa dallo zio. Ma questo si seppe solo fuori tempo massimo, dopo l’ennesima caccia al mostro. Dentro quel testo - ma si potrebbe dire in quasi tutti i sessantun articoli, interventi e microsaggi raccolti in volume - c’è già tutto. Quante volte l’abbiamo sentito dire?
Eppure è così e c’è da rabbrividire se confrontiamo i predicozzi deglj psicotutto da tastiera con i testi raccolti in Al cuore delle cose. Scritti politici(1967-1989) (DeriveApprodi, pp. 192, euro 17), per la cura minuziosa di Dario Borso, che in tre pagine tre di introduzione riesce a spiegarci Fachinelli più e meglio di tanto inchiostro e parole spesi in forma agiografica su di lui. Articoli brevi e lunghi, interventi e interviste spesso introvabili. Ritagli di giornale che si rianimano in un’inedita e attuale cornice di senso, ben oltre l’esperienza della rivista «L’Erba voglio», fondamentale certo ma non esclusiva del suo lavoro.
Il lavoro di collazione di Dario Borso è discreto, non straripante come si conviene al filologo e alla vecchia talpa che riaffiora a prender aria solo dopo tanto scavo, e proprio per questo ancora più utile se, come si spera, finirà tra le mani anche di lettori che di quei «formidabili anni» non sono reduci ma, tutt’al più, «prodotti». Se accogliamo l’intuizione del curatore secondo cui il paziente più complicato dell’analista Fachinelli «fu l’Italia, e il trattamento più lungo fu della realtà italiana», dobbiamo anche aggiungere che Fachinelli fugge sempre dalla boria sociologica e si concentra su fatti «grandi» ma con attenzione al minuto, al linguaggio, alle piccole crepe nella grande muraglia.
Borso parla non a caso di una psicoanalisi della domanda, invece che della risposta e di uno sguardo obliquo, appreso da Musatti e da Freud. Dell’Italia, «quasi fosse un quadro, seppe cogliere i particolari illuminanti, gli imprestiti da esperienze altrui, le persistenze di uno stile nell’alternarsi dei periodi: tre decenni tondi, che nella sua attività giornalistica sezionò e ricompose con sapiente tempestività». Un’attività giornalistica, disseminata non solo sulle riviste ma su quotidiani - Il Corriere della Sera, Il Giorno - su temi «caldi» come il terrorismo, Mao, le nuove droghe, la vita nelle metropoli, la mutazione dei cristianismi. Memorabile un suo ritratto, datato 1985, di Roberto Formigoni dove coglie sul nascere il «nuovo che avanza» e, dopo il 1989, si sarebbe affermato a pieno titolo nelle coscienze e in un immaginario antropologicamente mutato e sradicato persino nelle dinamiche del suo perenne mutamento.
Torniamo all’articolo pubblicato dall’Espresso. Fachinelli parla di un fenomeno che potrebbe essere dell’oggi, perché sempre l’oggi è la risultante di un processo di media o lunga durata. Se nella sfera pubblica ha spazio solo “chi lacrima e chi sanguina” come ebbe a dire un noto impresario brianzolo che di lì a poco sarebbe passato dalla speculazione edilizia a quella sull’immaginario e infine a una politica degna di Ubu, i nostri incubi privatissimi rischiano di assumere importanza collettiva e diventare tragicamente reale. Fatti su fatti, ma che cosa accade se ogni fatto - è questa la cronaca? - si inserisce «in una serie di altri fatti (politici, sociali, morali) che hanno in comune una sola cosa, ma essenziale: la circostanza di non avere soluzione, di non trovare sbocco? ». Viviamo - e non da ora - «tragedie in cui manca sempre l’ultimo atto». Incubi dove l’intensità della partecipazione collettiva consuma ogni desiderio.
Che fare? Siamo a un bivio. Oggi più di ieri, e sono passaro 45 anni. Da una parte, scriveva Fachinelli a proposito dei fattacci di Marsala, «ci si libera dall’incubo e si va verso una realtà accettabile. Questo vuol dire, per esempio, affrontare di petto quella serie di problemi collegati che si chiamano educazione sessuale, controllo delle nascite, liber zione della donna, critica pratica dell’istituzione familiare. È la strada meno probabile. L’altra è stare nell’incubo e vederlo progressivamente crescere e proliferare dentro la vita collettiva e dentro ogni individuo». Diagnosi impeccabile sul corpo di un’Italia malata. La cronicità del suo male, i tempi lunghi dello snervamento nulla tolgono alla ludicità attualissima delle diagnosi di Fachinelli. Nella miseria di chierici asserviti al selfie, tutt’al più la confermano.
Fillide, la donna che volle cavalcare Aristotele
di Donatella Cianci (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21/07/2013)
Aristotele ha parlato dell’akrasia, della debolezza della volontà rispetto alla virtù rafforzata dall’etica e probabilmente ne aveva fatto esperienza nella sua quotidianità con le donne. Una leggenda poco nota, forse la più stravagante di tutta l’iconografia aristotelica, lo raffigura anziano e piegato, mentre si fa cavalcare sulle sue spalle da una giovane donna.
La ragazza probabilmente era Fillide, “primadonna” esempio della debolezza filosofica, come ricorda lo studioso Infurna in un volumetto pubblicato per i tipi di Carocci, il quale sottolinea che i primi a parlare di questa vicenda, in Occidente, son stati Jacques de Vitry e Henri d’Andeli, quest’ultimo in un poemetto dei primi del Duecento, nel quale si dice: «Quella donna è bella davvero. Mi piacerebbe vedere come sta addosso. Rendimi questo servizio! Se presto arriverò alla fonte, volentieri ti concederò di baciare all’istante la mia bocca». La donna desiderava “cavalcare” uno dei più importanti filosofi dell’Occidente e ci sarebbe riuscita, probabilmente mentre il giovane Alessandro (poi divenuto Magno) se la spassava a guardare quanto l’anziano maestro avesse perso il senno per quella sua follia d’amore.
Un prezioso e originale volumetto a cura di Marco Infurna (Henri d’Andeli, Il Lai di Aristotele, Carocci, 2005) ricostruiva le origini di questa storiella, forse di origine orientale, poi approdata in area francese. In Italia l’episodio è ricordato da Brunetto Latini nei Livres dou tresor, da Paolo Zoppo e da Enea Silvio Piccolomini, fonti che raramente si menzionano. Nel XIV secolo la leggenda è invece citata da Francesco da Barberino nel suo trattato Del reggimento e dei costumi delle donne.
In ambito iconografico, come mostra un’ampia ricerca non ancora pubblicata, le raffigurazioni sono centinaia, una molto nota è quella che si vede a San Gimignano.
Ma come mai l’episodio ha avuto una tale ricezione? Certamente l’eccitazione e la passione amorosa del severo filosofo colpì i più curiosi, tanto che Bedier, nel 1926, pensò che Aristotele fosse impazzito a causa del suo intenso lavoro. Invece, come ricordato anche ne Il lancio del nano da Armando Massarenti (Come smettere di fumare, Aristotele vs Platone), Aristotele era conscio e tollerante verso la debolezza umana, verso la passione, concetto ribadito in studi degli anni ’90 di ambito anglosassone, che evidenziano una discrepanza fra il livello normativo e l’effettivo agire.
Infurna non fa riferimento alle fonti greche, ma è interessante notare come nella biografia aristotelica spunti il nome di una certa “Erpillide”, che fosse proprio Fillide? Il retore Alcifrone scrisse che lo Stagirita si stava facendo dilapidare il patrimonio da quella ragazzina: «Sei diventato matto Eutidemo, non sai dunque chi è in realtà quel saggio dall’aria così arcigna, che vi espone tutti quei discorsi elevati, ma quanto tempo credi che sia passato da quando mi ha dato il tormento perché vuole uscire con me? Tra l’altro, si fa consumare il patrimonio da Erpillide, la sua favorita di Megara». Dalla donna probabilmente Aristotele ebbe anche un figlio. Il nome torna anche in Eusebio, nel lessico Suda e persino nel biografo dei filosofi, Diogene Laerzio.
Per saperne di più:
Henri d’Andeli, Il Lai di Aristotele, a cura di Marco Infurna, Firenze, Carocci, 2005;
Raffaele di Cesare, Di nuovo sulla leggenda di Aristotele cavalcato: in margine ad una recente edizione del Lai d’Aristote di Henri de Andeli, Milano, Vita e Pensiero, 1956;
Id., Due recenti studi sulla leggenda di Aristotele cavalcato, Milano, Università Cattolica del S. Cuore, 1957;
Laura Dal Prà, Roberto Perini, Artigianelli, Il ciclo pittorico di Castel Pietra al tramonto dell’età cortese, Trento, Castello del Buonconsiglio. Monumenti e collezioni provinciali, 1992;
Le vie del gotico: il Trentino fra Trecento e Quattrocento, a cura di Laura Dal Prà, Ezio Chini, Marina Botteri, Provincia autonoma di Trento, Servizio beni culturali, Ufficio beni storico-artistici, 2002.
“Freud è un po’ invecchiato ma la sua cura aiuta ancora”
Secondo lo psichiatra Maurilio Orbecchi “l’analisi è morta”
Gli risponde Antonio Ferro, presidente della Società psicoanalitica
di Egle Santolini (La Stampa, 11.03.2015)
Ogni tanto, ogni poco, ad Antonino Ferro tocca il compito di replicare a chi dà per spacciata la psicoanalisi. In Italia è probabilmente il meglio accreditato a farlo, come presidente della Società Psicoanalitica Italiana, considerata la freudianamente più ortodossa. Eppure, come scoprirete tra poco, le classificazioni troppo rigide non servono a una comprensione del tema.
Ferro, ci risiamo. Nella sua Biologia dell’Anima, e in un’intervista a La Stampa di ieri, Maurilio Orbecchi mette una croce sopra alla cura freudiana.
«Mi verrebbe da dire che dev’essere ben viva e che deve continuare a dare un gran fastidio, la psicoanalisi, se in tanti si ostinano a voler vederla morta. Invece è in ottima salute, serve e continua a far star meglio le persone: il che è l’elemento decisivo. Le pare che continuerei a esercitarla se non funzionasse? Il problema, semmai, mi sembra un altro. E cioè: di quale psicoanalisi stiamo parlando?»
Di quella, immagino, nata a Vienna un centinaio di anni fa.
«Appunto. Che Freud ci ha lasciato come un organismo vivo, in continua evoluzione, e che nel giro di un secolo ha saputo adattarsi ai cambiamenti. Secondo lei avrebbe senso che un infettivologo del 2015 si dicesse pasteuriano? È la medesima cosa. Il rito classico, come uno se l’immagina, sopravvive soltanto in certe roccaforti lefreviane. Pensi per esempio allo stereotipo dell’analista neutro, che resta muto per decine di sedute».
Quello da barzelletta, da vignetta del New Yorker.
«Appunto. Una figura che non esiste più, se si escludono quelle famose enclave tradizionaliste. L’analisi è fondamentalmente la storia di una relazione, di un lavoro a due in cui si costruisce e si narra insieme. Ed è la relazione a guarire».
Ma non è sempre stato così?
«In teoria. Però agli albori della disciplina quello che prevaleva era una forte asimmetria fra paziente e terapeuta, con un’accentuazione dell’aspetto interpretativo e l’analista un po’ in veste sacerdotale. L’inconscio era considerato come un’isola inespugnabile, una specie di Alcatraz. E il sogno come un apriscatole».
Questa deve spiegarcela meglio.
«Ha presente quegli apriscatole antiquati, con cui facevi un buco nella lattina finendo sempre per tagliarti? Ecco: il sogno, “la via regia all’inconscio”, secondo la vecchia definizione, veniva usato un po’ in questo modo. Oggi si è capito che il male, la sofferenza, vengono da ciò che nei sogni non è nemmeno contemplato: elementi non espressi, non pensati, non elaborati».
Non la usate più l’interpretazione dei sogni?
«Può capitare. Succede che qualche volta un sogno lo si ri-narri assieme, lo si dipani come un racconto, lavorandoci insieme. Ma abbiamo tanti altri strumenti a disposizione, e lo scopo non è tanto quello di “interpretare”, quanto quello di instaurare un assetto affettivo con il paziente, di mantenersi sulla sua lunghezza d’onda. Quello che cura è l’aspetto emotivo della faccenda: in psicoanalisi, conta più la pancia della testa».
Il che tra l’altro leva alla terapia viennese quell’aura punitiva, da rigido collegio mitteleuropeo, che ogni tanto ancora la circonda. A proposito di vecchio armamentario, Orbecchi è particolarmente tranchant con il complesso di Edipo. Che, secondo lui, non esiste...
«Si tenga forte: quando sono con un paziente, penso a quello che mi sta dicendo e non a Edipo».
...e rifiuta il concetto di pulsione di morte, sostenendo che non ve n’è traccia nei primati non umani.
«Si tenga ancora più forte: nella mia esperienza professionale, non ho mai avuto il piacere di essere presentato alla pulsione di morte. So che molti miei colleghi ci lavorano a fondo, ma non è il mio caso. Crede che per questo sia passibile di espulsione dalla Spi? ».
Un caso interessante, visto che ne è, ancora per due anni, il presidente.
«Forse con quell’espressione si intende un insieme di sofferenze non trasformate, non elaborate, che sono appunto ciò che fa soffrire il paziente e con cui, quelle sì, facciamo i conti tutti i giorni. Ma non sono le vecchie formule ad aiutare a guarire».
Veniamo a un altro argomento di Orbecchi, il più deciso. La nemesi della psicoanalisi arriverebbe dalle neuroscienze, che fornirebbero tutte le spiegazioni sfuggite a Freud e ai suoi eredi.
«Considero le neuroscienze come universi meravigliosi, e tenga conto che io nasco come neurochimico. Resta il fatto che tra le neuroscienze e la sofferenza delle persone si apre una distanza siderale. Quello che può aiutare, piuttosto, è la neuropsicofarmacologia. Soprattutto da quando la psicoanalisi si occupa di patologie particolarmente severe: è frequente che, in una prima fase, ci si affidi a due terapeuti diversi, uno che cura con le parole e l’altro con i farmaci, fino a quando il paziente non sia in grado di fare a meno delle medicine. Gliel’ho detto: è un mondo che progredisce ogni giorno. Non confondiamo un vecchio carretto con un’astronave».
L’“errore” di Freud sui bambini
La ricerca di Ammaniti e Gallese sulla genesi dell’intersoggettività
“Comincia con la vita prenatale”
di Paolo Legrenzi (la Repubblica, 24.04.2014)
Freud pensava che il bambino molto piccolo fosse come un uccelletto, rinchiuso entro un guscio, felice con la sua riserva di cibo, isolato dagli stimoli del mondo esterno. Massimo Ammaniti e Vittorio Gallese mostrano che le cose non stanno così. L’uso dei metodi più diversi permette di costruire un’affascinante sintesi degli studi su La nascita dell’intersoggettività (che è anche il titolo del loro libro), del formarsi cioè di relazioni tra figli e genitori dal periodo prenatale fino all’infanzia.
Il saggio mescola la tradizione neuropsicologica, di cui Gallese è un esponente internazionale, con gli studi clinici, di cui Ammaniti è un ricercatore altrettanto affermato. I risultati smentiscono l’idea dell’uccelletto nel nido. Per esempio, abbiamo l’esame e la codifica delle reazioni di un padre e di una madre, seduti uno vicino all’altro, di fronte all’ecografia del loro figlio. Possono vedere sullo schermo i movimenti parziali del feto, cogliendo l’intenzionalità dei gesti e, talvolta, addirittura imitandoli inconsapevolmente. Il bambino diventa, durante la gravidanza, una sorta di “compagno segreto”, prendendo in prestito il titolo di un racconto di Joseph Conrad (1909).
Le ricerche di Massimo Ammaniti e Vittorio Gallese mostrano che nasciamo già predisposti per molte abilità di natura motoria. I linguisti giocano una partita più facile, nel senso che possono interagire con delle persone “parlanti”. Più difficili da studiare sono la fase prenatale e l’infanzia di un bimbo. E tuttavia, negli ultimi trent’anni, l’ingegnosità dei ricercatori e i progressi delle tecniche non invasive hanno permesso di scandagliare i primi meccanismi della comunicazione, quelli ancorati al corpo.
Per esempio, Merle Fairhurst, e altri ricercatori di Oxford, stanno facendo esperimenti servendosi di una sorta di pennello. Si possono modificare temperatura, flessibilità e altre caratteristiche dei peli del pennello, misurando così l’attenzione e il gradimento del bambino quando il pennello - più o meno veloce, caldo o flessibile - è fatto passare sul suo braccio. L’infante di nove mesi mostra di saper distinguere con grande finezza i casi in cui il pennello si muove poco delicatamente, oppure quelli in cui non ha la temperatura giusta. Questa capacità di discriminazione sembra innata, giacché i bambini di questa età non sono mai stati probabilmente sottoposti a carezze sgraziate.
Dal lato opposto della relazione, quello delle emozioni dei genitori, le nuove tecniche, di cui Gallese è un pioniere, registrano i diversi livelli di attività delle varie zone del cervello mentre la madre osserva immagini del proprio bambino e quelle di bambini sconosciuti. La maggiore concentrazione allo scopo di comprendere le emozioni dei propri figli, corrispondente ad attivazioni neurali più intense, conferma la teoria dell’attaccamento. Bowlby, fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, aveva individuato, nei primi mesi di vita, una predisposizione biologica volta a creare un legame con la figura materna.
L’importanza di questo saggio non si limita alle ricerche originali sulla nascita dell’intersoggettività, ma testimonia anche il superamento del Novecento. Nel secolo scorso, le varie psicologie si erano sviluppate per scuole indipendenti: la psicoanalisi da una parte, la neuropsicologia da un’altra, la psicologia sperimentale da un’altra ancora. Questa storia è finita, speriamo per sempre: merito di ricercatori come Ammaniti e Gallese.
http://www.inventati.org/apm/archivio/320/ERB/lerbavoglio.php
L’epoca senza Edipo
Il desiderio onnipotente di Deleuze e Guattari
Quarant’anni fa il testo dei due studiosi che ha fatto storia
Ma quelle tesi così decisive hanno avuto anche effetti negativi
di Massimo Recalcati (La Repubblica, 17.11.2012)
Quest’anno ricorre il quarantennale dell’uscita di un libro che fece epoca: l’Anti- Edipo di Deleuze e Guattari che uscì a Parigi nel 1972. Si tratta della più potente critica alla pratica e alla teoria della psicoanalisi mossa da “sinistra”. Oggi, come sappiamo, imperversa la critica conservatrice: contro la psicoanalisi vengono invocati la psicologia scientifica, il potere chimico dello psicofarmaco, l’autorità esclusiva della psichiatria nel trattamento del disagio mentale. Invece gli autori dell’Anti- Edipo (un filosofo già molto noto e un brillante psichiatra analizzante di Lacan con il quale ruppe bruscamente) non rimproverano affatto alla psicoanalisi di non essere sufficientemente scientifica nella sue affermazioni teoriche e nella sua pratica clinica, ma qualcosa di assai più radicale. Le rimproverano di essere al servizio del potere e dell’ordine stabilito.
La loro accusa è che la psicoanalisi dopo aver scoperto il “desiderio inconscio” ha volutamente ridotto la portata rivoluzionaria di questa scoperta mettendosi al servizio del padrone. Su cosa si reggerebbe il culto psicoanalitico dell’Edipo se non sull’obbedienza cieca alla Legge repressiva e mortificante del padre? Nonostante la violenza spietata degli Anti-Edipo gli psicoanalisti dovrebbero leggere e rileggere ancora oggi la loro opera come un grande vento di primavera.
Sotto la retorica rivoluzionaria della liberazione del corpo schizo, fuori-Legge, del “corpo senza organi” come macchina desiderante, come fabbrica produttiva del godimento pulsionale, questo libro contiene una serie di rilievi alla psicoanalisi che non si possono accantonare: la critica relativa all’uso paranoico e violento dell’interpretazione (se un paziente dice X vuole dire Y), una rappresentazione dell’inconscio come teatrino familaristico, chiuso su se stesso, che perderebbe di vista il suo carattere sociale e i suoi infiniti concatenamenti collettivi, una apologia conformista e moralista del principio di realtà e dell’adattamento come fine ultimo della pratica analitica, l’uso tutto politico del denaro che seleziona i pazienti in base al loro reddito, una valorizzazione del-l’Io e del suo principio di prestazione, eccetera.
Eppure questo libro va molto al di là di questo, perché ha mobilitato alla rivolta una intera generazione, quella del ’77. Quest’opera è una critica politica alla psicoanalisi che non promuove tanto una improbabile teoria alternativa a quella psicoanalitica (la schizoanalisi) ma una vera e propria teoria della rivoluzione dove “tutto è possibile”.
A questa teoria si sono abbeverati con entusiasmo i giovani della mia generazione. Foucault aveva dichiarato che il nostro secolo forse sarebbe stato deleuziano. Aveva ragione ma in un senso probabilmente molto diverso da quello che auspicava. Il deleuzismo è sfuggito dalle mani di Deleuze (come spesso accade per tutti gli “ismi”).
L’Anti- Edipo ha dato involontariamente la stura ad un elogio incondizionato del carattere rivoluzionario del desiderio contro la Legge che ha finito paradossalmente per colludere con l’orgia dissipativa che ha caratterizzato i flussi - non delle macchine desideranti come si auspicavano Deleuze e Guattari - ma di denaro e di godimento che hanno alimentato la macchina impazzita del discorso del capitalista.
