"Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marca o colore dei vestiti,
chi non rischia,
chi non parla a chi non conosce.
Lentamente muore chi evita una passione,
chi vuole solo nero su bianco e i puntini sulle i
piuttosto che un insieme di emozioni;
emozioni che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbaglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti agli errori ed ai sentimenti!
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza,
chi rinuncia ad inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia e pace in sè stesso.
Lentamente muore chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare,
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli si chiede qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di
gran lunga
maggiore
del semplice fatto di respirare!
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di
una splendida
felicità."
"Pablo Neruda"
Trattasi di una poesia di Martha Medeiros, brasiliana di Porto Alegre, pubblicitaria e cronista per Zero Hora (fls).
PIANETA TERRA: "UNA PALLA DI NEVE ALL’INFERNO". Fine della Storia o della Preistoria?!
QUAL è questa "direzione sbagliata"?! IN UNA CONFERENZA DEL 9 GENNAIO 1970, GREGORY BATESON, in una brillante sintesi, così riassume la visione del nostro rapporto storico con la natura:
"[...] Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio.
La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con
l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante.
Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno.
Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle riserve. Le materie prime del mondo sono limitate.
Se io sono nel giusto, allora il nostro atteggiamento mentale rispetto a ciò che siamo e a ciò che sono gli altri dev’essere ristrutturato. Non si tratta di uno scherzo, e non so quanto tempo abbiamo ancora prima della fine"
(cfr. G. Bateson, "Verso un’ecologia della mente", Adelphi, Milano 976, p. 480).
Internazionale
La terra è malata, una quarantena lunga mezzo secolo
Earth Day. La Giornata mondiale della Terra: dai 20 milioni in strada nel 1970 alla maratona virtuale planetaria di oggi imposta dal coronavirus. L’esortazione del direttore generale dell’Onu Guterres: cambiare rotta, investire sul verde
di Marinella Correggia (il manifesto, 22.04.2020)
«È surreale, come se fosse un pianeta completamente diverso»: così il cosmonauta russo e i due astronauti statunitensi si sono espressi il 17 aprile al loro ritorno a casa dopo sei mesi nello spazio.
E nella quarantena mondiale, completamente diversa è anche la Giornata mondiale della Terra: l’evento compie 50 anni spostandosi completamente sul digitale.
QUELLO STORICO 22 APRILE 1970, invece, mobilitò 20 milioni di statunitensi (il 10% della popolazione dell’epoca) determinando un cambiamento anche politico e normativo.
Come Giorgio Nebbia ricordava sul manifesto tre anni fa, «le persone scoprirono l’ecologia, l’economia della natura», che diventò la «bandiera di una nuova contestazione del potere economico e militare, della violenza della società dei rifiuti, degli sprechi e delle armi - le merci oscene, con la richiesta di nuovi diritti, nuovi modi e processi di produzione, senza ignorare le domande delle classi e dei popoli poveri ed esclusi».
Come nasce l’Earth Day? Nel 1969, dopo una grave fuoriuscita di petrolio in California, il senatore Gaylord Nelson si propone di unire l’energia dei movimenti contro la guerra nel Vietnam con l’emergente consapevolezza ambientale. Recluta un attivista per organizzare eventi a partire dai campus.
La mobilitazione avviene il successivo 22 aprile. La Cbs parla di «giornata unica nella storia degli Stati uniti». Successo incredibile, strade, parchi, sale conferenze colmi di gente ed eventi. Manifestazione per la Giornata della Terra il 22 aprile del 1970
Gruppi impegnati contro fabbriche inquinanti, discariche tossiche, pesticidi velenosi, inquinamento idrico da petrolio, perdita della biodiversità marciano insieme.
Un po’ è anche il primo «sciopero per il clima»: le scuole non vengono chiuse ma molte annunciano che le assenze sono giustificate. In un intento eco-pax, a New York compaiono i poster di un personaggio dei fumetti che raccoglie i rifiuti lasciati da una manifestazione esclamando: «Il nemico siamo noi» (sottinteso: e non i vietcong).
LA PRIMAVERA ECOLOGISTA è sbocciata. Pochi mesi dopo negli Usa nasce l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) e in seguito si approvano leggi importanti (anche se poi poco rispettate) per l’aria, l’acqua, la biodiversità, il lavoro: il Clean Air Act, l’Occupational Safety and Health Act, l’Endangered Species Act, norme sull’uso dei pesticidi e il Clean Water Act.
Nel 1972 si svolge a Stoccolma la Conferenza delle Nazioni unite sull’ambiente umano. Solo nel 1990 l’Earth Day diventa mondiale. Vengono raggiunti in vario modo 200 milioni di persone in 141 paesi. Dopo due anni, Rio de Jaineiro ospita la Conferenza delle Nazioni unite su ambiente e sviluppo.
Con il nuovo millennio il focus della Giornata si sposta sui cambiamenti climatici, mentre inizia l’era digitale. Nel 2010 sono coinvolte 75.000 organizzazioni in 192 paesi. Secondo le stime, negli ultimi anni le iniziative della Giornata sono arrivate ad almeno un miliardo di persone. Nel frattempo cresce il movimento dei giovani per il clima.
2020: L’EARTH DAY DIVENTA digitale obtorto collo. Un virus riconducibile all’invasione e alla distruzione degli ecosistemi a opera degli umani ha rinchiuso in casa questi ultimi, mentre gli altri esseri della Terra hanno ripreso un po’ di spazio.
Cosa avverrà dopo questi mesi inediti? Per la Giornata, il segretario generale dell’Onu António Guterres ha proposto un programma in vari punti: investire fondi in posti di lavoro verdi, usare la leva fiscale per il passaggio dall’economia grigia a quella verde, porre fine ai sussidi ai combustibili fossili, introdurre il principio del chi inquina paga, incorporare i rischi climatici nel sistema finanziario e nelle politiche pubbliche.
Moltissimi gli eventi virtuali della Giornata, indicati sul sito www.earthday.org. Da Haiti dove il gruppo Fineste propone l’appuntamento di in-form-azione Sauvons la planète, agli Emirati dove un ospedale pediatrico infantile pianta tre alberi nel cortile, affigge poster nell’atrio e trasmette video sul tema; dall’India dove la tradizionale Veglia verde si trasferisce sui social media, a New York dove l’organizzazione dei parchi propone lezioni di pollice verde indoor; dalla Cina dove si muove la China Biodiversity Conservation, alla Svezia che organizza incontri digitali improntati su «quello che avete cercato di fare per l’ambiente e non ha funzionato».
IN ITALIA, FRA L’ALTRO, la maratona virtuale #onepeopleoneplanet sul canale Rai Play dalle 8 alle 20, il flashmob virtuale di Legambiente #abbracciamola, il dibattito a Brescia in streaming (con studenti, docenti, esperti, cittadini) su Covid e sostenibilità prima, durante e dopo l’emergenza.
Il riscaldamento globale al tempo del coronavirus
di GIUSEPPE DI CAPUA e SILVIA PEPPOLONI*
Il coronavirus (Covid19) ha eclissato la comunicazione e il dibattito nei media sul riscaldamento globale, i cambiamenti climatici, l’economia verde, le minacce antropiche agli ecosistemi, l’inquinamento da plastiche negli oceani, ed altro ancora.
Il dato aggiornato al 16 gennaio 2020 del livello di CO2 atmosferica, misurato al Mauna Loa Observatory nelle Hawaii, segna un nuovo incremento, raggiungendo il valore di 413 parti per milione.
Il mondo è giustamente spaventato dal coronavirus e dalle conseguenze sanitarie di una pandemia rapida e ancora parzialmente ignota. L’economia globale è entrata in una fase di crisi che potrebbe addirittura avere conseguenze superiori alla grande crisi del 2007-2009. Le catene di approvvigionamento mondiali in grado di spostare rapidamente enormi flussi di energia e materia da una parte all’altra del pianeta si sono bruscamente interrotte o hanno ridotto la loro capacità operativa. Crolla il prezzo del petrolio per ragioni legate anche a strategie economiche e geopolitiche guidate dal alcune nazioni produttrici: questo renderà il greggio una fonte energetica ancora più appetibile per far ripartire l’economia nel breve futuro, ricordandoci ancora una volta che la storia energetica dell’umanità non è fatta di transizioni, ma di addizioni energetiche (Bonneuil e Fressoz, 2019) e che nei prossimi anni occorrerà aspettarsi una modifica del mix energetico utilizzato dalle società umane (con un incremento delle fonti rinnovabili di energia), piuttosto che un completo abbandono delle fonti fossili.
L’unica notizia di rilievo, ripresa ampiamente dai social media e dai media tradizionali in tema ambientale, è la riduzione dell’inquinamento in Cina da biossido di azoto (NO2), un gas prodotto dalla combustione ad alta temperatura che provoca forte irritazione polmonare. La riduzione sembrerebbe essere dovuta in larga parte al blocco delle attività industriali e alla drastica riduzione del trasporto veicolare per effetto delle misure di contenimento della diffusione del Covid19. Anche nella Pianura Padana, area tra le più inquinate d’Europa, la riduzione dell’inquinamento da NO2 per il rallentamento dell’economia mostra una chiara evoluzione.
Il riscaldamento globale e tutti gli effetti associati sono quasi scomparsi dai media. Eppure non c’è da essere meno preoccupati della pandemia in corso, come fa notare il meteorologo Luca Mercalli in una recente intervista. Mario Tozzi su La Stampa collega l’epidemia in atto ai danni ambientali antropogenici. Allo stesso modo fa Simona Re sulla rivista Micron per la quale “clima e salute viaggiano in tandem” rifacendosi a quanto afferma il direttore dell’Istituto di Genetica molecolare del CNR-IGM di Pavia per spiegare la maggiore frequenza delle epidemie negli ultimi decenni. Del resto sempre Simona Re fa notare che “la sovrappopolazione e la crescente frequenza e rapidità dei nostri spostamenti sono fattori di rischio per lo scatenarsi di un’epidemia”.
Una cosa è certa: nella comune percezione il riscaldamento globale in questo momento non è un problema. D’altro canto, su La Stampa Jacopo Pasotti riflette sulle differenze nella risposta umana alla crisi ambientale e a quella sanitaria per pandemia, affermando che “dopo decenni di indifferenza”, l’emergenza climatica “sta forse cominciando a generare una comunque tiepida preoccupazione”.
In ogni caso, l’odierno atteggiamento generale delle persone verso l’emergenza climatica è del tutto comprensibile, viste anche le differenti scale temporali su cui gli effetti del coronavirus (da pochi giorni a qualche mese) e del riscaldamento globale (da qualche anno ad alcuni decenni) si sviluppano.
Ma come scrive Francesca Mancuso su greenMe, richiamandosi alle affermazioni di Antonio Guterres, Segretario Generale dell’ONU, e di Petteri Taalas (segretario generale dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale) per i quali i cambiamenti climatici sono mortali, più del coronavirus, “Sembra incredibile agli occhi di un italiano, costretto a casa per paura del contagio, eppure il riscaldamento globale ci riguarda da vicino e può mettere a repentaglio la nostra vita e quella delle generazioni future”.
Di certo l’emergenza del Covid19 insegna, o meglio conferma, alcune riflessioni già emerse da alcuni anni nell’ambito della geoetica (etica per la gestione dell’interazione tra gli esseri umani ed il sistema Terra) (Peppoloni e Di Capua, 2020), utili proprio per affrontare la crisi ambientale in corso:
1) I comportamenti individuali fanno la differenza nell’affrontare anche le crisi globali. Alla base della catena di azioni che una società deve mettere in atto per risolvere i suoi problemi, c’è sempre il singolo individuo, chiamato a confrontarsi con il senso di responsabilità verso se stesso, gli esseri umani più prossimi, la società come comunità ampia delle relazioni umane.
2) Le responsabilità personali, inter-personali e verso la società sono fondamentali per vivere in salute e sicurezza in una società globalizzata, fortemente interconnessa.
3) La responsabilità di ciascuno verso il sistema Terra, implica il rispetto dei sistemi socio-ecologici (Berkes e Folke, 1998; Ostrom, 2009). La disattenzione e l’azione umana violenta nei confronti degli ecosistemi hanno l’effetto di accrescere l’esposizione e quindi il rischio di tutte le comunità umane a fenomeni imprevedibili che possono mettere a repentaglio l’attuale strutturazione della società globalizzata, portandola ad un collasso sistemico.
Da queste riflessioni, derivano alcune considerazioni etiche e sociali generali:
a) L’individuo non può sottrarsi dal confrontarsi con il proprio senso di responsabilità articolabile nei quattro domini etici dell’esperienza umana: il sé, la relazione prossimale con gli altri nelle comunità sociali di riferimento, la società per esteso, il sistema Terra da intendersi come aggregato complesso di sistemi socio-ecologici. Il comportamento irresponsabile anche di un solo individuo può generare nel tempo una crisi sistemica planetaria.
b) Le catene di approvvigionamento globale devono essere riprogettate per aumentare la resilienza in caso di shock. Una loro ridefinizione non può prescindere dall’intervento di “progettisti”/operatori capaci di pensare in modo sistemico e provvisti di una cultura del rischio non solo di tipo economico. La vulnerabilità dei sistemi integrati non è questione affrontabile semplicemente in termini ingegneristici, poiché si alimenta di fattori imprevedibili che sono noti, studiati e valutati da numerose discipline, tra cui la medicina e le geoscienze (o scienze della Terra). Una pandemia o un disastro innescato da un fenomeno naturale non sono imponderabili fenomeni della natura, ma eventi di cui è possibile quantificare incertezza e probabilità di accadimento e di impatto. L’approccio multidisciplinare alle questioni globali è una prassi da attuare con urgenza.
c) La creazione di una governance internazionale, chiara e strutturata preventivamente in campo sanitario e ambientale, non è più procrastinabile, ma impone scelte politiche all’interno degli stati nazionali e tra essi per favorire l’integrazione delle decisioni che impattano un sistema umano ormai globalizzato, a dispetto di azioni che si riferiscano solo a localismi e particolarismi. La diversità va tutelata, ma non totemizzata. Non si può continuare a posticipare una governance necessaria per affrontare una possibile grande crisi sistemica globale che in un non lontano futuro potrà interessare tutto il pianeta, se le attuali generazioni umane non saranno state in grado di prendere decisioni drastiche ed efficaci per ridurre gli impatti globali antropogenici.
d) Per la prima volta nella storia, l’umanità è chiamata a realizzare un quadro di riferimento di principi e di valori comuni che sappiano andare oltre la Carta dei Diritti dell’Uomo per diventare una Carta per lo Sviluppo Umano Responsabile, in grado di integrare in uno stesso orizzonte ideale la dimensione individuale e sociale della responsabilità umana e farsi prassi attraverso un sentimento di comune appartenenza di specie.
e) La modifica dei paradigmi economici, sociali e politici richiesti per dare una concreta ed efficace risposta ai problemi antropogenici globali ha bisogno di un cambiamento anche culturale nella società. Non è solo con leggi e provvedimenti che verrà impostato il cambiamento necessario. Occorre rendere i cittadini consapevoli e responsabili con un’azione sul piano educativo. Questo significa che nei prossimi anni gli investimenti nei sistemi scolastici, oltre che nella ricerca, dovranno costituire un obiettivo prioritario dell’azione dei governi. Il diritto non può sostituirsi all’educazione in una civiltà avanzata, specie se democratica.
f) Merito e competenza sono valori che devono essere messi al centro di un nuovo patto sociale tra i cittadini. Mai come in questo momento di emergenza sanitaria, chiunque esige risposte affidabili ed autorevoli da coloro che conoscono i problemi da un punto di vista scientifico, pur con incertezza e lacune, e da coloro che devono prendere di conseguenza delle decisioni difficili per la collettività. Allo stesso modo, affrontare il riscaldamento globale e tutti i problemi ecologici planetari esige competenza, studio, aggiornamento professionale, cooperazione onesta, confronto leale, apertura al dialogo, e decisioni politiche che siano scientificamente fondate e attentamente soppesate attraverso il parere di scienziati e tecnici.
Il tempo dell’improvvisazione e del pressappochismo sta per finire.
*Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia
Riferimenti
Berkes F. and Folke C. (Eds.) (1998). Linking Social and Ecological Systems. Cambridge University Press, Cambridge.
Bonneuil C. e Fressoz J-B. (2019). La Terra, la storia e noi - L’evento Antropocene. Trad.: A. Accattoli e A. Grechi. Istituto della Enciclopedia Italiana, pag. XVII-367. ISBN: 978-8812007363.
Ostrom E. (2009). A General Framework for Analyzing Sustainability of Social-Ecological Systems. Science, vol. 325, pp. 419-422. doi:10.1126/science.1172133.
Peppoloni S. e Di Capua G. (2020). Geoetica e impatti globali antropogenici. In: Matione G. e Romanelli E. (a cura di): Il Corpo della Terra: La Relazione Negata. Castelvecchi Editore, Roma. ISBN 8832828715.
NASCERE. Costruire una cultura adatta alla nostra incarnazione...
Non vi è alcun dubbio che una certa epoca della nostra cultura sia al termine: quella della metafisica, che alla fine si è incarnata in un’era tecnica e scientifica che da allora in poi è la nostra. In effetti, o l’umanità e il mondo in cui dimora sono destinati a scomparire, o noi troviamo il modo di tornare o ritornare a ciò che significa essere umano per riflettere a fondo su di esso, in quanto primo agente del nostro destino, e sulla possibilità di giungere a una parola di cui la tecnica e le tecnologie non possono privarci, riducendoci a una sorta di meccanismo meno performante di quelli che siamo in grado di fabbricare.
È in noi stessi, in quanto esseri umani incarnati, che possiamo trovare un modo di pensare come sfuggire al dominio della tecnica e delle tecnologie senza sottovalutarne i vantaggi. Invitandoci a liberarci dalla soggezione a ideali sovrasensibili, Nietzsche ci indica, almeno in parte, verso quale direzione volgerci. Ma il suo insegnamento è innanzitutto critico, ed è quello che ha ispirato la decostruzione della metafisica occidentale portata avanti, dopo di lui, da Heidegger e dai suoi seguaci. Se Nietzsche ha intuito giustamente che dobbiamo ricominciare da zero, iniziando in particolare dalla nostra appartenenza fisica per passare dal vecchio uomo occidentale a una nuova umanità, egli non ha avuto il tempo di aprire il cammino o di costruire il ponte per raggiungere questo obiettivo. Temo che anche la «volontà di potenza» e l’«eterno ritorno», in un modo o nell’altro, rimangano nell’orizzonte della nostra logica passata. Agiscono come strumenti della sua interpretazione, ma forniscono una prospettiva che ci consente di liberarci da essa. Tuttavia, le «intuizioni ispirate» di Nietzsche, come le chiama Heidegger, non ci forniscono la struttura di cui abbiamo bisogno per costruire una cultura adatta alla nostra incarnazione.
Questa struttura - Heidegger talvolta la chiama «ispezione» -, che rende possibile l’avvento di una nuova epoca della verità e della cultura, d’ora in poi deve risiedere nel nostro corpo, dal momento che è una struttura adatta a esso, tramite la quale può dirsi di nuovo fin quando il mondo e tutti gli elementi che vi prendono parte sono coinvolti. Questo tipo di struttura esiste e si esprime già, anche in modo inconscio, nella nostra concezione passata del reale e del linguaggio che ne parla - corrisponde alla sessuazione della nostra identità. In quello che è stato chiamato «essere umano» è rimasto ignorato un aspetto che ne determina la natura e che contribuisce a sottrarlo a una neutralità disincarnata che non gli permette di manifestarsi così com’è, e che riemerge, sebbene la presunta verità del mondo e delle cose non gli corrisponda.
Il rischio rappresentato dalla neutralizzazione degli umani in quanto esseri viventi adesso sta diventando evidente a causa della trasformazione in robot di diversi elementi del mondo, tramite l’organizzazione prodotta dalla mente umana a partire dal potenziale di meccanismi, di cui, però, è diventata schiava, esiliata dalla sua appartenenza vivente. Qualunque sia il loro potenziale performativo, gli esseri umani eccedono già quello della macchina a diversi livelli. La loro salvezza può venire soltanto dalla percezione del rischio e dalla maniera di superarlo, attribuendogli significato, e tramite un ritorno al proprio essere come specifici esseri viventi. Per superare una concezione del mondo dominata da un modo di pensare e di agire tecnico, dobbiamo trovare un’altra configurazione o struttura grazie alla quale gli esseri umani possano sfuggire a tale dominio riconoscendo e interpretando la natura del suo potere. Dobbiamo liberarci dal predominio tecnico e scientifico sulla nostra epoca e garantire la salvaguardia del significato tramite una nuova incarnazione dell’essere.
*Luce Irigaray, "Nascere. Genesi di un nuovo essere umano", TecaLibri.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
INCENDI, ESTINTORI, E ... LANCIAFIAMME!!! Amazzonia... *
Incendi ed estintori. Salvare la foresta amazzonica e riconoscere le proprie colpe
di Gianfranco Pellegrino (Le parole e le cose, 27.08.2019)
Le foreste dell’Amazzonia stanno bruciando. Sappiamo molte cose su questi incendi: sappiamo che sono dolosi, sappiamo che chi li appicca è interessato a sfruttare commercialmente il terreno libero che si otterrà dalla distruzione degli alberi, sappiamo che il presidente Bolsonaro si è mostrato, sino a pochissimo tempo fa, acquiescente nei confronti degli speculatori, sappiamo che il venir meno di larghe parti della foreste pluviali avrà effetti pericolosi nel futuro - in termini di aumento del cambiamento climatico, di decremento della produzione di ossigeno, di aumento della quantità di biossido di carbonio nell’atmosfera (qui la catena causale è indiretta: meno foreste significa minore capacità di assorbimento di biossido di carbonio, e quindi maggiore percentuale di biossido di carbonio che rimane nell’atmosfera), di estinzione di specie animali e vegetali e di cancellazione di ecosistemi e nicchie ecologiche. Sappiamo pure che gli incendi sono in aumento. E, sappiamo che, pure se non fossero in aumento, man mano che ci spingiamo lungo la china del cambiamento climatico quel che non causava effetti nocivi o irreversibili prima può diventare un fattore che ci conduce al di là di punti di non ritorno.
A parte pochi negazionisti climatici - alcuni purtroppo piazzati in posti di potere -, nessuno nega (almeno apertamente) fatti del genere. E cominciano an che a diminuire quelli che rimangono indifferenti. Anche per chi disprezza o dileggia l’attivismo di Greta Thunberg o le dottrine della Laudato Si’ l’alzata di spalle o il silenzio diventano sempre più difficili. Il dileggio è una forma d’attenzione, per quanto contorta e involontaria. Sappiamo, infine, che la sparizione delle foreste condanna all’estinzione anche civiltà indigene che di quegli ambienti hanno fatto la propria nicchia culturale.
Ma, paradossalmente, i fatti importanti non sono questi. Proprio perché sulla descrizione di quel che accade ed accadrà non ci sono più dubbi condivisi, è ora di volgerci con maggiore attenzione alla prescrizione, cioè ai principi etici e ai paradigmi di azione politica che dovrebbero guidare le nostre azioni in frangenti del genere.
Il 5 agosto, su Foreign Policy, Stephen Walt di Harvard ha scritto un breve articolo chiedendosi se gli incendi e la deforestazione dell’Amazzonia potrebbero costituire motivo per un intervento - armato o sotto forma di sanzioni - dell’ONU o della comunità internazionale nei confronti del Brasile (vedi qui: https://foreignpolicy.com/2019/08/05/who-will-invade-brazil-to-save-the-amazon/). Walt è un teorico delle relazioni internazionali di orientamento neo-realista, famoso per il suo scetticismo nei confronti dell’interventismo americano e della presunta base morale di tali interventi. Con l’atteggiamento caratteristico di questo genere di studiosi - presunta neutralità assiologica che nasconde scelte morali di fondo (peraltro spesso ovvie e condivisibili) -, Walt mostra che la prospettiva di muovere guerra o comminare sanzioni ai paesi che più sono responsabili dell’aumento delle emissioni di gas serra - paesi come Cina, India, Stati Uniti e Russia - è del tutto assurda, per quanto possa essere una tentazione. Per Walt, peraltro, la sovranità nazionale, per quanto limitata, rimane un limite alle ingerenze della comunità internazionale. E non è chiaro se l’impatto che le condotte interne di uno Stato può avere sui destini di tutti possa giustificare interventi e intromissioni così drastiche. Ciò che è chiaro è che la comunità degli Stati non permetterebbe mai che si stabilisca un precedente simile. Quindi, in un certo senso secondo questo tipo di prospettiva dovremmo lasciare tutto alla forza di persuasione degli attivisti, o alle politiche felpate di alcuni capi di Stato come Macron, all’interno di organismi come il G7.
Questo modo di procedere si basa sull’idea che ci siano solo due possibili punti di vista per considerare un problema come quello della deforestazione dell’Amazzonia. O si ha un paradigma puramente sovranista, per così dire - l’etichetta è volutamente vaga e suggestiva -, in cui la sovranità nazionale implica che chi detiene il potere politico abbia ipso facto potere sulle risorse naturali e di altro genere presenti nel territorio governato. Oppure si ha un paradigma internazionalista, o globalista, in cui c’è un potere politico globale che può porre limiti al controllo sovrano delle risorse. Entrambe le forme di potere sono soggette al gioco democratico, per molti. La scelta è fra la sovranità nazionale, o interna, di singoli elettorati, o un demos globale.
Se ci fossero solo questi due paradigmi, saremmo alle prese con due strade egualmente bloccate. Da un lato, ipotizzare che un ipotetico governo mondiale, o una comunità internazionale, privi gli elettori brasiliani del potere di scegliere come usare le risorse naturali del loro territorio sembra contrario a qualsiasi principio ovvio di autodeterminazione. Anche se ci fosse veramente un governo mondiale, o una comunità internazionale ben più forte di quel che abbiamo, e non esistessero Stati nazionali, e i principi dell’intervento umanitario coprissero anche le catastrofi ecologiche, che una parte del mondo decidesse, a maggioranza, che uso si dovrebbe fare delle risorse naturali che potrebbero favorire lo sviluppo economico di un’altra parte del mondo apparirebbe comunque una forma di tirannia della maggioranza. D’altra parte, l’impatto della progressiva deforestazione dell’Amazzonia ricadrà sul mondo intero, e lasciare del tutto la scelta ai brasiliani, o al loro governo, significherebbe rassegnarsi a una tirannia della minoranza.
Ma forse questo modo di impostare le cose trascura alcuni aspetti normativi che invece sono rilevanti. Il peggior effetto della deforestazione, come già detto, riguarda la percentuale di biossido di carbonio nell’atmosfera. Deforestare fa aumentare questa percentuale, e ciò aumenta, o rende più probabili, i cambiamenti climatici nel futuro. Deforestare aumenta la percentuale di biossido di carbonio perché fa venir meno gli alberi, che hanno la capacità di assorbire questo gas a effetto serra. Bruciare alberi impedisce che una parte del biossido di carbonio in eccesso venga assorbito. L’effetto della deforestazione, quindi, è nocivo non in assoluto, ma relativamente alle condizioni in cui ci troviamo - relativamente al fatto che, in virtù delle passate emissioni, c’è un eccesso di biossido di carbonio, e altri gas simili, nell’atmosfera.
Sostenere che la deforestazione dell’Amazzonia aumenti il cambiamento climatico, e quindi autorizzi interventi o pressioni, è come dire che chi danneggia un estintore causa un incendio, e quindi va punito come il piromane. Chi danneggia un estintore, o lo sottrae, quando ci sia un incendio in corso è certamente colpevole di qualcosa, ma chi ha appiccato l’incendio non può arrogarsi il diritto di punirlo, o nascondere le sue colpe.
L’eccesso di biossido di carbonio nell’atmosfera è responsabilità del mondo occidentale. La deforestazione dell’Amazzonia peggiora una situazione che è stata resa grave dall’industrializzazione del Primo mondo. Si potrebbe dire questo: in molti casi recenti, Stati che hanno invaso altri Stati, e hanno subito per questo interventi armati, venivano da faticosi processi di decolonizzazione e subivano le conseguenze di molte azioni dei governi occidentali. Ciò non ha reso meno necessari e fondati gli interventi. (Qui la materia è delicata, e dipende dalle convinzioni politiche di ognuno - e il giudizio può cambiare se si pensa al Kosovo degli anni Novanta o alla prima o alla seconda guerra del Golfo). E tuttavia il nesso causale nel caso della deforestazione è più stretto ed evidente. Se non fossimo in una condizione di cambiamento climatico antropogenico galoppante è ovvio che la perdita di alcune foreste sarebbe meno grave.
