La COSTITUZIONE, le differenze, e l’identità-sovranità di ogni cittadino e di ogni cittadina d’Italia
Caro Biasi
hai preso un altro grosso abbaglio (come al solito chiudi gli occhi ... e non vedi altro che te stesso!). Nell’art. DONNE: IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA non si parla delle donne della tua immaginazione, ma delle donne che sono USCITE e delle giovani donne che lottano per uscire DAL SILENZIO, in cui la nostra cultura e la nostra società di ’mammasantissima’ e ’figlio-padrino-boss’ eterno e santissimo le ha per millenni confinate!!! SONO DONNE CHE HANNO LE "PALLE"* - in tutti i sensi - e sanno parlare da CITTADINE-SOVRANE a cittadini-sovrani ... e hanno molto (sia da apprendere e sia) da insegnare!!!
COSTITUZIONE ITALIANA,art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica, rimuovere gli ostacoli [...]. Leggi e rileggi con attenzione l’articolo delle donne che hanno il coraggio di prendere la parola: non aver paura, imparerai qualcosa di più su di te ... e sull’EROS e sulla CHARITAS, così da poter dare qualche consiglio al tuo benedetto prof. Ratzinger e aiutarlo ad aprire gli occhi sulla camera-reale dei nostri cittadini-re e delle nostre cittadine-regine, di ogni ’Giuseppe’ e di ogni ’Maria’ della Repubblica italiana!!! Se non lo sai ancora, la nostra COSTITUZIONE è nata da una Assemblea Costituente dove le nostre ’Madri’ e i nostri ’Padri’ hanno preso autonomamente e liberamente la parola ... e hanno deciso di dare inizio a una VITA NUOVA!!! Hai capito? E allora ... ABBI IL CORAGGIO di ascoltare: e, poi, abbi il coraggio di prendere la parola. Anche tu sei un figlio della Costituzione dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’, un cittadino italiano. Non dimenticartelo!(19.06.2006)
Con la stima di sempre, m. cordiali saluti.
Federico La Sala
* “De Testicoli della Donna”
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La Costituzione e la Repubblica che è in noi
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni
Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli
delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose
ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino
al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione
dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi
i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa
verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti,
quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna
detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle
società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che
l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente
formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e
sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne).
Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento
della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo
il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza
autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna
che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può
portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa
cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza)
ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il
controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le
coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero
quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la
distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola
che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un
profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto
che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza
dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso
la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
ANATOMIA: I TESTICOLI DELLA DONNA (G. VALVERDE, 1560) |
EUROPA 2023: ARTE, STORIA, ANTROPOLOGIA.
A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE E RI-PENSARE L’OPERA DI "EL GRECO": "LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" (1586-1588)... E ANCHE IL NASCERE (IN TERRA) E IL RINASCERE (IN TERRA E IN CIELO) - OGGI
NELLA SPAGNA DI FILIPPO II, IN UNA EUROPA, SEGNATA GIA’ DALLA RIFORMA PROTESTANTE (WITTENBERG, 1517), DALLA RIVOLUZIONE DEI "CORPI TERRESTRI" IN ANATOMIA (Realdo Colombo, amico di Michelangelo Buonarroti e professore alla Sapienza, 1448; Andrea Vesalio, medico di Carlo V prima e di Filippo II poi, 1553; e Juan Valverde de Hamusco, medico del cardinale Giovanni di Toledo, 1556/1560) E DEI "CORPI CELESTI" IN ASTRONOMIA (Niccolò Copernico, "De revolutionibus orbium coelestium,1543), E, DOPO I LAVORI DEL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563), E DOPO GLI ANNI DELLO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE DI #TERESADAVILA (1515-1582), A TOLEDO, NEGLI ANNI 1586-1588, L’ARTISTA DOMENICO THEOTOKOPULOS, DETTO "EL GRECO", PORTA A COMPIMENTO IL SUO CAPOLAVORO.
ARTE STORIA E STORIOGRAFIA:
NELL’EUROPA DEL XVI SECOLO, DOPO LA RIFORMA PROTESTANTE (1517), IL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563) E LA BATTAGLIA DI LEPANTO (1571), UNA ALLEANZA "CATTOLICISSIMA" TRA ALTARE E TRONO:
a) FILIPPO II, ALLA VIGILIA DELL’ATTACCO ALL’INGHILTERRA, VIENE "IMMORTALATO" NELLA CERIMONIA FUNEBRE DELLA ARTISTICA CELEBRAZIONE DELLA "SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" DA EL GRECO (TOLEDO 1586-1588).
b) QUADRO INGLESE DELLA CELEBRAZIONE DELLA DISFATTA DELLA FLOTTA SPAGNOLA NEL1588. "Il cosiddetto Ritratto dell’Armada, dipinto dopo il 1588 per commemorare la disfatta dell’Invincibile Armata. Elisabetta tiene la mano sul globo, simbolo di autorità, mentre sullo sfondo è raffigurato l’evento."
SCIENZA NUOVA:
NUOVO ANNO ACCADEMICO E NUOVO RETTORE ALL’UNIVERSITÀ DI MACERATA.
UN OMAGGIO A John McCourt - in ricordo dell’omaggio di James Joyce a Giambattista Vico...
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"The Vico road goes round and round to meet where terms begin. Still anappealed to by the cycles and onappaled by the recourses, we fill all serene, never you fret, as regards our dutyful cask... before there was a man in Ireland there was a lord in Lucan" (James Joyce, "Finnegans Wake").
"La strada di Vico gira e rigira per congiungersi là dove i termini hanno inizio. Tuttora inappellati dai cicli e indisturbati dai ricorsi, sentiamo tutti sereni, mai preoccupati al nostro doveroso compito... Prima che vi fosse un uomo in #Irlanda c’era un lord in Lucania" (Vico ha abitato per vari anni a Vatolla, poco distante da Paestum, Agropoli, Elea e Palinuro). ***
UNIMC: ORTO DEI PENSATORI E CORTILE DELLA FILOSOFIA. *
Chiarissimo John McCourt, augural-mente, per ben iniziare i lavori e meglio illuminare il cammino nella nuova #direzione, ripensando al profondo legame di James Joyce con Giambattista Vico (vissuto per quasi dieci anni in Lucania, oggi Cilento), forse, non è male ricordare di considerare la particolare rilevanza per il "Dip. di Scienze della formazione, dei beni culturali e del turismo", dell’antica città di Elea - Velia /Ascea), invitare a rileggere il "Poema" di Parmenide e a ripercorrere la strada che portava sull’acropoli, al tempio della Dea Giustizia (Dike): come si sa, la via non passa e non è mai passata attraverso la cosiddetta "Porta Rosa", ma attraverso il ponte, il viadotto che passa appunto sopra la cosiddetta "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa). Contrariamente a quanto pensava Platone (e hanno pensato nei secoli i suoi "nipotini"), il #Logos della città di Parmenide, non il Logo del padrone di una #caverna, era ed è il fondamento stesso del dialogo, «l’unico ponte tra le persone» (Albert Camus). Moltissimi auguri. Buon inizio...
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ARCHEOLOGIA, PSICOANALISI, E PLATONISMO PER IL POPOLO:
Osare mettere il dito nella "piaga" e interrogarsi sulla storia del nome della "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa#Storia). A mio parere, la "cosa" è carica di teoria e qui è opportuno (per capire) ricollegarsi a Freud e andare oltre Lacan: è una questione di immaginario e di una "logica" più che bimillenaria e ... di "fretta".
L’Archeologo, probabilmente troppo eccitato dalla scoperta, ha voluto rendere omaggio alla propria compagna, alla luce della propria e generale tragica tradizionale concezione della donna (un vicolo cieco in cui mettere il proprio seme e far fiorire la pianta), senza fare i conti con le spine della Dea Giustizia (Dike) e la Costituzione (il Logos) materiale e spirituale della stessa città di Elea (come della Repubblica Italiana): "Il dialogo è l’unico ponte tra le persone" (Albert Camus)!
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QUESTIONE ANTROPOLOGICA: L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!! E CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CITTADINI E CITTADINE D’ITALIA!
Federico La Sala
“Capatrici di pace”
Un’analisi dei teologi Scarafoni e Rizzo: «Recuperare l’intreccio ecumenico di sguardi fraterni in Cristo»
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo*
Sta per finire l’anno accademico e rimettendo in ordine la nostra biblioteca di casa, ci è capitato fra le mani il bel libro del 2017 «Le donne nel cantiere di San Pietro in Vaticano» curato da Assunta Di Sante e Simona Turriziani. Tratta delle artiste, artigiane e imprenditrici che lavorarono «all’ombra del Cupolone contribuendo ad accrescere la bellezza della Basilica Vaticana», svolgendo un ruolo importante nella Fabbrica di San Pietro.
Scrive Paola Torniai: «Nel 1673 Clemente X Altieri commissiona al mosaicista Orazio Manenti il restauro della Navicella, raffigurante Gesù che salva dalla tempesta la nave degli apostoli, realizzata da Giotto per il Cardinale Jacopo Stefaneschi, in occasione del primo giubileo indetto da Bonifacio VIII. Manenti deve risarcire l’opera, originariamente collocata nell’atrio della primitiva San Pietro e danneggiata durante i lavori di ampliamento sotto Paolo V Borghese. ... Manenti recupera ogni più minuta pietruccola, avvalendosi di maestranze femminili». Le «capatrici dell’immondezze de smalti». Esse a mani nude frugavano a terra tra i calcinacci per recuperare smalti vecchi che sarebbero stati rifusi in smalti nuovi. Lavoravano tra «la polvere che inaridisce la pelle e soffoca il respiro, il disagio di prostrarsi per ore alla ricerca di tessere musive, la difficoltà di scavare a mani nude, abrase e ferite, tra calcinacci e materiali ammassati. ... Le capatrici della Navicella ... sono state mani provvidenziali».
Questa storia suggestiva di donne, ci ha fatto riflettere sulle devastazioni che stiamo vivendo in questo momento, e che confermano i moniti di Papa Francesco che da tempo metteva in guardia contro i «venti di guerra». Anche la Chiesa di Cristo, specialmente nelle relazioni ecumeniche e nella riflessione teologica, ha subito forti scossoni come la Navicella di Giotto. Sono cadute tante tessere: fino a pochi mesi fa l’auspicio di molte chiese era che i cristiani tutti insieme fossero parte viva e coraggiosa della società civile, promotori di giustizia, di pace e misericordia per l’umanità. Quell’intreccio ecumenico di sguardi fraterni in Cristo sembra essere crollato in un attimo tra le macerie che le bombe e i missili producono nei territori di guerra.
C’è bisogno di «capatrici di pace». Un lavoro paziente di recupero, in mezzo a quelle rovine, che può essere fatto bene dalle donne, ancora troppo poche nei dialoghi e nelle trattative fra le parti, di fatto assenti ai tavoli dove si decide la guerra. La pace si costruisce recuperando proprio quegli intenti così belli ispirati dallo Spirito santo, come lo scintillio delle tessere musive «capate» che allude «allo splendore della sostanza divina e all’incorrotta chiesa primitiva».
Anche nella riflessione teologica è essenziale valorizzare il contributo delle donne. Abbiamo avuto modo di scrivere già da vari anni che è necessario sviluppare studi sugli «attributi di Dio», specialmente sull’onnipotenza divina, con una maggiore sensibilità nei confronti dei risvolti antropologici. «Lo sforzo della teologia attuale deve essere quello di vincere ogni riferimento individualistico ed egoistico nella presentazione di Dio di fronte alle creature, che possa giustificare una persistenza dell’egoismo e dell’individualismo nelle creature stesse». Dio non è potente al modo umano: «il concetto di potenza è ambiguo perché spesso ha un forte legame con l’egoismo». Nel Vangelo «l’onnipotente che opera con il suo braccio pieno di misericordia e bontà è contrapposto ai potenti, ai ricchi e ai superbi che opprimono i deboli, i poveri e gli umili».
Le bombe mettono in evidenza un Dio egoista e prepotente invocato dai duri di cuore, dai superegoisti privilegiati, per «occupare spazi» e legittimare «strutture di peccato» che fanno sembrare normale ed inevitabile il male inflitto agli ultimi e ai poveri. Disprezzano un Dio debole incapace di difendere le «vittime innocenti».
I teologi devono essere coraggiosi proprio per negare esplicitamente l’egoismo in Dio. «Dire che Dio è buono, benché sia tutt’altro che scontato, non è lo stesso che dire che Dio non è cattivo. Dire che Dio è amore, benché ripete il cuore stesso della rivelazione (cfr. 1Gv 4,8; Gv 3,16), non è lo stesso che negare in Dio l’egoismo». I battezzati che si consacrano a Dio e rinunciano al diavolo, in realtà «come un fiume carsico» nelle difficoltà e nelle prove o per giustificare interessi politici ed economici, sono tentati di affidarsi ad un Dio immaginato come un guerriero, che a suo piacimento riprende l’arco deposto nel cielo, quando ha stabilito l’alleanza della pace.
Se l’uomo non cambia idea su Dio è perché forse non vuole cambiare lui, rimanendo chiuso nel suo egoismo, che giustifica con il meccanismo di proiezione; un gioco sottile e menzognero (al quale si presta talvolta la teologia) di un uomo che sostituisce il Dio vero dell’amore e della libertà con il Dio della guerra. In tal modo rivela come il suo cuore sia chiuso in una autoreferenzialità così insuperabile da crearsi e raccontare per vero un Dio «a sua immagine».
* Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo insegnano insieme teologia in Italia e in Africa, ad Addis Abeba. Sono autori di libri e articoli di teologia.
L’Intelligenza Artificiale può crescere un feto. L’esperimento cinese
Secondo gli scienziati dell’Istituto di ingegneria e tecnologia biomedica di Suzhou, la gestazione artificiale sarà più efficiente e sana di quella umana. I limiti non saranno tecnologici, ma etici, e si incrociano con crisi demografica ed emancipazione femminile. Non mancano le applicazioni “buone”, come nel trattamento dei bimbi nati prematuri
di Otto Lanzavecchia (f! formiche, 08/02/2022)
Si è concretizzato un altro sviluppo scientifico finora relegato ai domini della fantascienza. Un gruppo di scienziati cinesi ha creato un sistema di gestazione, un vero e proprio grembo artificiale in grado di far crescere un feto in sicurezza, sotto la gestione di un’intelligenza artificiale (IA) che monitora e accudisce il nascituro con un livello di efficienza irraggiungibile dall’essere umano, sostengono i creatori.
La “mamma IA” è stata sviluppata dai ricercatori dell’Istituto di ingegneria e tecnologia biomedica di Suzhou, nella provincia orientale del Jiangsu, che hanno descritto il sistema in un articolo della versione locale del Journal of Biomedical Engineering. Ora sta gestendo grandi quantità di embrioni animali, spiega l’articolo, ma la tecnologia alla base potrebbe, in futuro, eliminare la necessità per una donna di crescere in grembo il proprio bambino, “permettendo un’ evoluzione del feto più sicura ed efficiente fuori dal suo corpo”.
Il grembo artificiale dell’Istituto è composto da diversi contenitori in grado di ospitare un embrione a mollo in una miscela sterile di nutrienti. È stato sviluppato per permettere di espandere le sperimentazioni senza che i tecnici debbano seguire e documentare manualmente le condizioni di ogni embrione, cosa che avrebbe reso impossibile aumentare la scala della ricerca.
Il nuovo sistema è in grado di monitorare gli embrioni continuamente, attraverso immagini ad altissima risoluzione e sensori, e regolare in tempo reale la temperatura, il rifornimento d’aria e l’acqua e l’apporto di nutrienti. Può anche classificare gli embrioni in base alla salute e al potenziale di sviluppo, e indicare ai tecnici quali embrioni sviluppano delle deformazioni o muoiono, affinché vengano rimossi dal sistema.
Un orizzonte etico
Al momento gli scienziati dell’Istituto di Suzhou stanno studiando lo sviluppo e il processo di gestazione utilizzando embrioni di topo. Ci sono limiti legali, prima ancora che etici, per la sperimentazione su quelli umani: la legge vieta di condurvi esperimenti oltre le due settimane di sviluppo. Ma secondo il caposquadra degli scienziati di Suzhou, Sun Haixuan, le fasi successive racchiudono risposte da scoprire.
“Ci sono ancora molti misteri irrisolti sulla fisiologia del tipico sviluppo embrionale umano”, ha detto lo scienziato al Journal of Biomedical Engineering, aggiungendo che questa tecnologia “non solo aiuterebbe a comprendere ulteriormente l’origine della vita e lo sviluppo embrionale degli esseri umani, ma anche a fornire una base teorica per risolvere i difetti di nascita e altri importanti problemi di salute riproduttiva”.
Gestazione e nascita prematura
La gestazione artificiale non è una novità, anche se gli ultimi anni hanno segnato diversi sviluppi importanti. Non è ancora chiaro se questa tecnologia permette di portare a termine un periodo di gestazione, ma alcuni scienziati israeliani sono riusciti ad arrivare a metà strada, sempre utilizzando embrioni di topo. È successo anche per i primati: nel 2019 ricercatori pechinesi hanno portato l’ovulo fertilizzato di una scimmia allo stadio in cui si formano gli organi.
Nello stesso anno un gruppo di scienziati olandesi ha detto alla BBC che avrebbero costruito nel giro di un decennio un grembo artificiale in grado di salvare i bambini nati prematuramente. E proprio questo è lo sviluppo più immediato e accettabile di tale tecnologia: la gestazione artificiale dei nati prematuri in un incubatore 2.0 che simuli il grembo materno.
Nei Paesi dotati di buoni ospedali, scriveva Jenny Kleeman, c’è il 24% di possibilità di tenere in vita un nato a 23 settimane. La nascita pretermine è la più grande causa di morte e disabilità tra i bambini sotto i cinque anni nel mondo sviluppato: l’87% di quelli che ce la fanno “saranno soggetti a gravi complicazioni, come malattie polmonari, problemi intestinali, danni cerebrali e cecità”. Un grembo artificiale potrebbe dare ai bambini nati troppo presto una maggiore possibilità di sopravvivenza, e salute, rispetto al passato.
Tra demografia e distopia, le domande per il futuro
Spingendo lo sguardo più in là, andranno esaminate le pesanti implicazioni della gestazione artificiale di un essere vivente. A partire dalla possibilità di poter crescere in laboratorio degli organi (anche animali) in grado di salvare delle persone. Sviluppare la tecnologia adatta per far nascere degli umani in vitro (ectogenesi) non sarà un problema, ha detto un ricercatore anonimo al South China Morning Post, che per primo ha rilanciato i contenuti dell’articolo del Journal of Biomedical Engineering. I problemi saranno di carattere etico.
La testata di Hong Kong ha subito correlato la tecnologia alla base della “mamma IA” alla crisi demografica cinese. Dal 2016 il numero di neonati in Cina si è quasi dimezzato, anche per via delle giovani cinesi, sempre più emancipate, che scelgono di rifiutare matrimonio e figli per perseguire i propri obiettivi - una tendenza anche occidentale. Intanto un nuovo studio avverte che la popolazione cinese potrebbe dimezzarsi nei prossimi 45 anni.
