La COSTITUZIONE, le differenze, e l’identità-sovranità di ogni cittadino e di ogni cittadina d’Italia
Caro Biasi
hai preso un altro grosso abbaglio (come al solito chiudi gli occhi ... e non vedi altro che te stesso!). Nell’art. DONNE: IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA non si parla delle donne della tua immaginazione, ma delle donne che sono USCITE e delle giovani donne che lottano per uscire DAL SILENZIO, in cui la nostra cultura e la nostra società di ’mammasantissima’ e ’figlio-padrino-boss’ eterno e santissimo le ha per millenni confinate!!! SONO DONNE CHE HANNO LE "PALLE"* - in tutti i sensi - e sanno parlare da CITTADINE-SOVRANE a cittadini-sovrani ... e hanno molto (sia da apprendere e sia) da insegnare!!!
COSTITUZIONE ITALIANA,art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica, rimuovere gli ostacoli [...]. Leggi e rileggi con attenzione l’articolo delle donne che hanno il coraggio di prendere la parola: non aver paura, imparerai qualcosa di più su di te ... e sull’EROS e sulla CHARITAS, così da poter dare qualche consiglio al tuo benedetto prof. Ratzinger e aiutarlo ad aprire gli occhi sulla camera-reale dei nostri cittadini-re e delle nostre cittadine-regine, di ogni ’Giuseppe’ e di ogni ’Maria’ della Repubblica italiana!!! Se non lo sai ancora, la nostra COSTITUZIONE è nata da una Assemblea Costituente dove le nostre ’Madri’ e i nostri ’Padri’ hanno preso autonomamente e liberamente la parola ... e hanno deciso di dare inizio a una VITA NUOVA!!! Hai capito? E allora ... ABBI IL CORAGGIO di ascoltare: e, poi, abbi il coraggio di prendere la parola. Anche tu sei un figlio della Costituzione dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’, un cittadino italiano. Non dimenticartelo!(19.06.2006)
Con la stima di sempre, m. cordiali saluti.
Federico La Sala
* “De Testicoli delle donne”
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La Costituzione e la Repubblica che è in noi
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni
Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli
delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose
ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino
al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione
dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi
i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa
verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti,
quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna
detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle
società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che
l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente
formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e
sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne).
Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento
della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo
il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza
autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna
che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può
portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa
cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza)
ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il
controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le
coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero
quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la
distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola
che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un
profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto
che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza
dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso
la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
PIANETA TERRA. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Il tabù delle mestruazioni: quello che le donne ora dicono
Un evento naturale che è da sempre circondato da imbarazzi e superstizioni. Ma dall’Europa al Nepal le cose stanno cambiando. Abbiamo cercato di capire quanto
di Silvia Bencivelli *
Questo articolo parla di mestruazioni. Non di “cose”, fiori, zie, marchesi, baroni rossi, visite da Roma, cardinali, nature, giacomine e caterine varie. Tantomeno di impurità, immondizie, affari schifosi, mostruosi e oscuri. Parla semplicemente di mestruazioni: quell’evento poco meno che mensile che tra il menarca (la prima volta) e la menopausa (l’ultima) segna senza particolari patemi la vita delle donne in età fertile.
Oggi, tolti di mezzo i pudori, sappiamo che la segna senza macchiarla, per circa 2.400 giorni nel corso di una vita. E sappiamo anche perché avvenga, cioè perché quattro o cinque giorni ogni ventotto le donne in età fertile perdano sangue dalla vagina. Lo si trova persino nei libri di terza media: è il ciclo mestruale, che dipende dall’equilibrio tra alcuni ormoni che regolano la produzione di una cellula uovo al mese. Se questa non viene fecondata (ed è la cosa largamente più frequente) l’epitelio dell’interno dell’utero, che era pronto ad accogliere l’embrione, si sfalda, quindi si ha il sanguinamento e cioè la mestruazione.
Prima di capirlo, però, consideravamo quei giorni un momento spaventosamente misterioso. Così le vite delle nostre antenate, delle nostre nonne, delle nostre madri, e un po’ anche le nostre, sono state afflitte da leggende secondo le quali in quei giorni facevamo appassire i fiori e impazzire la maionese, mandavamo il vino in aceto e rendevamo acida la conserva di pomodoro.
Ce lo ricordano due libri che raccontano superstizioni e tabù di un passato non troppo passato. Il primo è di Marinella Manicardi, attrice e regista che sulle mestruazioni ha fatto uno spettacolo teatrale dal titolo Corpi impuri per il Festival della Filosofia di Modena, e oggi ha scritto un libro dallo stesso titolo per la casa editrice Odoya. Il secondo è in uscita per Einaudi: Questo è il mio sangue, della giornalista francese Élise Thiébaut, che sarà in libreria dal 23 gennaio.
L’idea di fondo dei due libri è simile: di mestruazioni non si parla, e questo ha contribuito, e contribuisce ancora, alla discriminazione di genere. Thiébaut annuncia una prossima e necessaria “rivoluzione mestruale”, che darà alle donne consapevolezza del proprio corpo e della propria identità. Manicardi parte invece dalla letteratura: Anna Karenina non ha mai le mestruazioni e non le ha mai neppure Emma Bovary. -C’è un’unica eccezione: Margherita, la signora delle camelie. Ma era una prostituta. E la ragione per cui, ogni mese, le sue camelie erano cinque giorni rosse e gli altri bianche Alexandre Dumas la lascia solo intuire. «Se i tempi sono cambiati? Beh, mica tanto» dice Manicardi. Quanto alla nuova pubblicità in cui il sangue viene finalmente rappresentato da un liquido di colore rosso, invece dell’azzurro alieno degli spot precedenti, c’è poco da festeggiare. «È la prima, appunto, e siamo nel 2017».
Oltre agli spot e ai libri, ci sono però anche le provocazioni artistiche, come quella della tedesca Elone, che ha riempito le vie di Karlsruhe di assorbenti con scritte frasi contro la violenza sulle donne, o quella della portoghese Joana Vasconcelos, che ha costruito un lampadario con 14 mila assorbenti interni. E soprattutto ci sono le provocazioni politiche, come il movimento free bleeding, che propone di non usare assorbenti e di lasciare che il sangue si mostri.
Nel 2015 l’attivista statunitense di origine indiana Kiran Gandhi ha corso così la maratona di Londra (quindi 42 chilometri), e ha spiegato: «L’ho fatto per le mie sorelle che non hanno accesso agli assorbenti e per quelle che li nascondono». In India, infatti, una ragazza su dieci considera il ciclo una malattia e una su quattro al raggiungimento della pubertà è costretta a lasciare la scuola. Mentre in Nepal solo ad agosto di quest’anno è approvata una legge che punisce la pratica millenaria del chhaupadi, cioè la reclusione delle donne mestruate in capanne isolate, in cui non mangiano e non bevono, e possono essere morse dai serpenti.
Anche da noi il pregiudizio antimestruazioni è antico: «Dai tempi di Ippocrate in poi il corpo femminile è sempre stato considerato la versione imperfetta di quello maschile» racconta Francesco Paolo de Ceglia, storico della scienza all’Università di Bari. «Gli organi della generazione sono introflessi, e il tutto viene descritto come umido, molle». Questa “umidità” femminile si credeva destinata a nutrire il bambino, «e si diceva che venisse espulsa con le mestruazioni, una specie di liberatorio salasso naturale». L’idea dell’impurità arriva dalla religione. Ma, prosegue de Ceglia, «la scienza la assorbe. Così si giunge al concetto per cui le mestruazioni sono un po’ come escrementi».
Però poi la scienza è avanzata, vero? «Sì, certo» concede Carlo Flamigni, ginecologo, scrittore e saggista, «ma mica tanto tempo fa». Sono solo sessant’anni che conosciamo la questione dell’utero e dell’ovaio. Flamigni si è laureato nel 1959 e racconta che anche nei libri universitari su cui ha studiato «le mestruazioni servivano a espellere le sostanze tossiche accumulate nel corpo femminile, e segnatamente una che si chiamava menotossina». Quindi, aggiunge, «se il tabù esiste ancora, credo che per superarlo debba scomparire un’intera generazione, la mia».
Solo sessant’anni significa che le nostre nonne venivano considerate così pericolosamente instabili da non avere accesso alla magistratura. Fino al 1963 lo diceva proprio la legge italiana, nero su bianco: «Fisiologicamente tra un uomo e una donna ci sono differenze nella funzione intellettuale, e questo specie in determinati periodi della vita femminile». Indovinate quali.
Alla fine della fiera è difficile dire se qualcosa degli antichi pregiudizi rimanga anche nelle nostre teste, o se siamo vicini alla fine del tabù. «Che io sappia non ci sono dati o rilevazioni affidabili che ci permettano di esprimerci sull’esistenza del tabù» commenta Paola Borgna, sociologa dell’Università di Torino. Ognuno potrà avere le proprie impressioni: «La mia è che il tabù a sfondo religioso sia stato sostituito dalla medicalizzazione. Ed è un aspetto di un processo di medicalizzazione del corpo e delle società più generale, che dà origine a nuove forme di controllo delle nostre vite».
Un dato di fatto è che, oltre alle donne giudice, oggi possiamo avere le donne astronauta, come Samantha Cristoforetti, che considera gli assorbenti l’ultima delle sue preoccupazioni, terrestri ed extraterrestri: «Se mi chiedono come si viva con le mestruazioni nello spazio? A dire il vero non tanto spesso». Un giorno però Carla ha mandato la domanda al suo blog avamposto42, e Samantha ha risposto così: «Beh, non vorrei fare a cambio con la necessità di radermi il viso tutte le mattine in assenza di peso!». Come dire: l’età adulta e gli ormoni della fertilità propongono modeste seccature. Per i maschi si tratta di farsi
barba e baffi più o meno ogni mattina. Le femmine in fondo se la cavano con quattro o cinque giorni al mese, e nel 2017 non devono più nemmeno fare la fatica di inventarsi giri di parole: sono mestruazioni, semplicemente mestruazioni.
* la Repubblica, 15 dicembre 2017
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
di Elena Stancanelli *
Violette Ailhaud aveva sedici anni quando, nel 1851, sparirono tutti i maschi dal suo villaggio. Un minuscolo paese nelle Alpes-de Haute-Provence. Borgogna, Provenza: fu quella l’unica zona di Francia in cui scoppiò la rivolta che avrebbe dovuto seguire il colpo di stato di Luigi Napoleone.
Parigi tacque, mentre contadini, artigiani, borghesi abitanti del Midi - che non parlavano neanche il francese, ma una dialetto provenzale, un patois - si armarono per combattere il tiranno. Formarono una sorta di guardia nazionale, e scelsero come simbolo la farigoule, il timo, la pianta aromatica che non smette di rifiorire.
I repubblicani conquistarono e tennero le città del sud della Francia per tutto il mese di dicembre, prima di cedere alle truppe bonapartiste-monarchico-clericali. Che, una volta ottenuta la vittoria, massacrarono, imprigionarono e deportarono tutti gli insorti con efficentissima ferocia.
Gli uomini, dunque, sparirono. Le madri, le mogli, le fidanzate li aspettarono a lungo, poi capirono che non sarebbero tornati. Da quel momento avrebbero dovuto fare a meno di loro. Fecero un accordo. «Sembravamo un gruppo di faraone impazzite. Le nostre idee volavano come cavallette, si incrociavano con le ali aperte di tutti i colori: blu, rosse, arancioni. Avevamo detto tutte la stessa cosa in mille modi diversi. Ma eravamo d’accordo».
Tra queste donne, c’è Violette. Molti anni dopo, quando nel 1925 morì, tra le carte del suo testamento trovarono una busta e la richiesta che non fosse aperta prima dell’estate 1952. Alla data prevista, la maggiore dei suoi discendenti di sesso femminile, Yveline, secondo le istruzioni entrò in possesso del suo contenuto. Un manoscritto, poche decine di pagine scritte in patois, un lessico semplice, metafore terrigne e un’enorme potenza icastica. Oltre alla efficacia di una storia che sembra una parabola del vangelo.
L’homme semence è il titolo scelto dalla casa editrice Parole, che lo ha pubblicato in Francia. Decine di migliaia di copie vendute, ha ispirato spettacoli di teatro, danza, fumetti. C’è persino un festival a Digne dedicato a L’homme semence. Che somiglia a un racconto distopico, e invece è una storia vera.
Violette Ailhaud era una contadina e scriveva col coraggio e il pianto, la vergogna e l’orgoglio di chi ha vissuto, non di chi sa. Non sa niente, tranne quello che accade. «Piango quelle braccia perdute, fatte per stringerci e rovesciare la pecora durante la tosatura. Piango quelle mani falciate, fatte per accarezzarci e per tenere la falce per ore». Ripetizioni e slanci lirici sono a carico dell’autrice, e sono conservati, giustamente, anche nelle traduzione italiana che Monica Capuani cura per l’editore Playground, che mantiene il titolo L’uomo seme.
