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Una scelta per proseguire le riforme o vincono i conservatori a oltranza
Di Angelo Panebianco Corriere della Sera 01/06/06
Per decidere come comportarsi nel referendum costituzionale del 25 giugno credo si debbano immaginare gli scenari che discenderebbero, rispettivamente, da una vittoria del sì e da una vittoria del no. Pensiamo a che cosa accadrebbe se vincesse il sì. Le parti più importanti della riforma entrerebbero in vigore solo nel 2011. Ci sarebbe il tempo per intervenire sugli aspetti più insoddisfacenti del testo: in particolare, per modificare composizione e prerogative del Senato (così come è congegnato è il principale punto debole della riforma). Si noti che molti esponenti del centrodestra si sono dichiarati consapevoli della necessità di apportare modifiche su questo e altri punti. In caso di vittoria del sì, si aprirebbe dunque lo spazio (con cinque anni di tempo per raggiungere un accordo) per una trattativa fra centrosinistra e centrodestra al fine di migliorare il testo. Una volta fatto ciò avremo finalmente la riforma costituzionale vanamente inseguita per un quarto di secolo. Avremo un nuovo ordinamento caratterizzato da un premier forte, dalla fine del bicameralismo perfetto (due Camere con uguali poteri, causa di tante inefficienze), una drastica riduzione del numero dei parlamentari e una correzione abbastanza ragionevole (per lo più, in senso centralista) della pessima devolution (la riforma del titolo V) voluta dal centrosinistra nel 2001. Immaginiamo ora che cosa accadrebbe se prevalesse il no. Accadrebbe che la Costituzione tornerebbe ad essere immodificabile per parecchi decenni a venire. È il vero punto debole del manifesto dei «riformatori per il no», lanciato da due costituzionalisti di cui chi scrive ha grande stima, Augusto Barbera e Stefano Ceccanti. Molte idee contenute nel manifesto, sia sui gravi difetti della Costituzione vigente sia su quelli del testo varato dal centrodestra, sono, almeno per chi scrive, condivisibili. Ciò che non è condivisibile è la conclusione, la tesi secondo cui, in caso di vittoria del no, ci sarebbe ancora lo spazio per riprendere a breve termine la strada della riforma costituzionale. Non è così. Per almeno tre ragioni. In primoluogo, perché, come dimostrano gli argomenti usati dai promotori del referendum, è tuttora molto forte in questo Paese l’area dei conservatori costituzionali ad oltranza, persone che (legittimamente) ritengono la Costituzione vigente la migliore delle Costituzioni possibili e che, per difenderla, non hanno neppure esitato a rispolverare l’ideologia resistenziale (sembra, ad esempio, che per costoro il premierato sia una specie di tradimento dei valori resistenziali, l’apertura delle porte al fascismo, eccetera). In caso di vittoria del no, essi si appellerebbero legittimamente al responso degli italiani per bloccare ogni nuova ipotesi di riforma. La seconda ragione è che nella maggioranza di centrosinistra ci sono molti gruppi contrarissimi al premierato e questi gruppi farebbero valere il ruolo che svolgono ai fini della stabilità del governo per bloccare nuovi tentativi di riforma. Da ultimo, non sarebbe più possibile né togliere al Senato il potere di conferire la fiducia al governo né ridurre il numero dei parlamentari. I senatori, e i parlamentari in genere, lo impedirebbero. Se queste misure sono passate con la riforma del centrodestra ciò è accaduto per una specie di miracolo, probabilmente perché molti parlamentari del centrodestra non credevano in cuor loro che la riforma sarebbe davvero andata in porto. È difficile che imiracoli si ripetano due volte. Due parole, infine, sulla devolution. Premesso che chi scrive trova comunque insoddisfacente qualunque intervento in questo campo che eluda gli aspetti fiscali, resta che, se si confrontano i due testi, il titolo V riformato dal centrosinistra oggi in vigore e il testo della riforma, si scopre che la devolution 1 (la riforma del centrosinistra) è assai più confusa e pasticciata della devolution 2 (quella del centrodestra). Quest’ultima, per lo meno, definisce meglio le competenze esclusive delle Regioni e ricentralizza (reintroducendo il principio dell’interesse nazionale) materie che, insensatamente, il centrosinistra aveva attribuito alla competenza congiunta di Regioni e Stato. Per queste ragioni, chi scrive voterà sì.