In Cina, come anche altrove, la maternità surrogata è proibita. Ma non è vietato (nemmeno sulla rete locale) discutere delle possibili implicazioni della gestazione artificiale. In futuro un ospedale potrebbe diventare anche un laboratorio di gestazione; sulle chat si legge che la tecnologia potrebbe liberare le donne dalla gravosità della gravidanza e favorire l’equità sociale, potrebbe aprire nuove frontiere per chi non è in grado di far nascere un figlio in maniera naturale, potrebbe permettere alla lunga mano delle autorità di sottrarre ai genitori naturali un feto, perché ritenuti inadeguati, o creare dei “figli dello Stato”. Starà alle società anticipare lo sviluppo tecnologico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA (2008) "NON CLASSIFICATA"!!!
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità femminile *
Le cellule riproduttive femminili (ovociti), a differenza di quelle maschili (spermatozoi), vengono prodotte prima della nascita, durante lo sviluppo degli organi genitali.
Nel corso della vita questa "riserva" si riduce poi progressivamente mensilmente fino ad esaurirsi del tutto (menopausa). Ogni donna nasce con 1-2 milioni di follicoli e alla pubertà ne rimangono 500.000. Solo 500 di questi escono dall’ovaio e gli altri si distruggono.
Il sistema riproduttivo femminile dipende dal ciclico reclutamento follicolare, dalla selezione di un unico follicolo dominante, dall’ovulazione e dalla formazione del corpo luteo. Se la fecondazione e di conseguenza l’impianto non avvengono, il corpo luteo scompare, l’endometrio si sfalda e compare la mestruazione.
Dalla pubertà alla menopausa, circa ogni mese, quindi, il corpo femminile si prepara ad un’eventuale gravidanza. Se questa non avviene, compare una nuova mestruazione. Il ciclo mestruale ha una durata variabile tra i 21 e i 35 giorni. Mediamente è di 28 giorni, ma nell’adolescente può essere spesso irregolare.
Dal secondo giorno dall’inizio delle mestruazioni, comincia la cosiddetta fase follicolare: i follicoli che portano a maturazione la cellula uovo si attivano nuovamente, sia per far maturare l’ovocita sia per provvedere alla sintesi degli ormoni (estrogeni e progesterone) necessari per ricostituire l’endometrio.
Intorno al 14° giorno avviene invece l’ovulazione, momento in cui possono avvenire la fecondazione e il concepimento. Il periodo fertile dura circa due giorni (durata in vita della cellula uovo).
Gli spermatozoi sopravvivono invece nel corpo femminile molto di più, anche fino a 4 giorni, per cui un rapporto sessuale avvenuto anche 3 o 4 giorni prima dell’ovulazione può portare alla fecondazione. Per tutto il periodo fertile, quindi, la fecondazione è possibile. Dopo l’uscita della cellula uovo il follicolo si trasforma nel corpo luteo, che produce progesterone, per predisporre l’utero a ricevere l’impianto della cellula uovo fecondata.
Questa fase del ciclo si chiama fase luteale o secretiva. In caso di mancata fecondazione l’uovo viene espulso con la mestruazione. La perfetta sincronia della fisiologia femminile è peraltro continuamente minacciata da insulti o da difetti ad esempio patologie endocrine ovariche od extraovariche che possono ad esempio inficiare l’ovulazione rendendo pertanto la donna infertile o subfertile.
Con l’aumentare dell’età, nella donna si verifica non solo una progressiva riduzione del patrimonio follicolare ma anche un aumento percentuale di ovociti con alterazioni cromosomiche, che mensilmente vengono messi a disposizione dell’ovaio stesso.
Anche l’utero subisce un deterioramento funzionale che riduce la capacità dell’endometrio di interagire con l’embrione e favorisce la possibilità di aborti spontanei; inoltre si registra un incremento dell’incidenza di patologie quali endometriosi e fibromi che ulteriormente riducono la fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità maschile
Lo spermatozoo è la cellula riproduttrice dell’uomo, fondamentale per la sua fertilità, in quanto incontrandosi con l’ovocita femminile da origine all’embrione.
La spermatogenesi e la produzione di testosterone sono regolati da un sistema integrato di controllo. L’ipotalamo, attraverso la secrezione pulsatile dell’ormone rilasciante le gonadotropine (GnRH), controlla la secrezione ipofisaria dell’ormone follicolo-stimolante (FSH) e dell’ormone luteinizzante (LH) i quali a loro volta stimolano il testicolo a produrre rispettivamente gli spermatozoi e il testosterone.
Il testicolo è costituito da due compartimenti distinti, anche per funzioni: quello tubulare dove si trovano le cellule di Sertoli e gli spermatozoi in diversi stadi di maturazione, e quello interstiziale con le cellule di Leydig deputate alla produzione di testosterone. La spermatogenesi è un processo complesso che culmina con la produzione degli spermatozoi maturi e ha una durata di circa 74 giorni.
Le cellule di Sertoli sono importanti per il sostentamento delle cellule della linea seminale e per la loro normale maturazione.
Gli spermatozoi da stadi più immaturi progrediscono dalla base al centro del tubulo seminifero (lume) secondo i diversi stadi di maturazione (spermatogonio, spermatocita, spermatide e spermatozoo).
Gli spermatozoi lasciano i testicoli attraverso un sistema di dotti:
e raggiungono le vescichette seminali che, con le loro caratteristiche secrezioni, insieme alla prostata, contribuiscono alla formazione di gran parte del volume finale dell’eiaculato e fungono anche da contenitore tra un’eiaculazione e la successiva. Chiaramente una qualsiasi disfunzione o blocco della spermatogenesi o danno di queste strutture può comportare alterazioni della fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva....
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
VIVA L’ITALIA!!! Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
Nutrici di germi inseminati
di Valentina Pazé (L’Indice, 2 Aprile 2020)
In questo breve saggio Eva Cantarella torna su uno dei suoi cavalli di battaglia: il tema della condizione della donna nell’antica Grecia, e in particolare nella società ateniese. Lo fa a partire dalla rivisitazione del mito esiodeo della “prima donna”, Pandora, che è stato spesso accostato a quello biblico della creazione di Eva, ma che esprime - in effetti - un tasso di misoginia ben maggiore di quello rinvenibile nel testo fondativo della tradizione ebraico-cristiana. Mentre Eva, nata da una costola di Adamo, viene creata per fargli compagnia, sia pure in una posizione subordinata, Pandora, frutto di un impasto di acqua e terra che nulla ha di umano, fa la sua comparsa per punire l’umanità dopo il furto del fuoco da parte di Prometeo. Dotata di aspetto piacevole, “mente sfrontata” e “cuore pieno di menzogne”, è destinata a soggiogare gli uomini col suo fascino e a renderli irrimediabilmente infelici.
Le variazioni sul tema della donna “genere maledetto”, o comunque genere “a parte”, radicalmente altro rispetto a quello maschile, sono molteplici nella letteratura greca: da Semonide di Amorgo, con il suo bestiario di donne-scrofa, volpe, gatta, scimmia, ape - una più funesta dell’altra -, alle successive, più meditate, riflessioni di medici e filosofi, a confronto con una differenza immancabilmente interpretata in termini di manchevolezza e inferiorità.
Sullo sfondo - osserva Cantarella - non è difficile intravedere una “grande paura” e una “grande invidia” maschile, derivanti entrambe dall’“indiscutibile constatazione che i figli nascevano dal corpo delle donne”. È, ancora, soprattutto il mito a rivelare questi sentimenti inconfessabili: Zeus che ingoia l’amante Metis insieme alla figlia che porta in grembo, Atena, che sarà poi “partorita” dalla sua testa; Zeus che - dopo avere folgorato Semele, incinta - raccoglie il feto tra le ceneri e lo inserisce in una delle proprie cosce, da cui nascerà Dioniso. Casi di “paternità surrogata” ante litteram - commenta Cantarella - in cui una figura maschile riesce con successo ad espropriare le donne del loro potere di procreare.
Quanto viene vagheggiato nel mito continua, nell’età classica, a far discutere gli intellettuali, che si interrogano sul ruolo svolto dalle donne nel processo generativo. Giungendo, in alcuni casi, a conclusioni paradossali (che suscitano qualche brivido in chi segue il dibattito odierno sulla maternità surrogata), come quella di chi riconosce alla donna esclusivamente la funzione di “contenitore” del seme maschile.
Questa era l’opinione degli stoici, ma era probabilmente anche espressione di un sentire comune, se nelle Eumenidi di Eschilo l’areopago assolve il matricida Oreste con questa motivazione:
“Non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio”, “ella è nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che feconda”.
Una tesi che Aristotele riformulerà, precisando che la donna fornisce pur sempre la materia indispensabile alla procreazione (identificata con il sangue mestruale), ma che è il maschio a trasmettere la forma, come l’artigiano che plasma la cera. Cantarella non approfondisce qui le molteplici difficoltà che una simile teoria solleva, agli occhi dello stesso Aristotele: se è il padre, e solo il padre, ad imprimere la sua impronta sul nascituro, come si spiegano i casi in cui i figli assomigliano alla madre? E come si giustifica la nascita di figlie femmine? (Su questi temi è ancora fondamentale il volume curato da Silvia Campese, Paola Manuli e Giulia Sissa, Madre materia. Sociologia e biologia della donna greca, Boringhieri, 1983). Cantarella si sofferma invece sul contributo dei medici, alle prese con le “strane malattie” delle donne, alla conoscenza del corpo femminile, molto meno accessibile di quello dei maschi, i cui corpi squartati in battaglia offrivano per lo meno qualche occasione di osservazione. Ed ecco allora “uteri vaganti” e “vergini folli”, che i medici della scuola ippocratica suggeriscono di curare principalmente attraverso il matrimonio e la gravidanza.
Le ben note discriminazioni giuridiche e politiche nei confronti delle donne, di cui l’autrice si era già occupata in L’ambiguo malanno (Feltrinelli, 2013) e in altre pubblicazioni successive, vengono di conseguenza. Nel concludere il volume, Cantarella insiste soprattutto sull’esclusione di bambine e ragazze da ogni forma di educazione: la discriminazione forse più grave, perché apre la strada a tutte le altre. E non si può qui non ricordare come questa preoccupazione fosse al centro di un classico del pensiero femminista, come A vindication of the rights of women di Mary Wollstonecraft.
A proposito di femminismo, l’autrice non risparmia qualche frecciatina - che sarebbe stato bello fosse maggiormente sviluppata - nei confronti di letture ingenue di “Platone femminista” e Bachofen “paladino del matriarcato”. Oltre che di concezioni essenzialistiche della differenza di genere, che proprio dalla cultura greca hanno avuto origine.
La Consulta: "Il cognome del padre è retaggio patriarcale, basta disparità"
"Non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna"
di Redazione ANSA*
ROMA L’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre? Con questo dubbio, la Corte ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità dell’articolo 262, primo comma, del Codice civile, che detta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio. L’ordinanza n. 18 depositata oggi (relatore il vicepresidente Giuliano Amato) spiega perché la risposta a questo dubbio sia pregiudiziale rispetto a quanto chiedeva il Tribunale di Bolzano.
L’attuale sistema di attribuzione del cognome paterno ai figli "è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia", e di "una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna".
Lo sottolinea, riprendendo una sua pronuncia del 2006, la Consulta, nell’ordinanza con cui ha sollevato davanti a se’ stessa la questione sulla legittimità costituzionale dell’articolo 262 del Codice civile che stabilisce come regola l’assegnazione ai figli del solo cognome paterno.
La scienza avanza di sbieco
Ilaria Capua: le scoperte arrivano quando si lascia la via maestra. Esce un saggio (Egea) in cui la virologa esamina una serie di vicende che hanno segnato la via del progresso
di GIAN ANTONIO STELLA *
«Un’industriosa macchinetta/che mostra all’occhio maraviglie tante/ ed in virtù degli ottici cristalli/ anche le mosche fa parer cavalli». Voleva spalancare sbalorditi gli occhi di tutti, Carlo Goldoni, dando alle stampe nel 1764, tra i Componimenti diversi, in occasione della vestizione di Contarina Balbi nel Regio Monastero delle Vergini, Il Mondo Novo. La descrizione di uno strumento ottico che a cavallo tra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo incantava nelle fiere i nostri nonni, mostrando loro cosa c’era in giro per il mondo. Facendoli divertire, facendoli imparare.
Che Ilaria Capua abbia letto o meno quella chicca letteraria non è importante. Certo è che la virologa, diventata famosa anni fa per aver messo a disposizione della comunità scientifica la sequenza genetica del virus dell’influenza aviaria, indicata dalle riviste scientifiche tra gli astri nascenti, eletta deputata con Scelta Civica, finita in mezzo a un’inchiesta della magistratura sotto il titolo «Trafficanti di virus», assolta e tornata amareggiata in America per dirigere un centro d’eccellenza alla University of Florida, cerca di battere la stessa strada. Divertire e spiegare, spiegare e divertire.
Così, dopo aver scritto I virus non aspettano (Marsilio) sul suo percorso di «ricercatrice globetrotter», L’abbecedario di Montecitorio (In edibus) sulla esperienza parlamentare e Io, trafficante di virus (Rizzoli) sulle vicissitudini giudiziarie impossibili da chiudere col «lieto fine», la scienziata esce dopodomani, giovedì 20, con un nuovo libro, Salute circolare. Una rivoluzione necessaria (Egea). Cioè? «Le idee che hanno rivoluzionato (ovvero trasformato con un movimento circolare) le nostre conoscenze nel campo della salute» non sono arrivate «dalla disciplina stessa ma da una disciplina accanto o addirittura da tutt’altra parte. In ogni caso rompendo gli schemi pre-esistenti».
Da lì Ilaria Capua, introdotta da una prefazione del filosofo Umberto Curi («Ha scritto un libro che non corrisponde in alcun modo ai protocolli dei lavori scientifici dedicati alla storia della medicina, né si preoccupa minimamente di questa negligenza, offrendoci tuttavia un testo vivo, ricco, attraente, a tratti spumeggiante...»), ha cercato di spiegare come ciò che più conta nelle scoperte importanti sia appunto la capacità di scartare di lato. «Fuori» dal contesto.
«Una piccola percentuale della popolazione non riesce a distinguere il lato destro dal sinistro di se stessi e quindi del mondo circostante», scrive la virologa. «Il processo di lateralizzazione degli individui avviene intorno alla prima elementare e se perdi quella finestra di consapevolezza sei finito: mai e poi mai le parole destra e sinistra avranno un significato per te. Quindi i non lateralizzati non sono capaci di seguire un’indicazione stradale come “vai prima a destra, poi prendi la seconda a sinistra”. Si smarriscono frequentemente, spesso infilano i corridoi dalla parte sbagliata. Allo stesso tempo, però, il non lateralizzato sa che destra e sinistra sono solo in testa: sono una congettura e non una caratteristica intrinseca delle cose, anche se a tutti sembra il contrario».
A farla corta: per fare avanzare le intuizioni, la ricerca, la conoscenza, il vero insegnamento «è cercare ogni tanto di lasciare la strada maestra tracciata da altri...». Come capitò per esempio a un «grande amore» della Capua, il fiammingo Andreas van Wesel (per noi Andrea Vesàlio), il fondatore della moderna anatomia che a 23 anni, nel Cinquecento, parte dalle Fiandre, si laurea all’Università di Padova («culla della rivoluzione scientifica», per lo storico Herbert Butterfield) e viene nominato docente di chirurgia per insegnare l’anatomia. «Cosa che fa a modo suo: per le dimostrazioni si serve di uno scheletro intero e di singole ossa. Ricorre anche a disegni per illustrare la forma dei vasi e dei nervi. I suoi studi meticolosi e attenti lo portano su di un terreno inaspettato: si rende conto che quello che insegna ai suoi allievi, che all’epoca era ancora basato soprattutto sull’opera di Galeno, non corrisponde del tutto a ciò che vede ogni volta che osserva un cadavere». I contemporanei, in buona parte, la prendono malissimo: come osa questo ragazzo mettere in discussione il grande medico greco? Lo stronca su tutti il suo maestro Jacques Dubois, liquidando la sua opera rivoluzionaria De humani corporis fabrica come l’«esempio più pericoloso di ignoranza, ingratitudine, arroganza e empietà».
Profondamente scosso dal rifiuto a priori, Vesalio «lascia la sua cattedra a Padova, brucia tutti i suoi appunti e si trasferisce in Spagna a fare il medico di Carlo V. Continuerà tutta la vita a difendere le sue scoperte dagli attacchi, ma a 28 anni il periodo più fecondo della sua vita è forse irrimediabilmente terminato». Morirà a Zacinto, non ancora cinquantenne. Forse di ritorno da un viaggio in Terrasanta: «Pensa che beffarda la vita, anzi, che beffarda la morte. Il corpo di Vesalio, il corpo che ha disegnato i corpi che han fatto studiare tutti i medici del mondo, non è stato mai trovato».
Ma sono tutte, le storie raccontate da Ilaria Capua, a tenere insieme la scienza, il coraggio, la scommessa sul futuro. Come nel caso di Girolamo Fracastoro, medico, filosofo e astronomo, che «non aveva a disposizione il 99 per cento» delle cose che sappiamo adesso, eppure intuì «il meccanismo dei contagi» e che «le infezioni siano dovute a microrganismi portatori di malattia», tre secoli prima che fosse possibile verificarlo. O ancora nel caso di Antoni van Leeuwenhoek, il commerciante di stoffe olandese che, ispirato dall’«occhialino per vedere le cose minime» di Galileo Galilei, mise a punto nel Seicento microscopi via via più perfezionati per capire meglio la natura dei tessuti che vendeva, finendo per «diventare un ingranditore seriale» curioso «di tutto, tutto quello che gli capitava a tiro: polvere da sparo, spermatozoi, globuli rossi, chicchi di caffè, minerali», fino a quando in una goccia d’acqua di un laghetto finì per «scoprire l’esistenza di piccole creature che chiamò diertgens, “animaletti”».
Il mondo invisibile diventava vivo. E dopo una visita sul campo di tre rappresentanti, perfino la Royal Society superò ogni diffidenza ed anzi lo accolse tra i suoi membri. Lui ringraziò per l’onore, ma non si fece mai vedere. Anzi, non rivelò mai i suoi segreti e se li portò nella tomba. «Beh, non si fa», commenta Ilaria Capua. «La conoscenza si costruisce sul lavoro altrui: se tutti si fossero comportati come lui, si sarebbe dovuto ricominciare daccapo ogni volta e staremmo ancora alle pitture rupestri». Ma come nascondere, insieme, una nota di simpatia? In fondo, come si dice a Venezia, «se no i xè mati no li volemo».
* Corriere della Sera, 17 giugno 2019 (ripresa parziale, senza immagini).
