Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo [...]: così inizia il cap.15 del Libro III dell’ Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli della Donna” (p. 91).
Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: “[...] fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano [...] che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme”(Françoise D’Eaubonne).
Dopo e nonostante questo - l’acquisizione che i soggetti sono due e che tutto avrebbe dovuto essere ripensato, si continua come prima e peggio di prima.
Anzi, oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: “l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo” spinge lo Stato (con la Chiesa Cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare “la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire, non senza contraddizioni [...].
L’estrazione chirurgica degli ovociti dal corpo femminile evoca la fuoriuscita del seme dal corpo maschile producendo una mimesi fra i due sessi che irrompe sulla scena pubblica -e nella coscienza privata- ancora una volta quando arriva in tribunale: è il caso di una donna che contende al marito, da cui si sta separando, gli embrioni in attesa di essere trasferiti in utero. Ma se la separazione e la conservazione di ovociti e spermatozoi permette l’esistenza separata dei "mezzi di riproduzione" e la loro conduzione sotto l’autorità dello stato, seppure con il consenso degli interessati, a noi donne e uomini spetta l’assunzione di una nuova, perché sconosciuta, responsabilità.
Abbiamo collettivamente riconosciuto, e resa possibile laddove faticava a emergere, la responsabilità e la libertà femminile sul nostro corpo anche quando racchiude la possibilità di un’altra vita, la responsabilità verso altri e altre (e non solo figli); come essere responsabili di un ovocita sia pure estratto a fini riproduttivi, di un embrione concepito altrove?
Forse prendendo la parola, così che argomenti che sembrano interessare solo esperti da un lato e coppie infertili dall’altro entrino nella coscienza collettiva e assumano quel senso che ora fatichiamo a trovare: se le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della "libertà" di generare" (Maddalena Gasparini, Vice-coordinatore del Gruppo di Studio di Bioetica e Cure Palliative della Società Italiana di Neurologia, 2002: www.ecn.org;
sul tema, inoltre, si cfr. anche Dietro al referendum, una riflessione sulla libertà delle donne: www.universitadelledonne.it).
E, andando oltre, finalmente prendere atto - contro tutte le tentazioni biologistiche e nazistoidi - che due esseri umani occorrono per creare un altro essere umano (Feuerbach) - non solo sul piano fisico (“in terra”), ma anche e soprattutto sul piano spirituale (“in cielo”), e - cosa ancora più importante e decisiva - che il famoso soggetto, cioè ogni essere umano, è due in uno - figlio e figlia della Relazione di Due IO.... e che, proprio per questo, è capace - a sua volta (uscito dallo stato di minorità e giunto, al di là dell’Io penso, all’Io sono...) - di mettersi sulla strada del dialogo con altre o più persone e dare vita alla stessa (e tuttavia sempre nuova) Relazione, generatrice di nuove parole, di nuove azioni, e di nuovi esseri umani.....
Federico La Sala
* www.ildialogo.org/filosofia, 07 marzo 2005.
Sul tema in rete e nel sito, si cfr.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
Federico La Sala
ANATOMIA: I TESTICOLI DELLA DONNA (G. VALVERDE, 1560) |
GIORNATA MONDIALE DELL’#ANATOMIA ("World Anatomy Day"): NON SOLO VESALIO.
GIOVANNI VALVERDE DE AMUSCO E LA "SCOPERTA" DEI "#TESTICOLI DELLE #DONNE" (cfr. allegato: cap. 15 del Libro III dell’ "Anatomia" di #GiovanniValverde, stampata a Roma nel 1560).
COME NASCONO I BAMBINI: #RIVOLUZIONE COPERNICANA (IN #TERRA E IN #CIELO) E #MENSCHWERDUNG. #AL TEMPO DI #FILIPPO II e #TERESA D’AVILA, il medico Giovanni Valverde riconosce alla #donna il ruolo attivo nell’atto del #concepimento e pone le premesse per l’#uguaglianza, per la "#ley de #igualdad".
MICHELANGELO, I PROFETI, LE SIBILLE, E LE "STREGHE" DI BENEVENTO: CONTRORIFORMA E CONTRORINASCIMENTO.
ANTROPOLOGIA CULTURALE #ARTE E #STORIA. A lume di #antropologia storica e "#immaginazione sociologica", si può ben pensare che Michelangelo (associandosi al santo patrono di Benevento, all’apostolo Bartolomeo, con la "#sindone" del suo "#autoritratto": ), nel #GiudizioUniversale, protestava "cristianamente", contro la #gerarchia di un #cattolicesimo istituzionalizzato (assetato di potere, all’ombra e al servizio del dio "#Mammona", incapace di accogliere le sollecitazioni della #Riforma Luterana e Anglicana), che aveva rifiutato la proposta di far camminare insieme profeti e sibille, come da chiara indicazione ecumenica e "francescana, nella "Volta" della #CappellaSistina e nel "#presepe" del #TondoDoni) e contro l’equiparazione di #janare e #sibille (come da tradizione "cattolica", delle "streghe", che si riunivano presso l’antico albero di "noce di benevento", per il famoso "concerto" sabbatico.
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) E ARTE: UNA NOTA DI ANTROPOGENESI CHIASMATICA (NEXOLOGIA) E DI STORICHE COSTRUZIONI NELL’ ANALISI (S. FREUD, 1937).
I VEGGENTI E L’ IPOTESI DELLA NASCITA DELL’ESSERE UMANO (E DELLA SUA COSCIENZA) DI MICHELANGELO BUONARROTI.
IL "MESSAGGIO" DEI SETTE PROFETI E DELLE CINQUE SIBILLE NELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA E DEI "DUE PROFETI" E DELLE "DUE SIBILLE" DELLA SACRA FAMIGLIA DEL "TONDO DONI".
In mostra a Basilea / Louise Bourgeois: la donna che portava il suo pene sottobraccio
di Francesca Serra (Doppiozero, 31 Maggio 2022)
All’inizio degli anni Ottanta Robert Mapplethorpe scatta una formidabile foto a Louise Bourgeois, in cui quest’ultima guarda dentro l’obiettivo con un sorrisetto da fare invidia alla Gioconda e il volto pieno di rughe come una tartaruga. Una simpatica vecchietta, apparentemente innocua, vestita di una pelliccia di piume nere. Se non fosse che sotto il braccio porta, con molta nonchalance, un oggetto che potrebbe essere una borsetta. Ma non lo è: si tratta di un enorme membro maschile. Sì, un pene scolpito molto realisticamente, il cui glande la donna tiene con la mano destra come fosse la parte anteriore della borsa. Quando l’occhio, dunque, scivola dal sorriso della vecchietta al grande pene che si porta sottobraccio, quel sorriso prende tutta un’altra strada. E forza. Diventa derisorio, sarcastico. Oppure soddisfatto? Senza saper dire esattamente di cosa: di sé, del sesso o della sua rappresentazione? In ogni caso di quello che l’artista si porta dietro come la feroce satira di una borsetta.
Al centro della mostra che il Kunstmuseum di Basilea ha recentemente dedicato a Louise Bourgeois, ci sono due donne artiste: una è Bourgeois, l’altra Jenny Holzer, che cura la mostra intitolata The violence of handwriting across a page. Louise Bourgeois x Jenny Holzer. Quarant’anni fa Mapplethorpe aveva visto in Bourgeois già settantenne la dissacrante artista che, con la penosa lentezza tipica delle carriere femminili, si era infine imposta nel mondo dell’arte. Oggi Holzer cosa vede in lei? E cosa ci fa vedere? Qualcosa di più complesso, forse, e soprattutto qualcosa che non possiamo più definire come davvero dissacrante. Per il semplice fatto che quel sacro non esiste più. E quindi il gesto che un tempo veniva interpretato come dissacratorio può finalmente rivelarsi per quello che è: un fondamentale nucleo di violenza psichica, che rappresenta un dato costitutivo della nostra vita individuale e collettiva. E quindi non va più inquadrato nella sfera del dissacrante, ma piuttosto in quella del quotidiano. Com’era, in fondo, la paradossale borsetta-pene nella foto di Mapplethorpe.
Jenny Holzer è un’artista americana famosa per le sue istallazioni in grande scala che utilizzano le parole, i testi scritti per creare opere d’arte con un messaggio politico. Affidare a lei una mostra su Bourgeois è una sfida interessante: Holzer legge l’opera Bourgeois come fosse un palinsesto e la espone mettendo in rilievo le sue multiple sovrapposizioni tra scrittura e immagine. Nel titolo della mostra campeggiano due parole: “pagina” e “scrittura”. Insieme a una terza che le introduce, quasi giustificandole: “violenza”. Non c’è scrittura che attraversi (“across”) una pagina senza violenza. La violenza che si fa alla pagina bianca, ma anche il moto di violenza che spinge a scrivere. Oppure a dipingere e scolpire. Jenny Holzer ci invita a attraversare l’opera di Bourgeois, a tratti monumentale a tratti ironicamente sommessa, tirando il filo primigenio della scrittura. Un filo rosso, come vedremo, molto simile a un cordone ombelicale che ci porterà dritti dentro il corpo di qualcuno. Qualcuno che non c’è, ma insieme è onnipresente.
Il corpo della madre, si potrebbe ipotizzare, che Bourgeois ha rappresentato in una delle sue opere più celebri come un gigantesco ragno. Oppure il pene del padre, senza il quale la vecchietta con le rughe di una tartaruga (che avrà la ventura di vivere un secolo intero, tra la Francia e gli Stati Uniti: oggi è l’anniversario della sua morte, avvenuta 12 anni fa) non sarebbe mai nata. Tutti possiamo dire di avere un pene sottobraccio. E una vagina in testa. Freud ci ha fatto questo regalo avvelenato più di un secolo fa e da allora ce lo portiamo dietro, in parti più o meno nascoste di noi.
Non che prima non fosse così, in epoca pre-psicoanalitica. Ma dopo sarà come se uno scultore dissennato avesse fatto una mastodontica copia degli organi genitali, per consegnarla a ciascuno di noi: copia quanto mai dettagliata e realistica, ma insieme talmente sproporzionata da trasformarli in oggetti squisitamente mentali. In questo senso Louise Bourgeois è la geniale artista di un Novecento pieno di correnti psichiche, esplose come lampi in un cielo buio, che abbiamo attraversato sul dorso di quell’unicorno che era la psicanalisi. E ricordarlo oggi, in un’epoca che potremmo definire post-psicanalitica, ha un senso non solo storico ma soprattutto artistico. Facendo pace con quel sorrisetto della foto di Mapplethorpe che sembra dire: “avete ragione a volervi dimenticare del pene del padre”. E nello stesso momento: “Ma se pensate di poterlo fare, siete più sciocchi di quanto crediate”.
La psicanalisi, del resto, è stata quello che è stata e ha avuto l’influenza che ha avuto, soprattutto perché utilizzava uno strumento di cura inedito e incredibilmente ambiguo: la parola. La stessa parola che viene messa al centro di questa mostra, nella quale Holzer sceglie di farci vedere una Louise Bourgeois che dipinge e scolpisce nel momento stesso in cui scrive. O per dire meglio, dipinge e scolpisce perché non smette mai di scrivere. Riempiendo di parole non soltanto i suoi quadri, ma compulsivamente pagine e pagine di diari, di block notes, di fogli sparsi. Come se l’arte non esistesse senza questo flusso continuo di scrittura, che con la sua potenza riflessiva e talvolta delirante la trascina con sé, forzandoci a sporgerci sul baratro dei nostri traumi e dei buchi neri di cui siamo fatti, nell’unica forma in cui forse possiamo farli esistere: quella linguistica.
Se soltanto intendiamo tutto come linguaggio. Idea, anche questa molto novecentesca, che non è sempre possibile sostenere, se non creando enormi tensioni psichiche e pagando prezzi talora esorbitanti. In primo luogo nel rapporto con il corpo, che abbiamo imparato a considerare come un grande enigma mentale e una complessa costruzione culturale: quindi sempre fondamentalmente inafferrabile, assente. Ma che, nello stesso tempo, non possiamo ostinarci a cancellare in quanto insieme di cellule, organi, malattie, ferite, vita e morte che sono quanto abbiamo di più vicino al presente. E quindi a quello che potremmo definire, con tutte le cautele e i dubbi del caso, “vero”. Mi pare che “la violenza della scrittura attraverso la pagina”, alla quale questa mostra s’intitola, stia tutta qui: nel nostro dilaniarci tra la presunta verità del corpo e quella altrettanto insondabile del linguaggio. Ma anche nel nostro necessario fortificarci, e quindi riscattarci, quasi sublimarci attraverso la presa in conto di questa violenza fondamentale. Presa in conto di cui Bourgeois è stata maestra assoluta, come l’esposizione al Kunstmuseum di Basilea documenta e l’incontro con l’universo artistico di Jenny Holzer enfatizza: per tale motivo la foto della donna che porta il pene sottobraccio, da cui siamo partiti, appare tanto intensa. E perfino commovente, nella sua profonda mescolanza di verità e irrisione, concretezza e irrealtà.
Così di fronte alle mutande che campeggiano sull’affiche della mostra, con sopra la scritta rossa “The day the bird was attracted, it fouled its nest” (“Il giorno in cui l’uccello è stato attratto, ha sporcato il suo nido”) cosa rimane da fare? Ridere o piangere? Come davanti alla serie di scritte ricamate, sospese a metà tra il ricordo antico degli ex voto e quello ultramoderno delle citazioni che si moltiplicano diventando frasi fatte sui social o sui gadgets turistici, dai bavaglioni per bambini ai grembiuli per cucinare. In ogni caso, nell’opera di Bourgeois ci troviamo sempre confrontati al misterioso combaciare di una profondità vertiginosa, caotica e densa, con la superficie rarefatta, quasi instupidita e incantata di un ritornello. Dove tutto è femminile, la profondità come la superficialità: ma un femminile sempre inteso come travestimento e tranello. Dalla scopa che come uno spaventapasseri tiene su un vestitino a quadretti bianchi e neri, alla torre di cuscinetti di velluto che sembrano appena usciti dal salotto polveroso della nonna. Fino all’annullamento del maschile e del femminile nel lugubre e tenero abbraccio di due pupazzi in aria, compenetrati per sempre in un atto amoroso o semplicemente sessuale che mescola la favola al tormento.
La parola regna nelle diverse sale, ma lo fa nei modi più bizzarri e sorprendenti. Talvolta la scrittura sta da sola, prendendo la forma di un disegno come fosse una poesia visiva; talaltra è inquadrata, colorata, ripetuta, gridata, enumerata, cucita sulla stoffa. Oppure scritta sopra dei pentagrammi, come fosse musica. Spesso divide lo spazio della tela con l’immagine, in una prodigiosa proliferazione iconotestuale. Come nel quadro dove si intravedono due capezzoli, che sembrano due occhi racchiusi dentro una conchiglia fatta di linee concentriche, mentre sotto si legge: “Visto dal punto di vista di un bambino.
Un bambino di 12 o 14 anni, era in vacanza dalla scuola e si poteva vedere improvvisamente il cambiamento di espressione sul suo volto, l’espressione di terrore. Il terrore di percepire il caos, come io dissi”. Oppure nella straordinaria sala dedicata al corpo, incredibilmente palpitante nei vari suoi pezzi (intestino, braccia, crampi e altro), che le parole e i disegni consegnano alla pietà del nostro sguardo come dei bisturi. Per finire nella sala del sangue: non inizia e finisce tutto, infatti, in un lago di sangue? Una sala accecante di rosso vivo, come fosse dipinta dal sangue mestruale, piena di parti, falli, vagine, linee concentriche, forbici che tagliano il cordone ombelicale. Ci sono le viscere qui, certo. Esibite, anzi sbattute in faccia al pubblico. Ma c’è anche una irresistibile leggerezza dell’arte, che rovista nel dolore per attraversarlo. “Pain is the business I am in” (“Il dolore è l’attività che svolgo”), come si legge altrove cucito su una federa.
La donna che portava il suo pene sottobraccio ha attraversato un secolo della nostra storia. Lo ha fatto disseminando le sue opere di parole e trasformando una moltitudine di parole in opere. Quel possente e ridicolo fallo che si porta a spasso può rappresentare un’infinità di cose, e anche in verità nessuna. Ma perché non allora una metafora del pennello o dello scalpello dei grandi artisti, oppure della penna dei grandi scrittori? Tutti maschi che nei secoli dei secoli non hanno esitato a mettere in relazione la loro prestanza artistica con quella sessuale. Pennello, scalpello o penna che una fillette qualunque (così la foto di Mapplethorpe s’intitola), una little girl sbarcata da Parigi a New York alla fine degli anni Trenta può finalmente scegliere di prendere in mano. Decidendo, con mano ferma e un arcano sorriso tra le labbra, di farne ciò che vuole.
USCIRE DALL’#INFERNO DELLA #RIPETIZIONE E DAL #LETARGO DI MILLENNI (Par. XXX, III, 94).
Storia, filosofia, filologia, #psicoanalisi: una nota su una "ignota" #svolta_antropologica in corso...
IL PROGRAMMA DI #DANTEALIGHIERI ALL’ORDINE DEL GIORNO (#25MARZO 2024: #Dantedì).
Riprendere il cammino di "#Ulisse" e portarsi oltre il "Convivio", il #Simposio, di #Platone e del suo "socratico" #amore (#Eros), avido e cupìdo, #figlio nato dalla astuta alleanza (#Metis) dell’#uomo-#Ingegno (gr. #Poros) e della #donna-#Povertà (gr. #Penia). La lezione di Platone appare essere la chiara codificazione di una fenomenologia dello spirito della #tragedia e la sua parola una versione della #Legge del #Figlio di Dio (#Zeus) , #Apollo: "«non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (#Eschilo, #Eumenidi, 657 ss.): : un ’#cattolicesimo’ platonico.
STORIAELETTERATURA, #FILOLOGIA E #CRITICA: #DIVINACOMMEDIA. Gianfranco #Contini: «[...] L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui» (cfr. "Un’interpretazione di Dante", in Id., G. Contini, "Un’idea di Dante. Saggi danteschi", Torino, Einaudi, 2001, I ed. 1970, pp. 110-11).
ARTE, #ANTROPOLOGIA, #FILOLOGIA E #TEOLOGIA:
MICHELANGELO BUONARROTI, I PROFETI E LE SIBILLE.
LA "STORICA" #LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E DELLA #NARRAZIONE DELLA #VOLTA DELLA #CAPPELLASISTINA: DUE PROFETI E #DUE SIBILLE "INDICANO" LO #SPAZIOTEMPO DELLA #NASCITA DEL #FIGLIO DI #MARIAEGIUSEPPE. Come mai gli esperti della #GalleriadegliUffizi "insistono" a sostenere che nella "cornice del Tondo [...] sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti"?!
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E RI-NASCITA: MISTERI ELEUSINI (OMAGGIO A ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2023: #ELEUSIS2023). IL FILO DI M-ARIANNA...
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KORE (Kàroly Kerényi) *
“Come un uomo potrebbe sapere che cosa sia una donna? La vita della donna è totalmente differente da quella degli uomini. Dio ha fatto così. L’uomo è sempre lo stesso sin dalla sua circoncisione fino alla sua vecchiaia. Egli è il medesimo prima del suo primo incontro con una donna e dopo. Il giorno in cui una donna conosce per la prima volta l’amore, spezza la sua vita in due. Quel giorno, essa diventa un’altra. L’uomo, dopo il suo primo amore, rimane quello che era prima. La donna, dopo il giorno del suo primo amore, è un’altra. E così rimane per tutta la vita. L’uomo passa la notte insieme con una donna e passa via. La sua vita e il suo corpo restano sempre gli stessi. La donna concepisce. Quale madre, essa è un’altra che la donna senza figli. Essa, innanzi tutto, porta per nove mesi nel proprio corpo le conseguenze di quella notte. Nella sua vita cresce qualcosa che non ne scomparirà più. Essa, infatti, è madre. Essa è e rimane madre anche se suo figlio, anche se tutti i suoi figli muoiono. Perché essa ha portato il bambino sotto il cuore. Dopo però, quando il bambino è già nato, lo porta entro il cuore. E dal cuore egli non uscirà più. Nemmeno quando sarà morto. Tutto questo l’uomo non lo conosce; egli non ne sa niente.
“Egli ignora la differenza che passa fra il tempo prima dell’amore e quello dopo l’amore, fra quello prima della maternità e quello dopo la maternità. Egli non può sapere niente. Soltanto una donna può sapere questo e parlare di questo. È perciò che noi non permettiamo nemmeno che i nostri mariti intervengano con le loro parole nelle nostre faccende. La donna può fare una sola cosa. Essa può stare attenta a sé. Essa può comportarsi decentemente. Essa deve essere sempre come è la sua natura. Essa deve sempre essere fanciulla o essere madre. Prima di ogni amore essa è fanciulla, dopo ogni amore essa è madre. Da questo puoi vedere se essa è una buona donna".
"Queste parole di una nobile donna abissina, riportate dal Frobenius in uno dei suoi più bei libri, Der Kopf als Schicksal , siano messe qui a titolo di motto, per preparare e confermare ciò che verrà esposto nello studio su Kore. Esse siano qui anche in ricordo di quel grande uomo, la cui opera di vita stimola lo studioso delle civiltà e delle mitologie a proseguirla e lo spinge a prendere posizione di fonte ad essa”.
* Cfr. CARL GUSTAV JUNG, KÁROLY KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Bollati Boringhieri editore.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA (2008) "NON CLASSIFICATA"!!!
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità femminile *
Le cellule riproduttive femminili (ovociti), a differenza di quelle maschili (spermatozoi), vengono prodotte prima della nascita, durante lo sviluppo degli organi genitali.
Nel corso della vita questa "riserva" si riduce poi progressivamente mensilmente fino ad esaurirsi del tutto (menopausa). Ogni donna nasce con 1-2 milioni di follicoli e alla pubertà ne rimangono 500.000. Solo 500 di questi escono dall’ovaio e gli altri si distruggono.
Il sistema riproduttivo femminile dipende dal ciclico reclutamento follicolare, dalla selezione di un unico follicolo dominante, dall’ovulazione e dalla formazione del corpo luteo. Se la fecondazione e di conseguenza l’impianto non avvengono, il corpo luteo scompare, l’endometrio si sfalda e compare la mestruazione.
Dalla pubertà alla menopausa, circa ogni mese, quindi, il corpo femminile si prepara ad un’eventuale gravidanza. Se questa non avviene, compare una nuova mestruazione. Il ciclo mestruale ha una durata variabile tra i 21 e i 35 giorni. Mediamente è di 28 giorni, ma nell’adolescente può essere spesso irregolare.
Dal secondo giorno dall’inizio delle mestruazioni, comincia la cosiddetta fase follicolare: i follicoli che portano a maturazione la cellula uovo si attivano nuovamente, sia per far maturare l’ovocita sia per provvedere alla sintesi degli ormoni (estrogeni e progesterone) necessari per ricostituire l’endometrio.
Intorno al 14° giorno avviene invece l’ovulazione, momento in cui possono avvenire la fecondazione e il concepimento. Il periodo fertile dura circa due giorni (durata in vita della cellula uovo).