Che cosa manca, quando mancano gli uomini? Qualcuno che regga le pecore, certo. Abbracci. Ma a tutto c’è rimedio tranne che a una cosa: il seme appunto. Almeno fin quando non avremo imparato a riprodurci in maniera un po’ meno brutale. Il mondo senza uomini (o senza donne, senza bambini, senza animali...) è un topos letterario. Per ragioni diverse, dalla terra scompare di colpo una categoria di esseri viventi: disastri naturali, epidemie, guerre fratricide, effetti nucleari mirati... Esiste addirittura un batterio, tra i più diffusi per altro, che agisce in maniera selettiva attaccando solo i maschi della specie. La "wolbachia" uccide, oppure trasforma i maschi infettati in femmine.
In Herland (1915), romanzo della scrittrice femminista Charlotte Perkins Gilman, si racconta che dell’eliminazione dei maschi fu responsabile l’eruzione di un vulcano. E fu una benedizione. Da allora le donne vivono in pace, in una società egualitaria, riproducendosi per partenogenesi, nella bellezza e nell’intelligenza. E il sesso tra donne, secondo le abitanti di Herland, sarebbe molto più soddisfacente e articolato.
Anche la scienza lo sostiene, scoperta che provocò una reazione furibonda nel mondo accademico. Quando negli anni Sessanta uscirono i risultati degli studi del dottor William Master e la sua collega Virginia Johnson, fu un bel colpo per gli uomini venire a sapere che l’orgasmo femminile vale dieci volte quello maschile, e che anche senza la loro preziosa anatomia otteniamo grandissima soddisfazione.
Ma se sul sesso non c’è niente da eccepire, la partenogenesi umana sembra ancora un po’ lontana. Nonostante l’entusiasmo suscitato dalla nascita di Kaguya, nel 2004 in un laboratorio giapponese: la prima topolina venuta al mondo con un patrimonio genetico interamente femminile.
La partenogenesi è un processo presente in natura e quindi, chissà quando, applicabile anche agli esseri umani: si prende un ovulo femminile e attraverso un processo chiamato "mitosi" si ottiene un embrione. Ovviamente femminile, dal momento che il cromosoma Y non partecipa alla festa, e quindi in grado di produrre soltanto esseri di sesso femminile.
Ma questo è il futuro. Quando nel 1851 spariscono i maschi dal villaggio di Violette (uccisi dalla guerra) il patto tra le donne non riguarda la manipolazione genetica. Il primo uomo che fosse capitato per caso sulla collina, decidono invece, sarebbe stato di tutte. Fine del matrimonio, della coppia, persino dell’amore: l’uomo è il seme, e il seme si divide. Sera dopo sera le donne del villaggio si divertono a immaginare come sarà quest’uomo. Come parlerà, riderà, dormirà e mangerà. Lo vestono e lo spogliano mille volte, come fosse una bambola. Fin quando un giorno, dalla collina, vedono finalmente salire un uomo...
* Fonte: la Repubblica, 13/02/2014
“Storia delle donne filosofe”
di Alessandra Pigliaru *
Ragionatrice sottile e maestra d’eloquenza, sono alcune delle espressioni che si ritrovano nel Menesseno di Platone e nel quarto libro degli Stromati di Clemente Alessandrino riferibili ad Aspasia di Mileto che insegnò retorica a Pericle e filosofia a Socrate.
Ciò nonostante, simili appellativi venivano assai raramente utilizzati per il suo sesso; così segnala Gilles Ménage in un libro piccolo quanto fondamentale dal titolo Mulierum philosopharum historia, scritto in prima istanza nel 1690 e ampliato due anni dopo.
Arrivato in Italia solo 11 anni fa grazie alla traduzione e cura di Alessia Parolotto per le edizioni ombre corte, Storia delle donne filosofe (pp. 115, euro 9) viene ora rieditato per essere letto, studiato e sgranato con curiosità.
L’introduzione di Chiara Zamboni colloca acutamente la figura di Ménage, l’abate francese che oltre a essere stato un grande latinista e grammatico fu precettore di madame de Sévigné e madame de Lafayette.
Le sue relazioni in quegli anni straordinari, dai salotti delle Preziose all’immersione in quella che Benedetta Craveri ha poi chiamato e descritto nel suo La civiltà della conversazione, possono essere lette come il frutto di un’attenzione rara nei confronti di 70 pensatrici dell’antichità classica.
L’esercizio di Ménage, senza precedenti, rimane un isolato e pur tuttavia importante censimento filosofico, esito di una erudizione raffinata e rigorosa che fa avere fiducia sullo stato dei documenti consultati - seppure non tutti di immediato reperimento. Setacciare trattati, lessici, opere filosofiche è servito così a imbastire un ritratto a più voci.
Le fonti di riferimento utilizzate da Ménage sono quasi tutte maschili e, come sottolinea Zamboni nella introduzione, l’insistenza sul legame tra biografia e pensiero era in linea con la tradizione del suo tempo.
Accanto alle più note Ipazia e Diotima, maestre di eccellenza e amore per la sapienza, altre si fanno avanti e vengono per la prima volta suddivise per appartenenza di scuola - là dove se ne possa avere in qualche modo conferma. Di scuola incerta infatti restano ancora tante che vanno a comporre la prima parte del volumetto di Ménage.
Così accanto al nome di Aspasia risuonano quello di Cleobulina, Panfila, Giulia Domna, Eudocia, Novella e altre. E poi Temistoclea (nella Suda - lessico enciclopedico compilato intorno al 1000 - viene chiamata Teoclea), sorella di Pitagora a cui già Diogene Laerzio attribuisce la maggior parte dei precetti morali del più noto filosofo. Insieme alle pitagoriche, che sono anche le più numerose, sono presenti Epicuree, Ciniche, Stoiche, Accademiche, Peripatetiche, Platoniche, Cirenaiche.
E seppure di tutte le filosofe non resti quasi niente in termini di scritti, il lavoro di Gilles Ménage non si riduce a un contributo elenchico criticamente muto; bensì concorre a delineare una fisionomia storico-filosofica che anni dopo verrà decostruita e fatta definitivamente saltare dal femminismo.
*
Alessandra Pigliaru
* http://pigiotto.blog.tiscali.it/2016/08/19/storia-delle-donne-filosofe/?doing_wp_cron - Venerdì, 19 Agosto 2016
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITà. --- ’Histoire des femmes philosophes’. Se ci si chiede chi sia l’autore, Gilles Ménage, si scopre che viveva nel diciassettesimo secolo, era un latinista precettore di Madame de Sévigné e di Madame de Lafayette e il suo libro, apparso nel 1690, s’intitolava ’Mulierum philosopharum historia’ (di Umberto Eco - Filosofare al femminile).
I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!
Il sorpasso in magistratura, ci sono più donne che uomini
Il procuratore generale della Cassazione: hanno raggiunto il 50,7 per cento. Il cambiamento più significativo nelle nomine agli incarichi direttivi
di FRANCESCO GRIGNETTI (La Stampa, 29/01/2016)
ROMA Alla notizia non è stata data l’enfasi che meritava, eppure è possibile leggerla nella relazione del procuratore generale della Cassazione, sua eccellenza Pasquale Ciccolo: «Rispetto agli anni precedenti - scrive - nella popolazione dei magistrati in servizio si ribalta il rapporto tra uomo e donna, pur rimanendo attorno alla parità: 50,7% di donne, e 49,3% di uomini».
È una piccola grande rivoluzione. Alle donne, come ricordava qualche tempo fa a un convegno la presidente dell’Associazione donne magistrato italiane, Carla Marina Lendaro, è stato aperto l’accesso in magistratura appena 50 anni fa. Perciò fecero una festa in Cassazione «per ricordare quelle prime otto temerarie - diceva Lendaro - che affrontarono, vincendolo, il duro primo concorso del 1965».
Molta acqua nel frattempo è passata sotto i ponti. Da qualche anno, al concorso per magistratura le donne stracciano regolarmente gli uomini. È una donna il capo dell’ufficio degli ispettori ministeriali, Elisabetta Cesqui. Ci sono due donne nel consiglio direttivo della Scuola superiore della magistratura. Sono molte le donne ai vertici delle correnti della magistratura associata. Ed è lontano il tempo in cui le (poche) donne che entravano in magistratura finivano confinate nella riserva indiana della giustizia minorile.
LA SVOLTA
Delle 252 nomine fatte dal Consiglio superiore della magistratura negli ultimi 15 mesi sotto l’impulso del vicepresidente Giovanni Legnini, se si guarda agli incarichi direttivi si vede che 101 sono uomini e 25 sono donne; se si esaminano i vicedirettivi, 83 sono uomini e 43 sono donne. Il cambiamento dei vertici della magistratura è in effetti una mezza rivoluzione. «Un passaggio storico e un’autentica palingenesi», lo definisce Legnini.
Il cambio di rotta - più donne, più giovani, più attenzione al merito - ha del clamoroso per un mondo tradizionalista come quello delle toghe. Diceva ieri il ministro Andrea Orlando intervenendo all’inaugurazione dell’Anno giudiziario: «Si sta rompendo il tetto di cristallo che impediva alle donne l’accesso alla guida degli uffici giudiziari. Dobbiamo andare avanti su questa strada partendo dal dato che vede ormai un sostanziale equilibrio di genere nella composizione della magistratura».
Evidentemente stanno meritando i loro successi, le donne in toga. C’è un’altra statistica fondamentale nella relazione del procuratore generale, in una materia che gli compete strettamente: se uomini e donne in magistratura sono in numero pressoché uguale, salta però agli occhi che i magistrati oggetto di procedimenti disciplinare sono al 69,2% uomini e 30,8% donne. A controprova di come sia aumentato il peso specifico femminile in magistratura, però, c’è anche un caso negativo. È una donna, infatti, anche la protagonista della vicenda più dolorosa che la magistratura sta vivendo: l’ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata dai colleghi di Caltanissetta per un uso spregiudicato dei beni confiscati alla mafia, sospesa dal Csm. Guarda caso, ha trascinato nello scandalo anche due prefette, amiche sue. Uno scandalo, quello di Palermo, tutto in rosa.
LE “DONNE DEI PRETI” SCRIVONO AL PAPA *
Caro Papa Francesco
siamo un gruppo di donne da tutte le parti d’Italia (e non solo) che ti scrive per rompere il muro di silenzio e indifferenza con cui ci scontriamo ogni giorno. Ognuna di noi sta vivendo, ha vissuto o vorrebbe vivere una relazione d’amore con un sacerdote, di cui è innamorata. Abbiamo deciso di unire le nostre voci dopo esserci rese conto che pur nella nostra diversità, i nostri vissuti non rappresentano casi isolati, ma che tantissime donne vivono nel silenzio, e per questo, pur essendo noi un piccolo campione, ci sentiamo di parlare a nome di tutte le donne coinvolte sentimentalmente con un sacerdote o religioso.
Come tu ben sai, sono state usate tantissime parole da chi si pone a favore del celibato opzionale, ma forse ben poco si conosce della devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell’innamoramento.
Vogliamo, con umiltà, porre ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinchè qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa.
Si, l’amore è proprio un’esperienza forte e rigenerante, che ti rimodula dentro, che ti fa crescere con l’altro, finchè ti ritrovi a desiderare con lui quel meraviglioso sogno di una vita insieme. Cosa che con un prete non è possibile, secondo le leggi attuali della chiesa cattolica romana.
Noi amiamo questi uomini, loro amano noi, e il più delle volte non si riesce pur con tutta la volontà possibile, a recidere un legame così solido e bello, che porta con se purtroppo tutto il dolore del "non pienamente vissuto". Una continua altalena di "tira e molla" che dilaniano l’anima.
Quando, straziati da tanto dolore, si decide per un allontanamento definitivo, le conseguenze non sono meno devastanti e spesso resta una cicatrice a vita per entrambi. Le alternative sono l’abbandono del sacerdozio o la persistenza a vita di una relazione segreta.
Nel primo caso la forte situazione con cui la coppia deve scontrarsi viene vissuta con grandissima sofferenza da parte di entrambi: anche noi donne desideriamo che la vocazione sacerdotale dei nostri compagni possa essere vissuta pienamente, che possano restare al servizio della comunità, a svolgere la missione che per tanti anni hanno svolto con passione e dedizione, rinvigoriti adesso ancor di più dalla forza vitale dell’amore che hanno scoperto insieme a noi, che vogliamo sostenerli e affiancarli nel loro mandato. Chi si sente chiamato al sacerdozio sceglie di vivere nel mondo, di partecipare alla vita sociale e di rendersi utile agli altri nella comunità in cui è inserito. La dolcezza e solarità di una donna può davvero essere sale e luce nel ministero di un sacerdote, per camminare insieme verso la Sua Luce e per maturare i frutti (che in due si moltiplicano esponenzialmente) da donare alla gente.