Lacan aveva provato a segnalare ai due questo pericolo. In una intervista rilasciata a Rinascita nel maggio del 1977 a chi gli chiedeva un parere sull’Anti- Edipo rispose che «L’Edipo costituisce di per se stesso un tale problema per me che non penso che ciò che Deluze e Guattari hanno voluto intitolare l’Anti- Edipo possa avere il minimo interesse».
Lacan avverte che non bisogna premere il grilletto troppo rapidamente sul padre. La contrapposizione rivoluzionaria tra le macchine desideranti e la Legge, tra la spinta impersonale e de-territorializzante della potenza del desiderio e la tendenza conservatrice alla territorializzazione rigida del potere e delle sue istituzioni (Chiesa, Esercito, famiglia, psicoanalisi...) rischiava di dissolvere il senso etico della responsabilità soggettiva.
Per Deleuze e Guattari la parola soggetto è infatti una parola da mettere al bando, così come Legge, castrazione, mancanza. L’Anti-Edipo compie un elogio a senso unico della forza della pulsione che lo fa scivolare fatalmente in una prospettiva di naturalizzazione vitalistica dell’umano.
La liberazione dei flussi del desiderio reagisce giustamente al culto rassegnato del principio di realtà al quale sembra votarsi la psicoanalisi, senza accorgersi di generare un nuovo mostro: il mito della schizofrenia come nome della vita che rigetta ogni forma di limite. Il mito del corpo schizo come corpo anarchico, a pezzi, pieno, senza organi, costruito come una macchina pulsionale che gode ovunque, antagonista alla gerarchia dell’Edipo, si è tradotto nei flussi della macchina cinica e perversa del discorso capitalista.
Eppure l’Anti-Edipo a rileggerlo oggi è anche molto più di questo. Non è solo la celebrazione di un desiderio che non riesce a fare i conti con la Legge della castrazione. C’è una linea più sottile che attraversa questo libro e che la nostra generazione non è riuscita probabilmente a cogliere sino in fondo. È un grande tema dell’Anti-Edipo anche se non il tema centrale. Deleuze e Guattari lo ripropongono attraverso le parole dello psicoanalista Reich: «perché le masse hanno desiderato il fascismo? ». Problema che ritroviamo intatto già in Spinoza: perchè gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della loro libertà?
In Millepiani Deleuze e Guattari, quasi dieci anni dopo l’Anti- Edipo, devono ritornare sull’opposizione tra desiderio e Legge con una precisazione che avrebbe dovuto essere presa più sul serio. Attenzioni ai micro-fascismi, ai micro-edipi che s’insediano proprio là dove pensavamo ci fosse il flusso liberatorio del desiderio. «La madre - scrivono i due - può credersi autorizzata a masturbare il figlio, il padre può diventare mamma». Un’autocritica che suona anticipatrice dei nostri tempi.
Come Nietzsche avvertiva gli uomini che vivevano nell’annuncio liberatorio della morte di Dio del rischio di generare nuovi idoli (lo scientismo, il fanatismo ideologico, l’ateismo stesso, ogni specie di fondamentalismo), allo stesso modo Deleuze e Guattari avvertono che esiste un pericolo insidioso inscritto nella stessa teoria del desiderio come flusso infinito, come “linea di fuga” che oltrepassa costantemente il limite. Attenzione, sembrano dirci, che questa linea «non si converta in distruzione, abolizione pura e semplice, passione d’abolizione». Attenzione che questa “linea di fuga” che rigetta il limite non diventi una “linea di Morte”.
Denaro, potere e narcisismo: è tempo di rifondare le regole
La psicoanalisi al tempo della «speculazione sfrenata»
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, 24.05.2012)
«Uscire dalla galera terapeutica» e «prendere la via del largo» sono le colorite espressioni con le quali Freud, pur privilegiando il rapporto di cura, apre la psicoanalisi al confronto con altri ambiti disciplinari e a un più vasto contesto sociale. Un compito ineludibile negli anni 20-30 quando l’Europa si sta avviando, senza esserne pienamente consapevole, verso la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Saggi quali Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), Il disagio della civiltà (1929), Perché la guerra? Carteggio con Einstein (1932) rappresentano contributi fondamentali per comprendere l’interazione che intercorre tra individuo e società, mondo interno e mondo esterno, economia psichica e regole sociali.
Se ora quel compito si ripropone con forza è perché la crisi epocale che stiamo attraversando pone domande nuove e chiede più vaste assunzioni di responsabilità. Ne ha preso atto la freudiana Società psicoanalitica italiana decidendo, nel suo Congresso nazionale, non solo di affrontare temi inconsueti alla sua riflessione quali «Denaro, potere e lavoro tra etica e narcisismo», ma anche di sottoporli al dialogo e al confronto con istituzioni e protagonisti della scena sociale.
Benché eterogenei gli ambiti prescelti rivelano, alla luce dello scandaglio analitico, di condividere le dinamiche inconsce latenti in ogni esperienza umana. Sfuggendo al controllo della coscienza, l’inconscio introduce infatti, nei comportamenti individuali e collettivi, un fattore di onnipotenza che compromette, se non viene prontamente riconosciuto e governato, la razionalità dell’agire umano. Lo vediamo in atto nella speculazione finanziaria che produce a dismisura denaro dal denaro, lo riconosciamo nel potere che persegue forme di dominio assoluto, nel lavoro che cede alle esigenze del profitto, nel narcisismo patologico ove l’Io, oltrepassando l’amor proprio, si impone incondizionatamente, incurante delle esigenze altrui.
Lasciata a se stessa, l’onnipotenza, incapace di scegliere - in quanto scegliere significa limitare le pretese e rinunciare alle altre alternative - finisce per tradurre il tutto in niente, trasformandosi alla fine in impotenza, inerzia, stagnazione. Se ne colgono gli effetti psichici più gravi in situazioni di eccitazione incontrollabile oppure di blocco e di vuoto dove la vita sembra girare su se stessa, incapace di ammettere la propria insufficienza e di procedere verso obiettivi parziali. Per evitare i danni provocati all’individuo e alla società dalla dismisura e dalla cancellazione dei limiti, appare necessario approntare nuove regole, valide per gli individui e per la collettività. Ma prima di affrontare i processi di decostruzione e ricostruzione dei sistemi normativi, il programma del Congresso affida alla filosofia il compito di fondare la necessità e il fine delle regole.
Silvana Borutti, docente di Filosofia teoretica all’Università di Pavia, le radica nell’incompiutezza del soggetto umano, sempre esposto al riconoscimento degli altri per costituirsi e realizzarsi. Di qui la necessità e la funzione di norme, non solo proibitive, ma anche capaci, proiettandosi al di là dell’esistente, di aprire nuovi orizzonti di valore e di senso. Non sarà certo possibile rispondere ai tanti interrogativi suscitati dal tema prescelto, ma confronto e dialogo con studiosi e rappresentanti della realtà sociale potrà essere sorprendente. La psicoanalisi, dopo più di un secolo di ascolto, ha maturato un patrimonio di conoscenza e sapienza che può costituire un «sistema di riferimento» sul quale riflettere. Senza dimenticare che, come sosteneva Elvio Fachinelli, si tratta di un «sapere della domanda» più che della risposta.
Dopo lo slogan antiautoritario del ’68 «proibito proibire», di fronte a tante forme di deregulation, gli psicoanalisti freudiani valorizzano ora la funzione protettiva, contenitiva, strutturante delle regole. Anche nel momento più creativo l’artista riconosce le regole dell’arte, se non altro per infrangerle. L’ «elogio delle regole» rischia però di risultare regressivo e reazionario se non viene sottoposto a una analisi critica, se non si confronta con le esigenze di liberazione insite nel pensiero di Freud e dei suoi successori.
Di fronte all’eterna contesa tra Es e Super-io, tra istanze pulsionali e antipulsionali, l’analista, dice Stefano Bolognini, si propone, restando neutrale, di far raggiungere al paziente nuove forme d’equilibrio. Operando in un setting accuratamente regolato, la terapia psicoanalitica si propone come laboratorio sperimentale per un buon uso delle norme. Analista e analizzato si accordano infatti su spazio, tempo, denaro e la regola fondamentale delle libere associazioni.
Ma non tutto è negoziabile. Anche nell’analisi più democratica le posizioni restano asimmetriche: l’analista si colloca in una posizione più alta rispetto all’analizzante. Non per autoritarismo ma per senso di responsabilità verso il più debole, per tutelarlo e aiutarlo ad esprimere tutte le sue potenzialità.
Il paradigma di riferimento è quello parentale, riportato però alla forma edipica tradizionale contro le modalità paritetiche della famiglia tardo moderna, dove tutte le relazioni, come tra coetanei, si pongono come simmetriche. Ma in realtà non sono reciproche. Ho udito spesso un padre dire: «sono il miglior amico di mio figlio», mai il contrario.
Chi ha paura della psicoanalisi
Quella "cura speciale" contro le terapie brevi
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 08.03.2012)
Dopo il "Manifesto" dei quattro autorevoli esponenti delle scuole principali, ecco un’altra riflessione sul tema Si parla di uno statuto diverso, ma non si invoca una sorta di riserva indiana per chi è incapace di "essere scientifico" È vero però che c’è un rischio di declino e di emarginazione culturale dovuti a certi irrigidimenti dottrinali Le accuse non considerano come la disciplina abbia una sua specificità rispetto al soggetto
Da diverso tempo si insiste nel voler riporre la psicoanalisi come teoria dell’uomo e come pratica della cura nel museo delle cere dell’Ottocento denunciando senza peli sulla lingua l’impostura del suo padre fondatore. Freud stesso fu il bersaglio di pesanti diffamazioni e non gli sfuggiva affatto che questi attacchi erano la diretta conseguenza del fatto che con la sua invenzione aveva portato la "peste" nella cultura e nella società occidentali.
Quale "peste"? La peste di una disciplina che dà parola a ciò che solitamente viene confinato, esiliato, rimosso dalla nostra esperienza comune del mondo: alla dimensione singolare e irripetibile del desiderio, alla sua forza sovversiva, a ciò che sfugge al governo della coscienza, a ciò che ci parla in una lingua straniera (nei sogni come nei nostri sintomi), alla fragilità delle nostre certezze, prima fra tutte quella di crederci degli Io solidi e compatti.
Recentemente, in un articolo di qualche settimana fa apparso sul Sole 24 Ore, titolato emblematicamente L’autismo dei lacaniani, Gilberto Corbellini si era fatto interprete di un nuovo attacco rivolto alla psicoanalisi in generale e a quella lacaniana in particolare. Quale l’accusa? Niente di meno di quella di abuso di professione: non avete i mezzi per curare l’autismo! Le vostre teorie sono bislacche e, soprattutto, non curano! In un altro articolo più recente, apparso domenica scorsa sempre sulle pagine del Sole 24 Ore, Lacan viene definito senza mezze misure un "impostore", attraverso il ritratto (forse un po’ semplificato?) che ne offriva Alan Sokal.
Strano modo di procedere quello di Corbellini; invoca la serietà dello spirito scientifico, la necessità per la psicoanalisi di sottoporsi alla prova e al rigore della valutazione, ma per liquidare Lacan come un impostore, egli si limita ad invocare un solo studio che evidenzia certe incongruenze nell’uso che Lacan ha fatto degli strumenti della topologia di fronte ad una bibliografia immensa ed in continua crescita dedicata alla sua opera.
In gioco, beninteso, non è solo la clinica dell’autismo (che è stato il movente di questo recente attacco); si tratta, più radicalmente, della proscrizione della psicoanalisi come possibilità di cura. Un esercito composito sembra esigerlo: la psicologia cosiddetta scientifica, le terapie cognitivo-comportamentali, l’industria dello psicofarmaco, la deriva iperpositivista delle neuroscienze, la psichiatria organicista, e, soprattutto, il "discorso del capitalista" che esige terapie le più brevi ed efficaci possibili per ripristinare il funzionamento dei suoi consumatori.
In risposta a questa ennesima aggressione quattro autorevoli psicoanalisti - rappresentanti delle correnti maggiori della psicoanalisi contemporanea - hanno firmato un testo a sostegno della nostra disciplina (come è accaduto su Repubblica il 22 febbraio scorso), definita giustamente a "statuto speciale". Non si tratta dell’invocazione di una specie di riserva indiana dove gli psicoanalisti - incapaci di dimostrare l’efficacia dei loro mezzi di fronte al rigore della validazione scientifica -, chiederebbero, alla pari di "omeopati, astrologhi, erboristi, eccetera", diritto di cittadinanza (Corbellini dixit). Questo Manifesto rivendica qualcosa di assai più profondo. La psicoanalisi è una scienza e una pratica a statuto speciale perché vuole essere una cura del soggetto nella sua particolarità. La cura offerta della psicoanalisi non è una cura tra le altre.
La cura psicoanalitica non è finalizzata ad aggiustare la macchina del corpo o del pensiero come avviene nella cura medica tradizionale. Nei sintomi in gioco non è un semplice disfunzionamento della macchina del corpo o del pensiero, ma la verità scabrosa, infima, bizzarra, deviante del desiderio inconscio del soggetto. Lo psicoanalista accoglie innanzitutto la parola del soggetto senza censure, senza pregiudizi o giudizi morali, senza aspettative, senza pretese normalizzanti, e, soprattutto, senza imporre ad essa la propria.
Dove si trova oggi qualcosa del genere? Il beneficio terapeutico di una cura analitica avviene solo in "sovrappiù", come si esprimeva Lacan, a questo riconoscimento del valore della parola del soggetto dell’inconscio. Non è già solo questo principio di fondo sufficiente per distinguere la cura psicoanalitica da qualunque altra forma di cura dove il curante tende fatalmente a porsi come padrone di un sapere già costituito che verrà applicato al paziente secondo schemi oggi sempre più protocollari? Dove ciò che cura è spesso il potere suggestivo di un padrone? Non è questo principio sufficiente a mostrare come la cura psicoanalitica sia ispirata dall’esigenza etica di assegnare il massimo valore alla singolarità non-protocollare del soggetto? Non è questa forse una cura a statuto speciale? In questo senso la psicoanalisi agisce come un potente anticorpo nei confronti di quella medicalizzazione della vita di cui il nostro tempo ha fatto un nuovo e pericoloso idolo.
E con i bambini autistici? E con i casi gravi, con le anoressiche, con i tossicomani, con gli psicotici? Dobbiamo immaginare questi pazienti allungati sul divano a raccontare i loro sogni? Non scherziamo. Da tempo la psicoanalisi con i casi gravi avviene in un setting totalmente adattato alle esigenze di questi pazienti; si lavora negli ospedali, nelle istituzioni della salute mentale, nelle comunità terapeutiche, si lavora senza divano. A coloro che vogliono capire meglio cosa può fare la psicoanalisi per aiutare i bambini autistici - non a guarire dall’autismo, ma a trovare un loro modo per esprimere quella singolarità assoluta (non handicappata) che li costituisce come umani - invito a leggere una raccolta di scritti di analisti lacaniani con una lunghissima esperienza di cura dell’autismo: Qualcosa da dire al bambino autistico (Borla, 2011).
Certamente gli psicoanalisti non sono affatto estranei al rischio del loro declino e della loro emarginazione culturale. L’arroccamento nelle loro stanze ovattate, la pretesa di possedere una interpretazione totale dell’individuo e del mondo, l’irrigidimento dottrinale in scolastiche dogmatiche, il disprezzo aristocratico verso tutto ciò che non è psicoanalisi, o, ancora peggio, verso tutto ciò che non appartiene alla propria Scuola, la burocratizzazione della professione attraverso apparati istituzionali finalizzati a conservare il "già detto" più che alimentare la ricerca verso il nuovo, la formazione degli allievi ridotta ad indottrinamento, la difesa dei privilegi di casta (non aveva ragione Basaglia quando accusava la psicoanalisi di essere una terapia di classe?), la tendenza a sottovalutare l’impatto col reale dei processi storici ed economici, l’uso regressivo e ipnotico del transfert, un certo fanatismo nell’applicazione della teoria a casi gravi che richiedono una attenzione e una consapevolezza dei propri limiti diversa...
Tutto questo ha pesato e pesa sullo sviluppo di una disciplina sorta come una straordinaria difesa del carattere singolare e laico del desiderio che però ha spesso prodotto dogmatismi sulla soglia dei più feroci fondamentalismi! È un fatto che appartiene alla storia anche recente della psicoanalisi: come si spiega? Potrebbe essere che la psicoanalisi debba innanzitutto liberarsi da un suo fantasma di cui la tirannide del Maestro o il grigiore della burocrazia degli apparati rappresentano i poli diametralmente opposti. Questo sarebbe un tema serio di ricerca.
Per la prima volta il mondo analitico scende in campo per difendere una disciplina messa sotto accusa. Perché solo ora?
di Luciana Sica (la Repubblica. 22.02.2012)
Per la prima volta insieme. Allo scoperto. Escono dalle loro "stanze", non incassano come sempre, fanno sentire la loro voce. A dispetto di una storia infinita di litigi, scissioni, scontri, diffidenze, sospetti, accuse che da sempre attraversano (e indeboliscono) la psicoanalisi, di fronte a un paio di articoli giornalistici considerati l’ennesimo attacco alla loro disciplina, quattro analisti delle scuole più importanti sottoscrivono un documento, che noi qui pubblichiamo.
Il primo firmatario è Stefano Bolognini, al timone della Società psicoanalitica e ormai soprattutto primo presidente italiano dell’International Psychoanalytical Association (l’Ipa, fondata da Freud nel 1910, dodicimila iscritti in tutto il mondo). Notissima firma al femminile del mondo freudiano è Simona Argentieri, didatta dell’Associazione italiana di psicoanalisi. Antonio Di Ciaccia, allievo diretto di Lacan, è da noi l’autorevole curatore dell’opera del maestro francese. E Luigi Zoja, personaggio di segno cosmopolita dello junghismo, è autore di saggi coltissimi tradotti in una decina di idiomi.
Quattro nomi più che rappresentativi. Dietro di loro c’è una moltitudine di colleghi "indignati" per le accuse rivolte a un sistema di pensiero che - da Freud a oggi - si è evoluto in modo impressionante, e come metodo di cura e strumento di comprensione della realtà ha influenzato la cultura in ogni sua espressione. Ma quello che più sorprende è che gli analisti si decidano a una protesta così inconsueta e vistosa.
Perché solo ora? Da Popper a Grünbaum, da Nagel al Libro nero, fino al più recente pamphlet di Michel Onfray, la psicoanalisi è silenziosamente sopravvissuta a guerre "ideologiche" come a requisitorie serie e molto ben argomentate, alla moda diffusa d’intonare cori funebri come alla mania dei gossip sulla vita personale dei suoi fondatori. Soprattutto l’ondata trionfalistica del cognitivismo sembrava annunciarne la definitiva liquidazione, ma così non è stato, e anzi la psicoanalisi si è presa le sue rivincite culturali, grazie a studiosi geniali come i Nobel Edelman e Kandel, al dialogo con le neuroscienze, alla forza intellettuale e anche mediatica di "philostar" influenti come Slavoj Zizek. Inoltre è la psicoanalisi italiana che ha acquistato più prestigio, e non solo per il ruolo internazionale di Bolognini. Vorrà pur dire qualcosa se il Censis di De Rita ha bisogno di ricorrere alle metafore psicoanalitiche di Massimo Recalcati per "leggere" in profondità i mutamenti sociali.
Il resto è cronaca di questi giorni. Gli analisti non si sono entusiasmati alla lettura di un articolo uscito sul supplemento "Salute" del nostro giornale. E poi sono rimasti sconcertati dalla prosa di Gilberto Corbellini, su un recente domenicale del Sole 24 Ore. Lo storico della medicina, coautore dell’ultimo libro di Jervis, decisamente non gradisce la «perniciosa influenza, culturale e politica, della psicoanalisi. In modo particolare, degli esponenti di una delle sette psicoanalitiche più insidiose, cioè il lacanismo». Di qui la piccola significativa bagarre.
Uniti a favore di "una scienza a statuto speciale"
Ecco Il manifesto che mette insieme scuole diverse
Stefano Bolognini, Simona Argentieri, Antonio Di Ciaccia, Luigi Zoja (la Repubblica, 22.02.2012)
Alcuni recenti articoli giornalistici hanno ravvivato il dibattito sulla psicoanalisi mettendone in discussione lo statuto scientifico, l’utilità clinica e la legittimità sociale come metodo di assistenza e di cura nelle patologie gravi. Da molti decenni la psicoanalisi è descritta dai suoi detrattori come inattendibile, dannosa, parassitaria, epistemologicamente infondata, in procinto di scomparire... Piaccia o no, le cose non stanno affatto così. E seppure certe critiche non rappresentano una gran novità, questa volta vorremmo puntualizzare alcuni aspetti utili a un’informazione più corretta. E vorremmo farlo insieme, superando per una volta le divisioni e le differenze che appartengono alla storia del movimento psicoanalitico.
Intanto oggi la scienza è polifonica, critica e non conchiusa. Fa riferimento alla complessità, alla discontinuità, alle leggi del caos, alla casualità. Restringere lo studio della mente umana alle sole discipline psichiatriche e neuropsicologiche - che, sia chiaro, sono di enorme interesse anche per gli psicoanalisti - sarebbe riduttivo e arbitrario. La psicoanalisi è una scienza a statuto speciale che esplora non solo la dimensione inconscia (suo specifico storico e sostanziale), ma anche le relazioni della coscienza con l’inconscio, le interrelazioni profonde tra i vari livelli interni dell’individuo e dei diversi individui nella coppia, nel gruppo, nella comunità. Con la sua straordinaria evoluzione teorico-clinica, si è ramificata in varie scuole che hanno contribuito a descrivere e trattare aree sempre più specifiche del disagio mentale.