Gli spermatozoi sopravvivono invece nel corpo femminile molto di più, anche fino a 4 giorni, per cui un rapporto sessuale avvenuto anche 3 o 4 giorni prima dell’ovulazione può portare alla fecondazione. Per tutto il periodo fertile, quindi, la fecondazione è possibile. Dopo l’uscita della cellula uovo il follicolo si trasforma nel corpo luteo, che produce progesterone, per predisporre l’utero a ricevere l’impianto della cellula uovo fecondata.
Questa fase del ciclo si chiama fase luteale o secretiva. In caso di mancata fecondazione l’uovo viene espulso con la mestruazione. La perfetta sincronia della fisiologia femminile è peraltro continuamente minacciata da insulti o da difetti ad esempio patologie endocrine ovariche od extraovariche che possono ad esempio inficiare l’ovulazione rendendo pertanto la donna infertile o subfertile.
Con l’aumentare dell’età, nella donna si verifica non solo una progressiva riduzione del patrimonio follicolare ma anche un aumento percentuale di ovociti con alterazioni cromosomiche, che mensilmente vengono messi a disposizione dell’ovaio stesso.
Anche l’utero subisce un deterioramento funzionale che riduce la capacità dell’endometrio di interagire con l’embrione e favorisce la possibilità di aborti spontanei; inoltre si registra un incremento dell’incidenza di patologie quali endometriosi e fibromi che ulteriormente riducono la fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità maschile
Lo spermatozoo è la cellula riproduttrice dell’uomo, fondamentale per la sua fertilità, in quanto incontrandosi con l’ovocita femminile da origine all’embrione.
La spermatogenesi e la produzione di testosterone sono regolati da un sistema integrato di controllo. L’ipotalamo, attraverso la secrezione pulsatile dell’ormone rilasciante le gonadotropine (GnRH), controlla la secrezione ipofisaria dell’ormone follicolo-stimolante (FSH) e dell’ormone luteinizzante (LH) i quali a loro volta stimolano il testicolo a produrre rispettivamente gli spermatozoi e il testosterone.
Il testicolo è costituito da due compartimenti distinti, anche per funzioni: quello tubulare dove si trovano le cellule di Sertoli e gli spermatozoi in diversi stadi di maturazione, e quello interstiziale con le cellule di Leydig deputate alla produzione di testosterone. La spermatogenesi è un processo complesso che culmina con la produzione degli spermatozoi maturi e ha una durata di circa 74 giorni.
Le cellule di Sertoli sono importanti per il sostentamento delle cellule della linea seminale e per la loro normale maturazione.
Gli spermatozoi da stadi più immaturi progrediscono dalla base al centro del tubulo seminifero (lume) secondo i diversi stadi di maturazione (spermatogonio, spermatocita, spermatide e spermatozoo).
Gli spermatozoi lasciano i testicoli attraverso un sistema di dotti:
e raggiungono le vescichette seminali che, con le loro caratteristiche secrezioni, insieme alla prostata, contribuiscono alla formazione di gran parte del volume finale dell’eiaculato e fungono anche da contenitore tra un’eiaculazione e la successiva. Chiaramente una qualsiasi disfunzione o blocco della spermatogenesi o danno di queste strutture può comportare alterazioni della fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva....
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
VIVA L’ITALIA!!! Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
#NiccoloCusano,
per indicare la #via alla
"#Visione di Dio" (1454),
si serve di
un quadro dell’artista Rogier Van der Wayden,
allievo di Robert #Campin,
autore del #TritticodiMerode
Con #Virgilio e #Beatrice (#dueSoli),
#NiccoloCusano,
(«Non è la madre che genera chi è chiamato figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei»)
non esce dall’orbita
della #tragedia (#Eschilo).
LA COSTITUZIONE E L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (E DEL "FIGLIO").*
Omofobia.
Ddl Zan calendarizzato. «Il testo punta al superamento del sesso biologico»
Le critiche della ginecologa e femminista genovese Sandra Morano, firmataria dell’Appello dei 400: il rischio è di far sparire l’identità femminile e con essa la sua forza distintiva, la maternità
di Antonella Mariani (Avvenire, mercoledì 28 aprile 2021)
Il Ddl Zan punta al superamento del sesso biologico, per abbracciare altre definizioni fluide e variabili, come ’genere’, ’identità di genere’, ’percezione di sé’, che con la Costituzione e con la certezza del diritto hanno poco a che vedere e che rischiano di assottigliare fino a far scomparire il confine tra i sessi. Prima ancora che da ginecologa, parla da ’femminista della differenza’ Sandra Morano, esponente di spicco del progressismo genovese e docente universitaria. Il ddl Zan, al di là delle buone intenzioni di combattere l’omofobia e la transfobia, introduce definizioni non univoche per ’classificare’ le categorie meritevoli di tutela, entrando a gamba tesa in un dibattito scientifico, giuridico e bioetico in pieno svolgimento.
Per semplificare: se il titolo del Ddl Zan è: ’Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità’, e poi si definiscono queste categorie in modo che non è affatto condiviso, il risultato è... confusione, proprio ciò che una legge non deve fare.
Sandra Morano ha firmato l’appello per la modifica del testo della legge, insieme ad altri 400 rappresentanti della società civile. La sua esperienza professionale nel SSN è stata spesa prevalentemente nel miglioramento delle condizioni della maternità e della nascita, temi che non hanno mai avuto un posto preminente nelle agende della politica. Da questo osservatorio è difficile accettare un cambiamento delle definizioni per tutta la popolazione.
«Sarebbe come accettare di ’far sparire’ le donne e la loro incontrovertibile capacità procreativa, la maternità», dice. «Capita a noi mediche e medici di accompagnare la sofferenza di soggetti che non si riconoscono nel proprio sesso biologico. Comprendiamo il rifiuto di alcuni di essere rigidamente definiti o ri-definiti, anche se più spesso capita che molti desiderino chiarire e manifestare attraverso dolorosi percorsi la transizione verso una più soddisfacente identità sessuale. Questa libertà non può però limitare la libertà di tutti, donne e uomini, ad accettare un cambiamento lessicale che per via legale sancisce l’abbandono del concetto di sesso a favore della identità di genere con le sue varianti».
Un cambiamento che non può non innescare effetti a catena nel mondo medico, e non solo. «Pensiamo alle conseguenze che tale definizione può avere sulla Medicina di genere, cioè lo studio del diverso impatto delle malattie e dei farmaci sul femminile e sul maschile, che in questi anni sta facendo passi da giganti».
Tutto cancellato dal ddl Zan? «Questa è una delle derive di questo testo, e io invito i miei colleghi a prendere posizione. Da una legge confusiva possono derivare cambiamenti nel lessico, che non possono non coinvolgere perfino i manuali e gli insegnamenti della medicina». In che direzione vorrebbe fosse modificato il testo del ddl Zan? «Preferirei che si parlasse di prevenzione e contrasto alle discriminazione di genere e della violenza per ’motivi fondati sul sesso’. Sarebbe sufficiente e molto più utile a tutti», risponde Morano. Che pericolo intravede nella legge, così com’è formulata? «Intravedo alcune derive inquietanti. La cancellazione della maternità, ad esempio, che per me è il tema centrale dell’identità femminile, quello che ancora è esclusiva delle donne. Ebbene, se il sesso diventa una percezione fluida di sé, ciascuno può giocare su più campi, un uomo può dirsi donna e reclamare il diritto a un figlio. Anche attraverso la gestazione per altri».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! ---UNA NOTA DEL 20O5 DEL PROF. LUIGI CANCRINI SU UN TESTO DI "ANATOMIA" DEL 1560!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"!
FLS
San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
Nutrici di germi inseminati
di Valentina Pazé (L’Indice, 2 Aprile 2020)
In questo breve saggio Eva Cantarella torna su uno dei suoi cavalli di battaglia: il tema della condizione della donna nell’antica Grecia, e in particolare nella società ateniese. Lo fa a partire dalla rivisitazione del mito esiodeo della “prima donna”, Pandora, che è stato spesso accostato a quello biblico della creazione di Eva, ma che esprime - in effetti - un tasso di misoginia ben maggiore di quello rinvenibile nel testo fondativo della tradizione ebraico-cristiana. Mentre Eva, nata da una costola di Adamo, viene creata per fargli compagnia, sia pure in una posizione subordinata, Pandora, frutto di un impasto di acqua e terra che nulla ha di umano, fa la sua comparsa per punire l’umanità dopo il furto del fuoco da parte di Prometeo. Dotata di aspetto piacevole, “mente sfrontata” e “cuore pieno di menzogne”, è destinata a soggiogare gli uomini col suo fascino e a renderli irrimediabilmente infelici.
Le variazioni sul tema della donna “genere maledetto”, o comunque genere “a parte”, radicalmente altro rispetto a quello maschile, sono molteplici nella letteratura greca: da Semonide di Amorgo, con il suo bestiario di donne-scrofa, volpe, gatta, scimmia, ape - una più funesta dell’altra -, alle successive, più meditate, riflessioni di medici e filosofi, a confronto con una differenza immancabilmente interpretata in termini di manchevolezza e inferiorità.
Sullo sfondo - osserva Cantarella - non è difficile intravedere una “grande paura” e una “grande invidia” maschile, derivanti entrambe dall’“indiscutibile constatazione che i figli nascevano dal corpo delle donne”. È, ancora, soprattutto il mito a rivelare questi sentimenti inconfessabili: Zeus che ingoia l’amante Metis insieme alla figlia che porta in grembo, Atena, che sarà poi “partorita” dalla sua testa; Zeus che - dopo avere folgorato Semele, incinta - raccoglie il feto tra le ceneri e lo inserisce in una delle proprie cosce, da cui nascerà Dioniso. Casi di “paternità surrogata” ante litteram - commenta Cantarella - in cui una figura maschile riesce con successo ad espropriare le donne del loro potere di procreare.
Quanto viene vagheggiato nel mito continua, nell’età classica, a far discutere gli intellettuali, che si interrogano sul ruolo svolto dalle donne nel processo generativo. Giungendo, in alcuni casi, a conclusioni paradossali (che suscitano qualche brivido in chi segue il dibattito odierno sulla maternità surrogata), come quella di chi riconosce alla donna esclusivamente la funzione di “contenitore” del seme maschile.
Questa era l’opinione degli stoici, ma era probabilmente anche espressione di un sentire comune, se nelle Eumenidi di Eschilo l’areopago assolve il matricida Oreste con questa motivazione:
“Non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio”, “ella è nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che feconda”.
Una tesi che Aristotele riformulerà, precisando che la donna fornisce pur sempre la materia indispensabile alla procreazione (identificata con il sangue mestruale), ma che è il maschio a trasmettere la forma, come l’artigiano che plasma la cera. Cantarella non approfondisce qui le molteplici difficoltà che una simile teoria solleva, agli occhi dello stesso Aristotele: se è il padre, e solo il padre, ad imprimere la sua impronta sul nascituro, come si spiegano i casi in cui i figli assomigliano alla madre? E come si giustifica la nascita di figlie femmine? (Su questi temi è ancora fondamentale il volume curato da Silvia Campese, Paola Manuli e Giulia Sissa, Madre materia. Sociologia e biologia della donna greca, Boringhieri, 1983). Cantarella si sofferma invece sul contributo dei medici, alle prese con le “strane malattie” delle donne, alla conoscenza del corpo femminile, molto meno accessibile di quello dei maschi, i cui corpi squartati in battaglia offrivano per lo meno qualche occasione di osservazione. Ed ecco allora “uteri vaganti” e “vergini folli”, che i medici della scuola ippocratica suggeriscono di curare principalmente attraverso il matrimonio e la gravidanza.
Le ben note discriminazioni giuridiche e politiche nei confronti delle donne, di cui l’autrice si era già occupata in L’ambiguo malanno (Feltrinelli, 2013) e in altre pubblicazioni successive, vengono di conseguenza. Nel concludere il volume, Cantarella insiste soprattutto sull’esclusione di bambine e ragazze da ogni forma di educazione: la discriminazione forse più grave, perché apre la strada a tutte le altre. E non si può qui non ricordare come questa preoccupazione fosse al centro di un classico del pensiero femminista, come A vindication of the rights of women di Mary Wollstonecraft.
A proposito di femminismo, l’autrice non risparmia qualche frecciatina - che sarebbe stato bello fosse maggiormente sviluppata - nei confronti di letture ingenue di “Platone femminista” e Bachofen “paladino del matriarcato”. Oltre che di concezioni essenzialistiche della differenza di genere, che proprio dalla cultura greca hanno avuto origine.
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
"CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" , "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (E MEMORIA DI DANTE ALIGHIERI - ANNO 2021) . Alla luce del fatto che si è persa ogni cognizione dello "stato di cose presente", forse, è opportuno - come voleva Marx - riprendere il filo dalla indicazione delle note "Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione"): "La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso".
Si dice:
CONCORDO. Ma per ripartire bisogna riprendere il filo dalla "Logica" di Kant (non di Hegel, come si recita ancora oggi: http://www.leparoleelecose.it/?p=41116#comment-439785), dalla sua "quarta" (e prima!) domanda: "che cosa è l’uomo?", dalla sua "Critica della ragion pratica", e dal suo "imperativo categorico" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)! La questione è antropologica (non andrologica né ginecologica)! O no?!
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. la "Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)": "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); su COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?!, rileggere la lettera di Sigmund Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923).
Federico La Sala
LA POCA SAGGEZZA DELLA FILOSOFIA, I “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO DI DANTE E LA PRESENTE STORICA CRISI DELLA CULTURA EUROPEA...
CONSIDERATO CHE UN FILOSOFO, "Anche quando sbaglia di grosso, se è un vero filosofo sbaglia con argomenti non banali, fino al punto che, grazie a lui, l’errore brilla della luce convincente della verità" (cf. S. Benvenuto, op. cit.), E VISTO CHE EGLI HA MESSO IL DITO NELLA PIEGA (e nella piaga) della storia della filosofia, nel gioco sofistico di Socrate: «Malgrado lo slogan “so di non sapere”, tutti ci rendiamo conto che Socrate in realtà sapeva tante cose. Ma il suo sapere squisitamente filosofico era proprio quello di non sapere, ovvero, il suo appello all’epistheme come “ricominciare tutto daccapo”» (op.cit. ), VISTO IL PERSISTERE E , AL CONTEMPO, L’ESAURIRSI DELLA "GRANDE INSTAURAZIONE" ANTROPOLOGICA ED EPISTEMOLOGICA apollinea-socratica (su questo, si cfr. la grande analisi di Nietzsche!), forse, è bene e salutare riprendere alla radice (Marx!) la questione e, riaccogliendo l’indicazione di Sofocle, ripensare le «perversioni» di tremila e più anni (come sapeva Dante, meglio di Goethe), rileggere il cap. 15 del manuale di "Anatomia" (Roma, 1560) di Giovani Valverde, e ripensare l’«edipo completo», come voleva Freud e Fachinelli. Altro che continuare a menare la canna per l’aria. O no?!
La Consulta: "Il cognome del padre è retaggio patriarcale, basta disparità"
"Non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna"
di Redazione ANSA*
ROMA L’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre? Con questo dubbio, la Corte ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità dell’articolo 262, primo comma, del Codice civile, che detta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio. L’ordinanza n. 18 depositata oggi (relatore il vicepresidente Giuliano Amato) spiega perché la risposta a questo dubbio sia pregiudiziale rispetto a quanto chiedeva il Tribunale di Bolzano.
L’attuale sistema di attribuzione del cognome paterno ai figli "è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia", e di "una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna". Lo sottolinea, riprendendo una sua pronuncia del 2006, la Consulta, nell’ordinanza con cui ha sollevato davanti a se’ stessa la questione sulla legittimità costituzionale dell’articolo 262 del Codice civile che stabilisce come regola l’assegnazione ai figli del solo cognome paterno.
La scienza avanza di sbieco
Ilaria Capua: le scoperte arrivano quando si lascia la via maestra. Esce un saggio (Egea) in cui la virologa esamina una serie di vicende che hanno segnato la via del progresso
di GIAN ANTONIO STELLA *
«Un’industriosa macchinetta/che mostra all’occhio maraviglie tante/ ed in virtù degli ottici cristalli/ anche le mosche fa parer cavalli». Voleva spalancare sbalorditi gli occhi di tutti, Carlo Goldoni, dando alle stampe nel 1764, tra i Componimenti diversi, in occasione della vestizione di Contarina Balbi nel Regio Monastero delle Vergini, Il Mondo Novo. La descrizione di uno strumento ottico che a cavallo tra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo incantava nelle fiere i nostri nonni, mostrando loro cosa c’era in giro per il mondo. Facendoli divertire, facendoli imparare.
Che Ilaria Capua abbia letto o meno quella chicca letteraria non è importante. Certo è che la virologa, diventata famosa anni fa per aver messo a disposizione della comunità scientifica la sequenza genetica del virus dell’influenza aviaria, indicata dalle riviste scientifiche tra gli astri nascenti, eletta deputata con Scelta Civica, finita in mezzo a un’inchiesta della magistratura sotto il titolo «Trafficanti di virus», assolta e tornata amareggiata in America per dirigere un centro d’eccellenza alla University of Florida, cerca di battere la stessa strada. Divertire e spiegare, spiegare e divertire.
Così, dopo aver scritto I virus non aspettano (Marsilio) sul suo percorso di «ricercatrice globetrotter», L’abbecedario di Montecitorio (In edibus) sulla esperienza parlamentare e Io, trafficante di virus (Rizzoli) sulle vicissitudini giudiziarie impossibili da chiudere col «lieto fine», la scienziata esce dopodomani, giovedì 20, con un nuovo libro, Salute circolare. Una rivoluzione necessaria (Egea). Cioè? «Le idee che hanno rivoluzionato (ovvero trasformato con un movimento circolare) le nostre conoscenze nel campo della salute» non sono arrivate «dalla disciplina stessa ma da una disciplina accanto o addirittura da tutt’altra parte. In ogni caso rompendo gli schemi pre-esistenti».
Da lì Ilaria Capua, introdotta da una prefazione del filosofo Umberto Curi («Ha scritto un libro che non corrisponde in alcun modo ai protocolli dei lavori scientifici dedicati alla storia della medicina, né si preoccupa minimamente di questa negligenza, offrendoci tuttavia un testo vivo, ricco, attraente, a tratti spumeggiante...»), ha cercato di spiegare come ciò che più conta nelle scoperte importanti sia appunto la capacità di scartare di lato. «Fuori» dal contesto.
«Una piccola percentuale della popolazione non riesce a distinguere il lato destro dal sinistro di se stessi e quindi del mondo circostante», scrive la virologa. «Il processo di lateralizzazione degli individui avviene intorno alla prima elementare e se perdi quella finestra di consapevolezza sei finito: mai e poi mai le parole destra e sinistra avranno un significato per te. Quindi i non lateralizzati non sono capaci di seguire un’indicazione stradale come “vai prima a destra, poi prendi la seconda a sinistra”. Si smarriscono frequentemente, spesso infilano i corridoi dalla parte sbagliata. Allo stesso tempo, però, il non lateralizzato sa che destra e sinistra sono solo in testa: sono una congettura e non una caratteristica intrinseca delle cose, anche se a tutti sembra il contrario».
A farla corta: per fare avanzare le intuizioni, la ricerca, la conoscenza, il vero insegnamento «è cercare ogni tanto di lasciare la strada maestra tracciata da altri...». Come capitò per esempio a un «grande amore» della Capua, il fiammingo Andreas van Wesel (per noi Andrea Vesàlio), il fondatore della moderna anatomia che a 23 anni, nel Cinquecento, parte dalle Fiandre, si laurea all’Università di Padova («culla della rivoluzione scientifica», per lo storico Herbert Butterfield) e viene nominato docente di chirurgia per insegnare l’anatomia. «Cosa che fa a modo suo: per le dimostrazioni si serve di uno scheletro intero e di singole ossa. Ricorre anche a disegni per illustrare la forma dei vasi e dei nervi. I suoi studi meticolosi e attenti lo portano su di un terreno inaspettato: si rende conto che quello che insegna ai suoi allievi, che all’epoca era ancora basato soprattutto sull’opera di Galeno, non corrisponde del tutto a ciò che vede ogni volta che osserva un cadavere». I contemporanei, in buona parte, la prendono malissimo: come osa questo ragazzo mettere in discussione il grande medico greco? Lo stronca su tutti il suo maestro Jacques Dubois, liquidando la sua opera rivoluzionaria De humani corporis fabrica come l’«esempio più pericoloso di ignoranza, ingratitudine, arroganza e empietà».
Profondamente scosso dal rifiuto a priori, Vesalio «lascia la sua cattedra a Padova, brucia tutti i suoi appunti e si trasferisce in Spagna a fare il medico di Carlo V. Continuerà tutta la vita a difendere le sue scoperte dagli attacchi, ma a 28 anni il periodo più fecondo della sua vita è forse irrimediabilmente terminato». Morirà a Zacinto, non ancora cinquantenne. Forse di ritorno da un viaggio in Terrasanta: «Pensa che beffarda la vita, anzi, che beffarda la morte. Il corpo di Vesalio, il corpo che ha disegnato i corpi che han fatto studiare tutti i medici del mondo, non è stato mai trovato».
Ma sono tutte, le storie raccontate da Ilaria Capua, a tenere insieme la scienza, il coraggio, la scommessa sul futuro. Come nel caso di Girolamo Fracastoro, medico, filosofo e astronomo, che «non aveva a disposizione il 99 per cento» delle cose che sappiamo adesso, eppure intuì «il meccanismo dei contagi» e che «le infezioni siano dovute a microrganismi portatori di malattia», tre secoli prima che fosse possibile verificarlo. O ancora nel caso di Antoni van Leeuwenhoek, il commerciante di stoffe olandese che, ispirato dall’«occhialino per vedere le cose minime» di Galileo Galilei, mise a punto nel Seicento microscopi via via più perfezionati per capire meglio la natura dei tessuti che vendeva, finendo per «diventare un ingranditore seriale» curioso «di tutto, tutto quello che gli capitava a tiro: polvere da sparo, spermatozoi, globuli rossi, chicchi di caffè, minerali», fino a quando in una goccia d’acqua di un laghetto finì per «scoprire l’esistenza di piccole creature che chiamò diertgens, “animaletti”».
Il mondo invisibile diventava vivo. E dopo una visita sul campo di tre rappresentanti, perfino la Royal Society superò ogni diffidenza ed anzi lo accolse tra i suoi membri. Lui ringraziò per l’onore, ma non si fece mai vedere. Anzi, non rivelò mai i suoi segreti e se li portò nella tomba. «Beh, non si fa», commenta Ilaria Capua. «La conoscenza si costruisce sul lavoro altrui: se tutti si fossero comportati come lui, si sarebbe dovuto ricominciare daccapo ogni volta e staremmo ancora alle pitture rupestri». Ma come nascondere, insieme, una nota di simpatia? In fondo, come si dice a Venezia, «se no i xè mati no li volemo».
* Corriere della Sera, 17 giugno 2019 (ripresa parziale, senza immagini).