Referendum: giudichiamo la riforma. E basta
LE PROMESSE NON CONTANO
di Giovanni Sartori Corriere della Sera 04/05/06
Le costituzioni non sono né di destra né di sinistra. O sono ben fatte (accettabili) o sono malfatte (inaccettabili). Il che sottintende che una costituzione dovrebbe essere giudicata secondo criteri funzionali. Funzionerà bene? Funzionerà male? Ma siamo in Italia. Guai a fare le cose nel modo giusto. Così la sinistra (da sola) ha votato una riforma federalista nel 2001; dopodiché la destra (da sola) ha modificato la riforma federalista della sinistra e, per di più, ha anche radicalmente modificato la forma di governo. A questo punto ci casca addosso il 25 giugno un referendum che dovrà approvare o rifiutare la Carta imposta a colpi di maggioranza blindata dalla destra sulla sinistra. Ed è quasi inutile protestare osservando, come ho già osservato nel mio incipit , che le costituzioni non sono né di destra né di sinistra. Esattamente come non lo sono le medicine, o qualsiasi commestibile. La medicina rossa non esiste, così come non esiste la carne azzurra (Forzista) o il pesce democristiano. Eppure in Italia - ridiamoci sopra insieme - è così. Il mio editoriale del 27 maggio ha sollecitato parecchi interventi: di Barbera e Ceccanti, di Panebianco e Salvati e, ieri, di Bassanini ed Elia. Interventi che mettono a fuoco i preliminari del dibattito. Tra questi se sia il No (rifiuto) oppure il Sì (approvazione) a meglio garantire una ripresa costruttiva del processo di riforma costituzionale. Un dibattito che viene subito falsato dall’argomento che la vittoria del No darebbe il potere di bloccare tutto ai conservatori costituzionali a oltranza. Quacquaraquà a parte, chi sarebbero? Esiste un volume curato da Bassanini nel quale 63 costituzionalisti dichiarano che la nuova Costituzione è «sbagliata» ma ritengono al tempo stesso che la Costituzione del ’48 debba essere migliorata e corretta. L’altro giorno l’Associazione Italiana dei Costituzionalisti si è espressa nello stesso senso. Dal che si ricava che gli immobilisti costituzionali sono un’invenzione di comodo che fa comodo - cito per tutti il Tremonti inedito di ieri - per sostenere che bisogna «votare sì al referendum per non interrompere il cammino delle riforme». A me, confesso, il bidone sembra monumentale. Promettere che una Costituzione approvata in Parlamento e poi confermata da un referendum verrà subito dopo ritoccata è davvero una promessa a credibilità zero. Sì, è vero che d’un tratto i Berlusconi boys si dichiarano accomodanti e pronti a negoziare. Persino Bossi, figurarsi. D’un tratto perché sinora hanno fatto la faccia feroce. Pertanto, è di tutta evidenza che se ora si trasformano in agnellini è perché temono di perdere il referendum. Ma se lo vincessero, direbbero subito che la volontà popolare è intoccabile. Come scrivono Bassanini ed Elia, «la priorità assoluta è la vittoria del No. In caso contrario prevarrebbe la conservazione di una riforma sbagliata e ingestibile». La vittoria del No, invece, non precluderebbe nulla. Cadrebbe il Federalismo 2 di Bossi; e anche se così resterebbe in vigore l’altrettanto sbagliato Federalismo 1 della sinistra, a questo effetto la sinistra largamente conviene, da tempo, di avere sbagliato. Il No apre dunque una speranza credibile di buone riforme; il Sì ci inchioderebbe invece senza scampo a una Costituzione disastrosa.
REFERENDUM, ECCO PERCHE’ VOTARE
Cominciamo da dove vogliamo, ma cominciamo. Spogliandoci dei panni di Sisifo che nella mitologia antica era costretto a fare una fatica boia per l’eternità senza mai arrivare a compiere la sua missione. È una lezione che chi si dice politico deve tenere a mente. Negli ultimi miei scritti ho già detto che non possiamo farci prendere dalla tentazione di lasciare la corsa all’ultima curva: una sciagurata vittoria dei No frenerebbe quel cambiamento atteso da quindici anni e che lentamente ha comunque cominciato a dare frutti. Di federalismo non s’era mai parlato fino all’arrivo di Umberto Bossi. Le Regioni erano delle riserve politiche: oggi invece sono laboratorio e, soprattutto, sono il vivaio di uomini e donne sempre più apprezzati dai cittadini perché capaci di amministrare. Lo stesso vale per i Comuni e le Province. Da Formigoni alla Bresso, da Galan a Bassolino o a Bersani, da Albertini a Chiamparino, Cacciari o Illy ma anche gli stessi Rutelli e Veltroni sono figli di una cultura politica nuova e cioè del federalismo, dell’esaltazione dei territori e delle loro identità. Volutamente ho elencato nomi appartenenti allo schieramento avversario, proprio per dimostrare che grazie al vento leghista tutti i partiti hanno dovuto fare i conti con il sentimento identitario del popolo. Certo, poi ognuno interpreta la politica secondo le proprie idee e le proprie ideologie, ma intanto una nuova classe politica è cresciuta privilegiando le istanze del campanile.