Quindi, imputare tutta la responsabilità a Bolsonaro e ai brasiliani è un atto di arroganza, anche se questo non vuol dire che bisognerebbe assistere inerti agli incendi. Forse bisognerebbe distinguere fra due risorse naturali. Da un lato, ci sono le foreste, dall’altro c’è la capacità del sistema terrestre di assorbire emissioni di biossido di carbonio senza che il clima muti. Nelle condizioni in cui ci troviamo, le due risorse sono direttamente connesse, ma non lo sarebbero in altre condizioni. In un mondo privo di cambiamento climatico antropogenico, le foreste potrebbero diminuire senza che la capacità della Terra di assorbire biossido di carbonio diminuisca a tal punto da far mutare il clima. Si potrebbe pensare che la prima risorsa, le foreste, sia oggetto della sovranità nazionale del Brasile, mentre le seconda sia una specie di patrimonio comune dell’umanità, che non si può lasciare alle decisioni di un solo governo nazionale - e, forse, dati gli impatti nel futuro, non si può lasciare alla decisione delle sole generazioni presenti.
Ma, una volta che si consideri questa risorsa globale, è difficile dimenticarsi delle responsabilità di chi ha sfruttato nei secoli passati gran parte di essa a proprio beneficio - cioè dei paesi che hanno goduto dell’industrializzazione. Alla luce di tutto questo, la reazione nei confronti degli incendi in Brasile non può essere quella di scegliere fra intervento armato o acquiescenza. Il comportamento dei brasiliani, o almeno del governo brasiliano, dovrebbe indurre la comunità internazionale a proporre vie di sviluppo economico alternative rispetto alla deforestazione. Il fatto che Bolsonaro abbia negato la natura antropogenica del cambiamento climatico e gli interessi economici evidenti di chi appacca gli incendi in Amazzonia non sono sufficienti a diminuire le responsabilità dei paesi che hanno una lunga storia di emissioni in eccesso. Questi paesi dovrebbero pagare il loro debito a chi ha lasciato intatto sin qui uno dei principali serbatoi di assorbimento del biossido di carbonio e garantire l’integrità dell’Amazzonia assumendosi ulteriori oneri. La questione principale, in altri termini, non è la democrazia e la sovranità nazionale, ma la giustizia distributiva e le compensazioni dovute a chi non ha tratto beneficio dall’industrializzazione e rischia di subirne solo gli effetti più negativi - paesi in via di sviluppo e generazioni future.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE “EU-ROPEUO”. Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una “memoria” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=901)
Federico La Sala
Concorsi truccati, sospeso il rettore dell’Università di Catania
Indagine della procura: coinvolti 40 docenti degli atenei di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona
di Fabio Albanese (La Stampa, 28/06/2019)
catania
Il rettore dell’Università di Catania, ma anche il pro rettore, l’ex rettore e i capi dipartimento di matematica, economia, scienze biomediche, scienze biologiche, giurisprudenza, l’ex capo dipartimento di scienze politiche, il presidente del coordinamento della facoltà di medicina. Tutti sospesi dalle funzioni perché indagati per associazione per delinquere e, a vario titolo, per corruzione, induzione a dare e promettere utilità, falsità ideologica e materiale, turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, abuso d’ufficio e truffa aggravata. Per il rettore, l’ex rettore e altri indagati, la procura aveva pure chiesto l’arresto ma il gip ha deciso solo per la sospensione dall’attività.
È una specie di terremoto quello che la procura di Catania e la Digos hanno scatenato stamattina con l’inchiesta “Università bandita”, secondo la quale i concorsi dell’ateneo per posti di docente, di associato e perfino di ricercatore erano truccati. Ventisette sono i concorsi finiti sotto la lente degli investigatori: 17 riguardano posti di professore ordinario, quattro di associato e sei di ricercatore. Ma lo scandalo promette di avere proporzioni ben maggiori di quelle che hanno portato ai provvedimenti di oggi: i dieci docenti di Catania sospesi ma anche altri quaranta di università di tutta Italia, indagati e attualmente sotto perquisizione appartenenti agli atenei di Bologna, Cagliari, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia, Verona.
L’indagine di Catania, cominciata a giugno del 2016 e conclusa a marzo dello scorso anno, travolge i vertici dell’ateneo. Sospesi dalle funzioni il rettore Francesco Basile, 64 anni, il pro rettore Giancarlo Magnano San Lio, 56, l’ex rettore Giacomo Pignataro, 56, e altri sette docenti, i vertici dei dipartimenti. Per i pm, l’associazione per delinquere aveva a capo l’attuale rettore Basile ma il promotore sarebbe stato suo predecessore, Pignataro e si muoveva sulla base di un vero e proprio «codice di comportamento sommerso», come lo definisce la procura, al quale tutti dovevano uniformarsi. Il gruppo decideva il conferimento di assegni e borse di studio, i dottorati di ricerca, l’assunzione del personale tecnico-amministrativo, la composizione degli organi statutari (consiglio di amministrazione, nucleo di valutazione, collegio di disciplina), l’assunzione e la progressione in carriera dei docenti universitari.
È proprio su questo ultimo aspetto che l’inchiesta si è allargata alle altre università italiane perché, spiega la procura, «i docenti, nel momento in cui sono stati selezionati per fare parte delle commissioni esaminatrici, si sono sempre preoccupati di non interferire sulla scelta del futuro vincitore compiuta preventivamente, favorendo il candidato interno che risultava prevalere anche nei casi in cui non fosse meritevole». Un sistema, dunque, che riporta alle baronie universitarie e che non lascia spazio alla meritocrazia. Chi non si adeguava, spiegano i pm di Catania, subiva ritardi nella carriera e curriculum non valutati.
«L’indagine ha consentito di svelare un sistema di nefandezze che purtroppo macchia in maniera veramente pesante il nostro Ateneo perché coinvolge tutti i personaggi di maggiore responsabilità al suo interno - ha detto il procuratore della Repubblica a Catania, Carmelo Zuccaro -. Abbiamo accertato che questo sistema ha inquinato il sistema di votazione all’interno dell’Ateneo per la nomina del rettore e per la nomina degli organi più importanti. A cascata questo sistema si é perpetuato per condizionare numerosi concorsi di tutti i dipartimenti. Un sistema che non esito a definire squallido perché le persone che vengono proposte non sono le più meritevoli per aggiudicarsi il titolo. Quando qualcuno ha il coraggio di proporsi come candidato per questo posto nonostante il capo del dipartimento abbia deciso che non sia venuto il suo momento, queste persone vengono fatte oggetto di critiche pesanti, addirittura di ritorsioni da parte del capo del dipartimento».
Clima, Aldo Masullo: "L’onda verde dei giovani che sferza la politica"
L’analisi del grande filosofo dopo le recenti manifestazioni per l’ambiente, contro il riscaldamento globale del pianeta
di ALDO MASULLO (la Repubblica/Napoli, 22 marzo 2019)
Il mondo umano è divenuto, per dirla con Leopardi, "stretto", troppo stretto, strettissimo. Nelle catastrofi geologiche le placche continentali, premute l’una contro l’altra dai cedimenti tettonici, si accavallano deformandosi. Così il mondo che noi siamo, globalizzandosi, si è oggi compresso, schiacciato su se stesso, ha perso ogni porosità, è divenuto un blocco rigido. Tutti i suoi vuoti si sono riempiti. I buchi in cui si scaricavano i residui dei metabolismi, che toccava poi al tempo lungo distruggere, ora sono ostruiti, e il corpo del mondo, riempito dai suoi stessi escrementi, mostruosamente si gonfia. La sempre più capillare lotta tra le varie forze umane, che in se stesse senza sosta scomponendosi irresistibilmente accrescono gli scontri, non ha spazi per sia pur brevi pause. Le comunicazioni di massa e le affollate piazze elettroniche sempre più velocemente si rinviano segnali senza senso, cioè senz’altri significati che se stessi. Non c’è respiro.
In un mondo così ridotto una sola funzione lavora alla grande: la centrifugazione. L’enorme macchina mondo non fa altro che dall’immensa massa solida e opaca dei più separare la lucida liquidità dei pochissimi che hanno raggiunto il nuovo Olimpo, cioè la ricchezza e il potere, o almeno l’effimera celebrità. Le parti che la centrifugazione ha separate, restando chiuse entro la medesima strettezza, per l’inevitabile ruvidità dei loro contatti fanno attrito, e la tensione si accresce. Il bisogno senza soddisfazione possibile si fa brama rabbiosa.
Ad ogni individuo l’altro appare come una minaccia, contro cui non s’immagina difesa che non sia l’aggressione. Nessuno sopporta il suo prossimo. In tutti, anche nei mansueti, domina l’insofferenza, il cui aumento totale ancor più gonfia il mondo d’ira e di odio. Come sempre, non v’è vizio o disgrazia o pericolo, che non siano ottime occasioni per affaristi. Non mancano dunque persone e gruppi che profittano dell’ira e dell’odio per farsene supporto di potere politico. Così sulla febbre del mondo si getta acqua bollente.
Ma la febbre dipende essenzialmente dalla percezione del pericolo globalizzato. Non c’è luogo né tempo in cui poter immaginare di rifugiarsi. Crescono l’oscuro avvertimento del pericolo in agguato d’ogni parte e il presentimento di un futuro sempre peggiore. La sensazione di fondo, angosciosa, è che non c’è scampo. Peraltro, se si vuole, come si deve, ignorando le emozioni considerare lo stato delle cose con freddo giudizio, si è costretti a riconoscere che le emozioni non hanno torto.
Globale infatti è il dominio per cui si preparano a scontrarsi le massime potenze continentali; globale è il potere tecnologico a cui si mira; globale è la distruttività degli armamenti che non si cessa di accumulare; globale è lo sconvolgimento che lo sviluppo produttivo selvaggio opera nel delicato equilibrio dell’ecosistema. Sono tutti processi molto difficilmente reversibili, anzi oltre un certo limite, oltre un punto di non ritorno, irreversibili. E sono tutte minacce globali. Ma il dissesto dell’ecosistema è la minaccia che per gl’inauditi furori e i devastanti effetti del mutamento climatico è immediatamente percepibile. A questo stato d’insicurezza globale le generazioni che hanno finora gestito il mondo, sempre più impigliate negl’ingranaggi del loro sfrenato attivismo, ci hanno portati, e non sono capaci neppur di cominciare a porvi riparo.
L’allarme intanto risuona sempre più forte. Qualche giorno fa il Presidente della Repubblica ha con autorevole saggezza denunciato i rischi della "crisi climatica globale". Ma chi potrebbe fronteggiare la minaccia globale che, a partire dalla crisi climatica, incombe sul mondo, se non una forza globale, moralmente intatta, capace di ragionare in modo nuovo? In questi giorni la speranza si è accesa. "L’onda verde di una generazione può cambiare il mondo". Lo ha notato, tra gli altri, il sociologo Ilvo Diamanti a commento delle manifestazioni che venerdì scorso hanno accomunato un milione e mezzo di giovani in ogni praticabile piazza del mondo. Si tratta di una generazione "global" perché, "per quanto cresciuta in un contesto "no-global", di critica alla globalizzazione", essa di fatto si è "affermata oggi in prospettiva "globale"", "guardando "avanti", per necessità e per vocazione".
Soprattutto, nota il sociologo, i giovani nell’abbraccio di tutti con tutti hanno rotto la loro solitudine digitale, si sono sottratti alle "relazioni senza empatia", hanno rifiutato l’autosequestro nel bozzolo elettronico.
Sarà forse quest’immensa onda verde giovanile un’iridescente bolla di sapone destinata in breve a dissolversi contro il potere dell’ottusità globalizzata?
Eppure non si scherza! L’allarme degli scienziati è drastico: se le emissioni di CO2 continuano al ritmo attuale, nel 2030, cioè tra 11 anni!, si produrrà con l’aumento della temperatura una situazione globale di irreversibile disastrosità.
Dunque per i ragazzi di oggi ne va della maggior parte della vita che hanno da vivere. Ancor più ne va per la vita delle generazioni successive, per la sopravvivenza dell’umanità stessa. In effetti nella minaccia climatica si riassumono tutte le minacce globali.
Capire ciò, capirlo sul serio, cioè agendo, è porsi in una prospettiva globale del tutto nuova: significa nel proprio vivere levarsi all’altezza del come è necessario pensare, affinché la storia umana continui.
In ogni modo, il fatto che questa generazione di ragazzi si sia messa in movimento comporta da subito, nei giorni del nostro mondo tutto "stretto" nella sua globalità soffocante, la boccata d’aria frizzante di curiose inversioni generazionali: giovani che precedono lungimiranti gli adulti, insegnanti che imparano dagli allievi le buone pratiche, padri a cui i figli additano la via della salvezza. Un tal paradosso mette allegria prima ancora che speranza.
D’un tratto sembra possibile che la globalizzazione significhi un mondo non più "stretto" ma, ancor nel linguaggio leopardiano, più "largo": non bloccato in una soffocante pienezza, dove le varie moltitudini si riducono ad altrettante fobiche identità pressate l’una contro l’altra, bensì ricchezza di spazi aperti per incontri pacifici d’innumerevoli diversità, tutte libere, insomma un universo elastico di umanità in espansione.
LA TERRA AL "CAPOLINEA". Manifestazioni in tutto il mondo per il salvare il pianeta...
Sciopero clima: in Italia 182 piazze da nord a sud
Gli organizzatori,no a simboli di partito o bandiere identitarie
di Redazione Ansa *
Migliaia di studenti scenderanno in piazza oggi, in 150 Paesi, per lo "Strike4Climate", manifestazione che sostiene la battaglia in difesa del clima dell’attivista 16enne svedese Greta Thunberg, promotrice delle marce di giovani in tutta Europa. La giovane è stata proposta da tre parlamentari norvegesi per il premio Nobel per la Pace. "Non c’è più tempo, anche gli adulti devono agire", dice la ragazzina e fa appello ai suoi coetanei: "Mobilitiamoci tutti per cambiamenti reali". E già decine di migliaia di giovani sono scesi in piazza in 50 città di Australia e Nuova Zelanda.
Piccole, medie e grandi città italiane per un totale 182 piazze in cui oggi i giovani daranno vita allo sciopero per il clima. Non ci saranno simboli di partito o bandiere identitarie almeno questa è la richiesta degli organizzatori, ma solo cartelli e striscioni sul tema dei cambiamenti climatici. ROMA: nella Capitale partiranno mini-cortei da scuole medie inferiori e licei e istituti, mentre dagli atei i manifestanti si muoveranno in bicicletta. Un corteo partirà dalla fermata metro Colosseo alle 10.30 per arrivare nella vicina piazza Madonna di Loreto, a pochi passi da piazza Venezia, dove alle 11 inizieranno gli interventi sui gradini. Unico adulto al microfono il geologo Mario Tozzi, poi 7 interventi di studenti delle elementari, medie, licei e università, dai 9 ai 24 anni.
MILANO: i giovanissimi attivisti attraverseranno la città con una marcia per il clima che partirà alle 9,30 da largo Cairoli e arriverà a piazza della Scala,davanti alla sede del Comune dove, dalle 11 alle 13, è prevista la manifestazione. Alle 18 un’altra manifestazione, a cui aderiscono associazioni ambientaliste come Greenpeace, partirà sempre da largo Cairoli per un corteo in difesa dell’ambiente. Sempre in città la scuola media di primo grado Pertini ha organizzato una marcia per il clima in collaborazione con Legambiente, alla quale parteciperà anche il sindaco, Giuseppe Sala, a fianco degli studenti.
VIDEO. Manifestazioni in tutto il mondo per il salvare il pianeta
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MASSIMO ALLARME TERRA: IL DOVERE DELLA PAURA. CINQUE MINUTI A MEZZANOTTE. Cambia il clima del pianeta, cambieranno i nostri modi di vivere, ed è sperabile che anche la politica cambi. Un’analisi di Barbara Spinelli
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Stato-Mafia: Pm Di Matteo: ’Dell’Utri tramite dopo il ’92’
’Da Anm e Csm nessuna difesa. Silenzio assordante, chi speravamo ci difendesse ha taciuto’
di Redazione ANSA *
"La sentenza è precisa e ritiene che Dell’Utri abbia fatto da cinghia di trasmissione nella minaccia mafiosa al governo anche nel periodo successivo all’avvento alla Presidenza del Consiglio di Berlusconi. In questo c’è un elemento di novità. C’era una sentenza definitiva che condannava Dell’Utri per il suo ruolo di tramite tra la mafia e Berlusconi fino al ’92. Ora questo verdetto sposta in avanti il ruolo di tramite esercitato da Dell’Utri tra ’Cosa nostra’ e Berlusconi". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
La replica dell’Anm, sempre difeso magistrati attaccati - "L’Associazione Nazionale Magistrati ha sempre difeso dagli attacchi l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati". Lo dice il presidente dell’Anm Francesco Minisci. "Lo ha fatto - prosegue - a favore dei colleghi di Palermo e continuerà sempre a difendere tutti i magistrati attaccati, pur non entrando mai nel merito delle vicende giudiziarie".
"Né Silvio Berlusconi, né altri hanno denunciato le minacce mafiose, né prima né dopo" ha anche detto il pm Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, su Rai tre. "Nel nostro sistema costituzionale le sentenze vengono pronunciate nel nome del popolo italiano e possono essere criticate e impugnate. Il problema è che quando le sentenze riguardano uomini che esercitano il potere devono essere conosciute", ha aggiunto. "C’è una sentenza definitiva - ha spiegato - che afferma che dal ’74 al ’92 Dell’Utri si fece garante di un patto tra Berlusconi e le famiglie mafiose palermitane. Ora questa sentenza dice che quella intermediazione non si ferma al ’92, ma si estende al primo governo Berlusconi, questi sono fatti che devono essere conosciuti"
"I carabinieri che hanno trattato sono stati incoraggiati da qualcuno. Noi non riteniamo che il livello politico non fosse a conoscenza di quel che accadeva. Ci vorrebbe ’un pentito di Stato’, uno delle istituzioni che faccia chiarezza e disegni in modo ancora più completo cosa avvenne negli anni delle stragi". Lo ha detto il pm della dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
"Quello che mi ha fatto più male è che rispetto alle accuse di usare strumentalmente il lavoro abbiamo avvertito un silenzio assordante e chi speravamo ci dovesse difendere è stato zitto. A partire dall’ Anm e il Csm". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, dopo la sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre a proposito delle critiche subite, negli anni, dal pool che ha coordinato l’inchiesta.
* ANSA,23 aprile 2018 (ripresa parziale, senza immagine).
La sinistra che c’era è andata a destra
di Furio Colombo (Il Fatto, 25.02.2018)
La destra e la sinistra non esistono più. La frase, che circola anche nei migliori partiti, è come una benda gettata all’improvviso sugli occhi dei cittadini per costringerli a un gioco a mosca cieca. Dovunque cerchi, non trovi. L’epoca, affollata di computer e robot, non ha ricordi. Che senso ha cercare la destra del mercato e del capitale, se non esiste più (non conta niente) il sindacato della lotta di classe? Se sei italiano, però, prima di rispondere alla domanda su destra e sinistra, devi tener conto di un fatto.
L’Italia ha due destre, una di interessi economici e di difesa dei capitali, con la sua visione conservatrice. L’altra destra è ideologica, è fondata sulla violenza e sul potere, che trucca, tradisce, condanna, reprime, se ha il potere. -Qual è la destra che non esiste più, al punto che vi dicono: la parola non ha più senso? Evidentemente la prima, che partecipava al gioco con la sinistra sapendo di avere sempre delle buone carte in mano, ma anche interessata (la pace sociale costa meno) a non rompere i ponti. Il fatto strano, almeno per l’Italia, è che è stata la sinistra ad alzarsi dal tavolo e ad abbandonare il gioco, imperfetto ma funzionante, delle due parti con interessi diversi e la comune convenienza.
Mille convegni non hanno spiegato perché la sinistra se ne è andata o si è sempre più travestita da destra, arrivando a spingere più in là di quel che le imprese volevano. Qui è accaduto un effetto collaterale che forse la sinistra non aveva calcolato: il suo popolo, sentendosi non più rappresentato se n’è andato alla spicciolata, lasciando un largo spazio vuoto. Perché quello spazio vuoto sia tuttora celebrato come “il popolo della sinistra” non si sa.
Certo che se c’è stato un tempo in cui la destra erano Agnelli e Pirelli e la sinistra erano Pertini e Berlinguer, stiamo parlando di un universo perduto. Ora c’è la sala vuota della Confindustria, ci sono i circoli chiusi del Pd e qualcuno ha la faccia tosta di organizzare la Festa dell’Unità dopo avere fatto morire, deliberatamente, il giornale di Gramsci.
Il fenomeno però non è così simmetrico come sembra. Impossibile negare che la sinistra non c’è più, nel Paese in cui domina l’anelito di tagliare le pensioni e diminuire i salari (vedi Fornero e Whirpool).
Ma, delle due destre, ne è rimasta una, quella ideologica e del potere, quella fascista. È viva negli Usa, con il suo presidente che vuole armare gli insegnanti, con il capo dell’estrema destra (alt right) Steven Bannon che è appena un passo dalla Casa Bianca, con i misteriosi contatti con Putin. È viva nei Balcani e nell’Europa dell’Est (dall’Ungheria all’Austria alla Polonia). E dove sembra che non ci sia fascismo compare un Breivik niente affatto povero e marginalizzato, un fascista abbiente e bene armato, che uccide in un paio d’ore cento giovani socialisti di una scuola di partito.
Se pensate che il fascismo, per tornare a crescere, abbia bisogno di un popolo abbandonato dalla sinistra, ecco l’idea: dedicarsi a diffondere e far crescere la paura dell’immigrazione. Gli stranieri sono gente impura, non cristiana, sconosciuta, diversa, con cui vorrebbero obbligarti a dividere la vita fino a sottometterti. Poiché questo è ciò di cui bisogna occuparsi, anche con la forza, se necessario: qualcuno sta organizzando l’invasione di una immensa quantità di stranieri in Italia e dunque sta creando un grave pericolo per la pura razza italiana.
Se pensate di non aver notato nulla di così sconvolgente, ma solo povera gente terrorizzata da fame, guerra e dal pericolo di annegare in mare, se temete che ci sia una falsificazione o una esagerazione dei dati, ecco la vera notizia, il complotto. Come aveva previsto Umberto Eco ne Il pendolo di Foucoult, ne Il cimitero di Praga e nel bellissimo testo Il fascismo eterno, arriva la notizia del complotto.
Qualcuno trama per la sostituzione dei popoli, i neri (i neri!) prenderanno, qui, nel nostro Paese di pura razza italiana, il posto dei bianchi. Naturale che i popoli non si sostituiscono da soli. Ci vuole il miliardario canaglia che, come è naturale in un mondo fascista, è ebreo. Si tratta di un certo Soros, e anche se persino Minniti o Salvini o Meloni o Lombardi (il cuore d’oro del M5S) non hanno ancora rivelato la causa di questo complotto (ci impongono di accettare nuovi schiavi o nuovi padroni?), il complotto c’è e vi partecipano persino (quando non sono in Siria a salvare bambini o in mare a salvare naufraghi) le Ong, compresi i “Medici senza frontiere” onorati dal presidente della Repubblica. E l’invasione continua. Non dite vanamente che l’invasione non c’è. Nessun partito importante in queste elezioni vi starebbe a sentire.
Abbiamo dunque alcune certezze. La sinistra non c’è. Ma la destra, con il coraggio di dirsi fascista, c’è e conta.
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo (il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
Lo Stato deve manifestare contro i fascisti
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 10.02.2018)
Altro che vietare le manifestazioni, a Macerata deve manifestare lo Stato: manifestare la sua ferma determinazione di combattere i fascisti con tutte le sue forze, nel pieno rispetto della Costituzione e delle leggi.
A Macerata deve andare il presidente della Repubblica e parlare, con i corazzieri alle spalle, e con lui sul palco devono esserci il presidente del Consiglio, il ministro degli Interni e quello della Difesa, i presidenti di Senato e Camera, i comandanti militari e delle forze di sicurezza. Devono dire con parole chiare che la Repubblica s’impegna solennemente a non dare tregua ai fascisti e a proteggere la libertà e la sicurezza di tutti, cittadini e non cittadini.
Possibile che le alte cariche dello Stato, uomini e donne colti e saggi, almeno si spera, non si rendano conto che sottovalutare il pericolo neofascista è moralmente ignobile e politicamente suicida? Possibile che non sappiano che lo Stato liberale è crollato nel 1922 perché non volle e non seppe combattere i fascisti, non certo perché i fascisti erano più forti?
Se Vittorio Emanuele III avesse decretato lo stato d’assedio e mandato contro i fascisti l’esercito e i carabinieri, avrebbe salvato lo Stato liberale.
Con tutte le differenze del caso, oggi la Repubblica democratica può sconfiggere il neofascismo soltanto se lo combatte con la massima intransigenza. In Italia il fascismo è un reato, l’antifascismo è un dovere civile. Ha, quindi, perfettamente ragione Giuseppe Civati a sostenere che “Fascismo e Antifascismo non sono in nessun modo paragonabili”. E con lui hanno ragione le associazioni e le organizzazioni che hanno chiesto alle autorità competenti di autorizzare la manifestazione. È un loro dovere ancor prima che loro diritto.
Sarebbe una vergogna tirarsi indietro. Ma i cittadini da soli non possono vincere contro i fascisti, poiché i fascisti usano la violenza: sparano, aggrediscono, intimidiscono. I cittadini non possono e non vogliono scendere sul terreno della violenza.
Soltanto lo Stato può usare la forza legittima e se non lo fa chi lo rappresenta si carica di una responsabilità gravissima. Per giustificare la scelta iniziale - per fortuna ieri rivista - di vietare le manifestazioni non vale l’argomento dell’ordine pubblico.
Lo Stato deve garantire agli antifascisti il diritto di manifestare e proteggerli da aggressioni fasciste. Se vuole, può farlo. Permettere agli antifascisti di manifestare significa non solo fare capire ai fascisti che lo Stato questa volta non è con loro ma contro di loro, ma dare forza alle istituzioni repubblicane. Altrettanto dissennato è l’argomento di chi sostiene che il gesto di Traini è stato un atto di solitaria follia. Chiunque abbia letto qualche libro sulle organizzazioni terroristiche intende perfettamente che quel che ha fatto Traini è puro terrorismo: violenza indiscriminata e a qualunque costo, contro un determinato gruppo sociale. I terroristi, infatti, agiscono anche a rischio della libertà e della vita, quando sanno di poter contare su una comunità che li sostiene. Infatti ecco Forza Nuova che si fa carico delle spese legali e manifesta con Casapound per aiutarlo, ecco Salvini che dichiara che la colpa è di chi ha fatto arrivare gli immigrati, ecco i molti che non parlano ma lo considerano un eroe.
Proprio perché l’atto terroristico di Macerata è segno della forza delle idee fasciste, la risposta deve essere una guerra senza quartiere. Le parole del sindaco di Macerata, Pd, che approva la scelta di vietare le manifestazioni in nome di un silenzio che rispetti le ferite della città sono penose. Qualcuno gli spieghi che il silenzio è atto di rispetto e di pietà per le vittime, ma che il dovere più importante e pressante è fermare gli aguzzini.
Il dato vero che deve preoccupare è che la solidarietà antifascista, che in passato aveva unito liberali, democristiani, repubblicani, socialdemocratici socialisti, comunisti e aveva saputo fare argine valido contro il neofascismo e ogni altra idea che mirasse a destabilizzare lo Stato, oggi non esiste più. Provino Pietro Grasso e Giuseppe Civati a proporre a chi a vario titolo è alla testa degli altri partiti politici (Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Giorgia Meloni, Luigi Di Maio, Matteo Salvini) di firmare prima del 4 marzo un documento comune in cui ciascuno s’impegna solennemente a combattere il neofascismo. Sarà un fallimento.
Lo scenario che probabilmente ci aspetta è quello di un governo di centrodestra guidato, di fatto, da Berlusconi. Com’è noto Berlusconi in più di un’occasione ha manifestato la sua simpatia per Mussolini, ed è poco incline a combattere i fascisti e felice di bastonare gli antifascisti, che poi per lui sono comunisti camuffati. Così, nel 2022, avremo le piazze piene di fascisti ed essi stessi, o i loro amici, al governo.
I fatti di Macerata rappresentano una svolta fondamentale. Le alte cariche dello Stato possono salvarla o agevolarne la morte.
Rinnovo l’appello: vada il presidente Mattarella a Macerata e pronunci le parole giuste per sconfiggere il pericolo fascista, prima che sia tardi.