Dispute teologiche intorno alla nascita
AVVENTO. Il parto verginale di Maria. Tra esaltazione della maternità e rimozione. Per secoli il dibattito si è snodato intorno al modo in cui la ragazza di Nazareth ha «dato alla luce» Gesù. L’ostilità verso la materialità del corpo ha pesato sul vissuto femminile fino alla presa di parola del movimento delle donne
di Nadia Maria Filippini (il manifesto, 23.12.2020)
Durante il periodo dell’Avvento, in vari luoghi dell’Occidente cristiano, tra Medioevo ed età moderna, si celebrava una festa particolare, successivamente scomparsa dal calendario liturgico: quella dell’attesa del parto di Maria, Expectatio partus Beatae Mariae Virginis. Il X Concilio di Toledo nel 656 l’aveva fissata nel giorno 18 dicembre, a pochi giorni dal Natale. Una vasta produzione artistica di statue e dipinti fissava questo momento dell’attesa, rappresentando Maria nella pienezza della sua gravidanza, spesso con in mano un libro (simbolo delle Sacre Scritture), o con la mano posata sul ventre, in una postura comune a tutte le donne incinte.
Ma in che modo la Madonna aveva messo al mondo Gesù? In che modo egli era uscito alla luce? Queste domande erano state al centro di un intenso dibattito teologico che si era snodato per secoli, ed avevano una rilevanza tutt’altro che secondaria, in quanto incrociavano frontalmente la questione della natura di Cristo: solo uomo (come sostenevano gli ariani) o solo Dio (come sostenevano i Nestestoriani)? Il Concilio di Efeso (431) aveva infine proclamato la sua duplice natura umana e divina, definendo di conseguenza Maria Theotòkos e Deipara (madre di Dio); il che rendeva ancor più complessa la questione del parto e della nascita: un inghippo esegetico intorno al quale continuarono ad arrovellarsi molti teologi, non senza dispute e conflitti.
IN QUANTO VERO UOMO egli avrebbe dovuto seguire le leggi della natura e venire al mondo attraverso le vie naturali, come sosteneva, ad esempio, Tertulliano. A far da ostacolo a questa ipotesi stavano però poderosi contenuti di natura sia culturale che religiosa. Innanzitutto il peso della religione ebraica che coniugava la punizione divina per il peccato originale proprio al parto, caricando l’evento di un’aurea che sanzionava con Eva tutte le sue discendenti. Vero è che la Vergine non era stata contaminata dal «seme immondo» della concupiscenza e in quanto Immacolata Concezione, cioè priva di peccato originale fin dal suo concepimento, era esonerata dalle sofferenze del travaglio; ma nei primi secoli della Chiesa, questa era solo un’ipotesi teologica controversa tra diverse correnti degli «immacolisti» e «macolisti»; non ancora una verità di fede, che verrà proclamata come dogma solo nel 1854.
A creare problema era soprattutto una rappresentazione del parto carica di valenze negative che il Cristianesimo ereditava dal mondo antico. Il nascere nel sangue era visto dalla cultura classica e da quella ebraica come causa di impurità; al sangue impuro dei lochi era attribuito pure un potere malefico e corrosivo, analogo a quello mestruale, secondo un parere condiviso per secoli pure dalla medicina.
AGLI DEI E AGLI EROI del mito classico erano attribuite infatti altre vie per la nascita, extra-ordinariae: ora dal fianco, come Asclepio o Dioniso, ora dalla testa, come Atena. Perfino il grande Giulio Cesare, secondo una falsa tradizione medioevale, era nato da taglio cesareo (da cui il nome). Questo sguardo disgustato sulla materialità della nascita si intrecciava, nei primi secoli del Cristianesimo, con il tema degli effetti della caduta del genere umano, di cui proprio le modalità del parto e della nascita (intra foeces et urinam) diventavano quasi simbolo, non solo nell’elaborazione degli gnostici o dei manichei, ma anche di molti teologi medioevali come Gregorio Magno e Lotario di Segni (papa Innocenzo III).
Come avrebbe potuto il figlio di Dio nascere nel sangue senza risultarne in qualche modo contaminato? Ed inoltre il suo stesso passaggio dalle vie naturali non comportava di per sé un’apertio vulvae, interrompendo la verginità di Maria, come appunto Tertulliano e altri sostenevano, ipotizzando una verginità della Madonna nel momento del concepimento, ma non durante o dopo il parto?
Sul parto della Madonna i Vangeli erano piuttosto vaghi: dicevano soltanto che mentre si trovava a Betlemme aveva «dato alla luce il suo figlio», avvolgendolo in fasce e ponendolo in una mangiatoria, perché non c’era posto per loro nell’albergo (Luca, 2,1). Solo due vangeli apocrifi, quello dello pseudo-Matteo e di Giacomo, rifacendosi al profeta Isaia, parlano esplicitamente del parto verginale di Maria, introducendo nel racconto la figura di una levatrice, Zelomi, chiamata da Giuseppe, che, arrivata troppo tardi quando il bambino era già nato, aveva avuto modo di verificare con la sua visita la verginità della Madonna, attestando l’evento miracoloso: Gesù «non aveva sofferto alcuna contaminazione di sangue»; la partoriente nessun dolore; essa, che aveva concepito vergine, aveva partorito vergine ed era rimasta tale.
FU PROPRIO questa versione dei vangeli apocrifi ad essere ripresa dalla Chiesa. Si ricorse a un’idea della verginità nel parto speculare a quella della fecondazione, che confermava l’evento della nascita di Cristo dal corpo della madre, ma modificava al contempo miracolosamente le leggi fisiologiche che normalmente lo regolano. Egli infatti «non era stato concepito dal piacere carnale, né era uscito alla luce attraverso i dolori» (come scriveva Gregorio di Nissa): era venuto al mondo lasciando intatto il sigillum; aveva attraversato il corpo della madre come un raggio di sole attraversa il vetro, con un’efficace immagine costantemente ripresa. In questo modo la nascita risultava assimilata con una specularità emblematica alla ri-nascita, all’uscita dal sepolcro che lasciava intatti i sigilli, come spiegava sant’Agostino nell’Enchiridion. Ne risultava rimarcata e arricchita di nuovi attributi anche la contrapposizione tra le due donne: Eva (origine e causa della morte) e Maria (origine e madre della vita).
Questa interpretazione divenne progressivamente maggioritaria a partire dal V secolo, sostenuta da autorevoli teologi come Efren Siro, il «poeta della Madonna», Zeno di Verona, Ambrogio, fino ad esser sancita da vari concili: quello di Calcedonia (451), di Costantinopoli II (553) e quello Lateranense (649). Maria venne dichiarata Aeiparthenos («sempre vergine») e questo appellativo fu inserito nella professione di fede del Concilio Lateranense IV (1215), ripreso poi anche da Paolo IV (1555) nella costituzione Cum quorundam, dove si riaffermava appunto che Maria era vergine «prima, durante e per sempre dopo il parto».
CI SI PUÒ CHIEDERE a questo punto quali conseguenze abbia avuto questa costruzione teologica sul piano del vissuto femminile, nella percezione del corpo, della gravidanza e del parto, per donne cristiane abituate a guardare alla figura della Madonna come modello assoluto. Non c’è dubbio che abbia introdotto elementi di profonda contraddizione nel vissuto della maternità, scindendone gli aspetti e attribuendovi significati e contenuti simbolici opposti. Se da un lato infatti, con il mistero dell’incarnazione, la nascita acquistava un rilievo speciale a livello simbolico; se la maternità risultava valorizzata sul piano spirituale e della relazione madre- figlio, con una rottura rispetto al mondo antico di cui è impossibile non cogliere la rilevanza; d’altro canto però il parto rimaneva confinato nel novero delle espressioni corporee indicibili e indegne della madre di Dio.
Questa svalorizzazione della maternità corporea era destinata ad accentuarsi ancor di più dopo il Concilio di Trento, quando le severe disposizioni controriformistiche in materia di raffigurazione delle immagini sacre portarono alla progressiva scomparsa di tutte quelle rappresentazioni artistiche che mettevano in mostra i segni della maternità corporea di Maria: le Madonne del parto andarono via via sparendo; nella rappresentazione della Natività la postura della Madonna puerpera fu abbandonata, a vantaggio di quella genuflessa, in adorazione del bambino (come più spesso si vede nei presepi) ed anche le mammelle di tante Madonne del latte rientrarono pudicamente nelle vesti.
QUESTA CANCELLAZIONE dei tratti corporei dal modello ideale di Madre e i contenuti teologici sottesi erano destinati a pesare non poco nell’autorappresentazione e nell’identità femminile, connotando l’esperienza materna di aspetti ambivalenti. Il tabù del parto, l’impurità della puerpera, che escludeva la madre perfino dal battesimo del figlio, non furono scalfiti dalla «rivoluzione cristiana», pesando, fino ad un passato molto prossimo, come un’ombra nera sul suo corpo fecondo.
In questo modo la forza, il coraggio e la capacità delle donne di mettere al mondo restavano avvolti in un alone di vergogna e impurità che solo in tempi recenti ha cominciato a esser rivisto, grazie al movimento delle donne.
Oltre la pillola.
Con le donne contro la clandestinità
di Giancarla Cordignani (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
Gentile direttore,
«Le nuove linee guida, basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana. È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese». Ineccepibile: il ministro della Salute consente un aggiornamento della 194, imprevedibile solo da chi ha fatto conto di non capire che, se un farmaco è in grado di prevenire il concepimento, il tipo di procedimento farmacologico era in grado di arrivare a dosaggi tipo ’pillola del giorno dopo’ e pillola abortiva.
E siccome l’aborto chirurgico - tralasciando i risvolti psicologici che non possono mai essere dimenticati - significa pur sempre un intervento sanitario importante che rende ancor più traumatica la decisione della donna, sembra il minimo che le sia risparmiato un aggravio di sofferenza. D’altra parte le proteste dopo l’approvazione del testo ministeriale danno alle donne l’impressione di una volontà punitiva dei ’patriarchi’. Quindi, per una persona come me, credente e laica, che quando si rese conto del numero sterminato di aborti nel nostro Paese, in clandestinità, con interventi disperati e mortali, prese posizione favorevole a una regolamentazione per legge di una pratica disumana che vedeva colpevolizzata la donna, lasciata sola anche davanti al codice penale che voleva tale reato condannabile perché «contro l’integrità e la sanità della stirpe» (senza contare che lo stupro era reato non contro la persona, ma contro la morale ed era estinguibile con il ’matrimonio riparatore’), non ci sono obiezioni di merito. Tuttavia. Tuttavia, una pillola abortiva non è un analgesico o un integratore.
Non si può assumere un paio di volte all’anno. E mi sembra che, visto che non siamo ancora riusciti a conciliare la libertà e l’egoismo tra i due ’generi’, bisognerà porre in questione, laicamente, la relazione uomo-donna. L’art.1 della 194 dice che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Le parlamentari che votarono una legge difficile davano senso preciso a parole sostanzialmente inapplicate, ma poi non proseguì la discussione sulla cultura della legge. L’opposizione cattolica si curò solo di negarle legittimazione, nonostante la necessità di intervenire responsabilmente in una materia a cui nessuna donna ha mai dato valore positivo. Anche i più permissivi si fermano al ’sarebbe meglio non dovervi ricorrere’. Per giunta non è mai stata approvata l’educazione sessuale nelle scuole, anche se sappiamo che ormai i bambini di nove anni se la formano sui siti porno di internet: si suppone che, se una ragazzina di quindici anni è ’nei guai’, la famiglia la porti in un ambulatorio privato e non risulti nel conteggio della diminuzione degli aborti, praticati da sempre dalle coniugate, spesso anche recidive.
Quindi la pillola abortiva toglie dai problemi anche quanti vanno a pregare davanti alle cliniche ginecologiche. Ma a me, da cittadina, restano da chiarire i termini riferiti alla procreazione «cosciente e responsabile » e alla maternità libera e responsabile di cui parla la legge.
Supponendo che tutti sappiano come nascono i bambini, sia per il matrimonio, sia per la convivenza, sia per rapporti occasionali, chiedo: come vanno le relazioni tra la donna e l’uomo? Motivazioni biologiche, sentimentali, avventurose a parte, sono relazioni ’vere’, in cui la gente si parla, dice le proprie esigenze, i propri desideri, compresa la disponibilità o meno di restare incinta? Perché chi straparla solo di bambini dovrebbe sapere che il bambino deve essere ’voluto’. Si può indulgere su qualcuno che arriva ’per caso’, ma quando una donna ritiene di ’dover’ abortire quel rapporto era davvero ’libero e responsabile’, la donna, la moglie era consenziente? Perché la donna ha diritto a decidere anche ’prima’, non solamente ’dopo’. Ma prima, oltre a parlare di sé e del loro entusiasmo, qual è stata la ’qualità’ del loro incontro intimo?
Stando alla gestualità di uomini che picchiano e ammazzano le donne e al linguaggio sessista nei confronti di esseri umani femmine, stando al fatto che cantanti, sindache o parlamentari si attirano volgarità da cura psicanalitica urgente non appena aprono bocca, a letto non ci deve essere grande spreco di preliminari e galanterie. Lo dico dalla parte delle donne che, non so se ancora, ma certo ai tempi di discussione della 194 raccontavano dei loro disagi e delle paure di ’restarci’ che non permettevano grande condivisione.
Ma lo dico soprattutto per la pochezza maschile, che si contenta, a sentire le favole da bar, di potenza e numeri. Ma la qualità? Va bene che anche a tavola spesso non siete un gran che, ma vedete che l’avanzamento della civiltà dal tempo delle ghiande si è evoluta: il pranzo e la cena sono riti, si invitano gli amici e, anche se la nostra non è la tavola di Versailles, usiamo tovaglie con i pizzi, porcellane e cristallerie anche quando in realtà sono piatti di coccio e vetri colorati, imbandiamo il meglio e dalla cucina escono vivande curate che finiscono in piatti accompagnati da posate e tovaglioli, magari di carta.
Le donne tengono ai ricami anche nei letti, ’poi’ magari anche loro non sono questa gran finezza, ma la maggioranza ai preliminari ci tiene, fa parte del rito del piacere; voi uomini troppo spesso vi contentate delle pulsioni, i cattolici - poi - pensano al buon Dio e credono di sapere che cosa vuole anche lì, tutti o quasi in genere non percepiscono differenze tra l’erotismo e la pornografia.
Se ci fosse anche una semplice buona educazione non si verificherebbero ancora così tanti aborti. Perché la donna che non vuole un figlio vorrebbe essere rispettata se dice ’no’ a un uomo che la vuole ’prendere’. Perché un uomo deve anche domandarsi perché mai si sia sposato e non far prevalere il suo egoismo.
Se una donna resta incinta senza averlo voluto una qualche violenza ci sarà stata: anche solo di ignoranza della contraccezione. E da adesso in poi la Ru486 diventerà più ’facile’. Ma non è che d’ora in avanti si risparmiano le prevenzioni e, poi, la donna si mangia la sua pillola e l’uomo non ha più preoccupazione... Perché prendere un farmaco pesante tocca a lei: lui perde pure gli scrupoli morali, roba di lei, non me ne preoccupo. Perché potrebbe passare anche a lei una ’leggerezza’ per un problema sociale che tornerebbe a diventare clandestino. Come donne, come società, davvero ci sta bene?
Giornalista, scrittrice direttrice di Server Donne già parlamentare della Repubblica italiana
ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA: RANNICHIARCI NEL SENO DI "DIO"!? LA SAPIENZA DEL GOMITOLO... E IL FILO DI ARIANNA *
L’anima e la cetra/14.
La sapienza del gomitolo
Luigino Bruni (Avvenire, domenica 28 giugno 2020)
«Per i seguaci di storture, non t’inquietare, i fabbricanti di falsità non invidiare... Se in qualcuno vedi la via storta riuscire, non t’indignare» (Salmo 37,1-7). Siamo dentro uno scenario di tentazione. Quella dei giusti, poveri a causa della loro giustizia, circondati da empi che invece ottengono successo e ricchezza. Un tema classico della letteratura biblica sapienziale, al centro della Bibbia, della storia, della vita. Sono le domande di Giobbe, di Qoelet, le domande dei poveri e delle vittime, sono le nostre domande. È sempre stato molto difficile, a volte troppo, perseverare in una vita che pensiamo essere giusta quando i nostri guai aumentano e la prosperità di coloro che crediamo essere iniqui cresce. Qualche volta ci sbagliamo, ci crediamo più giusti di quanto siamo realmente. Altre volte invece non ci sbagliamo, chi "sbaglia" è semplicemente la vita; chi sbaglia, iniziamo a pensare, è Dio.
Il salmista conosce questa tipica crisi-tentazione dei giusti. Parte da qui, non la scarta, la prende sul serio, e come ogni buon accompagnatore usa il fango che ha a disposizione per creare un nuovo Adam. E subito dà al giusto un comando molto importante: resta innocente. Non basta essere poveri per essere giusti, occorre l’innocenza, perché salvare l’innocenza dentro la nostra sventura è la dote che porteremo in dono all’angelo della morte. L’innocenza biblica non è assenza di peccati - altrimenti nessuno sarebbe innocente. È qualcosa di diverso e più importante. È restare attaccati per tutta la vita a quella fede-corda cui ci siamo legati nel tempo della giovinezza. Non averla mollata nelle sterzate e nelle scivolate, aver preferito questa umile corda alle seggiovie che promettevano scalate più facili, veloci e spettacolari.
L’innocenza è l’abbraccio fedele tra una mano e una corda.
«Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti: nel crucciarti nuoci a te stesso» (37,8). Lo sdegno, che in genere è una risorsa etica buona e importante perché attiva processi di cambiamento, può anche innescare circuiti degenerativi quando la rabbia e l’indignazione generano cruccio e le passioni autolesioniste dell’invidia e della vendetta, o quando fanno affiorare nel cuore l’idea peggiore di tutte: "ho sempre sbagliato, non valeva la pena essere giusti". È difficile non cadere in queste trappole (ogni tentazione è una trappola) perché, più o meno consapevolmente, siamo tutti fedeli di un qualche culto economico-retributivo; devoti di una religione fondata sul dogma che la benedizione di Dio si manifesti nella ricchezza e nel successo, e che quindi la sua maledizione prenda la forma della povertà e del fallimento. Anche perché è la stessa Bibbia (e non solo essa) a contenere tradizioni e libri dove questa idea è presente e operante - vedi Abramo o il prologo di Giobbe.
Prima di entrare nel vivo del suo discorso, il salmista ci invita a un movimento, a un gesto del corpo. Invita tutti, ma soprattutto i poveri che si trovano dentro quella tipica e grande tentazione, e in particolare quei poveri che potrebbero non esserlo più se imitassero i disonesti: ma che non lo fanno, perché preferiscono essere falliti da giusti che vincenti da empi.
Ci fa entrare in un luogo. Ci chiede di "rannicchiarci in Dio": «La tua sorte aggomitola tutta intorno al Signore, làsciagliela» (37,5). Il verbo ebraico galàl, come ricorda Guido Ceronetti, rimanda a un avvolgimento, un arrotolamento; richiama il bozzolo del baco, «la nube di zucchero filato attorno alla stecca», l’immagine del rannicchiamento del feto nel ventre materno. Il salmista ci consiglia di aggomitolarci nel seno di Dio, e da lì leggere la vita. È questa l’unica posizione buona.
Il Salmo 37 non è una preghiera. Il suo autore non si rivolge a Dio ma agli uomini. Consigliandoci subito di arrotolarci dentro il ventre di Dio ci svela una dimensione fondamentale della tradizione sapienziale. Il sapiente non è un profeta che parla agli uomini in nome di Dio ("così dice il Signore"); non è il sacerdote, custode della Legge, ministro del tempio e del sacro. Il sapiente non prende la sua autorità né da una parola privata di Dio né dalla Legge-Torah. La sorgente d’autorità delle sue parole è la vita, la storia, l’esperienza umana - «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio» (37,25) -, che il sapiente esplora e penetra per scoprire verità che per la Bibbia assumono un grande valore, tanto che alcuni libri sapienziali sono tra i suoi più amati. Sta qui la splendida laicità biblica.
La Sapienza non è profezia, non è preghiera, non è neanche teologia: è la postura umana per comprendere tutta la «Legge e i profeti», per poter iniziare a pregare veramente, per distinguere i veri profeti dai falsi. Sapienza è la creatura che si pone nel luogo giusto, lo scopre come "sede della sapienza" e pronuncia il suo fiat.
E così, dopo averci posto nella seta di quel bozzolo, il salmista inizia il suo discorso sapienziale. E lo fa con una critica radicale alla religione retributiva e alla teologia della prosperità, all’idea cioè di un Dio che usa il linguaggio della ricchezza e del successo per parlarci della nostra giustizia o iniquità e di quelle degli altri. Il salmo ci mostra potenti, persone di successo e ricche, che sono tali perché sono empi: «I malvagi tendono l’arco per abbattere il povero e il misero, per uccidere chi cammina onestamente» (37,14).
In questo salmo c’è una visione predatoria della ricchezza e del potere. Non tutta la ricchezza nasce dal sopruso, lo sappiamo noi e lo sa la Bibbia; ma noi e ancor più la Bibbia sappiamo anche che molta ricchezza nasce da una qualche forma di sopruso - anche se oggi molte ingiustizie sono mascherate da leggi legittimamente emanate dai parlamenti (il necessario principio di legalità non è mai stato sufficiente per nessuna giustizia). Il solo fatto che alcune ricchezze sono di certo il frutto dell’empietà è sufficiente per non poter leggere la ricchezza nostra e degli altri come benedizione di Dio e le povertà come sue maledizioni: «È meglio il poco del giusto che la grande prosperità dei malvagi» (37,16). Dentro il gomitolo lo possiamo capire.
Molto bello e importante è il discorso sul prestito e sul dono - è sempre commovente trovare l’economia dentro la preghiera biblica: non ci dovrebbe stare, e invece c’è: «Il malvagio prende in prestito e non restituisce, ma il giusto ha compassione e dà in dono» (37,21). La malvagità e la giustizia sono declinate con il linguaggio finanziario. Diversamente da molti passaggi biblici che insistono sul divieto di prestare (a interesse), qui troviamo una condanna dell’altro lato del contratto. Si condanna chi chiede il prestito, non chi lo concede. A ricordarci che non c’è solo l’empietà di concedere prestiti a tassi usurai c’è anche quella di chi prende prestiti con l’intenzione di non restituirli. Perché mentre i poveri insolventi diventano schiavi dei loro creditori, i ricchi avevano e hanno mille strade per uscire indenni da un’insolvenza, e spesso farla diventare occasione di profitto.
Il giusto, invece, è colui che usa i suoi beni con generosità, che li trasforma in dono. L’unica ricchezza buona e giusta è allora quella condivisa e donata? Ma la tesi più sovversiva la ricaviamo mettendo insieme questo versetto 21 con il 26, che parlando del giusto aggiunge: «Ogni giorno egli ha compassione e dà in prestito, e la sua stirpe sarà benedetta». Dà in prestito: prestare può essere attività giusta, espressione di compassione equiparata al dono? Sì: siamo giusti quando condividiamo la ricchezza con doni e quando la condividiamo prestando ad altri i nostri beni. Sbaglia allora chi contrappone, in linea di principio, filantropia e finanza, dono e contratto. Ci sono prestiti giusti che liberano più dei doni, e ci sono doni più velenosi dei contratti. Ieri e oggi, quando nei mercati convivono una finanza che fa vivere i poveri con una che li divora.