Donne che fanno paura
Platone. Le riflessioni non arrabbiate ma ponderate di Adriana Caravero su eros, figure femminili e sul parto, dove il filosofo riserva agli uomini il ruolo di «ostetrici dello spirito»
di Maria Bettetini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23.09.2018)
Guerriere o sacerdotesse, le donne di Platone fanno un po’ paura. Come tutte le donne raccontate dai testi greci che a noi sono giunti, pensiamo a Circe, a Medea, alla prima fra tutte, quella Pandora che arrivò in un mondo abitato solo da maschi per scoperchiare il vaso dei mali, come racconta Esiodo. Una donna, una filosofa, ha studiato per una vita questi testi, ingaggiando con loro una lotta in punta di filologia. Ora, per onorarne l’impegno, Olivia Guaraldo ha raccolto dieci brevi saggi di Adriana Cavarero su Platone, editi e no. Si va da un Platone e la democrazia, del 1973, fino al 2017 con Per un’archeologia della post-verità.
Sono scritti «femministi», per usare un aggettivo che ha un suono obsoleto, ma che ritorna nelle pagine del volume? Preferisco pensare che siano riflessioni, non arrabbiate ma ponderate, su pagine milioni di volte indagate, questa volta studiate da un altro punto di vista. Che non è quello, non insensato ma troppo sentito, del linguaggio astratto del maschio da contrapporre alla sensibilità e alla passione della femmina. È quello piuttosto di chi vuole, semplicemente, studiare.
Così sorge quel confronto tra Omero e Platone che snida una sorta di invidia del filosofo per il poeta, capace di raccontare la fragilità della vita umana e di consegnarla alla memoria. I versi, ispirati dalla figura femminile della Musa, non hanno incertezze e sono caratterizzati da bellezza e armonia, mentre il parlare del filosofo - se pur alto - si deve limitare a indicare la bellezza, a invitare a perseguirla come unica vera fonte della felicità, secondo il tema greco dell’identità di bello e bene, o almeno del primo che proprio Platone nel Filebo definisce «vestibolo del bene». Ma non è la bellezza.
Inevitabile a questo punto la lettura delle pagine di Cavarero sul Simposio e sulla figura di Diotima, da cui ha preso nome proprio il gruppo di pensatrici sorto a Verona intorno alla filosofa, nonché la loro rivista. Diotima è la donna che ha rivelato a Socrate i segreti dell’amore, di quell’eros che solo inizialmente e parzialmente è amore corporeo. Il discorso è reso particolarmente interessante dalle opposte posizioni dei due «combattenti»: Platone per bocca di Socrate che riporta il discorso di Diotima non fa altro che strappare l’eros al corpo per condurlo sempre più lontano, al distacco da ogni materialità, all’amore del bello in sé. Cavarero intende invece la corporeità come unico possibile luogo di abitazione del soggetto e quindi delle sue passioni e azioni, dell’amare e dell’essere amato.
Come negare questa forza dell’antico principio di individuazione? Qui si scopre anche la profonda contraddizione della filosofia platonica in tutte le sue forme, la sublimazione del logos che però rifiutando ogni legame con la materia si perde in una sorta di collettività nebulosa, che - nota Cavarero - se garantisce immortalità all’umano, la nega al singolo uomo. Diotima di Mantinea dunque: sacerdotessa, straniera, donna.
Tre gradi di lontananza dal filosofo, da Socrate, a cui si aggiungono i due del discorso riportato, perché Socrate racconta l’incontro con Diotima, ed è a sua volta raccontato da Platone. Non finisce qui: per dire quanto sia difficile parlare di eros, tutto il dialogo che racconta del banchetto serale è narrato come una narrazione di Apollodoro che riporta ciò che gli ha detto Aristodemo, che fu presente al convivio, avvenuto però tre anni prima. Ancora tre gradi di distanza.
Ma torniamo a Cavarero: la sacerdotessa di Mantinea (cittadina vicinissima ad Atene, ma per gli ateniesi è comunque terra straniera e inferiore rispetto alla capitale) è uccisa dallo stesso discorso che fa. È oggetto di matricidio, perché - donna - propone la filosofia maschile di Platone, che imita gravidanza e parto, ma li rende opere dello spirito. Il cuore del discorso riportato da Socrate è infatti quel riuscire a generare bellezza, lasciandosi alle spalle successivamente il corpo bello per cui si è sentita attrazione, poi tutti i corpi belli, poi le bellezze generate dalla mente (i versi di Omero e le leggi di Solone, per esempio), fino a giungere alla visione del bello in sé.
Questa sorta di parto maschile è tema ricorrente di Platone, che presenta un Socrate ostetrico dello spirito, così come la madre lo era stata dei corpi. Alle donne la mera generazione materiale, necessaria alla sopravvivenza della specie, a una fittizia immortalità del singolo che dopo sé lascia un altro sé nel figlio. Agli uomini invece la generazione che rende immortale il singolo, perché è un parto senza materia, dove l’anima, la mente, lo spirito di un uomo raggiunge la visione che lo rende immortale.
Nella Repubblica, infatti, si legge di come i filosofi, dopo la morte, vadano direttamente a godere del regno delle idee. Cavarero nota anche come l’assassinio della donna Diotima sia preceduto da un’altra morte, quella della femmina nel racconto di Aristofane. Spesso il tema dell’uomo-donna tondo, poi tagliato in due da Zeus per placarne la tracotanza, viene attribuito a Platone direttamente. Questo non è corretto, Platone stesso lo riporta come invenzione del commediografo. Ma ciò che è del tutto platonico è invece ciò che indirettamente passa da tale «comico» racconto, ossia l’assoluta supremazia dell’amore omosessuale maschile sull’amore eterosessuale, utile solo, appunto, alla continuazione della specie. Quanta paura si doveva avere delle donne, allora.
USA IL CERVELLO! "SAPERE AUDE!" .... *
La ricerca. Cervelli impavidi
Il coraggio, se non ce l’hai te lo danno i neuroni
Nell’ippocampo cellule nervose che azzerano la paura
Le hanno localizzate gli scienziati svedesi studiando i topi che sfidano i gatti
di Giuliano Aluffi (la Repubblica, 09.09.2018, p. 19)
Chi salta da un dirupo, casomai munito di tuta alare per volare via sfrecciando sulle punte degli alberi, è certo un temerario, ma questo sprezzo del pericolo, più che indicatore di forte personalità, potrebbe essere soltanto un dono di natura, legato all’attività di un gruppo particolare di neuroni detti "i neuroni del coraggio". Già noti come gli "interneuroni OLM", si pensava fossero soltanto associati al consolidamento dei ricordi. Il loro ruolo chiave nei comportamenti spavaldi è oggi rivelato da uno studio pubblicato su Nature Communications, che pone le basi per possibili nuove terapie anti ansia e anti disturbo da stress post-traumatico. È un passo avanti rispetto a un recente studio giapponese che mostrava il ruolo della dopamina nello spezzare i riflessi condizionati legati alla paura in assenza di reale pericolo - la dopamina infatti si libera quando una situazione si rivela migliore di quanto temuto.
Il nuovo studio, infatti, riguarda il comportamento in presenza di reali segnali di rischio, ed è quindi più propriamente legato al coraggio.
«L’attività di questi neuroni può azzerare la paura» spiega Klas Kullander, capo del dipartimento di genetica all’Università di Uppsala, in Svezia. «Se al centro di una stanza si mettono a terra dei peli di gatto, i topi normali non osano allontanarsi dai muri perché sentono l’odore del nemico. Ma se stimoliamo i suoi neuroni OLM, il topo si avventurerà senza timore in mezzo alla sala, e calpesterà i peli di gatto come se non ci fossero. Funziona anche l’inverso: disattivando questi neuroni, il topo diventa più timoroso degli altri».
A dare tanto potere ai neuroni OLM è la loro posizione cruciale. «Si trovano vicino ai neuroni principali dell’ippocampo, quelli piramidali, che connettono all’ippocampo due regioni cerebrali importanti come la corteccia prefrontale, sede della cognizione, e l’amigdala, sede della paura» spiega Kullander. «Quando vediamo qualcosa di allarmante la corteccia prefrontale e l’amigdala si attivano entrambe per decidere se siamo in pericolo oppure no. I neuroni OLM ricevono sia il responso dell’amigdala che quello della corteccia prefrontale, fanno un bilancio tra i due e lo trasmettono all’ippocampo. Quando questi neuroni sono molto attivi ed emettono un certo tipo di oscillazioni, dette oscillazioni Theta, il cervello decide che sì, la situazione sarà pure rischiosa, ma noi siamo al sicuro».
Una particolarità di questi neuroni è che hanno dei recettori per la nicotina: «Fumando, li si stimola» spiega Kullander. «Forse è per questo che molti tendono a fumare di più quando sono nervosi». «Se individuassimo altri recettori, oltre a quelli per la nicotina, posseduti soltanto da queste cellule, potremmo sviluppare un farmaco anti ansia molto mirato, che non tocchi altre parti del cervello» spiega il coautore dello studio, Richardson Leão, docente di neuroscienze alla Federal University di Rio Grande do Norte.
In certi casi, invece, può essere salvifico aumentare l’ansia: «È il nostro prossimo progetto: salvare la vita ai topi infetti da toxoplasmosi. Per scongiurare la trasmissione agli uomini», spiega Leão. «Il parassita della toxoplasmosi per completare il suo ciclo di vita deve entrare nel cervello dei gatti. Ma il suo primo ospite è il topo. Quando il Toxoplasma gondii li infetta, i topi perdono la paura del gatto e addirittura scambiano gli odori del gatto per irresistibili feromoni». Gettandosi entusiasti tra le fauci dei felini e dandola vinta al parassita. «Vogliamo ridare a questi topi la paura dei gatti. E fermare questa zoonosi, assai rischiosa per chi ha il sistema immunitario compromesso» spiega Leão. «Studi dicono che i guidatori con Toxoplasma gondii hanno probabilità di fare incidenti più che doppia rispetto agli altri».
Il nuovo studio
Il coraggio e i Colleoni
di Marino Niola (la Repubblica, 09.09.2018, p. 26)
Il coraggio si trova nei luoghi più impensati, diceva Tolkien. Forse per questo, da che mondo è mondo, gli uomini lo hanno sempre cercato in ogni dove. Nei meandri del corpo e nei ripostigli dell’anima, nella speranza di trovarne almeno quel briciolo che basti a non farsi sopraffare dalle proprie paure. Adesso due neuroscienziati annunciano di aver scovato il nascondiglio.
I ricercatori, lo svedese Klas Kullander dell’Università di Uppsala e il brasiliano Richardson Leao dell’Ateneo di Rio Grande, hanno pubblicato sulla rivista Nature Communications i risultati di uno studio, secondo il quale la centrale del coraggio si troverebbe nei cosiddetti neuroni dell’ippocampo.
Se siamo davanti a uno storico score scientifico è ancora presto per dirlo, ma la notizia sta già facendo sognare. Sia quelli che pensano di non avere abbastanza coraggio, sia quelli che sanno per certo di non poterselo dare da soli, come il don Abbondio manzoniano. E allora ben venga un farmaco, un microchip, un placebo incoraggiante che faccia friccicare nella maniera giusta quei neuroni, che, a detta degli studiosi, «a seconda del ritmo diverso con cui si attivano, fanno sì che un topo sia spaventato dal pelo di un gatto oppure non ne sia per nulla impressionato». Il che, trasposto qualche gradino più in su della scala evolutiva, significa che se l’ippocampo ci gira bene davanti a un rapinatore, anziché farcela sotto, saremmo in grado di reagire col sorriso sulle labbra prima di passare al contrattacco.
Resta il fatto che Kullander e Leao continuano, con gli strumenti di oggi, un’indagine iniziata da millenni. E che ha cercato ogni volta in un organo diverso la sede del coraggio. A partire dal cuore, da cui viene la parola stessa coraggio, che deriva dal latino coraticum, che significa letteralmente "aver cuore". Come il quasi invulnerabile Achille, o il leggendario re Riccardo, passato alla storia come il "Cuor di Leone".
Poi col tempo l’audacia e lo sprezzo del pericolo hanno traslocato al piano inferiore e sono andati a sistemarsi nel fegato. Essere dotato di fegato è stato ed è ancora sinonimo di valoroso, eroico, impavido. Lo raccontava già la mitologia greca che faceva di Prometeo, l’eroe che ha l’ardire di rubare il fuoco agli dei per donarlo ai mortali, l’uomo di fegato per antonomasia. Tant’è vero che Zeus lo punisce facendogli divorare h24 il fegato da un’aquila.
In tempi più recenti la location è scesa ancora più in basso e ha scelto un indirizzo genitale. Coraggioso è chi ha le palle. Ne sapeva qualcosa Bartolomeo Colleoni, il fiero capitano di ventura il cui nome di famiglia derivava dal latino coleus, testicolo. Ne andava così orgoglioso che ne mise ben tre sul suo stemma nobiliare. E andava in battaglia gridando «Coglia, coglia», un’esternazione dal senso inequivocabile. Per la stessa ragione cibarsi di testicoli di toro in Spagna e in altri Paesi a machismo spinto è roba da persone con gli attributi. Come dire una virilità ad alto tasso di testosterone.
E adesso la scienza potrebbe aiutarci a cancellare per sempre la paura. Attenzione però alle controindicazioni di un coraggio senza limiti. È vero che siamo nella civiltà della competizione spinta. Ed è vero pure che quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. Ma non è detto che vincano. In fondo, come dicono gli etologi, la paura è il più geniale espediente inventato dall’evoluzione per decidere quando conviene osare e quando scappare. Al contrario, non temendo più niente e nessuno, rischiamo di trasformarci in un esercito di colleoni.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI")
Federico La Sala
PIANETA TERRA. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Il tabù delle mestruazioni: quello che le donne ora dicono
Un evento naturale che è da sempre circondato da imbarazzi e superstizioni. Ma dall’Europa al Nepal le cose stanno cambiando. Abbiamo cercato di capire quanto
di Silvia Bencivelli *
Questo articolo parla di mestruazioni. Non di “cose”, fiori, zie, marchesi, baroni rossi, visite da Roma, cardinali, nature, giacomine e caterine varie. Tantomeno di impurità, immondizie, affari schifosi, mostruosi e oscuri. Parla semplicemente di mestruazioni: quell’evento poco meno che mensile che tra il menarca (la prima volta) e la menopausa (l’ultima) segna senza particolari patemi la vita delle donne in età fertile.
Oggi, tolti di mezzo i pudori, sappiamo che la segna senza macchiarla, per circa 2.400 giorni nel corso di una vita. E sappiamo anche perché avvenga, cioè perché quattro o cinque giorni ogni ventotto le donne in età fertile perdano sangue dalla vagina. Lo si trova persino nei libri di terza media: è il ciclo mestruale, che dipende dall’equilibrio tra alcuni ormoni che regolano la produzione di una cellula uovo al mese. Se questa non viene fecondata (ed è la cosa largamente più frequente) l’epitelio dell’interno dell’utero, che era pronto ad accogliere l’embrione, si sfalda, quindi si ha il sanguinamento e cioè la mestruazione.
Prima di capirlo, però, consideravamo quei giorni un momento spaventosamente misterioso. Così le vite delle nostre antenate, delle nostre nonne, delle nostre madri, e un po’ anche le nostre, sono state afflitte da leggende secondo le quali in quei giorni facevamo appassire i fiori e impazzire la maionese, mandavamo il vino in aceto e rendevamo acida la conserva di pomodoro.
Ce lo ricordano due libri che raccontano superstizioni e tabù di un passato non troppo passato. Il primo è di Marinella Manicardi, attrice e regista che sulle mestruazioni ha fatto uno spettacolo teatrale dal titolo Corpi impuri per il Festival della Filosofia di Modena, e oggi ha scritto un libro dallo stesso titolo per la casa editrice Odoya. Il secondo è in uscita per Einaudi: Questo è il mio sangue, della giornalista francese Élise Thiébaut, che sarà in libreria dal 23 gennaio.
L’idea di fondo dei due libri è simile: di mestruazioni non si parla, e questo ha contribuito, e contribuisce ancora, alla discriminazione di genere. Thiébaut annuncia una prossima e necessaria “rivoluzione mestruale”, che darà alle donne consapevolezza del proprio corpo e della propria identità. Manicardi parte invece dalla letteratura: Anna Karenina non ha mai le mestruazioni e non le ha mai neppure Emma Bovary. -C’è un’unica eccezione: Margherita, la signora delle camelie. Ma era una prostituta. E la ragione per cui, ogni mese, le sue camelie erano cinque giorni rosse e gli altri bianche Alexandre Dumas la lascia solo intuire. «Se i tempi sono cambiati? Beh, mica tanto» dice Manicardi. Quanto alla nuova pubblicità in cui il sangue viene finalmente rappresentato da un liquido di colore rosso, invece dell’azzurro alieno degli spot precedenti, c’è poco da festeggiare. «È la prima, appunto, e siamo nel 2017».
Oltre agli spot e ai libri, ci sono però anche le provocazioni artistiche, come quella della tedesca Elone, che ha riempito le vie di Karlsruhe di assorbenti con scritte frasi contro la violenza sulle donne, o quella della portoghese Joana Vasconcelos, che ha costruito un lampadario con 14 mila assorbenti interni. E soprattutto ci sono le provocazioni politiche, come il movimento free bleeding, che propone di non usare assorbenti e di lasciare che il sangue si mostri.
Nel 2015 l’attivista statunitense di origine indiana Kiran Gandhi ha corso così la maratona di Londra (quindi 42 chilometri), e ha spiegato: «L’ho fatto per le mie sorelle che non hanno accesso agli assorbenti e per quelle che li nascondono». In India, infatti, una ragazza su dieci considera il ciclo una malattia e una su quattro al raggiungimento della pubertà è costretta a lasciare la scuola. Mentre in Nepal solo ad agosto di quest’anno è approvata una legge che punisce la pratica millenaria del chhaupadi, cioè la reclusione delle donne mestruate in capanne isolate, in cui non mangiano e non bevono, e possono essere morse dai serpenti.
Anche da noi il pregiudizio antimestruazioni è antico: «Dai tempi di Ippocrate in poi il corpo femminile è sempre stato considerato la versione imperfetta di quello maschile» racconta Francesco Paolo de Ceglia, storico della scienza all’Università di Bari. «Gli organi della generazione sono introflessi, e il tutto viene descritto come umido, molle». Questa “umidità” femminile si credeva destinata a nutrire il bambino, «e si diceva che venisse espulsa con le mestruazioni, una specie di liberatorio salasso naturale». L’idea dell’impurità arriva dalla religione. Ma, prosegue de Ceglia, «la scienza la assorbe. Così si giunge al concetto per cui le mestruazioni sono un po’ come escrementi».
Però poi la scienza è avanzata, vero? «Sì, certo» concede Carlo Flamigni, ginecologo, scrittore e saggista, «ma mica tanto tempo fa». Sono solo sessant’anni che conosciamo la questione dell’utero e dell’ovaio. Flamigni si è laureato nel 1959 e racconta che anche nei libri universitari su cui ha studiato «le mestruazioni servivano a espellere le sostanze tossiche accumulate nel corpo femminile, e segnatamente una che si chiamava menotossina». Quindi, aggiunge, «se il tabù esiste ancora, credo che per superarlo debba scomparire un’intera generazione, la mia».