Nel secondo caso, ovvero nel mantenimento di una relazione segreta, si prospetta una vita nel continuo nascondimento, con la frustrazione di un amore non completo che non può sperare in un figlio, che non può esistere alla luce del sole. Può sembrare una situazione ipocrita, restare celibi avendo una donna accanto nel silenzio, ma purtroppo non di rado ci si vede costretti a questa dolorosa scelta per l’impossibilità di recidere un amore così forte che si è radicato comunque nel Signore.
L’amore è davvero la forza più potente che esista!
E allora ci chiediamo e ti chiediamo se è davvero giusto sacrificare l’Amore in virtù di un bene più alto e grande che è quello del servizio totale a Gesù e alla comunità, cosa che a nostro avviso sarebbe svolto con maggiore slancio da un sacerdote che non ha dovuto rinunciare alla sua vocazione all’amore coniugale,unitamente a quella sacerdotale, e che sarebbe anche supportato dalla moglie e dai figli. Probabilmente ne gioverebbe l’intera comunità, si respirerebbe aria di famiglia, di libertà e accoglienza. Questa nostra società ne ha bisogno!
Siamo tutti alla ricerca della propria identità, che possiamo solo trovare nel volto di Cristo; ma la chiesa ne riflette il suo volto? Noi speriamo che tu, con questa ventata di speranza che hai portato, possa davvero riuscire a ridare alla chiesa la sua dignità, liberandola dalla pretesa della Verità Assoluta, e affidandola semplicemente alla volontà di Dio.
Siamo fiduciose che il nostro grido, rimasto per troppo tempo inespresso, venga da te accolto e compreso, per discernere quale sia la giusta strada per una Chiesa migliore.
Se tu lo riterrai adeguato, siamo pronte e anzi ti chiediamo di essere da te convocate in un’udienza privata, per portare davanti a te umilmente le nostre storie e le nostre esperienze, sperando di poter attivamente aiutare la Chiesa, che tanto amiamo, verso una possibile strada da intraprendere con prudenza e giudizio.
Grazie Papa Francesco! Speriamo con tutto il cuore che tu benedica questi nostri Amori, donandoci la gioia più grande che un padre vuole per i suoi figli: VEDERCI FELICI!!!
Ti auguriamo ogni Bene.
*
FONTE. Adistanews: http://www.adistaonline.it/
Il matrimonio è un diritto anche per i preti
Abolire il celibato per il bene della chiesa
di Vito Mancuso (la Repubblica, 19.05.2014)
CHISSÀ come risponderà il Papa alla lettera indirizzatagli da 26 donne che (così si sono presentate) «stanno vivendo, hanno vissuto o vorrebbero vivere una relazione d’amore con un sacerdote di cui sono innamorate». Ignorarla non è da lui, telefonare a ogni singola firmataria è troppo macchinoso, penso non abbia altra strada che stendere a sua volta uno scritto. Avremo così la prima epistula de coelibato presbyterorum indirizzata da un Papa a figure che fino a poco fa nella Chiesa venivano chiamate, senza molti eufemismi, concubine.
Dai frammenti della lettera riportati sulla stampa risulta che le autrici hanno voluto presentare la «devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell’innamoramento ». Il loro obiettivo, scrivono al Papa, è stato «porre con umiltà ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa». Ecco la posta in gioco, il bene della Chiesa. L’attuale legge ecclesiastica che lega obbligatoriamente il sacerdozio al celibato favorisce il bene della Chiesa? Guardando ai due millenni del cattolicesimo, ritroviamo che nel primo il celibato dei preti non era obbligatorio («fino al 1100 c’era chi lo sceglieva e chi no», così scriveva il cardinale Bergoglio).
MENTRE lo divenne nel secondo in base a due motivi: 1) la progressiva valutazione negativa della sessualità, il cui esercizio era ritenuto indegno per i ministri del sacro; 2) la possibilità per le gerarchie di controllare meglio uomini privi di famiglia e di conseguenti complicate questioni ereditarie. Così il prete cattolico del secondo millennio divenne sempre più simile al monaco.
Si tratta però di due identità del tutto diverse. Un conto è il monaco il cui voto di castità è costitutivo del codice genetico perché vuole vivere solo a solo con Dio (come dice già il termine monaco, dal greco mònos, solo, solitario); un conto è il ministro della Chiesa che determina la sua vita nel servizio alla comunità. Il prete (diminutivo di presbitero, cioè “più anziano”) esiste in funzione della comunità, di cui è chiamato a essere “il più anziano”, cioè colui che la guida in quanto dotato di maggiore saggezza ed esperienza di vita. Ora la questione è: la celibatizzazione forzata favorisce tale saggezza e tale esperienza?
Quando i preti celibi parlano della famiglia, del sesso, dei figli e di tutti gli altri problemi della vita affettiva, di quale esperienza dispongono? Rispondo in base alla mia esperienza: alcuni sacerdoti dispongono di moltissima esperienza, perché il celibato consente loro la conoscenza di molte famiglie, altri di pochissima o nulla, perché il celibato li fa chiudere alle relazioni in una vita solitaria e fredda. Ne viene che il celibato ha valore positivo per alcuni, negativo per altri, e quindi deve essere lasciato, come nel primo millennio, alla libera scelta della coscienza.
Vi è poi da sottolineare che la qualità della vita spirituale non per tutti dipende dall’astinenza sessuale e meno che mai dall’essere privo di famiglia, basti pensare che quasi tutti gli apostoli erano sposati e che il Nuovo Testamento prevede esplicitamente il matrimonio dei presbiteri (cf. Tito 1,6).
Se poi guardiamo alla nostra epoca, vediamo che veri e propri giganti della fede come Pavel Florenskij, Sergej Bulgakov, Karl Barth, Paul Tillich erano sposati. Se i nazisti non l’avessero impiccato, anche Dietrich Bonhoeffer si sarebbe sposato, ed Etty Hillesum, una delle più radiose figure della mistica femminile contemporanea, ebbe una vita sessuale molto intensa. Anche Raimon Panikkar, sacerdote cattolico, tra i più grandi teologi del ‘900, si sposò civilmente senza che mai la Chiesa gli abbia tolto la funzione sacerdotale.
“Non è bene che l’uomo sia solo”, dichiara Genesi 2,18. Gesù però parla di “eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli” ( Matteo 19,12). La bimillenaria esperienza della Chiesa cattolica si è svolta tra queste due affermazioni bibliche, privilegiando per i preti ora l’una ora l’altra. Penso però che nessuno possa sostenere che il primo millennio cristiano privo di celibato obbligatorio sia stato inferiore rispetto al secondo.
Oggi, a terzo millennio iniziato, penso sia giunto il momento di integrare le esperienze dei due millenni precedenti e di far sì che quei preti che vivono storie d’amore clandestine (che sono molto più di 26) possano avere la possibilità di uscire alla luce del sole continuando a servire le comunità ecclesiali a cui hanno legato la vita. La loro “anzianità” non ne potrà che trarre beneficio. Vi sono poi le molte migliaia di preti che hanno lasciato il ministero per amore di una donna (ma che rimangono preti per tutta la vita, perché il sacramento è indelebile) e che potrebbero tornare a dedicare la vita alla missione presbiterale, segnati da tanta, sofferta, anzianità.
Fecondazione, ecco la proteina Giunone
«Così l’uovo cattura lo spermatozoo» *
Quando Izumo incontra Juno nasce la vita. È «l’attrazione fatale» tra due proteine che permette a uovo e spermatozoo di riconoscersi e fondersi, generando un embrione. Una delle due, Izumo, era già nota (fu scoperta sulla superficie degli spermatozoi nel2005da un team giapponese, che la battezzò con il nome di un santuario dedicato alla divinità dei matrimoni), mentre l’altra, la sua compagna, è rimasta per anni un mistero.
A svelare il rebus sono gli scienziati britannici del Wellcome Trust Sanger Institute, che hanno individuato e dato un nome alla dolce meta» di Izumo: una proteina esposta sulla cellula uovo, chiamata Juno (proteina Giunone) in onore della dea della fertilità nell’antica Roma.
La scoperta, pubblicata su Nature, apre nuove vie al miglioramento delle tecniche di fecondazione assistita e allo sviluppo di nuovi contraccettivi. «Abbiamo risolto un mistero biologico di lunga data - commenta Gavin Wrigth, autore senior dello studio - Le due proteine sono presenti sulla superficie di tutti gli spermatozoi e gli ovuli, e per dare origine a una nuova vita al momento del concepimento si devono necessariamente accoppiare. Senza questa interazione essenziale, nulla accadrebbe».
* l’Unità, 17.04.2014
L’altra metà del sesso
Da Freud a Sex and the City. Tra tabù e falsi miti la scoperta del piacere femminile è stata una conquista
Così è saltata la costruzione artificiale fatta sulla natura: madre, monogama, fedele, priva di fantasie erotiche
E la convinzione che la vecchiaia sia l’età dell’astinenza
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 02.04.2014)
OGNI volta che un uomo si occupa di sessualità femminile, a partire dal mitico Freud, si resta di sale: ma come, se lo raccontano ancora, ce lo raccontano ancora, che le donne non sono come da secoli se lo dicono e ce lo dicono? La loro signora non gli ha mai dato una sveglia?
Non hanno mai letto i testi fondamentali degli anni ‘70, scritti ovviamente da donne in cui solo alle donne (gli uomini non li leggevano), si spiegava che “non era per piacere a Dio”, ma trovando una persona volonterosa e creativa, maschio solitamente, si poteva godere scompostamente “per piacer mio”, come si vede oggi in ogni pubblicità di yogurt gustato da femmine.
Proprio nel paese del serioso giornalista Daniel Bergner che crede di sapere cosa vogliono le donne, gli Stati Uniti, uscì nel 1971 (poco dopo in Italia da Feltrinelli) “Our bodies, ourself”, in cui un collettivo femminile di Boston ce la raccontava tutta. Per le donne una rivelazione, sia per chi non ne sapeva niente e sperimentava il suo corpo nel sesso solo come un vuoto soporifero, sia per chi in certe situazioni si vergognava se le veniva da gridare, terrorizzando l’inconsapevole collaboratore.
Il libro conteneva anche orrifici grafici di quella cosa là, assolutamente sconosciuta sia alla proprietaria che a chi se ne riteneva l’utente. Anche da noi i gruppi di autocoscienza si obbligarono a mettere uno specchietto tra le gambe per vedere questa cosa invisibile, che si era costrette tra brividi a trovare bellissima.
Quel saggio fu radicale, disse di smetterla di credere o far finta di credere all’illusione maschile di possedere uno strumento penetrativo salvifico e in grado di far felici le donne già al primo sguardo. Disse, sorpresa! che il vero piacere femminile era nel clitoride, sempre che si trovasse qualcuno con la pazienza di rintracciarlo: o di seguire gli ordini della proprietaria che per conto suo l’aveva già favorevolmente sperimentato.
Da quel momento i testi scritti da donne sull’argomento furono una valanga, comprese le inchieste anni ’70 di Nancy Friday sulle fantasie masochiste femminili, che si riallacciavano al magistrale e a suo tempo proibito Histoire d’O ( anni ‘50), della porchissima studiosa di monachesimo Paulin Reage. Lo smascheramento di massa della sessualità delle donne, silenziosamente, mandò all’aria, almeno teoricamente, tutta la costruzione artificiale sulla loro natura: madre (o puttana), monogama, fedele, priva di fantasie erotiche, nemica della pornografia (anche se ormai scritta da donne e letta quasi solo da donne).
Da anni ormai al cinema sono più le scene in cui è lui ad abbassarsi goloso sotto la vita di lei, che intanto mugola, di quelle in cui è lei a farlo su di lui (che spesso non mugola). Resta indimenticabile un film inglese molto divertente accolto però con una certa pruderie, Hysteria (2011) che racconta dell’invenzione fine Ottocento dell’antenato del vibratore: adottato dai medici come cura all’isteria, cioè a quella perniciosa malattia che era l’impossibile godimento delle donne.
La televisione ha portato in tutto il mondo l’intelligente, spiritosa, coraggiosa serie Sex and the city, 94 puntate dal ‘98 al 2004, ridate anche da noi decine di volte e sempre illuminante: scritta da donne ha raccontato benissimo il bisogno d’amore femminile attraverso l’accumulo di avventure sessuali e talvolta pure sentimentali, sino all’immancabile finale, quello non cambia mai, del “vissero felici e contenti”.
Ma in generale la maschilità è zuccona, smemorata, fragile ed egoista: ancora sono in tanti, anche cervelloni, a immaginare l’erotismo come un servizio addirittura sociale, pure a spese dei contribuenti, che si prenda per esempio carico degli anziani insaziabili, senza neppure obbligarli non si dice a pagare, ma almeno a meritarselo con una certa capacità di seduzione o di risvegliare in buone Signore della Lampada un senso di cura e abnegazione. Giovani però, perché il maschio vecchio tende a sfuggire le coetanee: non è di una donna che queste persone, hanno bisogno, ma di un contenitore che accolga senza orrore lo sfacelo del loro corpo.