Manca ancora una tessera a questo mosaico, quella centrale e più luminosa: «I poveri [i nwym] avranno in eredità la terra» (37,11). La terra come eredità. Stupendo. Quell’antico saggio non promette il successo ai giusti. Promette molto di più: i giusti che salvano la loro innocenza avranno in eredità la terra. Tutta la Bibbia è custode di questa promessa, è shomer (sentinella) di questa parola che fonda la chiamata di Abramo, la sua Alleanza con YHWH, la grande liberazione e l’esodo, la grotta di Betlemme. Una promessa che non si è compiuta con l’arrivo a Canaan, perché se la terra promessa diventa nostra proprietà e possesso, rimane la terra e scompare la promessa.
La promessa dell’eredità della terra - che nel Salmo ricorre ben cinque volte - è allora la promessa di avere un futuro. Non è una ricompensa per qui e ora; questa promessa diversa non appartiene al "già", e anche quando ne assaggiamo qualche boccone questi sono solo la caparra del "non-ancora", che è il luogo del compimento incompiuto della promessa. Il giusto che non cede al consiglio degli empi «avrà un avvenire» (Pr 23,18). La promessa di futuro non è garanzia di successo né di ricchezza, ma di uno sguardo di qualcuno che, come la sorella-bambina di Mosè, ci accompagna mentre la nostra cesta scorre lungo il grande fiume, perché «il Signore ha cura dei giorni dei buoni, tesori di eternità gli prepara» (37,18). Allora il giusto è colui che custodisce la promessa di una terra che sa che non possederà mai, è sentinella dell’utopia, che vive ogni terra come provvisoria e la vita come pellegrinaggio.
C’era il salmo 37 dietro la terza beatitudine, dietro tutte le beatitudini: beati i miti, erediteranno la terra (Mt 5,5). Allora questo salmo è anche una spiegazione di cosa sia la mitezza biblica e cristiana. I miti sono i giusti di questo salmo. Sono quelle e quelli che non seguono la via dell’empio, non lo invidiano, restano legati a doppio filo con la loro corda durante la scalata della vita; per accorgersi, alla fine, che durante il viaggio non erano mai usciti da quel gomitolo custodito da viscere buone e misericordiose. La terra è l’eredità dei miti, perché solo i miti sono capaci di custodire la promessa di una terra senza possederla. Avremo ancora una terra e un futuro se impareremo questa giustizia e questa mitezza, se impareremo ad abitare il pianeta senza sentirci padroni e quindi predatori. Il futuro o sarà mansueto o non sarà: «L’uomo di pace avrà una discendenza» (37, 37).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA : "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours"). Un testo di Patricia Klindienst (trad. di Maria G. Di Rienzo)
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO".
FLS
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
IL "POLEMOS" DI ERACLITO, "LA SANTA VIOLENZA" DEL CARDINALE RAVASI, E IL "PADRE NOSTRO" ("CHARITAS") DEL MESSAGGIO EVANGELICO....*
Il nuovo libro di Ravasi.
Quando il sacro fa i conti con la violenza
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, sembra essere il basso continuo della storia umana: la Bibbia non ignora questa realtà, fino al radicale rovesciamento operato da Cristo
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, giovedì 17 ottobre 2019)
Sembra una ripresa cinematografica; è, invece, la descrizione di un poeta ebreo, il profeta Nahum, che nel 612 a.C. sta “sceneggiando” quasi in presa diretta la caduta di Ninive, la detestata capitale della superpotenza orientale, l’Assiria, sotto l’irruzione congiunta di Ciassare, re dei Medi, e di Nabopolassar, re della dinastia neobabilonese. Ecco la scena affidata a una sequenza impressionistica di azioni militari, costruita sulla secchezza di un elenco: «Sibilo di frusta, fracasso di ruote, scalpitìo di cavalli, cigolìo di carri, cavalieri incalzanti, lampeggiare di spade, scintillare di lance, feriti in quantità, cumuli di morti, cadaveri senza fine, s’inciampa nei cadaveri». Le pagine dell’Antico Testamento sono spesso striate dal sangue delle battaglie e si affacciano su rovine e devastazioni causate da eventi bellici. Una lingua lessicalmente povera come l’ebraico classico (5.750 vocaboli in tutto) si mostra sorprendentemente ricca quando deve designare la violenza
Tanto per esemplificare, ecco la radice hms «fare violenza» (donde hamas «violenza»), o šddhrm «sterminare » (donde herem, la strage sacra), hrg «uccidere», rsh «assassinare», ‘nh «violentare, opprimere», hrs «distruggere », lhm «combattere » (donde milhamah «guerra»), nqm «vendicare», mhs «abbattere, fracassare», šht «mandare in rovina» e altri ancora.
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, che per altro sembrano essere il basso continuo della storia umana, come pessimisticamente dichiarava Eraclito nel suo frammento 53: «La guerra (pólemos) è madre di tutte le cose e di tutte la regina (basiléus). Gli uni rende dèi, gli altri uomini; gli uni fa schiavi, gli altri liberi».
Anche il Nuovo Testamento, che pure inalbera il vessillo dell’amore ed eredita l’aspirazione messianica biblica allo shalôm «pace», non ignora questa realtà aspra che costella le strade della vita dei popoli.
Lo stesso Gesù, ad esempio, ricorrerà a un modello di strategia militare applicandolo all’esistenza cristiana da vivere con intelligenza e sapienza: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per chiedere pace».
La scelta radicale per il Regno di Dio, vero Leitmotiv della predicazione di Cristo, sarà da lui espressa con una dichiarazione paradossale, anche se evidentemente metaforica per indicare la natura “esplosiva” del suo messaggio: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» [...].
È indubbio che, sia a livello biblico sia nella storia della cristianità, questo intreccio tra guerra e religione è paradossalmente forte. Per stare alla Bibbia, basti solo pensare alle stragi sante - il cosiddetto herem o «sterminio sacro» - che accompagnano la conquista della Terra pro- messa da parte del popolo ebraico, oppure alle centinaia di testi violenti presenti nelle Scritture e alla stessa simbologia bellica usata per rappresentare il «Dio degli eserciti» (che, però, era originariamente un rimando all’armata astrale del Creatore, anche se poi applicata alle battaglie di Israele col palladio dell’Arca santa) [...]. Ci sono alcuni elementi di natura ermeneutica che dovremo costantemente ribadire [...]. Innanzitutto è da sottolineare la qualità storica della Rivelazione ebraico-cristiana, che nella Bibbia si presenta non come un’astratta serie di tesi teologiche speculative ma appunto come una concreta «storia di salvezza». All’interno degli eventi umani, spesso segnati dal peccato, dall’ingiustizia, dalla violenza, dal male, passa la presenza e l’opera di Dio che progressivamente e pazientemente cerca di condurre l’umanità verso un livello più puro, giusto e pacifico di vita. Il vertice è proprio - tenendo conto dell’unità «canonica » (cioè nell’unico Canone cristiano) dei due Testamenti - nella proclamazione: «Beati gli operatori di pace», formulata secondo lo spirito della citata «pace» messianica anticotestamentaria. La stessa tradizione giudaica successiva con rabbì Meir di Gher dichiarerà che «Dio non ha creato nulla di più bello della pace» [...].
Gesù, poi, nella sua proposta procederà fino alla scelta radicale dell’amore per il nemico così da trasformare quasi l’hostis in hospes e da introdurre il principio della non-violenza: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano».
L’apostolo Paolo, in un passo della Lettera agli Efesini, ove elenca una completa attrezzatura militare (cinturone, corazza, calzature, scudo, frecce, elmo, spada), la trasfigura in una simbologia spirituale: «Attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace; afferrando lo scudo della fede col quale si possono spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno, prendendo l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio». Introduce, dunque, nel cuore dell’apparato militare, evocato già in chiave metaforica, il «vangelo della pace» come meta da raggiungere. Egli parla per due volte della panoplía, cioè dell’«armatura » di Dio che non è aggressiva contro gli altri ma solo contro il male diabolico: «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo [...]. Prendete l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Fili di pensiero e buchi di memoria. Immanuel Kant e l’Alzheimer
Nell’ultimo decennio della sua vita il filosofo fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria: l’intervento di Francesca Rigotti per l’Alzheimer Fest
di FRANCESCA RIGOTTI *
Parleremo di Alzheimer e di filosofia concentrandoci sulla figura di un filosofo che fu presumibilmente colpito da questa sindrome. Un filosofo che alcuni hanno studiato a scuola, altri solo orecchiato: Immanuel Kant, che nell’ultimo decennio della sua vita fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria.
Kant visse tra il 1724 e il 1804, ottant’anni giusti tutti trascorsi a Königsberg, allora nella Prussia orientale, ora Kalinigrad, enclave russa. Alla locale università seguì le lezioni di filosofia, matematica, fisica e dogmatica. È l’autore delle tre critiche (della Ragion Pratica, della Ragion Pura, del Giudizio). Nel campo della morale ha elaborato una dottrina deontologica molto rigorosa basata sul dovere di comportarsi in modo tale che il proprio agire possa diventare massima dell’agire universale (in contrasto con l’utilitarismo e con la dottrina del male minore, capolavoro etico di Tommaso d’Aquino, quella che consiglia di ingoiare tu il rospo piccolo prima che il rospo grande ingoi te). Nel campo teorico-conoscitivo, la dottrina di Kant ha messo al centro della conoscenza il soggetto e le peculiarità del suo apparato conoscitivo categoriale attraverso il quale viene letto e interpretato il mondo.
Un grandissimo filosofo insomma, che proprio perché tale non sfugge allo sport preferito dai piccoli filosofi, che è quello di sparare al grande filosofo. È uno sport di tutti i tempi e di tutte le età, che ai nostri tempi è stato praticato contro Platone (trasformato in fautore dello stato autoritario); Marx (unisono o quasi: «in soffitta, in soffitta!»); Hegel e l’idealismo tedesco (che alcuni professori tedeschi vorrebbero cancellare dal programma di filosofia); Heidegger (ancora quasi un unisono: il bersaglio è facile data l’indulgenza di Martin verso il nazionalsocialismo). Ultimamente ci si è accaniti contro Kant, dapprima attaccando i suoi scritti gnoseologici cui si è voluto dare un bel «good bye», ora rivolgendosi anche alla roccaforte dei suoi scritti etici, troppo rigorosi per la nostra edonista società. Io però sono convinta che lassù, nel cielo dei filosofi, a Platone, Hegel, Marx, Kant, Heidegger e compagni quelle cannonate facciano il solletico.
Anche Kant, dicevo, è oggetto proprio in questi giorni di pesanti bordate che mirano a demolire nientemeno che il suo apparato etico, rigoroso e cogente, non adatto a un’epoca di grandi opportunisti e edonisti di bassa lega pronti a chinarsi a soluzioni di comodo. Ma che cosa c’entra tutto questo con l’Alzheimer? C’entra, c’entra, o almeno vorrei farcelo entrare io mostrando come, se un vero nemico di Kant ci fu, esso fu proprio questa malattia subdola e strisciante che venne a guastare gli ultimi anni di vita del grande pensatore di Königsberg.
Conosciamo bene la biografia di Kant e in particolare gli anni della vecchiaia grazie a ben tre biografie scritte da suoi conoscenti e amici, Borowski, Jachmann e Wasianski, e a un testo letterario del 1827 di Thomas de Quincey, Last days of Immanuel Kant, da cui è stata tratta la suggestiva versione cinematografica, del 1993, del regista francese Philipp Collin, Les derniers jours d’Emmanuel Kant, che purtroppo non posso mostrarvi, neanche un pezzettino. Se siete interessati potete guardarla integralmente su YouTube. Vedrete un anziano signore con parrucca, redingote e scarpini con la fibbia, dagli occhi azzurrissimi (che si possono soltanto immaginare perché il film è in bianco e nero), a volte ancora splendenti di intelligenza, più spesso offuscati dalla malattia che quell’intelligenza si stava portando via. Vedrete un uomo minuto e segaligno, anche se meno magro di come viene descritto nel libro (non portava mai calze nere per non far apparire i polpacci ancora più secchi), vittima del proprio rigore di abitudini di vita, che si autocostringeva a seguire rituali rigidissimi quanto ridicoli per quanto riguarda il dormire (impacchettato strettissimamente tra lenzuola e coperte), il vestirsi, il mangiare, lo scrivere, il fare le passeggiate...
Ma torniamo al Kant filosofo. Oltre che del pensiero critico Kant si interessò, tra l’altro, di estetica, di cosmologia, di antropologia. In relazione a quest’ultimo ambito scrisse nel 1798 una Antropologia dal punto di vista pragmatico, l’ultima opera pubblicata in vita anche se redatta nel corso di anni precedenti . Un’opera senile nella quale Kant tratta, forse non a caso, di memoria e oblio (e qui apro una parentesi per mandare un saluto ossequioso al grande Harald Weinrich, lo studioso autore del più bel libro sull’oblio che sia mai stato scritto e che qui mi ha molto aiutato: Lete. Arte e critica dell’oblio, chiusa parentesi).
Ebbene Kant, che aveva sempre goduto di ottima memoria, trattandone egli stesso teoricamente scriveva che la memoria è importante per prendere parte alle vicende della cultura e della scienza, e per questo la si deve esercitare fin dalla più tenera età. La collega poi ai principi della ragione, soprattutto quella che definisce la terza forma della memoria. La prima infatti, (memoria meccanica), è una specie di facoltà minore, quasi animalesca, con la quale si immagazzina materiale e basta; la seconda (memoria ingegnosa), è un metodo per ricordare attraverso associazioni che non hanno nulla a che fare con il concetto da memorizzare; al gradino più alto sta la memoria giudiziosa, che permette di esercitare scelte opportune e ragionate sui contenuti di memoria, tramite sistemi di classificazione, per es. dei libri delle biblioteche come delle specie naturali; scelte giudiziose perché basate su principi di ragione.
Eppure al teorico della memoria verranno a mancare, paradossalmente, tutte le forme di memoria, condizione che il suo maggior biografo, Wasianski, diacono della chiesa di Tragheim a Königsberg e amico personale e devoto di Kant, tentò di minimizzare e giustificare: «a poco a poco lo colsero le debolezze della vecchiaia, tra cui la mancanza di memoria...». E così continua la descrizione che l’amico diacono effettua delle trasformazioni del filosofo: cominciò a ripetere i suoi racconti più volte nello stesso giorno; vedeva le cose più lontane del suo passato vive e precise davanti a sé, ma il presente, come avviene nei vecchi, gli restava meno impresso; sapeva recitare lunghe poesie tedesche e latine, brani dell’Eneide, senza intoppo, mentre gli sfuggivano le cose apprese un momento prima. Si era accorto anche lui che la memoria gli si affievoliva, sicché annotava le cose su foglietti, buste usate, informi pezzetti di carta. Oltre alla perdita di memoria incominciò a elaborare teorie strampalate, per esempio attribuendo la morìa di gatti a Basilea, Vienna e Copenhagen, a una particolare elettricità dell’aria. Si sentiva debole, astenico. Si addormentava per fiacchezza sulle seggiole, fuori orario; non era in grado di badare al suo denaro, perse la nozione del tempo, talché un minuto gli sembrava esageratamente lungo; l’appetito era sregolato e degenerato (ingollava avidamente bocconi di pane spalmati di burro e premuti su formaggio inglese grattugiato). Si esprimeva in modo sempre meno adeguato e divenne incapace di scrivere il suo nome né riusciva più a figurarsi la forma delle lettere. Il suo linguaggio diventò improprio anche se cercava di spiegarsi con affinità e analogie (parlava di mare e scogli per intendere minestra e bocconi di pane); non riusciva a farsi capire su cose comunissime, poi cominciò a non riconoscere chi gli stava intorno. Non si raccapezzava e allora gridava con voce stridula. Si consumò, e morì il 12 febbraio 1804. La diagnosi di Alzheimer per la «debolezza senile» di Kant venne proposta da Alexander Kurz nel 1992, e poi ripresa e descritta da altri, in particolare Fellin, nel 1997.
Nella sua Antropologia, a proposito della smemoratezza, che Kant chiama obliviositas, il filosofo usa una immagine, per descriverla, con la quale sembra parlare di sè: la smemoratezza è lo stato in cui la testa è come «una botte piena di buchi» (ein durchlöchertes Fass). Per quanto la riempi, rimane sempre vuota, e questo è un grandissimo male (ein größeres Übel). I contenuti versati nella testa scorrono fuori dai buchi come fili d’acqua da un setaccio, e questa perdita rende la mente vuota, sterile.
Come il vaso che nel mito greco delle Danaidi le spose assassine erano condannate a riempire nell’al di là. E ora racconterò un meraviglioso mito che spiega molte cose di ora e di allora perché il mito tratta di ciò che non è mai e fu sempre.
Le Danaidi erano le cinquanta figlie di Danaos, re dell’Argolide, regione a nord del Peloponneso, che il padre aveva destinato spose, contro la loro volontà, ai cinquanta figli di Aigyptos, Egitto. Ma durante la prima notte di nozze le ragazze, tranne una, uccisero i loro sposi prima che il matrimonio venisse consumato. Nell’al di là le Danaidi dovevano riempire continuamente d’acqua un recipiente dal fondo bucherellato.
Io vi leggo un mito di infertilità, desiderata dalle fanciulle ma punita dalla società. Vedo fili d’acqua che escono dai buchi del corpo come vedo, nella metafora kantiana, fili di pensiero che escono dai buchi della mente rendendola sterile e improduttiva come non riproduttivo fu il ventre delle Danaidi.
Nel caso del filosofo sono fili di ragionamento che il vecchio professore (Kant aveva insegnato Logica e metafisica nell’Università di Königsberg), non riesce più a annodare, a intrecciare, nemmeno a districare, come si si esprime Kant in un’altra metafora per parlare dello stesso problema. Scrivendo nel 1794 all’allievo Sigismund Beck, Kant così scriveva: «Neppure io riesco a capire...me stesso, e le farò le mie congratulazioni se sarà in grado di mettere in chiara luce uno a uno questi esili fili della nostra facoltà conoscitiva...Districare fili così sottili non fa più per me».
Con queste parole Kant fornisce almeno due indicazioni; che la sua facoltà di ragionare è carente già nel 1794, e che i pensieri sono fili, nel suo e nel nostro immaginario, che pensa alla mente come a una matassa ingarbugliata (lo «gnommero» del commissario Ingravallo nel Pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda), come a un ciuffo di lana di pecora infilato sulla rocca che attende di essere dipanato e filato dalla mano del pensiero in forma di fili continui, filati, lineari, pronti per essere intrecciati in un tessuto-testo (teXtus).
Che cosa succedeva nella mente bucherellata di Kant, da cui uscivano fili che non potevano più essere razionalmente intrecciati? Che essa continuava a lavorare e a pensare, ma in maniera bizzarra. Lo mostra l’episodio del licenziamento del domestico Lampe, Martin Lampe (Lampe è la lampada in tedesco), che aveva seguito e servito il filosofo per quarant’anni, assistendolo in tutte le occasioni, dalla sveglia al mattino alle 5 con il lume a candela, al servizio del pranzo (preparato da una cuoca), all’accompagnamento nelle sue passeggiate ossessive sulle quali la gente di Königsberg regolava le sue attività. Non che Kant fosse molto interessato alla vita privata di Lampe, tant’è che ignorava che fosse stato sposato per diversi anni, e il giorno che il domestico indossò la marsina gialla invece della livrea bianca (e Kant si arrabbiò moltissimo) era perchè andava a risposarsi.
Ebbene nel 1802 Kant decise di separarsi da questo servo a causa del suo cattivo contegno insorto negli ultimi anni: esigeva supplementi di salario, litigava con la cameriera, e poi commise qualcosa di grave che non ci è dato sapere e su cui Kant così sentenzia: «Lampe ha commesso una tale mancanza che mi vergogno di nominarla». Lampe fu dunque dimesso e al suo posto venne assunto un tale Johann Kaufmann, con il quale il filosofo entrò in
sintonia - dopo un po’ di attrito perché le cose dovevano essere disposte e porte dal domestico sempre nello stesso modo, la teiera/caffettiera, la tazza di caffé/tè, la pipa. A questo punto, decide Kant, «il nome di Lampe va assolutamente dimenticato». E per dimenticarlo meglio che cosa fa? Lo annota su un foglietto di appunti: «dimenticare Lampe». Ma a differenza di quei pensieri che scappavano dai buchi della mente, il nome Lampe non riusciva a uscirgli dalla testa. Weinrich prova a interpretare questo imperativo categorico come un esercizio dell’arte dell’oblio, non dell’arte della memoria, dal momento che proprio le cose che si scrivono (si registrano, si mettono nella memoria, nostra o del computer) possono essere dimenticate. In qualche modo lo scrivere le cose, l’immagazzinarle nella memoria, le consegna all’oblio. Una volta scritte, possiamo anche dimenticarle e di fatto le dimentichiamo. Lo pensava del resto anche Platone, che definisce la vecchiaia l’età della smemoratezza (τό ληθης γηρας, to létes ghêras).
Nel dialogo Fedro infatti, a proposito dell’invenzione della scrittura da parte del dio egiziano Theuth, che presenta la sua invenzione come medicina per la memoria e per la sapienza, così commenta il saggio re Thamus, le cui opinioni riflettono quelle di Platone: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di dar vita alle arti e chi invece di giudicare quale danno o quale vantaggio comportano per chi se ne servirà. E ora tu, che sei il padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa infatti, (la scoperta della scrittura) produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’avranno imparata, perché fidandosi della scrittura non fanno esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi».
Se consegno la nozione allo scritto, insomma, la tolgo dalla memoria, la dimentico, e in più indebolisco la memoria stessa. Dimentico, faccio cadere fuori dai buchi della testa, dalla mente, de-mente, demente.
Cent’anni dopo la morte di Kant il medico dei pazzi Alois Alzheimer diagnosticò il morbo che da lui prese il nome: un morbo preciso dunque, una malattia da curare. Non di generica debolezza senile soffriva Kant, quanto di una malattia specifica. Probabilmente qualcuno lo sospettò già prima, ma soltanto nel 1992 il sospetto venne scritto e assunse la forma di certezza. Cosa che apre un altro quesito filosofico riguardante l’attacco innescato pochi anni fa dai filosofi newrealisti contro i pensatori postmodernisti. Alcuni di questi (v. Bruno Latour) hanno sostenuto che il faraone Ramsete non potè morire di tubercolosi (come avrebbero provato alcune moderne autopsie) perchè il bacillo di Koch non era ancora stato isolato. Il che filosoficamente corrisponde a sostenere che «sapere che x» equivale a «essere costitutivo dell’essere x», ovvero afferma che Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora individuata e battezzata. Argomento che secondo alcuni discenderebbe direttamente dalla «rivoluzione copernicana» introdotta da Kant, il quale pose il soggetto/sole al centro della conoscenza/sistema solare, affermando che il soggetto comprende la realtà attraverso le proprie categorie e assegnando dunque al nostro intelletto un ruolo fortemente attivo nel metodo conoscitivo; sono i nostri schemi mentali che determinano il modo in cui un oggetto viene percepito. Ma mentre la prima conclusione (Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora inventata/scoperta), è assurda, non lo è per nulla la seconda conclusione (la centralità del soggetto nella comprensione dei fatti e l’idea che le proposizioni scientifiche in grado di ampliare il nostro sapere sul mondo non si limitano a recepire passivamente dei dati, ma sono di natura critica e deduttiva). Non possiamo però occuparci a fondo della diatriba perchè il discorso ci porterebbe troppo lontano. La lasciamo lì, insieme al marasma senile del povero Kant, e alle sue occupazioni delle ultime settimane di vita, quali togliere e riannodare continuamente la cravatta, abbottonare e sbottonare la veste, in uno stato di continua agitazione, finché, come scrive un altro biografo, Jachmann, «svanì a mano a mano il vigore del più grande filosofo fino alla sua completa impotenza intellettuale».