Tutto questo però non basta. Occorre ora che le Regioni contino di più. Che chi governa negli enti locali abbia una funzione specifica. Che abbiano un potere normativo e poi fiscale esclusivo seppur nell’interesse generale. La riforma del Titolo V fu un passo avanti, timido ma concreto. Non fu una distrazione o una leggerezza di cui pentirsi, il fatto che in occasione del referendum confermativo di quella modifica costituzionale, il centrodestra - allora al governo - non fece campagna elettorale per il no. O che Bossi, allora ministro delle Riforme, lasciò la Lega fuori dalla campagna referendaria. Accadde che il sì passò e che la Costituzione fu modificata ma la cosa non ostacolò la maggioranza nel mettere a punto la “propria” riforma costituzionale (la quale ricordo fu presentata nel programma elettorale del 2001). Lo stesso ragionamento sarebbe stato auspicabile anche questa volta se non fosse che ormai i soldati sono già passati in armeria. Non si sa perché ma se il cambiamento arriva da destra, la sinistra insorge per partito preso. Ieri in una intervista al Corriere della Sera, Giulio Tremonti ha ricordato alcuni passaggi del testo di Giuliano Amato dove si parlava di un rafforzamento dei poteri del premier: siamo così lontani da quanto è scritto nella riforma costituzionale varata dalla Cdl? No, commenta Tremonti.
Ieri l’altro, Umberto Bossi in una intervista alla Padania dimostrava una disponibilità ad aprire un tavolo politico al fine di migliorare il testo su cui si esprimerà il popolo. Ovviamente partendo dal sì. Perché dico ovviamente? Perché la vittoria del no, paralizzerebbe tutto. Si potrebbe dire che replicheremmo la stagnazione in cui si trova ora la Costituzione europea dopo la bocciatura di Francia e Olanda. Né più né meno. Bloccare pertanto la riforma della Costituzione in senso federale sarebbe un grave errore, perché smorzerebbe l’unica ondata di freschezza degli ultimi quindici anni. Il federalismo è vincente. Solo lasciando le Regioni libere di svilupparsi appieno avremmo due grandi vantaggi: la crescita (economica, sociale, culturale) e la responsabilizzazione della classe politica. Una evoluzione che farebbe il bene dei singoli territori e l’interesse generale. C’è chi chiede che si sottolinei la solidarietà del federalismo: la cosa mi sorprende perché il federalismo è solidale in sé. Non c’è infatti una Costituzione in cui sia specificato che il federalismo debba essere solidale: lo è già di suo.
Le recenti valutazioni dei bilanci regionali rispetto alla spesa sanitaria hanno evidenziato la virtuosità di chi pur garantendo parametri qualitativamente alti è stato bravo a tagliare gli sprechi. A destra come a sinistra. Il federalismo inchioda al rispetto delle regole: la stagione di Pantalone che paga sempre può finire. Ecco perché occorre convincere gli indecisi a votare sì.
Ci sono infine alcune questioni che nel dibattito sono state toccate solo marginalmente. Le elencavo all’inizio dell’articolo. C’è la norma antiribaltone che così impedisce la tentazione di governicchi tira-a-campare. C’è la fine del ping pong tra una Camera e l’altra, dove le leggi rischiavano di fare la navetta solo perché nel frattempo qualcuno aveva cambiato idea su una frase o perché un partito faceva il furbo per ottenere qualcosa in cambio. Ecco, con la nuova Costituzione le leggi nazionali le fa sono la Camera. Punto fine. Poi c’è il taglio dei parlamentari, cioè un beneficio che si commenta da sé. La sinistra, avendo capito che l’argomento ha una certa presa, comincia a dire che si tratta dell’unico argomento valido della riforma oppure, nel peggiore dei casi, che è solo propaganda. Bella faccia tosta. Per anni se non per decenni ci siamo lamentati perché il numero dei parlamentari è eccessivo e adesso che il taglio è stato messo nero su bianco, c’è chi dice che è propaganda... L’altro giorno il ministro Vannino Chiti ha promesso che se anche dovesse vincere il no, la sinistra varerà comunque una legge di riduzione del numero dei parlamentari. Ci piacerebbe credere al ministro Chiti ma proprio non ce la facciamo: la moltiplicazione di ministri, viceministri e sottosegretari del governo Prodi sfiora il record assoluto ed è lì da vedere. Tutto perché non riuscivano ad accontentare tutti i partiti e le loro correnti. E allora una maggioranza che sta in piedi sulla distribuzione del potere e delle cadreghe, secondo Chiti dovrebbe tagliare il numero dei parlamentari? Andiamo...
I miracoli accadono una sola volta e allora, cari signori, mettiamo una bella croce sul sì prima che ci ripensino. E così anche questa è fatta!
(Gianluigi Paragone, La Padania, 4 giugno 2006)