E le anziane? Hanno imparato da secoli a nascondere i loro non riconosciuti piaceri, a soddisfarli oppure a farne a meno, quasi sempre con grande contentezza, magari dopo decenni di noiosissimo sesso coniugale. Hanno maggior senso di dignità del loro corpo, hanno avuto quello che hanno avuto e va bene così. Però sono tante le coppie invecchiate insieme, e lo scrivono a Questioni di cuore, che continuano ad amarsi, con la meravigliosa tenerezza che nasce dall’abitudine, dal rispetto, dalla riconoscenza reciproca per quella gioia inestricabile che ha insegnato a due corpi ad armonizzarsi oltre la bellezza e la giovinezza.
L’innamoramento e la domanda a cui Lucrezio non sa rispondere
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 16.11.2013)
La questione non è mai stata risolta: perché ci innamoriamo? Perché ci innamoriamo proprio di quella persona, e non di un’altra che magari, teoricamente, potrebbe essere molto più adatta a noi? Periodicamente della questione vengono riproposte le spiegazioni più disparate e poiché il problema non è nuovo, a dire la loro in materia sono stati anche i romani. A uno dei quali, Lucrezio, si deve una interessante teoria.
Per chi non lo ricordasse, Lucrezio, vissuto nella prima metà del primo secolo a.C., poeta e filosofo, scrisse un poema didattico intitolo De rerum natura , nel quale, per dimostrare la falsità dei timori dovuti alla credenza superstiziosa degli interventi divini sulle vite umane, si rifaceva alle teorie di Epicuro.
Il mondo, spiegava Lucrezio, è regolato da leggi meccaniche di natura; l’anima è mortale, scompare con la morte del corpo; e il piacere (venendo al nostro tema) altro non è che la soddisfazione di trasferire il proprio seme nel corpo di un’altra persona, il cui fascino ha provocato la formazione e l’accumulo del seme stesso: «Chi è colpito dalle frecce di Venere - dunque - è attratto da chi lo ha colpito, e aspira a unirsi a lui».
Al di là (ovviamente) dalla sua attendibilità, una teoria per alcuni versi apprezzabile: indiscutibilmente, infatti, non contiene la minima traccia omofoba (anzi, il fanciullo, nell’ordine, viene prima della donne).. Ma rimane un dubbio: le donne, che non hanno seme, non si innamorano mai? Non hanno mai voglia di fare l’ amore?
Documento preparatorio del Sinodo sulla famiglia: qualche domanda sul rapporto tra uomini e donne
di Rita Torti (www.teologhe.org, 8 novembre 2013)
Sulle caratteristiche e sulle importanti implicazioni del Documento preparatorio alla III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi, reso pubblico in questi giorni, molto è già stato scritto. Tuttavia alcuni aspetti rimasti per il momento in ombra suscitano interrogativi che credo valga la pena di condividere, raccogliendo così anche l’invito contenuto nell’ultima domanda del Questionario allegato al testo introduttivo: “Ci sono altre sfide e proposte riguardo ai temi trattati in questo questionario, avvertite come urgenti o utili da parte dei destinatari?”.
1) Un primo dato che balza agli occhi è che nell’elenco delle “numerose nuove situazioni che richiedono l’attenzione e l’impegno pastorale della Chiesa” sono contemplati fenomeni di vario tipo - dai matrimoni misti alle famiglie monoparentali, dai fenomeni migratori ai messaggi dei mass media, dalle legislazioni civili alle madri surrogate -; a dire il vero alcuni di essi non rientrano propriamente nella categoria della “novità” (ad esempio la poligamia o i matrimoni combinati - questi ultimi abbondantemente conosciuti anche dalle società europee).
Manca però qualunque accenno, nel testo e nel Questionario, a un fenomeno drammatico, documentato e diffuso in modo trasversale nei diversi contesti geografici, culturali e sociali: quello della violenza di genere (fisica, sessuale, economica...) all’interno delle famiglie.
La domanda che ci si può porre è allora questa: come mai a parere degli estensori del documento la violenza maschile nei confronti delle donne non è un problema da mettere in luce, da indagare e da evangelizzare?
E’ improbabile che in un testo così ufficiale e importante l’assenza sia casuale. Tuttavia sarà utile ricordare che questa mancanza può aggravare la situazione di milioni di donne - spose, ma anche figlie - di ogni parte del mondo, che a questo punto non solo subiscono violenze all’interno della famiglia, ma si trovano ad essere anche invisibili agli occhi dei pastori della Chiesa.
2) Il silenzio su questa ferita endemica delle relazioni familiari è rafforzato, sempre nell’elenco delle situazioni che richiedono “attenzione e impegno pastorale”, da un’altra scelta: quella di segnalare esplicitamente la presenza di “forme di femminismo ostile alla Chiesa”, e di ignorare invece la presenza - certamente più concreta, diffusa e radicata, anche in contesti cattolici - di mentalità e prassi maschiliste.
Anche in questo caso, in molte donne - e auspicabilmente in altrettanti uomini - può sorgere una domanda: davvero il maschilismo nelle sue varie declinazioni non è un problema per le relazioni familiari, e per le donne e gli uomini che ne sperimentano gli effetti? Davvero è un fatto che non suscita alcun interesse nei pastori della Chiesa, e su cui essi non ritengono quindi di dover sollecitare esplicitamente la riflessione delle comunità cristiane?.
3) Passando alla parte del Documento in cui si illustra “la buona novella dell’amore divino” che “va proclamata a quanti vivono questa fondamentale esperienza umana personale, di coppia e di comunione aperta al dono dei figli, che è la comunità familiare”, un altro interrogativo sorge nel seguire quelli che il testo definisce “riferimenti essenziali” delle fonti bibliche su matrimonio e famiglia.
Dopo alcuni rimandi a passi della Scrittura che mostrano l’importanza attribuita al matrimonio, all’amore e all’indissolubilità del legame coniugale, il paragrafo intitolato “L’insegnamento della Chiesa sulla famiglia” si apre con questa enunciazione: “Anche nella comunità cristiana primitiva la famiglia apparve come la ‘Chiesa domestica’ (cf. CCC,1655). Nei cosiddetti “codici familiari” delle Lettere apostoliche neotestamentarie, la grande famiglia del mondo antico è identificata come il luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti, tra genitori e figli, tra ricchi e poveri”.
Che gli autori delle Lettere apostoliche considerassero con tanta ammirazione la “famiglia del mondo antico” è affermazione che probabilmente la maggior parte dei biblisti non sottoscriverebbe, anche volendo mettere tra parentesi le notevoli differenze che correvano tra il mondo greco e il mondo romano in questo ambito del vivere. Ma più immediata e alla portata di tutti è un’altra riflessione: in che senso si può definire “luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti” la realtà che il Documento preparatorio illustra ad esempio con il rimando alla Prima lettera a Timoteo (2,8-15), che ordina fra l’altro: “La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia sarà salvata partorendo figli, se persevererà nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia”?.
Quindi, l’ultima domanda: in che modo questo e gli altri testi a cui il Documento rimanda (appunto, i famosi/famigerati codici domestici) possono comunicare la buona novella alle famiglie di oggi? Sarà veramente opportuno portare come esempio di famiglia evangelica brani che per secoli sono stati usati dalla teologia, dalla predicazione e dagli uomini comuni per rafforzare con il sigillo divino quella che era considerata la legge naturale della superiorità maschile e inferiorità femminile?!
Davvero siamo sicuri che nessuno se ne approfitterà per legittimarsi padrone, e davvero siamo sicuri che nessuna penserà che allora subire è cosa buona e giusta? Le esperienze che si registrano in ogni parte del mondo - e che gli estensori del Documento certo non ignorano - sembrano dirci che no, non possiamo essere sicuri.
Dichiarazione del Forum 2013 delle teologhe indiane
di Indian Women Theologians’ Forum 2013
in “www.catherinecollege.net” del 14 maggio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il Forum delle teologhe indiane ( Indian Women Theologians’ Forum
IWTF) si è riunito dal 2 al 4 maggio 2013 al Montfort Spirituality Centre , Bangalore, per riflettere sul tema “Donne e leadership” . Condividere la nostra personale esperienza di donne leader in vari ambiti ha rivelato un filo comune dell’esperienza delle donne nella presenza del divino e nella loro capacità di rispondere con fede e coraggio.
L’ingiunzione scritturale “egli dominerà su di te” (Gen 3,16) sembra essere la sanzione religiosa che legittima il controllo maschile sulle donne all’interno delle sfere di famiglia, chiesa e società in senso generale.
Oggi l’abuso di questo potere ha assunto proporzioni violente, come si vede nella criminalizzazione della politica, nello spostamento obbligato di persone povere a causa dell’usurpazione della loro terra e delle loro risorse; nella corruzione dove la politica è usata per proteggere ricchezza, frode, stupro, crimine, cultura dell’impunità e dello status quo. La povertà sta scendendo a livelli di indigenza talmente bassi da non poter nemmeno essere descritti da percentuali o statistiche.
L’abuso di potere si riflette in problemi di governabilità, di legge ed ordine che di questi tempi stanno assumendo un significato cruciale e violento. Di primaria importanza è il problema dell’aumento di violenze contro le donne che si intensifica in grado, diffusione e brutalità.
Tale violenza contro le donne si sviluppa tra nuove categorie di persone in dimensioni sconosciute e riguarda persone di tutte le età. Le attuali istituzioni di legge e giustizia non riescono ad affrontare adeguatamente la situazione delle vittime e a render loro giustizia. Abbiamo bisogno di considerare in modo critico le radici della violenza contro le donne nelle strutture del potere patriarcale che continuano a influenzare la vita delle donne.
Come donne leader impegnate per il benessere della società, in particolare delle donne, condanniamo fortemente:
l’escalation dei casi di brutale aggressione sessuale di ragazze e donne;
le vessazioni delle vittime da parte della polizia e durante le procedure processuali;
le procedure legali che causano tortura mentale alle sopravvissute agli stupri, specialmente quelli per conflitto di comunità.
Mentre apprezziamo l’approvazione dell’emendamento della Criminal Law Act 2013, che assicura un processo veloce per le vittime di aggressione sessuale, speriamo che questa norma possa essere applicabile anche ai casi attualmente pendenti.
Vediamo la leadership femminista esercitare un potere di trasformazione ( transformative power ).
Transformative power è connesso con l’etica della cura, della compassione e col fatto di essere collegati. Transformative power ascolta le voci delle persone ai margini o alla periferia e vede attraverso gli occhi di chi è senza voce, senza speranza o senza potere.
Una leadership di trasformazione richiede che noi camminiamo mano nella mano con le persone, le accompagniamo e facilitiamo il cambiamento, non tramite il controllo, ma tramite l’amore.
La giustizia dovrebbe poter ricostituire la dignità delle persone e la riconciliazione, piuttosto che promuovere la vendetta e il castigo.
La leadership femminista lavora per il benessere delle persone, cooperando per fini comuni, creando ambienti che nutrano la crescita di individui e comunità, dando loro potere e libertà per la loro missione.
Siamo piene di speranza riconoscendo che gli emendamenti 73 e 74 alla Costituzione hanno creato delle donne leader alla base, molte delle quali sono state in grado di produrre un cambiamento rispetto ai giochi di potere politico per affrontare problemi centrali della loro comunità come acqua, istruzione e salute. Queste leader hanno distrutto il mito che le donne siano incapaci di amministrare il potere e svolgere incarichi di responsabilità al di fuori delle loro case.
Tuttavia siamo preoccupate per il tipo di leadership che è progettata nelle prossime elezioni, che minaccia il tessuto secolare della nostra nazione e marginalizzerebbe ulteriormente ampie masse di poveri in nome del cosiddetto sviluppo. Vorremmo vedere dei leader che siano impegnati a favorire l’etica della cura e della compassione nei confronti delle persone e della terra.
Osserviamo che la Chiesa centrale predica il messaggio e che la Chiesa alla periferia lo vive, malgrado il fatto che la Chiesa della periferia abbia un importante messaggio da condividere con il centro, che però il centro non riesce a ricevere. Apprezziamo e sosteniamo l’invito di Papa Francesco per una Chiesa dei poveri che “predica il vangelo in ogni tempo, usando le parole se necessario” (San Francesco d’Assisi). Questo avvicinerebbe il centro alla periferia per vivere davvero il messaggio evangelico.
Siamo preoccupate per il collegamento tra giurisdizione ed ordinazione sostenuto acriticamente e per la conseguente esclusione delle donne dalla leadership nella chiesa, specialmente quando hanno molto da dare ad una “Chiesa dei poveri”.
È ora di riconoscere i doni degli uni e degli altri ed unirci insieme per considerare con nuovi occhi la visione femminista che è egualitaria, inclusiva e compassionevole per affrontare queste diverse forme di violenza verso le donne e i poveri.
Prendiamo ispirazione dai modelli di leadership femminili nella tradizione biblica, particolarmente nelle comunità paoline, dove riscopriamo che delle donne erano leader dinamiche che avevano funzioni di diaconesse, investite di autorità per insegnare, predicare, amministrare ed evangelizzare.