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI... *
Dopo il discorso di Conte.
«Nuovo umanesimo» in politica: è tempo di dirlo e di farlo
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un nuovo umanesimo. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». Questa frase, pronunziata giovedì al Quirinale da Giuseppe Conte nel discorso con cui ha accettato di verificare la possibilità di formare un nuovo esecutivo, è stata ripresa dai media in modo spesso superficiale e talvolta in maniera irridente, in alcuni casi come esclusivo supporto alla cultura dell’accoglienza, soprattutto verso i migranti, e tuttavia, ha bisogno di essere ulteriormente pensata e approfondita.
Non bisogna dimenticare che la Chiesa italiana, nel suo V convegno nazionale, celebrato a Firenze nel 2015, è stata chiamata a riflettere sul tema del ’nuovo umanesimo’ nel suo radicamento cristologico. Il titolo di quell’evento recitava ’In Cristo il nuovo umanesimo’. E papa Francesco nella riflessione che ha proposto ai vescovi italiani nell’Assemblea generale del maggio scorso ha richiamato, in particolare con riferimento alla sinodalità, il discorso che aveva pronunziato in quell’occasione.
Nell’arduo tentativo di declinare teologicamente il sintagma ’nuovo umanesimo’, nella mia relazione a Firenze, io stesso avevo richiamato la categoria fondamentale, decisamente biblica, dell’alleanza come cifra di un autentico umanesimo radicato nella fede.
Oggi mi sembra proprio questo il contributo decisivo che i cattolici italiani possono offrire al Paese in questo frangente, ma non solo. E si tratta di un orizzonte culturale, piuttosto che di un’indicazione programmatica per l’azione di un Governo (come giustamente ha rilevato Conte).
Richiamando la Costituzione, si è fatto riferimento al ’primato della persona’, come radice antropologica di ogni azione sociale, politica, culturale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere - e qui il rammarico per averlo troppo spesso tralasciato e dimenticato -, la nozione di ’persona’, nella sua pregnanza ontologica, è stata consegnata (o, meglio, donata) all’Occidente dalle vicende delle dispute cristologiche e trinitarie dei primi secoli, messe in atto in ambito cristiano. Si è pensato l’umano a partire dall’identità di Cristo e dal mistero di Dio.
Per la cultura pagana la persona era semplicemente la ’maschera’ (prosopon), ovvero rappresentava il ruolo, che in ambito teatrale veniva assunto e interpretato dall’attore. Oltre la funzione pubblica, il cristianesimo, invita a considerare l’uomo nel suo rapporto con l’essere, piuttosto che col fare o col rappresentarsi. La trasposizione in ambito politico del concetto di persona passa attraverso la sua valenza giuridica.
Come Antonio Rosmini aveva efficacemente dichiarato della sua ’Filosofia del diritto’, «la persona ha nella sua stessa natura tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto». Questa preziosa indicazione consente il superamento sia di un crudo giusnaturalismo, sia del contrattualismo, imperante soprattutto nella concezione hobbesiana e rousseauniana dello Stato.
Ed è su tale base ’antropologica’ che si innesta la categoria dell’alleanza come modalità propria del rapporto fra persone e fra gruppi di persone.
In questa prospettiva vanno letti gli autorevoli inviti - in particolare quello del presidente della Cei Gualtiero Bassetti - a fondare un’autentica prospettiva politica non su dei semplici contratti, spesso frutto di miopi compromessi, che prima o poi esplodono, determinando la catastrofe del rapporto, ma su una visione programmatica, basata appunto su vere e proprie alleanze.
Non possiamo non ricordare che la prospettiva rosminana si rifà alla definizione di Giovanni Duns Scoto, che a sua volta radicalizza la visione di Riccardo di San Vittore (per il quale la persona è intellectualis naturae incommunicabilis existentia) fino a definirla ultima solitudo. Il Roveretano infatti afferma che la persona è una sostanza spirituale dotata di un principio incomunicabile. Così possiamo cogliere la caratteristica fondamentale della persona, ossia la sua unicità.
Sonny, il protagonista artificiale del famoso film Io robot, allorché si scopre ’quasi umano’ e ne prende coscienza, afferma con stupore: «Io sono unico». La macchina si produce, la persona si genera. Questa unicità rende preziosa ogni persona e determina un’etica della sua salvaguardia a qualsiasi classe, cultura, religione, regione, cultura appartenga.
Ma, oltre che unicità, la persona dice anche ulteriorità. Un aforisma che ci giunge dall’antica sapienza (Seneca, Naturales quaestiones) recita: «Oh quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit», che cosa misera è l’umanità se non si sa elevare oltre l’umano... In questa breve espressione si sintetizza in maniera mirabile l’ulteriorità della condizione umana, espressa peraltro col verbo (surrexerit) che fa riferimento alla risurrezione. Quell’«essere della lontananza » che è l’uomo, infatti, proprio a partire dalla sua distanza originaria e dal suo oltrepassamento realizza la più piena prossimità alle cose (Martin Heidegger). E da questo senso della ’trascendenza’ dell’umano il pensiero credente non è certo assente, anzi lo afferma, per esempio in un famoso frammento di Blaise Pascal, che viene a stemperare il facile ottimismo di un progresso ideologicamente mitizzato - allorché afferma che «La natura dell’uomo non è di avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi» (fr. 318 ed. Brunschvicg) - e a mettere in guardia da una possibile deriva spiritualistica dell’antropologia: «L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia» (fr. 325 ed. Brunschvicg).
Il nuovo umanesimo, che non intenda esprimersi nella forma di un acritico antropocentrismo, chiede così di declinarsi e di realizzarsi attraverso autentiche alleanze, spesso purtroppo infrante, fra uomo e natura, fra i generi, fra le generazioni, fra il cittadino e le istituzioni, fra emozione e ragione, fra popoli e religioni. Una saggia fatica che certo non può essere il risultato di un programma di Governo, ma quel quel programma può ben ispirare e illuminare. E che richiede una visione culturale e antropologica alla quale i cristiani possono efficacemente contribuire.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019) *
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
* www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2019
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOC.
APPELLO DI DONNE CRISTIANE CONTRO IL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
Le donne presenti all’incontro nazionale sul tema “I nostri corpi di donne, da luogo del dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata” (Roma dal 22 al 24 marzo 2019 - Casa Internazionale delle donne), manifestano il profondo sconcerto per il sostegno che alcune Istituzioni politiche e religiose hanno dato al Congresso mondiale delle famiglie, che vuole riportarci su posizioni retrograte e omofobe.
Siamo donne che da molti anni hanno intrapreso un percorso per liberarsi dalle gabbie di un sistema religioso, sociale e politico, impregnato di patriarcato.
Quanto lavoro per uscire da un mondo di istituzioni, di segni, di linguaggi che continuamente riproducono una immagine stereotipata della donna “sposa e madre”, una disparità di poteri, di diritti, di autorevolezza.
Che tristezza adesso constatare che alcune Istituzioni pubbliche patrocinano un Congresso mondiale sulla famiglia impropriamente definita “naturale”.
C’è ben poco di naturale in questa istituzione sociale fondata sul matrimonio nata come forma di contratto sociale e religioso, in un determinato contesto storico.
La famiglia “naturale” non esiste, esiste una struttura familiare che ha dato molto alla società, ma che ora è in crisi e in cambiamento. Non serve uno sguardo nostalgico al passato, serve il coraggio di dire che possono esistere vari modelli di famiglia che sperimentano forme anche nuove di solidarietà, genitorialità basate sull’amore e il rispetto reciproci.
Denunciamo che gli slogan utilizzati e gli obiettivi proposti sono la quint’essenza del dominio patriarcale, responsabile della violenza sulle donne, di cui ci siamo liberate e di cui non vogliamo il ritorno.
Chiediamo quindi che le istituzioni pubbliche non finanzino e non diano il patrocinio a iniziative discriminatorie e intolleranti.
La scelta di un papa inquieto
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 11.10.2018)
«L’aborto è come affittare un sicario». E’ un’immagine pesante, non facilmente comprensibile e vagamente diffamatoria quella usata dal Papa. Ma l’aborto viene da lui senz’altro omologato al «disprezzo della vita» quale si esprime nel lungo elenco delle guerre, degli sfruttamenti di ogni genere, di tutti gli abusi per opportunismo. Si tratta di parole gravi che contano, pronunciate da un maestro della comunicazione diretta e coinvolgente come Papa Francesco.
Eppure sulla base della sua esperienza pastorale, il Pontefice dovrebbe sapere che l’aborto non è semplicisticamente riducibile a «un problema per risolvere il quale si fa fuori una vita umana». E’ un’esperienza angosciosa intima .
Soprattutto Bergoglio ignora che «il problema» o «il diritto» all’’interruzione della gravidanza è riconosciuto dalla legge secondo determinate e ben precise condizioni. Essa riguarda «una gravidanza che comporti un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o alla previsione di anomalie o malformazioni del concepito. L’accesso all’intervento abortivo è dalla legge garantito in quelle circostanze, cosicché parlare di libertà di aborto è una forzatura che la legge non consente». Così ha scritto qualche giorno fa su questo giornale Vladimiro Zagrebelsky, augurandosi che non si ritorni a contrapposizioni irragionevoli, aggressive e diffamatorie.
Invece ci risiamo, e proprio per bocca del Papa. Adesso ci manca solo l’intervento di Matteo Salvini.
E’ triste dover fare questa battuta. Ma ferme restando le ragioni di principio dell’opposizione del Pontefice e del mondo cattolico all’interruzione della gravidanza, è innegabile che essa risenta del mutamento del clima politico e culturale del Paese. E che ci sia la tentazione di approfittarne per riaprire una questione che sembrava risolta nel rispetto reciproco delle convinzioni etiche.
Questa tentazione è un segnale importante dell’ avanzare di una democrazia illiberale nel nostro Paese. Si fanno prepotenti i segnali di insofferenza della classe politica al governo per ridurre o condizionare gli spazi di libertà di espressione della stampa. In maniera più pasticciata e subdola vengono alterati i diritti costituzionalmente riconosciuti ai richiedenti asilo, ai profughi, ai migranti. A questo proposito però esiste il consenso detto e non detto della popolazione e dello stesso mondo cattolico - con l’eccezione di pochi gruppi che rischiano però di godere di una visibilità mediatica fine a se stessa.
In tema di migrazione, accoglienza e integrazione dei migranti la stessa voce del Papa così forte, insistente, perentoria e persino provocatoria sino ad un anno fa, sembra in qualche modo ridimensionata. Si è fatta più realistica. Spero che questa mia affermazione non venga maliziosamente fraintesa.
Papa Bergoglio si trova in una situazione eccezionalmente difficile dentro e fuori la Chiesa. Nei suoi contatti e comunicazioni esterne talvolta si ha l’impressione che, senza abbandonare la sua tipica giovialità, sia profondamente turbato.
Questo turbamento si esprime anche nel suo schietto linguaggio tradizionale che mette continuamente in guardia qui e ora contro la presenza e l’opera del demonio. In fondo è lui il sicario dell’aborto.
Natività della Vergine Maria.
Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 8 settembre 2018)
Siamo creature chiamate a generare Dio nel mondo, una “missione” vissuta fin dall’inizio della propria esistenza da Maria, che è stata un ponte tra il Creatore e le creature. La festa di oggi, che celebra la natività della Vergine Maria, è legata indissolubilmente a quella del Natale: nella lettura dei Padri, infatti, con la nascita di Maria Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini, una dimora che poi lui stesso abiterà nell’Incarnazione.
La ricorrenza odierna è nata in Oriente ed è stata introdotta anche in Occidente da papa Sergio I nel VII secolo. Oggi questa festa è un invito a curare la nostra vita e la nostra interiorità perché è qui che s’incontra Dio. Una lezione “mistica” che i cristiani non devono mai dimenticare se non vogliono ridurre la fede a semplici “buone pratiche”.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853).
Letture. Mi 5,1-4; Sal 12; Mt 1,1-16.18-23.
Ambrosiano. Ct 6,9d-10; Sir 24,18-20; Sal 86; Rm 8, 3-11; Mt 1,1-16 oppure Mt 1,18-23 / Gv 20,1-8.
ANTROPOLOGIA E ANTROPOLOGIA RELIGIOSA.
LA POTENZA DEL DE-SIDER-IO. NOI SIAMO I FIGLI E LE FIGLIE DEL SOLE, I FIGLI E LE FIGLIE DELLE STELLE. ... *
ANTICHI RITORNI
Stelle cadenti? ’Lacrime’ sì... ma non del genere che credete
Perché agli astri è connesso il ’desiderium’. A ben guardare la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’.
di Alba Subrizio *
Mi perdoneranno i nostri lettori se ho deciso di riproporvi un articolo del nostro blog di qualche anno fa, ma la data (il 12 agosto) ’obbliga’ a parlarne. Sono queste, infatti, le sere in cui siamo tutti con il naso all’insù per vedere di cogliere qualche stella cadente; innamorati, scaramantici, speranzosi o scettici che siano semplicemente desiderosi di osservare il fenomeno astrale, tutti sperano di carpire almeno una delle scie luminose che attraversano la volta celeste in queste calde notti estive.
Non è un caso che alla ‘caduta’ di una stella sia connesso l’esprimere un desiderio, se è vero - come è vero - che il concetto di ‘desiderio’, in quanto brama di qualcosa, è intrinsecamente ed etimologicamente connesso agli astri, dal momento che la parola latina “desiderium” deriva dalla preposizione de (indicante movimento dall’alto verso il basso) + sidus, sideris (ossia “stella”, “astro”), ossia il desiderio è propriamente “ciò che viene dalle stelle”.
Si è soliti pertanto, nella cultura odierna, confessare i propri sogni alla volta celeste, sperando che questi presto o tardi possano avverarsi. Si tratta del fenomeno delle Perseidi, lo sciame meteoritico, così chiamato perché gravitante nella costellazione di Perseo, che ogni anno, orbitando intorno al sole dal 10 al 20 agosto (con picco il 12), è visibile dalla Terra. Nella cultura cristiana e popolare tale ‘sciame’ è noto anche come lacrime di San Lorenzo, dal nome del santo martirizzato sulla graticola, che si festeggia in tale data.
A ben guardare però la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’. Ebbene, è da premettere che il mese di Augustus, dedicato appunto all’imperatore Ottaviano Augusto, è uno dei mesi dove si celebravano la maggior parte delle feste legate al mondo agricolo, alla coltivazione dei campi, alle fertilità dunque; feste che spesso erano accompagnate da processioni durante le quali aveva luogo la cosiddetta “fescennina iocatio”, ovvero la ‘facezia fescennina’. I fescennini erano, difatti, dei versi mordaci a sapore volgare ed erotico che alludevano al “fascinum”, termine che nella lingua latina aveva una certa ambivalenza, poiché significava sia “malocchio” (da cui il nostro ‘fascinatura’) sia “membro virile”; non è un caso che ad essere portato in processione era l’enorme fallo del dio Priapo.
Orbene, i nostri antenati romani associavano il fenomeno astrale del passaggio delle Perseidi a ben altro genere di ‘lacrime’, o per meglio dire ‘gocce’: quelle dovute alla eiaculazione del seme del dio della fertilità. E voi, ce l’avete un desiderio irrealizzabile? Provate magari a pregare Priapo e a sperare di vederne il seme.
Alba Subrizio
Biografia: «E quel giorno che ha potere solo sul mio corpo e su null’altro, ponga pure fine, quando vorrà, alla mia vita. Con la miglior parte di me volerò eterno al di sopra degli astri e il mio nome non si potrà cancellare, fin dove arriva il potere di Roma sui popoli soggiogati, là gli uomini mi leggeranno, e per tutti i secoli vivrò della mia fama...». Così Publio Ovidio Nasone conclude il suo capolavoro “Le Metamorfosi”; sulla scia del grande Sulmonese. E, allora, eccomi qui a raccontarvi di miti, eziologie e pratiche del mondo antico... che fanno bene anche oggi.
* Il Mattino di Foggia, 12/08/2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
FILOSOFIA, BIOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E SOCIETA’..... *
Confini. L’elmento maschile, in una panoramica generale, si presenta in modo sporadico e occasionale, e dunque accessorio
La fine del sesso
I successi delle biotecnologie interrogano su una questione: declino e limiti di «rapporti naturali» e riproduzione sessuata
di Carlo Alberto Redi (Corriere della Sera, La Lettura, 05.08.2018)
Una delle domande trabocchetto negli esami del corso di laurea in Scienze biologiche è quella relativa alla definizione di sesso. Lo studente impreparato cade nell’errata semplificazione antropocentrica di definire il sesso come potrebbe fare la mitica casalinga di Voghera (Arbasino docet): l’insieme delle contrastanti e complementari caratteristiche (anatomiche, fisiologiche, psicologiche) che mostrano gli individui delle specie a riproduzione sessuata, dissertando poi di sesso genetico, cromosomico, gonadico e precisando tutti i caratteri apprezzabili, primari (ovaio e testicolo), secondari (peli, barba e mestruazioni), terziari (aspetti psicologici e di genere). La corretta definizione fa riferimento al processo della ricombinazione genetica dei caratteri ereditari: nella produzione dei gameti, uova e spermatozoi, la molecola di Dna viene tagliata e ricucita, mescolando i caratteri genetici e creando variabilità nell’assortimento degli stessi. Il grande vantaggio evolutivo della riproduzione sessuata consiste così nel creare un’alta variabilità genetica, sulla quale si esercita la selezione darwiniana; gli individui che hanno ereditato le associazioni di caratteri più favorevoli per l’ambiente in cui vivono sono in grado di accedere con maggiore successo alle risorse ambientali e quindi di riprodursi (fitness).
Due le grandi ipotesi che tentano di spiegare l’origine della riproduzione sessuata, la tangled bank e la «Regina rossa». La prima fa riferimento a Charles Darwin, che nell’ultimo paragrafo della sesta e ultima edizione dell’Origine delle specie, usa l’espressione tangled bank per descrivere l’ambiente come una «banca ingarbugliata», ricco di un enorme assortimento di tante e diverse creature tutte in competizione tra loro; creando alta variabilità genetica tra gli individui, la riproduzione sessuata assicura loro un vantaggio nella competizione per le risorse. La critica più ovvia è legata al fatto che i batteri presentano una scarsissima variabilità, pur essendo sul pianeta Terra da miliardi di anni.
Anche l’ipotesi della «Regina rossa» incontra difficoltà teoriche. La formula è di Leigh van Valen, che nel 1973 la riprese dal romanzo di Lewis Carroll Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, quando la «Regina rossa» spiega che «se si vuole andare da qualche altra parte, si deve correre almeno due volte più veloce».
Fu William Donald Hamilton a esplicitare la metafora in lavori scientifici che sono veri capisaldi concettuali della teoria genetica dell’evoluzione del sesso (e dell’altruismo, della sociobiologia, in particolare per le relazioni preda/predatore e parassitato/parassita): gli individui delle varie popolazioni che compongono una specie debbono sempre «correre», evolvere in continuazione, per sopravvivere; in altre parole, la ricombinazione genetica (il sesso) assicura al parassitato di evolvere rapidamente caratteristiche capaci di difenderlo dall’attacco del parassita, ma... anche il parassita, grazie al sesso, è in grado di evolvere nuove combinazioni di caratteri tali da permettergli di parassitare di nuovo, così perpetuando in continuazione l’infinita rincorsa.
La riproduzione asessuata è molto diffusa sia tra gli animali sia tra i vegetali; associata a un’alta capacità di rigenerazione dell’individuo, assicura la procreazione di cloni genetici. Si realizza per scissione binaria o per frammentazione e rigenerazione del corpo: chi tra i lettori non ha mai compiuto un’operazione di riproduzione asessuata di un vegetale strappando un pezzo di foglia, ramo, radice per riprodurlo, tramite talea rigenerativa, a casa propria? Negli animali è presente in moltissimi gruppi, dai Protozoi unicellulari ai Metazoi pluricellulari come i Poriferi (le spugne).
È materia del contendere se la riproduzione sessuata si sia originata da quella asessuata o viceversa. Oggigiorno si tende a preferire l’ipotesi che sia la riproduzione asessuata a essersi originata dalla primigenia sessuata (in molti libri di testo è ancora favorito il caso inverso), considerando il fatto che tutta la macchina enzimatica che assicura il taglia-e-cuci del Dna nel corso della ricombinazione genetica è essenzialmente quella impiegata nei meccanismi molecolari del taglia-e-cuci utili alla riparazione della doppia elica del Dna; questi erano già attivi nel mantenere l’integrità della molecola di acido nucleico dell’ultimo antenato universale comune di tutti gli esseri viventi (in sigla Luca, Last Universal Common Ancestor).
Comunque originato, il sesso è determinato da specifici geni che nel corso dell’evoluzione si sono raccolti su singoli cromosomi, i cromosomi sessuali X e Y (Mammiferi) oppure Z e W (Uccelli). Anche l’ambiente (temperatura, durata del periodo d’illuminazione giornaliera, densità di popolazione, risorse trofiche...) influenza la determinazione del sesso, come nelle tartarughe ove una temperatura superiore ai 30°C determina la nascita di femmine. Il sesso primario nell’uomo si stabilisce intorno alla quinta settimana di sviluppo, quando l’embrione indifferenziato sviluppa i testicoli con l’accensione del gene Sry (sul cromosoma Y) o l’ovario grazie al gene Wnt4 (sul cromosoma 1). Si intuisce chiaramente che un processo così altamente complesso possa alterarsi e produrre uno spettro di caratteristiche sessuali (intersessualità) che trascende rigide categorizzazioni. L’intersessualità non va confusa con l’ermafroditismo, ove un solo tipo di individui è portatore delle gonadi dei due sessi e produce sia uova sia spermatozoi (sebbene a fasi alterne e quindi gli ermafroditi debbono comunque accoppiarsi).
Un aspetto assai curioso e paradossale della riproduzione sessuata è che il sesso maschile, in una panoramica biologica generale, si presenta qui e là in modo sporadico e occasionale. Pur tralasciando la visione sociobiologica che assegna un «costo» al mantenimento dei maschi (costituiscono la metà della popolazione, non partecipano in modo significativo all’allevamento dei piccoli, non li generano direttamente), il sesso maschile risulta dunque un sesso accessorio e non obbligatoriamente presente, non indispensabile nell’accadere della riproduzione sessuata, che può essere tranquillamente portata a termine dalle sole femmine grazie alla partenogenesi, una modalità di riproduzione sessuata uniparentale.