«In Calabria il negazionismo ha due facce»
di Emiliano Morrone*
Possiamo ripeterci che la Calabria è bellezza, incanto, magia; agricoltura, gastronomia, olio e vini eccellenti. Possiamo esaltare l’umanità, l’accoglienza e la generosità del suo popolo. Possiamo dirci dell’antica tradizione della nostra terra, delle fatiche, dei sacrifici e del talento di giuristi locali, medici, accademici, imprenditori e artigiani, emigrati o residenti. Possiamo compiacerci ricordando la scuola pitagorica di Crotone, l’utopismo di Gioacchino da Fiore e Tommaso Campanella, la carità di Francesco di Paola, i natali dello scrittore Corrado Alvaro, del “Nobel” Renato Dulbecco, dello stilista Gianni Versace o del filosofo Ermanno Bencivenga. A compendio possiamo sbandierare le origini calabresi di uno degli intellettuali più famosi, Gianni Vattimo, o di artisti come Steven Seagal, Raul Bova, Chick Corea e John Patitucci.
Nulla cambierebbe la realtà: la Calabria è forse l’ultima regione d’Europa per servizi, diritti e indicatori economici, ma sta in cima per tasso di spopolamento. Qui comandano la ’ndrangheta, la massoneria deviata e una politica immorale che spesso lega cosche e logge. L’amministrazione pubblica è attraversata dalla corruzione; gli incarichi illegittimi fioccano in libertà e buona parte della burocrazia obbedisce ai governanti di turno e relativi faccendieri: “trucca” concorsi, istruttorie, autorizzazioni, concessioni e perfino bilanci. La sanità agonizza, il mare puzza, la montagna brucia, le strade crollano e i paesi muoiono. In Calabria la fantasia supera la realtà: vige un diritto speciale che, plasmato alla bisogna, aggira e sotterra le norme comuni. Non di rado i concorsi sono una farsa, i peggiori occupano posti di responsabilità e i migliori sono respinti, isolati e indotti a partire.
La recente operazione “Stige” (della Dda di Catanzaro) ha confermato la pervasività dell’organizzazione criminale e l’adesione, le aderenze politiche diffuse. E ha ribadito che l’economia è alterata da un sistema, di connivenze, violenza e favori, che aumenta le disparità e la massa proletaria, divisa, costretta alla sopravvivenza e resa inabile alla rivolta.
Il negazionismo ha di solito due facce. La prima è quella dei conservatori integrali, che alle spalle alimentano l’odio verso chi scrive, racconta, denuncia, esorta, ammonisce; la seconda, più ingannevole, è quella degli apologeti, i quali, traendo lauti benefici dal ruolo raggiunto, dipingono una Calabria da sogno, immaginaria, mitica, unica. Della regione costoro decantano le potenzialità, che restano proiezioni, suggestione e motivo di orgoglio posticcio, strumentale al mantenimento dei rapporti di forza vigenti. Per battere la ’ndrangheta strutturata e culturale occorre demolire due assunti falsi e propagandistici, pure utilizzati tra gli ingenui. Il primo è che siamo perfetti e non potremmo vivere meglio; il secondo è che la Calabria è la prima al mondo in quanto a paesaggio, storia e natura.
Abbiamo tanto, sì. Ma abbiamo perduto la memoria, a causa della cementificazione dei luoghi e dello spirito, della distruzione dei simboli e della capacità di giudizio.
*Giornalista
MUSICA, STORIA, E SOCIETA’: IL CANTO DEGLI ITALIANI. Goffredo Mameli, Giuseppe Verdi, il Risorgimento, la tradizione ebraica, il fascismo, e la Repubblica....
“Fratelli d’Italia” diventa ufficialmente inno nazionale
Scelto nel 1946 con un provvedimento provvisorio, nessuna legge lo aveva reso definitivo
Dopo 71 anni di provvisorietà l’Inno di Mameli, o meglio «Il canto degli Italiani», diventa ufficialmente l’Inno della Repubblica Italiana. Dopo svariati tentativi nelle precedenti legislature, il Senato ha approvato definitivamente la legge che rende ufficiale quell’inno che il Consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946 adottò provvisoriamente.
«Su proposta del Ministro della Guerra - si legge nel verbale di quel lontano Consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi - si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre p.v. e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l’inno di Mameli». Nulla di più definitivo del provvisorio, come spesso accade in Italia, anche perché l’Inno di Mameli entra a tutti gli effetti nell’immaginario collettivo, grazie soprattutto alla nazionale Italiana di Calcio e ai successi che un tempo elargiva. Poi nella legislatura 2001-2005 ecco sia una proposta di legge ordinaria che una costituzionale, che però non vengono approvate. Lo stesso avvenne nelle due successive legislature (2006-2008 e 2008-2013). Curiosamente però una legge del 2012, nata per promuovere il senso di cittadinanza tra gli studenti, prevede che l’Inno di Mameli venga insegnato nelle scuole.
Anche l’attuale legislatura sembrava destinata allo stesso esito e invece la Commissione Affari costituzionali della Camera in poche settimane ha approvato in sede deliberante la legge attesa da anni (di iniziativa di alcuni deputati del Pd), imitata dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, che in due settimane ha dato il sì definitivo. «Abbiamo l’Inno» ha commentato Salvatore Torrisi, presidente della Commissione.
«La Repubblica - afferma la nuova legge - riconosce il testo del `Canto degli italiani’ di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale». Ciò significa che tutte e sei le strofe del testo di Mameli costituiscono l’Inno e non solo le prime due, che tutti conoscono per motivi calcistici. E appare quasi una beffa del destino il fatto che i tifosi non possano cantare l’Inno ai mondiali di calcio per la prima volta dopo 60 anni, proprio dopo la storica approvazione della legge attesa da 71 anni.
Comunque Mameli ha avuta vita difficile anche per la concorrenza di «Va pensiero» il coro dal Nabucco di Giuseppe Verdi, che in passato la Lega propose come Inno alternativo, anche perché esso non parla di Roma, come invece fa «Fratelli d’Italia». E proprio la Lega è stata assente sia al momento dell’approvazione della legge alla Camera che oggi al Senato, anche se Roberto Calderoli assicura che non sia una scelta politica, ma una semplice coincidenza di impegni dei senatori in più Commissioni.
* Fonte: La Stampa, 15/11/2017 (ripresa parziale - senza immagine).
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LA ’NAZIONALIZZAZIONE’ DEL MENTITORE
Il paradosso della Costituzione
Difesa oggi dagli antipartito, 70 anni fa nel mirino degli “apolitici” dell’Uomo Qualunque. Bobbio li definiva il “pantano in cui finirà per impaludarsi il rinnovamento democratico”
di Giovanni De Luna (La Stampa, 09.12.2016)
Il paradosso del referendum del 4 dicembre è questo: la Costituzione del 1948 è stata vittoriosamente difesa dalle forze politiche che ne hanno sempre criticato il carattere «comunista» (Berlusconi e la Lega) o denunciato la fissità «talmudica» (così Grillo, nel 2011 sul suo blog). Il paradosso è anche più evidente se lo si confronta con le polemiche che - tra il 1945 e il 1947 - accompagnarono il varo della Carta Costituzionale.
Allora, il passaggio dalla dittatura alla democrazia fu accolto con sospetto e diffidenza da una larga fetta dell’opinione pubblica, abituata da venti anni di fascismo a considerare la politica una pratica «inconcludente» e incline a guardare agli uomini dei partiti con la diJffidenza dovuta a chi svolgeva «non un’attività disinteressata al servizio della collettività e della nazione, cercando invece di procurare potere, ricchezza, privilegi a sé stesso, alla propria famiglia, fazione, clientela elettorale». Queste frasi - tratte da uno dei tanti rapporti dei carabinieri che allora funzionavano come oggi i sondaggi di opinione - fotografavano un diffuso sentimento «antipartito» che si tradusse negli impetuosi successi elettorali dell’Uomo Qualunque.
La nuova Repubblica
Anche tra le file del Partito d’Azione - al quale oggi viene attribuita la paternità della Costituzione - all’inizio la forma partito era vista con sospetto. La nuova Repubblica che nasceva dalla Resistenza avrebbe dovuto puntare direttamente sugli uomini (con un rinnovamento della classe dirigente) e sulle istituzioni (con un allargamento della partecipazione politica fondata sulle autonomie e sull’autogoverno). Lo scriveva un giovane Norberto Bobbio (non aveva ancora 40 anni): «Una responsabilità pubblica ciascuno può assumerla dentro o fuori dei partiti, secondo le sue capacità e le sue tendenze, e magari meglio fuori che dentro».
Ma proprio i suoi articoli di allora sul quotidiano Giustizia e Libertà ci consentono oggi di capire che intorno alla Costituzione la partita si giocò essenzialmente tra la politica e l’antipolitica, meglio - come si diceva a quel tempo - tra gli «apolitici» e gli uomini dei partiti. Il qualunquismo nascondeva dietro la maschera della «apoliticità» e dell’«indipendenza» una lotta senza quartiere ai partiti del Cln, giudicati come il lascito più significativo e più pericoloso della Resistenza. BJobbio lo diceva esplicitamente: «gli indipendenti [...] non sono né indipendenti, né apolitici. Sono politici, ecco tutto, di una politica che non è quella dei comitati di liberazione o del fronte della Resistenza».
«Vizi tradizionali» italiani
L’«apoliticismo» (per Bobbio «l’indifferenza o addirittura l’irrisione per ogni pubblica attività in nome dell’imperioso dovere di lavorare senza ambizioni né distrazioni per la famiglia, per i figli e soprattutto per sé») si traduceva in una critica alla «politica di partito» che, scriveva, «lusinga e quindi rafforza inveterate abitudini, vizi tradizionali del popolo italiano, incoraggia gli ignavi, fa insuperbire gli ottusi e gli inerti [...], offre infine a tutti gli apolitici un motivo per allearsi, facendo di una folla di isolati una massa organica, se non organizzata, di persone che la pensano allo stesso modo e hanno di fronte lo stesso nemico [...] generando di nuovo quel pantano in cui finirà per impaludarsi lo sforzo di rinnovamento democratico dello Stato italiano».
Per gli uomini della Resistenza il nemico era quindi diventato quella «sorta di alleanza dei senza partito», «scettica di quello scetticismo che è proprio delle classi medie italiane», alimentata «da un dissenso di gusti, un disaccordo di stati d’animo, uno scontro di umori, una gara di orgogli, dai quali null’altro può derivare che invelenimento di passioni, impacci all’azione ricostruttrice».
La Carta strumentalizzata
Sembra che Bobbio parli proprio di quell’estremismo di centro che caratterizza oggi una parte della società italiana e un movimento come quello di Grillo. Allora fu un passaggio decisivo per l’approdo a una sua convinta adesione alla «democrazia dei partiti», frutto di una riflessione approfondita su un «modello», quello inglese, che, partendo dai capisaldi fondamentali delle origini (la divisione dei tre poteri, la monarchia costituzionale e il governo parlamentare), era stato in grado di rinnovarsi, spostando progressivamente verso il basso, verso il corpo elettorale, rappresentato e diretto dai partiti, il baricentro del sistema politico.
Le cifre del referendum del 4 dicembre ci dicono come l’elettorato dei movimenti più tipicamente antipartito (Cinque Stelle e Lega) abbia votato massicciamente per il No (l’80%), affiancato da una ristretta fascia di elettori appartenenti al Pd (23%) o alle varie sigle accampate alla sua sinistra. Essere salvata da quelli che volevano affossarla, adesso come nel 1948: da questo duplice paradosso cronologico la Costituzione esce come schiantata, degradata a puro pretesto, con una torsione innaturale che la espone, in futuro, a ogni tipo di uso strumentale.
Il confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006
di Salvatore Settis (la Repubblica, 07.12.2016)
IL DATO più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54 articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura plebiscitaria.
Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25; quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza 2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali dello stesso anno.
Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra. Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%.
Una notevole prova di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche così estese e confuse. Esso è per sua natura un “partito” trasversale, come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una maggioranza di parte.
Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001, quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16 milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della Costituzione.
Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare alla possibilità di ricorrere al referendum popolare.
Questo l’art. 4; ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata sarebbero da rilanciare. L’art. 2 prevedeva che la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente della Corte Costituzionale». L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice, se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.
In quelle proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale, e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge sembrano essersene dimenticati.
La riforma Renzi-Boschi è stata bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con riforme costituzionali come quelle sopra citate. Le prossime elezioni politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel retrobottega dei partiti.
Il referendum da cui veniamo è stato un grande banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo” senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri) diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il “ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha portato all’esito del referendum mostra che è possibile.
Smuraglia: è un No per attuare la Costituzione
"Al referendum non hanno vinto i partiti", dice il presidente dell’Anpi. "Leggere la vittoria referendaria del 4 dicembre solo sul terreno del confronto politico è un modo per ridimensionare il risultato popolare"
intervista di Andrea Fabozzi (il manifesto, 7.12.2016)
Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione nazionale partigiani, si aspettava questo successo del No?
Onestamente no. Immaginavo il paese spaccato a metà e speravo in una vittoria con il minimo distacco. Avevo indicazioni molto positive dalle nostre manifestazioni, in particolare l’ultima a Roma al teatro Brancaccio. Ma l’esperienza mi insegna a non fidarmi di quello che si vede nelle piazze e nei teatri, perché è la gente silenziosa che decide il risultato. E c’era da temere la propaganda del governo, le promesse, le proposte e le minacce del presidente del Consiglio, la complicità della stampa con il Sì...
E invece.
Mi ha sorpreso felicemente la grande partecipazione. Avevamo captato questo desiderio di capire e di partecipare, ma forse l’abbiamo persino sottovalutato. Evidentemente i cittadini che si sono informati sulla riforma, l’hanno compresa bene e giudicata male, sono stati la maggioranza. Anche se questa parte ragionata del No, adesso, mi pare messa del tutto tra parentesi, rimossa.
Non le piace come viene raccontata la vittoria del No?
Mi sorprende che tra le tante ragioni della sconfitta del Sì, la più elementare - e cioè che la riforma è stata bocciata nel merito - sia finita nell’ombra. Tutte le analisi sono sul terreno politico, tornano a farsi sentire come vincitori partiti che in campagna elettorale avevamo visto poco. Io credo che leggere il 4 dicembre esclusivamente sul terreno del confronto tra partiti sia un modo per ridimensionare lo straordinario risultato popolare.
Lei invece ci legge il segnale di una speranza? Si può ricominciare a parlare di attuazione della Costituzione?
Noi ne parliamo da sempre e lo abbiamo fatto anche in questa campagna elettorale. Alla fine dei miei incontri c’era sempre chi mi chiedeva “ma se vince il No cosa facciamo?”. E io rispondevo “Prima brindiamo, poi diciamo che invece di cambiarla la Costituzione bisogna attuarla”. A quel punto arrivava l’applauso più forte. Perché tutti vedono l’enorme contrasto che c’è tra i principi fondamentali della Carta e la realtà. Non voglio illudermi, ma credo che dentro questo 60% di No ci sia anche questa richiesta di attuazione.
Insieme a un voto contro il governo, non le pare?
Non per quanto ci ha riguardato. L’ho detto anche a Renzi nel nostro confronto di settembre a Bologna. Non ci è mai interessata la sorte del governo, volevamo solo difendere la Costituzione da uno strappo. Mi pare che lei non sia rimasto contento del modo in cui è stato raccontato quel confronto alla festa dell’Unità. Non sono rimasto contento che sia stato oscurato. Evidentemente non si era concluso come giornali e tv si auguravano, con la vittoria di Renzi.
Secondo lei, adesso, come si viene fuori dalle dimissioni del presidente del Consiglio?
La richiesta di votare presto mi pare infondata. Mancano molti presupposti, innanzitutto la legge elettorale: ne abbiamo due diverse per camera e senato e la prima è attesa al giudizio della Consulta. In più tutti i partiti dicono di volerla cambiare. La corsa alle urne è ingiustificata, il presidente della Repubblica, anche di fronte alle dimissioni di Renzi, ha molti strumenti prima di accettare le elezioni anticipate, provvederà con saggezza.
Questo No mette fine ai tentativi di riscrivere la Costituzione, almeno per un po’?
La Costituzione non è mai messa sufficientemente al riparo e bisogna stare sempre in guardia. Ma un No di questa entità ha anche un valore di ammonimento molto forte, si è capito che la Costituzione non è una legge ordinaria e non si può modificarla a cuor leggero, ma solo quando ce n’è effettivamente bisogno. E con il massimo di consenso.
In campagna elettorale si è parlato molto delle divisioni dell’Anpi. Vicenda chiusa? Lascerà qualche segno tra voi?
I segni sono stati più esterni che interni. Ogni piccola cosa è stata ingigantita e presa per buona, noi non abbiamo mai allontanato né sanzionato nessuno. Abbiamo solo chiesto ai nostri iscritti di non fare campagna per il Sì nel nome dell’Anpi, visto che la nostra posizione era opposta. La verità è che ha dato molto fastidio che l’Anpi si fosse schierata per il No. La nostra associazione è portatrice di valori in cui tutti devono riconoscersi, e dunque a molti abbiamo fatto fare almeno un pensierino.
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
La sinistra sotto le macerie e la libertà del futuro
Morte della politica. Solo scampoli di vecchi rancori e slogan ripetuti. Ma non è morta la politica. Anzi, bisogna fare l’operazione opposta a Fukuyama: spostare lo sguardo su ciò che può cominciare
di Bia Sarasini (il manifesto, 07.09.2016)
Tutto è politico, anche il terremoto, come è visibile ora, dopo i giorni di silenzio e di lutto dovuti al dolore e alla tragedia. Sono politiche le scelte, le prospettive, i progetti realizzati e quelli mai iniziati, le speranze e perfino la corruzione. Per questo mi lascia perplessa parlare di morte della politica. Mentre certamente è stata consumata una fine, la fine di una forma politica che a lungo abbiamo chiamato sinistra, e che comprende un insieme variegato di organizzazioni, sigle, pratiche, anche movimenti, oltre che un linguaggio e una visione del mondo.
Una fine non riconosciuta, continuamente rinviata e posticipata, e per questo sì, trasformata in una cristallizzazione di parole, di pratiche che non dicono più nulla, neanche a chi le perpetua con ostinazione. Peggio di una morte, per essere chiara, perché ci si è incaponiti a non nominarla, non vederla, e senza riconoscimento non si può elaborare il lutto, tutto si è trascina con sempre minore slancio, con nulli o quasi effetti visibili. Rimangono il rancore, le infinite accuse reciproche, la ripetizione di riti e comportamenti vuoti, parodie del potere che non c’è.
La novità è che ora, forse perché non c’è più nulla da smuovere, non ci sono più obiezioni e resistenze. Il rischio caso mai è il contrario. Confondere questa fine con la fine di tutto, della politica tout court. In un certo senso l’operazione opposta a quelle di Francis Fukuyama, quando nel 1992 proclamava la fine della Storia a fronte della caduta del muro di Berlino e della conseguente vittoria del capitalismo. Perché ha senso contemplare una fine, se si sposta lo sguardo su ciò che può cominciare. Altrimenti si tratta di una resa senza condizioni. E si lascia il campo a chi della cecità, e della confusione che ne è derivata, ha tratto il massimo profitto. In tutti sensi possibili. Economico e politico.
Un aspetto della complessità è che il fantasma della sinistra continua ad esistere, nello scenario politico italiano. Viene identificato con il Pd che pure, fin dalla sua nascita, da quando fu detto che lavoratori e imprenditori ne erano referenti allo stesso titolo, ha abbandonato la ragion d’essere di un partito di sinistra, anche moderato. La difesa della parte più debole della società, la lotta contro le ingiustizie.
L’insieme del corpo politico di quel partito, e della società, in prima linea il sistema dei media, hanno assecondato il rovesciamento del campo del riformismo, bandiera nobile di una delle forme della sinistra. Altro che difesa dei deboli.
L’efficienza, la redditività assunte come valori unici hanno aperto la strada a politiche a sostegno delle esigenze di multinazionali e banche. Le riforme sono diventate ciò che favorisce il potere, l’establishment.
L’inquinamento del linguaggio è una malattia grave: parole, idee, cose non dicono più ciò che dicevano. È in questa battaglia che la sinistra alternativa/radicale è stata spazzata via, una vicenda che andrebbe ripensata con attenzione e che non è solo il risultato di un’operazione mediatica. Nel contesto di un cambiamento di segno che ha investito le socialdemocrazie europee.
Senza dimenticare i segni di inversione, basti pensare alle tensioni del Labour Party, con Corbyn corpo estraneo all’establishment blairiano, o alle scelte di rottura dei partiti socialisti rispetto alle grandi alleanze in Portogallo e Spagna, quest’ultima una partita tuttora aperta.
In Italia Renzi ha radicalizzato la fisionomia del Pd, con una significativa torsione verso il centro, unita a una tensione al potere personale. Molto in sintonia con i progetti dell’establishment internazionale, come è evidente nell’intreccio tra Italicum e la de-forma costituzionale.
Qui si colloca la fine della sinistra. Quella popolare, di massa, quella alternativa, che pur divise anche ferocemente, hanno una lunga storia comune di scambi vitali che hanno segnato la società, hanno portato i risultati che hanno cambiato la vita dei lavoratori, delle donne, dei più poveri. Quei risultati che ora sono attaccati uno ad uno. A cominciare dalle condizioni di vita dei più giovani. La domanda è questa. Perché le sofferenze sociali, sempre più estese e insostenibili, non trovano una voce adeguata? Perché gli 11 milioni di italiani che hanno deciso di rinunciare a curarsi, di fronte a un sistema sanitario sempre più costoso, non sono al centro delle nostre battaglie? Perché il Jobs Act, che pure è stato ampiamente criticato, è passato nel sostanziale silenzio sociale?
Una prima risposta, dolorosa, ritengo sia in quella fine non consumata, che ha reso teatrali e sempre più vuote le proteste. Non conflitto reale, ma messa in scena del conflitto. E forse per quel punto di cui ha scritto Enzo Scandurra su questo giornale: che si è finito per assomigliare, nei comportamenti e nei pensieri, a quel potere a cui ci si opponeva. Non bastano l’invocazione della legalità, la lotta anti-casta, le idee che guidano il Movimento 5stelle, a dare una visione del mondo. Movimento che occupa lo spazio dell’opposizione, e che viene votato da chi ancora va a votare, perché ha una forza ritenuta comunque utile.
Con onestà va detto che una visione non è a portata di mano. E non ci sono ricette taumaturgiche. Non c’è un re che possa imporre la mano e guarire il popolo malato. Due punti mi sembrano chiari. Occorre comprendere, conoscere, interpretare lo stato delle cose. Quello attuale, in tutte le sue dinamiche. Cioè occorre studiare, riflettere, pensare. Lo so, sembra assurdo quando ciò che urge è l’azione. Ma su cosa agire, e come? Al di là delle denunce, delle polemiche ci siamo chiesti, per esempio, perché il corpo delle donne si trova al centro dello scontro politico internazionale?
Quale rovesciamento, del progressismo e dei femminismi, è in corso? A quale lavoro, quale rendimento, sono chiamati i corpi, le relazioni affettive, compresi piaceri e depressioni? Insomma, sappiamo a quale disegno sociale ci si oppone? Abbiamo gli attrezzi giusti? L’altro punto è praticare il realismo e la generosità delle battaglie. Uno dei modi per ostinarsi a non riconoscere la fine, e quindi occultare la decomposizione in corso, è rinchiudersi nei propri ambiti. Movimenti, associazioni, gruppi. Donne, uomini, generi diversi.
Un passo necessario è uscire da sé, guardarsi intorno. E scegliere insieme. Penso al referendum costituzionale. La vittoria del No non risolve i problemi specifici, è ovvio. Ma permetterà di affrontare con forza, e quadro istituzionale non compromesso, ogni battaglia.
I cittadini europei riprendano il progetto europeo tra le proprie mani
Salviamo l’Europa, adesso!
Domenica 9 ottobre marciamo da Perugia ad Assisi per costruire una nuova Europa solidale e nonviolenta *
Non è uno scherzo. E’ la vittoria dell’egoismo, della paura e del nazionalismo. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è un eccezionale terremoto politico ed economico che cambia la storia dell’Europa e del mondo. Le sue conseguenze sono immense. Ora si apre un periodo difficilissimo che aggiunge instabilità ad instabilità.
I responsabili di questo disastro sono da ricercare tra tutti quelli che hanno spento il sogno europeo di pace, prosperità e diritti umani.
Da decenni chiediamo ai responsabili dei governi e delle istituzioni dell’Europa di cambiare strada, di rimettere al centro le persone e il lavoro dignitoso, di promuovere equità e giustizia, inclusione sociale e sviluppo sostenibile. Lo abbiamo fatto con tutta l’energia e la passione che abbiamo avuto a disposizione. Senza essere ascoltati.
Ma un’Europa che abbandona i suoi cittadini in difficoltà, un’Europa stanca e rassegnata, senza un forte progetto, incapace di rispondere alla crisi economica, ai grandi drammi delle guerre e delle migrazioni, prigioniera di lobby irresponsabili, non ha futuro.
E senza l’Europa anche per l’Italia sarà tutto più difficile. Per questo è urgente cambiare. Chi si ostina a non sentire, deve farsi da parte!
C’è stato un tempo in cui i cittadini europei si sono uniti contro il pericolo di guerra atomica e la mancanza di libertà e sono riusciti a far cadere il muro di Berlino e a mettere fine a cinquant’anni di guerra fredda. E’ tempo che i cittadini europei riprendano il progetto europeo tra le proprie mani e costruiscano una nuova Europa.
Dopo il grande dibattito sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è indispensabile aprire il grande dibattito sull’Europa che vogliamo, i nostri valori, la sua ragione di esistere in un mondo sempre più complesso, globalizzato e interdipendente, i nostri interessi comuni, il nostro ruolo nel mondo.
Lo abbiamo detto mille volte e lo ripetiamo ancora: è tempo di cambiare! Con coraggio e lungimiranza. Per questo invitiamo tutti a partecipare alla Marcia PerugiAssisi della pace e della fraternità del prossimo 9 ottobre. Ri-uniamo tutte le energie positive. Riflettiamo sulle cose che dobbiamo fare ma poi rimettiamoci in cammino. Insieme. Per una nuova Europa solidale e nonviolenta.
Flavio Lotti, Coordinatore della Tavola della pace
Perugia, 24 giugno 2016
Tavola della Pace
Cell. 3356590356 - segreteria@perlapace.it
www.perlapace.it - www.perugiassisi.org
La democrazia senza morale
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 8 aprile 2016) *
Nel marzo di trentasei anni fa Italo Calvino pubblicava su questo giornale un articolo intitolato “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”. Vale la pena di rileggerlo (o leggerlo) non solo per coglierne amaramente i tratti di attualità, ma per chiedersi quale significato possa essere attribuito oggi a parole come “onestà” e “corruzione”.
Per cercar di rispondere a questa domanda, bisogna partire dall’articolo 54 della Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde.
Quell’articolo della Costituzione dovrebbe ormai essere letto ogni mattina negli uffici pubblici e all’inizio delle lezioni nelle scuole (e, perché no?, delle sedute parlamentari).
Comincia stabilendo che «tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi» . Ma non si ferma a questa affermazione, che potrebbe apparire ovvia. Continua con una prescrizione assai impegnativa: « i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». Parola, quest’ultima, che rende immediatamente improponibile la linea difensiva adottata ormai da anni da un ceto politico che, per sfuggire alle proprie responsabilità, si rifugia nelle formule «non vi è nulla di penalmente rilevante», «non è stata violata alcuna norma amministrativa». Si cancella così la parte più significativa dell’articolo 54, che ha voluto imporre a chi svolge funzioni pubbliche non solo il rispetto della legalità, ma il più gravoso dovere di comportarsi con disciplina e onore.
Vi è dunque una categoria di cittadini che deve garantire alla società un “ valore aggiunto”, che si manifesta in comportamenti unicamente ispirati all’interesse generale. Non si chiede loro genericamente di essere virtuosi. Tocqueville aveva colto questo punto, mettendo in evidenza che l’onore rileva verso l’esterno, « n’agit qu’en vue du public », mentre «la virtù vive per se stessa e si accontenta della propria testimonianza».
Ma da anni si è allargata un’area dove i “servitori dello Stato” si trasformano in servitori di sé stessi, né onorati, né virtuosi. Si è pensato che questo modo d’essere della politica e dell’amministrazione fosse a costo zero. Si è irriso anzi a chi richiamava quell’articolo e, con qualche arroganza, si è sottolineato come quella fosse una norma senza sanzione. Una logica che ha portato a cancellare la responsabilità politica e a ridurre, fin quasi a farla scomparire, la responsabilità amministrativa. Al posto di disciplina e onore si è insediata l’impunità, e si ripresenta la concezione «di una classe politica che si sente intoccabile», come ha opportunamente detto Piero Ignazi. Sì che i rarissimi casi di dimissioni per violato onore vengono quasi presentati come atti eroici, o l’effetto di una sopraffazione, mentre sono semplicemente la doverosa certificazione di un comportamento illegittimo.