L’esperienza dell’analisi, ad ore e giorni convenuti (il setting), nei tre continenti storici (Europa, Nord America e America latina) e recentemente anche in Medio Oriente e in Asia (soprattutto in Cina), si basa comunque su una ricerca metodica e impegnativa del contatto con sé e il proprio inconscio. E ormai sappiamo bene che il recupero di una vivibile soggettività individuale - in molti casi di nevrosi, patologie narcisistiche, sindromi borderline, psicosi - è reso possibile da una relazione complessa e continuativa tra due persone, da un "lavorare insieme" su angosce, bisogni, dolori, desideri non riconosciuti. Certamente le patologie psichiatriche gravi, come alcune sindromi autistiche, richiedono adattamenti di tecnica specifici e mirati, e molto spesso la terapia che ne risulta non è affatto un trattamento psicoanalitico. Il nostro contributo riguarda di solito la gestione complessiva di casi in cui il paziente, la famiglia e gli stessi operatori della salute necessitano di un supporto che renda la loro dolorosa vicenda umana più comunicabile.
Oggi la psicoanalisi non è alla vigilia della sua scomparsa, ma è anzi decisamente viva. La sua sfida attuale è quella di contrastare nuove forme di attacco alla capacità di pensare e alla relazione tra le persone, che caratterizzano la nostra epoca. Gli esseri umani sono invitati in vari modi, impliciti ed espliciti, ad evitare il contatto con se stessi, a coltivare illusioni di onnipotenza e di totale autodeterminazione, ad identificarsi attraverso i media con idoli o gruppi idealizzati, a ritirarsi nell’uso della tecnologia virtuale, a privilegiare le difese maniacali considerando l’euforia e il piacere le uniche condizioni degne e normali della vita.
Configurare una funzione sociale della psicoanalisi potrebbe risultare velleitario, di fronte a fenomeni di questa portata. Ma la voce degli psicoanalisti ha un suo effetto nel tempo medio-lungo e produce cambiamenti profondi nella cultura: è accaduto in passato, potrebbe accadere ancora nel futuro. Quello che oggi va difeso, come assolutamente centrale, è il "fattore umano" e - anche nelle patologie più gravi - ogni residuo frammento di speranza.
Goce Smilevski fa una finta autobiografia tratta da una storia rimossa
La protagonista è Adolfine che ripercorre la sua vicenda dal lager
Il destino segreto delle sorelle di Freud dimenticate a Vienna
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 09.10.2011)
Rosa, Marie, Adolfine e Pauline furono le sorelle immolate al nazismo da Sigmund Freud. Le condannò per ignavia, trascuratezza, egoismo o per chissà quali segreti rancori familiari. Soltanto Anna, la maggiore, evitò i lager, emigrando in America nel 1889. Le altre quattro perirono in modo tragico e umiliante, in campo di concentramento, tra il 1942 e il 1943, mentre il loro celebre fratello si era spento nella quiete della sua bella casa inglese nel 1939, un mese dopo l’inizio della guerra. Semplicemente Sigmund aveva deciso di abbandonarle alla sventura. Già molto infragilito dal cancro, lo scienziato, dopo l’Anschluss, aveva ceduto alle pressioni della sua cerchia di devoti, che lo spingevano a lasciare l’Austria.
In principio aveva fatto resistenza, sentendosi troppo debole e anziano per andarsene da Vienna; poi convenne che era la cosa giusta. Per un personaggio tanto noto internazionalmente, non fu difficile trovare, in un paese come l’Inghilterra, la disposizione ad accoglierlo, e affinché i nazisti gli consentissero di partire vennero sollecitate molte prestigiose intercessioni, tra cui quella di Roosevelt. Ci fu tra l’altro il benevolo intervento di Mussolini, grande ammiratore di Freud. Quest’ultimo riuscì a salvaguardare la fetta più sostanziosa del suo patrimonio, incluse le amate collezioni di antiche statuette, che approdarono intatte a Londra, e si permise l’acquisto di Maresfeld Garden, l’abitazione oggi divenuta un museo, che in suo onore guadagnò un accessorio prezioso come l’ascensore.
L’aspetto incredibile di questa storia è che, lasciando Vienna, Freud aveva avuto la possibilità di portare con sé i propri cari, e nell’elenco che stilò per l’occasione figuravano la moglie, i figli, la cognata, le due assistenti, il medico personale con famiglia al seguito e persino il cane. Ma non le quattro povere sorelle.
Pur nel continuo proliferare di omaggi ad un eroe che non passa mai di moda (l’ultimo è il film, fastidiosamente iconografico, A Dangerous Method, di David Cronenberg, dedicato al suo incontro-scontro con Jung), è mancata sempre un’indagine seria riguardo alle cause di quest’inspiegabile episodio, sul quale le biografie tendono a sorvolare. Il principale agiografo del fondatore della psicoanalisi, Ernest Jones, scrisse, a proposito dell’orrenda fine delle quattro donne: «Freud, per fortuna, non avrebbe mai saputo nulla di ciò che sarebbe accaduto loro». D’altra parte Sigmund, commentava con ipocrisia lo stesso Jones, «non aveva alcun motivo di preoccuparsi delle sorelle, visto che all’epoca del suo trasferimento a Londra la persecuzione degli ebrei era appena cominciata».
Il giovane scrittore macedone Goce Smilevski (è nato nel 1975) si è ispirato a questa strana e rimossa vicenda per un romanzo di evidente asprezza, votato all’esplorazione della sorte di Adolfine. È alla sua voce che si affida l’intero racconto, plasmato come una finta autobiografia, e oscillante tra verità documentate e liberissime invenzioni. Pubblicato nel 2007, La sorella di Freud è stato subito un successo, e nel 2010 un suo estratto è apparso nell’antologia "Best European Fiction 2010", con un’introduzione di Zadie Smith. L’hanno comprato vari paesi, tra cui Inghilterra, Francia, Spagna e Stati Uniti, e ora sta per uscire in Italia per Guanda.
Nel lager di Terezin, dov’è rinchiusa in un assoluto stato d’infelicità e rimpianti, e dove si prepara con stoicismo alla morte (che sopraggiunge, nell’ultimo capitolo, come un tuffo finalmente lieve nell’oblio), Adolfine ripercorre la sua vita. Scorrono gli anni dell’infanzia, le tensioni all’interno della famiglia e lo speciale rapporto instaurato con Sigmund, poi sfociato in un allontanamento nell’adolescenza, quando tra loro si frappose un "qualcosa" che aveva molto a che vedere con la differenza di genere sessuale.
C’è l’amore disperato di Adolfine per Rajner, un ragazzo malinconico fino al torpore e con tendenze autodistruttive, e l’ansia martellante di una maternità mai realizzata. C’è la lunga amicizia con Klara Klimt, sorella del pittore Gustav, protesa in modo agguerritissimo e totalizzante, fino al martirio o al fanatismo, verso l’obiettivo di un mondo diverso per le donne, più paritario e giusto. C’è soprattutto il legame di Adolfine con sua madre, presenza angosciosa e punitiva al massimo, vera fonte del dolore esistenziale della figlia, perché in ogni vita ci sono ferite che scompaiono e altre che restano, ed è questo, forse, il tema-cardine del libro: l’idea di un danno primario, da considerare come il più autentico. Gli altri, andando avanti, ci colpiscono per suo tramite, e ogni seguente sofferenza trova la sua forza fin tanto che gli si avvicina. Il dolore di Adolfine aveva un nome, quello della madre, siglato nella sua memoria più profonda, e intimamente connesso ai tormenti successivi, come sgorgati da un’unica radice.
La sorella di Freud non è un romanzo "d’ambiente". Sprazzi della Vienna di quel periodo affiorano nelle dissertazioni sulla sessualità, sull’ebraismo e sul nascente femminismo, così come negli accenni all’opera freudiana. Ma Freud e Vienna sono soltanto un’occasione per un viaggio lungo il male oscuro di una donna schiacciata da un destino di passività. Ce lo restituisce una scrittura ruvida, insidiosa, ossessiva. E sempre consapevolmente disattenta alle ripetizioni. Un po’ come nello stile di autori quali Saramago, che sembrano voler abbattere i più gentili criteri della forma per dimostrare che è importante la sostanza.
RIFLESSIONE. ANGELA GIUFFRIDA: LA QUESTIONE MORALE E’ UNA QUESTIONE COGNITIVA *
La questione morale torna d’attualita’ a ondate successive senza mai trovare spiegazioni soddisfacenti e possibili vie d’uscita. La separazione millenaria fra affettivita’ e ragione ha finora impedito di scorgere la sua derivazione dal sistema di pensiero dominante. Basato sull’assunzione di dati singoli scorporati dal contesto e opposti fra loro, esso da’ origine ad una rappresentazione del mondo popolata da atomi irrelati, in eterno conflitto. Accade cosi’ che la ragione e la morale, assolutizzate ed entizzate perche’ prive di riferimento al corpo che le produce, diventino simili a monadi senza porte ne’ finestre.
Allo stesso modo il singolo si percepisce come un atomo isolato che ricava da se stesso forza e potenza, ignorando il fatto allo stesso tempo elementare e macroscopico che, come tutti i viventi, deve la sua esistenza ad una intricata rete di nessi inscindibili che lo legano alla sua come alle altre specie. L’individuo che scambia le persone per cose ed ha l’infantile convinzione che tutto cio’ che il mondo ospita esiste unicamente per soddisfare i suoi desideri - il furbo per intenderci, a cui nelle societa’ androcentriche si attribuisce una intelligenza acuta e penetrante -, si muove in un orizzonte mentale ristretto e alla lunga il suo sguardo limitante finira’ per nuocere anche a lui.
La questione morale altro non e’ che l’estrinsecazione di categorie mentali parziali e riduttive. L’evidente diffusione capillare del binomio irrazionalita’-disumanizzazione nelle comunita’ in cui viviamo, ne costituisce la prova provata. D’altronde il fondamento di tutte le societa’ patrifocali, senza eccezioni, e’ l’immorale sfruttamento del lavoro di cura, irrazionale perche’ imprescindibile per la nostra sopravvivenza e perche’ si situa alla base dell’evoluzione cerebrale di noi mammiferi, come autorevoli ricerche in tutto il mondo confermano. La sua collocazione in un mondo a parte - privato, inferiore e di pertinenza esclusivamente femminile - ha precluso agli uomini quelle esperienze affettivo-cognitive adatte a sviluppare una mente aperta e contenitiva, in grado di cogliere la ricchezza e la complessita’ del reale.
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[Ringraziamo Angela Giuffrida (per contatti: frida43@inwind.it) per questo intervento.
"Angela Giuffrida, gia’ docente di filosofia, ha avviato una riflessione critica sul sistema concettuale dominante che ha portato all’elaborazione di una nuova teoria della conoscenza, contenuta nel saggio Il corpo pensa. Umanita’ o femminita’?, pubblicato nel 2002 da Prospettiva Edizioni, e applicata nel saggio La razionalita’ femminile unico antidoto alla guerra, pubblicato a marzo del corrente anno da Bonaccorso editore. ’E’ in atto nel panorama culturale internazionale uno slittamento verso un diverso paradigma interpretativo che non ha trovato adeguata definizione. La teoria del corpo pensante risponde a tale necessita’. Non si arresta alla denuncia dei limiti e delle lacune del sapere convenzionale ma, evidenziando i meccanismi mentali sottesi, indica la via del loro superamento. Per promuovere la transizione da una impostazione mentale che coarta la vitale creativita’ della specie ad una che la favorisce, Angela Giuffrida ha promosso corsi di studio e seminari, ha partecipato a convegni e ha scritto numerosi articoli’"]
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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 267 del 2 ottobre 2011
Stefano Bolognini "Ecco perché la psicanalisi scopre l’Oriente"
Il cinese sul lettino
Stefano Bolognini ora presidente di tutti i freudiani del mondo "La nostra disciplina si diffonde ovunque"
"A Pechino non solo ci tollerano, ma contano su di noi per creare una società armoniosa"
"Ormai sono molto frequenti i casi di Shuttle-analysis Le terapie si fanno on line, via Skype"
di Luciana Sica (la Repubblica, 30.06.2011)
Se un cinese sogna di mangiare un chow chow, vorrà mordere il suo analista che è un cane o cibarsi di una vera prelibatezza? Non si sottrae allo humour, Stefano Bolognini: «Li amo talmente i cani, io, che un sogno del genere mi metterebbe davvero in difficoltà. Sarei comunque un pessimo analista di un paziente del genere, altro che neutralità!». Poi, più serio: «Non esistono interpretazioni oggettive, formule precostituite e valide per tutti. Èil singolo sognatore che conta: per il paziente cinese, potrà darsi il primo caso, il secondo, o anche - in modo condensato - tutti e due. Andrebbe analizzato senza preconcetti, direi anzi senza pre-concezioni troppo legate alla sua tradizione culturale».
Paziente orientale, analista occidentale. Tutt’altro che un’ipotesi astratta, visto che a sorpresa la Cina comunista risulta estremamente interessata alla psicoanalisi. E a occuparsene sarà proprio Bolognini, da un paio d’anni alla guida della Società psicoanalitica e ora - ed è la prima volta per un italiano - neopresidente dell’International Psychoanalytical Association: l’Ipa, che fu fondata da Freud nel 1910 e oggi conta dodicimila iscritti. «Un gran riconoscimento per la creatività della psicoanalisi italiana», per dirla con la punta di enfasi di Bolognini, che sarà proclamato President Elect al congresso mondiale di Città del Messico in programma dal 3 al 6 agosto. Altra notizia: alla vicepresidenza del tempio dei freudiani ci sarà la svedese Alexandra Billinghurst - mai prima d’ora una donna aveva conquistato i vertici dell’Associazione.
"Non sanno che portiamo la peste", è la celebre frase - del 21 agosto del 1909 - pronunciata da Freud, salpando con Jung (e Ferenczi) alla volta di New York. Dopo un secolo, dottor Bolognini, la psicoanalisi ha "appestato" il mondo?
«Non potrebbe essere diversamente, visto che è il più serio strumento di conoscenza e di cura del mondo interno degli esseri umani che mai sia stato messo a punto. Con una sottolineatura: la psicoanalisi ha una complessità concettuale e tecnica molto maggiore di quella di una volta».
Quali sono i Paesi "nuovi" in cui si sta diffondendo?
«Fino a pochi anni fa erano la Turchia, il Libano, tutto l’Est europeo, in Asia la Corea e in America Latina il Paraguay. Oggi, oltre alla Cina, ci sono il Mozambico che per ragioni linguistiche conta sugli analisti brasiliani, l’Iran dove le classi colte sono affamate di psicoanalisi (a Teheran lavorano otto analisi formati a Parigi e negli Stati Uniti), l’Egitto e il Marocco anche lì con analisi di derivazione francese, il Sudafrica in cui già operano quattro analisti iscritti all’Ipa e la stessa Cuba che ha preso i primi contatti con gli analisti latinoamericani sempre dell’Ipa».
La novità assoluta è la Cina. Nessun problema politico?
«Sono le attività esplicitamente antigovernative ad essere sotto controllo. La psicoanalisi non solo è tollerata ma addirittura inserita in un progetto politico volto a creare una "harmonious society"».
Una società armoniosa, grazie agli epigoni di Freud?
«Ècosì che la pensa la nomenklatura cinese, e a Pechino - lo scorso ottobre - si è svolta la prima conferenza asiatica dell’Ipa, con oltre cinquecento partecipanti. Nella capitale ci sono nove candidati in analisi dalla moglie dell’ambasciatore tedesco e altrettanti a Shangai, sempre da un analista tedesco che si è trasferito lì. Inoltre èstato riconosciuto un "Allied Center" composto da psichiatri e psicologi per così dire tifosi della psicoanalisi, una sorta di "testa di ponte" culturale favorevole all’arrivo di analisti didatti o alla possibilità che terapeuti locali vadano a formarsi all’estero per poi rientrare. Università e ospedali sostengono il progetto formativo di nuovi analisti... E ormai sono molto frequenti i casi di Shuttle-analysis, di terapie on line, via Skype».
Ammetterà una certa alterazione del setting. Non saràun addio al divano?
«Assolutamente no. Intanto il primo anno di analisi è quello "tradizionale", poi la Rete consente almeno il vis-à-vis, ma solo quando c’è un problema di distanza».
I pazienti quanti sono, e soprattutto chi sono?
«Di questo sappiamo pochissimo, non esistono statistiche né censimenti. E al momento ci sono soprattutto analisi di formazione, visto che stanno iniziando. Ma in linea generale, in un paese come la Cina, dove la concezione collettivista ha depersonalizzato gli individui, credo che il recupero della soggettività sarà uno degli elementi decisivi nella richiesta di analisi».
La qualità non verrà decisamente annacquata in Oriente come in Africa?
«Gli inizi in aree lontane dai grandi centri psicoanalitici sono sempre difficili, e così è stato anche nei Paesi ora evoluti quando la psicoanalisi era agli albori - compresa l’Italia, negli anni pioneristici prima della Seconda guerra mondiale».
Mettiamo la celebre riscrittura del "romanzo familiare" dei pazienti. In realtà antropologiche così differenti dalle nostre, dove le famiglie possono essere comunità anche estese, come lavorerà un analista?
«I riferimenti teorici sono comunque quelli classici, validi in tutte le culture perché tengono conto delle invarianti di base della mente umana. Naturalmente le specificità locali vengono rispettate: del resto, già il contesto socioculturale della Sicilia varia molto rispetto a quello dell’Alto Adige. E gli analisti lo sanno».
Ma la psicoanalisi innestata in culture diversissime da quella occidentale, non produrrà nuovi ibridi?
«No, al massimo delle "nuances" differenti. Le pulsioni, il narcisismo, i conflitti di dipendenza sono universali. La sessualità, l’ambivalenza, l’aggressività, le difese contro il dolore riguardano la natura di base di tutto il genere umano».
La psicoanalisi sembra comunque prendersi una rivincita, dopo i requiem intonati negli scorsi anni. Anche grazie ad alcuni studiosi geniali come i Nobel Edelman e Kandel?
«Il riconoscimento della compatibilità con le neuroscienze è stato senz’altro importante, ma è solo una delle ragioni per cui la psicoanalisi non è destinata a morire».
Tutte le scienze evolvono: oggi lei si farebbe operare con una tecnica chirurgica di cent’anni fa o con strumenti di ultima generazione? Nel mondo, la psicoanalisi guarda a Freud come al fondatore o come a un referente teorico ancora attuale?
«La psicoanalisi rischia di diventare una religione se pone le teorie in una posizione "teologica", come fossero verità assolute rivelate. Ma questa non era la posizione mentale di Freud. Certi cultori integralisti ne assumono le teorizzazioni come elementi sacri e indiscutibili, se non come un feticcio. E invece la psicoanalisi va "vista" come un grande albero: se le radici e il tronco sono la base freudiana, tutti i rami successivi sono di una ricchezza irrinunciabile. Lo sviluppo c’è stato, e anche molto grande, ma comunque "sulle spalle di Freud"».
I neonati e il deficit di accudimento
La psicoterapia insegna a capirli
Vissuti Deficit dell’infanzia
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, 21.05.2011)
N el suo ultimo film, «Habemus Papam» , il regista Nanni Moretti presenta con lieve ironia la figura, interpretata da Margherita Buy (sua moglie e collega nella sceneggiatura), di una psicoanalista nota per rinviare tutti i sintomi nevrotici alla medesima causa. Anche al Pontefice appena eletto, bloccato da un profondo senso di inadeguatezza di fronte a un incarico così impegnativo, diagnostica: «Penso che lei abbia sofferto di un deficit di accudimento primario» .
Rievoca questo episodio la psicoterapeuta Sara Micotti, responsabile scientifico del settore di Psicoterapia familiare del Centro Benedetta d’Intino Onlus di Milano, fondato e diretto da Cristina Mondadori. Sara Micotti si riferisce alle più recenti conoscenze sulle relazioni tra genitori e figli. Poiché gli artisti, come osserva Sigmund Freud, sono capaci di cogliere prima degli altri elementi di verità, quella sindrome, non solo esiste davvero, ma ora la si cura il più presto possibile.
Tra i problemi più diffusi delle coppie di giovani genitori vi è infatti l’impreparazione con cui affrontano l’incontro con il nuovo nato. Cresciuti spesso come figli unici, non hanno mai visto da vicino una creatura di pochi giorni e rimangono sconcertati dall’espressione impenetrabile del volto, dalla fragilità delle piccole membra e dalla incredibile forza delle pulsioni istintuali che le agitano. Eppure quell’esserino li ha uniti, ancor prima di nascere, nell’impresa di diventare padre e madre.
È significativo, in proposito, che l’Ospedale «Buzzi» di Milano, dove ha operato il grande psicoanalista Franco Fornari, abbia introdotto nelle cartelle cliniche dei neonati anche le ecografie del feto, immagini che i futuri genitori hanno visto e commentato con trepidazione. Ora il padre si sente già tale prima del parto, una mutazione antropologica di cui non sappiamo ancora cogliere tutte le conseguenze, ma che sta modificando profondamente le relazioni familiari. Di conseguenza, l’attenzione degli psicoterapeuti infantili, tradizionalmente concentrata sul rapporto tra la madre e il figlio, coinvolge ora anche i papà, altrettanto importanti nel creare il clima emotivo dell’attesa e del lieto evento.