La parola greca diakonos si riferisce sia ai maschi che alle femmine, e dalla citazione di Paolo di Phebe come diakonos (Rm 16, 1-2), Prisca come insegnante (Rm 16,3) e Junia come apostola (Rm 16,7) è ovvio che Paolo riconosceva la leadership delle donne negli ambiti della preghiera, dell’insegnamento, dell’amministrazione e dell’evangelizzazione. Ispirate da questi esempi esortiamo le donne a reclamare il loro legittimo spazio sul modello delle donne nella Chiesa primitiva.
In conclusione, riconosciamo che fare teologia è un compito politico che esprime critiche e invita le donne leader a sviluppare una nuova visione ed immaginazione e ad esercitare il potere che incoraggia e dà alle persone ai margini, in particolare quelle senza voce, capacità e possibilità ad esercitare il loro diritto a vivere la vita in tutta la sua pienezza (Gv 10,10). Ci impegniamo a far evolvere la leadership femminile che ha le sue radici nei vangeli ed è rivitalizzante per tutti.
Il filo del rispetto che lega le grandi religioni
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2013)
«Fra le più alte partecipazioni di pubblico mai registrate». Così commentava la riuscita dell’evento il responsabile della Konrad Adenauer Foundation in Israele, sponsor del convegno internazionale tenutosi in questi giorni a Gerusalemme su «Giovanni XXIII e il popolo ebraico» a cinquant’anni dalla morte del "Papa buono". Ciò che ha sorpreso non è stata tanto la presenza di studiosi di ogni parte del mondo, cui si aggiungeva quella dei membri della commissione congiunta della Santa Sede e del Gran Rabbinato d’Israele, quanto l’interesse che l’iniziativa ha riscosso in ambito ebraico. In realtà, è dal Venerdì Santo del 1959, quando Papa Giovanni da non molto eletto, sorprendendo tutti, aveva voluto che si eliminasse l’aggettivo "perfidi" davanti al termine "Giudei" nella preghiera per il popolo ebraico, che una nuova era ha avuto inizio nelle relazioni fra il popolo da cui è venuto Gesù, e di cui Egli fa parte per sempre, e la Chiesa da Lui voluta, affidata agli apostoli, in particolare a Pietro, il pescatore di Galilea, e ai loro successori.
Dall’insegnamento del disprezzo, che troppo a lungo aveva ispirato l’atteggiamento della maggioranza dei cristiani nei riguardi d’Israele, si è passati al rispetto e all’amicizia fra chi riconosce nell’alleanza mai revocata e nel popolo dei Patriarchi e dei Profeti la radice santa della Chiesa - come fa Paolo nella lettera ai Romani (capitolo 11) - e questo stesso popolo. L’Apostolo sottolinea, inoltre, che non è l’albero a portare la radice, ma questa a portare l’albero! Da una tale consapevolezza deriva un rapporto di coappartenenza e di fiducia tra cristiani ed ebrei, consacrato dal decreto Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, di cui è stato da poco celebrato il cinquantesimo anniversario dall’apertura. Non si può essere discepoli di Gesù e amarlo se non si ama al contempo il popolo da cui è venuto!
Nel clima positivo e stimolante del Convegno anche i lavori ad esso seguiti della Commissione congiunta fra la Santa Sede e il Gran Rabbinato d’Israele si sono occupati dell’attualità del messaggio di Papa Giovanni e del Concilio. Se da una parte si è constatata la straordinaria crescita nella fiducia reciproca fra cristiani ed ebrei a livello ufficiale, grazie anche alla testimonianza dei Papi succedutisi a Roncalli e oggi in particolare ai rapporti che da sempre legano Papa Francesco alla comunità ebraica, molto numerosa a Buenos Aires, dall’altra si è osservato come ci sia ancora bisogno di grande impegno perché la stima reciproca e il rifiuto convinto di ogni antisemitismo pervadano mentalità e costumi.
La visita del Presidente Simon Peres al Papa - coincidente con l’incontro di Gerusalemme - e l’invito rivolto al Vescovo di Roma a visitare Israele, stimolano cristiani ed ebrei a un rinnovato sforzo volto a «educare le rispettive comunità riguardo alla natura, ai contenuti e al significato dei cambiamenti» intercorsi da cinquant’anni a questa parte, come afferma il Comunicato congiunto della riunione della commissione fra la Santa Sede e il Gran Rabbinato. «Il rispetto reciproco e l’amicizia che si è stabilita fra noi in questi anni - aggiunge il testo - implicano la responsabilità di difendere e promuovere reciprocamente il bene dell’altra comunità. Ciò richiede di reagire ai pregiudizi e al disprezzo, in particolare contro ebrei e cristiani. Specialmente là dove una comunità è maggioritaria e ispira l’ethos di una nazione, e l’altra è minoranza vulnerabile, la responsabilità della prima è ancora maggiore». La speranza condivisa è che questo spirito di collaborazione, di rispetto e di comune servizio alla giustizia e alla pace possa estendersi a ogni relazione all’altro: da quella fra israeliani e palestinesi, a quella con lo straniero e il diverso da noi e in ogni parte del mondo, fino a quella - per chiudere con uno sguardo all’attualità italiana - fra avversari politici, abituati fino a ieri al reciproco rigetto e chiamati oggi dalle drammatiche urgenze della crisi economico - sociale, di cui ha saputo farsi voce autorevole il Capo dello Stato, a collaborare con onestà e disponibilità reciproca per il bene comune. A tutti i livelli, insomma, finché non ci sarà riconoscimento e valorizzazione della dignità dell’altro e del diverso, non potranno esserci né giustizia, né crescita, né pace. II Grande Codice dell’ethos che ci unisce - la Bibbia - ne é il testimone assoluto, di cui possono fidarsi tanto gli ebrei, quanto i cristiani, quanto tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Contraccezione e cattiva scienza
Il controllo delle nascite: una storia dolorosa sulla pelle delle donne
Nel libro di Carlo Flamigni presidente onorario dell’Aied il percorso travagliato
dei metodi per impedire il concepimento
Uno scontro tra posizioni etiche che ha sacrificato senza problemi generazioni di madri
di Luca Landò (l’Unità, 19.01.2013)
CODE DI LUCERTOLE, MERCURIO E STERCO DI COCCODRILLO. SE PENSATE A HARRY POTTER SIETE FUORI STRADA: quelli che avete appena letto sono alcuni dei metodi usati dalle donne dell’antichità per non aver figli. Poco efficaci, come è facile intuire, ma ampiamente diffusi. Perché nel grande libro dell’umanità il controllo delle nascite occupa un capitolo molto ampio anche se poco conosciuto. Ce lo ha ricordato e spiegato Carlo Flamigni, ginecologo di fama internazionale e presidente onorario dell’Aied, nel suo bellissimo Storia della contraccezione uscito per Dalai Editore.
Come dice Flamigni, il controllo della fertilità, molto prima d’essere un problema tecnico, è una questione culturale. E come tutte le questioni culturali di amplissima portata anche questa è stata, ed è tuttora, accompagnata da grandi errori e robusti pregiudizi. Si è sempre pensato ad esempio che le donne dei tempi più antichi cercassero di avere il maggior numero di figli, spiegando che siccome la mortalità infantile era altissima, lo stimolo a procreare fosse molto intenso.
È probabile che accadesse esattamente l’opposto e che in condizioni di scarsità di cibo l’arrivo di nuove bocche da sfamare venisse accolto come un problema più che una opportunità. Questo spiega come in mancanza di tecniche anticoncezionali efficaci, molto spesso le popolazioni primitive ricorressero all’abbandono o all’uccisione dei neonati. In molte società il destino dei figli era deciso, non dalla famiglia, ma dal capo del gruppo sociale o dai componenti più anziani che in base alla situazione del momento spostamenti, cibo, spazio a disposizione valutavano se la comunità poteva permettersi di mantenere i nuovi arrivati.
Fino a un paio di secoli fa, ricorda Flamigni, il parto rappresentava un momento cruciale, spesso pericoloso nella vita di una donna: «In un’epoca in cui le partorienti di bassa statura e quelle portatrici di bacini viziati morivano insieme al neonato, l’inizio di una gravidanza era vissuto da molte giovani come un annuncio di morte. D’altro canto è bene ricordare che fino alla metà del XIX secolo, nella clinica ostetrica della civilissima Vienna almeno un donna su dieci moriva di parto insieme al figlio».
Comparata alle altre, la nostra è sempre stata una specie poco fertile, ma il numero medio di figli per donna è diminuito con il passare dei secoli. Osservando gli scheletri femminili i paleo-patologi hanno stabilito che nel corso dei millenni il numero dei figli per madre è calato progressivamente: nel 2000 avanti Cristo le donne avevano in media cinque figli, mentre nella Roma imperiale il numero era sceso a 3,3. Sembra dunque che da almeno quattromila anni, forse prima, sia esistita qualche forma di controllo sulla crescita della popolazione. «È tuttavia probabile che questo controllo venisse affidato più all’infanticidio e all’aborto che alla contraccezione», spiega Flamigni.
«Per migliaia di anni il concepimento è stato considerato un mistero insolubile, accompagnato, anzi rafforzato, da una ridda di ipotesi, miti e leggende che in alcuni casi resistono ancora oggi. Gli aborigeni australiani, che hanno mantenuto per secoli le stesse tradizioni culturali, sostengono tuttora che nel corpo delle donne abiti un piccolo bambino trasparente entrato in qualche modo durante il periodo dei giochi infantili: questo bambino, che di notte esce e va in giro, a volte viene trattenuto nel corpo della donna ed è a quel punto che, secondo gli aborigeni, inizia la gravidanza».
È chiaro che senza una chiara conoscenza dei meccanismi biologici i metodi per prevenire la fecondazione siano a lungo stati una miscela di superstizioni, magie ed empirico buon senso. In molte zone del Nord Africa esiste ancora oggi l’idea che i cadaveri abbiano un potere sterilizzante e che bere l’acqua utilizzata per lavare un corpo privo di vita renda una donna sterile. Ma i consigli anticoncezionali sono numerosissimi: mangiare un pezzo di favo contenente api morte o del pane con peli di mula bruciati e tritati; preparare misture contenenti bava di cammello o mangiare i baccelli della fave, uno per ogni anno di sterilità desiderata.
Nell’Africa centrale molte donne si imbottiscono la vagina con sassi o erba finemente triturata, con risultati spesso disastrosi, perché ostruendo l’uretra e ostacolando il retto si arriva spesso a provocare ritenzione di urina e feci. Nell’Ecuador le donne usavano una lavanda con una soluzione di succo di limone mescolato a un decotto di gusci di noce di mogano, un anticoncezionale usato successivamente dalle schiave nere della Guyana e della Martinica.
In Egitto il primo papiro che parla di anticoncezione risale al 1850 avanti Cristo e spiega nel dettaglio tre metodi: inserire in vagina una sostanza flessibile simile alla gomma in modo da ricoprire il collo dell’utero; utilizzare una miscela di miele e carbonato di sodio; polverizzare sterco secco di coccodrillo su una specie di pasta da inserire in fondo al canale vaginale.
Le tre tecniche non erano prive di senso: miele, sostanze gommose e paste a base avevano tutte l’effetto di ridurre la motilità dello sperma. Lo sterco di animale aveva poi lo scopo di modificare l’acidità dell’ambiente vaginale, un po’ come viene fatto oggi con l’uso di spugne imbevute: è noto che il movimento degli spermatozoi viene arrestato in presenza di un ambiente acido e con pH inferiore a 6. Trecento anni più tardi, un secondo papiro (Papiro di Ebers del 1550 avanti Cristo) suggerisce di introdurre in vagina un tampone di garza imbevuto di miele e succo di acacia. La ricetta non sorprende: le foglie di acacia fermentando producono acido lattico considerato anche oggi un buon spermicida.
Nell’antica Cina la contraccezione veniva spesso mischiata con le pratiche abortive, come la ricetta che consigliava di assumere, a stomaco vuoto, mercurio cotto nell’olio. Nel Libro delle erbe, scritto 4000 anni fa, si consiglia di mangiare sedici code di lucertole cotte nel mercurio. Sempre in Cina, c’erano pratiche ispirate più all’autocontrollo che all’assunzione di sostanze. Le donne, ad esempio, venivano istruite a eseguire profondi respiri nel momento in cui il compagno raggiungeva l’orgasmo, contraendo nel frattempo i muscoli dell’addome e «pensando ad altro». Gli uomini dal canto loro potevano contare sul «coitus obstructus». La tecnica venne descritta nei dettagli nel VII secolo aC dal medico cinese Tung-hsuan. Secondo i medici cinesi, l’energia del seme maschile doveva essere trattenuta per consentire successivamente il concepimento di figli maschi.
Un capitolo importante, a volte devastante, nella storia della contraccezione è legato alle erbe.
Come la carota della morte (Daucus carota) dai noti effetti abortigeni ma usata a Roma nel primo secolo avanti Cristo come anticoncezionale, a dimostrazione di quanto anticoncezionali e abortigeni venissero spesso confusi tra loro. Gran parte della storia della contraccezione è stata scritta dagli erboristi e l’elenco delle erbe usate (spesso con effetti abortigeni) è lungo: melograna, artemisia, mentuccia, ruta, aloe, ginepro, mirra, cetriolo fino al tristemente noto prezzemolo.