La partenogenesi può produrre solo femmine oppure solo maschi o entrambi i sessi e può essere un modo obbligatorio di riproduzione oppure può comparire accidentalmente ed essere del tutto facoltativa; le varie modalità sono in relazione ai contesti di variazione delle condizioni ambientali e negli insetti stecco (Fasmidi) e negli Imenotteri sociali (api, vespe...) viene studiata in dettaglio. È possibile anche indurre la partenogenesi, artificialmente, con stimolazioni chimiche dell’oocita così da indurlo a riassorbire un piccolo globulo polare (un falso spermatozoo!) e ricostituire l’integrità del genoma.
L’intervento delle biotecnologie in ambito riproduttivo risale all’abate Lazzaro Spallanzani e al 1786, con la prima fecondazione artificiale realizzata nel cane (il clamore fu mondiale) per giungere alla nascita del primo baby in provetta (Louise Brown, nel 1978 ad opera del Nobel sir Robert Edwards). Se la fecondazione artificiale è pratica accettata, con gli attuali circa 400 mila bimbi che ogni anno nascono in provetta, di fatto la sessualità umana si interroga dinanzi alle attuali possibilità e pratiche di selezione del sesso con risvolti drammatici in alcune società orientali (Cina, India) ove è abitudine diffusa l’aborto delle femmine, al punto di aver prodotto un eccesso di maschi nella società degli adulti.
Di grande interesse l’analisi di questi problemi a livello internazionale realizzata dalla banca mondiale in relazione alle cause che li influenzano (guerre, migrazioni, politiche riproduttive). In che termini le biotecnologie riproduttive possano ridisegnare l’umanità e rendere obsoleto il sesso, permettendo di eliminare patologie e scegliere caratteristiche fisiche e mentali del nuovo individuo (il «bambino disegnato») è un fatto ancora tutto da sviluppare, poiché, mentre avanzano le conoscenze scientifiche, resta da decidere quale possa essere il limite delle loro applicazioni. Oggi da una semplice biopsia di cellule della pelle si possono ottenere, in vitro, cellule staminali pluripotenti e differenziarle in spermatozoi e uova; la gran parte dei benestanti potrà avere figli geneticamente propri in un ampio spettro di possibilità, inclusa la uniparentalità, grazie alla produzione di gameti artificiali e alla produzione incrociata di gameti (uova da maschi e spermatozoi da femmine). Tralasciando ectogenesi, per lo sviluppo dell’individuo al di fuori dell’utero, e clonazione, ancora proibita in ambito umano in tutte le legislazioni, già oggi la multigenitorialità è assicurata dalle pratiche di gestazione surrogata (utero in affitto) e la omogenitorialità dagli scambi di gameti.
È tempo che su questo quasi inevitabile futuro i decisori politici (in fatto di eguaglianza), i giurisperiti (per gli aspetti di responsabilità) e i filosofi (in relazione al post-umanesimo) diano il via alla discussione per capire se abbiamo già imboccato l’autostrada che porta alla fine del sesso con un totale investimento sociale sulla cura corpo, sui problemi della senescenza e sul godimento ormonale grazie al sesso virtuale. Tanta parte della filosofia è ancora attardata a riflettere sulle conquiste della fisica e non a sviluppare nuove visioni e pensieri su chi è oggi un individuo, sul destino del singolo, sulla genitorialità come progetto affettivo di legame sociale consapevole ed elettivo, non sessual-riproduttivo (quindi ascrittivo, non voluto), sulla costituzione del nucleo familiare, sul significato delle storie, dei miti e della psicoanalisi circa i «legami di sangue».
Tutte queste opportunità legate allo svolgersi della sessualità interrogano sulla obsolescenza del sesso «naturale» e sui limiti della riproduzione sessuata, sulle possibili pratiche odierne di sesso assicurate dalla realtà virtuale: la sezione della mostra Human+. Il futuro della nostra specie (chiusa a Roma il 1º luglio al Palazzo delle esposizioni) dedicata a questo tema impressionava coloro che (come lo scrivente) ancora sono amanti di inviti e corteggiamenti. La psicologia evolutiva potrebbe aiutare a dipanare lo smarrimento e lo stupore che i maschi provano dinnanzi alla meravigliosa capacità femminile di generare, a capire la genesi dei meccanismi di costrizione del fisico femminile messi in atto storicamente dai maschi per controllare quel corpo generante: e se Sigmund Freud avesse preso una cantonata con la storia dell’invidia del pene da parte femminile? E se fosse invidia del maschio della capacità riproduttiva delle femmine? Altri aspetti, forse meno impegnativi, attendono di essere chiariti: esiste una base chimica per l’attrazione sessuale? La bellezza è davvero negli occhi di chi guarda o nelle ghiandole sudoripare delle femmine? Sono soprattutto le femmine selettive nella scelta sessuale?
La risposta a quest’ultima domanda è la più facile: sì, in tutte le specie a fecondazione interna, dalle mosche all’uomo, la femmina è ben più discriminativa dei maschi nella scelta del partner sessuale. Ne conseguono alcuni avvertimenti, soprattutto per i maschi più giovani: i fiori non si mandano mai prima, ma solo dopo aver vinto la mitica «battaglia dei sessi». Con alcuni corollari: se la corteggiata è una biologa fate attenzione, i fiori sono organi genitali. State regalando ovari e testicoli... prudenza!
Il «testo sacro»
De Beauvoir spezzò le catene delle donne
di Cristina Taglietti (Corriere della Sera, La Lettura, 05.08.2018)
Nel 2019 saranno passati 70 anni dalla pubblicazione de Il secondo sesso di Simone De Beauvoir (in basso). Il testo della scrittrice di cui quest’anno ricorrono i 110 anni dalla nascita è una poderosa riflessione spesso ridotta allo slogan «Donna non si nasce, lo si diventa» perché - scrive Simone de Beauvoir - «nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna».
Testo sacro del femminismo che un editto Vaticano nel 1956 mise nell’indice dei libri proibiti (in Italia lo pubblicò il Saggiatore nel 1961), Il secondo sesso è una riflessione filosofica che, a partire dalla dialettica hegeliana, applica l’esistenzialismo di Sartre ai temi dell’emancipazione femminile, sottraendo la donna a un destino biologico che la esclude dalla storia, ma anche all’interpretazione fallocentrica di Freud e a quella del materialismo storico che pone la categoria economica al di sopra di tutte le altre.
Il secondo sesso, libro dal forte impianto filosofico, letto da migliaia di donne, passa in rassegna i ruoli attribuiti dal pensiero maschile alla donna mettendoli in relazione con i miti ancestrali, i costumi, i tabù, la sessualità studiata in ogni fase della vita femminile, dall’infanzia all’iniziazione sessuale, dalla maturità alla vecchiaia.
Il settantesimo anniversario sarà ancora un’occasione di dibattito tra chi vorrebbe rinchiudere quel testo, insieme alla sua autrice, nel recinto dell’inattualità e chi ritiene che sia stato ingiustamente messo da parte. Di certo Il secondo sesso fu un libro rivoluzionario: oggi si può metterlo in discussione, non ignorarlo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA, E ANATOMIA DELL’UOMO A UNA DIMENSIONE...
Il papa pro life che parla come il ministro Fontana
Vaticano. Bergoglio riceve il forum delle associazioni famigliari cattoliche e fa un discorso in linea con le posizioni chiuse dei predecessori: gli aborti selettivi sono come i nazisti in guanti bianchi. E sapete perché non si vedono più nani in giro?
di Luca Kocci (il manifesto, 17.06.2018)
Famiglia uomo-donna fondata sul matrimonio. No ad unioni «altre». Aborto come pratica nazista. Sembra il neo ministro leghista della famiglia Lorenzo Fontana («la famiglia è quella naturale, dove un bambino ha una mamma e un papà, le famiglie arcobaleno non esistono»), in realtà è papa Francesco che ieri, ricevendo in Vaticano il Forum delle associazioni familiari in occasione del venticinquesimo anniversario della fondazione, ha pronunciato un durissimo discorso in difesa della famiglia tradizionale e contro qualsiasi apertura ad altri tipi di unione.
«Oggi, fa male dirlo, si parla di famiglie “diversificate”: diversi tipi di famiglia», ha detto il pontefice rivolgendosi ai partecipanti all’udienza accompagnati dal loro presidente, Gigi De Palo, già assessore capitolino alla famiglia della giunta Alemanno. «Famiglia è parola analogica, perché si parla della famiglia delle stelle, degli animali. Ma la famiglia umana come immagine di Dio, uomo e donna, è una sola».
Dalla famiglia ai figli, all’aborto. «I figli sono il dono più grande, si accolgono come vengono, come Dio li manda, anche se a volte sono malati», ha aggiunto il papa. Eppure alcune coppie non li vogliono. «Una volta - ha esemplificato Bergoglio - ho incontrato due sposi da dieci anni, senza figli. Tante volte i figli si vogliono ma non vengono. Poi ho saputo che loro non li volevano. Ma queste persone a casa avevano tre cani, due gatti». Di conseguenza l’aborto (a cui è dedicata l’apertura dell’Osservatore Romano di oggi: «Papa Francesco denuncia la piaga degli aborti selettivi») è un crimine gravissimo, paragonabile - secondo il papa - all’uccisione dei bambini malformati da parte degli spartani che li gettavano dal monte Taigete (questione storiograficamente controversa) e all’eugenetica nazista.
«Ho sentito dire - ha spiegato il pontefice - che è di moda, o almeno abituale, nei primi mesi di gravidanza fare certi esami, per vedere se il bambino non sta bene, o viene con qualche problema. La prima proposta in quel caso è: Lo mandiamo via? L’omicidio dei bambini. Per avere una vita tranquilla, si fa fuori un innocente. La maestra ci diceva cosa facevano gli spartani quando nasceva un bambino con malformazioni: lo portavano sulla montagna e lo buttavano giù. Era un’atrocità. Oggi facciamo lo stesso. Perché non si vedono tanti nani per strada? Perché il protocollo di tanti medici (tanti, non tutti) è fare la domanda: “Viene male?”. Nel secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso, ma con guanti bianchi». Parole profondamente sentite da papa Francesco, che ha messo da parte il sobrio testo del discorso ufficiale («mi sembra un po’ freddo»), per parlare a ruota libera.
Come interpretare questo comportamento? Francesco ama assecondare il proprio uditorio. Raramente quando ha davanti religiosi (vedi i severi auguri di Natale ai cardinali di Curia), ma quasi sempre quando parla ai laici: pacifista con i pacifisti, indigenista con gli indigeni e, come ieri, pro life con le associazioni familiari. Soprattutto c’è da dire che in tema di morale familiare-sessuale, a differenza delle questioni sociali (migranti, disarmo), le posizioni del papa sono incanalate nel solco della tradizione, e le apparenti aperture («chi sono io per giudicare un gay?») sono verbali, non sostanziali. Non si distanzia quindi dai suoi predecessori Wojtyla e Ratzinger, se non per una minore insistenza sui temi cosiddetti «non negoziabili».
“Nazisti coi guanti bianchi”. Bergoglio torna a fare il Papa
Dopo la legge sull’interruzione di gravidanza in Argentina Francesco difende la famiglia: “Solo tra uomo e donna” e critica l’aborto
di Guido Gazzoli (Il Fatto, 17.06.18)
La famiglia è “una sola, uomo e donna” ed è “il dono più grande che Dio ha fatto all’umanità”. Papa Francesco esordisce con queste parole nell’udienza del Forum delle associazioni familiari, in Vaticano per festeggiare il suo venticinquesimo anno di storia.
Le parole più forti sono contro l’aborto selettivo: “Il secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso ma con i guanti bianchi”, ha detto. “È di moda, o almeno è abituale, quando in gravidanza” si vede che “forse il bambino non sta bene o viene con qualche cosa: la prima offerta è ‘lo mandiamo via?’ L’omicidio dei bambini: per risolvere una vita tranquilla si fa fuori un innocente”. E si rifà alla leggenda di Sparta secondo la quale i bambini deformi venivano gettati dal monte Taigeto: “Oggi facciamo lo stesso”.
Poi parla della famiglia: “Oggi fa dolore dirlo: si parla di famiglie diversificate, di diversi tipi di famiglia” ma invece “la famiglia, immagine di Dio, uomo e donna, è una sola”.
Parla di chi non vuole avere figli e prende in casa invece cani e gatti. Critica le nozze dove si antepongono il vestito o la festa a ciò che deve essere al centro: il matrimonio non può essere considerato “una lotteria, come va, va”. E senza timore fa affermazioni che risuoneranno impopolari: “Tante donne, ma anche l’uomo talvolta lo fa, nel silenzio hanno aspettato, guardando da un’altra parte, aspettando che il marito tornasse alla fedeltà. non hanno capito nulla”. Infine, dopo avere bypassato ogni politically correct nei confronti di gay e femministe, dice qualcosa che potrà fare arricciare il naso ai cattolici più tradizionalisti: anche i non credenti, se si amano e fanno una famiglia, sono “immagine e somiglianza di Dio”.
Le parole, pronunciate in occasione del Forum, arrivano puntuali e non a caso - specialmente quelle sull’aborto - dopo l’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, in Argentina, paese in cui il Pontefice è nato.
Una legge che ha visto la luce grazie anche al benestare del presidente Mauricio Macri il quale, pur dichiarandosi contrario, aveva detto che in caso di approvazione della legge, non avrebbe messo alcun veto. A questo proposito si è espresso Guillermo Marcò, ex portavoce di Bergoglio durante il suo arcivescovato a Buenos Aires, ha dichiarato: “Quella di Macri di lasciare la più ampia libertà di coscienza su un tema tanto delicato credo che alla fine avrà un costo politico molto grave per il governo attuale, votato anche da tantissimi cattolici, che però sono rimasti delusi da questa posizione.”. E ha poi concluso: “Ci sono trattati internazionali che sono parte della nostra Costituzione, come il patto di san José di Costa Rica, che protegge la vita fin dal momento del concepimento, che sono stati disattesi”.
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Federico La Sala
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"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Lettera aperta ai dirigenti della Rai TV
"Pago il canone e pretendo che i giornalisti della tivù pubblica sappiano come nascono i bambini".
di Luisa Muraro
Le sindache (e i sindaci) d’Italia, possono credere nella cicogna che porta i bambini, ma quelli che preparano i telegiornali, no, loro no. Pago il canone e pretendo che i giornalisti della tivù pubblica sappiano come nascono i bambini. Nel telegiornale delle ore19 di sabato 28 aprile, hanno dato la notizia di un bambino che ha due padri, anzi “due papà”, e come tale è stato regolarmente iscritto all’anagrafe di Roma. Non sembrava l’annuncio di un qualche miracolo della scienza medica. La signora che ha letto la notizia, se, come dobbiamo supporre, era incredula, l’ha nascosto molto bene. E così dovranno fare, suppongo, le segretarie, le maestre, i parenti, i nonni, i pediatri, e via via, fino a quando l’interessato, reso consapevole, smetterà di annunciare che lui ha due papà. Che commedia sia questa, se questo è tutto il progresso in cui possiamo sperare, io non so. Dico solo una cosa ai dirigenti della Rai tivù: c’è un sacco di posto per la finzione, per la fantapolitica, per la finta realtà, per la pubblicità e la propaganda; evitate, per favore, di usare lo spazio delle notizie per raccontare certe storie. Prima ho detto “pretendo”, ma ho sbagliato, scusate, nei vostri confronti non ho diritti, pago il canone e ho l’obbligo di pagarlo in ogni caso.
*www.libreriadelledonne.it, 29 aprile 2018
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
FILOSOFIA DELLA RIVELAZIONE. "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": "GENERARE DIO". L’immaginario del cattolicesimo romano....
Narciso e l’arte di restare a galla: una lezione di Massimo Cacciari
di Luisa Muraro *
Narciso non sapeva niente di narcisismo. Il pastorello vanitoso si sporge per specchiarsi, casca nello stagno e annega. Doveva venire in Italia a imparare dai nostri uomini di spicco. Specchiarsi e, soprattutto, restare a galla, è un’arte. Per esempio, come fa il narciso italiano quando succedono cose notevoli che lo mettono ai margini? Aspetta un po’ che passino ma se non passano, come sta succedendo con il femminismo?
Massimo Cacciari, intervistato sul suo ultimo libro risponde con una lezione esemplare.
Il suo libro è di argomento teologico ed è il giorno di Natale. Il Professore si vanta di aver fatto una scoperta filosofica, teologica e politica su Maria di Nazareth. L’intervistatore, Nicola Mirenzi, è ammirato ma mostra incredulità. L’intervistato ammette di non essere stato il primo e fa il nome di un grande teologo del passato. L’intervistatore chiede: come mai neanche le femministe si sono dedicate a pensare la grandezza di Maria? Neanche loro, conferma il professore. Dice il falso ma lui non teme che la verità gli secchi la lingua perché non la sa, lui di femminismo non ha mai voluto saper niente con un minimo di precisione. L’ignoranza, però, non basta più con i tempi che corrono, ci vuole un tampone e Cacciari l’ha pronto. Ripete un elogio del femminismo fatto da altri (sempre lo stesso, “ultima vera rivoluzione” ecc.). Intanto pensa: nessuno può lontanamente aver visto quello che ho visto io! E a voce alta dice: le femministe “sono rimaste vittime della lettura maschilista dell’incarnazione, hanno guardato Maria come una figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c’è oltre”. Questa è la mossa classica dell’intellettuale italiano: s’inventa una posizione “femminista” fasulla, che gli pare verosimile e che trova facile da eliminare.
Termina così l’intervista; la trovate su Huffington Post, che in seguito ha pubblicato l’intervento di Nadia Lucchesi su questo argomento; lo trovate anche qui.
Inventarsi un femminismo finto, dopo quasi mezzo secolo di un movimento che sta modificando i tratti di una civiltà, e uno studioso di chiara fama che crede di poterlo fare impunemente, tutto questo non sarebbe possibile senza la complicità dei suoi pari e dei mass-media che vanno per la maggiore. È questo un andazzo che è durato troppo e danneggia il nostro paese. Da notare però anche, in questo caso, un certo desiderio maschile di mettersi alla luce della differenza femminile. Nadia Lucchesi e le sue amiche sono intervenute a smentire il Professore con molta serenità, come se, sotto le sue arie da grande pensatore, riconoscessero uno dei pastori che andarono alla grotta di Betlemme. (Luisa Muraro)
Il commento di Nadia Lucchesi e amiche all’intervista di Massimo Cacciari
Se i filosofi hanno ignorato Maria, le filosofe ne hanno invece valorizzata la figura, liberandola dagli stereotipi e dalle incomprensioni della tradizione. Penso, per nominarne alcune, a María Zambrano, a Simone Weil e a Edith Stein. Le femministe hanno guardato ben oltre la lettura maschilista dell’incarnazione: come scriveva Luisa Muraro nel 2011 «Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico, ma anche le agnostiche si sono dedicate a strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti)... Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini. Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni Ottanta, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso...» (Maria. Il latte della Vergine, Madre di Dio e Dio lei stessa, Il manifesto - Alias, 24 dicembre 2011).
Infatti, Luce Irigaray ha pubblicato nel 2010 «Il mistero di Maria» (Edizioni Paoline, 2010), mentre nel 2002 Nadia Lucchesi aveva dato alle stampe «Frutto del ventre, frutto della mente: Maria, madre del Cristianesimo» (Luciana Tufani, Ferrara 2002).
Nel 2014 si è svolto a Venezia il convegno «Rivisitazione di Maria. Per una teologia in lingua materna», a cura di Laura Guadagnin e Grazia Sterlocchi delle associazioni Settima Stanza e Waves in collaborazione col Centro Donna, mentre a Roma, all’interno del progetto speciale culturale Biblioteche di Roma 2014 «Presenza e mistero di Maria», Annarosa Buttarelli e Suor Michela Porcellato sono intervenute sul tema: «La sovranità di Maria di Nazareth».
Raffaella Molinari e Monica Palma, relatrici di un intervento dal titolo «Maria della Sororità, Nostra Signora Nostra Sorella» continuano il lavoro straordinario di Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente.
Da più di cinquant’anni, inoltre, Angela Volpini diffonde un’immagine di Maria che rappresenta l’umanità realizzata e ci insegna la “via della felicità sulla terra”.
Non parlo dei tantissimi contributi delle teologhe cattoliche e non, che hanno interpretato in modo non tradizionale la figura della Vergine, della Maestra di Sapienza: cito, per nominarne solo una, Elisabeth Schüssler-Fiorenza, teologa statunitense, femminista cattolica, autrice di due opere fondamentali: «In memoria di Lei» (Claudiana, Torino 1990) e «Gesù, figlio di Myriam, profeta della Sophia» (Claudiana, Torino 1996).
* www.libreriadelledonne.it, 19 gennaio 2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
Federico La Sala
Padri che dominano troppo
di Nicola Gardini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 13.03.2016)
Admeto, come leggiamo in Euripide, aveva ottenuto dagli dèi di poter evitare la morte nel caso in cui qualcuno si offrisse al suo posto. Il giorno arrivò e si offrì l’irreprensibile moglie, Alcesti. I genitori, benché anziani, si guardarono bene dal sostituirsi a lei. Al funerale Admeto li rinnegò entrambi. Alcune delle parole rivolte al padre sono diventate il titolo dell’ultimo saggio di Eva Cantarella Non sei più mio padre, pubblicato da Feltrinelli. È un proclama rivoluzionario: la biologia, che non è certo riscrivibile, qui si dà per convenzione, per pratica sociale, per politica. E davvero Eva Cantarella mostra che il rapporto padre-figlio o, più latamente, tra generazioni nella Grecia antica è questione di potere; vale come istituzione giuridico-economica prima ancora che legame d’amore o esperienza affettiva.
I padri dominano, i figli subiscono. Se fanno di testa loro, sono semplicemente disobbedienti, non significa che siano artefici del proprio destino (come, invece, i figli scapestrati dei moderni romanzi di formazione). La relazione paternalistica si mantiene più o meno incontestata, almeno sulla base delle testimonianze pervenuteci, dal periodo arcaico a quello della morte di Socrate. Padri dominatori, perfino uccisori dei propri figli compaiono nella mitologia delle origini, che si fonda, guarda caso, proprio sul racconto di una competizione padre-figlio (Urano-Crono). Il figlio può, con un castrante falcetto, prevalere, ma sarà a sua volta padre dominatore. Anche Zeus ha la meglio su Crono. Sebbene con lui, finalmente, la catena di violenza familiare si interrompa, Zeus continua ad avere autorità assoluta sui figli; il suo potere paterno non si mette in dubbio. E così non si mette in dubbio quello di Odisseo.
Molti, valutando i fatti dell’Odissea, parlano di una maturazione di Telemaco. Eva Cantarella dimostra che Telemaco resta figlio e basta; quel che fa lo fa perché così vuole il padre. Lo stesso vediamo nella tragedia, in cui si esprime la voce della nuova polis. Già ho citato il caso di Admeto. Si pensi anche all’emblematico caso di Ippolito, che soccombe alla maledizione del padre, o a quello di Oreste, che si fa matricida per vendicare il padre. Insomma, il figlio sta per il padre, o sottostà al padre. E quando, come Edipo, si affranca da lui con la violenza, non trova alcuna felicità.