Questa concezione non è rimasta all’interno della categoria dei cittadini con funzioni pubbliche, ma ha infettato tutta la società, con un diffusissimo “così fan tutti” che dà alla corruzione italiana un tratto che la distingue da quelli dei paesi con cui si fanno i più diretti confronti.
Basta ricordare i parlamentari inglesi che si dimettono per minimi abusi nell’uso di fondi pubblici: i ministri tedeschi che lasciano l’incarico per aver copiato qualche pagina nella loro tesi di laurea: il Conseil constitutionnel francese che annulla l’elezione di Jack Lang per un piccolo sforamento nelle spese elettorali; il vice-presidente degli Stati Uniti Spiro Agnew si dimette per una evasione fiscale su contributi elettorali (mentre un ministro italiano ricorre al condono presentandolo come un lavacro di una conclamata evasione fiscale).
Sono casi noti, e altri potrebbero essere citati, che ci dicono che non siamo soltanto di fronte ad una ben più profonda etica civile, ma anche alla reazione di un establishment consapevole della necessità di eliminare tutte le situazioni che possono fargli perdere la legittimazione popolare.
In Italia si è imboccata la strada opposta con la protervia di una classe politica che si costruiva una rete di protezione che, nelle sue illusioni, avrebbe dovuto tenerla al riparo da ogni sanzione. Illusione, appunto, perché è poi venuta la più pesante delle sanzioni, quella sociale, che si è massicciamente manifestata nella totale perdita di credibilità davanti ai cittadini, di cui oggi cogliamo gli effetti devastanti. Non si può impunemente cancellare quella che in Inghilterra è stata definita come la “constitutional morality”.
In questo clima, ben peggiore di quello degli anni Ottanta, quale spazio rimane per quella “controsocietà degli onesti” alla quale speranzosamemte si affidava Italo Calvino? Qui vengono a proposito le parole di Louis Brandeis, giudice della Corte Suprema americana, che nel 1913 scriveva, con espressione divenuta proverbiale, che «la luce del sole è il miglior disinfettante». Una affermazione tanto più significativa perché Brandeis è considerato uno dei padri del concetto di privacy, che tuttavia vedeva anche come strumento grazie al quale le minoranze possono far circolare informazioni senza censure o indebite limitazioni (vale la pena di ricordare che fu il primo giudice ebreo della Corte).
L’accesso alla conoscenza, e la trasparenza che ne risulta, non sono soltanto alla base dell’einaudiano “conoscere per deliberare”, ma anche dell’ancor più attuale “ conoscere per controllare”, ovunque ritenuto essenziale come fonte di nuovi equilibri dei poteri, visto che la “democrazia di appropriazione” spinge verso una concentrazione dei poteri al vertice dello Stato in forme sottratte ai controlli tradizionali. Tema attualissimo in Italia, dove si sta cercando di approvare una legge proprio sull’accesso alle informazioni, per la quale tuttavia v’è da augurarsi che la ministra per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione voglia rimuovere i troppi limiti ancora previsti.
Non basta dire che limiti esistono anche in altri paesi, perché lì il contesto è completamente diverso da quello italiano, che ha bisogno di ben più massicce dosi di trasparenza proprio nella logica del riequilibrio dei poteri. E bisogna ricordare la cattiva esperienza della legge 241 del 1990 sull’accesso ai documenti amministrativi, dove tutte le amministrazioni, Banca d’Italia in testa, elevarono alte mura per ridurre i poteri dei cittadini. Un rischio che la nuova legge rischia di accrescere.
Ma davvero può bastare la trasparenza in un paese in cui ogni giorno le pagine dei giornali squadernano casi di corruzione a tutti livelli e in tutti i luoghi, con connessioni sempre più inquietanti con la stessa criminalità? Soccorre qui l’amara satira di Ennio Flaiano. «Scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: “Ah, dice, ma non sono in triplice copia!”». Non basta più l’evidenza di una corruzione onnipresente, che anzi rischia di alimentare la sfiducia e tradursi in un continuo e strisciante incentivo per chi a disciplina e onore neppure è capace di pensare.
I tempi incalzano, e tuttavia non vi sono segni di una convinta e comune reazione contro la corruzione all’italiana che ormai è un impasto di illegalità, impunità ostentata o costruita, conflitti d’interesse, evasione fiscale, collusioni d’ogni genere, cancellazione delle frontiere che dovrebbero impedire l’uso privato di ricorse pubbliche, insediarsi degli interessi privati negli stessi luoghi istituzionali (che non si sradica solo con volenterose norme sulle lobbies). Fatale, allora, scocca l’attacco alla magistratura e l’esecrazione dei moralisti, quasi che insistere sull’etica pubblica fosse un attacco alla politica e non la via per la sua rigenerazione. E, con una singolare contraddizione, si finisce poi con l’attingere i nuovi “salvatori della patria” proprio dalla magistratura, così ritenuta l’unico serbatoio di indipendenza. Il caso del giudice Cantone è eloquente, anche perché mette in evidenza due tra i più recenti vizi italiani. La personalizzazione del potere ed una politica che vuole sottrarsi alle proprie responsabilità trasferendo all’esterno questioni impegnative. Alzare la voce, allora, non può mai essere il surrogato di una politica della legalità che esige un mutamento radicale non nelle dichiarazioni, ma nei comportamenti.
di Roberto Toscano (la Repubblica, 03.04.2016)
DEPLORANO quello che definiscono moralismo e denunciano le campagne anti-corruzione come sempre tendenti a squalificare l’avversario politico. Invece occuparsi, e preoccuparsi della corruzione, oggi convertita in una perversa normalità, non è moralismo, ma una oggettiva necessità sia politica che culturale.
Come punto di partenza dovremmo cercare di liberarci da molti luoghi comuni. Il primo è quello che la corruzione sia un inevitabile corollario della democrazia, mentre le dittature sarebbero in grado di stroncarla grazie alla loro spietata inflessibilità repressiva. Falso. Si sapeva di certo che Pinochet era un assassino, ma è poi risultato che era anche un ladro e che aveva trasferito su un conto di Washington denaro pubblico di cui si era illegalmente appropriato. E che dire della Cina, dove i corrotti sono arrivati a un “fatturato” di miliardi di dollari a dispetto dei ricorrenti processi che si concludono anche con condanne a morte?
L’altro luogo comune è che la corruzione sia esclusivamente legata al capitalismo, sistema che si basa sulla legittimazione anche culturale dell’avidità («L’avidità è buona. L’avidità funziona» - come dice Gordon Gekko nel film Wall Street), e che l’unico antidoto sia quello di un’etica rivoluzionaria basata sui doveri sociali e sull’austerità. Falso. La Corea del Nord, il meno democratico e il meno capitalista fra i sistemi politici esistenti, è elencata da Transparency International in testa alla classifica della corruzione a pari merito con la Somalia, lo stato fallito più anarchico del mondo.
Prendiamo alcune fra le grandi cause rivoluzionarie del secolo scorso. Il successore di Mandela, il presidente sudafricano Zuma, è appena stato incriminato per uso privato di fondi pubblici, e la classe dirigente del glorioso African National Congress è coinvolta in una serie di scandali. Daniel Ortega, l’eroe della rivoluzione sandinista in Nicaragua, ha impiantato un regime in cui la retorica rivoluzionaria è ormai solo una consunta copertura di un sistematico andazzo corruttivo. In Angola, ancora governata da quel Mpla che aveva resistito, con l’aiuto cubano, all’attacco combinato di Sudafrica e Cia, la figlia del presidente dos Santos è diventata la prima miliardaria africana. È vero che il tema della corruzione viene usato contro gli avversari politici. Sta avvenendo in Brasile, contro Dilma Rousseff e Lula, ma il problema è che la corruzione c’è davvero, e a livelli colossali.
Altro luogo comune è quello che la corruzione sia un fenomeno del settore pubblico. Come se le frodi che hanno innescato la crisi finanziaria globale non fossero attribuibili a Wall Street - anche se con la complicità dei “cani da guardia” federali che non hanno abbaiato. In Italia tutti danno addosso alla pubblica amministrazione e ai suoi funzionari, definiti come una manica di disonesti parassiti. Pubblico cattivo/ privato buono. Viene in mente La fattoria degli animali di Orwell: “due gambe cattivo, quattro gambe buono”. Come se potesse esistere un funzionario pubblico corrotto senza un privato corruttore - come se ci potesse essere la prostituzione senza i clienti. Basterebbe ascoltare con attenzione i linguaggi, oltre che i contenuti, delle intercettazioni per capire con quanta protervia, quanta arroganza, i corruttori privati sentono di poter dominare i loro prezzolati manutengoli nella pubblica amministrazione.
Ma cosa spiega il fatto che la corruzione sia passata da trasgressione a sistema? Non certo che l’umanità sia diventata più criminale. E nemmeno che siano venuti meno i freni derivanti dai precetti religiosi: che la fede religiosa non sia incompatibile con la corruzione e in genere la criminalità lo dimostrano fatti come i santini nel covo di Provenzano e l’appartamento del cardinale Bertone, finanziato con i soldi dell’ospedale Bambin Gesù. Senza parlare dei corrotti ayatollah iraniani e degli iper-religiosi/iper-corrotti sauditi.
Qualcosa di profondo è però avvenuto. Si tratta del restringersi degli orizzonti culturali all’interno di una comunità che non è globale né nelle norme né nella solidarietà, ma è unificata rispetto a quello che è ormai il criterio singolo del valore, del successo, della stessa identità: il denaro.
Ha ragione il Papa quando parla di idolatria. Si tratta della perdita di rilevanza della molteplicità di valori e obiettivi che dovrebbero dare un senso alla vita umana, ma che oggi risultano accantonati per lasciare tutto il campo a uno spirito acquisitivo in termini di denaro e del benessere e potere che dal denaro si possono ricavare. Un tempo il denaro serviva ad acquisire potere, oggi il potere viene usato per conseguire il denaro.
Sarebbe assurdo manifestare nostalgia per il tempo delle ideologie totalitaria e dei loro crimini, dalla Shoah al Gulag, ma non dovremmo cadere nell’errore di non vedere la totalità idolatrica di quella che è oggi l’ideologia dominante. Non avrebbe senso a questo punto ripercorrere le fallite strade della lotta contro Mammona e contro il Capitale e riproporre pauperismo o collettivismo. Dobbiamo lottare non contro, ma per.
Riconoscendo il giusto spazio che l’aspirazione al benessere occupa nel quadro di un sano equilibrio etico-antropologico, dovremmo ridare diritto di cittadinanza a tutto quello che il denaro e il “pensiero unico” che lo accompagna hanno accantonato, negato, squalificato, strumentalizzato: arte, cultura, religione, etica, politica.
Si deve certo combattere la corruzione con gli strumenti della legge, ma la vera battaglia dovrà essere quella, di natura culturale ed etico-politica, anti-totalitaria e anti-idolatrica. Altrimenti non servirebbe nemmeno - né in Italia né altrove - mettere un poliziotto dietro ogni cittadino e sottoporlo a intercettazioni costanti.
Chi grida al fascista
di FRANCESCO MERLO (la Repubblica, 17 marzo 2016)
TORNANO le parole fascista, comunista, stalinista... non solo come "vecchi soprannomi per anziani" ma anche come gli stilemi di un’usurata comicità italiana che non fa più ridere, di un sottosopra logico che è diventato triste. "I leghisti di Roma sono tutti ex fascisti" ha ieri denunziato l’indomabile comandante partigiano Silvio Berlusconi in difesa del fido Bertolaso che, come un eroe della Resistenza, dovrà ora affrontare la Decima Mas di Salvini, le legioni della Meloni, i manipoli della deputata ex missina Barbara Saltamartini, la quale, com’è ovvio, tiene il coltello tra i denti alla maniera del feroce Ettore Muti.
E, a fare pendant, intervistato sul Corriere da Aldo Cazzullo, Massimo D’Alema aveva dato dello stalinista a Matteo Renzi e di nuovo la parola aveva fatto cortocircuito con la sua storia. Perché anche "stalinista" non è un insulto qualsiasi, come per esempio populista o sleale o autoritario, ma è una grammatica politica, un codice etico, è la cassetta degli attrezzi che Massimo D’Alema ha giustamente relegato nella propria soffitta ideologica, la vecchia antropologia che modellò il suo carattere di duro e formò la sua selvatica personalità.
Ma veniamo a noi, che alla parola "fascisti" ancora ci armiamo di vigilanza democratica. Ieri mattina, ascoltando l’intervista che gli faceva Maurizio Belpietro, noi abbiamo cercato di capire chi sono i camerati, i cuori neri che fanno vibrare di indignazione liberale l’antifascista Berlusconi. Di sicuro non ce l’ha con Gasparri, Alemanno, Storace, Matteoli e con tutti quegli altri ex fascisti che lui ha fatto, nel corso degli anni, ministri, sindaci, presidenti di regioni, quelli che stavano nel Fuan e nel Fronte della Gioventù e lui ha messo a sedere al tavolo delle presidenze, nelle partecipate, nel sottogoverno, ha chiamato ad esercitare il potere, ha promosso classe dirigente del Paese, sino a nominare ministro della Difesa il futurista Ignazio La Russa, che sembrava l’incarnazione della caricatura del gerarca, con i suoi completi militari, le collezioni di soldatini, i voli dannunziani sopra Kabul... Insomma Berlusconi non può certo avercela con tutti gli ex giovani camerati che - Giovinezza Giovinezza - nel giorno in cui la destra berlusconiana fece eleggere Alemanno sindaco di Roma, lo salutarono sui gradini del Campidoglio con il saluto romano e il grido Eia eia alalà.
È vero che quando non lo soddisfacevano li chiamava ingrati, soprattutto Gianfranco Fini "il quale - disse nel 2009 all’agenzia Ansa - senza di me starebbe ancora dove stavano tutti loro sino al 1994" e voleva dire nelle fogne dello slogan ("fascisti carogne/ tornate nelle fogne"). Per la verità già un anno prima Berlusconi lo aveva tirato fuori dal sottosuolo della Storia. Non era ancora sceso in campo, quando Fini il fascista si candidò proprio a sindaco di Roma contro Rutelli. Ebbene, al cronista che gli domandava per chi avesse votato, l’imprenditore a sorpresa rispose: "Certamente Gianfranco Fini". Fu un lampo, un’epifania, probabilmente il suo scandalo più bello, un merito che la storia di sicuro gli riconoscerà: avere dato alla destra italiana lo ius soli nella democrazia. Fini fu battuto ma raggiunse il 47 per cento e mai sconfitta fu più vincente di quella. Berlusconi infatti lo aveva smacchiato. Con il paradosso però che, da quel momento, più Fini si allontanava dalla destra e più Berlusconi si spostava a destra. E più Fini si sfascistizzava e più, agli occhi di Berlusconi, ritornava fascista, come vuole il vecchio adagio secondo cui bisogna fare il giro del mondo per ritrovare la propria casa.
Ecco, appunto, Berlusconi in un’intercettazione con Lavitola lamentarsi che Fini gli bocciava uno dei suoi tanti lodi perché, secondo lui, subiva le lusinghe della sinistra: "non me l’approvano i fascisti, Fini non ci sta". E la cronaca racconta che non solo Berlusconi pagò 600 milioni per far nascere Fratelli d’Italia, ma che anche La Destra di Storace aveva avuto la sua concreta benedizione: "Ah, quando c’era la buonanima" disse mostrando a Storace il volume dell’editore Dino con il faccione del Duce sbalzato in oro. E Storace, che era a capo di una delegazione di fascisti sociali e dunque poveri: "Beato lei che ce l’ha, noi no, perché costa troppo".
Berlusconi fascista? Berlusconi antifascista? Nessuno meglio di noi, che lo abbiamo studiato per 20 anni, sa che Berlusconi non è stato niente, o se preferite è stato tutto e il contrario di tutto. Ci fu quello che difese Mussolini perché "non ha mai ammazzato nessuno e mandava la gente in vacanza al confino", e ci fu quell’altro che il 25 aprile del 2009 si annodò un fazzoletto rosso al collo e tenne un comizio ricordando la sua eroica mamma antinazista. Ci fu un Berlusconi che scelse la giornata della memoria per raccontare barzellette sugli ebrei e ce ne fu uno che, in tv, annunziò che sarebbe andato ad incontrare il papà dei fratelli Cervi senza neppure sentire Bertinotti che gli ripeteva: "guardi che papa Cervi è morto".
Nell’Italia del trasformismo, Berlusconi non è certo l’unico ad avere adattato le convinzioni alle convenienze, ma davvero oggi ha solo un suono acido la parola fascista usata dal vecchio sdoganatore dei fascisti. Allo stesso modo suona acida la parola stalinista usata dall’ultimo nipotino degli stalinisti. Sono solo parole morte che appartengono alla storia, un po’ come Orazi e Curiazi, turchi e mori, achei e troiani. Tanto più che Bertolaso, forse forse, in queste elezioni romane, è quello che della fascisteria parodiata - da affrontare con Ugo Tognazzi e non certo con Ferruccio Parri - esibisce di più i connotati: la virilità, gli attributi, la stessa spavalderia che mostrava sulle macerie dell’Aquila quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso. Cos’altro poteva dire alla Meloni incinta se non "vai a fare la mamma "? Spiace solo che, nelle polemiche, lo abbiano davvero trattato come se fosse l’uomo italiano medio, il rappresentante del maschio italiano, promuovendo lui e offendendo tutti gli altri.
Le parole impazziscono un attimo prima degli uomini. Ma non fanno tabula rasa. Remember è il titolo di un intelligente film tedesco che Berlusconi e D’Alema dovrebbero andare a vedere insieme, per ritrovare quel tanto che hanno in comune. Racconta di un vecchio che ha perso la memoria e va a caccia di nazisti. Senza ricordare che il nazista era lui.
Fare pace con la terra e tra di noi
di Vandana Shiva (www.huffingtonpost.it, 09/12/2015)
L’umanità si trova sull’orlo di un precipizio. Soltanto 200 anni di era del combustibile fossile sono stati sufficienti per portare all’estinzione di intere specie e alla distruzione della biodiversità, causando la devastazione del nostro suolo, l’impoverimento e l’inquinamento della nostra acqua, e destabilizzando il nostro intero sistema climatico. Cinquecento anni di colonialismo hanno portato all’estinzione di culture, linguaggi, popoli, e ci hanno lasciato un’eredità di violenza come base della produzione e delle pratiche di governo.
Gli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015 hanno portato ad una escalation di violenza nel nostro modo di parlare e di pensare quando si tratta di affrontare un conflitto. Parigi è diventata l’epicentro della crisi ecologica planetaria e della crisi culturale globale. Dal 30 novembre all’11 dicembre, i movimenti e governi convergono a Parigi per prendere parte a Cop21, la 21esima Conferenza delle Parti all’interno della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. La Cop21 non riguarda più solo il cambiamento climatico, ma affronta le nostre modalità di produrre e di consumare, che stanno distruggendo gli ecosistemi che sostengono e rendono possibile la vita umana su questo pianeta.
C’è un legame profondo e intimo tra gli eventi del 13 novembre e la devastazione ecologica che si è scatenata durante il periodo della storia umana contrassegnato dall’uso di combustibili fossili. Gli stessi processi che causano il cambiamento climatico, contribuiscono anche ad accrescere la violenza tra le persone. Entrambi sono il risultato di una guerra contro la terra. Entrambi sono conseguenze di un paradigma di guerra, costruito intorno strumenti e tecniche che sono state pensate e progettate per la guerra, e che dopo le guerre mondiali, sono state imposte nel campo dell’agricoltura. L’agricoltura industriale, che ha le sue radici nella guerra, ha distrutto la biodiversità, la fertilità del suolo, le risorse idriche, e il clima.
L’agricoltura industriale è un sistema basato sul combustibile fossile, e contribuisce per più del 40% all’emissione dei gas serra che contribuiscono al cambiamento climatico. Insieme al sistema alimentare globalizzato, l’agricoltura industriale è responsabile per almeno il 50% della crisi climatica. I fertilizzanti azotati sintetici sono basati su combustibili fossili e usano gli stessi processi chimici utilizzati per la fabbricazione di armi e munizioni per Hitler durante la Seconda guerra Mondiale. Il Processo Haber-Bosch, ad alta intensità energetica, utilizza ad esempio gas naturale per fissare artificialmente l’azoto presente nell’aria ad alta temperatura e produrre così ammoniaca. L’ammoniaca è la materia prima di tutti i fertilizzanti azotati di sintesi, così come degli esplosivi.
Un chilogrammo di fertilizzanti azotati richiede l’equivalente energetico di 2 litri di gasolio. Nel 2000, l’energia utilizzata per la produzione di fertilizzanti è stata pari a 191 miliardi di litri di gasolio, e si prevede che tale cifra salirà a 277 miliardi nel 2030. Si tratta di una responsabilità decisiva per il cambiamento climatico, ma viene in gran parte nascosta sotto il tappeto. I fertilizzanti sintetici, usati per l’agricoltura industriale, iniziano a distruggere il pianeta ben prima di raggiungere i campi. Non è di Volkswagen che dobbiamo preoccuparci, è dei fertilizzanti sintetici
La narrazione dominante dice che i fertilizzanti sintetici ci nutrono, e che senza di loro molte persone morirebbero di fame. Producono "il pane dall’aria", come è stato detto da parte dell’industria. Questo è falso per 2 motivi. In primo luogo, la natura e gli esseri umani hanno a disposizione molte soluzioni non violente, efficaci e sostenibili per fornire azoto al suolo e alle piante. Prendete le leguminose, che sono davvero miracolose: fissano l’azoto dall’aria, senza combustibili fossili e senza processi violenti. I batteri (rizobi) nei noduli delle loro radici sono in grado di convertire l’azoto atmosferico in ammoniaca, e poi in composti organici che sono utilizzati dalla pianta per la crescita. La consociazione o la rotazione di leguminose con cereali è stata un’antica pratica in India. Anche noi utilizziamo fertilizzanti verdi che inducono la fissazione dell’azoto. Oltre ai rizobi abbiamo il sorprendente lombrico. Il terreno con vermicompostaggio contiene cinque volte più azoto del suolo senza lombrichi, il tutto senza alcun combustibile fossile. Questo è un ciclo vitale.
Restituendo materia organica al terreno si accresce la quantità di azoto del suolo. Uno studio che abbiamo intrapreso dimostra già che l’agricoltura biologica può aumentare il contenuto di azoto nel suolo tra 44-144% a seconda del tipo di coltura. L’agricoltura biologica non solo evita le emissioni prodotte dall’agricoltura industriale, più ancora l’agricoltura biologica, attraverso la fotosintesi, trasforma il carbonio presente nell’aria e lo restituisce al suolo, e in questo modo aumenta la fertilità del suolo, contribuisce ad aumentare la produzione alimentare e la nutrizione, il tutto con una tecnologia sostenibile e a costo zero per affrontare il cambiamento climatico.
Il potenziale dell’agricoltura biologica è stato completamente ignorato, e combattuto dal modello militarizzato di agricoltura industriale basata sulla chimica. Questo modello non solo ha causato ingenti danni ecologici: ha sradicato milioni di persone distruggendo terreni e sorgenti d’acqua, distruggendo società e contribuendo direttamente alla crisi dei rifugiati. Modelli di agricoltura ecologicamente non sostenibili, dipendenti dai combustibili fossili, sono stati imposti attraverso "aiuti" e progetti "di sviluppo" nel nome della Rivoluzione Verde. I sistemi di supporto vitale per la vita umana e per tutte le forme di vita, come il suolo e l’acqua, sono così andati distrutti; interi ecosistemi che hanno fornito cibo e i mezzi di sussistenza, non possono più sostenere le società. Rabbia, malcontento, frustrazione, proteste, conflitti sono il risultato. Tuttavia, i conflitti legati alla terra, all’acqua e all’agricoltura conflitti sono ripetutamente e deliberatamente trasformati in conflitti religiosi, per proteggere il modello di agricoltura militarizzata, che ha scatenato una guerra globale contro la terra e contro i cittadini.
Ho assistito a questo processo nel Punjab mentre stavo facendo ricerche per il mio libro "La violenza della Rivoluzione verde" sulle violenze del 1984. Stiamo assistendo allo stesso processo oggi, quando a conflitti che si radicano nella degradazione del terreno e nella crisi idraulica, indotte da sistemi agricoli non sostenibili, viene data l’immagine e il tono di conflitti religiosi.
Dal 2009, sentiamo parlare solo di Boko Haram, ma non sentiamo mai della scomparsa del lago Ciad. Il lago Ciad supportava e riforniva 30 milioni di persone in 4 paesi - Nigeria, Ciad, Camerun, Niger. L’irrigazione intensiva per l’agricoltura industriale è aumentata di quattro volte tra il 1983 e il 1994. Il 50% della scomparsa del lago Ciad è attribuita alla costruzione di dighe e all’irrigazione intensiva necessaria per l’agricoltura industriale. Quando l’acqua scomparve, i conflitti tra i pastori musulmani e gli agricoltori sedentari cristiani, generati dalla diminuzione delle risorse idriche, hanno causato disordini. Come afferma Luc Gnacadja, l’ex segretario generale della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla Desertificazione, circa le violenze in Nigeria: "la cosiddetta lotta religiosa riguarda in realtà l’accesso alle risorse vitali".
La storia della Siria è la stessa - nel 2009, una grave siccità ha sradicato un milione di agricoltori, che sono stati costretti quindi a trasferirsi in città. Le misure di aggiustamento strutturale, imposte dalle istituzioni finanziarie globali e dalle regole del mercato, hanno impedito al governo di approntare risposte alla situazione dei contadini della Siria. Le proteste degli agricoltori si sono intensificate. Entro il 2011, le potenze militari mondiali erano in Siria, a vendere ancora più armi e deviando la narrazione mediatica dalla storia del suolo e degli agricoltori - alla religione. Oggi, la metà della Siria è nei campi profughi, la guerra è in crescendo, e le cause profonde della violenza continuano ad essere mistificate come religiose.
Questi cicli viziosi di violenza sono radicati nelle tecnologie di guerra, e in economie di guerra. Ad Haber, l’inventore dello Zyklon B - un gas tossico utilizzato dal 1941 per uccidere più di un milione di ebrei nei campi di concentramento - è stato dato un premio Nobel per la Chimica. Norman Borlaug ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace per quel processo di fatto basato sulla guerra chimica, che è stata la Rivoluzione Verde - che ha lasciato solamente un’eredità di violenza. Per me, la Cop21 è diventata un pellegrinaggio di pace - ricordando tutte le vittime innocenti delle guerre contro la terra e contro i cittadini. Ho lanciato un "Patto per proteggere la terra" e per proteggerci a vicenda in questi tempi violenti di polarizzazione e oblio. Dobbiamo sviluppare la capacità di re-immaginare che siamo una sola umanità, e rifiutare di essere divisi per razza e religione. Dobbiamo vedere le connessioni tra distruzione ecologica, violenza crescente, e le guerre che stanno travolgendo tutte le nostre società. Dobbiamo ricordare che non ci sarà la pace tra i popoli, se non faremo la pace con la Terra.
Per leggere e sottoscrivere il Patto per la Terra vai su o su Seedfreedom.info
Nella cultura indiana, ci siamo resi conto di questo migliaia di anni fa. La preghiera di pace dice:
Pace del cielo
Pace dello spazio
Pace della Terra
Pace dell’Acqua
Pace delle erbe
Pace della vegetazione
Pace dell’Universo
Om Shanthi Shanthi Shanthi
Siamo un popolo di navigatori (a vista)
Rapporto Censis. Un Paese che arretra. Scompare l’idea del collettivo, considerata un’idea obsoleta del Novecento.
di Marco Revelli (il manifesto, 05.12.2015)
È «la società del resto». Una buona formula per fotografare l’Italia di oggi. «È come quando - scrive De Rita -, girando per il Paese, tu chiedi a qualcuno come va: lui ti dice che va tutto male, il lavoro, la macchina, la moglie. E allora tu chiedi: e il resto? E la risposta è sempre: il resto va bene».
Una risposta non propriamente rassicurante, perché «il resto» è ciò che sta fuori dall’asse centrale delle priorità assorbenti, dei pensieri dominanti, nella quotidianità privata come nella vita pubblica. In effetti, da questo ultimo Rapporto Censis, non escono propriamente squilli di fanfara per il governo, né conferme alla sua narrazione sull’«Italia che riparte». Emerge piuttosto l’immagine in bianco e nero di un Paese in difficoltà - «in letargo esistenziale collettivo», come consegnato in «un limbo».