Perché possa accogliere con fiducia il nuovo nato la donna deve sentirsi contenuta dal partner, mentre l’uomo, per fargli spazio nella mente e nel cuore, deve sentirsi riconosciuto da lei come padre. Ma, benché diffusa, la condivisione delle cure materne suscita ancora negli uomini sentimenti di inadeguatezza Per superare il timore di danneggiare un essere fragile e vulnerabile come il neonato hanno bisogno di essere incoraggiati e confermati. Vi è il rischio, altrimenti, che la loro insicurezza si trasmetta ai figli, che cresceranno timorosi di deludere e di sbagliare.
Sino a poco tempo fa lo studio delle relazioni parentali si basava sulle comunicazioni verbali, ma da quando la sonda analitica è scesa sino a intercettare gli scambi che accadono nel periodo perinatale, i mesi che trascorrono prima e dopo il parto, le terapie sono diventate sempre più precoci, brevi e interattive.
La psicoterapeuta infantile non si limita a curare il disagio del bambino ma prende in considerazione la rete di affetti e di pensieri in cui s’inscrive ancor prima di nascere. Sullo stato d’animo con cui i genitori lo accolgono si proiettano le ombre lunghe delle vicende personali, in particolare il modo con cui hanno vissuto l’infanzia ed elaborato i primi, inevitabili traumi.
Talvolta madre e figlio rimangono così coinvolti nella indistinzione originaria che il padre si sente escluso dal loro legame. L’intervento consiste allora nel costruire una geometria della famiglia ove ognuno trovi il suo posto e veda riconosciuta la funzione che gli compete, sempre relativa a quella degli altri. Una volta stabilite le giuste distanze e chiariti gli equivoci, le energie vitali riprendono a scorrere nelle vene delle relazioni familiari.
Le conoscenze acquisite sulle relazioni precoci suggeriscono, oltre ad anticipare l’intervento terapeutico, di prevenire il disagio infantile sostenendo, sin dall’attesa, i genitori in difficoltà. Non si tratta di ammaestrarli ma di sollecitare le loro potenzialità, di sensibilizzarli a cogliere e interpretare anche i segnali non linguistici. La prima mossa, nei confronti del neonato, consiste nel mutare la sua posizione: da oggetto delle proiezioni parentali a soggetto della sua vita, da «parlato» a «parlante» . Considerarlo da subito una persona, non solo ne promuove l’evoluzione, ma aiuta i genitori a crescere con lui, insieme.
-Guerra tra editori.
Nel ventennale della morte, doveva uscire in libreria l’opera omnia dello psicoanalista
Calasso fa bloccare un volume della Bollati: il curatore sono io
Ma la figlia ci ripensa. Così resta congelata anche "un’inedita autobiografia"
Il libro "Scomparso" di Fachinelli
Cataluccio: "Adelphi s’è ricordata dello studioso quando ha saputo di noi"
Calasso: "Teniamo molto alle sue opere, anche agli scritti sparsi"
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 03.04.2009)
Era stato presentato come un avvenimento culturale, la raccolta completa delle opere di Elvio Fachinelli in due volumi. Non solo i suoi libri conosciuti, ma anche un volume di settecento pagine radicalmente nuovo, con scritti sparsi dello psicoanalista, comparsi su giornali e riviste nell’arco di un trentennio. Era pronta la copertina, già decisa la collana "Nuova Cultura". Un titolo secco, Opere, la cura affidata a Lea Melandri, compagna di militanza ai tempi della rivista L’erba voglio. Pronto anche "lo strillo" per i librai, ben calibrato il risvolto, che ripercorre l’inquieta biografia del "rinnovatore libertario" scomparso vent’anni fa. La redazione di Bollati Boringhieri era attrezzata per l’uscita, ma il lavoro annunciato per lo scorso autunno non è mai arrivato in libreria.
Poco prima di andare in stampa, l’opera è stata bloccata da una lettera. Scritta dal "curatore" scelto da Fachinelli nel suo testamento. Un amico carissimo, un editore importante, l’editore di tre dei suoi libri più significativi. La missiva è indirizzata a Giuditta, figlia ventiseienne dello psicoanalista.
L’intonazione usata da Roberto Calasso appare poco conciliante. Fachinelli racchiuso in un’opera omnia? Inconcepibile. Un tradimento, in sostanza, questo progetto editoriale. Una pietra tombale. Un torto all’originalità di un pensatore curioso e disorganico. Giuditta si lascia convincere e rinuncia alla pubblicazione, a cui pure aveva partecipato.
L’opera di Bollati Boringhieri viene fermata. Con essa la preziosa raccolta di pagine poco conosciute, "un’inedita autobiografia".
L’idea di mettere insieme libri e scritti sparsi di Fachinelli risale al decennale della morte. «Allora», racconta Melandri, «ebbi modo di constatare che, dei suoi cinque libri, alcuni erano di difficile reperibilità, altri decisamente esauriti. Con insistenza riuscii a far ristampare dall’editore Feltrinelli Il bambino dalle uova d’oro e dall’Adelphi La freccia ferma. Però continuava a mancare un’opera completa che restituisse la complessità di un pensatore originale, oggi totalmente dimenticato».
Nessun problema di copyright con l’Adelphi, già editrice di La freccia ferma, Craustrofilia e La mente estatica? «No, sul piano dei diritti non c’era incompatibilità», spiega Cataluccio. «Noi ci siamo valsi del diritto di "opera in raccolta". Le obiezioni mosse da Calasso infatti non riguardano il copyright, ma l’opportunità di stampare l’opera omnia. Mi chiedo però come mai l’editore-curatore-erede intellettuale di Fachinelli si sia ricordato del grande psicoanalista solo quando ha saputo del nostro progetto editoriale. Non a caso la figlia Giuditta si è rivolta a me, non a Calasso, lamentando il disinteresse di Adelphi per i titoli di suo padre. Libri che circolavano poco, uno addirittura esaurito».
La Bollati Boringhieri che "sveglia" l’Adelphi? Calasso sbuffa: «Ovviamente teniamo molto alle opere di Fachinelli e non abbiamo bisogno che alcuno ce le ricordi. Nel gennaio di quest’anno abbiamo acquistato i diritti del Bambino dalle uova d’oro, appena abbiamo saputo che il titolo era tornato libero, e a settembre sarà in libreria la nuova edizione, in veste diversa dalla prima, della Mente estatica». Ma fu proprio Giuditta a lamentare con Cataluccio la scarsa visibilità dei libri paterni. «La freccia ferma e Claustrofilia sono disponibili nella Piccola Biblioteca, collana che si trova ovunque. Sarebbe stato tutto più semplice, in ogni modo, se la figlia di Fachinelli si fosse rivolta subito a me, a cui suo padre ha affidato la "cura editoriale" della sua opera».
Perché non coinvolgere fin dal principio Adelphi? Lo chiediamo a Lea Melandri, artefice del nuovo progetto su Fachinelli. «Ma non mi sembrava che ci fosse per Elvio tutta questa attenzione. È anche per spirito polemico nei confronti di Calasso che mi sono rivolta altrove. Le date mi sembrano significative: noi ci siamo mossi in anticipo sul ventennale, Calasso ha cominciato a darsi da fare solo dopo aver saputo del nostro lavoro. Attualmente La mente estatica appare ancora esaurito. Come "curatore" designato, non mi sembra granché».
Giuditta è una ventenne, quando è morto il padre aveva solo sei anni. Al telefono appare spaventata, anche inesperta. «Pensavo che sui diritti si accordassero le due case editrici», si difende. «Ora Adelphi s’è impegnata a ristampare in una nuova collana tutti i libri di mio padre». E il volume delle sue pagine sparse: non c’è il rischio di perderlo?
Calasso dà per sottinteso l’interesse dell’Adelphi. «Aspetto molto questi scritti, che solo in parte conosco. Giuditta dovrebbe consegnarceli al più presto». Già, i materiali: ma in che forma? «Non intendo certo dare a Calasso le bozze del volume di Bollati Boringhieri», precisa Giuditta. «Sarebbe inopportuno». Forse anche un torto per chi vi ha lavorato per oltre un anno. Un pasticcio. Fachinelli l’antiautoritario non lo meritava.
7 maggio 2006. L’intellettuale femminista rilegge il padre della psicoanalisi.
Subito dopo l’uscita del numero interamente dedicato ai 150 anni dalla nascita, Luca Bonaccorsi - attuale acquirente di "Liberazione" - chiese di destituire la curatrice dell’inserto angela azzaro
Freud, come Marx, le due grandi utopie del 900
Davvero, Rifondazione, lo vuoi scaricare?
di Lea Melandri (Liberazione/Queer, 11.01.2009, p 3)
«Dal fondo del torpore, quasi dal sonno, un pensiero solitario. Dopo lo squarcio iniziale, la psicanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità...l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, da un pericolo interno.
Bardato. Corazzato. Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida verso ciò che si profila all’orizzonte. Nausicaa, Ulisse. Le regge di Creta aperte verso il mare, senza difese...
Anche per la scoperta freudiana fu così? Un’accettazione di qualcosa che veniva, in certo senso, dall’esterno, dopo un estenuante brancolare? Bisognerebbe rileggere le origini della psicanalisi da questo punto...Il sogno osa generalmente di più di quanto si permetta il sognatore da sveglio. Di qui l’idea di Freud di trasferire questo oltrepassamento alla coscienza vigile nella cura dei nevrotici. Il sogno testimonia di ciò che vuoi essere - ciò che puoi essere, allora» (Elvio Fachinelli, La mente estatica , Adelphi 1989).
Forse l’invenzione, scientifica o non scientifica, procede sempre con un movimento analogo, che è allentamento di difese, abbandono al fantasticare, defluire di frammenti, sprazzi di idee, da cui emerge un messaggio inatteso, un pensiero più organizzato e coerente. Ma non possono non colpire le risonanze profonde tra un geniale interprete di Freud, quale è stato Elvio Fachinelli nel momento in cui si accingeva, avendo se stesso "come unica bussola", a esplorare quell’ "area di frontiera" che è per ogni essere umano l’originaria indistinzione con la madre, e il singolare "conquistador" che nell’ultimo decennio dell’800 cominciava a inoltrarsi, "primo tra i mortali", in regioni inesplorate della vita psichica.
A Wilhelm Fliess, l’"amico segreto" con cui intrattiene uno scambio intenso, intellettuale e, pur nella castità, dichiaratamente amoroso, nel periodo più originale della sua scoperta - gli studi sull’isteria, l’autoanalisi, l’interpretazione dei sogni - Freud scrive: «Posso guarire solo lavorando con l’inconscio: con sforzi esclusivamente coscienti non posso farcela... uno strano stato mentale che la coscienza non riesce ad afferrare; pensieri crepuscolari, la mente offuscata, appena un raggio di luce qua e là».
«In una giornata come e come oggi tutto tace dentro di me e io mi sento terribilmente solo...bello attendere che qualcosa cominci a muoversi dentro di me e che io riesca ad accorgermene. Perciò spesso sogno per giorni interi».
«Mi sono aiutato col rinunciare a qualsiasi sforzo mentale cosciente, in modo da affrontare i problemi a tentoni. Da allora ho lavorato forse meglio di prima, ma quasi non so quel che sto effettivamente facendo».
«Io non sono né uno scienziato né un osservatore né uno sperimentatore né un pensatore. Non sono altro che un conquistador per temperamento - un avventuriero, se volete tradurre il termine - con la curiosità, la baldanza e la tenacia propria di quel genere di individui».
Nel momento in cui rinunciano a tradurre "in modo razionale e scientifico" il misterioso mondo della psiche, per cimentarsi nell’"eroica impresa" di esplorare il proprio inconscio, fin nelle regioni estreme verso cui li spinge "la passione per il preistorico", sia Freud che Fachinelli operano, sia pure in contesti storici diversi, un rovesciamento di prospettiva. Ne sono investiti e trasformati in eguale misura: l’io onnipotente della ragione tecnica e burocratica, la coscienza certa di non avere alle spalle che il deserto del senso, la cultura occidentale avviata al dominio del mondo, e la figura di una maschilità distorta dall’abitudine millenaria all’offesa e alla difesa. Indagatori entrambi della felicità, a partire dalle sue misteriose radici nell’infanzia, curiosi dell’origine e della natura degli umani, disposti a imbarcare la ragione "nel mare procelloso del mondo emotivo", non potevano non approdare a verità ambigue, contraddittorie, sfuggenti a interpretazioni lineari e sistematiche, reperti di un passato mai del tutto estinto e, nel medesimo tempo, segnali di insospettate potenzialità antropologiche.
La scoperta dell’inconscio, e dei modi per aprirgli uno spiraglio dentro i territori della coscienza, era destinata a produrre un radicale ripensamento di quell’"enigma del dualismo" che, quasi negli stessi anni, Otto Weininger si affrettava a riportare sulle solide fondamenta della cultura occidentale, greca e cristiana. Freud si muove ancora dentro la cornice di opposizioni complementari - biologia e psicologia, vita e anima, corpo e mente, realtà e sogno - e cerca per tutti gli anni del suo maggiore sforzo esplorativo della vita psichica l’armonioso completamento di parti maschili e femminili di sé - e quindi della "fecondità" creativa - nella "gioia smisurata" che gli danno gli incontri con Fliess.
«Mi era necessario amarti per poter arricchire la mia vita. Nessuno può sostituire i rapporti con un amico che un lato particolare di me stesso - forse femminile - richiede». Fliess è, rispetto a Freud, colui che sa, che dà, che può appagare la fame e la sete di chi vive nell’attesa di riempire un vuoto, di ricevere incoraggiamento, consolazione, consigli.
Ma, al di là dell’aspetto più evidente del loro rapporto - in cui si mescolano le figure complementari di una sedotta e di femminili e maschili scambievoli - si profila oscuramente una situazione più complessa, destinata a gettare una luce nuova sul rapporto tra i sessi e sul legame profondo che ha tenuto insieme per millenni una comunità storica di soli uomini.
Lo svelamento non poteva che avvenire attraverso lo sguardo dell’esploratore che, con uguale ardimento, a distanza di un secolo, si addentra nello stesso paesaggio e mostra quello che l’altro non poteva ancora vedere. Nella rilettura del rapporto tra Freud e Fliess, Fachinelli scrive: «L’attesa sembra rivolta a una figura resuscitata: quella della prima madre, el sesso (il riferimento è alla vecchia bambinaia che, scoperta a rubare, sarà cacciata dal fratellastro Phillip). L’incontro con Fliess l’ha fatta tornare e Fliess dovrebbe saziare una fame non saziata, colmare un vuoto che si creò allora bruscamente... Siamo qui nell’ambito di un rapporto di compenetrazione con una particolare figura materna... Vi è un sovrappiù, un acme di godimento, qualcosa che si collega a un "desiderio preistorico", l’unico che generi felicità secondo Freud».
Ma è proprio questa "gioia smisurata" a far sorgere l’immagine dell’assorbimento nell’oceano materno, a costituirsi come minaccia per la propria identità. Dietro il sogno realizzato della fusione col primo oggetto d’amore, si profila l’ombra della pulsione di morte, cessazione di ogni tensione, cioè della vita stessa. «Come segno di compromesso -scrive sempre Fachinelli - tra tendenze all’unità e tendenze all’individuazione, affiora la figura del doppio, del gemello, dell’alter. Basta qui una sola citazione: "Non posso fare a meno di un altro, l’unico altro, l’alter, sei tu"».
Il femminile conosciuto dall’uomo nella "beatitudine", sia pure solo sognata, di un’originaria indistinzione, è ciò da cui si fugge ma è anche nel cuore dell’amore e odio per la persona dello stesso sesso. A distanza di un secolo, nel punto più alto dello sviluppo tecnologico e industriale, la preistoria parla con la stessa lingua, ma il paesaggio e i suoi protagonisti appaiono dislocati, i contorni meno nitidi, i fantasmi più vicini alla coscienza che li ha prodotti. Il mutamento più significativo riguarda la figura del padre, che già nell’autoanalisi Freud era venuto decantando.
Dopo aver ipotizzato una seduzione da parte dell’adulto di sesso maschile nella genesi delle nevrosi, Freud si accorge di aver piegato la teoria alle sue fantasie, e da quel momento affiorano altri rapporti con fratelli, nipoti, soprattutto con due figure materne, la madre reale e la vecchia bambinaia, e il fratellastro Phillip, collocato nei sogni al posto del padre. A muoversi dentro un’imbrogliata vicenda famigliare è il Freud-figlio, prossimo a quella che considera l’unica felicità possibile e, nel medesimo tempo, la "terra promessa" in cui non potrà entrare. Il "complesso di Edipo" si può pensare allora che intervenga, come osserva Fachinelli, come "ideale regolatore", destinato a fare un po’ d’ordine nella grande confusione, a ridare una certa importanza e centralità alla figura di Jacob, il padre di Freud morto nel 1896, poco prima che Freud cominciasse la sua autoanalisi.
Nella zona più remota e inesplorata della preistoria degli umani non poteva che esserci il corpo femminile da cui si nasce, la memoria di un’appartenenza intima che entrambi i sessi hanno conosciuto, i segni di un desiderio sessuale che li accomuna, indipendentemente dal diverso destino che la storia ha loro assegnato. Se prima dell’autoanalisi, negli Studi sull’isteria, Freud aveva creduto di trovare l’origine della malattia nell’incompatibilità tra pulsioni sessuali e "purezza morale" delle donne prese in cura, nel Caso Dora riconosce, sia pure alcuni anni dopo che la giovane paziente aveva interrotto l’analisi, il suo "errore tecnico": non aver detto in tempo alla malata «che il suo impulso erotico omosessuale con la signora K. era la più forte delle sue correnti psichiche inconsce». Se la madre è per entrambi il primo oggetto d’amore, come giunge la bambina a rinunziarvi e ad assumere invece il padre come oggetto? Questa "svolta" verso l’uomo, «necessaria al mantenimento del matrimonio in una società civile », concludeva Freud, potrebbe per molte donne non avvenire mai.
L’affermazione "l’anatomia è il destino", con cui sembra voler dare un fondamento biologico alla differenza tra i sessi, può essere letta allora, non diversamente dal "complesso edipico", come l’extrema ratio di un osservatore che ha visto cadere ad una ad una ragioni preconcette, l’ultimo appiglio a quella visione del mondo che il suo nuovo sapere stava mettendo alle corde.
Negli anni ’70, sia il movimento antiautoritario, che scopriva la necessità della politica di "andare alle radici dell’umano", l’influenza decisiva delle esperienze infantili sui sistemi sociali, sia il femminismo che riportava l’attenzione sul corpo e sulla sessualità cancellata delle donne, hanno riservato a Freud la stessa critica repressiva, patriarcale e autoritaria, proprio nel momento in cui appariva chiaro il declino della figura paterna, l’emergere, dietro al consumismo di massa, di un fantasma materno saziante e divorante. Strano, ingiustificato destino per l’intrepido "avventuriero" che, con angoscia, vergogna, tentennamenti, aveva osato penetrare il "rimosso" innominabile della storia dei padri, sfidare i rigidi codici del rigore scientifico, affinché la sua grande scoperta, la "cura delle parole", lasciasse parlare l’umano in tutta la sua complessità.
«Le storie cliniche che scrivo si l’impronta rigorosa della scientificità... una rappresentazione particolareggiata dei processi psichici, quale in genere ci è data dagli scrittori...Mi servo di una serie di similitudini, mi prendo la libertà di fare uso di paragoni... mi guida l’intenzione di rendere intuibile una situazione mentale estremamente complessa e mai sinora descritta» (Breuer, Freud, Studi sull’isteria ).
Mai il pensiero e la vita, la parola e il corpo sono parsi vicini e indisgiungibili come nella lettura che Freud fa dei sintomi isterici: un archivio di simboli, idee, esperienze allontanate dalla coscienza, perché troppo dolorose, torna a partecipare al discorso, a raccontare attraverso segnali corporei le storie di sofferenze sepolte, mai registrate. Il "demone" che ora irrigidisce ora agita oltre misura i corpi delle isteriche, se va talvolta a collocarsi sotto il segno di un male da estirpare - "cavità purulenta", "camino da spazzare" - nella maggior parte dei casi viene accolto, attraverso le fessure che gli apre la coscienza, come irruzione di energie intellettuali e psichiche sorprendenti, messaggere di individualità femminili a venire, di cui Freud sembra avere un’oscura ma inequivocabile percezione.
La scoperta della sessualità infantile e dell’influenza che ha la preistoria degli umani sulle sedimentazioni inconsce della vita psichica, non poteva che affiorare all’animo inquieto di un uomo- figlio; l’analisi in chiave psicologica dell’isteria, l’attenzione straordinaria, partecipe e lungimirante con cui Freud si addentra nelle inedite storie delle sue pazienti, sarebbe inspiegabile senza quel movimento parallelo che piega lo sguardo su di sé, su quella "parte femminile" che l’uomo tiene celata dentro la corazza della virilità, e su cui ha continuato a costruire fisionomie immaginarie dell’altro sesso. Se è l’uomo di scienza, il medico, l’appassionato esploratore della mente umana, che vede nella sessualità - identificata con la donna, la famiglia - una "stirpe" che la civiltà ha asservito alle sue "sublimazioni", non c’è dubbio che è la tenerezza filiale a voler vedere come "esente da ambivalenze" il rapporto madre-figlio, a fare dell’unità a due dell’origine il modello di ogni felicità, a leggere nelle carezze di una madre "antiche aspirazioni sessuali" inibite o scoraggiate dalla violenza maschile.
L’idealizzazione dell’Eros nella sua forma primordiale, dove ancora si confondono l’Io e il suo oggetto d’amore, impedisce a Freud di accorgersi quanto abbia a che vedere con il "rifiuto della femminilità" la pulsione di morte che si accompagna all’abbraccio-inglobamento materno; è quella che lo induce a ritenere "naturale" il riserbo, la purezza morale, la dedizione della donna a padri, mariti, figli, la cura dei malati, a scapito della propria persona.