Le prime vere contestazioni del modello tradizionale, come risulta dalla commedia di Aristofane, cominciano solo verso la fine del quinto secolo, quando Atene, per effetto della guerra, entra in crisi e i figli cercano di ridefinire le proprio ragioni e funzioni, anche prendendo i padri a sberle. Da padre adesso fa uno come Socrate: un padre elettivo, che decostruisce qualunque rapporto di potere, autorizzando l’indipendenza e l’autosufficienza intellettuale del figlio. E immagine del nuovo figlio è, pur con tutti i suoi lati riprovevoli, un Alcibiade: ubriaco di troppa libertà, reso arrogante proprio dall’amore di Socrate, disobbediente e irriverente per principio, trionfante nella catastrofe.
Non sei più mio padre, che presto verrà completato da una seconda parte su Roma, aggiunge un sostanziale capitolo al racconto della civiltà antica che Eva Cantarella va componendo con sapienza e con eleganza da molti anni. I meriti del suo metodo sono grandi: rigore nell’utilizzo delle fonti (letterarie e no), chiarezza nella presentazione degli argomenti anche più ardui, una lucidità critica che, tendendo alla condensazione, sa però illuminare la complessità dei contesti, anche quando sfumino nel buio dell’indocumentabile. Un’altra cosa degna di lode: qui non si cade mai nella trappola dell’attualizzazione. Lo sguardo resta fermamente, scientificamente storico, come già nelle altre bellissime indagini sull’omosessualità e sulla donna per le quali Eva Cantarella è diventata celebre.
Tuttavia il lettore non può non sentire che la trattazione di temi come questi, che parlando di identità e di responsabilità, di giustizia e di benessere sociale, risponde a interrogativi e a problemi attualissimi. Finito di leggere Non sei più mio padre, dobbiamo domandarci: Chi sono i padri oggi? E i figli? I politici, lo sappiamo, stanno cercando di dare risposte e qualche felice soluzione sembra già a portata di mano (la legge Cirinnà). Pensiamoci tutti a queste domande. Ci troviamo davanti a grandi e concrete occasioni di rinnovamento, come ai tempi di Socrate. Possiamo tutti riformarci come padri e come madri, favorendo la crescita e la libertà e l’uguaglianza. Non costringiamo le nostre società all’ennesima dose di cicuta.
Inside Out
Se Cartesio sbarca al cinema
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 08.11.2015)
Sta circolando da qualche settimana in Italia il film Inside out, il cui titolo allude al tentativo della Pixar di “tirar fuori ciò che abbiamo dentro”. Cioè di mostrare visivamente i meccanismi mentali nelle loro componenti razionali ed emotive. I critici cinematografici, che evidentemente si intendono solo di cinema, l’hanno esaltato come un’esposizione quasi scientifica delle nuove frontiere neurofisiologiche, scomodando al proposito addirittura i nomi di Antonio Damasio e Oliver Sacks.
In realtà il film avrebbe fatto meglio a intitolarsi Outside in, perché non fa altro che “metter dentro ciò che siamo fuori”. Cioè ripete l’antico “errore di Cartesio”, che credeva che a guidare l’uomo fosse un homunculus dentro di lui, fatto a sua immagine e somiglianza in versione miniaturizzata. Il quale, come i protagonisti del film, sta seduto in un “teatro cartesiano” e osserva dal di dentro ciò che il suo principale a grandezza naturale percepisce dal di fuori.
Naturalmente, poiché un homunculus differisce da un homo solo nelle dimensioni, si può immaginare che nella sua testa ci sia un homunculissimus ancora più piccolo che lo osserva e lo dirige, e così via. L’ipotesi porta dunque a un regresso all’infinito, che non ha bisogno delle neuroscienze per essere confutato: basta la logica, in una delle innumerevoli variazioni del paradosso di Achille e la tartaruga.
La fecondazione fa scintille
I ’fuochi d’artificio’ si sprigionano dalla superficie dell’ovulo
Incontrandosi, ovuli e spermatozoi ’fanno scintille’. Non è un modo di dire, ma è quello che letteralmente accade nel momento della fecondazione. Per la prima volta alcuni ricercatori sono riusciti a ’fotografare’ i fuochi d’artificio, che consistono in miliardi di particelle di zinco scagliate via, a ondate continue, dalla superficie dell’ovocita. Una scoperta che potrebbe migliorare l’efficienza delle tecniche di fecondazione assistita, come spiega lo studio coordinato da Teresa Woodruff, dell’americana università Northwestern pubblicato sulla rivista Nature Chemistry.
Svolta per la fecondazione in vitro
A scatenare l’esplosione sono le minuscole sacche, piene di zinco, che si trovano proprio sotto la superficie dell’ovulo. ’’La quantità di zinco rilasciata da un’ovulo - spiega Teresa Woodruff, uno dei due autori dello studio - può essere un ottimo indicatore per identificare gli ovuli fertilizzati di miglior qualità, qualcosa che non possiamo fare ora. Una volta in grado di identificare i migliori ovociti, si potranno trasferire meno embrioni durante i trattamenti di fecondazione’’.
Uno ’spettacolo coordinato’
I ricercatori sono riusciti a scoprire dove si trova lo zinco nelle singole cellule di un mammifero, al momento della fecondazione e due ore dopo. Ogni ovulo contiene quasi 8.000 sacche, ognuna con circa un milione di atomi di zinco. Questi pacchetti rilasciano il loro carico di zinco simultaneamente in modo coordinato. E come in ogni spettacolo di fuochi d’artificio che si rispetti, anche in questo caso ci sono almeno 4-5 esplosioni, perfettamente sincronizzate sotto la mano di un sapiente direttore d’orchestra.
* ANSA, 16.12.2014 (ripresa parziale, senza immagini).
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 13 maggio 2013)
Il «rispetto della vita umana fin dal momento del suo concepimento» e «la protezione giuridica dell’embrione». Al Regina Coeli Francesco interviene per la prima volta da Papa su temi che il cardinale Bergoglio, peraltro, aveva già affrontato con nettezza da arcivescovo di Buenos Aires. È il giorno della «Marcia per vita», alla terza edizione, che dal Colosseo ha radunato 30 mila persone, dicono gli organizzatori, per «un’occasione di difesa della vita e di lotta contro l’ingiustizia della 194».
Ed è soprattutto la giornata in cui ventimila parrocchie italiane raccolgono firme a tutela degli embrioni. Così Francesco saluta i partecipanti alla marcia, senza accennare a questioni legislative, invitando a «mantenere viva l’attenzione di tutti sul tema così importante del rispetto per la vita umana sin dal momento del suo concepimento». E poi ricorda la raccolta di firme «al fine di sostenere l’iniziativa europea "Uno di noi", per garantire protezione giuridica all’embrione, tutelando ogni essere umano sin dal primo istante della sua esistenza».
Le parrocchie italiane si sono impegnate a fondo nella campagna per la «dignità, il diritto alla vita e l’integrità di ogni essere umano fin dal concepimento, nelle aree di competenza Ue» e quindi la tutela giuridica dell’embrione. «Bisogna arrivare a un milione di adesioni, e anche superarle: perché l’iniziativa di associazioni e movimenti per la vita dei 27 Paesi Ue abbia qualche chance di arrivare fino al varo di una legge europea», ha scritto Avvenire in un editoriale di Francesco Ognibene.
Quanto alla 194, di là dall’intransigenza dei movimenti pro-life, la Chiesa italiana non sembra voler riprendere una campagna contro la legge sull’aborto e riaprire vecchi fronti, ma in questi anni ha più volte chiesto una «revisione» o almeno una «applicazione migliore» di quelle parti della legge che riguardano la «prevenzione» e «promuovono la vita del nascituro».
Ieri il Papa ha ricordato che un «momento particolare» per «coloro che hanno a cuore la difesa della sacralità della vita umana» sarà «la Giornata dell’Evangelium Vitae», organizzata in Vaticano il 15 e 16 giugno. L’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del pontificio Consiglio per la Nuova evangelizzazione, ha spiegato che l’appuntamento in San Pietro «offrirà ai fedeli di tutto il mondo l’opportunità di riunirsi, insieme al Santo Padre, in una comune testimonianza del valore sacro della vita: la vita degli anziani, degli ammalati, degli agonizzanti, dei non ancora nati, di coloro che vivono afflitti fisicamente e mentalmente e di tutti coloro che si trovano nella sofferenza». Il tema della difesa della vita, del resto, è dottrina della Chiesa.
Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, nel libro con il rabbino Abraham Skorka «Sobre el cielo y la tierra», era stato netto: «Il problema morale dell’aborto è di natura prereligiosa, perché è nel momento del concepimento che risiede il codice genetico della persona. Ecco perché separo il tema dell’aborto da qualsiasi concezione religiosa. Perché è piuttosto un problema scientifico», rifletteva l’allora arcivescovo di Buenos Aires: «Impedire lo sviluppo di un essere che ha già in sé l’intero codice genetico di un individuo non è etico. Il diritto alla vita è il primo dei diritti umani. Abortire equivale a uccidere chi non ha modo di difendersi».
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
I pro life italiani, sedotti e abbandonati
di Massimo Faggioli (Huffington Post,13 maggio 2013)
La Marcia nazionale per la vita svoltasi a Roma domenica scorsa 12 maggio dice molto non solo circa alcune sostanziali differenze col movimento pro life americano, ma anche circa alcune traiettorie dell’Italia di inizio secolo XXI.
Il movimento pro life americano è molto più radicato di quello italiano (o di qualsiasi altro paese al mondo, se è per questo), a causa delle molte differenze tra le geometrie politiche, culturali e religiose dei due paesi. Il movimento pro life americano nacque negli anni settanta, all’incrocio di una serie di tendenze diverse.
La sentenza della Corte Suprema "Roe v. Wade" del gennaio 1973 diede una copertura costituzionale dell’aborto come "diritto legato alla privacy", facendo della legislazione abortista americana una legislazione molto più radicale di quella italiana (come è noto, vi sono ben più di due opzioni tra legalizzazione e penalizzazione: incentivi e disincentivi, supporto sociale, tutela della maternità sui luoghi di lavoro, etc.).
Erano gli anni settanta dei film di Clint Eastwood Dirty Harry e la cultura borghese americana reagì alla malaise descritta dal presidente Carter accusando il liberalismo morale decadente degli anni sessanta e dichiarando una "guerra culturale" che aveva l’aborto al centro del mirino.
L’ascesa del movimento pro life e del movimento cristiano evangelicale sono una cosa sola con la presidenza Reagan iniziata nel 1980: da allora in poi la cultura pro life americana si è concentrata sull’aborto, trascurando (tranne poche eccezioni, in particolare provenienti dai gruppi pro life cattolici) la difesa della vita dei condannati a morte, la libera circolazione delle armi in America, le vittime delle guerre americane, e in generale la tutela di un sistema sociale ed economico che renda più raro il ricorso all’aborto.
Oggi il movimento pro life americano è diventato meno confessionale: nato come fenomeno protestante, oggi cattolici, ortodossi, ebrei e musulmani sono entrati a far parte di esso in forme diverse, e il suo carattere "ecumenico" è testimoniato dalla "Manhattan Declaration" del 2009.
Ma nel corso degli ultimi anni il movimento pro life americano si è reso conto di essere stato usato dal Partito repubblicano e ora i rapporti col Grand Old Party sono più freddi. Tuttavia il conservativismo americano è ancora la sola vera casa politica per gli anti-abortisti americani, specialmente dopo la svolta laicista presa dal presidente Obama con la campagna elettorale del 2012, vinta in un’America sempre più laica.
Se il movimento pro life americano si è scoperto recentemente orfano dei Repubblicani, quello italiano è sempre stato politicamente orfano: ma ora lo è molto di più.
Pci e Dc furono ben attenti, negli anni settanta dei referendum sul divorzio e sull’aborto, a non fare guerre di religione su queste questioni: non solo perché erano "gli anni di piombo" del terrorismo di destra e di sinistra, ma anche perché nell’insieme i due grandi "partiti-chiesa" italiani accettarono un compromesso basato su una legislazione sull’aborto meno radicale di quella americana.
Pci e Dc erano consapevoli dei punti di contatto tra la visione della società del cattolicesimo sociale e della socialdemocrazia europea, ed entrambi erano diffidenti - per motivi antropologici e culturali prima che politici - del radicalismo libertario dei Radicali di Pannella.
Scomparsi i due "partiti-chiesa", il Pci e la Dc, in questi ultimi vent’anni i pro life militanti italiani si sono fidati di un avvocato inverosimile della causa, Berlusconi, che li usò come fecero Reagan e Bush in America, anche per una evidente mancanza di offerte politiche alternative (se non il "grande centro" di Casini).
Vista la grave crisi in cui versano anche gli eredi del Pci e della Dc (vale a dire, il Pd e il berlusconismo), oggi i pro life italiani si ritrovano a dover presentare il loro caso per un’etica della difesa della vita di fronte alle forze nuove (per così dire) della politica italiana: il populismo grillino e la tecnocrazia trasversale a vari partiti (grillini compresi). Sia il populismo di Grillo, sia la tecnocrazia sono avvocati di un "brave new world" (per citare il celebre libro di Aldous Huxley) che vede il futuro dominato dai diritti del consumatore, dalla tecnologia della rete, dai pareggi di bilancio, etc., ovvero prefigurano e si augurano un mondo assai inospitale per coloro che sono per definizione dei "costi" economicamente improduttivi: i figli, i disabili gravi, gli anziani, i malati terminali.
In questo senso, le forze politiche italiane che hanno accettato il "there is no alternative" della tecnocrazia hanno capitolato anche di fronte al "brave new world", ad una certa visione spietata di società e di vita umana. E questo è un problema non solo degli anti-abortisti o dei cattolici italiani.
La favola delle cellule etiche
Le staminali e l’arte di negare i fatti
di Sergio Bartolommei (l’Unità, 15.09.2010)
Università di Pisa, membro della Consulta di Bioetica *
Il premio Balzan di quest’anno va a Yamanaka, lo scienziato giapponese che ha inaugurato una nuova tecnica per la riprogrammazione delle cellule adulte che vengono ricondotte a uno stadio simile a quello delle staminali embrionali. Secondo alcuni osservatori cattolici questa e solo questa sarebbe “vera” scienza e le cellule così ottenute le uniche e autentiche “cellule etiche”. Il cerchio verrebbe chiuso: gli embrioni, nuove incarnazioni del Sacro, sarebbero salvi, e la ricerca pure.
Sembravano lontani i tempi in cui, in Unione Sovietica, si discriminava con Lysenko tra vera e falsa scienza mettendo al bando la genetica e le sue teorie e suddividendo in buoni e cattivi gli scienziati in base alla tecnica da questi utilizzata per raggiungere certi risultati. Nonostante i disastri allora prodotti dalle pretese del controllo ideologico della scienza, la lezione non sembra essere servita a certi cattolici nostrani. Essi plaudono alla necessità di dettare norme morali per la ricerca sulle cellule staminali riducendo il numero delle opzioni disponibili solo a quella (le staminali “adulte”) che all’etica cattolica non certo alla comunità scientifica internazionale, peraltro raffigurata come esposta alle sirene del nihilismo etico appare la sola “promettente”.
Si dice: la vita dei vegetali su cui pontificavano i “materialisti dialettici” non aveva certo l’importanza che ha la vita degli embrioni umani. Il seme di una pannocchia non è “uno di noi”, un embrione sì. In verità, che l’embrione sia persona, una realtà spirituale, è solo il prodotto di una convinzione morale o di una credenza ideologica. Nessuna analisi di laboratorio potrà mai certificare il carattere di “persona” neppure di “persona in miniatura” di una blastocisti di quattro giorni e poche cellule.
Chi fa uso della parola “embrione” per evocare una realtà “più che” biologica sta usando questo termine, non nel significato scientifico di “prima tappa dello sviluppo umano”, ma nel significato retorico che suscita pietà e commozione in chi legge o ascolta. Non c’è poi da meravigliarsi, dato l’uso disinvolto del linguaggio, che nel definire “etiche” le cellule ottenute dalla riprogrammazione delle adulte si trascuri di dire che lo stesso Yamanaka ha dovuto modificare geneticamente le adulte (“contaminando” così la purezza dell’ “Umano”), mettere a confronto queste con quelle embrionali e utilizzare le conoscenze di base conseguite con queste ultime per portare avanti la ricerca sulle prime. Che di ciò si taccia è una prova ulteriore del fatto che in Italia ideologia e teologia fanno aggio sulla scienza, imponendo autoritariamente proprio come Lysenko cosa cercare e come.
* L’autore è membro della Consulta di Bioetica
Esce da Elliot «Chi ha cucinato l’ultima cena?». Le vicende dell’umanità dall’altro punto di vista
Quando le donne persero il potere
Dalla «signora delle caverne» al neomachismo: storia femminile del mondo
di Isabella Bossi Fedrigotti (Corriere della Sera, 03.03.2009)
Non fosse che per il titolo, il libro meriterebbe attenzione. Chi ha cucinato l’ultima cena? è, in effetti, una domanda che nessuno probabilmente si era mai posto prima della saggista inglese Rosalind Miles, fondatrice del Centro per gli studi sulla donna dell’Università di Coventry. Ovvio che risposta non l’ha trovata, ma il paradossale quesito è servito comunque a intitolare la sua ampia e sistematica ricerca sulla storia del mondo al femminile, dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri.
Il primo nucleo del libro risale in verità a circa vent’anni fa, mentre la sua versione definitiva, riscritta e corredata del nuovo, brillante titolo è del 2000. Uscito da tempo in tutto il mondo, Cina compresa, Chi ha cucinato l’ultima cena? arriva tuttavia soltanto venerdì in Italia (tradotto da Luisa Pece per Elliot) e chissà se il ritardo è dovuto al feroce sarcasmo che l’autrice dedica al pervicace machismo mediterraneo o, invece, alla denuncia appena un po’ più soave del mai davvero tramontato antifemminismo cui è improntata la tradizione religiosa cristiana. Oppure dipenderà dal fatto che Rosalind Miles non nasce come storica ma lo è diventata sulle tracce di un suo particolare interesse in nome del quale ha consultato un numero sterminato di fonti, testimoniate dalla vastissima bibliografia del libro?
Nonostante le frequenti citazioni virgolettate, il lettore e, naturalmente, ancora più la lettrice segue il racconto con interesse e divertimento grazie allo stile poco accademico e allo humour della migliore tradizione inglese che tende a sdrammatizzare anche i contesti più tremendi nei quali si sono trovate le donne nel corso dei secoli, principalmente per opera dei loro peggiori nemici, gli uomini: maggior danno, infatti, a quanto pare, non hanno avuto da cataclismi, inondazioni, incendi o epidemie e tanto meno da animali feroci. Divertimento, dunque, sì, però in qualche caso è inevitabile il raccapriccio di fronte a certe offensive pesanti e sistematiche, oltre che codificate dalle leggi civili e religiose, subite nel tempo dalle donne: offensive in parte già note, però per lo più velocemente e volentieri dimenticate.
L’autrice sostiene che per un lungo periodo, fino all’incirca all’età del ferro, le donne erano rispettate, onorate, riverite e servite, niente affatto - come da sempre illustrano i libri di scuola - chiuse nelle caverne ad attizzare il fuoco o intente alle incombenze più umili nell’attesa che il prode tornasse dalla caccia, e ancora meno erano sottomesse ai voleri di lui.
Le signore passavano prima, insomma, come ancora succede in qualche rara tribù primitiva nascosta nelle foreste, ma non solo riesce difficile immaginarlo, anche a scriverlo si fa quasi fatica perché così radicata è l’immagine dell’antica donna asservita in secondo piano che in un certo senso mancano i termini per descrivere la primigenia situazione capovolta.
La signora delle caverne non se ne stava, dunque, affatto rintanata, bensì si occupava della raccolta di frutti e della coltivazione di orti, assicurando in tal modo la sopravvivenza della comunità giorno per giorno. Radunava frasche, costruiva rifugi e difese contro gli animali, istruiva i figli e partecipava alle famose cacce, come testimoniano non pochi graffiti paleolitici. Ovvio, dunque, che venisse tenuta in grande conto. La vera ragione della sua supremazia stava, tuttavia, soprattutto, nel misterioso potere di procreare dal nulla piccoli uomini e piccole donne, nel misterioso e magico scorrere puntuale del suo sangue che, pur essendo impossibile da fermare, non la uccideva come sarebbe stato normale per una simile ripetuta emorragia. La logica conseguenza fu che si venerò la Grande Madre, potente dispensatrice di vita, dio femmina innalzata sugli altari come poi non è - quasi - mai più successo, tranne che per figure divine collaterali, come, per esempio, la nostra Madonna.
La grande svolta che portò in alto gli uomini e in basso - per sempre - le donne storicamente arrivò quando le comunità si fecero più numerose per cui gli orti non bastarono più a nutrire tutti quanti e fu necessario coltivare campi più estesi, con impiego di attrezzi pesanti; campi che bisognò poi anche difendere dagli aggressori esterni: entrambe incombenze ovviamente adatte in particolare ai più muscolosi e prestanti maschi. Filosoficamente il tramonto della supremazia femminile arrivò, invece, secondo la Miles, nel momento in cui gli uomini compresero - non i singoli ma le intere popolazioni - il legame esistente tra atto sessuale e gravidanza, d’un colpo assai meno misteriosa e, soprattutto, impossibile senza il contributo maschile.
Il dio da adorare divenne allora maschio con il suo fallo innalzato alto sugli altari, e, di passo in passo, come se tutti gli uomini insieme fossero stati un solo uomo troppo a lungo umiliato lontano dal potere e smanioso di rivalsa, la donna fu ridotta a figurante di secondo piano, a schiava sottomessa e senza alcun potere, a puro contenitore biologico alla quale neppure i figli appartenevano.
Questa nuova situazione fu, nel corso dei secoli, ampiamente formalizzata anche da firme illustrissime, quali, per esempio, Eschilo che nelle Eumenidi scrisse: «Colei che viene chiamata madre non è genitrice del figlio, bensì la nutrice dell’embrione appena seminato. È il fecondatore che genera». Oppure Aristotele, secondo il quale «la donna è passiva. Sta a casa come è nella sua natura. È l’incubatrice passiva del seme maschile ». E teorie più o meno identiche sul minor valore delle donne (in qualche caso anche rispetto agli animali domestici) riecheggiarono serenamente concordi dall’una all’altra parte del mondo.
Poi vennero le grandi religioni monoteiste, e, come scrive l’autrice, furono i chiodi della bara delle libertà femminili. Il dio divenne padre e per quello cristiano parlò Sant’Agostino: «La donna non è fatta a immagine di Dio... l’uomo soltanto è l’immagine di Dio». Quello musulmano - si sa - fu ancora più duro e Maometto nel Corano spiegò: «Gli uomini hanno autorità sulle donne perché Dio ha preferito alcune creature ad altre. Perciò le donne buone sono obbedienti. Se poi temete che alcune si ribellino, ammonitele, lasciatele sole nei loro letti e poi frustatele». Il resto, si può dire è la variegata storia di oggi.