Un Paese che cerca di difendersi come può, mettendo in campo strategie individuali o di piccolo gruppo, frammentate e locali, in assenza di un “progetto generale di sviluppo” che non si aspetta più da nessuno, men che meno da chi gli racconta di averlo e di pazientare perché presto si vedrà. Un Paese che comunque stenta a immaginare un futuro, subendo il proprio arretramento. O giocando mosse prevalentemente difensive (l’esatto opposto di ciò che si proporrebbero le terapie psicologiche dopanti somministrate dall’alto).
Lo dicono quei 3,1 milioni di famiglie che negli ultimi 12 mesi hanno dovuto intaccare i propri risparmi pregressi “per fronteggiare gap di reddito rispetto alle spese mensili”. Ma anche, paradossalmente, gli altri 10 milioni e mezzo (un po’ meno della metà delle famiglie italiane, che sono in tutto 24 milioni e 512 mila), che sono riuscite, anche negli anni della crisi, nonostante tutto, a mettere un po’ di fieno in cascina e a risparmiare qualcosa, ma lo tengono lì, disponibile - “a scopo cautelativo”, dice il Censis, “per finanziare la formazione dei figli, per i bisogni della vecchiaia, per paura di perdere il posto di lavoro” -, stoccato in contanti e depositi (che infatti sono saliti di più di sette punti tra il 2007 e il 2014, dal 23,6% al 30,9).O tutt’al più in assicurazioni e in fondi pensione (passati dal 14,8% al 20,9), anziché, “rischiarli”, come ai bei tempi della finanza creativa, in azioni e obbligazioni (crollate infatti di più di otto punti percentuali, dal 31,8% al 23,7).
Un popolo di navigatori a vista, dunque, preoccupati e ricondotti alla sobrietà e a una sacrosanta prudenza da un orizzonte percepito indubbiamente come incerto e non rassicurante. In primo luogo sul terreno - costitutivo di ogni progetto di vita - del lavoro, dal momento che l’unico, reale aumento dell’occupazione (un milione netto) si è registrato tra i “lavoratori anziani”, a cavallo dei sessant’anni, trattenuti “per decreto” nel recinto della “popolazione attiva” dall’innalzamento dell’età pensionabile.
Mentre per gli altri, soprattutto per i giovani, il quadro resta nerissimo, con quasi due milioni e mezzo di “scoraggiati”, e tre milioni e mezzo di sottoccupati e di part-time involontari. E con un welfare in costante restringimento (quasi otto milioni gli italiani si sono “indebitati o hanno chiesto un aiuto economico per far fronte a spese sanitarie private”, e un 68% di famiglie a basso reddito ha al suo interno almeno un membro che ha dovuto rinunciare alle cure per mancanza di mezzi).
Non stupisce che in un contesto strutturale così spaventosamente liquido e deprivato, l’azione collettiva scivoli fuori dall’orizzonte esistenziale. Che il “collettivo” stesso appaia come categoria obsoleta, d’altro secolo, d’altro universo sociale, e in primo piano domini, in un mondo di solitudini, l’istinto di sopravvivenza nella sua forma più elementare del “serba te ipsum”: ciò che don Milani, in un altro tempo, chiamava l’”avarizia” in contrapposizione con la “politica (uscire dai guai “tutti insieme” anziché “da soli”).
E’ questo, forse, l’elemento più inquietante del Rapporto Censis di quest’anno: quest’appassimento della fiducia nell’azione comune, che rende tutto più opaco e dimidiato: una società non più “di mezzo”, ricca di corpi intermedi, aggregazioni e gruppi coesi, com’era nell’idea deritiana di struttura virtuosa, ma una società “dimezzata” o, come scrive citando Turati, a “mezze tinte, mezze classi, mezzi partiti, mezze idee e mezze persone”... In cui la gente continua la propria vita quotidiana, fuori da un’emergenza conclamata: ha ripreso a consumare, a stipulare mutui, a pensare di comprar casa o cambiare l’auto. Ma a basso regime, lungo le infinite sfumature di grigio, nel segno di un piccolo cabotaggio. Cosicché si può dire che questa nuova lettura del Censis non è più da “tempo di crisi”. Sta già nel post: dice che questo tono basso sarà la normalità futura, perché la crisi non è stata una “parentesi” - dopo la quale si riparte alla grande, o come prima -, ma una metamorfosi il cui risultato è questo, qui fotografato.
E il “resto”, di cui si parlava all’inizio? Dove sta il resto, che evidentemente non è solo l’irrilevante. O il marginale inerte. De Rita conclude quella frase in questo modo: “Ecco, l’Italia è così: il resto ha dentro di sé un’energia misteriosa...”. E l’energia misteriosa è l’”ibridazione”: la rete lenticolare di saperi e di mestieri che le (finte) politiche di governo, o le atroci “leggi obiettivo”, o i famigerati “sblocca Italia” non vedono nemmeno, ma che lavora sotto traccia nell’iniziativa di una molteplicità di atomi laboriosi che coniugano “qualità, saper fare artigiano, estetica, brand”. O nel rianimarsi di quello “scheletro contadino” che sembra rinverdire nelle pratiche di “ritorno” e di “resilienza” di territori fino a ieri considerati “ai margini”. I segni, appena deboli tracce, di un possibile “collettivo” del futuro.
Se il carcere cancella la nostra Costituzione di Adriano Prosperi *
«Voi qui non applicate la Costituzione». Così ha detto un detenuto delle carceri italiane. Si chiama Rachid Assarag. Non importa perché si trovi in carcere. Basti solo sapere che ha registrato, con molte altre cose, questo breve dialogo.
Un dialogo con un graduato (un brigadiere) delle forze della polizia carceraria. Gli ha chiesto: «Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?». Gli è stato risposto: «In questo carcere la Costituzione non c’entra niente». E anche: «Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni».
La cosa stupefacente non è che un detenuto sia stato picchiato. Né che ci siano state quella domanda e quella risposta. La cosa fra tutte più singolare è proprio il nostro stupore. Davvero riusciamo a stupirci? Davvero non sapevamo che ci sono dei luoghi dove la Costituzione non vale? E non sapevamo forse che fra quei luoghi ci sono proprio quelli che si richiamano alla Giustizia? Gli uomini che picchiano ne recano il nome sulla loro divisa. Il loro ministero di riferimento è quello che si chiamava di Grazia e Giustizia. La Grazia se n’è uscita alla chetichella. Ma la parola Giustizia è ancora lì.
Non solo: quei luoghi sono governati in nome della Costituzione. La Costituzione è come un cielo che ci copre tutti. Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me, diceva Kant. La Costituzione nasce dalla volontà di sostituire all’illusoria volta di un cielo che, come diceva una canzone di Jacques Brel, “n’existe pas”, la protezione effettiva di un orizzonte comune, quella di princìpi e regole validi dovunque si estendano i confini dello Stato sovrano. È la coscienza di essere coperti da questo cielo che ci fa muovere negli spazi della vita quotidiana.
Ma ora, questo scambio di parole affiora in superficie dal fondo di un carcere e ci sbatte in faccia una verità che abbiamo finto ostinatamente di non conoscere: nelle nostre carceri la Costituzione non esiste. Ma davvero si può dare uno spazio pubblico, addirittura un luogo della giustizia dove la Costituzione non vale? Quando questo accade, è come se sulle mura della casa comune si aprisse una crepa. La crepa, trascurata, si allarga. Come in un celebre racconto di E.A.Poe, minaccia la rovina finale dell’edificio. Sottrarre una parte dello Stato alle regole costituzionali è un reato. La legge deve punirlo. Ma quando nella comune coscienza si installa la certezza che esiste uno spazio - quello carcerario - dove la Costituzione non vale, quando lo si sa e lo si dice apertamente in difesa di una pratica di vessazioni e torture nelle nostre piccole Guantanamo, allora vuol dire che la crepa sta intaccando le fondamenta.
Quel brigadiere ha detto che se la Costituzione valesse in quei luoghi, le carceri sarebbero state chiuse da tempo. Con quel brigadiere siamo in disaccordo totale per le cose che non ha fatto: doveva impedire che il detenuto venisse picchiato e non lo ha fatto. Ma siamo d’accordo con lui su quello che ha detto. Se la Costituzione è in vigore, quelle carceri debbono essere chiuse. Dovevano esserlo da decenni.
È un ritardo da colmare. Rachid Assarag, quali che siano le sue colpe, resterà nella storia italiana per aver smascherato una lunga, non più tollerabile ipocrisia collettiva.
Società
Sinodo, la vecchia chiesuola è finita per sempre
di Paolo Farinella (Il Fatto, 28 ottobre 2015)
Papa Francesco: Ultimo giorno di lavori del Sinodo dei VescoviDue giorni prima che si chiudesse il Sinodo dei Vescovi della Chiesa cattolica, dedicato alla famiglia, svoltosi in Vaticano nel mese di ottobre 2015, ho pubblicato il mio “Pacchetto del Mercoledì” con le mie previsioni sulle conclusioni dell’assise che si sono puntualmente avverate, senza nemmeno un grande sforzo per prevederle. Non c’era bisogno di immaginazione per capire che non vi sarebbe stata alcuna rivoluzione perché abbiamo assistito alla solita metodologia clericale che, rimescolando un po’ le carte, un colpo al cerchio e uno alla botta, ha lasciato le cose come stavano, salvo prendere atto della realtà della vita e della storia, quando ormai è troppo tardi. Ho intitolato la mia riflessione “Un Sinodo inutile perché fuori tempo“.
Leggendo le quasi novanta pagine delle conclusioni, non posso che confermare la mia impressione che anzi si rafforza. Rendo onore a Papa Francesco che ce la sta mettendo tutta per dare una sberla all’immobilismo atavico di vecchi armamentari che non possono più stare in piedi né dal punto di vista scientifico, né -Mirabile dictu! - da quello biblico e poi teologico, psicologico e antropologico. Il Papa è figlio del suo tempo, condizionato anche lui dall’impostazione teologica in cui è vissuto per tutta la sua vita, ma è onesto, ha senso ecclesiale ed è anche gesuita, uomo cioè con personalità formata e consistenza psicologica stabile.
Non è attaccato al potere in sé, né al papato e appena si accorgerà di non essere più in grado, darà le dimissioni. Egli sta provando a recuperare il tempo perduto con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, i due papi che hanno affossato con convinzione il concilio Vaticano II, ma lunga è la via e arduo il cammino in una realtà clericale (non ecclesiale) attaccata alla religione come controllo e quindi alleata di ogni potere (anche corrotto) che ne garantisca l’esistenza con leggi privilegiate, favori e anche intrallazzi vari.
Il clero non è pronto perché, culturalmente impreparato, confonde teologia con formule imparate a memoria nei trattati che sono ancora quelli della neoscolastica, rimasticata nel XIX, dopo il concilio Vaticano I che ha tentato di definire l’infallibilità del papa come variante del potere temporale perduto con la breccia di Porta Pia. Il marchingegno non è riuscito e oggi il Papa che vuole mettere in discussione il papato stesso come storicamente si è realizzato deve combattere contro i difensori dell’infallibilità assoluta, cioè con i papalini più papalini del Papa. L’inconsistenza dell’episcopato italiano ne è una prova.
Pare che il Sinodo abbia fatto una timida apertura alle coppie divorziate e risposate, parlando di “discernimento caso per caso”. Buono a sapersi, buongiorno e buonasera. Nella parrocchia di San Torpete, da quando ho iniziato il mio servizio in centro storico a Genova, dopo il mio rientro da Gerusalemme, cioè da almeno dieci anni, abbiamo sempre applicato il criterio del “discernimento” - e io aggiungo - “della coscienza” informata e formata.
Credo che sia giunto il tempo di considerare le persone non più “suddite”, ma adulte e capaci di scelta davanti a se stessi e a Dio. È finito per sempre il tempo del prete che dice cosa bisogna fare e non fare. Egli può aiutare a capire, ad approfondire, a valutare, ma non può sostituirsi alla coscienza personale davanti alla quale anche Dio cede il passo e s’inginocchia. Nella mia chiesa separati e divorziati fanno la comunione in forza del principio del “discernimento” che il Sinodo ha inverato come criterio efficace per tutta la Chiesa. La mia colpa semmai è quella di avere anticipato i tempi di qualche decennio a San Torpete e di oltre quarant’anni ovunque sono stato, perché mi ha sempre guidato il criterio del primato della persona sulla lettera della Legge: “Il sabato è per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27).
Se questo Sinodo si fosse svolto negli anni ’60 al posto dell’enciclica “Humanae vitae“, che segna l’inizio del fallimento postconciliare della Chiesa cattolica, avrebbe avuto un altro impatto, ma ora che buoi e stalle sono scappati e non tornano più, nel 2015 è fuori tempo massimo, ottimo per illudere gli eminentissimi, travestiti da donna con abiti filettati e berretti da circo, di essere custodi della “dottrina” nella quale nemmeno loro credono a vedere comportamenti e scelte. Prendiamo atto che con il Sinodo la vecchia chiesuola è finita per sempre, nonostante i complotti e le manovre. Noi restiamo in attesa che spunti l’alba di una nuova “ekklesìa” che possa annunciare la «Stella del mattino che non conosce tramonto» (Preconio pasquale).
Lo spirito incostituente
di Norma Rangeri (il manifesto, 14.10.2015)
Il vicepresidente della Lombardia, arrestato ieri per corruzione, è stato davvero sfortunato. La magistratura è intervenuta, purtroppo per lui, prima che il nuovo Senato dei consiglieri regionali diventasse realtà. Perché tra i tanti obbrobri che il governo del “fare” vorrebbe regalarci con il Senato delle regioni c’è appunto quello di un ramo del Parlamento formato dalla classe politica più squalificata del nostro paese. Ma protetta, domani, dall’immunità.
La nuova Costituzione di Renzi e Verdini ha tagliato un importante traguardo. Con la benedizione di Napolitano. L’ex Presidente della Repubblica, «il vero padre di questa riforma», secondo la ministra Boschi, è intervenuto per benedire la sua creatura. In fondo riconoscendovi quella “grande riforma” disegnata da Craxi ai vecchi tempi della Prima Repubblica. Con il voto finale alla prima lettura del progetto controriformatore si mette agli atti lo “spirito incostituente” che ha segnato questi lunghi mesi di forsennato attacco alla nostra Carta costituzionale. A partire dall’anomalia, sconsiderata, di essere una revisione della legge fondamentale originata non da un’iniziativa parlamentare, ma da una proposta di governo. Anzi, e più precisamente, dalla volontà di un presidente del consiglio e “capo” di un partito i cui elettori non sono mai stati chiamati a pronunciarsi su questo progetto di manomissione della Costituzione.
Al consenso parlamentare e elettorale sono stati preferiti i patti del Nazareno e i successivi accordi con quei galantuomini di Verdini&Co. Con le continue, ripetute forzature dei regolamenti parlamentari dettati e piegati ai tempi imposti dall’esecutivo. Uno stravolgimento delle regole della discussione perfettamente coerente con i contenuti della riforma.
Principalmente finalizzata alla creazione di un premierato senza contrappesi, come in nessun paese europeo. Disegnato sulla silhouette di quello che nel suo intervento in dissenso dal gruppo del Pd, Walter Tocci ha definito «il demagogo che potrà fare quello che vuole».
Del resto, di essere il dominus anche del futuro potere legislativo questo presidente del consiglio se ne fa vanto («le riforme si fanno, l’Italia cambia, avanti tutta più decisi che mai»). Con motivazioni di bassa lega (meno senatori, meno costi della politica) e disprezzo per le minoranze, a cominciare da quelle del suo partito. Bersani e i fedeli della “ditta” hanno masochisticamente scelto di farsi umiliare fino a votare la trasformazione del Parlamento in cassa di risonanza dei piccoli Cesare. Di oggi e di domani.
Il documento spiega perché e come, questa riforma, nell’abbinamento con la nuova legge elettorale, costituisce una torsione autoritaria delle istituzioni, in definitiva della democrazia parlamentare: «Uno stravolgimento dell’impianto della Costituzione del ’48, sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto». Tuttavia ancora non è stata scritta la parola definitiva.
Se si verificheranno le condizioni per poterci esprimere in un referendum, saremo chiamati, come già nel 2006, a una grande battaglia che potrà farci svegliare dall’incubo cancellando questo frutto avvelenato del renzismo.
Va comunque preso atto che il presidente del consiglio sta segnando punti a suo favore: grazie alla forza dei numeri e agli squallidi trasformismi, vince. Però non convince. Per lui contano le bandierine della conquista, come quelle che accompagnarono la marcia trionfale di Berlusconi. Ma Renzi sta facendo anche terra bruciata nel suo partito, perché ne sta distruggendo quel poco che resta della sua storia.
Napolitano su Berlusconi: "Patologiche ossessioni"
di GOFFREDO DE MARCHIS (la Repubblica, 14 ottobre 2015)
ROMA. "Ce l’avevano con Calderoli". Giorgio Napolitano risponde ironicamente alla plastica contestazione delle opposizioni: l’uscita dall’aula di Forza Italia e 5stelle, il cartello di Domenico Scilipoti con scritto "2011" (l’anno delle dimissioni di Berlusconi). Durante il suo intervento, la minoranza manifesta la propria distanza dall’ex capo dello Stato, padre della riforma come lo ha definito Maria Elena Boschi. "Sono usciti subito dopo il discorso di Calderoli. Poi ce n’è stato un altro. Non potevo essere io la causa di quell’esodo", scherza Napolitano.
È un modo per non rovinare un giorno di festa per il senatore a vita. Che nell’intervento rivendica il suo ruolo, difende la risposta riformatrice finora mai data "per la ricerca del perfetto o del meno imperfetto". Ma che adesso è arrivata.
Sempre sul filo dell’ironia reagisce ai ripensamenti di alcuni protagonisti della legge. Berlusconi innanzitutto. "Deluso da qualche atteggiamento? Ma qui entriamo nel campo della psicologia. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici".
Al capogruppo forzista Romani invia tuttavia una durissima lettera che affida ai commessi (e viene immortalata dai fotografi). "Ho letto attribuite a Berlusconi - scrive l’ex capo dello Stato - parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche, ossessioni".
A Pier Ferdinando Casini, con cui parla per 10 minuti in aula subito dopo il voto, confida il suo stupore per le parole dell’ex Cavaliere: "Lui si ricorda solo il 2011 ma dimentica il 2010 quando diedi 45 giorni al suo governo per affrontare un voto di fiducia".
Comunque le contestazioni le aveva messe nel conto. "Per svelenire il clima ho evitato di partecipare alle votazioni sugli emendamenti". Non è bastato. Ma non voleva rinunciare alla seduta finale in virtù del ruolo attivo che la Costituzione affida anche ai senatori a vita. A proposito, dispiaciuto per le parole di Elena Cattaneo che descrivendo la riforma ha parlato di "ircocervo istituzionale"? "La senatrice è libera. Quando l’ho nominata sapevo bene che aveva un’estrazione politica e culturale diversa dalla mia". Resta, racconta Casini, un pizzico di amarezza ma senza drammi anche perché Napolitano ha una certa esperienza. E alla fine, l’ex presidente non rinuncia a fare un salto alla buvette. In fondo, ieri ha vinto anche lui.
38285 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Per quanto possa sembrare paradossale, le donne sono le grandi assenti dal Sinodo dei vescovi per la famiglia in corso in Vaticano. E la necessità di una loro presenza e di un rilancio del loro ruolo, nella Chiesa in primo luogo, è stata espressa ed avvertita acutamente non solo all’esterno dell’evento sinodale, ma anche durante gli interventi.
Scalpore ha suscitato, infatti, la proposta avanzata dal vescovo canadese di Gatineau (Québec), già presidente della Conferenza episcopale, mons. Paul-André Durocher, che non solo nel corso della prima conferenza stampa del Sinodo aveva mostrato di volersi dissociare dall’analisi conservatrice e chiusa dell’ungherese card. Péter Erdö, ma nel suo intervento, nel corso della I Congregazione generale, ha ipotizzato per le donne l’accesso al diaconato e all’omelia. E ancora: sottolineando l’attuale situazione di violenza domestica di cui le donne sono vittime, ha auspicato una parola forte del Sinodo sul tema.
«Le statistiche più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità - ha detto - rivelano questo fatto sconvolgente: ancora oggi, circa un terzo delle donne nel mondo sono vittime di violenze coniugali». A partire da questi dati, ha proseguito, è necessario che «questo Sinodo affermi chiaramente che un’interpretazione corretta delle Scritture non permette mai di giustificare il dominio dell’uomo sulla donna. In particolare, questo Sinodo dovrebbe affermare che i passaggi in cui San Paolo parla della sottomissione della donna al marito non possono giustificare il dominio dell’uomo sulla donna, e ancor meno la violenza nei suoi riguardi».
Ma bisogna andare più lontano, ha affermato il vescovo canadese. Per manifestare la pari dignità di donne e uomini nella Chiesa, Durocher propone al Sinodo tre «piste di azione»: in primo luogo, «che questo Sinodo consideri la possibilità di consentire a uomini e donne sposati, ben formati e accompagnati, di prendere la parola alle omelie della Messa, al fine di testimoniare il legame fra la Parola proclamata e la loro vita di sposi e di genitori»; poi, «che al fine di riconoscere l’uguale capacità delle donne di assumere posizioni decisionali nella Chiesa, questo Sinodo raccomandi di nominare delle donne ai posti che possano occupare nella Curia romana e nelle nostre Curie diocesane». Infine, «riguardo al diaconato permanente, che questo Sinodo raccomandi l’avvio di un processo che possa eventualmente aprire alle donne l’accesso a questo ordine che, come dice la tradizione, non è orientato al sacerdozio, ma al ministero».
Un approccio analogo è quello di mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaia (Algeria, Paese rappresentato al Sinodo da mons. Jean-Paul Vesco, vescovo di Orano), il quale, intervistato da Il Regno (9/10) sui temi sinodali in occasione del tour di presentazione del suo ultimo libro, ha sottolineato che «fintantoché la donna nella Chiesa non avrà accesso ai luoghi nei quali si prendono le decisioni, la Chiesa sarà solo a metà».
Le proposte di Durocher hanno incontrato il consenso della Women Ordination Conference (Woc), che da anni si batte per il sacerdozio femminile. «Applaudiamo l’arcivescovo per aver avanzato la proposta [del diaconato] ad un organismo votante composto di soli uomini e per aver sottolineato il legame tra la “degradazione” delle donne nella Chiesa e nella società e la violenza contro le donne nel mondo », è il commento della Woc. Il “dominio” sulle donne «non è mai accettabile e finché le donne non saranno trattate come pari la nostra Chiesa perpetuerà una disuguaglianza contraria al Vangelo».
L’inclusione delle donne nel diaconato, prosegue la Woc, non è nulla di nuovo ed è «un atto più che dovuto da tempo»: rappresenterebbe un ritorno della Chiesa «alle sue antiche radici, quando vi erano diaconi uomini e donne. E se in alcune parti della Chiesa orientale il diaconato femminile è vivo anche oggi, sappiamo che in Occidente fu soppresso solo sulla base dei pregiudizi contro le donne».
Tra le mura vaticane, invece, una certa freddezza: «Donne diacono? È da vedere, perché c’è di mezzo la sacramentalità», ha detto a RepTv, il canale video de La Repubblica (8/10), l’arcivescovo di Ancona-Osimo card. Edoardo Menichelli. «Per il resto, la collocazione nella vita della Chiesa è invece più che auspicabile, ma è già cominciata. Se si pensa che in una Congregazione della Santa Sede il Sottosegretario, cioè la terza autorità, è una donna, credo che questa sia già una buona risposta».
Dove sono le donne?
Sull’assenza delle donne all’interno del Sinodo e nella Chiesa cattolica si è pronunciato anche p. Tony Flannery, redentorista irlandese, tra i fondatori dell’Association of Catholic Priests. In un appello pubblicato sul suo blog (5/10) ha infatti invitato ad aprire una discussione sulla questione del sacerdozio femminile, chiedendo ai sacerdoti che condividono questa idea di farsi avanti (scrivendogli all’indirizzo flannerytony@gmail.com).
E anche dai valdesi arriva qualche critica. «Il Sinodo che si occuperà dei temi della famiglia vede un soggetto del tutto assente: le donne», ha scritto la teologa valdese Letizia Tomassone in un editoriale pubblicato su Nev. «Solo 13 presenze, di cui tre religiose nominate e non elette, e tutte senza possibilità di voto». «È necessario che le diversità siano ascoltate e non messe a tacere o demonizzate e che costituiscano la base e la linfa del magistero cattolico».
Un’assenza che riguarda anche la rappresentanza delle Chiese non cattoliche al Sinodo, come evidenziato dal pastore metodista Tim Macquiban (Nev, 8/10): «È una spiacevole ed evidente realtà che tutti i votanti siano uomini e riflette il triste sbilanciamento di genere della leadership delle Chiese in generale, sia cattoliche che non cattoliche». L’anno scorso al Sinodo straordinario, rileva Macquiban, c’era almeno una donna tra i rappresentanti non cattolici.
Di estrema attualità, dunque, la recentissima pubblicazione del libro che raccoglie 40 interventi scritti da altrettante teologhe di ogni provenienza geografica - dal titolo Catholic Women Speak: Bringing Our Gifts to the Table (v. Adista Notizie n. 33/15) - che costituisce il primo frutto di un progetto che ha visto confrontarsi centinaia di donne cattoliche da ogni parte del mondo grazie a un forum online (www.catholicwomenspeak. com).
(ludovica eugenio)
* ADISTA Notizie, 17 ottobre 2015 - n. 35
IN SILENZIO. "Spariscono gli anticorpi e dilaga il conformismo: giornalisti e pensatori sono in bambola".
"I NOSTRI INTELLETTUALI, INETTI, TRISTI E ASSERVITI AL PENSIERO UNICO"
di DARIO FO (Il Fatto, 26.09.2015)
Mettiamo in fila le cose: la legge delega sulle intercettazioni, la riforma del Senato, gli interventi sulla Rai, l’articolo 18 cancellato dal Jobs Act (che brutta parola, Jobs Act!)... Tutte cose che se fossero accadute quindici anni fa durante il regno del signore di Arcore avrebbero (ed è successo infatti! ) riempito piazze e pagine di giornali. Ma allora cos’è capitato, cosa ci è capitato, se oggi è il silenzio il rumore che fa più paura? C’è stato un addormentamento paradossale, una specie di anestesia generale. Ricordate quella vecchia favola, Il Pifferaio magico? Un suonatore di flauto incanta i ratti per condurli al fiume, dove annegano, liberando la città. Siccome la gente del paese non mantiene la parola e non lo paga, lui per vendetta con il suo flauto incanta anche i bambini e se li porta via.
Ecco, è successa la stessa cosa ai giornalisti che dovrebbero essere i primi ad avere presente l’importanza dell’informazione: a furia di suonare il flauto hanno sedato troppa gente! Ma non è solo un problema della stampa. Abbiamo oggi una classe d’intellettuali che in gran parte ha perso il tamburo, un formidabile strumento per svegliare i bambini imbambolati. Tacciono in molti: non hanno dignità e quindi non s’indignano. Ecco cos’è terribile e incredibile: la mancanza d’indignazione. Altro che tradimento dei chierici! Molti pensano: ma chi me lo fa fare di espormi? Un giorno magari avrò bisogno di qualcosa, di un favore, di un aiuto da chi ora sto criticando.
Tutto è giocato sui ricatti, sulla possibilità di avere un vantaggio. Chi fa informazione o opinione ha capito una cosa: bisogna stare al gioco. Se tu ti metti a criticare, se obietti, se fai anche solo riflessioni non gradite, vieni semplicemente cancellato. Ormai l’andazzo è questo: segnare sulla lavagna i nomi di coloro che si sono “comportati male”. Chi non si allinea è fuori. E per fuori intendo fuori da tutto.
Le conseguenze di questo pensiero non unico ma asservito, conformista e opportunista, sono terribili: spariscono gli anticorpi. Questo potenzialmente crea una società di inetti e di leccapiedi. Basta guardare i parlamentari che giustificano i loro voltafaccia con il caro vecchio “Io tengo famiglia”, una filastrocca dei tempi del Fascismo. Vedo un accerchiamento della libertà d’espressione, le persone che hanno coraggio vengono emarginate. Il potere vuole da sempre tacitare le voci in dissenso: ma in un sistema sano di solito trova un limite in chi si oppone. Gli intellettuali un tempo guidavano l’opinione pubblica: ma oggi chi osa alzare la testa?