Solo sessant’anni significa che le nostre nonne venivano considerate così pericolosamente instabili da non avere accesso alla magistratura. Fino al 1963 lo diceva proprio la legge italiana, nero su bianco: «Fisiologicamente tra un uomo e una donna ci sono differenze nella funzione intellettuale, e questo specie in determinati periodi della vita femminile». Indovinate quali.
Alla fine della fiera è difficile dire se qualcosa degli antichi pregiudizi rimanga anche nelle nostre teste, o se siamo vicini alla fine del tabù. «Che io sappia non ci sono dati o rilevazioni affidabili che ci permettano di esprimerci sull’esistenza del tabù» commenta Paola Borgna, sociologa dell’Università di Torino. Ognuno potrà avere le proprie impressioni: «La mia è che il tabù a sfondo religioso sia stato sostituito dalla medicalizzazione. Ed è un aspetto di un processo di medicalizzazione del corpo e delle società più generale, che dà origine a nuove forme di controllo delle nostre vite».
Un dato di fatto è che, oltre alle donne giudice, oggi possiamo avere le donne astronauta, come Samantha Cristoforetti, che considera gli assorbenti l’ultima delle sue preoccupazioni, terrestri ed extraterrestri: «Se mi chiedono come si viva con le mestruazioni nello spazio? A dire il vero non tanto spesso». Un giorno però Carla ha mandato la domanda al suo blog avamposto42, e Samantha ha risposto così: «Beh, non vorrei fare a cambio con la necessità di radermi il viso tutte le mattine in assenza di peso!». Come dire: l’età adulta e gli ormoni della fertilità propongono modeste seccature. Per i maschi si tratta di farsi
barba e baffi più o meno ogni mattina. Le femmine in fondo se la cavano con quattro o cinque giorni al mese, e nel 2017 non devono più nemmeno fare la fatica di inventarsi giri di parole: sono mestruazioni, semplicemente mestruazioni.
* la Repubblica, 15 dicembre 2017
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
di Elena Stancanelli *
Violette Ailhaud aveva sedici anni quando, nel 1851, sparirono tutti i maschi dal suo villaggio. Un minuscolo paese nelle Alpes-de Haute-Provence. Borgogna, Provenza: fu quella l’unica zona di Francia in cui scoppiò la rivolta che avrebbe dovuto seguire il colpo di stato di Luigi Napoleone.
Parigi tacque, mentre contadini, artigiani, borghesi abitanti del Midi - che non parlavano neanche il francese, ma una dialetto provenzale, un patois - si armarono per combattere il tiranno. Formarono una sorta di guardia nazionale, e scelsero come simbolo la farigoule, il timo, la pianta aromatica che non smette di rifiorire.
I repubblicani conquistarono e tennero le città del sud della Francia per tutto il mese di dicembre, prima di cedere alle truppe bonapartiste-monarchico-clericali. Che, una volta ottenuta la vittoria, massacrarono, imprigionarono e deportarono tutti gli insorti con efficentissima ferocia.
Gli uomini, dunque, sparirono. Le madri, le mogli, le fidanzate li aspettarono a lungo, poi capirono che non sarebbero tornati. Da quel momento avrebbero dovuto fare a meno di loro. Fecero un accordo. «Sembravamo un gruppo di faraone impazzite. Le nostre idee volavano come cavallette, si incrociavano con le ali aperte di tutti i colori: blu, rosse, arancioni. Avevamo detto tutte la stessa cosa in mille modi diversi. Ma eravamo d’accordo».
Tra queste donne, c’è Violette. Molti anni dopo, quando nel 1925 morì, tra le carte del suo testamento trovarono una busta e la richiesta che non fosse aperta prima dell’estate 1952. Alla data prevista, la maggiore dei suoi discendenti di sesso femminile, Yveline, secondo le istruzioni entrò in possesso del suo contenuto. Un manoscritto, poche decine di pagine scritte in patois, un lessico semplice, metafore terrigne e un’enorme potenza icastica. Oltre alla efficacia di una storia che sembra una parabola del vangelo.
L’homme semence è il titolo scelto dalla casa editrice Parole, che lo ha pubblicato in Francia. Decine di migliaia di copie vendute, ha ispirato spettacoli di teatro, danza, fumetti. C’è persino un festival a Digne dedicato a L’homme semence. Che somiglia a un racconto distopico, e invece è una storia vera.
Violette Ailhaud era una contadina e scriveva col coraggio e il pianto, la vergogna e l’orgoglio di chi ha vissuto, non di chi sa. Non sa niente, tranne quello che accade. «Piango quelle braccia perdute, fatte per stringerci e rovesciare la pecora durante la tosatura. Piango quelle mani falciate, fatte per accarezzarci e per tenere la falce per ore». Ripetizioni e slanci lirici sono a carico dell’autrice, e sono conservati, giustamente, anche nelle traduzione italiana che Monica Capuani cura per l’editore Playground, che mantiene il titolo L’uomo seme.
Che cosa manca, quando mancano gli uomini? Qualcuno che regga le pecore, certo. Abbracci. Ma a tutto c’è rimedio tranne che a una cosa: il seme appunto. Almeno fin quando non avremo imparato a riprodurci in maniera un po’ meno brutale. Il mondo senza uomini (o senza donne, senza bambini, senza animali...) è un topos letterario. Per ragioni diverse, dalla terra scompare di colpo una categoria di esseri viventi: disastri naturali, epidemie, guerre fratricide, effetti nucleari mirati... Esiste addirittura un batterio, tra i più diffusi per altro, che agisce in maniera selettiva attaccando solo i maschi della specie. La "wolbachia" uccide, oppure trasforma i maschi infettati in femmine.
In Herland (1915), romanzo della scrittrice femminista Charlotte Perkins Gilman, si racconta che dell’eliminazione dei maschi fu responsabile l’eruzione di un vulcano. E fu una benedizione. Da allora le donne vivono in pace, in una società egualitaria, riproducendosi per partenogenesi, nella bellezza e nell’intelligenza. E il sesso tra donne, secondo le abitanti di Herland, sarebbe molto più soddisfacente e articolato.
Anche la scienza lo sostiene, scoperta che provocò una reazione furibonda nel mondo accademico. Quando negli anni Sessanta uscirono i risultati degli studi del dottor William Master e la sua collega Virginia Johnson, fu un bel colpo per gli uomini venire a sapere che l’orgasmo femminile vale dieci volte quello maschile, e che anche senza la loro preziosa anatomia otteniamo grandissima soddisfazione.
Ma se sul sesso non c’è niente da eccepire, la partenogenesi umana sembra ancora un po’ lontana. Nonostante l’entusiasmo suscitato dalla nascita di Kaguya, nel 2004 in un laboratorio giapponese: la prima topolina venuta al mondo con un patrimonio genetico interamente femminile.
La partenogenesi è un processo presente in natura e quindi, chissà quando, applicabile anche agli esseri umani: si prende un ovulo femminile e attraverso un processo chiamato "mitosi" si ottiene un embrione. Ovviamente femminile, dal momento che il cromosoma Y non partecipa alla festa, e quindi in grado di produrre soltanto esseri di sesso femminile.
Ma questo è il futuro. Quando nel 1851 spariscono i maschi dal villaggio di Violette (uccisi dalla guerra) il patto tra le donne non riguarda la manipolazione genetica. Il primo uomo che fosse capitato per caso sulla collina, decidono invece, sarebbe stato di tutte. Fine del matrimonio, della coppia, persino dell’amore: l’uomo è il seme, e il seme si divide. Sera dopo sera le donne del villaggio si divertono a immaginare come sarà quest’uomo. Come parlerà, riderà, dormirà e mangerà. Lo vestono e lo spogliano mille volte, come fosse una bambola. Fin quando un giorno, dalla collina, vedono finalmente salire un uomo...
* Fonte: la Repubblica, 13/02/2014
“Storia delle donne filosofe”
di Alessandra Pigliaru *
Ragionatrice sottile e maestra d’eloquenza, sono alcune delle espressioni che si ritrovano nel Menesseno di Platone e nel quarto libro degli Stromati di Clemente Alessandrino riferibili ad Aspasia di Mileto che insegnò retorica a Pericle e filosofia a Socrate.
Ciò nonostante, simili appellativi venivano assai raramente utilizzati per il suo sesso; così segnala Gilles Ménage in un libro piccolo quanto fondamentale dal titolo Mulierum philosopharum historia, scritto in prima istanza nel 1690 e ampliato due anni dopo.
Arrivato in Italia solo 11 anni fa grazie alla traduzione e cura di Alessia Parolotto per le edizioni ombre corte, Storia delle donne filosofe (pp. 115, euro 9) viene ora rieditato per essere letto, studiato e sgranato con curiosità.
L’introduzione di Chiara Zamboni colloca acutamente la figura di Ménage, l’abate francese che oltre a essere stato un grande latinista e grammatico fu precettore di madame de Sévigné e madame de Lafayette.
Le sue relazioni in quegli anni straordinari, dai salotti delle Preziose all’immersione in quella che Benedetta Craveri ha poi chiamato e descritto nel suo La civiltà della conversazione, possono essere lette come il frutto di un’attenzione rara nei confronti di 70 pensatrici dell’antichità classica.
L’esercizio di Ménage, senza precedenti, rimane un isolato e pur tuttavia importante censimento filosofico, esito di una erudizione raffinata e rigorosa che fa avere fiducia sullo stato dei documenti consultati - seppure non tutti di immediato reperimento. Setacciare trattati, lessici, opere filosofiche è servito così a imbastire un ritratto a più voci.
Le fonti di riferimento utilizzate da Ménage sono quasi tutte maschili e, come sottolinea Zamboni nella introduzione, l’insistenza sul legame tra biografia e pensiero era in linea con la tradizione del suo tempo.
Accanto alle più note Ipazia e Diotima, maestre di eccellenza e amore per la sapienza, altre si fanno avanti e vengono per la prima volta suddivise per appartenenza di scuola - là dove se ne possa avere in qualche modo conferma. Di scuola incerta infatti restano ancora tante che vanno a comporre la prima parte del volumetto di Ménage.
Così accanto al nome di Aspasia risuonano quello di Cleobulina, Panfila, Giulia Domna, Eudocia, Novella e altre. E poi Temistoclea (nella Suda - lessico enciclopedico compilato intorno al 1000 - viene chiamata Teoclea), sorella di Pitagora a cui già Diogene Laerzio attribuisce la maggior parte dei precetti morali del più noto filosofo. Insieme alle pitagoriche, che sono anche le più numerose, sono presenti Epicuree, Ciniche, Stoiche, Accademiche, Peripatetiche, Platoniche, Cirenaiche.
E seppure di tutte le filosofe non resti quasi niente in termini di scritti, il lavoro di Gilles Ménage non si riduce a un contributo elenchico criticamente muto; bensì concorre a delineare una fisionomia storico-filosofica che anni dopo verrà decostruita e fatta definitivamente saltare dal femminismo.
*
Alessandra Pigliaru
* http://pigiotto.blog.tiscali.it/2016/08/19/storia-delle-donne-filosofe/?doing_wp_cron - Venerdì, 19 Agosto 2016
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITà. --- ’Histoire des femmes philosophes’. Se ci si chiede chi sia l’autore, Gilles Ménage, si scopre che viveva nel diciassettesimo secolo, era un latinista precettore di Madame de Sévigné e di Madame de Lafayette e il suo libro, apparso nel 1690, s’intitolava ’Mulierum philosopharum historia’ (di Umberto Eco - Filosofare al femminile).
I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!
Il sorpasso in magistratura, ci sono più donne che uomini
Il procuratore generale della Cassazione: hanno raggiunto il 50,7 per cento. Il cambiamento più significativo nelle nomine agli incarichi direttivi
di FRANCESCO GRIGNETTI (La Stampa, 29/01/2016)
ROMA Alla notizia non è stata data l’enfasi che meritava, eppure è possibile leggerla nella relazione del procuratore generale della Cassazione, sua eccellenza Pasquale Ciccolo: «Rispetto agli anni precedenti - scrive - nella popolazione dei magistrati in servizio si ribalta il rapporto tra uomo e donna, pur rimanendo attorno alla parità: 50,7% di donne, e 49,3% di uomini».
È una piccola grande rivoluzione. Alle donne, come ricordava qualche tempo fa a un convegno la presidente dell’Associazione donne magistrato italiane, Carla Marina Lendaro, è stato aperto l’accesso in magistratura appena 50 anni fa. Perciò fecero una festa in Cassazione «per ricordare quelle prime otto temerarie - diceva Lendaro - che affrontarono, vincendolo, il duro primo concorso del 1965».
Molta acqua nel frattempo è passata sotto i ponti. Da qualche anno, al concorso per magistratura le donne stracciano regolarmente gli uomini. È una donna il capo dell’ufficio degli ispettori ministeriali, Elisabetta Cesqui. Ci sono due donne nel consiglio direttivo della Scuola superiore della magistratura. Sono molte le donne ai vertici delle correnti della magistratura associata. Ed è lontano il tempo in cui le (poche) donne che entravano in magistratura finivano confinate nella riserva indiana della giustizia minorile.
LA SVOLTA
Delle 252 nomine fatte dal Consiglio superiore della magistratura negli ultimi 15 mesi sotto l’impulso del vicepresidente Giovanni Legnini, se si guarda agli incarichi direttivi si vede che 101 sono uomini e 25 sono donne; se si esaminano i vicedirettivi, 83 sono uomini e 43 sono donne. Il cambiamento dei vertici della magistratura è in effetti una mezza rivoluzione. «Un passaggio storico e un’autentica palingenesi», lo definisce Legnini.
Il cambio di rotta - più donne, più giovani, più attenzione al merito - ha del clamoroso per un mondo tradizionalista come quello delle toghe. Diceva ieri il ministro Andrea Orlando intervenendo all’inaugurazione dell’Anno giudiziario: «Si sta rompendo il tetto di cristallo che impediva alle donne l’accesso alla guida degli uffici giudiziari. Dobbiamo andare avanti su questa strada partendo dal dato che vede ormai un sostanziale equilibrio di genere nella composizione della magistratura».
Evidentemente stanno meritando i loro successi, le donne in toga. C’è un’altra statistica fondamentale nella relazione del procuratore generale, in una materia che gli compete strettamente: se uomini e donne in magistratura sono in numero pressoché uguale, salta però agli occhi che i magistrati oggetto di procedimenti disciplinare sono al 69,2% uomini e 30,8% donne. A controprova di come sia aumentato il peso specifico femminile in magistratura, però, c’è anche un caso negativo. È una donna, infatti, anche la protagonista della vicenda più dolorosa che la magistratura sta vivendo: l’ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata dai colleghi di Caltanissetta per un uso spregiudicato dei beni confiscati alla mafia, sospesa dal Csm. Guarda caso, ha trascinato nello scandalo anche due prefette, amiche sue. Uno scandalo, quello di Palermo, tutto in rosa.
LE “DONNE DEI PRETI” SCRIVONO AL PAPA *
Caro Papa Francesco
siamo un gruppo di donne da tutte le parti d’Italia (e non solo) che ti scrive per rompere il muro di silenzio e indifferenza con cui ci scontriamo ogni giorno. Ognuna di noi sta vivendo, ha vissuto o vorrebbe vivere una relazione d’amore con un sacerdote, di cui è innamorata. Abbiamo deciso di unire le nostre voci dopo esserci rese conto che pur nella nostra diversità, i nostri vissuti non rappresentano casi isolati, ma che tantissime donne vivono nel silenzio, e per questo, pur essendo noi un piccolo campione, ci sentiamo di parlare a nome di tutte le donne coinvolte sentimentalmente con un sacerdote o religioso.
Come tu ben sai, sono state usate tantissime parole da chi si pone a favore del celibato opzionale, ma forse ben poco si conosce della devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell’innamoramento.
Vogliamo, con umiltà, porre ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinchè qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa.
Si, l’amore è proprio un’esperienza forte e rigenerante, che ti rimodula dentro, che ti fa crescere con l’altro, finchè ti ritrovi a desiderare con lui quel meraviglioso sogno di una vita insieme. Cosa che con un prete non è possibile, secondo le leggi attuali della chiesa cattolica romana.
Noi amiamo questi uomini, loro amano noi, e il più delle volte non si riesce pur con tutta la volontà possibile, a recidere un legame così solido e bello, che porta con se purtroppo tutto il dolore del "non pienamente vissuto". Una continua altalena di "tira e molla" che dilaniano l’anima.
Quando, straziati da tanto dolore, si decide per un allontanamento definitivo, le conseguenze non sono meno devastanti e spesso resta una cicatrice a vita per entrambi. Le alternative sono l’abbandono del sacerdozio o la persistenza a vita di una relazione segreta.
Nel primo caso la forte situazione con cui la coppia deve scontrarsi viene vissuta con grandissima sofferenza da parte di entrambi: anche noi donne desideriamo che la vocazione sacerdotale dei nostri compagni possa essere vissuta pienamente, che possano restare al servizio della comunità, a svolgere la missione che per tanti anni hanno svolto con passione e dedizione, rinvigoriti adesso ancor di più dalla forza vitale dell’amore che hanno scoperto insieme a noi, che vogliamo sostenerli e affiancarli nel loro mandato. Chi si sente chiamato al sacerdozio sceglie di vivere nel mondo, di partecipare alla vita sociale e di rendersi utile agli altri nella comunità in cui è inserito. La dolcezza e solarità di una donna può davvero essere sale e luce nel ministero di un sacerdote, per camminare insieme verso la Sua Luce e per maturare i frutti (che in due si moltiplicano esponenzialmente) da donare alla gente.
Nel secondo caso, ovvero nel mantenimento di una relazione segreta, si prospetta una vita nel continuo nascondimento, con la frustrazione di un amore non completo che non può sperare in un figlio, che non può esistere alla luce del sole. Può sembrare una situazione ipocrita, restare celibi avendo una donna accanto nel silenzio, ma purtroppo non di rado ci si vede costretti a questa dolorosa scelta per l’impossibilità di recidere un amore così forte che si è radicato comunque nel Signore.
L’amore è davvero la forza più potente che esista!
E allora ci chiediamo e ti chiediamo se è davvero giusto sacrificare l’Amore in virtù di un bene più alto e grande che è quello del servizio totale a Gesù e alla comunità, cosa che a nostro avviso sarebbe svolto con maggiore slancio da un sacerdote che non ha dovuto rinunciare alla sua vocazione all’amore coniugale,unitamente a quella sacerdotale, e che sarebbe anche supportato dalla moglie e dai figli. Probabilmente ne gioverebbe l’intera comunità, si respirerebbe aria di famiglia, di libertà e accoglienza. Questa nostra società ne ha bisogno!
Siamo tutti alla ricerca della propria identità, che possiamo solo trovare nel volto di Cristo; ma la chiesa ne riflette il suo volto? Noi speriamo che tu, con questa ventata di speranza che hai portato, possa davvero riuscire a ridare alla chiesa la sua dignità, liberandola dalla pretesa della Verità Assoluta, e affidandola semplicemente alla volontà di Dio.
