Riforme

Costituzione al bivio: mantenere o cambiare?

Il 25 e 26 giugno si torna alle urne per manifestare consenso o dissenso alle modifiche della Costituzione italiana.
venerdì 26 maggio 2006.
 

Leggevo le modifiche che si vogliono apportare alla nostra Costituzione. È evidente l’assoluta rivoluzione che si va a proporre ai cittadini chiamati alle urne a fine giugno. Sul finire del 2005 il Parlamento ha approvato una profonda riforma della Costituzione, il testo base che disciplina organicamente diritti e doveri dei cittadini e, soprattutto, chiarisce le funzioni dei più importanti organi dello Stato: Presidente della Repubblica, Camera dei deputati, Senato, Governo, Magistratura, Corte costituzionale ed, infine, Enti locali. Pur non essendo la prima volta che il Parlamento approva delle modifiche, la riforma interessa stavolta moltissimi articoli. Questi, in via di cambiamento, vanno a modificare radicalmente i rapporti tra Parlamento, Governo e Presidente della Repubblica, ed anche quelli tra Stato ed Enti locali.

Innanzitutto, da quanto si evince leggendo il testo della riforma, se questa sarà approvata, non si potrà di certo più definire l’Italia come una Repubblica parlamentare, poiché l’intera politica ruoterà attorno alla figura del Primo Ministro. Il Premier, infatti, potrà decidere in qualsiasi momento di sciogliere solo la Camera dei Deputati, imponendolo anche al Presidente della Repubblica. Non solo, la riforma va a modificare anche temi delicati quali l’assegnazione alle Regioni di materie come la scuola e la sanità. Osservando la Costituzione, il “Testo sacro degli italiani”, l’attenzione è andata su di un articolo particolarmente importante e delicato perché quello più a diretto contatto con i cittadini. Infatti l’articolo 117 disciplina le competenze rispettive tra Stato e Regioni: in esso vengono chiaramente distinti i ruoli dello Stato e le materie di pertinenza delle Regioni, alle quali, appunto, spettano tutte quelle materie non riservate alla competenza statale. Ampliandosi la devolution, in particolare, non sarebbe più prevista la distinzione relativa tra Stato e Regioni soprattutto in materia sanitaria. Questo potrebbe comportare, a lungo andare, nette differenziazioni di erogazione di prestazioni sanitarie nelle diverse regioni. Tanto per parlare chiaro, la sanità calabrese non è uguale a quella lombarda, ma, oggi, essendo disciplinata da un’unica legge nazionale, si parte da una pari dignità. E domani?

Tuttavia ora la domanda viene spontanea. Accrescendosi il potere delle Regioni, il Governo potrà adottare delle contro mosse, come l’annullamento di una legge regionale, se contro l’interesse nazionale? L’Italia non è tutta “rossa”, ma neanche tutta “nera”. Sembra allora plausibile che, se una legge fosse emanata da una regione con un colore diverso di quello nazionale, gli si possano mettere facilmente i bastoni tra le ruote. Tutto ciò comporterebbe enormi svantaggi, specie per le regioni meridionali, già afflitte da carenze amministrative e dalla difficoltosa possibilità di accesso alle strutture base.

Per quanto riguarda il Parlamento, mi sembra di capire che, oltre a mutare il nome del Senato in Senato Federale della Repubblica, cambi anche l’elezione dello stesso, in quanto le votazioni dei Consigli regionali non avvengono tutte contestualmente. Quindi, tornando a quanto detto, appare evidente la non curanza del nuovo Senato dell’eventuale scioglimento anticipato previsto solo per la Camera dei Deputati in quanto sotto diretta competenza dei voleri del Primo Ministro.

Da quanto si evince continuando a scorrere tra gli articoli, appare logico il potenziamento della figura del Premier, che dura in carica l’intera legislatura. Pur essendo (per fortuna) ancora eletto dai cittadini, esso non può essere “mandato a casa”, in quanto anche in presenza di fatti che presentano una sostanziale gravità, deve per forza avere una sorta di “sfiducia” dalla Camera da lui controllata. È logico ipotizzare che, se la Camera votasse contro il Premier, in quanto composta dalla assoluta maggioranza, significherebbe la fine della legislatura. Alias fine di perdite di benefit, privilegi e, soprattutto, termine della possibilità di fare quello che si vuole. Ipotesi, quindi, remota. Inoltre, la riforma prevede nette riforme al ruolo della Corte costituzionale, figura garante delle norme costituzionali insieme al Presidente della Repubblica, perché al di fuori dei tre poteri dello Stato. Nel caso passassero le modifiche, pur lasciando inalterato il numero dei togati che la compongono, sette dei quindici giudici saranno nominati direttamente dal Parlamento. Vorrà dire che avremmo, alternativamente, dei giudici che favoriranno la propria parte politica. Così non si difende di certo la costituzione.

Per questo prossimo referendum di fine giugno, non c’è assolutamente bisogno del raggiungimento del quorum. Occorre, quindi, valutare nella maniera più approfondita possibile le conseguenze immaginabili da questo tipo di riforma costituzionale. Riformare è sinonimo di cambiamento. Ma cambiare non significa sempre migliorare.

Mauro Diana


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