Perché la ribellione alla menzogna è la vera resistenza
“Dopo i periodi di violenza i regimi usano le bugie come armi”: l’analisi attualissima del Nobel russo
“Se invece ci facciamo vincere dalla paura smettiamo almeno di lamentarci”
di Aleksandr Solgenitsyn (la Repubblica, 27.05.2015)
CI siamo così irrimediabilmente disumanizzati che per la modesta pappatoria di oggi siamo disposti a dar via tutti i nostri princìpi, l’anima, tutti gli sforzi dei nostri predecessori e le opportunità dei nostri posteri - qualsiasi cosa pur di non arrecare turbamento alla nostra precaria esistenza. Non sappiamo più cosa siano l’orgoglio, la fermezza, un cuore fervido. Non ci spaventa nemmeno la morte nucleare, la terza guerra mondiale (ci sarà pure un buco dove nascondersi) - una sola cosa temiamo: di dover fare quei pochi passi che ci separano dal coraggio civico!
Purché non ci si debba allontanare dal gregge, andandocene un po’ per conto nostro - e se poi ci ritroviamo senza il filoncino di pane bianco, lo scaldabagno a gas, il permesso di soggiorno a Mosca? C’è un concetto capace di assicurarci una vita tranquilla finché campiamo e ce l’hanno inculcato in tutte le salse ai circoli di educazione politica, finché ci è entrato bene in testa: l’ambiente, le condizioni sociali, non se ne esce, l’essere determina la coscienza, e allora cosa c’entriamo noi? Noi non possiamo farci niente. Possiamo al contrario fare tutto! Ma preferiamo mentire a noi stessi, per metterci il cuore in pace. Non sono affatto “loro” i colpevoli di tutto, siamo noi stessi, soltanto noi! Ci obietteranno: ma in effetti che cosa si può fare concretamente? Ci hanno tappato la bocca, non ci prestano ascolto, non chiedono il nostro parere. Come fare per costringere quelli ad ascoltarci? Non c’è comunque modo di far cambiare loro idea.
La cosa più naturale sarebbe non rieleggerli! - già, se nel nostro paese ci fossero le rielezioni. Dunque, un circolo chiuso? Davvero senza via d’uscita? E possiamo solo aspettare passivamente che, di punto in bianco, qualcosa succeda da sé? Ma quel qualcosa che ci sta addosso non si scollerà mai da sé, se noi tutti continueremo ad accettarlo, ossequiarlo e rafforzarlo ogni giorno, se non ci decideremo ad affrontarlo cominciando da dove è più vulnerabile. Dalla menzogna.
Quando la violenza irrompe nel pacifico consorzio umano il suo volto arde di tracotante certezza ch’essa espone, grida perfino, sulle proprie insegne: «Io sono la Violenza! Fate largo, muovetevi o vi metto sotto!». Ma la violenza invecchia altrettanto rapidamente e di lì a pochi anni già non è più così sicura di sé e per darsi un contegno, per rendersi più presentabile si cerca immancabilmente un’alleata ed è la Menzogna. Infatti la violenza non ha altro modo di mascherarsi se non la menzogna, e la menzogna non può persistere se non per mezzo della violenza. E la violenza non ha bisogno di farci sentire tutti i giorni, su ogni spalla, il peso della propria zampa: essa pretende da noi solo che ci sottomettiamo alla menzogna, che partecipiamo un giorno dopo l’altro alla menzogna - e tanto basta per essere sudditi fedeli.
E proprio qui troviamo la chiave, da noi finora trascurata, e invece così semplice e accessibile, per la nostra liberazione: la non partecipazione personale alla menzogna! Se infatti sempre più gente non vuole avere a che fare con la menzogna, essa inizia a scomparire. Come una malattia contagiosa, che esiste finché ci sono persone da infettare. Non ci viene chiesto di scendere in piazza, non siamo abbastanza maturi per proclamare in pubblico la verità, esprimere ad alta voce quel che pensiamo - non fa per noi, troppo rischioso.
Ma almeno rifiutiamoci di dire quello che non pensiamo. Presa coscienza del limite oltre il quale inizia la menzogna (e la sensibilità al riguardo è soggettiva) - ritrarsi da questa cancrenosa frontiera! E allora ciascuno di noi si faccia coraggio e scelga: o restare servo cosciente della menzogna (oh, certo, non perché vi sia propenso, ma per mantenere la famiglia, per tirare su i figli, e nello spirito della menzogna!) oppure decidere che è giunto il momento di riscuotersi, di diventare una persona onesta che merita il rispetto dei figli e dei contemporanei. (...) Sì, all’inizio non sarà facile. Qualcuno perderà temporaneamente il lavoro.
Ai giovani che vogliono vivere secondo verità questo complicherà parecchio fin dall’inizio la loro giovane esistenza: infatti anche le verifiche a domande e risposte sono infarcite di menzogna e bisogna scegliere. Ma per nessuno che voglia mantenersi onesto rimangono comunque scappatoie di sorta: non c’è giorno, per nessuno di noi, neanche nelle più inoffensive scienze tecniche, nel quale non si debba scegliere in che direzione andare: verso la verità o verso la menzogna, verso l’indipendenza dello spirito o il servilismo spirituale. E chi non avrà avuto coraggio bastante neanche per difendere la propria anima eviti perlomeno di menar vanto per le proprie idee progressiste, non si pavoneggi dei suoi titoli di accademico, artista del popolo, benemerito di questo o di quello, o generale e dica semplicemente a se stesso: sono una bestia e un vigliacco, voglio solo restarmene al calduccio e a pancia piena.
Per gente come noi intorpidita dall’inazione, perfino questa via - la più moderata tra le varie forme di resistenza - risulterà tutt’altro che facile. Più facile comunque, senza paragoni, dell’immolarsi col fuoco o anche di uno sciopero della fame: le fiamme non ti avvolgeranno le membra, gli occhi non ti scoppieranno per il calore e un po’ di pane nero e un bicchiere d’acqua potabile si troveranno sempre per la tua famiglia. Quel grande popolo d’Europa che abbiamo ingannato e tradito - il popolo cecoslovacco - non ci ha forse mostrato che un petto inerme può resistere anche ai carri armati se in esso batte un cuore degno? Sarà una via irta di ostacoli? - però la meno gravosa di quelle possibili. Una scelta non facile per il corpo - ma l’unica per l’anima. Una via non facile - tuttavia anche da noi ci sono persone, decine di persone, che da anni si attengono a questi criteri, vivono secondo verità. Non si tratta allora di avviarsi per primi su questa via ma di unirsi a chi l’ha già fatto! Quanto più numerosi e concordi saremo nell’intraprenderla, tanto più agevole e breve ci sembrerà! Se saremo migliaia, non potranno tenerci testa, neanche ci proveranno. Se diventeremo decine di migliaia, il nostro paese cambierà talmente da non riconoscerlo più.
Se invece ci facciamo vincere dalla paura, smettiamo almeno di lamentarci di quelli che ci toglierebbero anche l’aria per respirare - siamo noi stessi a farlo! Incurviamo ancor di più la schiena, aspettiamo di vedere come va, e i nostri amici biologi contribuiranno ad avvicinare il giorno in cui potranno leggerci nel pensiero e riprogrammare i nostri geni.
Se anche stavolta ci lasceremo vincere dalla paura vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è nessuna speranza e che ci meritiamo il disprezzo di Puškin: «A che pro alla mandria della libertà i doni?... / Il loro sol retaggio da generazioni / Sono il giogo, la frusta ed i sonagli».
Trattasi di una poesia di Martha Medeiros,
brasiliana di Porto Alegre,
pubblicitaria e cronista per Zero Hora.
Mafiosi anche senza le lupare
di Francesco La Licata (La Stampa, 05.12.2014)
Certo, non si troveranno né coppole né lupare nella cupola politico-mafiosa che gestiva i grandi affari della Capitale. Nessun giuramento con sangue e santino sarà stato imposto ai componenti il vasto e trasversale sodalizio criminale. Ma questo non vuol dire che il sistema scoperchiato dal procuratore Pignatone e dai suoi collaboratori non sia di tipo mafioso.
E i primi a crederci sembrano essere proprio i magistrati inquirenti che nei provvedimenti restrittivi non si sono limitati a fare ricorso all’«aggravante mafiosa», ma hanno addirittura ipotizzato il «416 bis», cioè l’associazione per delinquere di tipo mafioso. E questo proprio perché, per concretizzarsi il reato, non è necessario il controllo del territorio attraverso il ricorso alle bombe o alla violenza bruta. No, l’intimidazione mafiosa può funzionare anche solo in presenza di un «accordo» non scritto: tu politico sai da dove arriva la richiesta e conosci quali potrebbero essere le conseguenze di un diniego, ma soprattutto hai interesse ad esaudire ogni richiesta perché il mittente è utile al conseguimento e al mantenimento del potere. Il mafioso ed anche gli imprenditori del «sistema» avranno l’unica cosa che interessa loro, cioè i soldi, naturalmente pubblici.
C’è poco, dunque, da ironizzare sulla «mafiosità» della banda romana: non si tratta di ladruncoli né di mariuoli di antica memoria. Siamo di fronte a delinquenti che nulla hanno da invidiare ai più pubblicizzati, questo sì, colleghi siciliani.
E non mancano somiglianze e analogie con vicende archiviate, a Palermo, col marchio definitivo della politica mafiosa. Sarebbe lungo l’elenco delle storie che si potrebbero ricordare. Una su tutte, anche per il tipo di atteggiamento difensivo scelto dai protagonisti («traditi dagli amici»), potrebbe essere la vicenda che ha portato alla condanna definitiva dell’ex governatore di Sicilia, Totò Cuffaro.
All’apparenza poteva sembrare una storia di ordinaria corruzione, se non fosse che l’imprenditore della sanità coinvolto nell’inchiesta, l’ing. Michelangelo Aiello, era sospettato - con qualche motivo - di essere addirittura prestanome del boss Bernardo Provenzano. Anche in quel caso la «rete» mafiosa non ha avuto bisogno di esercitare particolare violenza: tutto andava liscio grazie alla benevola attenzione dei burocrati della sanità e di politici non di primissimo piano, ma non per questo poco efficaci. Certo c’è un abisso tra Carminati e Provenzano, ma i «piccioli», i soldi, non sottilizzano sulla portata dei boss.
Non è casuale, poi, che l’inchiesta siciliana sulla corruzione abbia avuto un risvolto di mafiosità non indifferente, visto che si è scoperto che c’erano investigatori (poliziotti, finanzieri e carabinieri) che informavano in tempo reale Aiello, e dunque Provenzano, dello stato delle indagini. Addirittura chi piazzava le microspie per conto della procura, provvedeva - immediatamente dopo - a bonificare gli ambienti, vanificando il lavoro investigativo. Proprio come i poliziotti che avvertivano Carminati delle indagini in corso. A proposito di indagini, risulta che Alemanno avesse pensato di prevenire tentativi di infiltrazioni delinquenziali affidandosi alla consulenza non gratuita del prefetto Mario Mori. Neppure lui si è accorto di nulla?
La linea nera, una storia sporca
di Gianni Barbacetto (il Fatto, 05.12.2014)
Erano esclusi dal potere. Ed erano puliti. Adesso, invece, li troviamo neri e sporchi, alla guida del “mondo di mezzo” di Mafia Capitale. Sono gli eredi della destra, un tempo duri e puri, beccati oggi a manovrare un sistema criminale pervasivo e trasversale. Ma siamo proprio sicuri che ci sia stata una svolta, una rottura? “Vivevano nel mito delle mani pulite, che potevano esibire anche per mancanza di occasioni. Vent’anni dopo, il fallimento è spettacolare, verrebbe da dire wagneriano”: così Mattia Feltri. Ancor più forte la nostalgia di Marcello Veneziani, per “una destra che per anni si è vantata della sua diversità, che propugnava l’alternativa al sistema e ripeteva con Almirante che dalle tasche di Mussolini appeso in piazzale Loreto non è caduto un soldo”. Ma esisteva davvero la “diversità” nera? O non c’è piuttosto una sotterranea continuità criminale?
IL MITO della destra esclusa & pulita (e anche antimafia) si nutre delle storie di tanti militanti onesti, ancorché fascisti, e anche di figure limpide come quella di Paolo Borsellino. Ma non fa i conti con una realtà ben più articolata. Intanto il “polo escluso” (così il politologo Pietro Ignazi ha definito l’area politica che ruotava attorno al Msi) era in realtà un “polo occulto”. Quasi del tutto fuori dai circuiti del potere visibile, la destra di fede fascista ha in realtà sempre cogestito una larga fetta di “potere invisibile”. Il Msi è stato infatti coinvolto fin dalla sua nascita nella gestione dello Stato, dentro i suoi apparati più segreti e le sue operazioni più sotterranee. Forze armate, ministero dell’Interno, servizi segreti hanno sempre avuto rapporti stretti con il Movimento sociale e i suoi uomini. È esistito dunque in Italia anche un invisibile consociativismo di destra, in cui i “neri” hanno gestito una parte importante di delicatissimi apparati dello Stato, assumendosi spesso il compito di fare i “lavori sporchi” del sistema.
Guardavano al Msi i generali più importanti delle Forze armate negli anni Sessanta, a cominciare da Giuseppe Aloja, il capo di Stato maggiore che istituisce i “corsi d’ardimento” per formare “migliaia di uomini particolarmente addestrati contro la guerra sovversiva”, secondo la testimonianza di due personaggi coinvolti in quell’operazione, Pino Rauti e Guido Giannettini. Un uomo-chiave dei servizi segreti, Vito Miceli, termina la sua carriera in Parlamento, nei seggi del Movimento sociale, dopo essere stato capo del Sid, il servizio segreto militare, negli anni cruciali della strage di piazza Fontana (1969) e dei tentati golpe Borghese (1970) e Rosa dei venti (1973). Approdano nelle file del Msi molti altissimi ufficiali: dal generale Giovanni De Lorenzo (quello del Piano Solo, 1964) all’ammiraglio Gino Birindelli. E quanti uomini della destra lavorano, apertamente o in maniera “coperta”, per i servizi segreti, da Miceli a Rauti, da Giannettini a Stefano Delle Chiaie, da Giano Accame a Piero Buscaroli.
I militanti neri, sempre in bilico tra Msi e gruppi extraparlamentari (principalmente Ordine nuovo e Avanguardia nazionale), sono per decenni il serbatoio da cui attingere personale, sotto lo sguardo attento dei servizi di sicurezza, da impiegare nelle operazioni della “guerra non ortodossa”, teorizzata nel 1965 nel convegno al Parco dei Principi e passata attraverso il fuoco delle stragi, da piazza Fontana a Bologna.
Solo militanza politica (o politico-militare)? No. L’incrocio con gli affari, la politica e la corruzione (e anche con la mafia) è una costante di questa storia nera. Licio Gelli era già un perno della “terra di mezzo”, in contatto, sopra, con i Sindona, i Calvi, i Berlusconi e, sotto, con le bande dei neri toscani e i gruppi romani in cui s’incontravano eversione, servizi, malavita e mafia.
La banda della Magliana era già Mafia Capitale, commistione “perfetta” di affari, politica e criminalità. Altro che “cuori neri”, altro che destra dura e pura. A parole proclamava ideali alti, ancorché fascisti; in pratica li tradiva ogni giorno in un balletto di spioni, informatori, infiltrati e traditori sempre pronti a vendere i camerati.
A parole era antimassonica; ma molti esponenti di primo piano del Msi erano in segreto iscritti alla P2: Birindelli, ex presidente del partito (tessera numero 1670), i deputati Giulio Caradonna (2192) e Sandro Saccucci, il senatore Mario Tedeschi (2127), oltre a Vito Miceli (1605). A parole erano anche antimafiosi; ma la pratica, nel Paese dei patti sotterranei e delle alleanze inconfessabili, è diversa dalla teoria. Così la destra non ha esitato a trattare e collaborare con le mafie. Con Cosa Nostra in occasione del golpe Borghese; con la ’ndrangheta durante e dopo la rivolta di Reggio; con entrambe durante la trattativa del 1992-93.
P2 E MAGLIANA restano gli eterni modelli di una commistione affari/politica/criminalità/mafia che ha attraversato tutta la storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Il “mondo di mezzo” di Massimo Carmina-ti, milanese, detto “er Cecato”, ora è una versione di certo innovativa di quel modello, ma dentro una tenace continuità che non riescono a vedere soltanto i nostalgici di un mitico fascismo duro e puro che in Italia non è mai esistito.
Il Paese che vive nella Terra di mezzo
di Roberto Saviano (la Repubblica, 05.12.2014)
SU“ Mafia capitale” sappiamo tutto, abbiamo letto le cronache dell’operazione condotta dai Ros del generale Parente e dalla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, abbiamo letto l’ordinanza del gip Flavia Costantini, ma non so se è chiaro a tutti cosa sia accaduto a Roma. ECOSA molto probabilmente sta accadendo altrove in Italia. Succede alla politica italiana ciò che sta accadendo alla società civile che guarda alla politica con schifo, senza riuscire a percepire le proprie responsabilità. Accade che in politica ci si venda, si ipotechi la propria anima per pochi spiccioli (ci sono mazzette da 750 euro prese senza la reale percezione della gravità della situazione come una legittima e piccola regalia). Accade che la politica non abbia autorevolezza e idee proprie, accade che la politica venga percepita come una occasione di guadagno, un mestiere che arriva senza dover studiare, senza curriculum ed esperienza.
La domanda è: ma come fanno personaggi che definiremmo “dalla storia ambigua”, come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, a diventare artefici, attori, protagonisti di vicende che assumono connotazioni grottesche? Un assassino e un ex terrorista, ex Nar, organico alla banda della Magliana. Il primo, Buzzi, aveva scontato la sua pena, il secondo Carminati era stato assolto, ma su di lui esistono pagine e pagine di informative e una stretta osservazione. Ebbene Buzzi e Carminati in qualsiasi altro Paese condurrebbero la loro vita lavorativa sotto una strettissima sorveglianza, dovrebbero avere un comportamento talmente ligio da provare che si può uscire diversi dal carcere, da dimostrare che le assoluzioni sono opportunità di reinserimento e non salvacondotti. E invece a Buzzi e Carminati la politica dà massima fiducia senza chiedere in cambio nessuna trasparenza. Ci si fida di loro, ciecamente. Vi siete chiesti come sia stata possibile una tale idiozia? In questi giorni il mantra è: colpevole è non solo chi è consapevole, ma anche chi non vuole vedere. E allora noi da che parte stiamo? Tra i colpevoli o tra quelli che non vogliono vedere? Dobbiamo scegliere, perché una terza via non esiste.
Come possono personaggi come Carminati e Buzzi apparire “affidabili”? Possono farlo perché siamo in Italia. Possono farlo perché in Italia ciò che si rifiuta e rifugge non è il rapporto con chi tutto sommato è peggio di noi, ma con chi è meglio. Con chi ha una immagine pulita si fa il tiro al bersaglio: il gioco è far cadere il simbolo positivo dal piedistallo. Ed ecco che chi si distingue per professionalità e rettitudine in una giunta comunale viene allontanato, con maggiore o minore clamore mediatico, a seconda delle circostanze, ma se intralci i giochi sei fuori. I politicanti utilizzano e si legano a personaggi che non sono figure da poter demolire e che non vogliono cambiare il sistema e che abitano quel “mondo di mezzo” che Carminati, ha preso in prestito da Tolkien. «Ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo, un mondo in mezzo, in cui tutti si incontrano. Anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno. Questa è la cosa... e tutto si mischia». Non è da leggere come è stato fatto sino ad ora come una “cerniera” tra teppa criminale e colletti bianchi. Questa è una vera e propria sintesi di filosofica economica.
Si parla chiaramente di un luogo trasversale dove ci si affida a chi “sa fare le cose”, chiunque egli sia. E qui arriva Salvatore Buzzi con le sue cooperative di disperati, di marginali, ex detenuti, immigrati che in un’Italia che non produce nulla, in un’Italia in cui le aziende muoiono, in un’Italia strangolata da un sistema fiscale irrazionale che in larga parte deve sopperire ai costi enormi e agli sprechi della politica, diventano una miniera d’oro.
In Italia è inevitabile che le emergenze diventino vere e proprie occasioni di profitto. La crisi dei rifiuti a Napoli ha irrorato la politica, la camorra e l’imprenditoria per oltre un decennio. Mare nostrum è stata una tragedia per tutti tranne che per Carminati e Buzzi. Per loro i barconi della speranza piuttosto che emergenza umanitaria, sono diventati un’enorme opportunità. «Ci fanno guadagnare più della droga», dicono. Quindi l’organizzazione mafiosa con a capo Carminati non guadagna con attività che tradizionalmente sono considerate criminali, ma con attività che invece godono di un’aura di nobiltà. Attività intoccabili, insospettabili. Ma di umanitario e ideologico non è rimasto proprio nulla: l’ideologia non c’entra, gli affari sui rom, sull’emergenza case, sugli immigrati, li fanno paradossalmente proprio gli uomini di Alemanno, coloro i quali hanno partecipato alla giunta che meno si è distinta per solidarietà verso gli ultimi, verso i bisognosi e i disperati. Non c’è più colore politico, ecco perché verso gli estremisti della prima e dell’ultima ora non posso fare a meno di provare pena; non c’è colore: basti pensare che Carminati che proviene dalla estrema destra, si sceglie Buzzi come braccio destro, un uomo che proviene dalla estrema sinistra.
E poi ancora: dal momento che a predisporre e coordinare l’emergenza migranti è il tavolo di coordinamento nazionale presieduto dal ministero degli Interni, lì deve sedere un uomo che sia al soldo del duo Carminati-Buzzi. Quest’uomo è Luca Odevaine, che ricorda Mister Wolf di Pulp Fiction, il problem solver. Luca Odevaine è stato vice capo di Gabinetto della giunta Veltroni, poi capo della Polizia provinciale, poi capo della protezione civile con Zingaretti e infine al tavolo di Coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo. È lui, per intenderci, che prende in gestione la capitale quando muore Giovanni Paolo II. La trasversalità del sistema si basa su una macchina oleata fatta di mazzette grandi e piccole. Odevaine, secondo l’accusa, avrebbe percepito una mazzetta da cinquemila euro al mese.
Ma la cosa più interessante è che leggendo le carte dell’inchiesta si ha la sensazione che nessuno abbia reale consapevolezza del proprio status di corrotto. Quello che molti hanno preconizzato, ovvero che Tangentopoli fosse solo il punto di partenza di un’apocalisse politica e sociale definitiva si sta avverando. Ora i corrotti non solo si sentono legittimati a commettere illeciti, ma non hanno neanche più la consapevolezza della gravità dei loro comportamenti.
In tutto questo Matteo Renzi arriva tardi a commissariare il Pd di Roma. Prima della magistratura, la politica dovrebbe avere occhi, orecchie, dovrebbe ascoltare ogni sussulto, ogni sospiro. I segnali c’erano. E invece Renzi, che aveva tutti gli strumenti per sapere e per azzerare il Pd romano prima di questo terremoto giudiziario, lo fa dopo. Dall’altra parte - o dalla stessa parte anche se sembra si facciano guerra - c’è una destra sempre più disinvolta nell’occupare posizioni per trarne vantaggio, per condizionare la democrazia, anche usando la stampa locale che si presta al gioco, come è successo con Il Tempo diretto da Chiocci, che è arrivato a incontrare Carminati.
Mafia capitale è solo l’inizio. Altre inchieste in altre città dimostreranno che Roma non è un caso isolato. In altri Paesi europei esiste la corruzione, ma la corruzione non arriva a compromettere l’istituzione stessa: il corrotto è espulso dall’istituzione che è percepita come sacra e va salvaguardata. In Italia l’istituzione invece è utilizzata, lordata e non viene difesa.
Ma perché questo accade? Perché ormai si è impadronita di chiunque una consapevolezza: senza brigare non si va da nessuna parte. Senza forzature non succede niente, non cambia niente. Quindi in fondo la posizione bipartisan sembra essere questa: è inutile fingere di essere al di fuori o al di sopra. Tutti dobbiamo compromettere una parte del nostro lavoro, della nostra integrità, per ottenere qualcosa. Questa è la logica che emerge da “Mafia capitale”. Questa è la teoria del “Mondo di mezzo” di Carminati non portata alle estreme conseguenze, ma applicata a tutti noi. Da questo meccanismo nessuno si senta escluso, le mazzette trovate nelle buste con il logo di Roma Capitale ci riguardano, perché Roma Capitale siamo noi.
In questo Paese che non è capace di difendere il talento e l’impegno, dove tutti odiano tutti, dove tutti detestano chi ce la fa, in questo Paese tra il mondo dei vivi che sta sopra e il mondo dei morti che sta sotto, in mezzo ci siamo noi.
In mezzo c’è l’intero Paese che non riesce a reagire.
di Roberto Mancini (Altraeconomia.it, 04 settembre 2014)
Gli anni della menzogna. I vent’anni da Berlusconi a Renzi. In tale periodo l’Italia è stata avvolta in un’oscura nube tossica che ha tolto lucidità ad ampi strati della società. In questa situazione può essere utile un promemoria sulle riforme vere che sarebbero urgenti. Ricordando, intanto, che le cosiddette “riforme” del governo Renzi si inseriscono nel quadro del doppio errore mortale dell’Unione europea, risalente alla fine degli anni 70. L’errore sta nell’aver risposto alla globalizzazione in modo nevrotico e stolto: da una parte rilanciando i nazionalismi dei Paesi più forti e dall’altra identificandosi con la volontà dei Mercati. Il contrario esatto di quello che serviva. L’intreccio di nazionalismi e neoliberismo è stato ed è micidiale. In tale scenario i governi e i partiti italiani non potevano che fare del loro peggio.
Le perle di Renzi sono, nell’ordine: una riforma costituzionale che stravolge in senso oligarchico la funzione del Senato e quella delle Province con il pretesto di un finto risparmio e soprattutto di una maggiore “governabilità”; una legge elettorale che riduce ulteriormente la possibilità che la volontà dei cittadini abbia rappresentanza reale; una riforma del mercato del lavoro che coltiva la precarizzazione sopprimendo tutele e diritti; una riforma della pubblica amministrazione tutta incentrata sulla mobilità dei dipendenti e sul maggiore ricorso alle procedure on line; una riforma della scuola che si risolverà nell’aumento delle ore di lavoro per gli insegnanti; una riforma fiscale che si traduce nell’invio del modello 730 precompilato a casa. Le riforme autentiche sono ben diverse.
Qui mi limito a elencare le dieci principali:
1) un piano globale per l’economia nazionale che garantisca i diritti ai lavoratori, riapra il credito alle imprese e promuova la rilocalizzazione favorendo le attività tipiche dei nostri territori (dalla cultura al turismo, dal tessile all’alimentare e così via). Il governo dovrebbe sostenere le imprese disposte a praticare un’economia sana attraverso le leve della defiscalizzazione, del credito agevolato, degli appalti pubblici e della collaborazione delle università nel campo della ricerca scientifica necessaria a un’economia avanzata. A ciò si aggiungerà la riforma fiscale in senso proporzionale e patrimoniale. La direzione di fondo della riforma dell’economia nazionale dovrà delinearsi nel passaggio dalla logica della crescita alla logica dell’armonizzazione, dall’economia dello sviluppo all’economia della cura;
2) una riforma della politica sociale e dei diritti che porti a misure strutturali tanto per sostenere i singoli e le famiglie colpiti dalla diffusione dolosa della povertà a causa della conduzione liberista dell’economia, quanto per dare una risposta di dignità alla condizione dei migranti, dei profughi, dei detenuti e di quanti sono marginalizzati o respinti;
3) una riforma che tuteli l’indipendenza della magistratura e dia impulso sistematico alla lotta contro le mafie;
4) una riforma che affronti il conflitto di interessi e ridisegni la normativa che regola la proprietà dei media;
5) una riforma che tuteli radicalmente i diritti delle donne e assicuri i diritti civili di chiunque, senza discriminazioni dovute alle preferenze sessuali;
6) una riforma della sanità pubblica che risponda alle esigenze dei territori e ne elevi la qualità da Nord a Sud;
7) una riforma della scuola e dell’università che dia impulso alle dinamiche interculturali e interdisciplinari e che consideri gli studenti protagonisti, assicurando nel contempo ai docenti le migliori condizioni per unire didattica e ricerca (provvedendo al tempo stesso alla manutenzione sistematica degli edifici);
8) una riforma che porti alla gestione sapiente dell’assetto idrogeologico del Paese e che tuteli l’ambiente;
9) un nuovo orientamento della politica estera che -in modo diretto e in modo indiretto, cioè a livello dell’Unione europea- costruisca un quadro di relazioni solidali, di cooperazione e di disarmo dal Mediterraneo a ogni area del mondo;
10) una riforma che fissi le regole vincolanti per la democrazia interna nei partiti o nei movimenti politici e cancelli privilegi e immunità per chi ha cariche pubbliche, introducendo sia limiti temporali di esercizio che percorsi di formazione.