Ci sono alcune cose che è bene sapere quando si va incontro alla contraccezione, dice Flamigni. La prima è che non esiste il metodo contraccettivo ideale, ma la scelta è sempre il risultato di una valutazione tra i costi e benefici. Il secondo è che non esiste un metodo valido per tutta la vita, al punto che sarebbe meglio parlare di un percorso contraccettivo fatto di scelte diverse legate a momenti diversi. La terza, che in un’epoca di scienza e ricerca le tecniche per il controllo delle nascite sono spesso avvolte da una fitta nebbia di pregiudizi e cattiva informazione. «Non c’è una sola ragione per affermare che la pillola del giorno dopo inibisca l’impianto dell’embrione dice Flamigni eppure questa spiegazione priva di ogni base scientifica viene ripetuta con grande facilità su giornali, tv e una parte del mondo politico».
Se in passato il controllo delle nascite era dettato dalle condizioni di vita, anzi di miseria, delle famiglie, oggi la scelta di avere o meno un figlio è un argomento delicato su cui forte è la pressione di convinzioni religiose e culturali. Non di rado i metodi per impedire la procreazione sono diventati il pretesto per uno scontro fra opposte posizioni etiche e giuridiche che divide tuttora la società.
Peccato che in questa battaglia tra guelfi e ghibellini della bioetica la voce e i diritti delle donne giungano quasi sempre per ultimi. E qui arriva il quarto messaggio lanciato dal presidente dell’Aied: siamo davvero convinti, su questi temi, di aver abbandonato ignoranza e superstizione? Perché è vero che i roghi delle streghe sono stati aboliti, dice Flamigni, ma quando si parla di contraccezione c’è un’ombra medioevale che si allunga con sorprendente rapidità. E fatica a scomparire.
Il corpo delle donne come una bandiera
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 14 agosto 2012)
Usare il (proprio) corpo femminile come manifesto politico. Rovesciare l’ossessione voyeuristica per il corpo femminile che va di pari passo con la marginalizzazione delle donne come cittadine e come esseri pensanti, a vantaggio non dei propri interessi individuali, ma di obiettivi di denuncia politica. È quanto fanno gruppi di donne femministe, soprattutto dell’Est Europeo.
Usando le tecniche del flash mob, le Femen ucraine usano letteralmente il proprio seno nudo per rendere platealmente visibili le proprie denunce contro il governo, contro la trasformazione del loro paese in una sorta di bordello per consumatori internazionali in occasione degli europei di calcio, contro la Sharia, persino contro Berlusconi nel novembre 2011.
Le giovani donne russe della punk band Pussy Riot, quando irrompono con le loro canzoni di denuncia in contesti “sacri al potere” - il Kremlino, la cattedrale ortodossa - si limitano ad esibire minigonne. Ma le maschere che celano il volto alludono ironicamente alla spersonalizzazione delle donne da parte di chi le rappresenta, appunto, solo come corpi fungibili, purché attraenti per chi li guarda e consuma.
L’ultima di queste azioni - una “preghiera” anti-Putin nella cattedrale ortodossa di Mosca durante una cerimonia religiosa - è costata loro molto cara, con una denuncia da parte del patriarca moscovita, e conseguente arresto. Possono essere condannate ad anni di carcere. Ahimè per loro, non avrebbero potuto essere più efficaci nel dimostrare lo stretto filo che nella Russia di oggi lega il potere politico alla Chiesa ortodossa.
L’uso del proprio corpo da parte di donne femministe, come strumento ed insieme atto comunicativo a fini di disvelamento e denuncia, non è un fenomeno nuovo, né limitato all’Est europeo. Più che l’episodio delle studentesse tedesche che attorniarono a seno nudo il filosofo Adorno durante un episodio di contestazione studentesca nel 1969, per umiliarlo alludendo in pubblico alle sue non sempre represse tentazioni di allungare le mani, è nel settore artistico che se ne può trovare ampia testimonianza.
Le artiste di quella che è stata chiamata l’avanguardia femminista degli anni settanta hanno tutte, in un modo o nell’altro, usato fotografia, film, video e performance per affermare che “il personale è politico” e contro “l’obbligo d’essere belle”. Invece di limitarsi a documentare, certo meritoriamente, l’abuso e la strumentalizzazione del corpo femminile nella comunicazione pubblica, o anche a denunciare come irrispettosa e denigratoria questa o quella pubblicità o spettacolo, queste artiste hanno rovesciato il tavolo, mettendosi esse stesse nella parte del soggetto che comunica con il corpo. Hanno riempito di un’intenzionalità insieme critica e autonoma la messa in scena del corpo femminile, a partire dal proprio.
I “corpi piatti” ed evanescenti di Francesca Woodman, le bambole di carta nell’armadio dei vestititi di Cindy Sherman, le performance di Valie Export, che, in quelle che oggi chiameremmo flash mob, provocava passanti e pubblico mostrandosi di volta in volta come un teatro ambulante da cui emergevano solo le tette o il sesso, che invitava ironicamente a toccare - queste ed altre ancora erano forme di espressione che rifiutavano la pura documentazione e andavano oltre la denuncia, per aprire ad uno sguardo, e ad una comunicazione, diversa.
Né le Femen né le Pussy Riot sono artiste sofisticate come quelle dell’avanguardia femminista. Sembra, però, che ne abbiano ereditato la lezione comunicativa: diventare soggetti anche nella comunicazione del, e con il corpo. Certo, non è l’unico modo, né necessariamente il più efficace, per contrastare il potere (le suore statunitensi, ad esempio, ne stanno mettendo in opera altri per contrastare i diktat del Vaticano).
Ma vedere delle donne che usano allegramente, anche se rischiosamente, il proprio corpo per sbeffeggiare il potere ha un che di liberatorio, specie dall’osservatorio italiano. Ove sembriamo strette tra il dover prendere posizione sul diritto a fare la escort e il perbenismo moralista e ipocrita che vorrebbe le donne “per bene” e competenti tutte seriose, accollate, possibilmente anziane, meglio se nonne, comunque de-sessualizzate
IL CASO
Pussy Riot, sale la tensione alla vigilia della sentenza
Cinque arresti per la manifestazione a sostegno del gruppo femminista. Aumentano gli appelli di solidarietà e si preparano una serie di mobilitazioni in attesa del verdetto. Minacce al giudice. Il governo teme disordini e rafforza le misure di sicurezza. *
MOSCA - Sono accusati di aver violato la nuova legge sulle manifestazioni i cinque attivisti arrestati ieri per l’ennesima protesta a sostegno delle Pussy Riot, le tre donne, in carcere per la loro opposizione alla politica di Vladimir Putin. Lo ha reso noto via Twitter una di loro, Alexandra Anfilova, mentre di fronte all’aumento degli appelli di solidarietà per il gruppo punk, crescono anche i timori di disordini che possano dare alla polizia russa l’opportunità di nuovi arresti. Le artiste sono accusate di teppismo motivato da odio religioso, contro i credenti ortodossi, e rischiano tre anni di detenzione. Tutto questo per aver cantato, indossando un passamontagna, una "preghiera punk" contro Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore. La sentenza è attesa per venerdì.
"Ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo". Violetta Volkova, avvocato di Nadejda Tolokonnikova, 22 anni, Ekaterina Samoutsevitch, 30 anni, e Maria Alekhina, 24 anni, ha annunciato che si rivolgerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo per protestare contro "le torture subite" dalle sue assistite. "Non le fanno dormire, non le fanno mangiare in modo normale e vengono continuamente umiliate". L’avvocato ha anche denunciato il fatto che le sia stato impedito di difendere i suoi assistiti, anche impedendole di portare in aula alcuni testimoni.
La protesta. Con il passamontagna colorato, simbolo della band, e cartelli con scritto "beati i misericordiosi", ieri una ventina di sostenitori delle ragazze si sono riuniti sul sagrato della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, per protestare. Un responsabile della sicurezza della chiesa, li ha aggrediti. Secondo le nuove regole adottate la primavera scorsa, che ha inasprito le pene e le sanzioni per proteste non autorizzate, i manifestanti rischiano ora una multa fino a 20.000 rubli (630 dollari) o una sentenza di massimo 40 ore di servizi sociali.
Minacce al giudice. Il giudice che presiede la Corte che sta giudicando il gruppo punk, Marina Syrova, ha ricevuto minacce. Per questo motivo è stata decisa l’assegnazione di una scorta. Aspettando la sentenza, si moltiplicano anche le iniziative di sostegno da parte della società civile.
La mobilitazione internazionale. La vicenda del collettivo femminista russo ha suscitato scalpore e diversi politici e artisti di vari Paesi sono scesi in campo per chiederne la liberazione. L’ultimo appello è quello di Paul McCartney. In una lettera, resa pubblica oggi, l’ex Beatle ha chiesto alle autorità russe di liberare le artiste e poi si è rivolto loro incitandole "a rimanere forti". Ieri è stata diffusa una petizione di Peaches, Simonne Jones e tanti altri musicisti, artisti, attivisti che si sono uniti per produrre un video. 4Martedì un gruppo di intellettuali russi, tra cui il politico Leonid Gozman e il famoso economista Mikhail Dmitriev, hanno scritto una lettera aperta al presidente Putin con la richiesta di grazia. Anche il Consiglio europeo degli Artisti ha mandato una lettera a Poutin per chiedere la liberazione delle tre donne. Dal suo blog, lo scrittore russo, Boris Akunin ha chiamato a raccolta per domani, davanti al tribunale Khamovniki di Mosca, tutti i supporter delle pussy. Bisogna uscire dalla "protesta virtuale" su internet e scendere in strada, ha scritto.
La giornata. Domani è stata indetta una giornata mondiale a favore delle femministe arrestate. Se verrà accolta la richiesta del pubblico ministero, le tre componenti della band dovranno passare tre anni in carcere. Anche le componenti del gruppo che non sono in carcere stanno organizzando una serie di eventi per la giornata di domani. Proprio per timore di manifestazioni spontanee e disordini, la polizia ha fatto sapere di aver potenziato i controlli intorno al tribunale e nelle piazze del centro.
E’ reato dire: "Non hai le palle" *
Niente assoluzione per chi, durante una accesa discussione, rivolge al `rivale’ la frase «non hai le palle». Nonostante l’evoluzione del linguaggio verso la «volgarizzazione delle modalità espressive», per la Cassazione, chi pronuncia queste parole commette il reato di ingiuria perché mette in dubbio non tanto la virilita’ dell’avversario quanto la sua determinazione e coerenza, «virtù che a torto o a ragione continuano a essere individuate come connotative del genere maschile».
Con la sentenza 30719, depositata oggi e relativa a un’udienza svoltasi lo scorso 26 giugno, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di un avvocato potentino, Vittorio G., contro il cugino Alberto G., giudice di pace a Taranto, che in tribunale durante una lite gli aveva appunto rivolto la frase ora incriminata dai giudici con l’ermellino. Anche i magistrati di primo grado avevano ritenuto offensive quelle parole, ma poi, in appello, il verdetto fu di innocenza e venne decretato - dal Tribunale di Potenza con sentenza del 24 gennaio 2011 - che l’accusa di ingiuria «non sussisteva» perché «mancava una effettiva carica offensiva alla espressione utilizzata dall’imputato» in quanto proferita «nell’ambito di una contesa familiare». Alberto fu assolto. Contro il suo proscioglimento ha protestato il legale di Vittorio sostenendo, in Cassazione, che è lecito dire «non rompere le palle, equivalente all’invito a non intralciare l’opera di qualcuno» mentre lo stesso non vale quando, come nel caso in questione, si vuole dire «non hai gli attributi, ossia vali meno degli altri uomini». E la valenza offensiva - ha aggiunto l’avvocato della parte lesa - è ancora più grave «se pronunciata in ambiente di lavoro».