Siamo fiduciose che il nostro grido, rimasto per troppo tempo inespresso, venga da te accolto e compreso, per discernere quale sia la giusta strada per una Chiesa migliore.
Se tu lo riterrai adeguato, siamo pronte e anzi ti chiediamo di essere da te convocate in un’udienza privata, per portare davanti a te umilmente le nostre storie e le nostre esperienze, sperando di poter attivamente aiutare la Chiesa, che tanto amiamo, verso una possibile strada da intraprendere con prudenza e giudizio.
Grazie Papa Francesco! Speriamo con tutto il cuore che tu benedica questi nostri Amori, donandoci la gioia più grande che un padre vuole per i suoi figli: VEDERCI FELICI!!!
Ti auguriamo ogni Bene.
*
FONTE. Adistanews: http://www.adistaonline.it/
Il matrimonio è un diritto anche per i preti
Abolire il celibato per il bene della chiesa
di Vito Mancuso (la Repubblica, 19.05.2014)
CHISSÀ come risponderà il Papa alla lettera indirizzatagli da 26 donne che (così si sono presentate) «stanno vivendo, hanno vissuto o vorrebbero vivere una relazione d’amore con un sacerdote di cui sono innamorate». Ignorarla non è da lui, telefonare a ogni singola firmataria è troppo macchinoso, penso non abbia altra strada che stendere a sua volta uno scritto. Avremo così la prima epistula de coelibato presbyterorum indirizzata da un Papa a figure che fino a poco fa nella Chiesa venivano chiamate, senza molti eufemismi, concubine.
Dai frammenti della lettera riportati sulla stampa risulta che le autrici hanno voluto presentare la «devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell’innamoramento ». Il loro obiettivo, scrivono al Papa, è stato «porre con umiltà ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa». Ecco la posta in gioco, il bene della Chiesa. L’attuale legge ecclesiastica che lega obbligatoriamente il sacerdozio al celibato favorisce il bene della Chiesa? Guardando ai due millenni del cattolicesimo, ritroviamo che nel primo il celibato dei preti non era obbligatorio («fino al 1100 c’era chi lo sceglieva e chi no», così scriveva il cardinale Bergoglio).
MENTRE lo divenne nel secondo in base a due motivi: 1) la progressiva valutazione negativa della sessualità, il cui esercizio era ritenuto indegno per i ministri del sacro; 2) la possibilità per le gerarchie di controllare meglio uomini privi di famiglia e di conseguenti complicate questioni ereditarie. Così il prete cattolico del secondo millennio divenne sempre più simile al monaco.
Si tratta però di due identità del tutto diverse. Un conto è il monaco il cui voto di castità è costitutivo del codice genetico perché vuole vivere solo a solo con Dio (come dice già il termine monaco, dal greco mònos, solo, solitario); un conto è il ministro della Chiesa che determina la sua vita nel servizio alla comunità. Il prete (diminutivo di presbitero, cioè “più anziano”) esiste in funzione della comunità, di cui è chiamato a essere “il più anziano”, cioè colui che la guida in quanto dotato di maggiore saggezza ed esperienza di vita. Ora la questione è: la celibatizzazione forzata favorisce tale saggezza e tale esperienza?
Quando i preti celibi parlano della famiglia, del sesso, dei figli e di tutti gli altri problemi della vita affettiva, di quale esperienza dispongono? Rispondo in base alla mia esperienza: alcuni sacerdoti dispongono di moltissima esperienza, perché il celibato consente loro la conoscenza di molte famiglie, altri di pochissima o nulla, perché il celibato li fa chiudere alle relazioni in una vita solitaria e fredda. Ne viene che il celibato ha valore positivo per alcuni, negativo per altri, e quindi deve essere lasciato, come nel primo millennio, alla libera scelta della coscienza.
Vi è poi da sottolineare che la qualità della vita spirituale non per tutti dipende dall’astinenza sessuale e meno che mai dall’essere privo di famiglia, basti pensare che quasi tutti gli apostoli erano sposati e che il Nuovo Testamento prevede esplicitamente il matrimonio dei presbiteri (cf. Tito 1,6).
Se poi guardiamo alla nostra epoca, vediamo che veri e propri giganti della fede come Pavel Florenskij, Sergej Bulgakov, Karl Barth, Paul Tillich erano sposati. Se i nazisti non l’avessero impiccato, anche Dietrich Bonhoeffer si sarebbe sposato, ed Etty Hillesum, una delle più radiose figure della mistica femminile contemporanea, ebbe una vita sessuale molto intensa. Anche Raimon Panikkar, sacerdote cattolico, tra i più grandi teologi del ‘900, si sposò civilmente senza che mai la Chiesa gli abbia tolto la funzione sacerdotale.
“Non è bene che l’uomo sia solo”, dichiara Genesi 2,18. Gesù però parla di “eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli” ( Matteo 19,12). La bimillenaria esperienza della Chiesa cattolica si è svolta tra queste due affermazioni bibliche, privilegiando per i preti ora l’una ora l’altra. Penso però che nessuno possa sostenere che il primo millennio cristiano privo di celibato obbligatorio sia stato inferiore rispetto al secondo.
Oggi, a terzo millennio iniziato, penso sia giunto il momento di integrare le esperienze dei due millenni precedenti e di far sì che quei preti che vivono storie d’amore clandestine (che sono molto più di 26) possano avere la possibilità di uscire alla luce del sole continuando a servire le comunità ecclesiali a cui hanno legato la vita. La loro “anzianità” non ne potrà che trarre beneficio. Vi sono poi le molte migliaia di preti che hanno lasciato il ministero per amore di una donna (ma che rimangono preti per tutta la vita, perché il sacramento è indelebile) e che potrebbero tornare a dedicare la vita alla missione presbiterale, segnati da tanta, sofferta, anzianità.
Fecondazione, ecco la proteina Giunone
«Così l’uovo cattura lo spermatozoo» *
Quando Izumo incontra Juno nasce la vita. È «l’attrazione fatale» tra due proteine che permette a uovo e spermatozoo di riconoscersi e fondersi, generando un embrione. Una delle due, Izumo, era già nota (fu scoperta sulla superficie degli spermatozoi nel2005da un team giapponese, che la battezzò con il nome di un santuario dedicato alla divinità dei matrimoni), mentre l’altra, la sua compagna, è rimasta per anni un mistero.
A svelare il rebus sono gli scienziati britannici del Wellcome Trust Sanger Institute, che hanno individuato e dato un nome alla dolce meta» di Izumo: una proteina esposta sulla cellula uovo, chiamata Juno (proteina Giunone) in onore della dea della fertilità nell’antica Roma.
La scoperta, pubblicata su Nature, apre nuove vie al miglioramento delle tecniche di fecondazione assistita e allo sviluppo di nuovi contraccettivi. «Abbiamo risolto un mistero biologico di lunga data - commenta Gavin Wrigth, autore senior dello studio - Le due proteine sono presenti sulla superficie di tutti gli spermatozoi e gli ovuli, e per dare origine a una nuova vita al momento del concepimento si devono necessariamente accoppiare. Senza questa interazione essenziale, nulla accadrebbe».
* l’Unità, 17.04.2014
L’altra metà del sesso
Da Freud a Sex and the City. Tra tabù e falsi miti la scoperta del piacere femminile è stata una conquista
Così è saltata la costruzione artificiale fatta sulla natura: madre, monogama, fedele, priva di fantasie erotiche
E la convinzione che la vecchiaia sia l’età dell’astinenza
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 02.04.2014)
OGNI volta che un uomo si occupa di sessualità femminile, a partire dal mitico Freud, si resta di sale: ma come, se lo raccontano ancora, ce lo raccontano ancora, che le donne non sono come da secoli se lo dicono e ce lo dicono? La loro signora non gli ha mai dato una sveglia?
Non hanno mai letto i testi fondamentali degli anni ‘70, scritti ovviamente da donne in cui solo alle donne (gli uomini non li leggevano), si spiegava che “non era per piacere a Dio”, ma trovando una persona volonterosa e creativa, maschio solitamente, si poteva godere scompostamente “per piacer mio”, come si vede oggi in ogni pubblicità di yogurt gustato da femmine.
Proprio nel paese del serioso giornalista Daniel Bergner che crede di sapere cosa vogliono le donne, gli Stati Uniti, uscì nel 1971 (poco dopo in Italia da Feltrinelli) “Our bodies, ourself”, in cui un collettivo femminile di Boston ce la raccontava tutta. Per le donne una rivelazione, sia per chi non ne sapeva niente e sperimentava il suo corpo nel sesso solo come un vuoto soporifero, sia per chi in certe situazioni si vergognava se le veniva da gridare, terrorizzando l’inconsapevole collaboratore.
Il libro conteneva anche orrifici grafici di quella cosa là, assolutamente sconosciuta sia alla proprietaria che a chi se ne riteneva l’utente. Anche da noi i gruppi di autocoscienza si obbligarono a mettere uno specchietto tra le gambe per vedere questa cosa invisibile, che si era costrette tra brividi a trovare bellissima.
Quel saggio fu radicale, disse di smetterla di credere o far finta di credere all’illusione maschile di possedere uno strumento penetrativo salvifico e in grado di far felici le donne già al primo sguardo. Disse, sorpresa! che il vero piacere femminile era nel clitoride, sempre che si trovasse qualcuno con la pazienza di rintracciarlo: o di seguire gli ordini della proprietaria che per conto suo l’aveva già favorevolmente sperimentato.
Da quel momento i testi scritti da donne sull’argomento furono una valanga, comprese le inchieste anni ’70 di Nancy Friday sulle fantasie masochiste femminili, che si riallacciavano al magistrale e a suo tempo proibito Histoire d’O ( anni ‘50), della porchissima studiosa di monachesimo Paulin Reage. Lo smascheramento di massa della sessualità delle donne, silenziosamente, mandò all’aria, almeno teoricamente, tutta la costruzione artificiale sulla loro natura: madre (o puttana), monogama, fedele, priva di fantasie erotiche, nemica della pornografia (anche se ormai scritta da donne e letta quasi solo da donne).
Da anni ormai al cinema sono più le scene in cui è lui ad abbassarsi goloso sotto la vita di lei, che intanto mugola, di quelle in cui è lei a farlo su di lui (che spesso non mugola). Resta indimenticabile un film inglese molto divertente accolto però con una certa pruderie, Hysteria (2011) che racconta dell’invenzione fine Ottocento dell’antenato del vibratore: adottato dai medici come cura all’isteria, cioè a quella perniciosa malattia che era l’impossibile godimento delle donne.
La televisione ha portato in tutto il mondo l’intelligente, spiritosa, coraggiosa serie Sex and the city, 94 puntate dal ‘98 al 2004, ridate anche da noi decine di volte e sempre illuminante: scritta da donne ha raccontato benissimo il bisogno d’amore femminile attraverso l’accumulo di avventure sessuali e talvolta pure sentimentali, sino all’immancabile finale, quello non cambia mai, del “vissero felici e contenti”.
Ma in generale la maschilità è zuccona, smemorata, fragile ed egoista: ancora sono in tanti, anche cervelloni, a immaginare l’erotismo come un servizio addirittura sociale, pure a spese dei contribuenti, che si prenda per esempio carico degli anziani insaziabili, senza neppure obbligarli non si dice a pagare, ma almeno a meritarselo con una certa capacità di seduzione o di risvegliare in buone Signore della Lampada un senso di cura e abnegazione. Giovani però, perché il maschio vecchio tende a sfuggire le coetanee: non è di una donna che queste persone, hanno bisogno, ma di un contenitore che accolga senza orrore lo sfacelo del loro corpo.
E le anziane? Hanno imparato da secoli a nascondere i loro non riconosciuti piaceri, a soddisfarli oppure a farne a meno, quasi sempre con grande contentezza, magari dopo decenni di noiosissimo sesso coniugale. Hanno maggior senso di dignità del loro corpo, hanno avuto quello che hanno avuto e va bene così. Però sono tante le coppie invecchiate insieme, e lo scrivono a Questioni di cuore, che continuano ad amarsi, con la meravigliosa tenerezza che nasce dall’abitudine, dal rispetto, dalla riconoscenza reciproca per quella gioia inestricabile che ha insegnato a due corpi ad armonizzarsi oltre la bellezza e la giovinezza.
L’innamoramento e la domanda a cui Lucrezio non sa rispondere
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 16.11.2013)
La questione non è mai stata risolta: perché ci innamoriamo? Perché ci innamoriamo proprio di quella persona, e non di un’altra che magari, teoricamente, potrebbe essere molto più adatta a noi? Periodicamente della questione vengono riproposte le spiegazioni più disparate e poiché il problema non è nuovo, a dire la loro in materia sono stati anche i romani. A uno dei quali, Lucrezio, si deve una interessante teoria.
Per chi non lo ricordasse, Lucrezio, vissuto nella prima metà del primo secolo a.C., poeta e filosofo, scrisse un poema didattico intitolo De rerum natura , nel quale, per dimostrare la falsità dei timori dovuti alla credenza superstiziosa degli interventi divini sulle vite umane, si rifaceva alle teorie di Epicuro.
Il mondo, spiegava Lucrezio, è regolato da leggi meccaniche di natura; l’anima è mortale, scompare con la morte del corpo; e il piacere (venendo al nostro tema) altro non è che la soddisfazione di trasferire il proprio seme nel corpo di un’altra persona, il cui fascino ha provocato la formazione e l’accumulo del seme stesso: «Chi è colpito dalle frecce di Venere - dunque - è attratto da chi lo ha colpito, e aspira a unirsi a lui».
Al di là (ovviamente) dalla sua attendibilità, una teoria per alcuni versi apprezzabile: indiscutibilmente, infatti, non contiene la minima traccia omofoba (anzi, il fanciullo, nell’ordine, viene prima della donne).. Ma rimane un dubbio: le donne, che non hanno seme, non si innamorano mai? Non hanno mai voglia di fare l’ amore?
Documento preparatorio del Sinodo sulla famiglia: qualche domanda sul rapporto tra uomini e donne
di Rita Torti (www.teologhe.org, 8 novembre 2013)
Sulle caratteristiche e sulle importanti implicazioni del Documento preparatorio alla III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi, reso pubblico in questi giorni, molto è già stato scritto. Tuttavia alcuni aspetti rimasti per il momento in ombra suscitano interrogativi che credo valga la pena di condividere, raccogliendo così anche l’invito contenuto nell’ultima domanda del Questionario allegato al testo introduttivo: “Ci sono altre sfide e proposte riguardo ai temi trattati in questo questionario, avvertite come urgenti o utili da parte dei destinatari?”.
1) Un primo dato che balza agli occhi è che nell’elenco delle “numerose nuove situazioni che richiedono l’attenzione e l’impegno pastorale della Chiesa” sono contemplati fenomeni di vario tipo - dai matrimoni misti alle famiglie monoparentali, dai fenomeni migratori ai messaggi dei mass media, dalle legislazioni civili alle madri surrogate -; a dire il vero alcuni di essi non rientrano propriamente nella categoria della “novità” (ad esempio la poligamia o i matrimoni combinati - questi ultimi abbondantemente conosciuti anche dalle società europee).
Manca però qualunque accenno, nel testo e nel Questionario, a un fenomeno drammatico, documentato e diffuso in modo trasversale nei diversi contesti geografici, culturali e sociali: quello della violenza di genere (fisica, sessuale, economica...) all’interno delle famiglie.
La domanda che ci si può porre è allora questa: come mai a parere degli estensori del documento la violenza maschile nei confronti delle donne non è un problema da mettere in luce, da indagare e da evangelizzare?
E’ improbabile che in un testo così ufficiale e importante l’assenza sia casuale. Tuttavia sarà utile ricordare che questa mancanza può aggravare la situazione di milioni di donne - spose, ma anche figlie - di ogni parte del mondo, che a questo punto non solo subiscono violenze all’interno della famiglia, ma si trovano ad essere anche invisibili agli occhi dei pastori della Chiesa.
2) Il silenzio su questa ferita endemica delle relazioni familiari è rafforzato, sempre nell’elenco delle situazioni che richiedono “attenzione e impegno pastorale”, da un’altra scelta: quella di segnalare esplicitamente la presenza di “forme di femminismo ostile alla Chiesa”, e di ignorare invece la presenza - certamente più concreta, diffusa e radicata, anche in contesti cattolici - di mentalità e prassi maschiliste.
Anche in questo caso, in molte donne - e auspicabilmente in altrettanti uomini - può sorgere una domanda: davvero il maschilismo nelle sue varie declinazioni non è un problema per le relazioni familiari, e per le donne e gli uomini che ne sperimentano gli effetti? Davvero è un fatto che non suscita alcun interesse nei pastori della Chiesa, e su cui essi non ritengono quindi di dover sollecitare esplicitamente la riflessione delle comunità cristiane?.
3) Passando alla parte del Documento in cui si illustra “la buona novella dell’amore divino” che “va proclamata a quanti vivono questa fondamentale esperienza umana personale, di coppia e di comunione aperta al dono dei figli, che è la comunità familiare”, un altro interrogativo sorge nel seguire quelli che il testo definisce “riferimenti essenziali” delle fonti bibliche su matrimonio e famiglia.
Dopo alcuni rimandi a passi della Scrittura che mostrano l’importanza attribuita al matrimonio, all’amore e all’indissolubilità del legame coniugale, il paragrafo intitolato “L’insegnamento della Chiesa sulla famiglia” si apre con questa enunciazione: “Anche nella comunità cristiana primitiva la famiglia apparve come la ‘Chiesa domestica’ (cf. CCC,1655). Nei cosiddetti “codici familiari” delle Lettere apostoliche neotestamentarie, la grande famiglia del mondo antico è identificata come il luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti, tra genitori e figli, tra ricchi e poveri”.
Che gli autori delle Lettere apostoliche considerassero con tanta ammirazione la “famiglia del mondo antico” è affermazione che probabilmente la maggior parte dei biblisti non sottoscriverebbe, anche volendo mettere tra parentesi le notevoli differenze che correvano tra il mondo greco e il mondo romano in questo ambito del vivere. Ma più immediata e alla portata di tutti è un’altra riflessione: in che senso si può definire “luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti” la realtà che il Documento preparatorio illustra ad esempio con il rimando alla Prima lettera a Timoteo (2,8-15), che ordina fra l’altro: “La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia sarà salvata partorendo figli, se persevererà nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia”?.
Quindi, l’ultima domanda: in che modo questo e gli altri testi a cui il Documento rimanda (appunto, i famosi/famigerati codici domestici) possono comunicare la buona novella alle famiglie di oggi? Sarà veramente opportuno portare come esempio di famiglia evangelica brani che per secoli sono stati usati dalla teologia, dalla predicazione e dagli uomini comuni per rafforzare con il sigillo divino quella che era considerata la legge naturale della superiorità maschile e inferiorità femminile?!
Davvero siamo sicuri che nessuno se ne approfitterà per legittimarsi padrone, e davvero siamo sicuri che nessuna penserà che allora subire è cosa buona e giusta? Le esperienze che si registrano in ogni parte del mondo - e che gli estensori del Documento certo non ignorano - sembrano dirci che no, non possiamo essere sicuri.