Prima di trovare un governo pronto a fare queste riforme si dovranno trovare molti, nelle istituzioni e nella società, che siano disposti non a “metterci la faccia”, ma a metterci la testa. A metterla fuori dalla nube tossica che spegne l’intelligenza politica.
Un nuovo «vincolo» per unire la Nazione
di Michele Ciliberto (l’Unità, 25.04.2014)
«LA NAZIONE È UN PLEBISCITO DI TUTTI I GIORNI», DICEVA ERNEST RENAN, VOLENDO AFFERMARE CHE LA NAZIONALITÀ È UN PROBLEMA CHE ATTIENE ALLA COSCIENZA, NON ALLA NATURA. Si è italiani oppure francesi o tedeschi perché ci si riconosce in una comune identità etico-politica e anche religiosa; non perché si nasce in un territorio o in una regione geografica piuttosto che in un’altra.
La nazione è un fatto culturale, che si costituisce nel tempo attraverso lo sforzo secolare delle generazioni. Ed essendo un fatto culturale, come nasce può morire, oppure attraversare momenti di crisi, di declino, di decadenza.
Come disse Benedetto Croce, in un momento tragico della nostra storia, la civiltà, la cultura è infatti come un fiore che nasce sulla dura roccia e che un colpo di vento può stroncare e portare via. Scrisse queste parole dopo la tragica esperienza della guerra che l’aveva indotto a esprimere parole di profonda sofferenza ma non di ripulsa nei confronti degli aerei statunitensi che attraversavano il cielo per bombardare «Napoli nobilissima», la sua città. Croce però sapeva anche, e meglio di tutti, che la Nazione italiana è una realtà spirituale e che come era caduta così essa poteva rinascere, se fosse stata capace di riafferrare le sorgenti originarie della propria storia cioè della propria identità.
È quello che avviene in Italia con la lotta antifascista e la Resistenza, di cui oggi conosciamo anche il doloroso travaglio, i lato oscuri, i prezzi pagati come avviene con le guerre civili che non si fanno con i «paternostri» e che lasciano sul terreno vittime e carnefici. Fu però allora, in quella lotta crudele e anche spietata che la Nazione italiana tornò a nuova vita, e riuscì ad alzarsi in piedi dopo lo sfarinamento dello Stato, dell’esercito, di tutte le strutture istituzionali e amministrative.
Un paesaggio desolato: contemplandolo alcuni storici hanno parlato della morte della patria, sbagliando. L’hanno fatto perché non hanno inteso la profondità e la lunga durata della nazione italiana confondendo confuso nazione e Stato, due realtà che, per quanto storicamente contigue e a volte strettamente intrecciate, vanno distinte con precisione, se si vuole comprendere la storia italiana e anche la rinascita della Nazione italiana dopo la fine del fascismo e la guerra civile.
Per riprendere la battuta di Renan, la nascita della repubblica è stata il «plebiscito» con cui gli italiani sono tornati a essere cittadini di una patria comune, di uno stesso Stato. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se non fossero stati capaci, insieme alle loro classi dirigenti, di mettere a base del loro vivere un nuovo patto: quello che li ha lungamente uniti, almeno fino alla fine del secolo scorso.
È il «vincolo» rappresentato dalla Costituzione repubblicana, nella quale sono confluite le correnti popolari e democratiche italiane dai cattolici ai socialisti dagli azionisti ai comunisti -, ma riuscendo a dar vita a un testo che, per la sua lungimiranza, è anche un programma politico imperniato sul concetto di eguaglianza, come appare da tutta la prima parte della Costituzione e, primo luogo, dall’articolo 3.
Negli anni scorsi, un leader che ha avuto un peso rilevante nella storia della Repubblica, e che ora è affidato ai servizi sociali, ha detto varie volte, pensando si stupire, che la Costituzione italiana è di tipo sovietico, un frutto del bolscevismo.
È invece il «punto dell’unione» della esperienza culturale, spirituale e politica di uomini come La Pira, Moro, Basso, Nenni, Togliatti, Laconi... I rappresentanti migliori dell’antifascismo nelle sue varie componenti, quelli che, dopo il fascismo, ridanno vita alla nazione italiana, dischiudendole un nuovo, e fecondo, ciclo della sua lunga storia.
È proprio questa cultura che entra progressivamente in crisi fin dagli ultimi decenni del secolo scorso e che oggi appare a molti solo una sorta di residuo del passato. Ma è un errore, anche questo. La Costituzione italiana non è consegnata ai libri di storia, sa parlare al nostro tempo, è vitalissima specie nella parte dei «principi generali», nei quali sono delineati obiettivi di eguaglianza e libertà che aspettano ancora di essere realizzati.
Ma per realizzarli, e mantenere viva la nostra Costituzione, è necessario capire che alla base della nostra Repubblica oggi va messo un nuovo patto, un nuovo «vincolo» civile che faccia i conti con tutte le trasformazioni della nostra società, a cominciare da quelle demografiche.
La Nazione italiana non è più quella che avevano di fronte i Costituenti: è cambiata, in profondità, sia sul piano strutturale che sul piano degli orientamenti ideali, culturali e anche religiosi. E con queste trasformazioni occorre oggi confrontarsi. Certo è difficile, tanto più dopo un ventennio in cui le diseguaglianze si sono inasprite, le contrapposizioni fra nativi e immigrati sono state acuite fino al razzismo.
La cultura della solidarietà è stata frantumata, fino all’imbarbarimento, alzando la bandiera della cultura «liberale». È questa la responsabilità più grave del berlusconismo nella storia della Repubblica, e qui stanno anche le responsabilità delle forze della vecchia sinistra che non hanno saputo contrastare questa deriva, in cui affonda le radici quello che, con termine sommario, si chiama populismo. Né è facile liberarsi di questo duro fardello: oggi noi continuiamo a essere nel pieno di una crisi organica, bisogna saperlo. Eppure sarebbe sbagliato esprimere un giudizio pessimista sulla Nazione italiana settanta anni dopo la Liberazione e la rinascita della Nazione.
Da mille segni, appare evidente che l’Italia è un Paese ferito, risentito, deluso, ma non vinto. È pronto a rialzarsi in piedi, a rimettersi in cammino, a far sentire la sua voce. Ma perché questi segni possano svolgersi, e consolidarsi, c’è bisogno di un nuovo «vincolo», che consenta a tutti nativi e immigrati di sentirsi parte di una comunità di un comune vivere civile, cittadini dello stesso Stato capace di contribuire a distruggere le forme più intollerabili di diseguaglianze.
E, come avviene nei momenti più gravi, per questo è indispensabile una sinergia feconda tra forze della cultura, della politica, della religione, come fu negli anni della rinascita della Nazione dopo il fascismo. È venuto il momento che ciascuno si assuma le proprie responsabilità, uscendo dalla tenda in cui per troppo tempo si è rifugiato. Come avvenne settanta anni.
Corruzione, la parola che manca alla politica
di Furio Colombo (il Fatto, 20.04.2014)
Il giorno 15 aprile il New York Times, edizione internazionale, ha aperto il giornale (due colonne a destra, impaginazione rara e drammatica) con un articolo datato da Roma, che ha questo titolo: “La mafia allunga i tentacoli e cresce”.
Il paesaggio è l’Europa, dove la mafia pianta sempre più bandierine. Ma i nomi, i luoghi dei quartieri generali, le organizzazioni da cui partono sempre nuove e anche fantasiose iniziative, sono tutte italiane.
L’articolo continua occupando gran parte di pag. 4 di uno dei grandi quotidiani del mondo e sembra inviare un messaggio ai simpatici alleati italiani: niente da dichiarare? Erano i giorni in cui in Italia si stava facendo un grande discutere di reati di mafia, ma come materia di scontro politico in Parlamento, non come presa d’atto di una realtà tragica che chiede una lotta senza quartiere.
Erano le stesse ore in cui, tramite passaggio in Libano, si stava preparando uno scivolo per consentire al noto senatore Dell’Utri di saltare fuori dal rischio della prigione (sette anni per una questione di mafia). Gli stessi giorni in cui veniva consentito a Silvio Berlusconi di scontare un anno residuo di prigione in comode rate da quattro ore alla settimana. È lo stesso Berlusconi che mentre era a capo del governo italiano, da un palco elettorale, abbracciato a Dell’Utri, ha dichiarato “eroe italiano” un assassino di mafia condannato a vari ergastoli. Può farlo perché va e viene, come statista (definizione sua, ma evidentemente accolta nelle istituzioni italiane), tra i vertici del potere.
I CITTADINI, ormai si sono arresi e - quelli non caduti in depressione o nella chiusura della fabbrica - pensano: “Si vede che adesso in Italia si fa così”. Sperano che Renzi ce la faccia (non si sa esattamente che cosa vuol dire, ma funziona come ultima speranza), sperano che i poliziotti non picchino troppo forte i loro figli, in caso di corteo esasperato. E si sono persuasi, ormai, che Silvio Berlusconi sia il padre di questo governo e anche il padre delle riforme che il governo ha fatto (per ora solo mezza legge elettorale e mezza chiusura del Senato) e di quelle che certamente si faranno, tanto ci sono anni di tempo.
Il New York Times però ha insistito per dare una mano a questa Italia stremata, tenuta sveglia da un animatore di giochi. Attenzione, alla vostra politica manca una parola. Infatti, qualunque sia la crisi che viviamo, manca la parola corruzione. È come se, di fronte alla roccia impenetrabile di Ali Babà, nessuno avesse potuto dire “abracadabra”, la parola magica che smuove l’ostacolo e apre magicamente il passaggio verso il tesoro rubato.
Le fiabe, si sa, sono un modo per narrare la realtà. In questo caso si tratta di una fiaba di potere, tanto che il suo titolo è “Ali Babà e i Quaranta Ladroni”. Si trattava di batterli in astuzia e bravura. L’idea, invece è stata di fare un governo insieme. E una disorientata folla mista continua a sostare davanti alla caverna cercando non come entrare ma come tenere a bada coloro che avrebbero potuto pronunciare la parola magica, per iniziare il grande inventario.
Si poteva avviare il discorso sui tagli alla Sanità senza confrontarsi con il problema dell’immenso assalto e del continuo, accurato depredare della Sanità da fuori e da dentro, con un attivismo senza tregua? Si poteva affrontare il dibattito sul lavoro e sul “cuneo fiscale” senza tentare di calcolare la vasta quantità di tasse occulte che la malavita impone a quasi ogni attività produttiva in Italia e, adesso apprendiamo, anche in Europa ma a beneficio dell’Italia ricca e clandestina?
Si poteva esaltare e sostenere un programma di grandi opere (quelle che “danno lavoro” e “muovono l’economia”) senza domandarsi (ci sono fonti serie, accurate, informatissime a partire da Roberto Saviano) come affrontare l’infezione “tangenti politiche” che gravano fin dalla radice su ogni progetto, e durano fino alla consegna, che spesso (per la grande opera) non arriva mai, ma è pronta cassa per gli strani gruppi misti di politica e imprese che credono di usare la mafia e ne sono sempre usate?
Tutto ciò, come racconta il lungo articolo del New York Times, e come molto prima aveva avvertito Saviano, è zona infetta, dunque coltura adatta alla mafia, adatta a sostenerla e a moltiplicarla. Per questo la mafia cresce e cresce la malavita. Cresce dentro i luoghi e le istituzioni che dovrebbero combatterla.
FINO A BERLUSCONI, Dell’Utri, Previti e classe dirigente della “rivoluzione liberale” con cui Berlusconi ha ingannato l’Italia e chi gli ha creduto (un po’ anche, i governi amici) qualcuno poteva dire che non era così chiaro il rapporto fra corruzione, diffusa e mafia, in Italia.
Adesso lo è, al punto di dubitare sulla sequenza causa-effetto. Tre poteri ormai si riversano (e allo stesso tempo si nutrono) in un mare di corruzione: la politica, il potere privato e la mafia. La mafia conduce sempre, e questo è il grido d’allarme del giornale americano. Sullo schermo del nuovo, auto-elogiatissimo governo scorrono in continuazione cifre di misure in cui si toglie ai poveri per dare ai poveri o si fanno acrobazie per racimolare pochi soldi per colmare (invano) una immensa diseguaglianza.
Su un altro schermo, che la maggioranza di noi non vede, scorrono le immense cifre della corruzione che non è conosciuta, non è intercettata, non è nei programmi di nessuno. Un grande vuoto fa da contenitore al male che impedisce ogni ritorno dell’Italia alla normalità e la rende pericolosa e infetta. Per ora, avrete notato, non si levano voci. Anzi, di solito cambiamo discorso.
Mafia e politica, qui si continua a negare tutto
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 04.02.2014)
Il problema della corruzione per il nostro Paese costituisce una priorità assoluta. Per varie ed evidenti ragioni.
Primo. È una vergognosa tassa occulta, che secondo alcune stime arriva a 60 miliardi di euro l’anno, vale a dire mille euro per ciascun cittadino italiano, neonati compresi.
Secondo. A causa dell’enormità della corruzione il futuro dell’Italia è gravemente compromesso. Ed è una rapina perpetrata sulla pelle dei giovani, a parte il fatto che gli stranieri prima di investire in un sistema così corrotto ci penseranno mille volte.
Terzo. È un impoverimento delle risorse e incide pesantemente sulla qualità della vita di ciascuno di noi.
Se ci fosse meno corruzione ci sarebbero più campi sportivi per i ragazzi, ospedali e scuole meglio attrezzati, strade meglio asfaltate, periferie più illuminate, terreni meno dissestati, meno inondazioni e disastri ambientali. In sostanza si vivrebbe molto meglio. Partendo da questa base, nell’allarme e nelle denunce del report dell’Ue si riscontrano significative conferme.
MOLTI suggerimenti di questo report dell’Ue, per quanto riguarda il nostro Paese, li ritroviamo spesso identici, come contenuti, nell’agenda con cui Libera e il Gruppo Abele hanno sostenuto la campagna “Riparte il futuro”, che ha come obiettivo prevenire e contrastare la corruzione.
Se leggiamo questo documento troviamo tutta una serie di intelligenti e utili proposte. Innanzitutto la riforma del 416-ter (e qualcosa in Parlamento si muove rispetto allo stallo che si era determinato per questioni formalistiche, inserendo finalmente nella previsione di legge non soltanto la dazione di denaro ma anche il concetto di altra utilità, perché il mafioso che paga cash il politico corrotto esiste soltanto nella fantasia di qualche romanziere).
Poi bisogna riformare la prescrizione in generale e per i reati di corruzione in particolare, perché finché ci sarà troppo spazio, come attualmente c’è, per strumenti dilatori che allungano all’infinito i tempi del processo in modo da arrivare alla prescrizione che azzera tutto, la corruzione rimane uno strumento “conveniente”, anche processualmente, per il fatto che i rischi di condanna effettiva sono decisamente ridotti.
Serve un’anagrafe dei candidati alle elezioni nazionali e locali, accompagnata da test di integrità per politici e funzionari, oltre ai codici di comportamento di cui sempre si parla ma con scarse conseguenze operative che invece dovrebbero essere robuste sul piano disciplinare e politico. Occorre introdurre il reato di auto-riciclaggio (siamo l’unico Paese europeo che non ce l’ha), ripristinare il falso in bilancio, reprimere seriamente vari “reati civetta”, ad esempio l’evasione fiscale e certi illeciti societari.
Non meno importante è la riforma del “conflitto di interessi”. Fondamentale è incoraggiare i comportamenti che servono a scoprire e punire le situazioni illecite in ambito di corruzione. Qui si tratta di estendere le norme dei collaboratori di giustizia ai settori che dalla corruzione sono maggiormente interessati, pubblici e privati.
Serve anche garantire più trasparenza riducendo di molto le restrinzioni che oggi caratterizzano l’accesso ai documenti pubblici, rendendo più incisivo il controllo sugli atti della pubblica amministrazione. Le grandi opere, decisive per la crescita del Paese, esigono una normativa ad hoc che aumenti la visibilità delle procedure, essendo imponenti le risorse in gioco.
Infine, come non rallegrarsi che l’Europa ci bacchetti sui rapporti tra mafia e politica, mentre noi continuiamo a negare persino quelli tra Andreotti e Cosa nostra.
Viaggio alla ricerca del Paese smarrito
di Guido Crainz (la Repubblica, 07.12.2013)
NEL Rapporto del Censis sul 2013 diversi piani sembrano intrecciarsi, in parte contraddirsi o comunque offrirsi ad una riflessione problematica. La sottolineatura della gravità della crisi si intreccia infatti allo sforzo di individuare le possibilità di ripresa («il crollo atteso da molti non c’è stato (...) serpeggia una silenziosa constatazione che “ce l’abbiamo fatta”»). E la segnalazione della ambiguità di alcune “evidenze” (l’avvicinarsi del Paese al baratro, la “stabilità” come salvifico antidoto, l’inadeguatezza della classe dirigente) si accompagna alla denuncia del “vuoto di classe politica, di società civile e di leadership collettiva”. O alla constatazione che un “interventismo pedagogico” ha semmai “accentuato la fatica del vivere quotidiano e la mancanza di speranza per il futuro”.
Il Rapporto è indubbiamente molto franco sul deteriorarsi della realtà del lavoro, “emergenza nazionale”, e dei consumi. Il 2013 infatti “ha fatto venir meno la speranza” che la crisi del mercato del lavoro “possa essere breve e per certi versi contenibile”: “la sensazione che il peggio debba ancora venire accentua la dimensione di incertezza e paura”, in un disagio che si allarga ben oltre le fasce giovanili. Sono altrettanto eloquenti i dati sui consumi, ove la “sobrietà” rispetto a precedenti e non virtuosi modelli di consumo è intessuta di sacrifici talora pesanti, dall’alimentazione agli stili di vita. E ove cresce la protezione offerta di necessità dalle reti familiari o da quelle costituite da amici e conoscenti. Anche il trend dei consumi, insomma, ci parla di un Paese smarrito e profondamente fiaccato. Ci ripropone quell’erosione del “grande lago del ceto medio, storico perno della coesione e dell’agiatezza sociale” su cui si era soffermato il Rapporto dello scorso anno. Il Rapporto delle tre R: risparmio, rinuncia, rinvio.
Eppure, osserva il Censis con una torsione, “il crollo non c’è stato” e occorre semmai chiedersi quale realtà sociale abbiamo di fronte dopo la lunga fase segnata dalla necessità di sopravvivere. Prima di indicare possibili vie d’uscita il Rapporto non manca neppuredi segnalare alcuni “non entusiasmanti orientamenti di psicologia collettiva”. Da un lato laprogressiva perdita di quel “fervore del sale”, di quella capacità di dinamismo che ha costituito ilmotore del nostro sviluppo nella seconda metà del Novecento (insidiato ora da eccessi di furbizia, disabitudine al lavoro, immoralismo). Dall’altro un malcontento connesso al “grande e inatteso ampliamento” delle diseguaglianze sociali: un’Italia “sciapa e malcontenta” al tempo stesso, dunque.
Ma davvero è scomparso del tutto il fervore che aveva innervato il nostro sviluppo? Così non è, osserva il Censis rivolgendosi in primo luogo a quel “capitalismo molecolare” che è stato tradizionalmente al centro della sua attenzione e che non sembra aver smarrito tutte le proprie potenzia-lità: non in grado di avviare da sole, oggi, una nuova fase ma capaci di reagire positivamente a ulteriori stimoli. Vi aggiunge poi alcuni processi “in lenta emersione” come il crescere dell’imprenditorialità femminile o della presenza imprenditoriale e sociale degli immigrati. O il ruolo dei sempre più numerosi italiani, spesso giovani, che vivono all’estero per differenti ragioni e che possonorafforzare la nostra presenza nella “grande platea della globalizzazione”. E vi sono infine processi che possono offrire nuove opportunità di impresa, dalla revisione del welfare all’economia digitale.
Quale può essere però il filo rosso capace di agire da motore decisivo in tutti questi campi? Qui il Rapporto cala la sua parola chiave, connettività: cioè una capacità di relazione e interazione dal basso di cui si segnala già il manifestarsi e il procedere. Una “connettività orizzontale” tradizionalmente contrastata da tratti portanti del nostro vivere, dall’egoismo particolaristico alla “contrapposizione emotiva”: proprio essi però hanno accentuato la nostra crisi, e da qui può dunque prender avvio un ripensamento profondo e fecondo. Ipotesi suggestiva, certo, anche se l’auspicio sembra prevalere sull’analisi e trova al tempo stesso corposi ostacoli proprio in quella pesantezza della situazione che impronta di sé le parti centrali del Rapporto.
Abbiate paura! Perché temiamo di più vivere che morire
di Marc Augé (la Repubblica, 14 novembre 2013)
«Non abbiate paura!» dichiarò solennemente Giovanni Paolo II nel 1978 mentre saliva al soglio pontificio. E invitava l’umanità ad aprire «i confini degli Stati, i sistemi economici e quelli politici, gli immensi campi della cultura, della civiltà e dello sviluppo».
Trent’anni più tardi, Romano Prodi, sul quotidiano La Croix, definirà «profetiche» queste parole, sottolineando come esse si rivolgano a un Occidente sempre più in preda alla paura. L’aggettivo «profetico», utilizzato retrospettivamente, si applica più all’appello in sé che non al contenuto del messaggio. Poiché, se l’apertura annunciata o auspicata da Giovanni Paolo II è effettiva in ambito economico, e vi sancisce il trionfo del capitalismo finanziario più egemone, oggi servirebbe davvero molto ottimismo per scovare nel mondo i segni certi di una nuova primavera, magari araba. Più che mai, il mondo ha paura.
Il cambiamento di scala che riguarda la vita umana su tutto il pianeta è fondamentalmente economico e tecnologico: le innovazioni tecnologiche creano nuovi beni di consumo che, a loro volta, ricreano la domanda ed esigono nuove forme di organizzazione del lavoro. Il capitalismo è riuscito a creare un mercato che ha la stessa estensione della Terra. Le grandi aziende sfuggono alla logica dell’interesse nazionale. La logica finanziaria impone agli Stati le sue regole. E, all’improvviso, questo dominio è diventato così evidente da essere inappellabile, salvo i clamori delle manifestazioni di protesta che lo accompagnano senza produrre il minimo cambiamento. La lotta di classe c’è stata, ma la classe operaia l’ha persa. L’Internazionale trionfa, ma è capitalistica. Al giorno d’oggi i vecchi sono piuttosto chiacchieroni, ed è Stéphane Hessel, nel 2010, a far eco al papa scomparso: «Indignatevi!».
Questo secondo appello suona al contempo come una giustificazione del primo (l’indignazione è una forma sublimata di paura) e come la constatazione della sua sconfitta, visto che Stéphane Hessel denuncia sia il trattamento a cui sono sottoposti gli immigrati sia la dittatura dei mercati finanziari, l’aumento delle disuguaglianze e, in generale, gli aspetti perversi della globalizzazione capitalistica.
Non sarà che, oggi, la paura della vita abbia rimpiazzato la paura della morte? Se diamo un’occhiata alle notizie quotidiane, caratterizzate dall’incremento di violenze di ogni sorta, ricaviamo proprio questa impressione.
Ma questa constatazione generale non deve spingerci a ignorare la diversità delle situazioni. A seconda delle regioni del mondo e dei regimi politici, a seconda dell’appartenenza etnica o sociale, dell’appartenenza a un sesso o a un altro, le ragioni per avere paura sono diverse, la morte è più o meno presente e la vita più o meno intollerabile. Ci sono paure da ricchi e paure da poveri, e queste rispettive paure incutono paura le une alle altre: paure delle paure, paure al quadrato in un certo senso. Gli occidentali non sfidano il mare su fragili imbarcazioni per fuggire dal loro continente mettendo a rischio la vita. Si accontentano di portare soccorso a qualche naufrago e di piangere i morti; per di più, i sopravvissuti occupano il loro spazio, sagome fantasmatiche venute da lontano e di cui non sanno come liberarsi.
Resta il fatto che un rapido inventario delle nuove paure umane ci obbliga a registrare l’incremento di forme di violenza relativamente inedite, ancor più significative per il fatto che ne sono esposti anche i paesi più ricchi dell’Occidente. Queste violenze possono essere distinte in tre categorie, a loro volta composite: le violenze economiche e sociali, specialmente nell’ambito dell’impresa, le violenze politiche (razzismo e terrorismo inclusi), e infine le violenze tecnologiche e quelle naturali, le seconde spesso scatenate o amplificate dalle prime.
Queste tre forme di violenza generano paure specifiche: lo stress, il panico o l’angoscia, ma le paure, come le violenze, si sommano le une alle altre, si combinano e si influenzano l’un l’altra, a maggior ragione in un’epoca di diffusione accelerata di immagini e messaggi al pianeta intero. Nel complesso, si manifestano per l’ossessione dell’altro, confondendo ogni categoria di alterità, e per il timore del futuro. Ma questa ossessione e questo timore hanno molteplici componenti.
Il mondo contemporaneo ci mette dunque di fronte a un vero e proprio groviglio della paura, ed è questo groviglio che dovremmo iniziare a dipanare se vogliamo cercare di analizzare le cause, le conseguenze e i possibili sviluppi del malessere generalizzato che pare essersi impossessato delle società umane e minacciare il loro equilibrio. [...]
«Abbiate paura!», è stato questo l’avvertimento lanciato e reiterato da Bin Laden. Siamo ben lontani dall’aver dimenticato gli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno segnato simbolicamente la nostra entrata nel nuovo secolo. Non erano certo i primi della lunga lista di atti terroristici che, specialmente in Francia, nel corso degli ultimi trent’anni del Ventesimo secolo avevano creato un clima di insicurezza molto ansiogena. E non hanno neppure chiuso la lista degli attentati suicidi che si perpetuano un po’ dappertutto sul pianeta.
Ma se c’è un prima e un dopo l’11 settembre, così come c’è stato un prima e un dopo Hiroshima, non è soltanto perché questi attentati hanno rappresentato in modo spettacolare, per il numero e l’origine delle vittime (2.973 morti appartenenti a 93 paesi diversi), per la scelta degli obiettivi (il Pentagono, il World Trade Center) e dei mezzi (quattro aerei dirottati, 19 pirati sacrificati), un condensato delle follie e dei furori che minacciano il mondo, una sorta di globalizzazione del terrore; è anche perché hanno scatenato una forma di schizofrenia collettiva di cui non ci libereremo più.
È un double bind, un doppio vincolo, se si vuole, o meglio una doppia paura. Da un lato, nessuno avrebbe tollerato l’idea di rivedere un giorno delle immagini come quelle trasmesse e ritrasmesse dalle televisioni di tutto il mondo. Dall’altro, era difficile aderire senza riserve alla «guerra contro il terrore» decisa da George W. Bush contro l’Iraq, che, oltre al fatto che pareva aver sbagliato bersaglio, ufficializzava l’esistenza di una sorta di larvato conflitto mondiale di cui non erano perfettamente chiare né le ragioni né la posta in gioco. Non ne siamo ancora usciti e ci troviamo sempre di fronte a scenari tanto più sconcertanti quanto più i loro protagonisti cambiano volto e ruolo da un episodio all’altro: il fedele alleato della vigilia diventa l’insopportabile dittatore del giorno dopo, e i terroristi di ieri gli alleati responsabili di oggi.
Così come la mania di persecuzione colpisce generalmente quegli individui che hanno qualche buon
motivo per sentirsi perseguitati, le paure che da qualche tempo ci incalzano hanno fondamenti
oggettivi, e ciò le rende ancora più temibili: rischiano di essere cattive consigliere e possiamo
paventare tanto le loro conseguenze quanto i fatti che le hanno scatenate. Il concatenamento delle
paure è l’arma totale di ogni Terrore.
(Traduzione di Chiara Tartarini)
IO NON CERCO COLPEVOLI, NON FANNO MANGIARE, NE MIGLIORANO LA NOSTRA SITUAZIONE ECONOMICA. FACCIAMO QUALCOSA INVECE E VISTO IL DISASTRO DEL VENTENNIO APPENA TRASCORSO, MA ANCHE DI ALTRI DECENNI E ALTRI GOVERNI DEL PASSATO, VOGLIAMO O NO PROVARE CON UN GOVERNO PD ? MA FATTO DA CHI HA PROBABILITÀ’ DI VINCERE (LASCIAMO PERDERE PER CORTESIA SCHEGGE LIBERE MA ININFLUENTI !) UN CANDIDATO C’E’, ORA DEVE CONVINCERE...! FORZA ANDIAMO AVANTI, MA COMPATTI E SENZA TENTENNAMENTI !