Con questa linea `colpevolista’ ha pienamente concordato la Quinta sezione penale della Suprema Corte affermando - con la penna del consigliere Maurizio Fumo - che «a parte la volgarità dei termini utilizzati, l’espressione ha una indubbia valenza ingiuriosa, atteso che con essa si vuole insinuare non solo, e non tanto, la mancanza di virilita’ del destinatario, ma la sua debolezza di carattere, la mancanza di determinazione, di competenza e di coerenza, virtù che, a torto o ragione, continuano ad essere individuate come connotative del genere maschile». Inoltre, aggiunge la Cassazione, «la frase fu pronunciata in un contesto lavorativo (ufficio giudiziario), a voce alta ed era udibile anche da terze persone». «In tali circostanze - osserva ancora l’Alta Corte - il pericolo di lesione della reputazione di Vittorio G. non poteva essere aprioristicamente escluso sulla base di una pretesa `evoluzione’ del linguaggio verso la volgarizzazione delle modalità espressive». Ora sarà un giudice civile a stabilire se, e per quale ammontare, dovrà essere risarcito il cugino offeso nelle «virtù maschili». (Fonte Ansa)
* La Stampa, 01/08/2012
La ribellione degli uomini
di Gad Lerner (la Repubblica, 2 febbraio 2011)
Il maschio italiano schierato con le donne che si ribellano all’offesa della loro dignità? Tale è la sfida allo stereotipo del vitellone nazionale, da esporlo come minimo a sospetti e ironie. Il furbacchione si trincera dietro alle suore e alle femministe solo ora che c’è di mezzo Berlusconi, altrimenti... È roso dall’invidia per il maturo dongiovanni; si ricicla bacchettone dopo aver predicato la libertà sessuale; spia dal buco della serratura il bottino che mai riuscì a procacciarsi, traduce la frustrazione in moralismo. E avanti di questo passo: quasi dovessimo coprirci di ridicolo, noi uomini, per solidarizzare con le nostre concittadine in un paese noto ormai come il più misogino dell’occidente. Afflitto non a caso dal più alto tasso europeo d’inattività femminile (una donna su due non trova o non cerca lavoro, dato Istat 2009). Per non parlare della loro emarginazione dal potere politico.
Scatta poi un istinto atavico, più nel profondo del maschio intimidito e attratto dall’esuberanza femminile. Se quelle ragazze si offrono al desiderio del potente per trarne vantaggi, non sarà la loro una sottomissione finta? Le fameliche "lupe di Arcore" (copyright di Francesco Merlo) meritano forse di essere considerate vittime, o ha ragione piuttosto chi le addita al pubblico ludibrio come "veline ingrate"? Così i cd di Mariano Apicella imbottiti di banconote da cinquecento euro, al termine dei festini di Arcore, incoraggiano un vile rovesciamento di responsabilità, addossando alla spregiudicatezza femminile - "lei ci stava, vostro onore, trattasi di donna dai facili costumi!" - il marchio della colpa. Un falso alibi che però funziona da millenni.
Forse è venuto il momento di riconoscere che anche il maschio italiano sta subendo nella sua identità sessuale i contraccolpi della pornocrazia, divenuta caratteristica pubblica di una classe dirigente di puttanieri. Non a caso il disagio è avvertibile particolarmente fra i giovani maschi che vivono la delicata scoperta dell’eros in un contesto culturale stravolto da una tale inedita ostentazione del mercimonio. È soprattutto fra loro che si affaccia con timidezza la presa di distanze: io non vivo così il mio bisogno di relazione amorosa; desidero un altro tipo d’incontro con le mie coetanee.
Che idea dell’amore può suggerire ai giovani maschi italiani la notizia di quelle cene in cui tre settantenni, resi interessanti solo dal loro status, si trastullano con venticinque ragazze di mezzo secolo più giovani di loro? A tutti, nell’adolescenza, sarà capitata la fantasia di fare l’amore con le bellezze viste in televisione. Ma poi subentra una fase più matura, la fatica della scoperta individuale della femminilità. Contraddetta dalla visione di questa sessualità immatura per cui il potente si ricostruisce in casa, scimmiottando per capriccio lo spettacolino televisivo, la fantasia adolescenziale del dominio maschile esercitato grazie alla forza del denaro. È la trasposizione privata, ma esibita pubblicamente come credenziale di prestigio, di un’ossessione che serializza il corpo femminile plastificato.
Bambole di carne precocemente rifatte per somigliarsi tutte e corrispondere a un gusto che si distanzia dall’autenticità femminile fino a precipitare nella parodia. Altro che libertà sessuale. È la stessa bellezza dell’amore, la ricerca del piacere nella reciprocità, a subire un attentato. Tanto da provocare nei maschi frustrazione, caduta del desiderio, pulsioni sopraffattrici, mortificazione dell’eros nella virtualità del porno.
Solo in questo senso possiamo riconoscere che siamo vittime anche noi dell’offesa alla dignità della donna. Certo ha ragione suor Rita Giaretta di Caserta quando denuncia la legittimazione giunta dai vertici del potere istituzionale alla schiavitù della vendita del corpo (non solo, ma principalmente femminile) fino ai gradini più bassi della scala sociale. E s’indigna, suor Rita, per il cinismo con cui la parte maschile della nostra società sembra accettarla come norma. Ma proprio perché tale abitudine è cementata da una cultura popolare di massa di cui le televisioni di Berlusconi sono da decenni le volgari battistrada - e di cui le sue abitudini private rappresentano la caricatura parossistica - anche la reazione può e deve essere femminile e maschile insieme.
Ben lungi dalla sessuofobia, la rivolta femminile coinvolge gli uomini in un progetto di dignità comune che è la base della civiltà. Il partito dell’amore è stata la più beffarda truffa politica del premier indagato per favoreggiamento della prostituzione minorile. Ma la faticosa costruzione dell’amore, come ci ricordano pure i nostri più bravi cantautori, è l’intima fatica per cui vale la pena di vivere.
Una nuova sintesi tra emozione e ragione. La lettura tradizionale dell’assoluzione del matricida
Oreste e l’esempio del Sudafrica
Il mito che cancella la giustizia maschile
Dalla tragedia classica di Clitennestra l’idea di un diritto in grado di riconciliare uomini e donne
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 28.04.08)
Crudele, infida, violenta, adultera e assassina: il prototipo dell’infamia femminile. Questa era la fama di Clitennestra presso i greci, consolidata nei secoli dalla messa in scena, ad Atene, nel 458 a.C., dell’Orestea di Eschilo.
La storia è nota: nell’Agamennone,laprima tragedia della trilogia, Clitennestra, durante l’assenza del marito, diventa l’amante di Egisto, e quando Agamennone torna da Troia lo uccide, con la complicità dell’amante. Nella seconda, le Coefore, suo figlio Oreste ordisce, con la sorella Elettra, il piano per uccidere la madre ed Egisto. Nella terza, le Eumenidi, dopo aver realizzato il piano, Oreste è inseguito dalle mostruose Erinni, incitate dallo spettro di Clitennestra, assetato di vendetta. Per risolvere il caso, la dea Atena istituisce il primo tribunale della storia ateniese, l’Areopago, incaricato di giudicarlo: l’era della vendetta è finita per sempre, è nato il mondo del diritto.
Torniamo a Clitennestra: nelle riletture moderne, è molto diversa dall’immagine che i greci ci hanno tramandato. Per le femministe è una donna indomita, dignitosa, capace di opporsi all’infelicità cui le donne sono condannate in quella polis che un grande antichista ha definito «un club di uomini». E a partire dalla sua storia si pongono due domande: continua a esistere, oggi, la violenza di genere che arma la mano di Clitennestra? Quali sono i possibili obiettivi di una politica di riconversione del rapporto uomo/donna? Ma per capire perché Clitennestra diventa il personaggio attorno al quale si organizzano queste riflessioni è necessario andare oltre la sua morte, e seguire gli esiti del processo di Oreste.
La prima sentenza dell’Areopago, infatti, afferma un principio destinato a segnare per secoli il rapporto fra generi: Oreste viene assolto perché «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...».
Inserita nel lungo dibattito greco sulla riproduzione, l’ipotesi del ruolo secondario della madre viene ribadita da Aristotele, al quale dobbiamo una teoria sulla riproduzione che codifica, su basi scientifiche, l’identificazione della donna con la materia e dell’uomo con lo spirito. Anche le donne, spiega Aristotele, hanno un ruolo nella riproduzione: accanto allo sperma, alla formazione dell’embrione concorre il sangue mestruale, ma con un ruolo diverso. Lo sperma è sangue, come quello mestruale, ma più elaborato. Il sangue altro non è che il cibo non espulso dall’organismo, trasformato dal calore: ma la donna, meno calda dell’uomo, non può compiere l’ultima trasformazione, che dà luogo allo sperma. Nella riproduzione, dunque, è il seme maschile che «cuoce» il residuo femminile, trasformandolo in un nuovo essere. Anche se indispensabile, pertanto, il contributo femminile è quello della materia, per sua natura passiva; l’apporto maschile invece è quello dello spirito, attivo e creativo. In Aristotele, insomma, troviamo una teoria delle differenza tra generi destinata a durare per secoli, che traduce la «differenza» in inferiorità: ecco perché la storia di Clitennestra è l’archetipo che consente meglio di ogni altro di interrogarsi sul rapporto uomo/donna. Nel mito in cui la sua storia è inserita la teorizzazione della inferiorità e subalternità femminile è parte integrante ed essenziale del processo che porta alla nascita del diritto e dello Stato.
E veniamo così alle Clitennestre moderne. Le loro storie non sono meno drammatiche di quelle dell’archetipo. Penso a due esempi molto diversi fra loro, e lontani nel tempo: la Clitennestra di Dacia Maraini ( I sogni di Clitennestra, Bompiani 1981) ha perso la forza di ribellarsi, e finisce in un manicomio: la follia, spiega l’autrice in un’intervista del 1984, è la conseguenza della impossibilità delle donne di adattarsi a un mondo che non è fatto per loro. La Clitennestra di Valeria Parrella ( Il verdetto, Bompiani 2007) è vittima-complice di Agamennone, senza speranza alcuna di salvezza: versando il sangue del marito, dichiara, ha versato il suo stesso sangue. Danno molto a pensare, queste Clitennestre, e varrebbe la pena discuterne. Ma ragioni di spazio costringono a rinunziarvi per seguire il discorso sulle strategie di riconversione del rapporto. Oltre alle riflessioni femministe (prevalentemente orientate verso ipotesi di tipo conciliatorio), è importante ricordare alcune recenti riflessioni sul diritto. Lo abbiamo già detto, nell’Orestea la nascita del diritto è legata alla sconfitta della parte femminile e dunque emotiva del mondo. Ma recentemente l’idea che il diritto sia e debba essere solo ragione è stato messo in discussione anche da alcuni giuristi. Osserva ad esempio un esponente di spicco del movimento Law and literature, Paul Gewirtz, che indiscutibilmente, nell’Orestea, le forze della vendetta sono donne (Clitennestra, e le Erinni) mentre il diritto nascente è rappresentato da uomini (Apollo e i giudici, cui si aggiunge Atena, donna-uomo senza madre e senza marito). Ma nella parte finale delle Eumenidi le Erinni, sconfitte, rinunziano al loro lato sanguinario e accettano di entrare nel sistema giudiziario, svolgendovi un ruolo: è la conciliazione dei generi sul piano del diritto. L’interpretazione secondo la quale l’assoluzione di Oreste segna la sconfitta della parte femminile del mondo è da rivedere. Il diritto non può essere solo ragione: per essere giusto, deve dare spazio alle emozioni.
Con le dovute differenze, questa visione del diritto fa pensare al ruolo assegnato alle emozioni dalla «restorative justice», la teoria di una giustizia «riparativa» emersa negli anni Novanta e teorizzata da politici, accademici, lavoratori sociali, gruppi religiosi e nuove figure professionali dette «mediatori di giustizia». Schematizzando all’estremo, per la giustizia riparativa la funzione del diritto è promuovere la riconciliazione tra chi ha commesso e chi ha subito un torto. Per chiarire il concetto può essere utile ricordare che il caso più noto di giustizia riparativa è l’azione della Truth and Reconciliation Commission guidata da Desmond Tutu, incaricata di riportare l’ordine e la riconciliazione nello Stato Sudafricano. E uno degli aspetti fondamentali di questa giustizia è la considerazione data a temi quali le emozioni, negli ultimi anni sempre più al centro delle riflessioni da parte di tutti gli scienziati sociali. Nel 2002, ad esempio, è stato dedicato a questi temi un numero speciale di Theoretical Criminology, ove si legge, tra l’altro, che «per avere un dibattito più razionale sulla giustizia, dobbiamo paradossalmente prestare più attenzione alla loro dimensione emozionale ». Infine, parlando di emozioni, è impossibile non ricordare le indagini a cavallo tra diritto e filosofia di Martha Nussbaum, cui si debbono libri celebri come L’intelligenza delle emozioni (Il Mulino): per comprendere la realtà e per comprendere se stessi, dice Nussbaum, non basta la ragione. Emozioni come l’amore, l’ansia, la vergogna, hanno un ruolo etico nella costruzione della vita sociale, e contribuiscono alla elaborazione di una concezione normativa nella quale le persone sono intese non come mezzi, ma come fini e come agenti.
Rileggendo la storia di Clitennestra, si arriva non solo a mettere in discussione l’opposizione donna-emozione /uomo-ragione. Si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici. Si può arrivare persino a sognare una cultura i cui valori possono cancellare per sempre la necessità della scure.
Caro Federico, ho risposto al tuo bell’articolo sulle donne con il testo di una canzone famosa e di successo (e quindi ampiamente condiviso anche dalle donne, nel quale probabilmente si sono riconosciute) di Zucchero. Non chiudo gli occhi e non immagino nulla. Forse sei tu che pensi, o meglio, ti illudi che la condizione della donna sia migliorata grazie a quella "rivoluzione sessuale" datata 1968. I fatti dimostrano il contrario. Le teste e i comportamenti degli italiani e delle italiane non sono poi così cambiati. Non si vive di solo pane ma anche di valori e giudizi. Volenti o nolenti, in Italia, è la Famiglia il Valore Supremo ! Bisogna prenderne atto; la donna è innanzitutto sinonimo di madre, sorella, moglie, figlia e quindi FAMIGLIA.