Dichiarazione del Forum 2013 delle teologhe indiane
di Indian Women Theologians’ Forum 2013
in “www.catherinecollege.net” del 14 maggio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il Forum delle teologhe indiane ( Indian Women Theologians’ Forum
IWTF) si è riunito dal 2 al 4 maggio 2013 al Montfort Spirituality Centre , Bangalore, per riflettere sul tema “Donne e leadership” . Condividere la nostra personale esperienza di donne leader in vari ambiti ha rivelato un filo comune dell’esperienza delle donne nella presenza del divino e nella loro capacità di rispondere con fede e coraggio.
L’ingiunzione scritturale “egli dominerà su di te” (Gen 3,16) sembra essere la sanzione religiosa che legittima il controllo maschile sulle donne all’interno delle sfere di famiglia, chiesa e società in senso generale.
Oggi l’abuso di questo potere ha assunto proporzioni violente, come si vede nella criminalizzazione della politica, nello spostamento obbligato di persone povere a causa dell’usurpazione della loro terra e delle loro risorse; nella corruzione dove la politica è usata per proteggere ricchezza, frode, stupro, crimine, cultura dell’impunità e dello status quo. La povertà sta scendendo a livelli di indigenza talmente bassi da non poter nemmeno essere descritti da percentuali o statistiche.
L’abuso di potere si riflette in problemi di governabilità, di legge ed ordine che di questi tempi stanno assumendo un significato cruciale e violento. Di primaria importanza è il problema dell’aumento di violenze contro le donne che si intensifica in grado, diffusione e brutalità.
Tale violenza contro le donne si sviluppa tra nuove categorie di persone in dimensioni sconosciute e riguarda persone di tutte le età. Le attuali istituzioni di legge e giustizia non riescono ad affrontare adeguatamente la situazione delle vittime e a render loro giustizia. Abbiamo bisogno di considerare in modo critico le radici della violenza contro le donne nelle strutture del potere patriarcale che continuano a influenzare la vita delle donne.
Come donne leader impegnate per il benessere della società, in particolare delle donne, condanniamo fortemente:
l’escalation dei casi di brutale aggressione sessuale di ragazze e donne;
le vessazioni delle vittime da parte della polizia e durante le procedure processuali;
le procedure legali che causano tortura mentale alle sopravvissute agli stupri, specialmente quelli per conflitto di comunità.
Mentre apprezziamo l’approvazione dell’emendamento della Criminal Law Act 2013, che assicura un processo veloce per le vittime di aggressione sessuale, speriamo che questa norma possa essere applicabile anche ai casi attualmente pendenti.
Vediamo la leadership femminista esercitare un potere di trasformazione ( transformative power ).
Transformative power è connesso con l’etica della cura, della compassione e col fatto di essere collegati. Transformative power ascolta le voci delle persone ai margini o alla periferia e vede attraverso gli occhi di chi è senza voce, senza speranza o senza potere.
Una leadership di trasformazione richiede che noi camminiamo mano nella mano con le persone, le accompagniamo e facilitiamo il cambiamento, non tramite il controllo, ma tramite l’amore.
La giustizia dovrebbe poter ricostituire la dignità delle persone e la riconciliazione, piuttosto che promuovere la vendetta e il castigo.
La leadership femminista lavora per il benessere delle persone, cooperando per fini comuni, creando ambienti che nutrano la crescita di individui e comunità, dando loro potere e libertà per la loro missione.
Siamo piene di speranza riconoscendo che gli emendamenti 73 e 74 alla Costituzione hanno creato delle donne leader alla base, molte delle quali sono state in grado di produrre un cambiamento rispetto ai giochi di potere politico per affrontare problemi centrali della loro comunità come acqua, istruzione e salute. Queste leader hanno distrutto il mito che le donne siano incapaci di amministrare il potere e svolgere incarichi di responsabilità al di fuori delle loro case.
Tuttavia siamo preoccupate per il tipo di leadership che è progettata nelle prossime elezioni, che minaccia il tessuto secolare della nostra nazione e marginalizzerebbe ulteriormente ampie masse di poveri in nome del cosiddetto sviluppo. Vorremmo vedere dei leader che siano impegnati a favorire l’etica della cura e della compassione nei confronti delle persone e della terra.
Osserviamo che la Chiesa centrale predica il messaggio e che la Chiesa alla periferia lo vive, malgrado il fatto che la Chiesa della periferia abbia un importante messaggio da condividere con il centro, che però il centro non riesce a ricevere. Apprezziamo e sosteniamo l’invito di Papa Francesco per una Chiesa dei poveri che “predica il vangelo in ogni tempo, usando le parole se necessario” (San Francesco d’Assisi). Questo avvicinerebbe il centro alla periferia per vivere davvero il messaggio evangelico.
Siamo preoccupate per il collegamento tra giurisdizione ed ordinazione sostenuto acriticamente e per la conseguente esclusione delle donne dalla leadership nella chiesa, specialmente quando hanno molto da dare ad una “Chiesa dei poveri”.
È ora di riconoscere i doni degli uni e degli altri ed unirci insieme per considerare con nuovi occhi la visione femminista che è egualitaria, inclusiva e compassionevole per affrontare queste diverse forme di violenza verso le donne e i poveri.
Prendiamo ispirazione dai modelli di leadership femminili nella tradizione biblica, particolarmente nelle comunità paoline, dove riscopriamo che delle donne erano leader dinamiche che avevano funzioni di diaconesse, investite di autorità per insegnare, predicare, amministrare ed evangelizzare.
La parola greca diakonos si riferisce sia ai maschi che alle femmine, e dalla citazione di Paolo di Phebe come diakonos (Rm 16, 1-2), Prisca come insegnante (Rm 16,3) e Junia come apostola (Rm 16,7) è ovvio che Paolo riconosceva la leadership delle donne negli ambiti della preghiera, dell’insegnamento, dell’amministrazione e dell’evangelizzazione. Ispirate da questi esempi esortiamo le donne a reclamare il loro legittimo spazio sul modello delle donne nella Chiesa primitiva.
In conclusione, riconosciamo che fare teologia è un compito politico che esprime critiche e invita le donne leader a sviluppare una nuova visione ed immaginazione e ad esercitare il potere che incoraggia e dà alle persone ai margini, in particolare quelle senza voce, capacità e possibilità ad esercitare il loro diritto a vivere la vita in tutta la sua pienezza (Gv 10,10). Ci impegniamo a far evolvere la leadership femminile che ha le sue radici nei vangeli ed è rivitalizzante per tutti.
Il filo del rispetto che lega le grandi religioni
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2013)
«Fra le più alte partecipazioni di pubblico mai registrate». Così commentava la riuscita dell’evento il responsabile della Konrad Adenauer Foundation in Israele, sponsor del convegno internazionale tenutosi in questi giorni a Gerusalemme su «Giovanni XXIII e il popolo ebraico» a cinquant’anni dalla morte del "Papa buono". Ciò che ha sorpreso non è stata tanto la presenza di studiosi di ogni parte del mondo, cui si aggiungeva quella dei membri della commissione congiunta della Santa Sede e del Gran Rabbinato d’Israele, quanto l’interesse che l’iniziativa ha riscosso in ambito ebraico. In realtà, è dal Venerdì Santo del 1959, quando Papa Giovanni da non molto eletto, sorprendendo tutti, aveva voluto che si eliminasse l’aggettivo "perfidi" davanti al termine "Giudei" nella preghiera per il popolo ebraico, che una nuova era ha avuto inizio nelle relazioni fra il popolo da cui è venuto Gesù, e di cui Egli fa parte per sempre, e la Chiesa da Lui voluta, affidata agli apostoli, in particolare a Pietro, il pescatore di Galilea, e ai loro successori.
Dall’insegnamento del disprezzo, che troppo a lungo aveva ispirato l’atteggiamento della maggioranza dei cristiani nei riguardi d’Israele, si è passati al rispetto e all’amicizia fra chi riconosce nell’alleanza mai revocata e nel popolo dei Patriarchi e dei Profeti la radice santa della Chiesa - come fa Paolo nella lettera ai Romani (capitolo 11) - e questo stesso popolo. L’Apostolo sottolinea, inoltre, che non è l’albero a portare la radice, ma questa a portare l’albero! Da una tale consapevolezza deriva un rapporto di coappartenenza e di fiducia tra cristiani ed ebrei, consacrato dal decreto Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, di cui è stato da poco celebrato il cinquantesimo anniversario dall’apertura. Non si può essere discepoli di Gesù e amarlo se non si ama al contempo il popolo da cui è venuto!
Nel clima positivo e stimolante del Convegno anche i lavori ad esso seguiti della Commissione congiunta fra la Santa Sede e il Gran Rabbinato d’Israele si sono occupati dell’attualità del messaggio di Papa Giovanni e del Concilio. Se da una parte si è constatata la straordinaria crescita nella fiducia reciproca fra cristiani ed ebrei a livello ufficiale, grazie anche alla testimonianza dei Papi succedutisi a Roncalli e oggi in particolare ai rapporti che da sempre legano Papa Francesco alla comunità ebraica, molto numerosa a Buenos Aires, dall’altra si è osservato come ci sia ancora bisogno di grande impegno perché la stima reciproca e il rifiuto convinto di ogni antisemitismo pervadano mentalità e costumi.
La visita del Presidente Simon Peres al Papa - coincidente con l’incontro di Gerusalemme - e l’invito rivolto al Vescovo di Roma a visitare Israele, stimolano cristiani ed ebrei a un rinnovato sforzo volto a «educare le rispettive comunità riguardo alla natura, ai contenuti e al significato dei cambiamenti» intercorsi da cinquant’anni a questa parte, come afferma il Comunicato congiunto della riunione della commissione fra la Santa Sede e il Gran Rabbinato. «Il rispetto reciproco e l’amicizia che si è stabilita fra noi in questi anni - aggiunge il testo - implicano la responsabilità di difendere e promuovere reciprocamente il bene dell’altra comunità. Ciò richiede di reagire ai pregiudizi e al disprezzo, in particolare contro ebrei e cristiani. Specialmente là dove una comunità è maggioritaria e ispira l’ethos di una nazione, e l’altra è minoranza vulnerabile, la responsabilità della prima è ancora maggiore». La speranza condivisa è che questo spirito di collaborazione, di rispetto e di comune servizio alla giustizia e alla pace possa estendersi a ogni relazione all’altro: da quella fra israeliani e palestinesi, a quella con lo straniero e il diverso da noi e in ogni parte del mondo, fino a quella - per chiudere con uno sguardo all’attualità italiana - fra avversari politici, abituati fino a ieri al reciproco rigetto e chiamati oggi dalle drammatiche urgenze della crisi economico - sociale, di cui ha saputo farsi voce autorevole il Capo dello Stato, a collaborare con onestà e disponibilità reciproca per il bene comune. A tutti i livelli, insomma, finché non ci sarà riconoscimento e valorizzazione della dignità dell’altro e del diverso, non potranno esserci né giustizia, né crescita, né pace. II Grande Codice dell’ethos che ci unisce - la Bibbia - ne é il testimone assoluto, di cui possono fidarsi tanto gli ebrei, quanto i cristiani, quanto tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Contraccezione e cattiva scienza
Il controllo delle nascite: una storia dolorosa sulla pelle delle donne
Nel libro di Carlo Flamigni presidente onorario dell’Aied il percorso travagliato
dei metodi per impedire il concepimento
Uno scontro tra posizioni etiche che ha sacrificato senza problemi generazioni di madri
di Luca Landò (l’Unità, 19.01.2013)
CODE DI LUCERTOLE, MERCURIO E STERCO DI COCCODRILLO. SE PENSATE A HARRY POTTER SIETE FUORI STRADA: quelli che avete appena letto sono alcuni dei metodi usati dalle donne dell’antichità per non aver figli. Poco efficaci, come è facile intuire, ma ampiamente diffusi. Perché nel grande libro dell’umanità il controllo delle nascite occupa un capitolo molto ampio anche se poco conosciuto. Ce lo ha ricordato e spiegato Carlo Flamigni, ginecologo di fama internazionale e presidente onorario dell’Aied, nel suo bellissimo Storia della contraccezione uscito per Dalai Editore.
Come dice Flamigni, il controllo della fertilità, molto prima d’essere un problema tecnico, è una questione culturale. E come tutte le questioni culturali di amplissima portata anche questa è stata, ed è tuttora, accompagnata da grandi errori e robusti pregiudizi. Si è sempre pensato ad esempio che le donne dei tempi più antichi cercassero di avere il maggior numero di figli, spiegando che siccome la mortalità infantile era altissima, lo stimolo a procreare fosse molto intenso.
È probabile che accadesse esattamente l’opposto e che in condizioni di scarsità di cibo l’arrivo di nuove bocche da sfamare venisse accolto come un problema più che una opportunità. Questo spiega come in mancanza di tecniche anticoncezionali efficaci, molto spesso le popolazioni primitive ricorressero all’abbandono o all’uccisione dei neonati. In molte società il destino dei figli era deciso, non dalla famiglia, ma dal capo del gruppo sociale o dai componenti più anziani che in base alla situazione del momento spostamenti, cibo, spazio a disposizione valutavano se la comunità poteva permettersi di mantenere i nuovi arrivati.
Fino a un paio di secoli fa, ricorda Flamigni, il parto rappresentava un momento cruciale, spesso pericoloso nella vita di una donna: «In un’epoca in cui le partorienti di bassa statura e quelle portatrici di bacini viziati morivano insieme al neonato, l’inizio di una gravidanza era vissuto da molte giovani come un annuncio di morte. D’altro canto è bene ricordare che fino alla metà del XIX secolo, nella clinica ostetrica della civilissima Vienna almeno un donna su dieci moriva di parto insieme al figlio».
Comparata alle altre, la nostra è sempre stata una specie poco fertile, ma il numero medio di figli per donna è diminuito con il passare dei secoli. Osservando gli scheletri femminili i paleo-patologi hanno stabilito che nel corso dei millenni il numero dei figli per madre è calato progressivamente: nel 2000 avanti Cristo le donne avevano in media cinque figli, mentre nella Roma imperiale il numero era sceso a 3,3. Sembra dunque che da almeno quattromila anni, forse prima, sia esistita qualche forma di controllo sulla crescita della popolazione. «È tuttavia probabile che questo controllo venisse affidato più all’infanticidio e all’aborto che alla contraccezione», spiega Flamigni.
«Per migliaia di anni il concepimento è stato considerato un mistero insolubile, accompagnato, anzi rafforzato, da una ridda di ipotesi, miti e leggende che in alcuni casi resistono ancora oggi. Gli aborigeni australiani, che hanno mantenuto per secoli le stesse tradizioni culturali, sostengono tuttora che nel corpo delle donne abiti un piccolo bambino trasparente entrato in qualche modo durante il periodo dei giochi infantili: questo bambino, che di notte esce e va in giro, a volte viene trattenuto nel corpo della donna ed è a quel punto che, secondo gli aborigeni, inizia la gravidanza».
È chiaro che senza una chiara conoscenza dei meccanismi biologici i metodi per prevenire la fecondazione siano a lungo stati una miscela di superstizioni, magie ed empirico buon senso. In molte zone del Nord Africa esiste ancora oggi l’idea che i cadaveri abbiano un potere sterilizzante e che bere l’acqua utilizzata per lavare un corpo privo di vita renda una donna sterile. Ma i consigli anticoncezionali sono numerosissimi: mangiare un pezzo di favo contenente api morte o del pane con peli di mula bruciati e tritati; preparare misture contenenti bava di cammello o mangiare i baccelli della fave, uno per ogni anno di sterilità desiderata.
Nell’Africa centrale molte donne si imbottiscono la vagina con sassi o erba finemente triturata, con risultati spesso disastrosi, perché ostruendo l’uretra e ostacolando il retto si arriva spesso a provocare ritenzione di urina e feci. Nell’Ecuador le donne usavano una lavanda con una soluzione di succo di limone mescolato a un decotto di gusci di noce di mogano, un anticoncezionale usato successivamente dalle schiave nere della Guyana e della Martinica.
In Egitto il primo papiro che parla di anticoncezione risale al 1850 avanti Cristo e spiega nel dettaglio tre metodi: inserire in vagina una sostanza flessibile simile alla gomma in modo da ricoprire il collo dell’utero; utilizzare una miscela di miele e carbonato di sodio; polverizzare sterco secco di coccodrillo su una specie di pasta da inserire in fondo al canale vaginale.
Le tre tecniche non erano prive di senso: miele, sostanze gommose e paste a base avevano tutte l’effetto di ridurre la motilità dello sperma. Lo sterco di animale aveva poi lo scopo di modificare l’acidità dell’ambiente vaginale, un po’ come viene fatto oggi con l’uso di spugne imbevute: è noto che il movimento degli spermatozoi viene arrestato in presenza di un ambiente acido e con pH inferiore a 6. Trecento anni più tardi, un secondo papiro (Papiro di Ebers del 1550 avanti Cristo) suggerisce di introdurre in vagina un tampone di garza imbevuto di miele e succo di acacia. La ricetta non sorprende: le foglie di acacia fermentando producono acido lattico considerato anche oggi un buon spermicida.
Nell’antica Cina la contraccezione veniva spesso mischiata con le pratiche abortive, come la ricetta che consigliava di assumere, a stomaco vuoto, mercurio cotto nell’olio. Nel Libro delle erbe, scritto 4000 anni fa, si consiglia di mangiare sedici code di lucertole cotte nel mercurio. Sempre in Cina, c’erano pratiche ispirate più all’autocontrollo che all’assunzione di sostanze. Le donne, ad esempio, venivano istruite a eseguire profondi respiri nel momento in cui il compagno raggiungeva l’orgasmo, contraendo nel frattempo i muscoli dell’addome e «pensando ad altro». Gli uomini dal canto loro potevano contare sul «coitus obstructus». La tecnica venne descritta nei dettagli nel VII secolo aC dal medico cinese Tung-hsuan. Secondo i medici cinesi, l’energia del seme maschile doveva essere trattenuta per consentire successivamente il concepimento di figli maschi.
Un capitolo importante, a volte devastante, nella storia della contraccezione è legato alle erbe.
Come la carota della morte (Daucus carota) dai noti effetti abortigeni ma usata a Roma nel primo secolo avanti Cristo come anticoncezionale, a dimostrazione di quanto anticoncezionali e abortigeni venissero spesso confusi tra loro. Gran parte della storia della contraccezione è stata scritta dagli erboristi e l’elenco delle erbe usate (spesso con effetti abortigeni) è lungo: melograna, artemisia, mentuccia, ruta, aloe, ginepro, mirra, cetriolo fino al tristemente noto prezzemolo.