Ma è per la stessa ragione che, paradossalmente, Freud arriva a intuire che non è genericamente la sessualità repressa, tenuta a bada dalle convinzioni morali, a provocare la malattia, bensì la sessualità violenta, che decide deldel destino della donna. La "non comune intelligenza", l’"acuto spirito critico", il talento, l’ambizione, lo spirito di indipendenza, la combattività, che nota nelle sue pazienti, non incontrano solo l’ostacolo di pulsioni sessuali incanalate in disturbi corporei, ma urtano in modo più diretto e consapevole con una sorte decisa da altri, che toglie loro i piaceri più elementari, che fa del dovere, della moralità, del sacrificio, l’unica via praticabile per avere riconoscimento e autostima. Contrastano, soprattutto, con la solitudine e il bisogno d’amore a cui sembra condannata la donna che non si piega alla sottomissione, alla violenza sessuale e psicologica a cui la costringe quasi sempre il matrimonio: «Effettivamente essa era molto scontenta del suo stato di ragazza, era piena di progetti ambiziosi, voleva studiare o perfezionarsi nella musica, si ribellava al pensiero di dover sacrificare in un matrimonio le sue inclinazioni e la sua libertà di giudizio».
«...il senso di non poter mai, come ragazza sola, godere qualcosa della vita o fare qualcosa nella vita. Fino ad allora essa si era creduta forte abbastanza per poter fare a meno dell’aiuto di un uomo, adesso si impossessava di lei il sentimento della sua debolezza femminile, una nostalgia di amore sulla quale la rigidezza del suo carattere cominciava a sciogliersi».
«La tendenza a respingere ciò che è sessuale viene ulteriormente rafforzata dal fatto che l’eccitamento sessuale nella vergine ha una componente di angoscia, il timore dell’ignoto, del presagito, di quel che verrà, mentre nel giovane maschio sano e naturale è una pulsione nettamente aggressiva. La fanciulla presagisce nell’Eros la terribile potenza che ne domina e decide il destino ed è angosciata da essa... Il matrimonio porta traumi sessuali...la prima notte... tanto spesso non è una seduzione erotica, bensì uno stupro... non credo di esagerare affermando che la grande maggioranza delle nevrosi gravi nelle donne proviene dal letto matrimoniale».
Sulla strada del suo avventuroso viaggio nel mondo ignoto della vita psichica, Freud non poteva non incontrare prima di tutto il sesso che la storia ha identificato con le sue origini - corpo, animalità, sessualità, infanzia - e cioè la donna, ma non avrebbe potuto leggere così a fondo nelle vicende e passioni contraddittorie dell’esistenza femminile se non avesse scoperto quasi contemporaneamente in se stesso il protagonismo del corpo, dell’infanzia, dell’immaginario sessuale, di un "preistorico", esclusivo, e perciò tirannico, modello di felicità.
1968 - 2008
il paradosso dei movimenti
Relazione di Lea Melandri
Io vorrei portare l’attenzione su due movimenti -il movimento non autoritario nella scuola, la rivista "L’erba voglio", e il femminismo - a cui devo la nascita del mio impegno sociale e politico, un impegno che è rimasto inalterato nel tempo, nonostante siano passati quarant’anni, e che non avrebbe potuto avvenire altrimenti, data la mia estraneità alle forme organizzate della politica
di Lea Melandri *
Io vorrei portare l’attenzione su due movimenti -il movimento non autoritario nella scuola, la rivista "L’erba voglio", e il femminismo - a cui devo la nascita del mio impegno sociale e politico, un impegno che è rimasto inalterato nel tempo, nonostante siano passati quarant’anni, e che non avrebbe potuto avvenire altrimenti, data la mia estraneità alle forme organizzate della politica.
L’uscita da una dimensione solo privata della vita, che è avvenuta allora per me come per moltissimi altri, non posso che riferirla a un mutamento della politica stessa, che per la prima volta si avvicinava alla "quotidiana comune esperienza", interrogava l’origine sociale, ma anche il diverso destino toccato a un sesso e all’altro, apriva, come nel mio caso, figlia di contadini che aveva avuto il privilegio di poter studiare, la possibilità di rivedere con sguardo critico un percorso scolastico che aveva lasciato "fuori tema" una larga parte di vita, la più dolorosa, di mettere in discussione il ruolo di insegnante nel momento stesso in cui stavo per assumerlo.
Sono stati due movimenti che hanno prolungato la "lezione del ‘68" per quasi tutto il decennio anni ’70, quando già la "rivolta degli studenti" ripiegava verso forme più tradizionali della politica: i gruppi extraparlamentari, in tutto simili ai partiti, e la lotta armata. Forse è stata proprio questa durata, i conflitti che ha aperto in un fronte "rivoluzionario" che si voleva il più unitario possibile, sotto la bandiera delle lotte operaie, a far sì che vi cadesse sopra una dimenticanza sospetta, quella operata dalle ricostruzioni storiografiche, dalle ricorrenze e dalle mostre celebrative. Chi non ha dimenticato è la destra oggi al governo, che si accanisce a demolire alcune delle conquiste più significative di quella stagione "breve e intensa".
Non penso che la destra si stia accanendo contro un fantasma, ma neppure, al contrario che ci si trovi oggi di fronte a un "nuovo ‘68", evocato dal movimento in atto nella scuola e dalla comparsa sulle piazze di una generazione di femministe e lesbiche, decise a riportare l’attenzione sulla famiglia, come luogo in cui si consuma il potere più violento degli uomini sulle donne. Nella storia degli individui e delle società non esistono solo "repliche" cieche o cancellazioni definitive di ciò che si è già vissuto, ma anche "riprese" -quello che Elvio Fachinelli, uno dei più originali interpreti del ’68, ha chiamato «il paradosso della ripetizione»-, è cioè qualcosa che emerge dal passato e che, riproponendosi in un contesto diverso, si espone perciò stesso al cambiamento, a nuove vie d’uscita.
Dov’è dunque che vedo "riprese"? Innanzi tutto, ci sono analisi, intuizioni, da cui quei movimenti hanno preso avvio, e su cui hanno fondato le loro pratiche anomale, che appaiono oggi più attuali di allora. Nell’articolo Il desiderio dissidente , pubblicato sui "Quaderni piacentini" nel febbraio 1968, Fachinelli, distanziandosi sia dalla psicanalisi che dal marxismo, che avevano irrigidito la contrapposizione tra individuo e società, leggeva, nella società di massa, nel trionfo del consumismo, il declino dell’autorità paterna e l’emergere di figure più astratte e indeterminate del potere, ma soprattutto un fantasma più arcaico di «madre saziante e divorante», una società che prometteva liberazione dai bisogni, sicurezza, in cambio di dipendenza, servitù, rinuncia a sé come «progetto e desiderio».
Non è difficile constatare quanto questa tendenza alla passivizzazione, al consenso, all’integrazione in un sistema «il cui funzionamento è già previsto in anticipo», sia diventata il tratto dominante della nostra epoca, la "mucillaggine" in cui siamo immersi. La grande mutazione che si è profilata allora era lo spostamento dei confini tra privato e pubblico, rapporti e contaminazioni sempre più intensi tra poli tradizionalmente separati. L’uscita da ogni dualismo, a partire da quello tra maschile e femminile, corpo e linguaggio, biologia e storia, è stato, al medesimo tempo, l’esito di una società di massa, di mercato, di spettacolo, è l’acquisizione più importante dei movimenti che hanno tentato di controllarne lo sviluppo, volgerlo ad altri fini.
Dall’esperienza degli asili autogestiti venne allora l’idea che, per sradicare modelli precocemente incorporati, fosse necessaria una «politica radicale», capace di «andare alla radici dell’umano», dal femminismo la scoperta della politicità della sfera personale, e di tutte quelle esperienze che la storia, la politica, la cultura tradizionalmente intese hanno confinato nell’immobilità di un ordine naturale. Con una «scandalosa inversione», il racconto dell’esperienza, del vissuto del singolo, diventava più importante del linguaggio codificato della politica.
Non è un caso che, proprio in concomitanza con quello spostamento di confini, siano comparsi sulla scena pubblica soggetti "imprevisti", i giovani e le donne, e insieme a loro problematiche legate al corpo, alla sessualità, all’inconscio, esperienze essenziali dell’umano tenute in un lungo esilio. Al centro della politica si sono venuti a porre soggetti visti nella loro interezza -corpi pensanti, sessuati-, nella loro irriducibile singolarità e in ciò che li accomuna agli altri esseri umani. Nel momento in cui veniva recuperata alla politica la dimensione biologica, la memoria del corpo, cambiava anche l’idea di potere, di cui si cominciava a vedere l’aspetto più subdolo, più devastante: l’interiorizzazione precoce delle logiche di dominio e coercizione, l’inclinazione alla passività, alla delega, all’affidamento.
Combattere l’autoritarismo, dalla famiglia, alla scuola, alla società, ha significato allora mettere in discussione tutti i sistemi che creavano esclusione, competizione, disuguaglianza, a partire dalla divisone tra chi decide e chi esegue,e, per un altro verso, incentivare la presa di parola, l’esercizio collettivo del potere, pratiche liberanti, capaci di favorire in ognuno quella che Marx chiama la «passione dell’uomo», una «totalità di manifestazioni di vita umana».
Guardando la fiumana di bambini, maestre, madri, padri, insegnanti, studenti di ogni ordine di scuola, che si è rovesciata in questi ultimi tempi per le strade delle città, le assemblee, le lezioni all’aperto, l’intercambiabilità delle voci, la creatività delle forme di contestazione, viene da pensare che, sotterraneamente, sia passata un’acquisizione essenziale di quei movimenti: il far politica in prima persona, il rifiuto della delega, la ricerca di nuove forme di rappresentanza, un agire rispettoso dell’individuo e della collettività.
Ma c’è una contraddizione evidente. Oggi, saltati i confini tra sfera personale e sfera pubblica, le problematiche del corpo, della persona, del rapporto tra i sessi, hanno assunto un protagonismo e una centralità mai conosciuta prima, ma non nella direzione che avremmo voluto. Non sono venuti allo scoperto i "nessi", che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro, e che volevamo fare oggetto della nostra ricerca, ma un "amalgama", un accorpamento preoccupante, indistinto tra sfera domestica e istituzioni pubbliche, casa e polis, azienda e Stato.
Le «acque insondate della persona», da cui era partito il femminismo, per costruire una cultura "altra", antagonista, capace si mettere in causa istituzioni «funzionalizzate a un sesso solo», sono diventate il terreno più fertile su cui crescono l’antipolitica, il populismo, la personalizzazione del potere. Il corpo, la sessualità, la donna, si sono emancipati ma "in quanto tali", cioè conservando i segni che vi ha impresso il lungo esilio dalla vita pubblica e la secolare "naturalizzazione": corpo-oggetto dei massimi poteri, corpo biologico e corpo rappresentato, esaltato immaginativamente dai media; donne presenti nella vita pubblica ma in gran parte ancora subalterne, impigliate negli stereotipi e negli habitus del maschile e del femminile.
La domanda che viene da porsi è: come mai un processo di cambiamento, che era stato portato allo scoperto con tanta lucidità, ha potuto sfuggire così vistosamente di mano, prendere strade indesiderate, giocare oggi a favore delle forze più insidiosamente autoritarie e conservatrici del paese? Perché le culture prodotte dal movimento libertario e dal femminismo, pur avendo molto da dire riguardo agli interrogativi del presente, sono così silenziose, così poco incisive?
Gli ostacoli, le difficoltà vanno cercate innanzitutto all’interno del proprio sviluppo, ma è innegabile che non poco ha contato l’arroganza distruttiva di una cultura di sinistra, fondata su una decisionalità quasi esclusivamente maschile, che ancora non riesce a mettere al centro la "vita intera", a prendere atto che, come già si leggeva sull’ "Erba voglio" molti anni fa, «la vita di un essere umano è più che il suo posto nella produzione; lo sappiamo per l’esperienza concreta iscritta in noi dalle ore passate a giocare, a fare l’amore, a ricordare, a dimenticare».
* Liberazione, 10/12/2008
ROBERTO CARNERO INTERVISTA TZVETAN TODOROV
[Dal quotidiano "L’Unita’" del 25 giugno 2007 col titolo "Civilta’ dell’Europa? La radice e’ nei Lumi" e il sommario "Tzvetan Todorov ha scritto un saggio dedicato all’Illuminismo e ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per il suo impegno a favore dell’incontro fra le culture. In questa intervista ci spiega il senso del suo cosmopolitismo". Roberto Carnero e’ docente di Letteratura e cultura dell’Italia contemporanea all’Universita’ di Milano.
Tzvetan Todorov, nato a Sofia nel 1939, a Parigi dal 1963. Muovendo da studi linguistici e letterari e’ andato sempre piu’ lavorando su temi antropologici e di storia della cultura e su decisive questioni morali. Riportiamo anche il seguente brano dalla scheda dedicata a Todorov nell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche: "Dopo i primi lavori di critica letteraria dedicati alla poetica dei formalisti russi, l’interesse di Todorov si allarga alla filosofia del linguaggio, disciplina che egli concepisce come parte della semiotica o scienza del segno in generale. In questo contesto Todorov cerca di cogliere la peculiarita’ del ’simbolo’ che va interpretato facendo ricorso, accanto al senso materiale dell’enunciazione, ad un secondo senso che si colloca nell’atto interpretativo. Ne deriva l’inscindibile unita’ di simbolismo ed ermeneutica. Con La conquista dell’America, Todorov ha intrapreso una ricerca sulla categoria dell’"alterita’" e sul rapporto tra individui appartenenti a culture e gruppi sociali diversi. Questo tema, che ha la sua lontana origine psicologica nella situazione di emigrato che Todorov si trova a vivere in Francia, trova la sua compiuta espressione in un ideale umanistico di razionalita’, moderazione e tolleranza". Tra le opere di Tzvetan Todorov: (a cura di), I formalisti russi. Teoria della letteratura e del metodo critico, Einaudi, Torino 1968, 1977; (a cura di, con Oswald Ducrot), Dizionario enciclopedico delle scienze del linguaggio, Isedi, Milano 1972; La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1977, 1981; Teorie del simbolo, Garzanti, Milano 1984; La conquista dell’America. Il problema dell’"altro", Einaudi, Torino 1984, 1992; Critica della critica, Einaudi, Torino 1986; Simbolismo e interpretazione, Guida, Napoli 1986; Una fragile felicita’. Saggio su Rousseau, Il Mulino, Bologna 1987, Se, Milano 2002; (con Georges Baudot), Racconti aztechi della conquista, Einaudi, Torino 1988; Poetica della prosa, Theoria, Roma-Napoli 1989, Bompiani, Milano 1995; Michail Bachtin. Il principio dialogico, Einaudi, Torino 1990; La deviazione dei lumi, Tempi moderni, Napoli 1990; Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversita’ umana, Einaudi, Torino 1991; Di fronte all’estremo, Garzanti, Milano 1992 (ma cfr. la seconda edizione francese, Seuil, Paris 1994); I generi del discorso, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1993; Una tragedia vissuta. Scene di guerra civile, Garzanti, Milano 1995; Le morali della storia, Einaudi, Torino 1995; Gli abusi della memoria, Ipermedium, Napoli 1996; L’uomo spaesato. I percorsi dell’appartenenza, Donzelli, Roma 1997; La vita comune, Pratiche, Milano 1998; Le jardin imparfait, Grasset, 1998; Elogio del quotidiano. Saggio sulla pittura olandese del Seicento, Apeiron, 2000; Elogio dell’individuo. Saggio sulla pittura fiamminga del Rinascimento, Apeiron, 2001; Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001; Il nuovo disordine mondiale, Garzanti, Milano 2003; Benjamin Constant. La passione democratica, Donzelli, Roma 2003; Lo spirito dell’illuminismo, Garzanti, Milano 2007; La letteratura in pericolo, Garzanti, Milano 2008 (tra esse segnaliamo particolarmente Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001: un’opera che ci sembra fondamentale)]
Autonomia, laicita’, verita’, umanita’ e universalita’: questi secondo Tzvetan Todorov i cinque valori chiave dell’Illuminismo, un movimento di idee di cui oggi egli ci aiuta a riscoprire l’attualita’. Morto Dio e crollate le ideologie, e’ proprio nello "spirito dell’illuminismo" che dobbiamo ripartire secondo il grande pensatore di origini bulgare naturalizzato francese. Lo spirito dell’illuminismo e’ anche il titolo di un libro da poco pubblicato da Garzanti (traduzione di Emanuele Lana, pp. 128, euro 11). Ultima opera della foltissima bibliografia di Tzvetan Todorov, che per il lavoro di una vita intera di studi e ricerche, oltre che per l’impegno di intellettuale militante, e’ stato insignito sabato del prestigioso premio Grinzane Cavour "Dialogo tra i continenti".
Roberto Carnero: Todorov, nel suo ultimo libro lei prova a spiegare l’attualita’ dell’illuminismo. Si tratta secondo lei di una via che e’
ancora possibile percorrere?
Tzvetan Todorov: L’illuminismo ci ha dato un’eredita’ che e’ importante riprendere e ritrovare, ma dobbiamo compiere questa operazione in maniera critica e selettiva. In altre parole dobbiamo valorizzare, oggi, alcuni aspetti della tradizione illuministica, ma anche criticare, per altri versi, l’illuminismo stesso. Uno degli insegnamenti di quella cultura e’ infatti quello di rifiutare i dogmi. E noi ovviamente non dobbiamo correre il rischio di credere a una sorta di dogma illuministico.
Roberto Carnero: Dunque che cosa dovremmo prendere e che cosa invece tralasciare?
Tzvetan Todorov: Vanno evitate le deviazioni di una cultura ricca come quella illuministica. L’illuminismo ha lottato principalmente per due
obiettivi: l’esercizio della sovranita’ da parte del popolo e la liberta’
degli individui dalle imposizioni esterne, religiose e anche politiche. E’
tutto qua, ma mi sembra un insegnamento non da poco. Dobbiamo pero’ essere in grado di evitare il rischio di una sistematizzazione esteriore e abusiva della ragione illuministica, che finirebbe per negare la complessita’
interiore e la diversita’. Questa dittatura di una ragione astratta e’
figlia illegittima dell’illuminismo stesso. Che invece ha affermato il principio della liberta’ di coscienza e i diritti inalienabili dell’uomo. In questo senso e’ lo stesso illuminismo a insegnare a non essere dominati dallo scientismo. E ancora: l’illuminismo ha combattuto per l’universalita’
del genere umano. Ma non si possono imporre le medesime istituzioni e i medesimi valori a tutta l’umanita’, come certi politici oggi sembrano voler fare o forse fingono di voler fare per altri scopi meno nobili. Questa deviazione verso la creazione di un governo mondiale e’ qualcosa da combattere. Quella illuministica e’ un’eredita’ complessa e questa complessita’ va preservata. In essa coesistono l’universalismo e l’attenzione alle diversita’.
Roberto Carnero: Viviamo in un mondo sempre piu’ globale, ma in cui paradossalmente, forse per reazione a questo processo di globalizzazione, prendono piede particolarismi di ogni genere. C’e’ una contraddizione tra queste due spinte, oppure possono accompagnarsi in un processo virtuoso?
Tzvetan Todorov: La nostra epoca e’ caratterizzata da una nuova valorizzazione degli elementi locali, ma in un contesto di mondializzazione.
Le due esigenze possono combinarsi. Mi sembra che lo testimoni il progetto di una realta’ come l’Unione Europea. Nel corso dei secoli l’Europa ha conosciuto diversi tentativi di unificazione: da Carlo V a Napoleone fino, nel Novecento, a Hitler. Ma si trattava sempre di uno stato piu’ forte che provava a sottomettere gli altri, imponendo se stesso e le proprie leggi agli altri Paesi. L’Unione Europea oggi sta invece provando a conciliare le esigenze delle regioni europee (prima ancora che degli stati europei) con una realta’ politica piu’ ampia. E’ la prima volta che si sta cercando di preservare l’autonomia delle nazioni all’interno di una realta’
sovranazionale. Forse l’Unione Europea potra’ servire da modello ad altre parti del mondo.
Roberto Carnero: Eppure in molti sono scettici sulla tenuta e sull’efficacia dellíUnione Europea. A parte le polemiche di questi giorni tra i diversi Paesi membri, sembra non esserci un movimento culturale diffuso a sostegno di questa realta’. Tanto che l’Europa unita appare spesso come un’area di libero mercato, senza che ci sia un’azione politica di alto profilo.
Tzvetan Todorov: Io sono un europeista convinto, non ho difficolta’ ad ammetterlo. Forse e’ per questo che non condivido affatto il pessimismo dell’analisi che lei riferisce. Oggi mi sembra che l’Europa abbia un respiro politico di una certa ampiezza, anche se e’ vero che ci sono degli spazi di miglioramento. Ma ogni esperienza umana e’ perfettibile, cio’ vale per qualsiasi realta’.
Roberto Carnero: Tornando alle basi culturali del nostro continente, quali sono le radici di questa cultura? Certo c’e’ l’illuminismo, ma autorita’
religiose come il papa vorrebbero un esplicito riferimento alla componente cristiana. Lei cosa ne pensa?
Tzvetan Todorov: Penso che sia impossibile ridurre l’identita’ dell’Europa a un contenuto singolo. L’Europa non e’ semplicemente la conseguenza del mondo greco-romano, del pensiero giudaico-cristiano o della cultura illuministica, di Platone o di Aristotele, del cristianesimo, dell’amor cortese dei trovatori o dell’epica cavalleresca. L’Europa e’ stata la culla della tolleranza e dell’universalismo, ma anche della piu’ violenta intolleranza e dei piu’ biechi particolarismi. La sua storia e’ fatta di luci e di ombre, di cui dobbiamo essere consapevoli.