I racconti dei protagonisti di quella rivoluzione sessuale che aveva promesso la "liberazione della donna" sono storie di fallimenti, di contraddizioni, di dolore. Le figlie e le nipoti di quella generazione che credeva di vivere "al di là del bene e del male", oggi hanno la possibilità di interrompere una gravidanza non voluta, o di deglutire "la pillola del giorno dopo", di divorziare da un uomo senza sentire il dovere di "provare a ricominciare" (perchè ricominciare è sempre più faticoso che abbandonare), ma ci siamo chiesti che cosa ne hanno guadagnato con questa riforma di mentalità e di comportamento ? Riconoscersi in quella canzone, forse, è un segnale allarmante, è un messaggio sottointeso che dovrebbe coinvolgere tutti noi e renderci conto che il coraggio vero è dire che l’Eros (la sessualità) deve essere sempre al servizio della Charitas (dell’amore), come il nostro Papa Bene-detto afferma ; è questa la vera rivoluzione sessuale !
Ti lascio con un messaggio molto inquietante di una figlia della tua mentalità: Melissa Panarello (http://www.melissap.org), che spero conosci.
"nemmeno per un attimo. non saprei nemmeno come ammazzarmi. quando al liceo leggevo seneca, avvertivo sempre un dolore fortissimo ai polsi. sentivo il suo dolore. mai, quindi, i polsi tagliati. impiccarmi? naaa...non mi vedo penzolare dal tetto: prospettive troppo diverse da quelle a cui sono abituata, sarei costretta a vedere casa mia da angolazioni assolutamente sconosciute. e, a quel punto, mi dispiacerebbe abbandonarla. i barbiturici? sono troppo incostante per vedermi morire lentamente. cos’altro abbiamo? i lanci dalle finestre? una pugnalata al cuore? prendere un cacciavite e ficcarmelo nella pellaccia? ho pensato, è vero, tante volte all’omicidio. a quello sanguinoso, terribile, premeditato.
perchè quando scrivo tengo le gambe contro il petto come se fossi una rana? perchè devo sempre fumare, mentre scrivo? perchè devo sgranocchiare cipster o salatini? perchè, mentre scrivo, sento sempre il bisogno di avere qualcuno davanti che muore, agonizzando? portatemi un morto. portatemelo e ne farò un capolavoro.
Morte morte morte...sto parlando di morte. quando ancora balbettavo e le mie parole non erano altro che suoni storpi dicevo a mia madre "mamma, ci vuole più coraggio a vivere che a morire" e mia madre mi guardava perplessa e mi diceva che ero troppo piccola per fottermi il cervello a quel modo. dovevo pensare ad altro. a giocare, per esempio. io credo di avere troppo coraggio. questo coraggio mi ammezzerà, un giorno. ne sono certa. io sono troppo curiosa, come i gatti. ieri la mia gattina è salita fino all’ultimo piano del palazzo e ha cominciato a miagolare perchè si era persa. io finirò come lei. all’ultimo piano, troppo lontana dalla realtà e dagli altri. urlerò ma nessuno mi sentirà, perchè sarò altrove. sono proprio curiosa di sapere come andrà a finire questa faccenda della vita. questa vita. è la curiosità che mi alimenta, che mi tiene in vita, che mi da e mi toglie passione, che mi scopa come un demonio. ragazzi, la curiosità: non abbandonatela mai. "
Cari saluti. Biasi
’MAMMASANTISSIMA’ E FIGLIO-PADRE ... LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: CHIESA ’CATTOLICA’ !!!
Caro Biasi ... continui ad accecarti: rileggi bene il messaggio "molto inquietante" di una figlia (non della mia, ma) della TUA mentalità. Quello che tu non riesci a capire (e che tu non hai mai osato fare) è che ella si è ribellata alla cecità e al silenzio della madre e si è interrogata in modo radicale!!! Solo su questa strada è possibile trovare se stessi ... e non bambole e non bambolotti - piene e pieni di zucchero!!! E POI capire e amare i propri genitori : ma deciditi, leggi S. Freud - il grande dottore della Legge!!! Del resto, il suo ’fratello’, Gesù, prima di parlare e parlare bene (eu-angelo) dalla Montagna (e non dalla palude dei caimani e dei coccodrilli... dei faraoni dell’antico Egitto), ha affrontato il deserto, la fame, la morte, e ogni tentazione!!! E si è ribellato ai suoi genitori, Maria e Giuseppe, come a tutti i sapienti e i sacerdoti di turno: l’obbedienza non è più una virtù!!! Ciò che non hai affatto capito del cristianesimo (a mio parere), né tu né soprattutto il tuo benedetto prof. Ratzinger, è che è il Figlio a liberare la Madre e il Padre dalla loro stessa cecità!!! Chi mette in croce il Figlio ... sono proprio loro i ’padri’ e le ’madri’ che non sanno da dove vengono e dove vanno - e non conoscono il loro stesso ’Padre’!!! Si riempiono la bocca di sacrifici e di charitas ... e uccidono, uccidono, uccidono - alla grande, come Erode!!! Capisci che cosa ti ha detto Melissa?! Ti ha detto: sveglia, e smettila di fare il ’cattolico’ - di qualsiasi tendenza!!! Abbi il coraggio di ascoltarti: da te stesso vengono le vere domande, non da altri e da altre!!! Parti, comincia: solo così, forse, potrai capire finalmente testo eu-angelico: il figliuol prodigo ... la gioia del padre e della madre, e la stessa invidia-gelosia del fratello restato a casa!!! E capire che significa essere essere umano - cristiano, cristiana, italiano, italiana .. e cosa significa Gioacchino e San Giovanni in Fiore!!! M. cordiali saluti. Federico La Sala
Caro Federico, probabilmente non hai mai affrontato seriamente una lettura delle Sacre Scritture, altrimenti non scriveresti simili castronerie ! Cristo, se leggi bene il Vangelo, ci coinvolge nella sua obbedienza ! Egli è presentato come il modello perfetto di obbedienza al Padre (Eb 5,8). La lettera agli Ebrei esprime effettivamente l’atteggiamento profondo di Cristo:"Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato" (Gv 6,38). Un’obbedienza che gli costa:"Padre, non come voglio io, ma come vuoi tu!" (Mt 26,39)
Capisco l’estrema difficoltà che noi tutti incontriamo nell’obbedire alla volontà del Padre (di fare di tutti noi degli "dei", come scrivesti tempo fa, Federico!). Egli vuole che noi mangiamo dei frutti dell’unico albero che può comunicarci la vita che non finisce mai (Ap 22,2). Ma, data la nostra condizione di creature, dobbiamo ricevere questa vita come un dono assolutamente gratuito, con un atteggiamento di ringraziamento e di benedizione. Ma l’uomo, da sempre ha ceduto alla tentazione di impossessarsi del dono come qualcosa di dovuto, di rapirlo come una preda, di conquistarlo. Noi, povere creature, vogliamo tutto e subito!Come il figliol prodigo, esigiamo che il Padre ci dia subito la nostra parte di eredità, invece di aspettare che l’ora sia venuta. Come Melissa, vogliamo bruciare le tappe della nostra crescita, rifiutiamo con orgoglio la nostra condizione di esseri temporali che possono accedere alla pienezza del Padre solo dopo una lunga maturazione.
Questa impazienza potrebbe essere benissimo la madre di tutti i vizi. L’ambizione,la furberia, la violenza, l’ostinazione, il vedere nell’altro solo uno strumento al servizio dei nostri desideri, in breve, il non amore, tutto questo non nasce forse dal terrore che ci prende di fronte al tempo che passa?
Per guarire l’uomo da questa sua orgogliosa impazienza, Dio manda suo Figlio sulla terra a condividere la nostra condizione temporale. Impariamo da Lui, caro Federico, il quale invece di essere immediatamente trasfigurato e riconosciuto tra gli uomini, come meriterebbe in quanto Figlio di Dio, accetta di esserlo solo al momento stabilito dal Padre. Accetta tutte le attese, e specialmente tutti i ritardi che gli abitanti di Nazaret o gli apostoli gli impongono. Impariamo dalla pazienza del Verbo incarnato, non ribelliamoci contro la nostra condizione mortale, ma serviamocene per dire "sì" al Padre. Questo "sì" deve passare a poco a poco nel nostro cuore. Come disse Ambrogio, "ha accolto l’obbedineza per travasarla in noi".
Non bestemmiare facendo dire al Cristo che l’obbedienza non è più una virtù, ma bensi afferma che l’obbedienza è ob-audire, "ascoltare bene" ciò che il Padre ripete a ciascuno di noi con infinita tenerezza: Tu sei il mio figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto. È questo il sacrificio perfetto di obbedienza che gli è più gradito e che riconduce a lui tutti i suoi figli dispersi, tutti i suoi figli prodighi...
Con grande stima e simpatia.Biasi
OBBEDIRE AL "PADRE NOSTRO" ... non è obbedire al fratello che si traveste da ’Santo Padre’, e nemmeno obbedire a Mammona, a ’Mammasantissima’!!! W O ITALY, VIVA LA COSTITUZIONE DEI NOSTRI ’Giuseppe’ E DELLE NOSTRE ’Marie’!!!
Caro Biasi
come volevasi dimostrare: e cosa puoi capire se abiti ancora in ’egitto’... e hai votato "sì" alla riforma della costituzione, ’partorita’ nella baita!!! Che devo dire?! Io non sono un teologo, né il tuo benedetto prof. Ratzinger!!! Ma la tua CECITA’ ... e la tua IGNORANZA DEI TESTI DELLA LEGGE E DEI TESTI EU-ANGELICI è totale: studia, studia, e studia ancora! E poi ne riparleremo.... intanto, se riesci e lo spirito del "Padre Nostro" ti assiste, vedi un po’ se riesci a tornare a casa (il figluol prodigo) e cerca di restituire l’Amore a cui sei pervenuto proprio a tuo ’padre’ e a tua ’madre’ che te L’hanno donato.... Se permetti, le mie ’lezioni’ (doni) sono finite per te. Se vuoi svegliarti, solo tu lo puoi. Così è scritto, e così E’. Con la stima di sempre, i miei più cordiali saluti.
Federico La Sala
Caro Federico, penso che sopravviverò anche senza le tue lezioni gratuite (doni). Comunque ti ringrazio per i tuoi sforzi, atti a guarirmi dalla mia presunta cecità. Capisco il tuo stupore di fronte a chi difende la propria fede ponendosi al centro della certezza. Spero solamente che tu non ti senta sottovalutato o sminuito, o addirittura ridicolizzato. Un credente come me non è necessariamente un convertito, e anche nel caso che lo sia, è raro che sia passato dall’incredulità alla fede per motivi dedotti dalla ragione, dalla storia o dall’analisi impersonale. È un’esperienza interiore incomunicabile, un avvenimento o una serie di avvenimenti convergenti (una disgrazia, un’umiliazione, un allettamento, un’esperienza di peccato o una voce) che l’hanno condotto alla fede. La conversione si colloca in regioni profonde nelle quali il pensiero chiaro penetra con difficoltà, fuorchè per giustificare a cose avvenute una risoluzione intima e irresistibile.
Se ti ho esposto le ragioni della mia fede, non ho potuto presentarti le stesse come quelle che mi hanno convinto personalmente; ti ho chiesto uno sforzo che personalmente non ho fatto e che è di un ordine totalmente diverso. Io mi sono installato in quella cittadella che tu critichi o non vuoi neanche prendere in considerazione, ma che molto probabilmente cerchi disperatamente. Per accedervi Egli ha fatto costruire strade carozzabili attraverso il bosco. Sono strade tracciate partendo dal centro:sono perfette, geometriche, irradianti. Ma tu, che non ti trovi (ancora) in cima alla torre, che vedi il castello dal di fuori, con le sue antiche mura e le sue aperture, che sei smarrito tra macchie e rovi, non sai bene nemmeno se devi andare avanti o se le aperture nascondono qualche trappola, se la vita nel castello è poi così felice e sicura; ti ferisci con i rovi, esiti e hai paura di quelle strade ben battute, che sai costruite dagli incaricati del principe e ti chiedi se non sono troppo belle per i tuoi passi...
Non avere paura, caro Federico, di percorrere quelle strade così perfette, irradianti, colme di luce per i nostri passi. Non avere paura di Cristo e della sua Chiesa! È questo il mio augurio, è questa la mia speranza.
Colgo l’occasione per chiederti umilmente perdono se in alcune occasioni ti sei sentito ferito o offeso da qualche mia affermazione.
Grazie per tua pazienza e attenzione nei miei confronti e ti faccio i miei migliori auguri per il tuo futuro e per i tuoi impegni professionali. Biasi