Ci sono alcune cose che è bene sapere quando si va incontro alla contraccezione, dice Flamigni. La prima è che non esiste il metodo contraccettivo ideale, ma la scelta è sempre il risultato di una valutazione tra i costi e benefici. Il secondo è che non esiste un metodo valido per tutta la vita, al punto che sarebbe meglio parlare di un percorso contraccettivo fatto di scelte diverse legate a momenti diversi. La terza, che in un’epoca di scienza e ricerca le tecniche per il controllo delle nascite sono spesso avvolte da una fitta nebbia di pregiudizi e cattiva informazione. «Non c’è una sola ragione per affermare che la pillola del giorno dopo inibisca l’impianto dell’embrione dice Flamigni eppure questa spiegazione priva di ogni base scientifica viene ripetuta con grande facilità su giornali, tv e una parte del mondo politico».
Se in passato il controllo delle nascite era dettato dalle condizioni di vita, anzi di miseria, delle famiglie, oggi la scelta di avere o meno un figlio è un argomento delicato su cui forte è la pressione di convinzioni religiose e culturali. Non di rado i metodi per impedire la procreazione sono diventati il pretesto per uno scontro fra opposte posizioni etiche e giuridiche che divide tuttora la società.
Peccato che in questa battaglia tra guelfi e ghibellini della bioetica la voce e i diritti delle donne giungano quasi sempre per ultimi. E qui arriva il quarto messaggio lanciato dal presidente dell’Aied: siamo davvero convinti, su questi temi, di aver abbandonato ignoranza e superstizione? Perché è vero che i roghi delle streghe sono stati aboliti, dice Flamigni, ma quando si parla di contraccezione c’è un’ombra medioevale che si allunga con sorprendente rapidità. E fatica a scomparire.
Il corpo delle donne come una bandiera
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 14 agosto 2012)
Usare il (proprio) corpo femminile come manifesto politico. Rovesciare l’ossessione voyeuristica per il corpo femminile che va di pari passo con la marginalizzazione delle donne come cittadine e come esseri pensanti, a vantaggio non dei propri interessi individuali, ma di obiettivi di denuncia politica. È quanto fanno gruppi di donne femministe, soprattutto dell’Est Europeo.
Usando le tecniche del flash mob, le Femen ucraine usano letteralmente il proprio seno nudo per rendere platealmente visibili le proprie denunce contro il governo, contro la trasformazione del loro paese in una sorta di bordello per consumatori internazionali in occasione degli europei di calcio, contro la Sharia, persino contro Berlusconi nel novembre 2011.
Le giovani donne russe della punk band Pussy Riot, quando irrompono con le loro canzoni di denuncia in contesti “sacri al potere” - il Kremlino, la cattedrale ortodossa - si limitano ad esibire minigonne. Ma le maschere che celano il volto alludono ironicamente alla spersonalizzazione delle donne da parte di chi le rappresenta, appunto, solo come corpi fungibili, purché attraenti per chi li guarda e consuma.
L’ultima di queste azioni - una “preghiera” anti-Putin nella cattedrale ortodossa di Mosca durante una cerimonia religiosa - è costata loro molto cara, con una denuncia da parte del patriarca moscovita, e conseguente arresto. Possono essere condannate ad anni di carcere. Ahimè per loro, non avrebbero potuto essere più efficaci nel dimostrare lo stretto filo che nella Russia di oggi lega il potere politico alla Chiesa ortodossa.
L’uso del proprio corpo da parte di donne femministe, come strumento ed insieme atto comunicativo a fini di disvelamento e denuncia, non è un fenomeno nuovo, né limitato all’Est europeo. Più che l’episodio delle studentesse tedesche che attorniarono a seno nudo il filosofo Adorno durante un episodio di contestazione studentesca nel 1969, per umiliarlo alludendo in pubblico alle sue non sempre represse tentazioni di allungare le mani, è nel settore artistico che se ne può trovare ampia testimonianza.
Le artiste di quella che è stata chiamata l’avanguardia femminista degli anni settanta hanno tutte, in un modo o nell’altro, usato fotografia, film, video e performance per affermare che “il personale è politico” e contro “l’obbligo d’essere belle”. Invece di limitarsi a documentare, certo meritoriamente, l’abuso e la strumentalizzazione del corpo femminile nella comunicazione pubblica, o anche a denunciare come irrispettosa e denigratoria questa o quella pubblicità o spettacolo, queste artiste hanno rovesciato il tavolo, mettendosi esse stesse nella parte del soggetto che comunica con il corpo. Hanno riempito di un’intenzionalità insieme critica e autonoma la messa in scena del corpo femminile, a partire dal proprio.
I “corpi piatti” ed evanescenti di Francesca Woodman, le bambole di carta nell’armadio dei vestititi di Cindy Sherman, le performance di Valie Export, che, in quelle che oggi chiameremmo flash mob, provocava passanti e pubblico mostrandosi di volta in volta come un teatro ambulante da cui emergevano solo le tette o il sesso, che invitava ironicamente a toccare - queste ed altre ancora erano forme di espressione che rifiutavano la pura documentazione e andavano oltre la denuncia, per aprire ad uno sguardo, e ad una comunicazione, diversa.
Né le Femen né le Pussy Riot sono artiste sofisticate come quelle dell’avanguardia femminista. Sembra, però, che ne abbiano ereditato la lezione comunicativa: diventare soggetti anche nella comunicazione del, e con il corpo. Certo, non è l’unico modo, né necessariamente il più efficace, per contrastare il potere (le suore statunitensi, ad esempio, ne stanno mettendo in opera altri per contrastare i diktat del Vaticano).
Ma vedere delle donne che usano allegramente, anche se rischiosamente, il proprio corpo per sbeffeggiare il potere ha un che di liberatorio, specie dall’osservatorio italiano. Ove sembriamo strette tra il dover prendere posizione sul diritto a fare la escort e il perbenismo moralista e ipocrita che vorrebbe le donne “per bene” e competenti tutte seriose, accollate, possibilmente anziane, meglio se nonne, comunque de-sessualizzate
IL CASO
Pussy Riot, sale la tensione alla vigilia della sentenza
Cinque arresti per la manifestazione a sostegno del gruppo femminista. Aumentano gli appelli di solidarietà e si preparano una serie di mobilitazioni in attesa del verdetto. Minacce al giudice. Il governo teme disordini e rafforza le misure di sicurezza. *
MOSCA - Sono accusati di aver violato la nuova legge sulle manifestazioni i cinque attivisti arrestati ieri per l’ennesima protesta a sostegno delle Pussy Riot, le tre donne, in carcere per la loro opposizione alla politica di Vladimir Putin. Lo ha reso noto via Twitter una di loro, Alexandra Anfilova, mentre di fronte all’aumento degli appelli di solidarietà per il gruppo punk, crescono anche i timori di disordini che possano dare alla polizia russa l’opportunità di nuovi arresti. Le artiste sono accusate di teppismo motivato da odio religioso, contro i credenti ortodossi, e rischiano tre anni di detenzione. Tutto questo per aver cantato, indossando un passamontagna, una "preghiera punk" contro Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore. La sentenza è attesa per venerdì.
"Ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo". Violetta Volkova, avvocato di Nadejda Tolokonnikova, 22 anni, Ekaterina Samoutsevitch, 30 anni, e Maria Alekhina, 24 anni, ha annunciato che si rivolgerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo per protestare contro "le torture subite" dalle sue assistite. "Non le fanno dormire, non le fanno mangiare in modo normale e vengono continuamente umiliate". L’avvocato ha anche denunciato il fatto che le sia stato impedito di difendere i suoi assistiti, anche impedendole di portare in aula alcuni testimoni.
La protesta. Con il passamontagna colorato, simbolo della band, e cartelli con scritto "beati i misericordiosi", ieri una ventina di sostenitori delle ragazze si sono riuniti sul sagrato della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, per protestare. Un responsabile della sicurezza della chiesa, li ha aggrediti. Secondo le nuove regole adottate la primavera scorsa, che ha inasprito le pene e le sanzioni per proteste non autorizzate, i manifestanti rischiano ora una multa fino a 20.000 rubli (630 dollari) o una sentenza di massimo 40 ore di servizi sociali.
Minacce al giudice. Il giudice che presiede la Corte che sta giudicando il gruppo punk, Marina Syrova, ha ricevuto minacce. Per questo motivo è stata decisa l’assegnazione di una scorta. Aspettando la sentenza, si moltiplicano anche le iniziative di sostegno da parte della società civile.
La mobilitazione internazionale. La vicenda del collettivo femminista russo ha suscitato scalpore e diversi politici e artisti di vari Paesi sono scesi in campo per chiederne la liberazione. L’ultimo appello è quello di Paul McCartney. In una lettera, resa pubblica oggi, l’ex Beatle ha chiesto alle autorità russe di liberare le artiste e poi si è rivolto loro incitandole "a rimanere forti". Ieri è stata diffusa una petizione di Peaches, Simonne Jones e tanti altri musicisti, artisti, attivisti che si sono uniti per produrre un video. 4Martedì un gruppo di intellettuali russi, tra cui il politico Leonid Gozman e il famoso economista Mikhail Dmitriev, hanno scritto una lettera aperta al presidente Putin con la richiesta di grazia. Anche il Consiglio europeo degli Artisti ha mandato una lettera a Poutin per chiedere la liberazione delle tre donne. Dal suo blog, lo scrittore russo, Boris Akunin ha chiamato a raccolta per domani, davanti al tribunale Khamovniki di Mosca, tutti i supporter delle pussy. Bisogna uscire dalla "protesta virtuale" su internet e scendere in strada, ha scritto.
La giornata. Domani è stata indetta una giornata mondiale a favore delle femministe arrestate. Se verrà accolta la richiesta del pubblico ministero, le tre componenti della band dovranno passare tre anni in carcere. Anche le componenti del gruppo che non sono in carcere stanno organizzando una serie di eventi per la giornata di domani. Proprio per timore di manifestazioni spontanee e disordini, la polizia ha fatto sapere di aver potenziato i controlli intorno al tribunale e nelle piazze del centro.
E’ reato dire: "Non hai le palle" *
Niente assoluzione per chi, durante una accesa discussione, rivolge al `rivale’ la frase «non hai le palle». Nonostante l’evoluzione del linguaggio verso la «volgarizzazione delle modalità espressive», per la Cassazione, chi pronuncia queste parole commette il reato di ingiuria perché mette in dubbio non tanto la virilita’ dell’avversario quanto la sua determinazione e coerenza, «virtù che a torto o a ragione continuano a essere individuate come connotative del genere maschile».
Con la sentenza 30719, depositata oggi e relativa a un’udienza svoltasi lo scorso 26 giugno, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di un avvocato potentino, Vittorio G., contro il cugino Alberto G., giudice di pace a Taranto, che in tribunale durante una lite gli aveva appunto rivolto la frase ora incriminata dai giudici con l’ermellino. Anche i magistrati di primo grado avevano ritenuto offensive quelle parole, ma poi, in appello, il verdetto fu di innocenza e venne decretato - dal Tribunale di Potenza con sentenza del 24 gennaio 2011 - che l’accusa di ingiuria «non sussisteva» perché «mancava una effettiva carica offensiva alla espressione utilizzata dall’imputato» in quanto proferita «nell’ambito di una contesa familiare». Alberto fu assolto. Contro il suo proscioglimento ha protestato il legale di Vittorio sostenendo, in Cassazione, che è lecito dire «non rompere le palle, equivalente all’invito a non intralciare l’opera di qualcuno» mentre lo stesso non vale quando, come nel caso in questione, si vuole dire «non hai gli attributi, ossia vali meno degli altri uomini». E la valenza offensiva - ha aggiunto l’avvocato della parte lesa - è ancora più grave «se pronunciata in ambiente di lavoro».
Con questa linea `colpevolista’ ha pienamente concordato la Quinta sezione penale della Suprema Corte affermando - con la penna del consigliere Maurizio Fumo - che «a parte la volgarità dei termini utilizzati, l’espressione ha una indubbia valenza ingiuriosa, atteso che con essa si vuole insinuare non solo, e non tanto, la mancanza di virilita’ del destinatario, ma la sua debolezza di carattere, la mancanza di determinazione, di competenza e di coerenza, virtù che, a torto o ragione, continuano ad essere individuate come connotative del genere maschile». Inoltre, aggiunge la Cassazione, «la frase fu pronunciata in un contesto lavorativo (ufficio giudiziario), a voce alta ed era udibile anche da terze persone». «In tali circostanze - osserva ancora l’Alta Corte - il pericolo di lesione della reputazione di Vittorio G. non poteva essere aprioristicamente escluso sulla base di una pretesa `evoluzione’ del linguaggio verso la volgarizzazione delle modalità espressive». Ora sarà un giudice civile a stabilire se, e per quale ammontare, dovrà essere risarcito il cugino offeso nelle «virtù maschili». (Fonte Ansa)
* La Stampa, 01/08/2012
La ribellione degli uomini
di Gad Lerner (la Repubblica, 2 febbraio 2011)
Il maschio italiano schierato con le donne che si ribellano all’offesa della loro dignità? Tale è la sfida allo stereotipo del vitellone nazionale, da esporlo come minimo a sospetti e ironie. Il furbacchione si trincera dietro alle suore e alle femministe solo ora che c’è di mezzo Berlusconi, altrimenti... È roso dall’invidia per il maturo dongiovanni; si ricicla bacchettone dopo aver predicato la libertà sessuale; spia dal buco della serratura il bottino che mai riuscì a procacciarsi, traduce la frustrazione in moralismo. E avanti di questo passo: quasi dovessimo coprirci di ridicolo, noi uomini, per solidarizzare con le nostre concittadine in un paese noto ormai come il più misogino dell’occidente. Afflitto non a caso dal più alto tasso europeo d’inattività femminile (una donna su due non trova o non cerca lavoro, dato Istat 2009). Per non parlare della loro emarginazione dal potere politico.
Scatta poi un istinto atavico, più nel profondo del maschio intimidito e attratto dall’esuberanza femminile. Se quelle ragazze si offrono al desiderio del potente per trarne vantaggi, non sarà la loro una sottomissione finta? Le fameliche "lupe di Arcore" (copyright di Francesco Merlo) meritano forse di essere considerate vittime, o ha ragione piuttosto chi le addita al pubblico ludibrio come "veline ingrate"? Così i cd di Mariano Apicella imbottiti di banconote da cinquecento euro, al termine dei festini di Arcore, incoraggiano un vile rovesciamento di responsabilità, addossando alla spregiudicatezza femminile - "lei ci stava, vostro onore, trattasi di donna dai facili costumi!" - il marchio della colpa. Un falso alibi che però funziona da millenni.
Forse è venuto il momento di riconoscere che anche il maschio italiano sta subendo nella sua identità sessuale i contraccolpi della pornocrazia, divenuta caratteristica pubblica di una classe dirigente di puttanieri. Non a caso il disagio è avvertibile particolarmente fra i giovani maschi che vivono la delicata scoperta dell’eros in un contesto culturale stravolto da una tale inedita ostentazione del mercimonio. È soprattutto fra loro che si affaccia con timidezza la presa di distanze: io non vivo così il mio bisogno di relazione amorosa; desidero un altro tipo d’incontro con le mie coetanee.
Che idea dell’amore può suggerire ai giovani maschi italiani la notizia di quelle cene in cui tre settantenni, resi interessanti solo dal loro status, si trastullano con venticinque ragazze di mezzo secolo più giovani di loro? A tutti, nell’adolescenza, sarà capitata la fantasia di fare l’amore con le bellezze viste in televisione. Ma poi subentra una fase più matura, la fatica della scoperta individuale della femminilità. Contraddetta dalla visione di questa sessualità immatura per cui il potente si ricostruisce in casa, scimmiottando per capriccio lo spettacolino televisivo, la fantasia adolescenziale del dominio maschile esercitato grazie alla forza del denaro. È la trasposizione privata, ma esibita pubblicamente come credenziale di prestigio, di un’ossessione che serializza il corpo femminile plastificato.
Bambole di carne precocemente rifatte per somigliarsi tutte e corrispondere a un gusto che si distanzia dall’autenticità femminile fino a precipitare nella parodia. Altro che libertà sessuale. È la stessa bellezza dell’amore, la ricerca del piacere nella reciprocità, a subire un attentato. Tanto da provocare nei maschi frustrazione, caduta del desiderio, pulsioni sopraffattrici, mortificazione dell’eros nella virtualità del porno.
Solo in questo senso possiamo riconoscere che siamo vittime anche noi dell’offesa alla dignità della donna. Certo ha ragione suor Rita Giaretta di Caserta quando denuncia la legittimazione giunta dai vertici del potere istituzionale alla schiavitù della vendita del corpo (non solo, ma principalmente femminile) fino ai gradini più bassi della scala sociale. E s’indigna, suor Rita, per il cinismo con cui la parte maschile della nostra società sembra accettarla come norma. Ma proprio perché tale abitudine è cementata da una cultura popolare di massa di cui le televisioni di Berlusconi sono da decenni le volgari battistrada - e di cui le sue abitudini private rappresentano la caricatura parossistica - anche la reazione può e deve essere femminile e maschile insieme.
Ben lungi dalla sessuofobia, la rivolta femminile coinvolge gli uomini in un progetto di dignità comune che è la base della civiltà. Il partito dell’amore è stata la più beffarda truffa politica del premier indagato per favoreggiamento della prostituzione minorile. Ma la faticosa costruzione dell’amore, come ci ricordano pure i nostri più bravi cantautori, è l’intima fatica per cui vale la pena di vivere.
Una nuova sintesi tra emozione e ragione. La lettura tradizionale dell’assoluzione del matricida
Oreste e l’esempio del Sudafrica
Il mito che cancella la giustizia maschile
Dalla tragedia classica di Clitennestra l’idea di un diritto in grado di riconciliare uomini e donne
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 28.04.08)
Crudele, infida, violenta, adultera e assassina: il prototipo dell’infamia femminile. Questa era la fama di Clitennestra presso i greci, consolidata nei secoli dalla messa in scena, ad Atene, nel 458 a.C., dell’Orestea di Eschilo.
La storia è nota: nell’Agamennone,laprima tragedia della trilogia, Clitennestra, durante l’assenza del marito, diventa l’amante di Egisto, e quando Agamennone torna da Troia lo uccide, con la complicità dell’amante. Nella seconda, le Coefore, suo figlio Oreste ordisce, con la sorella Elettra, il piano per uccidere la madre ed Egisto. Nella terza, le Eumenidi, dopo aver realizzato il piano, Oreste è inseguito dalle mostruose Erinni, incitate dallo spettro di Clitennestra, assetato di vendetta. Per risolvere il caso, la dea Atena istituisce il primo tribunale della storia ateniese, l’Areopago, incaricato di giudicarlo: l’era della vendetta è finita per sempre, è nato il mondo del diritto.
Torniamo a Clitennestra: nelle riletture moderne, è molto diversa dall’immagine che i greci ci hanno tramandato. Per le femministe è una donna indomita, dignitosa, capace di opporsi all’infelicità cui le donne sono condannate in quella polis che un grande antichista ha definito «un club di uomini». E a partire dalla sua storia si pongono due domande: continua a esistere, oggi, la violenza di genere che arma la mano di Clitennestra? Quali sono i possibili obiettivi di una politica di riconversione del rapporto uomo/donna? Ma per capire perché Clitennestra diventa il personaggio attorno al quale si organizzano queste riflessioni è necessario andare oltre la sua morte, e seguire gli esiti del processo di Oreste.