Roberto Carnero: E oggi?
Tzvetan Todorov: La cultura europea e’ una cultura viva e come tutte le cose vive muta e cambia di continuo. Per questo andrebbe evitato l’irrigidimento in posizioni univoche ed escludenti.
Roberto Carnero: Qual e’ il ruolo delle religioni in questo processo?
Tzvetan Todorov: Io posso parlare due o tre lingue, ma non posso seguire contemporaneamente due o tre religioni. Non posso essere insieme cattolico e protestante, cristiano e musulmano. Esiste una prerogativa della fede religiosa che e’ la sua esclusivita’. Una prerogativa che invece non e’
delle culture, le quali possono integrarsi tra loro. Credo che noi tendiamo ad attribuire un’eccessiva importanza al vocabolario religioso con cui si pongono delle rivendicazioni che di per se’ poco hanno a che fare con la religione.
Roberto Carnero: Cioe’?
Tzvetan Todorov: Ad esempio il fondamentalismo islamico adopera un vocabolario religioso funzionale a delle rivendicazioni che religiose non sono, bensi’ sono politiche. Tuttavia quel lessico religioso consente di esprimere le questioni politiche in modo piu’ forte ed efficace. Dovremmo imparare a distinguere i due piani, perche’ non credo che siano le religioni in se’ il vero problema, quanto piuttosto l’uso strumentale che se ne fa.
Roberto Carnero: Veniamo alla Francia, dove lei vive da piu’ di quarant’anni. Dall’Italia abbiamo assistito al successo di Nicolas Sarkozy con l’impressione che i francesi abbiano voluto mettere alla presidenza del loro Paese il classico "uomo forte". E’ cosi’?
Tzvetan Todorov: Penso che in Francia prima delle ultime elezioni presidenziali si sentisse un diffuso bisogno di rinnovare la politica per rinnovare la societa’. C’era cioe’ il desiderio di cambiare non solo le persone, ma anche il modo di fare politica. Con la sua carriera quasi cinquantennale, un uomo come Chirac dava ormai l’impressione di un certo immobilismo, dell’atteggiamento di chi si accontenta delle buone intenzioni e delle belle parole, senza mai passare ai fatti. Sarkozy e’ apparso piu’
giovane, diretto, franco, trasparente, deciso. E’ stato visto come un personaggio con delle idee che non erano solo il risultato dell’appartenenza a una certa parte politica, ma la conseguenza di convinzioni personali.
Credo che proprio per questo i francesi lo abbiano votato massicciamente.
Volevano non tanto un uomo forte, quanto un uomo d’azione. E lui, con il suo modo di fare, e’ l’incarnazione, a tratti anche un po’ eccessiva, di un tale dinamismo e di un tale attivismo: viaggia nella stessa mattinata da una capitale all’altra, alle quattro del pomeriggio incontra i magistrati, alle cinque gli operai di Tolosa, alle sette pronuncia un discorso al parlamento.
Rimane pero’ da chiedersi se tutto cio’ sia sostanza o solo apparenza. A questo non so rispondere: del resto mi considero francese solo per tre quarti. E per l’altro quarto non so neanch’io cosa sono.
FONTE:
VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it Numero 198 del 30 giugno 2008
Sinistra, non di solo pane...
Ecco cosa non hai visto
di Lea Melandri (Liberazione, 29.04.08)
Se molti operai non avessero votato Lega, il 13-14 aprile 2008, forse non avremmo mai saputo cosa pensano dei gay, dei migranti, delle donne, dei dirigenti di sinistra, e del loro stesso lavoro. Da questo punto di vista, aver perso le elezioni è una fortuna e un’occasione da cogliere. Peccato che, dopo una rapida comparsa e altrettanto rapide interviste, siano spariti di nuovo dalla scena, per ridiventare l’oggetto delle verbose e perlopiù astratte dissertazioni di politici e intellettuali, che vorrebbero "rifondare" la sinistra, ripensare il "comunismo", ma partendo sempre dalle stesse domande: «che fare?», «con chi?». Con questa premessa, anche la risposta finisce per avere un sapore antico, che è nostalgia del già noto e, insieme, attesa di una miracolosa palingenesi. Sull’orizzonte famigliare e perduto tornano ad allinearsi ancora una volta il popolo, il territorio, la gente, i lavoratori e le lavoratrici - un femminile d’obbligo dal momento che la questione di genere, rimossa come problema politico, è diventata una vera ossessione di correttezza linguistica.
Di fronte alle parole ricorrenti -"radicarsi nel sociale", "ritorno nei quartieri", "apertura all’esterno" - viene spontaneo chiedersi: «ma dove sono stati finora?». Forse in riunione. Con tutti quegli organismi impalcati l’uno sull’altro, fino alla cima della piramide del partito, l’autoreferenzialità è inevitabile, la schiera dei dirigenti si infoltisce e quando si cerca la "base" ci si accorge che non c’è più. Nel documento della Conferenza nazionale di organizzazione, approvato il 16-17 dicembre 2006, si diceva che la crisi della politica e della forma partito riguardava anche Rifondazione: separatezza dei gruppi istituzionali, burocratismo, centralismo, personalismi, ingessamento del dibattito democratico. Nel Comitato politico nazionale di circa una settimana fa, convocato a ridosso del terremoto elettorale e dietro la pressione di quanti, dentro e fuori Rifondazione, vorrebbero avviarsi rapidamente verso una nuova sinistra "unita e plurale", l’idea di un possibile scioglimento, reale o immaginaria che sia, ha risvegliato spinte contrarie: la difesa di una "comunità di appartenenza", il rafforzamento di un "corpo collettivo", della sua storia, delle passioni che lo hanno alimentato. Un riflesso noto, prevedibile, che parla del difficile rapporto tra "gruppo chiuso" e "gruppo aperto", tra processi di "accomunamento" e settarizzazione, è venuto a coprire un lutto duplice: la sparizione di elettori fedeli e l’affacciarsi su un vuoto organizzativo, spinto quasi fatalmente verso la figura rassicurante di un leader carismatico. Colpisce il fatto che la minaccia alla propria sopravvivenza, il pericolo di disgregazione, dispersione di qualcosa che è stato conquistato con fatica, si sia così massicciamente spostata sul versante da cui sembrava venire, al contrario, la possibilità di un’apertura e di un potenziamento.
«Se nell’estraneo al gruppo non viene colta l’ostilità ma il suo contrario, vale a dire se nell’estraneo noi troviamo non il diverso ma l’uguale, il comune a noi, che pure esiste, allora tutto il movimento di elaborazione del gruppo si svolge con un senso diverso». La "comunanza stessa", in questo caso, diventa "un bene da estendere" (Elvio Fachinelli, Gruppo chiuso o gruppo aperto? , "Quaderni piacentini", n.36, nov. 1968). Perché i gruppi, le associazioni, l’assemblea che si è riunita a Firenze il 19 aprile per proporre "case comuni della sinistra", sperimentazione di "laboratori di analisi e di pensiero", spazi decisionali aperti a tutti, "fuori da leaderismi e da centralismi democratici", non ha convinto a procedere nel ripensamento della forma partito avviato a Carrara, il 29 marzo-1 aprile 2007 con la nascita della Sinistra europea? Perché si invocano territori, radicamenti, soggetti sociali perduti, e non si vede la terra su cui si mettono i piedi, luoghi e persone che già ci sono? Perché tanto insistenza sull’ "ascolto" di interlocutori lontani e distratti, e tanta sordità alla voce del vicino? Perché l’accelerazione verso la "costituente" di un nuovo soggetto della sinistra, capace di "impastare" idealmente lotte sociali e culture politiche diverse, non convince neppure chi, come me, non ha storia di partito né desidera averla, e pensa che questa forma organizzativa sia esaurita, e non da ora? Se a molti oggi appare inadeguata l’idea di partito come "organizzazione di combattimento", centralizzata e gerarchica - una specie di "stato dentro lo stato" - anche il dibattito che dovrebbe aprire la strada a nuove forme organizzative, così come è stato finora, appare molto meno "aperto, ampio, plurale" di quanto prometta.
Al di là delle affermazioni, traspare il rischio, sollevato al Cpn da Franco Russo, che a mettersi insieme siano solo "gruppi dirigenti", e, soprattutto, che si tratti ancora una volta di un ceto politico "neutro", cioè sostanzialmente maschile, tanto da far rimpiangere la consapevolezza nuova che era apparsa nella relazione di Franco Giordano a Carrara: «E per noi maschi c’è un problema che riguarda l’abbandono di ogni universalismo neutro e del riconoscimento della nostra parzialità, di dismettere il narcisismo che è sempre il segno più pubblico del cerimoniale del potere».
Ma non è solo la partecipazione democratica a far difetto in assemblee che dovrebbero far dialogare o confliggere culture diverse, e che si limitano a far sfilare sequenze di interventi "preiscritti", cioè pensati prima e al di fuori della relazione personale che si crea in un incontro, fuori quindi dagli imprevisti e dai cambiamenti che ne possono sortire. Insieme al femminismo, il pesante rimosso che si porta dietro la sinistra è tutto ciò che, connesso al destino femminile, è stato messo al bando dalla politica: il corpo, la persona, l’intelligenza e la sensibilità legati a esperienze fondamentali come la nutrizione, la riproduzione, l’amore, la cura. Di questa "mutilazione" e delle conseguenze che ne sono derivate alla vita politica, scrive con grande lucidità Marco Deriu, nel suo articolo Gli uomini il desiderio e la crisi della politica ("Pedagogika", n.6, dic. 2004):
«Quando si parla della crisi della politica e della partecipazione, si fa riferimento alla crisi dello Stato, delle istituzioni, dei partiti, dei sindacati. Si fa riferimento cioè alla crisi delle forme, delle strutture, delle organizzazioni. Di conseguenza si propongono riforme, interventi, operazioni di ingegneria politica, nuove aggregazioni politiche nella speranza di colmare il vuoto...La concezione strumentale dell’azione politica, tipica della cultura maschile, tende a deificare i valori e i desideri di cambiamento sociale, trasformandoli in qualcosa di esterno, di oggettivo, di quantificabile. Le persone, in questo tipico modo di agire finalistico, divengono mezzi, strumenti, materia da plasmare per realizzare i nostri progetti razionali. Invano si cercherebbe nei discorsi degli uomini politici uno sforzo di consapevolezza che riconosca il legame tra sé e il mondo, tra la propria esistenza e l’esistenza di altri esseri. In altre parole, quello che ci manca più di ogni altra cosa non è un nuovo progetto politico, un nuovo soggetto o una nuova formazione. Ci manca invece una politica che sia il riflesso di un desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri».
Per un’azione politica che voglia tener dentro "unità e pluralità", differenza e condivisione, è necessario il rapporto diretto tra persona e persona, ma anche la disponibilità del singolo a lavorare su di sé, a mettersi in discussione. Quando si constata con sorpresa - come nel caso degli operai che hanno votato a destra - che "identità sociale" e "soggettività politica" sono scisse, si dice indirettamente che l’individuo, non solo non coincide col cittadino - anzi, diceva Tocqueville, è il suo "peggior nemico" - ma non si identifica neppure totalmente con la sua collocazione nei rapporti di lavoro, col suo essere in un territorio, né solo col suo ruolo sessuale nella coppia, nella famiglia.
L’essenza della politica, il motore primo della conflittualità sociale e della trasformazione, si sono venuti spostando, di volta in volta, su questo o quell’aspetto dell’esistenza, facendolo diventare unico e centrale. Dire che nel "sé", nel vissuto del singolo si danno concentrati e amalgamati bisogni, identità, luoghi, rapporti, passioni, fantasie, interessi e desideri diversi, è riconoscere che c’è un "territorio" che sfugge, o esorbita, dai confini storici e geografici, dai luoghi della vita pubblica - e quindi irriducibile al sociale - che è la vita psichica, una terra di confine tra inconscio e coscienza, tra corpo e pensiero, in cui affondano radici ancora in gran parte inesplorate.
Le "viscere" razziste, omofobe, misogine, su cui la destra antipolitica ha fatto breccia per raccogliere consensi, è il sedimento di barbarie, ignoranza e antichi pregiudizi, ma anche sogni e desideri mal riposti, che la sinistra, ancorata al primato del lavoro e della classe operaia, ha sempre trascurato, come se dopo il grande balzo della coscienza operato da Marx non ci fossero stati altri rivolgimenti altrettanto radicali, come la psicanalisi, il femminismo, la non violenza, la biopolitica, l’ambientalismo.
L’individuo, la persona, la soggettività intesa come esperienza del singolo e come corpo pensante, si sono fatti strada con fatica, fuori da vincoli famigliari e comunitari obbligati, e se sono andati assumendo sempre più le forme di un individualismo chiuso alla solidarietà, è anche perché su questo versante partiti e movimenti di sinistra hanno preceduto separati, guardandosi reciprocamente con sospetto. "Il personale è politico", per chi si preoccupava negli anni ’70 di salvaguardare la grande "unità di classe", suonava come uno slogan "borghese". Oggi, chi sottolinea la dimensione metropolitana del politico, chi si batte per i diritti civili di conviventi, di gay e lesbiche, per la libertà femminile, per la cittadinanza dei migranti, passa per "radical chic". Eppure è dalla testimonianza diretta dei singoli, voci che si raccolgono fuori dal dibattito pubblico, fuori, soprattutto, dalla cerchia del ceto politico, che il "sociale" tanto invocato prende forma, caricandosi di ragioni e di senso. Non necessariamente quelli che ci aspettiamo, ma che tuttavia non possiamo ignorare, se si vuole davvero costruire un’alternativa meno violenta e alienata di società.
Tatiana Gentilizi, giovane operaia della Zanussi di Forlì, nell’intervista pubblicata dalla rivista "Una città", così descrive il suo lavoro: «L’importante lì è non parlare del tuo lavoro, che è un po’ deprimente, ma di tutt’altro. Parli delle vacanze che hai fatto, di quello che ti sei comprata, del Grande fratello . Se non guardi il Grande fratello , là dentro sei un po’ tagliata fuori...I giovani che entrano in fabbrica lo fanno probabilmente per bisogno, ognuno ha la sua storia. Però tutti, o almeno la stragrande maggioranza, lo vedono come un momento di transizione, per cui non si interessano più di tanto del loro essere operai...Non c’è più una condivisione profonda del lavoro, l’importante è passare comunque le otto ore nella maniera più tranquilla possibile e poi del domani chissenefrega, si vedrà. Di positivo c’è che ti dà la possibilità di pensare ad altre cose, puoi anche ascoltare la musica: puoi portare il walkman e sentirlo in un solo orecchio..Oggi l’operaio si sente meno operaio e prevalgono le strategie individuali».
«Non si vive di solo pane», dice Bloch, «soprattutto quando non se ne ha». L’insegnante di una scuola per apprendisti commessi e impiegati spinge i suoi alunni a mobilitarsi il 1° maggio sul disagio della loro condizione. Lei porta in corteo il cartello "Viva l’unità delle masse popolari", loro, pochi numericamente, esclamano "basta con la politica". Alla richiesta di quali fossero i loro interessi, le ragazze rispondono: «Le nostre letture sono di tutti i generi, in particolare riviste come Grazia , Gioia , Grand Hotel ». «Il mondo cui tendevano e tendono - commenta l’insegnante sulla rivista "L’erba voglio" (n.1, luglio 1971) - e che vedono riflesso in tali letture, è un mondo fatto di vita non pressata dal bisogno di guadagno, una vita fatta di cose belle, di automobili sportive, di profondi affetti e storie amorose...vita che non vivono, e a cui pure tendono». In nota all’articolo, la redazione commenta: «Per poter veramente lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni». Non potevamo accorgercene prima?
LEA MELANDRI DIALOGA CON LISETTA CARMI *
Ho conosciuto Lisetta Carmi nel 1972, quando usci’ con una piccola casa editrice di Roma (Essedi’ Editrice) il suo libro di fotografie I travestiti, rifiutato dall’editore che lo aveva accettato e dalla maggioranza dei librai. Ripugnanza e orrore per l’argomento ne fecero in quegli anni un libro quasi clandestino, nonostante l’originale valore conoscitivo sottolineato dallo psicanalista Elvio Fachinelli nella Prefazione. Ritrovo oggi Lisetta nella splendida campagna della Val d’Itri, tra ulivi, trulli, tappeti di margherite e papaveri, l’ashram da lei fondato e la casa nel centro di Cisternino, paese di elezione da quasi quarant’anni. Le parlo subito della possibilita’ di ristampare il suo lavoro in un momento di grande interesse per queste tematiche. Ma lei mi sposta continuamente lo sguardo, mi avvolge con l’appassionato racconto delle sue "cinque vite", perche’, mi spiega, "l’opera di un artista va giudicata nella sua interezza, a ciclo compiuto".
Lea Melandri: Il tuo percorso esistenziale e artistico e’ contrassegnato, a prima vista, dal susseguirsi di fasi diverse, e quindi di svolte nette: il pianoforte, la fotografia, l’incontro col maestro induista Babaji e la fondazione di un’ashram a Cisternino, la ripresa della musica e della pittura con Paolo Ferrari, del Centro Studi Assenza, e il momento attuale che tu chiami "il periodo di totale liberta’". Io invece vedo, nella tua singolare esperienza, una linea di continuita’, che riassumerei cosi’:
l’amore per la vita nei suoi aspetti molteplici e contraddittori; la forza e la coerenza nel tenere insieme ricerca interiore, creazione artistica e impegno sociale; infine, la lezione che ti e’ venuta dallo studio rigoroso della musica, quella concentrazione e solitudine che tu stessa riconosci aver "dato equilibrio" al tuo carattere ed essere rimaste come sottofondo alla fotografia.
Lisetta Carmi: Mi ritrovo totalmente in questa descrizione della mia vita.
Sono nata in una famiglia borghese e non amo le famiglie borghesi, anche se la mia era una bellissima famiglia, due genitori intelligenti e molto severi. Non ho potuto identificarmi con mia madre, una grande artista che, sposata a ventidue anni e con tre figli, non ha potuto realizzarsi come voleva. Me lo ha confessato nell’estrema vecchiaia, quando e’ venuta ad abitare con me nel trullo a Cisternino, cinque anni prima di morire, a cent’anni. Ero l’unica figlia femmina e da piccola avrei voluto essere un maschio, perche’ papa’ era un uomo straordinario e cosi’ i miei due fratelli, Eugenio e Marcello. Ho accettato, e con gran gioia, di essere una donna soltanto alla fine del lavoro che ho fatto coi travestiti. Quando l’ho fatto vedere allo psichiatra Sergio Piro, alla domanda "Ma lei si identificava come uomo o come donna?", io ho detto "Ne’ come uomo ne’ come donna, perche’ esistono solo gli esseri umani". A quel punto ho capito che ero felice di essere una donna, che rifiutava il ruolo femminile ma non la sua appartenenza di sesso. Ma l’avvenimento che ha cambiato piu’
profondamente la mia vita e’ stato l’incontro con Babaji. Quando l’ho visto a Jaipur, l’ho riconosciuto come il mio guru da sempre. Insegnava in modo particolare, non con le parole ma coi fatti, con gli atteggiamenti, le cose.
Mi ha insegnato che il denaro non e’ nostro, ma ci viene affidato da Dio per il bene di tutti, per cui va dato a ognuno secondo il suo merito o il suo bisogno. Quello che ha dato una misura alla mia vita e’ l’amore per l’umanita’ e la ricerca della verita’.
Lea Melandri: Tu hai detto spesso che eventi di grande spessore, anche tragici, hanno attraversato la tua vita, a partire dalle leggi razziali che nel 1938 ti hanno costretta, a soli quattordici anni, a lasciare la scuola e poi a fuggire in Svizzera con la tua famiglia. Ma sempre hai aggiunto che ti hanno aiutata a crescere, a condividere il dolore del mondo, a metterti dalla parte di chi soffre, di chi il potere lo subisce. Non una scelta, quindi, ma una "inclinazione", legata a una sofferenza e a una ricerca
personale: l’essere ebrea, donna, comunista, sopravvissuta alla persecuzione razziale. Da qui la partecipazione profonda per quell’"universo umano oscuro" dei "senza voce", a cui hai cercato ogni volta di dare storia, visibilita’, attraverso il tuo raccontare o "scrivere con la macchina fotografica". Quella che e’ entrata nel tuo lavoro e’ l’umanita’ dolente degli emarginati, la parte di se’ che si rifiuta o non si vuole vedere, ma e’, contraddittoriamente, anche il piacere di liberarsi di vincoli, convenzioni, poteri e artifici inutili. Tu hai voluto fermare lo sguardo su cio’ che appare "impresentabile" della vita: la nascita nella sua naturalita’, come nelle fotografie sul parto fatte nell’ospedale di Galliera, la morte nella visione autoritaria e erotica che la borghesia genovese di fine ’800 ne ha dato nel cimitero di Staglieno, l’inferno dei portuali di Genova, la disperazione e l’ombra di un poeta vicino alla fine, nei dodici scatti "rubati" a Ezra Pound nel 1966 a Sant’Ambrogio di Rapallo.
Nello stesso tempo e’ come se tu avessi voluto mostrare, in questi aspetti rifiutati, i segnali di una liberta’ sconosciuta, di una umanita’ diversa.