E cosi’ Apollo rubo’ i figli alle madri
di DACIA MARAINI (Corriere della sera, 26 febbraio 2008)
"Non e’ la madre che crea / il figlio, come si pensa. / Ella e’ solo nutrice e niente altro, della creatura paterna / ...Soltanto chi getta il seme nella terra fertile e’ da considerarsi genitore. / La madre coltiva, ospite all’ospite, il germoglio, / quando non l’abbia disperso un demone". Questa frase messa in bocca ad Apollo da Eschilo, e pronunciata in un sacro spazio teatrale nel 458 a.C. segna un punto di svolta che ha marcato la storia della maternita’ in Occidente.
Presso i Pelasgi del II millennio, popolo antenato dei greci, chi creava il mondo era la dea Eurinome, nel cui uovo erano compresi tutti i mari, le montagne, i fiumi, le foreste del mondo. Solo lei poteva fare maturare quell’uovo, romperne il guscio e spargere i beni di cui avrebbero vissuto gli esseri umani.
Apollo, il nuovo dio della democrazia ateniese, invece sancisce un principio che avra’ conseguenze disastrose per le donne dei millenni a venire: non e’ la madre che crea il figlio. Il suo ventre e’ da considerarsi solo un vaso che custodisce il seme paterno. Ecco come nasce una societa’ dei Padri. Persino la religione cristiana, che e’ stata rivoluzionaria nel riconoscere un’anima anche alle donne, si e’ tenuta, per quanto riguarda la gerarchia, ai principi apollinei: nella Santa Trinita’ non appare la figura materna. E quando Dio decide di diventare padre, forma prima l’uomo a sua immagine e somiglianza, poi prende una costole di Adamo e da quella fa nascere la donna. Insomma capovolge la realta’ per sancire una gerarchia inamovibile.
Tutta la nostra cultura viene da questi grandi e originari avvenimenti simbolici. Poi, il laicismo, le rivoluzioni, l’illuminismo, i movimenti di emancipazione hanno cercato di rompere il dogma, riconoscendo alle donne la partecipazione al processo di riproduzione. Ma sempre sotto il controllo dei Padri e dentro le leggi stabilite da loro. Il diritto alla riproduzione non si e’ mai trasformato in liberta’ di riproduzione.
E la rete millenaria dei divieti e’ profonda e radicata anche quando non viene scritta. Da li’ derivano il culto della verginita’, la proibizione degli anticoncezionali, l’aborto clandestino, l’ignoranza indotta e tante altre disperanti piaghe della storia femminile. Se c’e’ una cosa su cui le donne hanno competenza e’ la maternita’: un processo che avviene nel loro corpo, di cui conoscono le pene e le gioie profonde, i tempi e le trasformazioni, il peso e le responsabilita’. Ma di questa competenza sono state espropriate e ogni movimento di riappropriazione viene visto come un attentato alla morale. Il processo procreativo si e’ complicato da ultimo per le scoperte della scienza: anticoncezionali meccanici e chimici, aborti chirurgici e chimici, possibilita’ di spiare e fotografare l’embrione nella sua formazione, mezzi per fare crescere un feto anche in assenza del corpo materno.
Ma tutto questo, anziche’ dare potere alle donne, le deruba ancora una volta dei loro saperi profondi, per stabilire sui loro corpi cosa fare e non fare, secondo principi assoluti stabiliti a tavolino da chi questi saperi non li conosce affatto e non vuole neanche fare lo sforzo di immaginarli.
Si può scegliere il colore degli occhi !!
Barcellona, 6.600 euro per un embrione.
Nella clinica per la fecondazione eterologa. Un colloquio, poi l’impianto. I farmaci per la donatrice si portano dall’Italia
BARCELLONA - L’embrione si ordina su Internet. In cinque minuti. Il tempo di cliccare tre volte sul sito della clinica Eugin, uno degli istituti di Barcellona più frequentati dagli italiani dopo l’approvazione della legge 40 sulla procreazione assistita. «Sono una donna che desidera un figlio ma non ho un compagno». «Soffro di insufficienza ovarica». La diagnosi è in tempo reale. «In base al profilo appena selezionato la clinica Eugin le consiglia: fecondazione in vitro con ovuli della donatrice e seme della banca». La tappa successiva è la compilazione di un modulo con i dati personali. Il preventivo arriva dopo un secondo nella posta elettronica: 5.100 euro se l’aspirante mamma si impegna a portare dall’Italia i farmaci per la donatrice, magari facendoseli prescrivere dal Servizio sanitario nazionale, altrimenti il costo sale a 6.600 euro, più altri 1.500 per il congelamento degli embrioni in eccesso e il possibile secondo tentativo. All’email sono allegati anche i due moduli per selezionare il donatore e la donatrice: taglia, peso, colore della pelle e degli occhi.
La mattina dopo il telefono squilla e una gentilissima voce italiana ti chiede quando vuoi fissare l’appuntamento. Se hai le analisi pronte (emocromo, ecografia pelvica, pap test e prove epatiche) l’attesa è minima. La visita è fissata dopo una settimana alle 16. Costo 300 euro che verranno poi scalati dal preventivo. «Mi raccomando - spiega la segretaria - porti una foto».
La clinica Eugin è nella zona commerciale di Barcellona, al confine con il quartiere Sarrià-Sant Gervasi, dove hanno sede tutti gli altri centri per la fecondazione artificiale. L’arredamento è ipermoderno ma essenziale.
PRIVACY APPROSSIMATIVA - Quando passi la porta sembra di entrare in un acquario. Tutto è in vetro: le pareti, le porte, persino il bancone delle segretarie. La saletta d’attesa è popolata da un’altra donna sola e da una coppia. Sguardi nel vuoto o impegnati nella lettura di un giornale. L’imbarazzo è forte. Il silenzio viene interrotto dall’arrivo di una hostess: «I signori Brambilla? Siete qui per la Fivet con ovodonazione? Mi date le analisi?». Alla faccia della privacy. Gli italiani se ne vanno, un po’ mesti. Rimane la signora francese. Sicuramente non giovane. Chissà se anche lei è qui per comprare un embrione. Arriva un’altra hostess. Questa volta francese. E la donna sparisce. La chiamano prima visita ma è un misero colloquio. La dottoressa è una ragazza bruna dagli occhi strabuzzati che ti stringe la mano senza nemmeno dire il suo nome. È spagnola ma è scortata da un’interprete italiana. Fa la solita anamnesi: peso, altezza, precedenti tentativi di fecondazione artificiale. Scorre con distrazione gli esami (alcuni sono falsi). Scuote la testa, aggrotta leggermente le sopracciglia. Poi si pronuncia: «L’insufficienza ovarica non mi sembra dimostrata, se vuole può fare un tentativo con i suoi ovuli (altri 4mila euro ndr). Però l’avviso che dopo i 40 anni le chance di riuscita sono un po’ sopra al 10 per cento. Mentre con l’ovodonazione la sua età non ha più importanza e le percentuali di successo salgono al 50%, quasi al 90% dopo quattro tentativi. Pensi - si esalta - che non dovrà nemmeno fare l’amniocentesi perché la donatrice avrà solo 25 anni». Ma poi non ci saranno problemi psicologici? E il patrimonio genetico? «Un figlio è di chi lo partorisce - spiega convinta - quando le crescerà dentro la pancia si dimenticherà di come è nato».
PROBLEMI PSICOLOGICI - Già, i geni non contano. Vallo a raccontare a Katrina Clark, nata in America da madre single, che a 17 anni si è messa a cercare il padre biologico per mare e per terra finché non ha ricevuto per email la sua fotografia: «Quando l’ho vista mi è preso un colpo - ha raccontato -, sul computer c’era la mia stessa faccia che mi guardava. E così in un secondo avevo trovato il pezzo mancante del puzzle. Il puzzle di chi sono io». O alla signora straniera che ha tempestato di telefonate il dottor Ramina, andrologo in un altro centro della città, il Cefer: «La donna aveva avuto un figlio con la spermodonazione - spiega Ramina - e qualche anno dopo il marito era morto, così voleva far conoscere il papà biologico al bambino. Ovviamente le ho detto di no». Di casi così è piena la cronaca. Tanto che in Gran Bretagna hanno tolto l’anonimato per i donatori di sperma. Risultato: c’è carenza di seme e gli inglesi volano in Spagna. «Allora cosa ne dice? - chiede la dottoressa impaziente -. Ora le faccio vedere una presentazione con le due tecniche, così avrà le idee più chiare».
IL MENU - Segue una rigorosa enunciazione di tutto quello che accadrà da un punto di vista medico con tanto di foto dell’ovulo fecondato e dell’embrione ai suoi albori. «Ha ancora dubbi? Se sceglie la stimolazione si dovrà far controllare in Italia e venire qui al momento del pick up dei suoi ovuli, altrimenti seguirà la terapia che le invieremo per preparare l’endometrio a ricevere l’embrione, la chiameremo due giorni prima quando la donatrice sarà pronta». Ma chi eseguirà i controlli in Italia? «Ci sono alcuni centri italiani che sono in contatto con noi, ma sarà lei poi a doverci mandare gli esami via fax. Ecco una lista di quelli di Milano». Gli istituti sono quattro, su alcuni c’è scritto anche il nome di un medico di riferimento ma la legge italiana dice che «chiunque realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni è punito con la reclusione da tre mesi a due anni». Per questo molti dottori aiutano le loro pazienti di soppiatto. Alcuni si spingono fino a prescrivere i farmaci da portare all’estero, anche quelli per le donatrici ma il rischio è alto. «Lei ci provi, comunque» consigliano in clinica. E le donatrici? «Su questo non deve preoccuparsi - dice la dottoressa con un sorriso -, sono tutte ragazze sane che sottoponiamo ad analisi e visita completa. La donazione è un atto altruistico, diamo solo 900 euro come rimborso spese. Ovviamente ci prenderemo cura di selezionare una persona con le sue caratteristiche fisiche. Lei non ha propriamente un aspetto spagnolo ma noi abbiamo giovani di tutte le nazionalità. Sono loro a trovarci su Internet. Dal momento in cui lei deciderà, l’attesa sarà di tre mesi. Per il donatore, invece, non c’è problema. Ci dica che aspetto vuole che abbia». Tre mesi per trovare una ragazza sono tanti. In altri centri si parla di 4 settimane. Ma c’è chi ha dovuto aspettare anche un anno. Con la crescita della domanda, infatti, gli istituti hanno difficoltà a trovare giovani pronte a donare gli ovuli. Si dice che molte vengano reclutate nei Paesi dell’Est. Oppure che si usi una donatrice per due riceventi, diminuendo così le possibilità di riuscita dell’intervento perché la qualità degli ovuli scade.
ESCLUSIVA - «No, non è così - interviene la dottoressa -, la donatrice sarà solo per lei, certo se poi produrrà veramente tanti tanti ovuli allora la divideremo con un’altra. Perché sarebbe uno spreco capisce? Saremmo costretti a congelare troppi embrioni e il tasso di successo diminuirebbe, si tratta di embrioni che hanno subito un bello stress». La visita è finita. La dottoressa stringe la mano alla paziente e la congeda: «Allora noi abbiamo le sue analisi e i suoi dati, quando ha deciso ci chiama o ci scrive un’email e noi le mandiamo la terapia. Non c’è bisogno che torni prima, ci rivediamo direttamente per l’impianto. In bocca al lupo». Uscendo la paziente ha un brivido. Non le hanno chiesto la fotografia. Ma allora la donatrice come la sceglieranno?
Monica Ricci Sargentini, 07 aprile 2007 , da Corriere.it
L’embrione e i piccoli inquisitori
di Carlo Flamigni *
Gli studenti milanesi di Comunione e Liberazione non possono essere troppo biasimati per non essere stati capaci di gestire l’improvvisa popolarità che li ha colpiti e per non saper distinguere tra dialettica e maleducazione. Il cartellone esposto davanti alla Cattolica (la cui fotografia è stata pubblicata da l’Unità del 6 marzo) intitolato «Auschwitz o Università Statale?» ne è solo un esempio. In realtà, chi esce con le ossa rotte da questo increscioso episodio è l’Università che ancora una volta si dimostra incapace di educare; e chi ne esce ancor peggio è colui che a quei ragazzi ha fatto da padre spirituale e che ha saputo solo trasformarli in piccoli censori morali. Almeno, nei tempi passati, il mestiere di Inquisitore era cosa da adulti, non lo si affidava alle mani innocenti dei ragazzini. Provo comunque a ignorare, come mera espressione di buona volontà, l’irrefrenabile voglia di goliardia dei bravi ragazzi milanesi, non tengo conto dei loro eccessi e rispondo a quella che, almeno all’inizio, sembrava una proposta di dialogo. Chiedendo però di accettare almeno una regola: che il dialogo sia laico e che ognuno di noi inizi sempre le sue riflessioni dicendo «secondo me»: al primo non possumus, alla prima presentazione di valori sui quali non è possibile negoziare, chiudo il computer e torno alle mie faccende, ho molte cose arretrate.
Prima questione: quando si vuole essere ascoltati dalla istituzioni - in questo caso dal Comitato Nazionale per la Bioetica - non si scrivono bugie. Nella lettera al Cnb gli studenti Cl hanno scritto che il professor Emilio Dolcini, nel convegno organizzato dalla professoressa Cattaneo, «ha illustrato come in Italia sia consentito lavorare su cellule staminali embrionali importate dall’estero per un buco legislativo della legge 40/2004». In realtà il professor Dolcini ha detto che nella legislazione penale italiana non esiste alcun divieto di ricerca sulla cellule staminali embrionali; poi, rispondendo a chi aveva prospettato l’esistenza di un divieto implicito ha ricordato che nel diritto penale vige il principio della legalità dei reati e delle pene con la conseguenza che eventuali lacune nella legge possono essere colmate solo dal legislatore, non dall’interprete.
Questa storia del divieto implicito merita un ulteriore commento. Una parlamentare cattolica si era espressa molto duramente contro quei ricercatori che avessero osato ignorare lo spirito della legge e aveva dichiarato come fosse fin troppo evidente che ricerca sulla cellule staminali di origine embrionale non se ne poteva fare, in Italia, neppure importando le colture dall’estero. Sconfessata, invece di chiedere scusa, come avrebbe dovuto, aveva minacciato di presentare una legge che colmasse questa terribile lacuna. Ho cercato a lungo di capire le ragioni di questo accanimento e sono stato finalmente illuminato durante una discussione con un noto bioeticista cattolico che mi ha spiegato che ogni cellula staminale embrionale è in realtà un embrione (e quindi una persona potenziale) e che perciò la non liceità di questi esperimenti è sin troppo evidente. Sono certo che gli studenti milanesi sono (anche) biologi raffinati e non cadono in queste trappole, ma per chi non avesse le idee chiare espongo i motivi per i quali si deve ritenere errata la convinzione del bioeticista cattolico (e di molte altre persone, illustri parlamentari compresi): le cellule embrionali sono totipotenti fino alla formazione della blastocisti, quando si separa il trofoblasto dalla massa cellulare interna. A questo punto, parte di questa totipotenza viene perduta e le cellule della massa cellulare interna, quelle che vengono prelevate per gli studi sulle cellule staminali, non sono più in grado di fare placenta e annessi fetali: queste cellule, dunque, anche con la migliore buona volontà, non sono “uno di noi”.
Passo ora a esaminare la dichiarazione più forte contenuta nella lettera alla professoressa Cattaneo: «Non abbiamo bisogno di attendere ulteriori progressi della ricerca scientifica per stabilire che se un embrione non viene soppresso si mostrerà come quell’individuo umano che è fin dall’inizio». Accidenti, siamo proprio in piena “dittatura dell’embrione”: ai ragazzi è apparso in sogno monsignor Sgreccia e ogni mistero è stato loro svelato! Vediamo invece come stanno le cose, almeno secondo me.
Secondo me sull’inizio della vita individuale nessuno può avere certezze, a meno che non si tratti di certezze di fede, che hanno certamente un grande peso, ma solo un peso personale. Il Magistero Cattolico ha sostenuto per molto tempo (anche con le parole e gli scritti dell’attuale Pontefice) che l’inizio della vita personale era post-zigotico, e lo zigote è la cellula che si forma dopo l’anfimissi<, cioè dopo la scomparsa dei due pronuclei nell’ootide (chi non crede a questa definizione deve sapere che l’ha scritta Bompiani, bioeticista cattolico di fede provata): oggi l’inizio della vita personale è stato anticipato all’attivazione dell’oocita, cioè di 24 ore, e speriamo che ci si fermi lì, o gli scenari diventeranno veramente misteriosi. Ma quello che gli studenti milanesi debbono sapere, per molcire un po’ le loro fastidiose certezze, è che bioeticisti e filosofi cattolici di queste teorie ne hanno partorite molte altre e che tutte queste ipotesi sono ancora lì sul tappeto, nessuno le ha condannate, nessuno le ha ritirate. Per la bibliografia rimando al mio sito: www.carloflamigni.it. Elenco dunque soltanto le ipotesi più rilevanti, tutte, ripeto, elaborate all’interno della cultura cattolica, tutte vive e vitali: 1) l’ipotesi post- zigotica; quella blastocistica, che attende la scomparsa della totipotenza; 2) quella dell’attivazione del genoma embrionale; 3) quella della scomparsa della capacità di formare gemelli omozigoti; 4) quella dell’inizio dell’impianto; 5) quella della comparsa della linea embrionaria primitiva; 6) quella della comparsa delle prime cellule nervose; 7) la teoria ilomorfica. L’elenco dei filosofi cattolici che le sostengono è lungo, anche per questo rinvio al mio sito.
Quanto ho detto vale per il mondo cattolico, non è neppur necessario ricordare che altre religioni propongono ipotesi ancora diverse. Che facciamo, neghiamo loro serietà e coerenza? Ammettiamo che la verità stia tutta dalla parte degli studenti cattolici e che gli altri, che so, siano tutti fratelli che sbagliano ( o fanatici pericolosi)?
Credo che questi ragazzi abbiano perso una buona occasione, che per fortuna certamente si ripresenterà in avvenire: se fossero intervenuti nel dibattito avrebbero potuto aprire un dialogo con Demetrio Neri, che non è solo un grande filosofo, è anche un grande maestro e sa dialogare e convincere. Avendo scelto un gesto goliardico, si sono invece esposti a un grande rischio: diventare un simbolo politicamente molto utile per tutti i cattivi maestri, i mestatori di fango. Cattiva scelta, brutto destino.
Ultima cosa: è necessario un po’ più di rispetto per la scienza e per i ricercatori. Di scienza ci sarà ancora modo di parlare in avvenire; per quanto riguarda i ricercatori, leggo ogni tanto allusioni e riferimenti misteriosi a non so quali interessi che indurrebbero alcuni scienziati a privilegiare la ricerca sulle staminali embrionali: non è solo una menzogna, è maldicenza della più bell’acqua. Se ci pensate, se considerate i finanziamenti dello Stato e i privilegi che vengono offerti in cambio del piatto di lenticchie della propria coscienza, dovete ammettere che, semmai, è vero il contrario.
* l’Unità, Pubblicato il: 11.03.07, Modificato il: 11.03.07 alle ore 14.46
In Inghilterra gli embrioni-chimera si faranno. Lo annuncia trionfalmente il Times, il giornale che con più convinzione ha condotto la campagna per la creazione degli ibridi uomo/animale, ospitando il mese scorso l’appello di 45 scienziati, bioeticisti e politici - tra cui tre premi Nobel - che con toni accorati chiedevano di «non fermare la ricerca». Quella del Times è ancora soltanto un’indiscrezione, lanciata nel dibattito pubblico per premere ulteriormente sul ministro della Sanità, Caroline Flint, ma l’orientamento del governo inglese sembra chiaro. La Gran Bretagna deve mantenere a qualunque prezzo il suo ruolo di leader della ricerca selvaggia, definita eufemisticamente «libera». Il rischio è grave: se entro qualche anno la sperimentazione sulle cellule staminali embrionali non avrà dato ancora nessun risultato, l’enorme rete di progetti di ricerca messa in piedi a livello internazionale si disgregherà, le aspettative dell’opinione pubblica si sgonfieranno, i flussi di denaro si indirizzeranno altrove, e il fallimento scientifico trascinerà con sé strutture e carriere.
L’obiettivo mitico e sfuggente, il Santo Graal che tutti inseguono, è la clonazione terapeutica, che sulla stampa viene in genere dipinta come una prospettiva concreta, che permetterà di curare molte malattie degenerative. In realtà la tecnica del trasferimento nucleare, che si adotta sia per la clonazione terapeutica che per la creazione degli embrioni-chimera, non ha mai funzionato nell’uomo. Ogni volta che qualcuno ha annunciato di esserci riuscito ha dovuto poi ritrattare, oppure, come nel caso del coreano Woo-Suk Hwang, è stato ingloriosamente smascherato. È per questo che si vuole abbattere la frontiera naturale tra umano e non umano: per incrementare le probabilità di successo della tecnica bisogna moltiplicare i tentativi, quindi diventa vitale disporre di un gran numero di ovuli, di mucca o di donna poco importa.
Nella gara tra i diversi gruppi di ricerca l’opinione pubblica gioca un ruolo cruciale; blandirla, orientarla, rassicurarla, è decisivo per ottenere i fondi. L’immensa pubblicità data alle speranze di cura associate alle cellule staminali embrionali è stata finora l’elemento vincente, ma le ultime novità, dalla compravendita degli ovociti umani fino agli embrioni Frankestein, aprono squarci inquietanti sul nostro futuro. L’umano viene ridotto a un calcolo percentuale, un tasso variabile: è solo una qualità che può essere presente in misura diversa nelle creature indefinibili che usciranno dai laboratori. Benché gli esperti si affannino a ripeterci che gli ibridi serviranno solo a scopi di ricerca, e dunque saranno rapidamente distrutti per ricavarne linee cellulari, il dubbio è lecito: se davvero si riuscirà a produrre gli embrioni-chimera, non ci sarà qualche scienziato che vorrà impiantarli nell’utero di una donna o magari di una mucca? Non sarà inevitabile scavalcare il limite successivo, e andare avanti nella manipolazione della vita umana? La risposta è unanime: naturalmente non sarà così, e la logica del piano inclinato, secondo cui una volta preso l’abbrivio si scivola insensibilmente verso il basso, è solo lo spauracchio con cui si vuole bloccare il progresso della scienza.
Eppure l’ultimo numero di Nature, notissima rivista scientifica, si apre con un articolo che spiega chiaramente come quello che viene ritenuto un invalicabile limite etico, dopo un certo tempo è percepito come un ostacolo obsoleto. A dieci anni dalla nascita della pecora Dolly, la clonazione umana, universalmente condannata, comincia a diventare non solo un obiettivo possibile, ma secondo la rivista, addirittura inevitabile. La ricerca, insomma, non si può fermare, o almeno, non si può fermare da sola: se non ci sarà un movimento di opinione, se non saranno i governi democratici a riportare in equilibrio il piano inclinato, gli embrioni-chimera tra dieci anni saranno pura normalità.
Eugenia Roccella (giornalista e leader storico del movimento femminista), il Giornale 28.02.2007