La prima sentenza dell’Areopago, infatti, afferma un principio destinato a segnare per secoli il rapporto fra generi: Oreste viene assolto perché «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...».
Inserita nel lungo dibattito greco sulla riproduzione, l’ipotesi del ruolo secondario della madre viene ribadita da Aristotele, al quale dobbiamo una teoria sulla riproduzione che codifica, su basi scientifiche, l’identificazione della donna con la materia e dell’uomo con lo spirito. Anche le donne, spiega Aristotele, hanno un ruolo nella riproduzione: accanto allo sperma, alla formazione dell’embrione concorre il sangue mestruale, ma con un ruolo diverso. Lo sperma è sangue, come quello mestruale, ma più elaborato. Il sangue altro non è che il cibo non espulso dall’organismo, trasformato dal calore: ma la donna, meno calda dell’uomo, non può compiere l’ultima trasformazione, che dà luogo allo sperma. Nella riproduzione, dunque, è il seme maschile che «cuoce» il residuo femminile, trasformandolo in un nuovo essere. Anche se indispensabile, pertanto, il contributo femminile è quello della materia, per sua natura passiva; l’apporto maschile invece è quello dello spirito, attivo e creativo. In Aristotele, insomma, troviamo una teoria delle differenza tra generi destinata a durare per secoli, che traduce la «differenza» in inferiorità: ecco perché la storia di Clitennestra è l’archetipo che consente meglio di ogni altro di interrogarsi sul rapporto uomo/donna. Nel mito in cui la sua storia è inserita la teorizzazione della inferiorità e subalternità femminile è parte integrante ed essenziale del processo che porta alla nascita del diritto e dello Stato.
E veniamo così alle Clitennestre moderne. Le loro storie non sono meno drammatiche di quelle dell’archetipo. Penso a due esempi molto diversi fra loro, e lontani nel tempo: la Clitennestra di Dacia Maraini ( I sogni di Clitennestra, Bompiani 1981) ha perso la forza di ribellarsi, e finisce in un manicomio: la follia, spiega l’autrice in un’intervista del 1984, è la conseguenza della impossibilità delle donne di adattarsi a un mondo che non è fatto per loro. La Clitennestra di Valeria Parrella ( Il verdetto, Bompiani 2007) è vittima-complice di Agamennone, senza speranza alcuna di salvezza: versando il sangue del marito, dichiara, ha versato il suo stesso sangue. Danno molto a pensare, queste Clitennestre, e varrebbe la pena discuterne. Ma ragioni di spazio costringono a rinunziarvi per seguire il discorso sulle strategie di riconversione del rapporto. Oltre alle riflessioni femministe (prevalentemente orientate verso ipotesi di tipo conciliatorio), è importante ricordare alcune recenti riflessioni sul diritto. Lo abbiamo già detto, nell’Orestea la nascita del diritto è legata alla sconfitta della parte femminile e dunque emotiva del mondo. Ma recentemente l’idea che il diritto sia e debba essere solo ragione è stato messo in discussione anche da alcuni giuristi. Osserva ad esempio un esponente di spicco del movimento Law and literature, Paul Gewirtz, che indiscutibilmente, nell’Orestea, le forze della vendetta sono donne (Clitennestra, e le Erinni) mentre il diritto nascente è rappresentato da uomini (Apollo e i giudici, cui si aggiunge Atena, donna-uomo senza madre e senza marito). Ma nella parte finale delle Eumenidi le Erinni, sconfitte, rinunziano al loro lato sanguinario e accettano di entrare nel sistema giudiziario, svolgendovi un ruolo: è la conciliazione dei generi sul piano del diritto. L’interpretazione secondo la quale l’assoluzione di Oreste segna la sconfitta della parte femminile del mondo è da rivedere. Il diritto non può essere solo ragione: per essere giusto, deve dare spazio alle emozioni.
Con le dovute differenze, questa visione del diritto fa pensare al ruolo assegnato alle emozioni dalla «restorative justice», la teoria di una giustizia «riparativa» emersa negli anni Novanta e teorizzata da politici, accademici, lavoratori sociali, gruppi religiosi e nuove figure professionali dette «mediatori di giustizia». Schematizzando all’estremo, per la giustizia riparativa la funzione del diritto è promuovere la riconciliazione tra chi ha commesso e chi ha subito un torto. Per chiarire il concetto può essere utile ricordare che il caso più noto di giustizia riparativa è l’azione della Truth and Reconciliation Commission guidata da Desmond Tutu, incaricata di riportare l’ordine e la riconciliazione nello Stato Sudafricano. E uno degli aspetti fondamentali di questa giustizia è la considerazione data a temi quali le emozioni, negli ultimi anni sempre più al centro delle riflessioni da parte di tutti gli scienziati sociali. Nel 2002, ad esempio, è stato dedicato a questi temi un numero speciale di Theoretical Criminology, ove si legge, tra l’altro, che «per avere un dibattito più razionale sulla giustizia, dobbiamo paradossalmente prestare più attenzione alla loro dimensione emozionale ». Infine, parlando di emozioni, è impossibile non ricordare le indagini a cavallo tra diritto e filosofia di Martha Nussbaum, cui si debbono libri celebri come L’intelligenza delle emozioni (Il Mulino): per comprendere la realtà e per comprendere se stessi, dice Nussbaum, non basta la ragione. Emozioni come l’amore, l’ansia, la vergogna, hanno un ruolo etico nella costruzione della vita sociale, e contribuiscono alla elaborazione di una concezione normativa nella quale le persone sono intese non come mezzi, ma come fini e come agenti.
Rileggendo la storia di Clitennestra, si arriva non solo a mettere in discussione l’opposizione donna-emozione /uomo-ragione. Si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici. Si può arrivare persino a sognare una cultura i cui valori possono cancellare per sempre la necessità della scure.
Caro Federico, ho risposto al tuo bell’articolo sulle donne con il testo di una canzone famosa e di successo (e quindi ampiamente condiviso anche dalle donne, nel quale probabilmente si sono riconosciute) di Zucchero. Non chiudo gli occhi e non immagino nulla. Forse sei tu che pensi, o meglio, ti illudi che la condizione della donna sia migliorata grazie a quella "rivoluzione sessuale" datata 1968. I fatti dimostrano il contrario. Le teste e i comportamenti degli italiani e delle italiane non sono poi così cambiati. Non si vive di solo pane ma anche di valori e giudizi. Volenti o nolenti, in Italia, è la Famiglia il Valore Supremo ! Bisogna prenderne atto; la donna è innanzitutto sinonimo di madre, sorella, moglie, figlia e quindi FAMIGLIA.
I racconti dei protagonisti di quella rivoluzione sessuale che aveva promesso la "liberazione della donna" sono storie di fallimenti, di contraddizioni, di dolore. Le figlie e le nipoti di quella generazione che credeva di vivere "al di là del bene e del male", oggi hanno la possibilità di interrompere una gravidanza non voluta, o di deglutire "la pillola del giorno dopo", di divorziare da un uomo senza sentire il dovere di "provare a ricominciare" (perchè ricominciare è sempre più faticoso che abbandonare), ma ci siamo chiesti che cosa ne hanno guadagnato con questa riforma di mentalità e di comportamento ? Riconoscersi in quella canzone, forse, è un segnale allarmante, è un messaggio sottointeso che dovrebbe coinvolgere tutti noi e renderci conto che il coraggio vero è dire che l’Eros (la sessualità) deve essere sempre al servizio della Charitas (dell’amore), come il nostro Papa Bene-detto afferma ; è questa la vera rivoluzione sessuale !
Ti lascio con un messaggio molto inquietante di una figlia della tua mentalità: Melissa Panarello (http://www.melissap.org), che spero conosci.
"nemmeno per un attimo. non saprei nemmeno come ammazzarmi. quando al liceo leggevo seneca, avvertivo sempre un dolore fortissimo ai polsi. sentivo il suo dolore. mai, quindi, i polsi tagliati. impiccarmi? naaa...non mi vedo penzolare dal tetto: prospettive troppo diverse da quelle a cui sono abituata, sarei costretta a vedere casa mia da angolazioni assolutamente sconosciute. e, a quel punto, mi dispiacerebbe abbandonarla. i barbiturici? sono troppo incostante per vedermi morire lentamente. cos’altro abbiamo? i lanci dalle finestre? una pugnalata al cuore? prendere un cacciavite e ficcarmelo nella pellaccia? ho pensato, è vero, tante volte all’omicidio. a quello sanguinoso, terribile, premeditato.
perchè quando scrivo tengo le gambe contro il petto come se fossi una rana? perchè devo sempre fumare, mentre scrivo? perchè devo sgranocchiare cipster o salatini? perchè, mentre scrivo, sento sempre il bisogno di avere qualcuno davanti che muore, agonizzando? portatemi un morto. portatemelo e ne farò un capolavoro.
Morte morte morte...sto parlando di morte. quando ancora balbettavo e le mie parole non erano altro che suoni storpi dicevo a mia madre "mamma, ci vuole più coraggio a vivere che a morire" e mia madre mi guardava perplessa e mi diceva che ero troppo piccola per fottermi il cervello a quel modo. dovevo pensare ad altro. a giocare, per esempio. io credo di avere troppo coraggio. questo coraggio mi ammezzerà, un giorno. ne sono certa. io sono troppo curiosa, come i gatti. ieri la mia gattina è salita fino all’ultimo piano del palazzo e ha cominciato a miagolare perchè si era persa. io finirò come lei. all’ultimo piano, troppo lontana dalla realtà e dagli altri. urlerò ma nessuno mi sentirà, perchè sarò altrove. sono proprio curiosa di sapere come andrà a finire questa faccenda della vita. questa vita. è la curiosità che mi alimenta, che mi tiene in vita, che mi da e mi toglie passione, che mi scopa come un demonio. ragazzi, la curiosità: non abbandonatela mai. "
Cari saluti. Biasi
’MAMMASANTISSIMA’ E FIGLIO-PADRE ... LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: CHIESA ’CATTOLICA’ !!!
Caro Biasi ... continui ad accecarti: rileggi bene il messaggio "molto inquietante" di una figlia (non della mia, ma) della TUA mentalità. Quello che tu non riesci a capire (e che tu non hai mai osato fare) è che ella si è ribellata alla cecità e al silenzio della madre e si è interrogata in modo radicale!!! Solo su questa strada è possibile trovare se stessi ... e non bambole e non bambolotti - piene e pieni di zucchero!!! E POI capire e amare i propri genitori : ma deciditi, leggi S. Freud - il grande dottore della Legge!!! Del resto, il suo ’fratello’, Gesù, prima di parlare e parlare bene (eu-angelo) dalla Montagna (e non dalla palude dei caimani e dei coccodrilli... dei faraoni dell’antico Egitto), ha affrontato il deserto, la fame, la morte, e ogni tentazione!!! E si è ribellato ai suoi genitori, Maria e Giuseppe, come a tutti i sapienti e i sacerdoti di turno: l’obbedienza non è più una virtù!!! Ciò che non hai affatto capito del cristianesimo (a mio parere), né tu né soprattutto il tuo benedetto prof. Ratzinger, è che è il Figlio a liberare la Madre e il Padre dalla loro stessa cecità!!! Chi mette in croce il Figlio ... sono proprio loro i ’padri’ e le ’madri’ che non sanno da dove vengono e dove vanno - e non conoscono il loro stesso ’Padre’!!! Si riempiono la bocca di sacrifici e di charitas ... e uccidono, uccidono, uccidono - alla grande, come Erode!!! Capisci che cosa ti ha detto Melissa?! Ti ha detto: sveglia, e smettila di fare il ’cattolico’ - di qualsiasi tendenza!!! Abbi il coraggio di ascoltarti: da te stesso vengono le vere domande, non da altri e da altre!!! Parti, comincia: solo così, forse, potrai capire finalmente testo eu-angelico: il figliuol prodigo ... la gioia del padre e della madre, e la stessa invidia-gelosia del fratello restato a casa!!! E capire che significa essere essere umano - cristiano, cristiana, italiano, italiana .. e cosa significa Gioacchino e San Giovanni in Fiore!!! M. cordiali saluti. Federico La Sala
Caro Federico, probabilmente non hai mai affrontato seriamente una lettura delle Sacre Scritture, altrimenti non scriveresti simili castronerie ! Cristo, se leggi bene il Vangelo, ci coinvolge nella sua obbedienza ! Egli è presentato come il modello perfetto di obbedienza al Padre (Eb 5,8). La lettera agli Ebrei esprime effettivamente l’atteggiamento profondo di Cristo:"Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato" (Gv 6,38). Un’obbedienza che gli costa:"Padre, non come voglio io, ma come vuoi tu!" (Mt 26,39)
Capisco l’estrema difficoltà che noi tutti incontriamo nell’obbedire alla volontà del Padre (di fare di tutti noi degli "dei", come scrivesti tempo fa, Federico!). Egli vuole che noi mangiamo dei frutti dell’unico albero che può comunicarci la vita che non finisce mai (Ap 22,2). Ma, data la nostra condizione di creature, dobbiamo ricevere questa vita come un dono assolutamente gratuito, con un atteggiamento di ringraziamento e di benedizione. Ma l’uomo, da sempre ha ceduto alla tentazione di impossessarsi del dono come qualcosa di dovuto, di rapirlo come una preda, di conquistarlo. Noi, povere creature, vogliamo tutto e subito!Come il figliol prodigo, esigiamo che il Padre ci dia subito la nostra parte di eredità, invece di aspettare che l’ora sia venuta. Come Melissa, vogliamo bruciare le tappe della nostra crescita, rifiutiamo con orgoglio la nostra condizione di esseri temporali che possono accedere alla pienezza del Padre solo dopo una lunga maturazione.
Questa impazienza potrebbe essere benissimo la madre di tutti i vizi. L’ambizione,la furberia, la violenza, l’ostinazione, il vedere nell’altro solo uno strumento al servizio dei nostri desideri, in breve, il non amore, tutto questo non nasce forse dal terrore che ci prende di fronte al tempo che passa?
Per guarire l’uomo da questa sua orgogliosa impazienza, Dio manda suo Figlio sulla terra a condividere la nostra condizione temporale. Impariamo da Lui, caro Federico, il quale invece di essere immediatamente trasfigurato e riconosciuto tra gli uomini, come meriterebbe in quanto Figlio di Dio, accetta di esserlo solo al momento stabilito dal Padre. Accetta tutte le attese, e specialmente tutti i ritardi che gli abitanti di Nazaret o gli apostoli gli impongono. Impariamo dalla pazienza del Verbo incarnato, non ribelliamoci contro la nostra condizione mortale, ma serviamocene per dire "sì" al Padre. Questo "sì" deve passare a poco a poco nel nostro cuore. Come disse Ambrogio, "ha accolto l’obbedineza per travasarla in noi".
Non bestemmiare facendo dire al Cristo che l’obbedienza non è più una virtù, ma bensi afferma che l’obbedienza è ob-audire, "ascoltare bene" ciò che il Padre ripete a ciascuno di noi con infinita tenerezza: Tu sei il mio figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto. È questo il sacrificio perfetto di obbedienza che gli è più gradito e che riconduce a lui tutti i suoi figli dispersi, tutti i suoi figli prodighi...
Con grande stima e simpatia.Biasi
OBBEDIRE AL "PADRE NOSTRO" ... non è obbedire al fratello che si traveste da ’Santo Padre’, e nemmeno obbedire a Mammona, a ’Mammasantissima’!!! W O ITALY, VIVA LA COSTITUZIONE DEI NOSTRI ’Giuseppe’ E DELLE NOSTRE ’Marie’!!!
Caro Biasi
come volevasi dimostrare: e cosa puoi capire se abiti ancora in ’egitto’... e hai votato "sì" alla riforma della costituzione, ’partorita’ nella baita!!! Che devo dire?! Io non sono un teologo, né il tuo benedetto prof. Ratzinger!!! Ma la tua CECITA’ ... e la tua IGNORANZA DEI TESTI DELLA LEGGE E DEI TESTI EU-ANGELICI è totale: studia, studia, e studia ancora! E poi ne riparleremo.... intanto, se riesci e lo spirito del "Padre Nostro" ti assiste, vedi un po’ se riesci a tornare a casa (il figluol prodigo) e cerca di restituire l’Amore a cui sei pervenuto proprio a tuo ’padre’ e a tua ’madre’ che te L’hanno donato.... Se permetti, le mie ’lezioni’ (doni) sono finite per te. Se vuoi svegliarti, solo tu lo puoi. Così è scritto, e così E’. Con la stima di sempre, i miei più cordiali saluti.
Federico La Sala
Caro Federico, penso che sopravviverò anche senza le tue lezioni gratuite (doni). Comunque ti ringrazio per i tuoi sforzi, atti a guarirmi dalla mia presunta cecità. Capisco il tuo stupore di fronte a chi difende la propria fede ponendosi al centro della certezza. Spero solamente che tu non ti senta sottovalutato o sminuito, o addirittura ridicolizzato. Un credente come me non è necessariamente un convertito, e anche nel caso che lo sia, è raro che sia passato dall’incredulità alla fede per motivi dedotti dalla ragione, dalla storia o dall’analisi impersonale. È un’esperienza interiore incomunicabile, un avvenimento o una serie di avvenimenti convergenti (una disgrazia, un’umiliazione, un allettamento, un’esperienza di peccato o una voce) che l’hanno condotto alla fede. La conversione si colloca in regioni profonde nelle quali il pensiero chiaro penetra con difficoltà, fuorchè per giustificare a cose avvenute una risoluzione intima e irresistibile.
Se ti ho esposto le ragioni della mia fede, non ho potuto presentarti le stesse come quelle che mi hanno convinto personalmente; ti ho chiesto uno sforzo che personalmente non ho fatto e che è di un ordine totalmente diverso. Io mi sono installato in quella cittadella che tu critichi o non vuoi neanche prendere in considerazione, ma che molto probabilmente cerchi disperatamente. Per accedervi Egli ha fatto costruire strade carozzabili attraverso il bosco. Sono strade tracciate partendo dal centro:sono perfette, geometriche, irradianti. Ma tu, che non ti trovi (ancora) in cima alla torre, che vedi il castello dal di fuori, con le sue antiche mura e le sue aperture, che sei smarrito tra macchie e rovi, non sai bene nemmeno se devi andare avanti o se le aperture nascondono qualche trappola, se la vita nel castello è poi così felice e sicura; ti ferisci con i rovi, esiti e hai paura di quelle strade ben battute, che sai costruite dagli incaricati del principe e ti chiedi se non sono troppo belle per i tuoi passi...
Non avere paura, caro Federico, di percorrere quelle strade così perfette, irradianti, colme di luce per i nostri passi. Non avere paura di Cristo e della sua Chiesa! È questo il mio augurio, è questa la mia speranza.
Colgo l’occasione per chiederti umilmente perdono se in alcune occasioni ti sei sentito ferito o offeso da qualche mia affermazione.
Grazie per tua pazienza e attenzione nei miei confronti e ti faccio i miei migliori auguri per il tuo futuro e per i tuoi impegni professionali. Biasi