Lisetta Carmi: Ti faccio un esempio. Io sono stata in Venezuela per tre mesi e ho frequentato molto i rivoluzionari, i professori universitari, avevo molti contatti. Poi sono andata a Maracaibo, che allora era una delle citta’ piu’ ricche del mondo, con una immensa quantita’ di petrolio e una poverta’ infinita. Uno dei servizi, pubblicati sulla rivista "Nuovi argomenti", era sui negozi di poverissime persone, che avevano negozietti di legno con insegne che dicevano: "Mi ultimo esfuerzo", "La sucursal del cielo", "Libreria pobremente", "Mi ultima esperanza", "No vendo vicios".
Titoli meravigliosi! Il servizio su Maracaibo mostra un quartiere poverissimo ma allegrissimo. A Maracaibo ho fotografato anche un basurero, il posto dove buttavano la spazzatura. Era una distesa immensa, tutta fumante, piena di spazzatura, chiusa. I camion arrivavano, aprivano e la buttavano giu’. Subito arrivava la folla dei poveri di Maracaibo a raccogliere quello che si poteva ancora vendere. C’e’ una fotografia con tante facce di ragazzi che vengono fuori ridendo da una montagna di basura.
Avendo un grande amore per le persone, avevo con la gente un rapporto diretto. Nessuno si rifiutava, capivano che li fotografavo col cuore, che non andavo a fotografare la miseria coi soldi dei giornali ricchi. E’ stato cosi’ anche coi portuali di Genova. C’era uno che mi veniva a prendere da casa alle cinque e mi portava sul porto, dove mai mi avrebbero fatta entrare, comunista com’ero, perche’ sapevano che avrei fatto un lavoro contro la borghesia genovese. "Lisetta - mi dicevano - tu vieni a fotografare le formiche!", e tuttavia mi amavano moltissimo, perche’
vedevano che lavoravo per loro.
Lea Melandri: Io ti ho conosciuta l’anno in cui hai pubblicato il tuo lavoro sui travestiti di Genova, nel libro omonimo edito da Essedi’ Editrice di Roma nel 1972, con una Prefazione di Elvio Fachinelli. Quella ricerca mi sembra che sia tuttora la piu’ complessa, la piu’ densa di investimenti intellettuali, fantastici, emotivi, personali. Nella figura del travestito, ricercato e respinto dalla societa’, confluiscono la persecuzione contro gli ebrei e l’omofobia, la paura del diverso, dell’effeminato, il travaglio della donna contro un ruolo imposto e della borghese ribelle e tragressiva.
Ma vi si legge anche il piacere di potersi identificare con chi, mosso da coraggio e provocazione, aveva cercato di uscire da rapporti standardizzati e violenti, con quella che appariva come un’"avanguardia contraddittoria", segnale della crisi del rapporto uomo-donna. Tu stessa hai definito i sei anni trascorsi con loro, in una frequentazione quotidiana, "quasi una terapia".
Lisetta Carmi: Invece di andare per sei anni da uno psicanalista e spendere soldi senza risolvere nulla, ho fatto questo lavoro sui travestiti che mi ha fatto capire molte cose della mia vita. Nel mondo borghese io vedevo tanta ipocrisia. Quando ero particolarmente triste e ribelle di fronte a una societa’ che vuole apparire diversa da come e’, andavo da loro:
persone sfruttate, aggredite, giudicate male dalla societa’, pero’ vere.
Sono stata attirata dal loro essere e non essere uomini e donne nello stesso corpo; vedevo in loro una verita’, un’allegria, un vivere "altro" che mi ha aperto quella porta che il mondo borghese non vuole varcare, chiuso nella finzione e nelle false sicurezze. Io sono contro la famiglia, che considero una prigione, mi piacciono le famiglie allargate. Quando sento dire "mio figlio", "mia moglie", "mio marito", penso: ma che follia! Non c’e’ niente di nostro su questa terra, neanche il corpo e’ nostro, ci e’ dato perche’
noi possiamo crescere.
Lea Melandri: Nella trascrizione grafica del Quaderno musicale di Luigi Dallapiccola (Ed. Sedizioni, Milano 2005) ho trovato molte considerazioni che potrebbero essere riferite a te. Di Dallapiccola dici: "un uomo sensibile a molti e gravi problemi di oggi... un artista che difende nel suo isolamento, nel suo vivere appartato, la sua liberta’ interiore, per poter esprimere musicalmente la sua originale partecipazione alla vicenda umana del secolo XX". In un altro passaggio scrivi: "Soltanto affermando sinceramente e coraggiosamente noi stessi, possiamo dire una parola valida nel tempo per noi e per gli altri". Sono questi due aspetti che io vedo in te e nel tuo lavoro: la sensibilita’ profonda ai problemi del mondo, nei vari contesti in cui ti sei trovata a vivere, tra culture diverse, e il modo originale con cui questa passione di condividere si e’ legata in tutto il tuo percorso alla solitudine, alla rigorosa ricerca di una liberta’
interiore. Per strade diverse, io ho imparato dal femminismo che e’ solo partendo dalla storia personale che si possono capire gli altri. La gente confonde generalmente la solitudine con l’isolamento, con la perdita di ogni interesse. Io la considero, al contrario, un privilegio, a volte anche doloroso. Da un certo punto in avanti, ho sentito proprio il piacere di un intrattenimento tra se’ e se’, pieno delle voci, dei volti e di tutte le storie di cui siamo fatti.
Lisetta Carmi: Sono totalmente convinta di questo: se uno non analizza la propria interiorita’, se non vive intensamente la propria vita, non puo’
capire gli altri. Qui, attorno a me, c’e’ tutto: isolamento e partecipazione totale al mondo. In un mio scritto leggo: amava il silenzio, perche’ parlare disperde.
* Nonviolenza. Femminile plurale. Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino" Numero 137 del 2 novembre 2007
[Dal sito della Libera universita’ delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente dialogo gia’ apparso el suppemento settimanale "D" del quotidiano "La Repubblica" del 29 settembre 2007.
Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista, redattrice della rivista "L’erba voglio" (1971-1975), direttrice della rivista "Lapis", e’ impegnata nel movimento femminista e nella riflessione teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente L’infamia originaria, L’erba voglio, Milano 1977, Manifestolibri, Roma 1997; Come nasce il sogno d’amore, Rizzoli, Milano 1988, Bollati Boringhieri, Torino 2002; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita’ indicibile, Franco Angeli, Milano 2000; Le passioni del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene corsi presso l’Associazione per una Libera Universita’ delle Donne di Milano, di cui e’ stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E’ stata redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L’erba voglio (1971-1978), di cui ha curato l’antologia: L’erba voglio. Il desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al movimento delle donne negli anni ’70 e di questa ricerca sulla problematica dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni:
L’infamia originaria, edizioni L’erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997); Come nasce il sogno d’amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991; La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita’ indicibile. La pratica dell’inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: ’Ragazza In’, ’Noi donne’, ’Extra Manifesto’, ’L’Unita’’. Collaboratrice della rivista ’Carnet’ e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la rivista ’Lapis. Percorsi della riflessione femminile’, di cui ha curato, insieme ad altre, l’antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998. Nel sito dell’Universita’ delle donne scrive per le rubriche ’Pensiamoci’ e ’Femminismi’".
Lisetta Carmi (Genova, 1924), intellettuale, musicista, artista, amica dell’umanita’. Dal sito www.exibart.com riprendiamo la seguente scheda: "Ripercorrere oggi la vicenda fotografica di Lisetta Carmi significa coglierne da un lato l’alto significato sotteso di esperienza umana, dall’altro recuperare i valori di una fase storica che ha segnato in maniera forte la societa’ e la cultura italiane tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento. Nata a Genova nel 1924, vissuta in via Sturla ’nell’allegria di una famiglia protettiva e molto severa, in un clima di inclinazioni artistiche e di rigore (il padre assicuratore e la madre donna colta e raffinata)’ con due fratelli ’intelligenti e creativi’, Lisetta Carmi studio’ musica alla scuola del maestro Alfredo They allievo di Ferruccio Busoni perfezionandosi in pianoforte. Segnata negli anni del secondo conflitto mondiale dal clima di violenza e persecuzione contro gli ebrei di cui la famiglia ebbe a subire pesantemente gli effetti, intraprende dopo la guerra, con successo, la carriera di concertista. L’interesse e la svolta per la fotografia maturano in lei improvvisi dopo il 1960 quando, colpita dai movimenti di piazza conseguenti alla svolta a destra del governo Tambroni, mal sopportando il clima ovattato delle serate concertistiche al pianoforte, decide in spregio ai rischi ai quali poteva andare incontro, contro i quali la metteva in guardia il maestro They giustamente preoccupato, di scendere in piazza accanto ai portuali e protestare con essi, dando testimonianza del suo desiderio di impegno civile. La fotografia la scopri’ quasi subito, in un viaggio fatto in Puglia dove aveva seguito l’amico etnomusicologo Leo Levi che vi si recava per studiare i canti di una comunita’ ebraica. Consapevole dalla bellezza del paesaggio che andava a visitare e della ricchezza di testimonianze artistiche che avrebbe incontrato, ritenne doveroso portare con se’ la macchina fotografica (un’Agfa Silet) per trarne immagini. Al rientro a Genova, chi le vide ne rimase attratto e impressionato positivamente tanto che Lisetta Carmi si convinse che quella di fotografa poteva essere la sua nuova vita, una volta lasciata la musica. Fotografo’ prima per il teatro Duse, qualche anno; come fotografa di scena apprese l’arte dei dosaggi sapienti di luci e ombre, quindi inizio’ a fare reportage, pubblicando sui giornali, dai quali seppe comunque sempre tenersi indipendente. Nascono cosi’ le ricerche e i servizi sul lavoro dei portuali, sui travestiti, sulla borghesia genovese vista attraverso i monumenti sulle tombe nel cimitero di Staglieno; e comincia a viaggiare, viaggia molto: Parigi, Israele, Venezuela, Afghanistan, India, Pakistan, sempre attenta alla gente e ai suoi problemi. Ma covava dentro un’ansia insoddisfatta, un desiderio di rinnovamento spirituale, una spinta verso nuovi orizzonti e prospettive che trovarono appagamento nel 1976 nel momento in cui le si rivelo’ ’Babaji Hairakhan Baba... come uno specchio chiaro in cui potevo vedere il mio se’’. Interviene allora un nuovo radicale cambiamento: abbandona la fotografia e nel 1979 crea in Puglia ’terra che il maestro considerava sacra’ un ashram ’per la trasformazione delle persone e la purificazione delle loro menti, per la meditazione e il karma yoga’.
Lisetta Carmi vive oggi in Puglia, a Cisternino. Scrive di lei Uliano Lucas nel saggio che fa da introduzione all’ampia scelta di fotografie pubblicate nel n. 3 dei Quaderni di Aft: ’Nel panorama della fotografia italiana degli anni Sessanta e Settanta che e’ stato, a mio avviso, il periodo piu’ stimolante della storia della nostra fotografia, Lisetta Carmi ha avuto un ruolo centrale quanto insolito e sfuggente. Centrale perche’ a riguardarle oggi, le sue immagini si scoprono tutte inserite in quel momento di rottura, di svolta nella storia della cultura e della societa’ italiana rappresentato appunto dai movimenti antiautoritari e di sinistra degli anni ’60, dall’imporsi della societa’ di massa e dal nascere di un nuovo modo di raccontare e interpretare la realta’. Insolito e sfuggente perche’, pur incarnando a pieno e interpretando con grande forza espressiva questo momento, la Carmi sembra viverne al contempo ai margini, in una sua personalissima storia che la porta fuori dai circuiti e dalle dinamiche del fotogiornalismo di allora, fuori dalle tematiche e dai racconti prediletti, tanto che io stesso, imbattutomi sporadicamente nelle sue immagini e nel suo nome in gioventu’, l’ho scoperta e conosciuta solo in questi ultimi anni quando, uscendo dal vortice dell’impegno politico e del reportage giornalistico, sono tornato a guardare e a ricostruire le tessere e i percorsi della nostra fotografia. Ho riflettuto allora su questa figura anomala, solitaria, di donna, appartenente ad una famiglia della borghesia genovese, di origine ebraica, adolescente durante la guerra, che decide a trent’anni di abbandonare una promettente carriera di concertista e di ricorrere alla macchina fotografica come strumento per conoscere il mondo e se stessa’. La ricerca sui travestiti a Genova fu realizzata nell’arco di un quinquennio tra il 1965 e il 1970. Il volume con le fotografie usci’ nel 1970 dopo non poche traversie e grazie all’impegno del fotografo Luciano D’Alessandro. All’epoca fece abbastanza scalpore: modernissima líimpaginazione dovuta a Giancarlo Iliprandi, l’introduzione era scritta dallo psichiatra Elvio Fachinelli. ’A riguardarlo a distanza di un trentennio - dice Uliano Lucas nel saggio pubblicato nel catalogo della mostra nel fascicolo n. 3 dei Quaderni di Aft -, la sua modernita’, la vitalita’ del racconto, la forza dello stile rimangono intatti. E’ un libro ormai entrato di diritto nella storia della fotografia italiana’"]
UNA BELLA E LUCIDA RIFLESSIONE, MA "PRE-COPERNICANA", E "PRE-FACHINELLIANA" !!! (fls)
di Umberto Galimberti (“la Repubblica”, 19.01.2007)
Eugenio Scalfari, sull’“Espresso” del 18 gennaio, interviene su un tema che entrambi consideriamo molto importante e che potrebbe essere formulato così: che ne è della nostra identità, oggi, in cui assistiamo all’indebolirsi di tutte le appartenenze territoriali, culturali, religiose, ideologiche, familiari, di genere, sessuali, che finora hanno costituito il perimetro, all’interno del quale, si è costituita, è cresciuta, ha preso forma la nostra identità?
Non stiamo diventando anime perse, senza punti di riferimento, che vagano come naufraghi nel mare di quella malintesa libertà che, svincolata da tutte le appartenenze, ritrova se stessa nella semplice possibilità di revocare tutte le scelte, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti, senza la possibilità di costruire una vera biografia?
Entrambi conveniamo che questa è la tendenza del nostro tempo, determinata dai processi di de-territorializzazione indotti dalla globalizzazione e dai processi migratori; dal relativismo culturale conseguente alla conoscenza delle altre culture resa possibile dall’enorme espansione dei mezzi di comunicazione; dal relativismo religioso per cui, chi aderisce a una fede oggi non giudica miscredente e tanto meno combatte chi aderisce ad altre fedi, preferendo, alla posizione di Ratzinger, quella relativista del vescovo del Quattrocento Niccolò Cusano, che giudicava le diverse religioni una semplice variazione di riti dell’unica religione (“una religio in varietate rituum”).
Ancora, entrambi conveniamo che forse incominciano a trovare concreta attuazione i principi illuministici della libertà individuale e della tolleranza in ordine alle modalità di convivenza che possono assumere la forma della famiglia nucleare, allargata o di fatto, in ordine all’appartenenza di genere e all’orientamento sessuale, su cui più non pesano le condanne sociali di un tempo con conseguenti pratiche di emarginazione. Ma se è vero che, da che mondo è mondo, l’identità di ciascuno è stata determinata dalle reti delle proprie appartenenze che la definivano e la identificavano, che ne è della nostra identità oggi che tutte le appartenenze si indeboliscono, si smarginano, si contaminano, diventano ciascuna permeabile all’altra?
Io vedo nell’abbattimento dei confini, entro cui la storia finora ha “confinato” popoli e individui, una grande occasione in ordine non solo a una maggior attuazione del concetto di “tolleranza”, su cui anche Eugenio Scalfari, conoscendo la matrice illuminista del suo pensiero, credo convenga, ma anche la possibilità offerta a tutti di costruire una propria identità senza la comoda protezione dell’appartenenza, e quindi un esser-se-stessi senza che nessun dispositivo territoriale, culturale, religioso, possa davvero codificarci.
Su questo punto Scalfari muove due obiezioni che vanno al cuore del problema. La prima è che “costruire un’identità deprivata delle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia”, perché le appartenenze non sono solo comodi rifugi per chi non è in grado altrimenti di darsi un’identità, ma sono quelle basi culturali che, trasmesse da generazioni a generazioni, consentono a ciascuno individuo di non partire ogni volta da zero, e soprattutto di non “appiattirsi sul presente” che, senza passato e senza futuro, o come dice Scalfari “senza storia” finisce col non sapere come orientarsi, e soprattutto col non avere alcun punto di riferimento che non siano le occasioni del presente.
Vero. Ho sempre in mente un mio bravissimo studente, che dopo essersi laureato in Filosofia con un’ottima tesi, mi chiese se poteva concorrere per un dottorato. Alla mia osservazione che un dottorato in Filosofia non gli avrebbe dato, rispetto alla laurea, maggiori occasioni per inserirsi nel mondo del lavoro, mi rispose: “Lo so, ma almeno per tre anni faccio quello che mi piace e quindi sto bene”. Appiattimento sull’assoluto presente, perché la formula del passato, che premiava con una carriera accademica i migliori, oggi non trova più attuazione, e il futuro non appare più come una promessa, ma come un’incognita, quando non come una minaccia. La storia, fatta di presente, passato e futuro, sembra abbia perso la sua capacità di costruire identità, sostituita in questo dalla tecnica, che ha risolto l’identità di ciascuno nella sua “funzionalità” all’interno degli apparati di appartenenza che si incaricano di distribuire identità. Del resto che significato ha quel gran circolare di biglietti da visita, dove l’identità di ciascuno è data dalla sua collocazione all’interno dell’apparato di appartenenza, e dove il proprio nome e cognome acquista rilievo solo a partire dalla funzione che all’interno dell’apparato ciascuno svolge?
Nell’assegnare identità e appartenenza la tecnica ha sostituito la storia. E questo non è un inconveniente da poco perché, mentre la storia è percorsa dall’idea di “progresso” che porta in sé quel tratto “qualitativo” tendenzialmente indirizzato al miglioramento delle condizioni umane, la tecnica segue solo linee di “sviluppo” che segnano un incremento “quantitativo” molto spesso afinalizzato. Non ci sarebbe infatti tanta inquietudine, tanto stress, tanto consumo di psicofarmaci, tante domande circa il senso della propria esistenza, se un fine, uno scopo, un’idea, un ideale, un valore facesse la sua comparsa nell’età della tecnica. Nasce da qui quel risveglio religioso che fa contenti gli uomini di fede, i quali promettono un senso al di là della terra. Ma è su questa terra che, sia io sia Scalfari, vorremmo trovare tracce di sensatezza, magari potenziando la cultura e quindi la scuola, dove la cultura si trasmette, affinché l’uomo non si rassegni a diventare un semplice ingranaggio nel meccanismo della tecnica, per giunta con qualche inconveniente e qualche inadeguatezza rispetto alle macchine che quotidianamente utilizza (Günther Anders, L’uomo è antiquato).
E qui si affaccia la mia seconda proposta che invita ciascuno di noi, nel desertificarsi di tutte le appartenenze, a riprendere l’antico messaggio dell’oracolo di Delfi: “Conosci te stesso”. A questo proposito Eugenio Scalfari interviene obiettando che, dopo aver seguito per molto tempo questo invito, è giunto alla conclusione (che potrebbe far impallidire tutti gli psicoanalisti) che questa conoscenza di sé è di fatto impossibile perché, scrive opportunamente Scalfari dall’alto della sua biografia: “Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l’io, la nostra mente a capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il “sé”, cioè l’essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell’inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza”.
Se la psicoanalisi facesse tesoro di queste considerazioni avrebbe una buona occasione per riattivare il proprio pensiero, oggi un po’ pigro e stantio, abbandonare la propria pretesa, talvolta eccessiva, di trasformare o cambiare la condizione di quanti a lei si rivolgono, e indirizzare la conoscenza di sé là dove Nietzsche la indica: “Diventa ciò che sei”. Prendi coscienza, nei limiti che ti è consentito, delle tue potenzialità e delle tue non idoneità, sviluppa le prime e rinuncia alle seconde, evitando di sognare di poter diventare ciò che non sei, perché attratto dai modelli che questa società ti propone e che non ti corrispondono. “Diventa ciò che sei” potrebbe essere allora il modo di costruire un’identità nel deserto delle apparenze dovuto al defilarsi della storia, e nella coercizione in quell’appartenenza a cui la tecnica ci costringe, senza che noi ci si possa davvero identificare.
Riconosco che le mie, più che proposte, sono possibili vie d’uscita dal dominio incontrastato che la tecnica e l’economia, e non più la storia, sembrano esercitare nella nostra epoca. E perciò ringrazio Eugenio Scalfari per aver prestato attenzione a questo tema, che a me pare alla base delle ansie e anche dei dissesti esistenziali dell’uomo d’oggi. E di essere intervenuto con osservazioni perfettamente mirate che hanno consentito di approfondire il problema venendo così incontro all’inquietudine del nostro tempo in cui, per dirla con Hölderlin: “Più non son gli dèi fuggiti, e ancor non sono i venienti”.
Elvio Fachinelli. La politica del desiderio
di Lea Melandri *
“La difficoltà del marxismo di fronte al ’68 fu dovuta al fatto di trovarsi davanti masse che chiedevano la rivoluzione e, contemporaneamente, non erano ancora entrate nel sistema della produzione sociale, non erano dunque immediatamente e chiaramente inquadrabili in termini di classe...E’ questa diversa logica di comportamento rispetto al reale e al possibile che io chiamai ‘desiderio dissidente’...l’aspetto iniziale, e si potrebbe dire genetico, del movimento, che viveva contrapponendosi alla logica del soddisfacimento dei bisogni fino allora dominante.” (Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli 1974).
Nel 1973 Elvio Fachinelli decide di raccogliere in un unico libro - definito nella Prefazione “un viaggio attraverso la psicanalisi e oltre”- scritti pubblicati per lo più su riviste, a partire dal 1965. Quando si accinge a scrivere le note, che affiancheranno in corsivo articoli e saggi, è ormai nella condizione di chi, avendo percorso “nuovi paesaggi”, mosso da una “curiosità spinta”, può guardarli alla distanza, descrivere i mutamenti che vi ha intravisto, indicarne a linee generali lo sviluppo.
Al centro compaiono i due articoli, usciti a distanza di alcuni mesi su “Quaderni piacentini”, in cui, in modo più diretto, “tira aria di ‘68”: Il desiderio dissidente (febbraio 1968), Gruppo chiuso o gruppo aperto? (novembre ’68). Il ’68 era ormai lontano, ma per il movimento non autoritario che faceva riferimento alla rivista “L’erba voglio”, e per i gruppi femministi in continua espansione in quegli anni, si può dire che era appena cominciato o mai finito. Eppure Elvio, per quella folata di futuro che vi aveva colto, per la lettura originale che ne aveva fatto, sente il bisogno di aggiungere: “e credo non ci sia motivo di vergognarsene”. A quali censori pensasse è detto nel seguito del discorso: per molti, la categoria del “desiderio” aveva ascendenze culturali sospette, e la “felicità” sembrava non aver niente a che spartire con l’impresa del socialismo.
I due articoli, legati per altro alla partecipazione di Fachinelli al controcorso che si era tenuto all’Istituto di Scienze Sociali di Trento nell’inverno ’67-’68, erano stati attaccati “sia dai rappresentanti della psicanalisi istituita, sia da marxisti più o meno ortodossi”. Ciò che è sentito come disturbante, da due saperi fondamentali per un’idea di “politica portata alle radici dell’umano”, ma divenuti ormai ideologie contrapposte, è l’aver cercato connessioni tra ambiti apparentemente separati: natura e cultura, individuo e collettivo, inconscio e coscienza, sogno e realtà. “Gli psicanalisti furono scandalizzati dal brusco allacciamento che facevo tra la figura dell’autorità famigliare e lo stato di questa autorità nelle società capitalistiche avanzate... Da parte dei marxisti alcuni mi rimproverarono di non aver tenuto conto della specificità del conflitto di classe da cui sorgeva il movimento degli studenti.”
Benché consapevole che bisogno e desiderio sono sempre presenti l’uno nell’altro, Fachinelli non può evitare di nominarli separatamente, quando si tratta di evitare che la nuova forma di rivoluzione, espressa dalla dissidenza giovanile, venga forzatamente riportata dentro vecchi schemi: “come se la spinta del desiderio fosse meno ‘materialistica’, o addirittura un’astuzia dell’avversario”. Di politica del desiderio e del bisogno si parla in entrambi gli scritti. Dietro la contestazione di un padre forte e autoritario -figura già sbiadita- si profila un “bersaglio più lontano” e più difficile da portare allo scoperto, un fantasma di società che abbina a un’offerta di sicurezza immediata, “completa liberazione dal bisogno”, una prospettiva inaccettabile: “la perdita di sé come progetto e desiderio”. Al culmine del suo sviluppo, la società dei consumi sembra configurarsi immaginariamente come una madre “saziante e insieme divorante”, che offre cibo in cambio di una dipendenza incondizionata, a cui si accompagnano senso di impotenza e angosce di inglobamento. Antiautoritarismo diventa, nelle pratiche della dissidenza, appello contro l’ “integrazione”, smascheramento delle logiche di dominio che, interiorizzate precocemente, producono consenso, accettazione passiva di un sistema “la cui regolazione è già prevista in anticipo”.
Per aver trascurato i bisogni di sicurezza, protezione, affidamento, passività, che si erano riprodotti al suo interno, il movimento che nel ’68 aveva conosciuto modi di agire fluidi, come improvvise “folate”, la straordinaria capacità di rinascere dalle proprie ceneri, la forza di allargarsi “senza far uso di bibbie”, si ritroverà in un tempo brevissimo diviso, isolato, irrigidito nelle maglie di vecchie ideologie marxiste-leniniste: le “fortezze” di aristocratiche avanguardie che si allineano “al limite del deserto” - come si legge in apertura di uno dei saggi più interessanti del libro, Il paradosso della ripetizione. Già nell’esperienza del gruppo di analisi, che Fachinelli aveva fatto a Trento, nell’Università occupata, si era visto quanto fosse radicata la tendenza di ogni collettività a chiudersi di fronte alla minaccia attribuita a esterni o estranei, la ricerca di una perfetta omogeneità al proprio interno e il riprodursi di fenomeni di frammentazione, espulsione del diverso. Perché il gruppo potesse mantenersi in uno “stato di desiderio”, era necessario che nessun leader se ne facesse rappresentante unico o ne incarnasse l’ideale unità; era importante che la “comunanza” -trovare l’eguale nell’estraneo- fosse sentita come “un bene da estendere”.
La logica del desiderio e dell’accomunamento, nella stagione “breve, intensa, esclusiva” della dissidenza giovanile del ’68, aveva capovolto il più antico riflesso sedimentato nella collettività: “l’esercito agguerrito che schiaccia la setta diventa per esso la massa sterminata offerta alla propria comunicazione”. Era stata un’esperienza transitoria, ma capace di percepire, come l’ “utopia” di Walter Benjamin, le “esigenze radicali del presente” -“il possibile attualmente impossibile”-, che proprio perché soffocate torneranno a ripresentarsi con sempre nuova urgenza.
“La rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevedibile, e non finirà mai di sconvolgere i custodi del terreno dei bisogni”. Il desiderio e la dissidenza oggi sembrano essersi inabissati nella bocca vorace di una civiltà che, pur dando segni di visibile decadenza, macina ogni segnale di cambiamento, ogni forma nuova di socializzazione, ogni sapere che non sia funzionale alla sua conservazione. Non resta che sperare che la logica del desiderio, come la “passione” di Marx, la spinta ad autorealizzarsi da parte dell’uomo, lavori sotterraneamente, da vecchia talpa, e torni a sorprenderci, quando meno ce l’aspettiamo.
* Fonte: Libera Università delle Donne, sez. "Pensiamoci". Pubblicato su Liberazione, 12 Febbraio 07
LA DITTATURA DELLA COSCIENZA
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 26 febbraio 2007)
C’è una parola magica che, quando si è in procinto di fare i disastri o a disastri avvenuti, viene evocata per garantirsi l’impunità, quando non addirittura il rispetto anche da parte di chi non ne condivide le posizioni e soprattutto le conseguenze della azioni. Questa parola magica si chiama “coscienza”. L’abbiamo sentita evocare da Fernando Rossi e da Franco Turigliatto, i due senatori che, con il loro voto, hanno determinato la caduta del governo Prodi. Alla “coscienza” e a quella sua variante che sono i “princìpi” era ricorso anche Clemente Mastella per giustificare la sua opposizione ai Dico. Alla “coscienza” ricorrono infine tutti quei medici che rifiutano l’interruzione di gravidanza anche nei casi consentiti dalla legge o la sospensione delle cure come nel caso Welby e in altri simili.
Ma cos’è questa “coscienza”? E’ la dittatura del principio della soggettività che non si fa carico di alcuna responsabilità collettiva e tanto meno delle conseguenze che ne derivano. Il medico che, in nome dell’ “obbiezione di coscienza”, rifiuta l’interruzione di gravidanza a chi nella miseria genera molti figli nella più assoluta indigenza, a chi resta incinta in età infantile, a chi porta in grembo feti affetti da malattie ereditarie, non si fa carico delle condizioni della madre e dell’infelicità futura dei nascituri, ma solo dell’osservanza dei suoi principi, che consente alla sua coscienza di sentirsi “a posto”, proprio perché rimuove, nega, non vede o non vuol vedere le conseguenze della sua decisione.
Questo tipo di “coscienza” che non assume alcuna responsabilità sociale è una coscienza troppo ristretta, troppo angusta per poter essere eretta a principio della decisione. Se poi, alle sua spalle lavora l’obbedienza a principi che qualche autorità, come ad esempio la chiesa, pone come “vincolanti”, allora si giunge a quell’autolimitazione della responsabilità che abbiamo conosciuto in epoca nazista, dove tutti, dalle più alte gerarchie ai semplici militari, si sentivano responsabili solo di fronte ai superiori (“Ho obbedito agli ordini”) e non responsabili di fronte alle conseguenze delle loro azioni.
Se la dittatura della coscienza soggettiva, che in nome dei propri principi non si piega alla mediazione e non si fa carico delle domande sociali (come possono essere quelle delle coppie di fatto o dei malati terminali che chiedono l’interruzione delle cure) diventa principio inappellabile in politica, che è il luogo dove dovrebbe trovare compensazione il conflitto delle diverse posizioni, allora bisogna dire chiaro e forte che coloro che si attengono alla dittatura della coscienza non devono entrare in politica, perché la loro coscienza non prevede alcuna responsabilità collettiva, ma solo l’osservanza dei propri principi.
E questo vale tanto per i medici, la cui responsabilità oggi non è più solo tecnico- professionale ma anche sociale, quanto per i politici che, per il solo fatto di aver deciso di entrare in politica, non possono esonerarsi, in nome dei loro principi, di ascoltare le domande, le richieste, i desideri di coloro che li hanno eletti. Perché la politica è “mediazione”, non “testimonianza”. Per la testimonianza ci sono altre sedi, come ad esempio la condotta della propria vita.
Se si attiene unicamente ai propri principi, senza farsi carico delle mediazioni e soprattutto delle conseguenze delle proprie azioni, una simile coscienza, che limita a tal punto il “principio di responsabilità collettiva e sociale”, è troppo ristretta e troppo angusta per diventare il punto di riferimento della decisione politica, che per sua natura deve farsi carico della mediazione e delle conseguenze delle sue risoluzioni. Per cui la dittatura della soggettività è in ogni suo aspetto incompatibile con l’agire politico, e non salva neppure l’anima perché, come ci ricorda Kant: “La morale è fatta per l’uomo, non l’uomo per la morale”. E questo monito vale anche, e forse a maggior ragione, per l’ideologia.
Tante parole al vento... disconoscete l’antropologia, la genetica, la selezione naturale. L’uomo ha vissuto per centinaia di migliaia d’anni come un animale, spinto da semplici ed elementari pulsioni primarie :
1) l’istinto di riproduzione; 2) l’istinto di sopravvivenza; 3) l’istinto di protezione nei confronti della prole.
Questi meccanismi, come potentissime molle, sono presenti in ognuno di noi, condizionano i nosti comportamenti, i nostri pensieri, le nostre scelte. La civiltà, intesa come sovrastruttura, è un fuscello che le avversità possono spazzare in un battibaleno, basta immaginare a come agiremmo in caso di guerra, carestie o altre calamità. Le "radici" sono altresì presenti, e operano sotto la superficie. Illusorio è il credere di potersene privare, come il mito della società multietnica, il buonismo iperilluminista e superficiale del politically correct, suggeriscono ad ogni piè sospinto. Qualcuno ci riesce, o crede di riuscirci, sono gli affezzionati clienti degli psicanalisti.
Uomo, chi sei?
Cantava Giorgio Gaber: "Se alle donne non facessero più effetto i finti amori dei corteggiatori, allora ci sarebbero gli uomini e un mondo di donne talmente belle da non aver bisogno di affezionarsi alla menzogna del nostro sogno".
Risponde Umberto Galimberti (la Repubblica/D, n. 639, 28.03.2009)
Nella cultura-società-epoca in cui sono vissuto ho cercato di farmi una idea di quello che possa essere il mio posto e senso nel mondo e avrei l’aspirazione di trovare il mio posto nel mondo come UOMO. Questa parola racchiude, o dovrebbe racchiudere tutta una serie di significati e corrispondenze a cui riferirsi e, in un continuo esercizio di virtù, creare quel dialogo interiore che porta a una dinamica conoscenza di noi stessi... ma... non è così. Mi sono trovato poi a constatare che le due categorie di persone che hanno fatto ricerca e messo in discussione il proprio ruolo sono quelle che storicamente ne sono state costrette dalla mancanza di diritti sociali ugualitari e consolidati. Le donne e gli omosessuali, non gli uomini. La mia generazione è cresciuta da padri che hanno pensato solo a lavorare, completamente anestetizzati emotivamente e privi di capacità comunicativa. Noi quindi siamo stati privati di un riferimento maschile che ci aprisse alla comunicazione uomo-uomo, e che ponesse un limite maschile alla emotività delle nostre madri. Io credo che il vero tabù di oggi sia quello di mettere in discussione la figura maschile: cosa vuol dire essere uomo?
Stefano Tintori
iltintus@tiscali.it
Liberi dalla generazione, gli uomini hanno sempre giocato prima con gli animali nelle imprese di caccia, poi con le guerre per l’esercizio della potenza, quindi con gli dèi inventando miti e narrazioni, di seguito con le idee producendo storia e cultura, infine col denaro per conquistare agi e privilegi. E tutto questo tra loro, per cui verrebbe da pensare che l’omosessualità, prima di essere il tratto specifico di alcuni uomini, è la struttura di base delle relazioni maschili.
E questo perché? Perché i maschi hanno una paura terribile ad aprirsi alla loro parte femminile, di cui pure sono forniti, come da tempo ci informa la psicologia e oggi anche la biologia. I maschi, infatti, interpretano la loro parte femminile come debolezza, come scarsa virilità e allora si producono in quelle maschere artefatte di forza, di potenza, di carattere, a cui le donne si adeguano accentuando gli aspetti seduttivi della loro femminilità, diventando a loro volta artifici di bellezza secondo i dettami della moda.
Ma che cos’è davvero la femminilità che gli uomini misconoscono come parte della loro costituzione e che le donne hanno smesso di interpretare per avvolgersi nel loro scadente narcisismo? Avendo la natura assegnato alle donne il compito della generazione e, nei primi anni, della crescita dei figli, io penso che la dimensione femminile consista essenzialmente nella "relazione", senza la quale le donne non potrebbero svolgere il compito che la natura ha loro assegnato.
Ciò significa che mentre il maschio è solitamente una "identità" che instaura relazioni, per lo più in ambito maschile dove continua a giocare alla guerra nella forma della competizione, o al sesso nella forma dell’occasionale seduzione, la donna è tendenzialmente "relazione" da cui ricava il suo riconoscimento e quindi la sua identità. Il due (qui inteso come l’uno e l’altro, quindi la relazione) è il costitutivo del femminile. Ciò che consente alla donna di prendersi cura dei figli secondo modalità sconosciute al maschio e di sedurre gli uomini con forme di fascinazione sorprendenti, se appena gli uomini fossero in grado di sollevare il proprio sguardo oltre la dimensione sessuale a cui si limitano a causa della loro povertà psichica.
Se gli uomini si aprissero alla loro parte femminile imparerebbero che cos’è una relazione, senza per questo dimettere la loro identità, e in questo modo consentirebbero anche alle donne di riscattarsi dal regime di sottomissione o comunque di dipendenza, se non sempre economica, quasi sempre psicologica, che ancora oggi le connota nei confronti della figura maschile.
Il riscatto della donna infatti non avviene tanto con i processi di emancipazione sociale, economica, giuridica, peraltro necessari, auspicabili e utili. Non con una rivendicazione di uguaglianza che da noi significa imitazione dello stile di vita maschile, con progressiva negazione della specificità femminile fatta salva la seduzione sessuale, ma con una maturazione antropologica che si verificherà quando, esausti dell’affermazione della loro identità e dagli sforzi richiesti per confermarla, gli uomini incominceranno ad accorgersi che la gioia, la felicità nascono dalla relazione, di cui la donna è per natura la gelosa custode o la misconosciuta interprete
Se non si arriva a catturare questo segreto e quindi a scoprire che cos’è davvero il femminile, non nascerà mai una vera identità maschile, ma solo quelle maschere stereotipate di uomini e donne, che neppure le parole o i gesti più originali riescono a riscattare dalla noia abissale della loro prevedibilità. Non c’è infatti gioia nell’io e nella sua esasperata autoaffermazione, ma solo nella "relazione", che è il linguaggio tipico della donna, di cui l’uomo, fatta eccezione per rari casi, deve ancora imparare l’alfabeto.
Miti e personaggi
Da Dioniso a Jackson così il transessuale moltiplica l’identità
Se questo è l’uomo nuovo che stiamo creando, si tratta della più grave di tutte le regressioni
Bisessuali erano le divinità egiziane e greche, perchè il dio rappresenta l’unità primordiale
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 26.10.2009)
Più o meno tutti sappiamo che nessuno è "per natura" relegato in un sesso. Oggi, sia la biologia sia la psicologia ci dicono che attività e passività sono iscritte nel corpo di ogni individuo e non come termine assoluto legato a un determinato organo sessuale. Ma questa ambivalenza sessuale profonda deve essere ridotta, perché altrimenti sfuggirebbe all’organizzazione genitale e all’ordine sociale. Tutto il lavoro della cultura ha cercato, dall’origine dei tempi, di dissolvere questa realtà irriducibile, per ricondurla alla grande distinzione del "maschile" e del "femminile", intesi come due sessi pieni, assolutamente distinti e opposti l’uno all’altro.
Bisessuali erano le divinità indiane Dyaus e Parusa, egiziane come il dio Bes, greche come Dioniso, Attis, Adone. A differenza dell’uomo, infatti, il dio rappresenta quell’unità primordiale di cui la bi-sessualità è un’espressione. L’unità degli opposti è il suo tratto distintivo che gli umani collocano nel "sacro" (che in sanscrito vuol dire "separato"), da cui gli uomini sono attratti e al tempo stesso si tengono distanti, perché la confusione dei codici non consente la creazione di una società ordinata.
Questa differenza è ben segnalata da Eraclito che in proposito scrive: «Il dio è giorno e notte, inverno e estate, sazietà e fame, guerra e pace, e si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma». «L’uomo invece ritiene giusta una cosa e ingiusta un’altra e non si confonde con tutte le cose». L’indifferenziato è tratto divino da cui l’umano si separa instaurando le differenze che, sole, consentono un ordinato vivere sociale. Di questa evoluzione Platone ce ne dà in proposito una bellissima descrizione nel Simposio.
Da questo punto di vista non possiamo escludere che il transessuale con la sua con-fusione dei codici sessuali, possa costituire un richiamo archetipico a questa unità originaria segretamente custodita nel fondo della nostra natura, e opportunamente rimossa per costruire identità il più possibile definite in cui riconoscersi. Ma oggi abitiamo l’età della tecnica, dove la realtà tende sempre meno a ospitare l’antica differenza tra "natura" e "artificio", perché quando il mondo che abitiamo è il prodotto della nostra costruzione, solo un ritardo linguistico, può chiamare le scene del mondo che abitiamo "artificiali", tenendole distinte da quelle "naturali".
La "natura" e in particolare la "natura umana" hanno cessato da tempo di avere un contenuto preciso, e quindi di valere come referente e come limite. E il corpo del transessuale, prima di essere una deviazione dalla norma, è una conferma della caduta di questo referente. Ma là dove non c’è referente, dilaga la confusione dei codici, dove non è più ravvisabile un limite, una norma, un orizzonte, una misura, un’identità da salvaguardare, differenze da mantenere, per orientarsi in quell’universo di segni che l’immutabilità della natura rendeva possibili discernere e che l’avvento della tecnica, dal modo di nascere al modo di morire, dal modo di essere uomo o donna, persino dal modo di apparire giovani da vecchi, via via cancella, rendendo indiscernibili le differenze, le stagioni della vita umana, e quindi anche le identità sessuali.
Perché l’androginia di Madonna negli anni Ottanta e la più recente androginia di Michael Jackson hanno attratto così tanti fans? Solo per la loro musica o anche per l’oltrepassamento dell’identità sessuale che, a parere di Jean Baudrillard «accompagna l’oltrepassamento dell’identità politica, per cui è solo per una finzione che si continua a distinguere una destra o una sinistra, quando in verità lo specchio più fedele è la mutazione in atto che ha fatto del politico un transpolitico e del sessuale un transessuale?».
«L’uomo è un animale non ancora stabilizzato», diceva Nietzsche, e Pascal dal canto suo: «L’uomo supera infinitamente l’uomo». Nessuna obiezione quando il contesto era il mondo dello spirito, ma oggi tutto questo è diventato "corpo" e "carne". Per questo il transessuale ci inquieta, per questo lo teniamo ai margini e ai bordi.
Ma la città è già assediata e attraversata da quella direzione e da quel senso che il transessuale indica con il suo stesso corpo: l’abolizione di ogni misura, di ogni limite, di ogni identità, e il progressivo avanzare dell’indifferenziato, da cui l’umanità, temendolo, si era distanziata, relegandolo nel mondo del sacro e del divino, a cui offriva sacrifici, non tanto per propiziarsi i favori degli dèi, quanto per tenerli lontani. Quando Dioniso entra nella città, ci racconta Euripide nelle Baccanti, tutto l’ordine viene sconvolto e ogni misura oltrepassata.
Moltiplicando i segni sessuali, il transessuale moltiplica i giochi, smantella il sesso come primo segno di identità per offrirlo come eccedenza di possibilità, e così configura quella nuova nozione di "individuo", tipico del nostro tempo, che si riconosce solo nella libertà illimitata, senza argini, senza confini, per poi finire col naufragare in quell’indifferenziato che gli uomini hanno immaginato all’origine del mondo, e da cui si sono distanziati per costruire il loro mondo, fatto di volti riconoscibili, per non implodere nella confusione dei codici e dei segni. Se questo è lo scenario, se questo è l’uomo nuovo che stiamo creando, la regressione implicita in questa creazione è la più grave di tutte le regressioni.