SALVE
Londra choc:
"Fra 10 anni dell’Italia non resterà nulla"
La London School of Economics traccia un’analisi a tinte fosche della situazione italiana *
“Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà". Così Roberto Orsi, italiano emigrato a Londra per lavorare presso la London School of Economics, prevede il prossimo futuro del Belpaese.
IVA AL 22% SCELTA MIOPE - E le ultime mosse del governo, innalzamento dell’Iva al 22% su tutte, non sembrano la via migliore per invertire la pericolosissima tendenza: "Il governo sa perfettamente che la situazione è insostenibile - prosegue Orsi nella sua disamina -, ma per il momento è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’IVA (un incredibile 22%!), che deprime ulteriormente i consumi, e a vacui proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie. Le probabilità che questo accada sono essenzialmente trascurabili. Per tutta l’estate, i leader politici italiani e la stampa mainstream hanno martellato la popolazione con messaggi di una ripresa imminente. In effetti, non è impossibile per un’economia che ha perso circa l’8 % del suo PIL avere uno o più trimestri in territorio positivo. Chiamare un (forse) +0,3% di aumento annuo “ripresa” è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni. Più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione".
UN SETTORE DISTRUTTO - Il termometro più indicativo della crisi italiana, secondo orsi, è lo smantellamento del sistema manufatturiero, vera peculiarità del made in Italy a tutti i livelli: "Il 15% del settore manifatturiero in Italia, prima della crisi il più grande in Europa dopo la Germania, è stato distrutto e circa 32.000 aziende sono scomparse.
Questo dato da solo dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il Paese subisce. Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori. La leadership del Paese non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader in Italia negli stessi settori. Ha firmato i trattati sull’Euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità. Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’UE sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini. Di conseguenza, l’Italia si è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono la scomparsa completa della nazione certa".
RESPONSABILITA’ POLITICHE - Quando si tratta di individuare le responsabilità, Orsi non ha dubbi nel puntare il dito contro la politica: "L’Italia è entrata in un periodo di anomalia costituzionale. Perché i politici di partito hanno portato il Paese ad un quasi collasso nel 2011, un evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. Il Paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall’ufficio del Presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’UE e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del Presidente della Repubblica , che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. L’interventismo del Presidente è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale.
L’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il Presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese. Saranno amaramente delusi. L’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il Paese dalla rovina. Sarebbe facile sostenere che Monti ha aggravato la già grave recessione. Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. I tecnocrati condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il Paese. Sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia".
* ECONOMIAVirgilio, 18/10/13:
http://economia.virgilio.it/diritto/londra-shock-fra-10-anni-italia-non-restera-nulla.html
Un nota sul “disagio della civiltà”
Costituzione dogmatica della chiesa "cattolica"... e costituzione dell’Impero del Sol Levante.
di Federico La Sala *
Il ’delirio’ della Gerarchia della Chiesa ’cattolico’-romana è ormai galoppante!!! E se vogliamo aiutarla a guarire o, che è lo stesso, se vogliamo aiutarci a guarire (il ’delirio’ è generale, e non solo suo!!!) non possiamo non riprendere a pensare - a partire da noi stessi, e da noi stesse!!! Il problema è pensare proprio a partire da noi, dagli esseri umani in carne ed ossa - dalle persone, quale siamo e quale vogliamo essere, da quell’individuo che non sia un (o una) “Robinson”, come voleva il ’vecchio’ Marx non marxista e non hegeliano!!!
Basta con le robinsonate! La questione è la Relazione (Dio è Amore), e una relazione non edipica!!! Una relazione edipica (sia dal lato della donna sia dell’uomo) porta a postulare l’esistenza di un “dio” (un dio-uomo o un dio-donna) e, di qui, la concezione di un ’mondo’ dove il diritto di comandare in cielo e in terra sia del “dio” (del dio-uomo o del dio-donna)!!!
Da questo punto di vista, la Chiesa ’cattolico’-romana è solo l’ultimo baluardo di quel “dio” che garantisce la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’educazione edipico-capitalistica. Perché i sacerdoti (se vogliono) non si possono sposare?!, o perché le donne non possono diventare sacerdot-esse?!, ma perché il “dio” è concepito come dio-uomo e, come tale, solo il dio-figlio può essere come il dio-padre... e la donna solo come la madre-dea.
Sulla terra (e per tutti e per tutte) il Dio-Figlio è il figlio-dio e il fratello di tutti e di tutte, ma in cielo solo Lui può essere il Padre... e lo Sposo della Madre - e, siccome è solo lui che può avere rapporti con il cielo (ma il messaggio di Gesù proprio perché è un buon-messaggio dice che tutti e tutte siamo tutti e tutte figli e figlie di Dio-Amore... e tutti e tutte possiamo avere rapporti con “Lui”!!!), deve essere anche ’donna’ (perciò si traveste così come si traveste) per ’generare’ e ’riprodurre’ se stesso, in circolo...e comandare su tutti, su tutte, e su tutto! Che follia, senza alcuna saggezza - sconsolatamente!!!
Vedere il caso del Giappone - nella cultura giapponese c’è la Dea in cielo, e l’imperatore sulla terra; ora-oggi!!!, dal momento che alla coppia imperiale è nata una bambina, si parla di cambiare la Costituzione per far sì che Lei possa accedere al trono ... ma il problema è più complesso - come si può ben immaginare - perché ... deve essere cambiata anche la Costituzione celeste dell’Impero del Sol Levante!!! Se no, l’Imperatrice con Chi si ’sposerà’?! Con la Dea?!!
Non è questa forse la ragione nascosta del “disagio della civiltà” dell’Oriente e dell’Occidente ..... e anche della sua fine, se non ci portiamo velocemente fuori da questo orizzonte edipico-capitalistico di peste, di guerra e di morte? Non è ora di andare al di là della tragedia, e riprendere il filo dall’ “Inizio” (filosoficamente, parlando)?! Cosa significa essere EU- ROPEUO*?!! In principio cosa c’era, il Logos buono o il Logos cattivo?! Sta a noi, tutti e tutte, deciderlo - qui ed ora (come sempre, del resto)!!!
Federico La Sala
VELTRONI, D’ALEMA SVEGLIA!!! E’ ELEMENTARE!!!
di Antonio Padellaro (il Fatto, 20.04.2013)
L’unico consiglio che ci sentiamo di dare al Pd (o forse all’ex Pd) è quello di evitare con tutti i mezzi e in tutti i modi nuove elezioni, barricandosi magari tra le macerie di largo del Nazareno, poiché a questo punto per Berlusconi e per Grillo sarebbe un gioco da ragazzi spartirsi le spoglie di un partito tenacemente proiettato verso un suicidio politico collettivo. Con l’imperdonabile colpa di aver coinvolto nella propria autodissoluzione la passione e le speranze di milioni di elettori e militanti che da giorni assistono sgomenti a quella specie di vendetta tribale che è diventata l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Un “tutti contro tutti” dove killer e vittime si scambiano di ruolo a giorni alterni con il risultato condiviso di sputtanarsi (e sputtanarci) davanti al mondo intero.
Dopo aver affondato l’anziano e incolpevole Franco Marini, hanno coinvolto in una situazione umiliante che certo non meritava un altro padre fondatore, Romano Prodi, ormai da anni lontano dal maleodorante cortile italiano, mandato a schiantarsi mentre operava nel Mali come inviato speciale dell’Onu.
Non serve a nulla adesso domandarsi chi abbia armato la mano dei 101 cecchini irresponsabili: se il disinvolto Renzi, se l’astuto D’Alema, se gli obliqui margheriti o se addirittura il pugile suonato Bersani. Forse neppure loro sanno quello che fanno. Dio acceca chi vuole perdere.
Il pensiero non basta, è il vigore che serve
di Giuseppe De Rita (Corriere della Sera, 4 marzo 2013)
Abbiamo avuto settimane piene di grandi eventi, dalle dimissioni papali agli inattesi risultati elettorali; altrettante ce ne aspettano, per l’elezione del nuovo pontefice e la riorganizzazione dei vertici parlamentari e politici. In mezzo c’è una settimana di relativa, relativissima calma. E di essa si può approfittare per una riflessione non prigioniera delle meraviglie e delle ansie insite nell’incalzare degli eventi, dove noi comuni mortali restiamo «soli senza solitudine»; colpiti cioè da emozioni individuali, che non possiamo condividere con altri, e su cui non abbiamo la possibilità di quella maturazione (del lutto e/o delle speranze) che solo la solitudine psichica può consentire.
Così, quando ci guardiamo allora intorno, vediamo un paesaggio indecifrabile ma non siamo in grado di vedere i fattori che ne costituiscono l’essenza. Approfittiamo allora di questo tempo di limitata solitudine per fissare almeno le due tracce profonde e nascoste di quel che sta avvenendo: l’inattesa importanza del «vigore»; e l’inattesa esigenza dell’«intelligenza del riposizionamento».
Non è sfuggito ai più che sul termine «vigore» si è giocata la vicenda delle dimissioni di Benedetto XVI, motivate dalla consapevolezza «di non aver più il vigore intellettuale e fisico» necessario per esercitare le proprie funzioni. Certo qualcuno avrebbe potuto citare al Papa il ricordo biblico di Mosè che morì a 106 anni e «non gli si era ancora spento il vigore», ma Mosè era un profeta e un grande condottiero ispirato da Dio; mentre in noi comuni mortali il vigore può esaurirsi e allora dobbiamo ammettere la nostra finitudine, come con umiltà ha riconosciuto Benedetto XVI.
In un parallelo quasi a contrasto la stessa importanza del vigore è confermata dalla vitalità primordiale, quasi fisica, che nelle recenti elezioni ha portato alla rimonta di Berlusconi e all’esplosivo percorso di Grillo. Tutte le altre categorie sociopolitiche e umane (la serietà, la continuità, il rigore, la competenza, ecc.) non hanno avuto spazio, tutto si è mosso sulla forza personalmente ostentata nei gesti e nelle parole.
Forse questo duplice primato del vigore non piace a qualcuno, attenendo esso più agli «animal spirits» che ai valori religiosi o civici; ma senza vigore non si campa e non si vince. E se uno non ce l’ha, non se lo può dare. C’è da credere che nelle scelte prossime venture nella Chiesa e nella politica il vigore (in atto per qualcuno, da rilanciare per altri) avrà il suo peso.
Del resto senza vigore nessun soggetto (pontefice, curia, conferenze episcopali, partiti, leader politici, istituzioni, ecc.) può pensare di affrontare il travaglio del «riposizionamento», unica strategia per sopravvivere e riprendere a crescere. Per riposizionarsi serve anzitutto intelligente conoscenza e accettazione della realtà, anche quando essa a prima vista non piace; e serve soprattutto cambiare, differire da se stessi, «esporsi all’altro della vita» come dice Derrida. È la realtà in essere che è costituente, non i pensieri, le tradizioni, gli interessi, le identità di cui molti di noi fanno ritenzione securizzante.
Ma è evidente a tutti che per trattare, vivere, valorizzare la realtà per come si presenta (e talvolta essa non ci piace, come avviene in queste settimane) all’intelligenza occorre accompagnare gli «animal spirits» del vigore, la chimica volontà di vita del nostro corpo sociale. È difficile capire se la combinazione vigore-intelligenza-riposizionamento sia nelle fibre della nostra società e della nostra classe dirigente. Se non c’è, occorre augurarsi ed impegnarsi perché essa si affermi.
VATICANO: CEDIMENTO STRUTTURALE DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. Benedetto XVI, il papa teologo, ha gettato via la "pietra" ("charitas") su cui posava l’intera Costruzione ... e anche la maschera
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). Materiali per riflettere
Un Paese che non sa punire i razzismi
di Francesco Bonami (La Stampa, 10.03.2013)
Il grande paradosso italiano è che pur vivendo in una dittatura del «talk show», travolti quotidianamente da tsunami di parole, loro, le parole, da noi non hanno nessun valore sociale e nessuna conseguenza morale. Tutti possiamo dire il contrario di tutto nel giro di poche ore. Il dialogo civile è costantemente inquinato da parole, a volte pesanti, a volte gravissime, pronunciate irresponsabilmente sia da personaggi politici ed istituzionali sia da poveri disgraziati che dalle gradinate di uno stadio urlano infami improperi a giocatori avversari di diversa origine etnica.
L’Italia è di fatto un Paese profondamente razzista. Un razzismo mascherato ora come barzelletta, ora come sfottò. Un razzismo protetto da un profondo senso di impunità del quale ognuno di noi sembra depositario.
Siamo razzisti verso la gente di diverso colore, verso quella di sesso diverso dal nostro, contro quelli che hanno gusti sessuali differenti dai nostri, contro chi professa religioni che non conosciamo, contro chi abituato a lavorare di più nel proprio Paese vien qui e ci frega il lavoro. Dalla nostra bocca può uscire di tutto, certi che nulla di quello che diciamo avrà conseguenze, non tanto legali ma morali o sulla nostra posizione nei meccanismi professionali e civili ai quali apparteniamo.
Il conduttore televisivo viene beccato su YouTube ad urlare morti di fame a dei disoccupati che lo contestano per la strada e la cosa è vista dai suoi «superiori» come una divertente improvvisazione che aumenta la popolarità del suo programma. Un famoso critico d’arte da del «filippino» pubblicamente e a mezzo stampa ad un collega per disprezzarlo e imperturbabile continua ad essere ospitato a programmi televisivi e scrivere su riviste specializzate. Il giudizio della società è irrilevante, unico spauracchio sono le cause legali che ci possono arrivare per diffamazione e che intasano il sistema giudiziario. La dignità di chi ci circonda non c’interessa proprio. Ma la cosa peggiore è che sembra non interessarci nemmeno la nostra dignità interiore.
La responsabilità delle parole non ci appartiene più, cosa che in un periodo di campagna elettorale è ancora più spaventosa. Per un punto di percentuale siamo capaci di apostrofare un avversario tirando in ballo le menomazioni fisiche più tragiche o facendo commenti razziali allucinanti. Sto generalizzando? Assolutamente no. Scrivo tutto questo con cognizione di causa. Con la mia compagna, afroamericana di Buffalo, passiamo alcuni mesi dell’anno a Milano. Arrivando dagli Stati Uniti la mia preoccupazione è stata quella di far capire all’ignara signora quanto il mio Paese potesse essere razzista.
L’Italia, a differenza degli Stati Uniti, Paese profondamente razzista, non è in grado di creare gli strumenti per controllare e punire, non solo legalmente ma anche socialmente, chi non è capace di controllare i propri odi al di fuori delle pareti della propria casa, figuriamoci davanti ad un microfono di una televisione o di una radio.
Infatti, faccio qualche semplice esempio, la signora afroamericana ha presto scoperto di essere, anche lei come Balotelli, agli occhi di molti una «negretta». In un parco milanese dove tanti bambini diversi giocano ogni giorno, una madre si avvicina e le chiede se è stata assunta dalla famiglia della bambina che porta a passeggio. Risposta: «Sono stata assunta a vita essendo questa mia figlia». Reazione: «Non è possibile! La bambina è bianca! ». Negli Stati Uniti, ma anche in Inghilterra, a nessuno verrebbe in mente o avrebbe il coraggio fare domande del genere o esprimere opinioni simili a quelle della mamma meneghina. Firenze, la mia compagna con nostra figlia e sua madre, afroamericana pure lei, entrano in un ristorante semivuoto del centro nel quale, con una serie di scuse, non viene concesso un tavolo per pranzare.
Potrei raccontare altri «aneddoti» ma non è necessario. La questione non è personale, non è un aneddoto. La questione, grave e profonda, è una nostra responsabilità collettiva. In Italia siamo razzisti come in tanti forse tutti gli altri Paesi del mondo. Il problema è che noi facciam finta di non esserlo scherzandoci su, minimizzando, accusando di moralismo chi invece si scandalizza davanti alla nostra mancanza di controllo. Nei Paesi anglosassoni invece, essendo coscienti di questa orribile tendenza dell’animo umano, si sono premurati di correggerla con leggi scritte e non.
Se un qualsiasi individuo di qualsiasi categoria sociale e fiscale si azzarda a definire pubblicamente «negretto» un individuo con la carnagione scura non raccoglierebbe risate ma una definitiva condanna morale che gli impedirebbe di continuare qualsiasi attività professionale svolga, di successo o meno. Chi nel posto di lavoro fa battute offensive o sessuali ad un collega, maschio o femmina che sia, il giorno dopo non trova più la sua scrivania. Nessun santo sindacale potrà proteggere chi ha utilizzato la parola sbagliata.
Un’esagerazione? No. Un modo semplice ed efficace di ricordarci che le parole hanno un significato, un peso. Un sistema chiaro per non far mai dimenticare che noi siamo responsabili delle parole che diciamo, scherzando o meno. Morale? Se non regoleremo il razzismo in tutte le sue forme, verbali, sociali e civili, diventeremo un Paese morto, demograficamente e moralmente. Un Paese incapace di mettere, quando necessario, gli scherzi da parte è un Paese finito.
Pericolo in Italia
di Guillaume Goubert
Le notizie arrivate sabato dall’Italia sono molto preoccupanti. Da un campo di calcio, Silvio Berlusconi ha annunciato l’intenzione di rimettersi alla testa della destra italiana nella prospettiva di elezioni nella primavera prossima. Immediatamente, Mario Monti ha comunicato la sua decisione “irrevocabile” di dare le dimissioni entro la fine dell’anno, appena la legge finanziaria per il 2013 sarà adottata. Tutto il lavoro di risanamento dell’Italia, sul piano finanziario, economico, ma anche morale, viene quindi rimesso in discussione. A rischio di far cadere la penisola, e con essa anche il resto della zona euro, in una nuova tormenta.
Potremmo capire che venisse dalla sinistra una contestazione della politica portata avanti da Mario Monti. La politica di austerità condotta dal presidente del Consiglio dei ministri da tredici mesi infatti non risparmia gli italiani meno abbienti. Ma che Silvio Berlusconi sia all’origine della crisi politica che si è appena aperta a Roma è decisamente stupefacente. Quell’uomo ha diretto l’Italia a tre riprese dal 1994, poi dal 2001 al 2006, e dal 2008 al 2011. Ha quindi una responsabilità non trascurabile nello stato di deperimento dello Stato e dell’economia del paese per il cui recupero si è impegnato Mario Monti. Inoltre, Silvio Berlusconi è coinvolto in malversazioni fiscali e scandali sessuali - con l’implicazione di minorenni - che hanno gravemente danneggiato l’immagine del paese. È per questo che, nel 2011, gli altri capi di Stato e di governo della zona euro hanno avuto un grosso peso per un’uscita di scena che credevamo definitiva.
Ebbene, no. A 76 anni, “il Cavaliere” mantiene tutta la sua capacità di nuocere, e Mario Monti si trova nella stessa difficoltà incontrata da altri prima di lui. Come Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini e Romano Prodi, anch’essi chiamati a capo di governi “tecnici” per salvare il paese da situazioni finanziarie pericolose, e che furono mandati a casa da un classe politica che voleva tornare a fare i propri interessi. Bisogna sperare che questa volta la società italiana si ribelli, sostenuta dal resto dell’Europa, e che così le dimissioni di Mario Monti cessino di essere “irrevocabili”.
La protezione incivile
di Francesco Merlo (la Repubblica, 27.10.2012)
La spavalderia è la stessa che Bertolaso esibiva sulle macerie quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso, gloria e vanto del berlusconismo, con certificati ammiratori a sinistra. Ma i testi delle telefonate che, in rete su repubblica. it, ora tutti vedono e tutti giudicano, lo inchiodano al ruolo del mandante morale. Quel «nascondiamo la verità», quel «mi serve un’operazione mediatica», quel trattare gli scienziati, i massimi esperti italiani di terremoti, come fossero suoi famigli, «ho mandato i tecnici, non mi importa cosa dicono, l’importante è che tranquillizzino », e poi i verbali falsificati...: altro che processo a Galileo! E’ Bertolaso che ha reso serva la scienza italiana.
Più passano i giorni e più diventa chiara la natura della condanna dell’Aquila. Non è stato un processo alla scienza ma alla propaganda maligna e agli scienziati che ad essa si sono prestati. E innanzitutto perché dipendono dal governo. Sono infatti nominati dal presidente del Consiglio come i direttori del Tg1 e come gli asserviti comitati scientifici dell’Unione sovietica. In Italia la scienza si è addirittura piegata al sottopotere, al sottosegretario Bertolaso nientemeno, la scienza come parastato, come l’Atac, come la gestione dei cimiteri. Dunque è solo per compiacere Guido Bertolaso, anzi per obbedirgli, che quei sette servizievoli scienziati sono corsi all’Aquila e hanno improvvisato una riunione, fatta apposta per narcotizzare.
Chiunque ha vissuto un terremoto sa che la prima precauzione è uscire di casa. Il sisma infatti terremota anche le nostre certezze. E dunque la casa diventa un agguato, è una trappola, può trasformarsi in una tomba fatta di macerie. In piazza invece sopra la nostra testa c’è il cielo che ci protegge. Ebbene all’Aquila, su più di trecento morti, ventinove, secondo il processo, rimasero in casa perché tranquillizzati dagli scienziati di Bertolaso. E morirono buggerati non dalla scienza ma dalla menzogna politica, dalla bugia rassicurante.
Purtroppo il nostro codice penale non prevede il mandante di un omicidio colposo plurimo e Bertolaso non era imputato perché le telefonate più compromettenti sono venute fuori solo adesso. E però noi non siamo giudici e non dobbiamo attenerci al codice. Secondo buon senso Bertolaso è moralmente l’istigatore dei condannati, è lui che li ha costretti a sporcarsi con la menzogna.
Tanto più perché noi ora sappiamo che questi stessi scienziati avevano previsto l’arrivo di un’altra scossa mortale, nei limiti ovviamente in cui la scienza può prevedere le catastrofi. Ebbene, il dovere di Franco Barberi, Bernardo De Bernardinis, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Giulio Selvaggi, Gian Michele Calvi, Claudio Eva era quello di dare l’allarme. Gli scienziati del sisma sono infatti le sentinelle nelle torri di avvistamento, sono addestrati a decifrare i movimenti sotterranei, sono come i pellerossa quando si accucciano sui binari. Nessuno si sogna di rimproverarli se non “sentono” arrivare il terremoto. Ma sono dei mascalzoni se, credendo di sentirlo, lo nascondono.
Il processo dell’Aquila dunque è stato parodiato. E quell’idea scema che i giudici dell’Aquila sono dei persecutori che si sono accaniti sulla scienza è stata usata addirittura dalla corporazione degli scienziati. Alcuni di loro, per solidarizzare con i colleghi, si sono dimessi, lasciando la Protezione Civile nel caos, proprio come Schettino ha lasciato la Concordia. Il terremoto in Italia è infatti una continua emergenza: giovedì notte ne abbiamo avuto uno in Calabria e ieri pomeriggio un altro più modesto a Siracusa.
Ebbene gli scienziati che sguarniscono le difese per comparaggio con i colleghi sono come i chirurghi che scioperano quando devono ricucire la ferita.
Ma diciamo la verità: è triste che gli scienziati italiani si comportino come i tassisti a Roma, forze d’urto, interessi organizzati, cecità davanti a una colpevolezza giudiziaria che può essere ovviamente rimessa in discussione, ma che non è però priva di senso, sicuramente non è robaccia intrusiva da inquisizione medievale. Insomma la sentenza di primo grado può essere riformata, ma non certo perché il giudice oscurantista ha condannato i limiti della scienza nel fare previsioni e persino nel dare spiegazioni.
E il giudice dell’Aquila è stato sobrio. E’ raro in Italia trovare un magistrato che non ceda alla rabbia, alla vanità, al protagonismo. Ha letto il dispositivo della sentenza, ha inflitto le condanne e se n’è andato a casa sua come dovrebbero fare tutti i magistrati, a Palermo come all’Aquila. Pochi sanno che si chiama Marco Billi. Non è neppure andato a Porta a Porta per difendersi dall’irresponsabile travisamento che ai commentatori frettolosi può essere forse perdonato, ma che è invece imperdonabile al ministro dell’Ambiente Corrado Clini, il quale ha tirato in ballo Galileo e ci ha tutti coperti di ridicolo facendo credere che in Italia condanniamo i sismologi perché non prevedono i terremoti, che mettiamo in galera la scienza, che continuiamo a bruciare Giordano Bruno e neghiamo che la Terra gira intorno al Sole.
Il ministro dell’Ambiente è lo stesso che appena eletto si mostrò subito inadeguato annunziando che l’Italia del referendum antinucleare doveva comunque tornare al nucleare. Poi pensammo che aveva dato il peggio di sé minimizzando i terribili guasti ambientali causati dall’Ilva di Taranto. Non lo avevamo ancora visto nell’opera brechtiana ridotta a battuta orecchiata, roba da conversazione al Rotary, da sciocchezzaio da caffè. E sono inadeguatezze praticate sempre con supponenza, a riprova che c’è differenza tra un tecnico e un burocrate. In Italia puoi scoprire che anche il direttore generale di un ministero non è un grand commis di Stato ma un impiegato di mezza manica.
So purtroppo che è inutile invitare personaggi e comparse di questa tragica farsa ad un atto di decenza intellettuale, a restituire l’onore alla ricerca, alla scienza e alla giustizia, e a risalire su quelle torri sguarnite della Protezione Civile senza mai più umiliarsi con la politica. A ciascuno di loro, tranne appunto al dimenticabile Bertolaso che intanto si è rintanato nel suo buco, bisognerebbe gridare come a Schettino: «Torni a bordo...».
La mala rottamazione
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 24 ottobre 2012)
Rottamazione, dice il vocabolario, è l’azione che si compie quando si demoliscono oggetti fuori uso: specie automobili. Vengono triturati, per riutilizzare le parti metalliche. A volte, ottieni sconti sulla nuova vettura. Applicata alle persone e al ricambio di dirigenti politici, è una delle parole più maleducate e violente che esistano oggi in Italia. I rottamatori sono fieri di chiamarsi così, e quando l’operazione riesce esibiscono le spoglie del vinto: «La rottamazione comincia a produrre i primi frutti», ripeteva Matteo Renzi, domenica in un’intervista in tv.
La lotta per l’avvicendamento ai vertici della politica ha sue ragioni, e lo stile brutale risponde a un’ansia, enorme e autentica, di cambiamento: si vorrebbe azzerare l’esistente, e come nella poesia di Rimbaud ci si professa «assolutamente moderni». È un conflitto legittimo, anche necessario: che va portato alla luce perché nell’ombra degenera o ammutolisce. È il grande merito del sindaco di Firenze, come di Grillo. Impressionante è la campagna di quest’ultimo in Sicilia: lunga, martellante, è rifiuto del mutismo. Da due settimane è nell’isola; nessuno s’era messo per tanto tempo in ascolto delle sue collere.
Ma la parola rottamazione, anche se Renzi intende cambiamento, resta ustionante e parecchi la prendono alla lettera. L’avversario-rivale è trattato alla stregua di arnese metallico. Se l’idea della rottamazione non avesse alle spalle una storia lunga, di degradazione della persona a oggetto servibile, non susciterebbe tanto disagio. Non sveglierebbe fantasie di uomini «di troppo», di rottami. Forse chi la usa (non solo il sindaco di Firenze) non se ne rende conto, ma il termine alligna nelle terre della pubblicità ed è lessico della generazione Berlusconi. È nato con lui, con le sue disinvolture verbali. Non ingentilisce ma corrompe il discorso pubblico. È figlio della rivoluzione non solo politica ma linguistica, di stile, che Berlusconi inaugurò nel ‘94. Fu una rivoluzione della noncuranza, del «tutto è permesso»: non badava alle conseguenze di quel che veniva detto, ai tabù infranti.
È una parola del tutto anomala, inoltre. In Europa o America, nessun politico che magnifichi il Nuovo oserebbe condurre una campagna in cui gli anziani, i seniores, vengano definiti ferrivecchi. Nell’aprile 2002, quando il socialista Jospin alluse all’età del rivale Chirac, i sondaggi lo punirono, screditandolo. Aveva avuto l’impudenza e l’imprudenza di dire che il Presidente era «affaticato, invecchiato, vittima dell’usura». Gli elettori non amavano Chirac, ma la mancanza di gentile rispetto dell’anzianità, in Jospin, fu ritenuta intollerabile.
Una cosa è attaccare la linea dell’avversario: soffermandosi su di essa, senza censure. Altra cosa è assalire la persona. Se rottamazione scomparisse dal vocabolario giornalistico e politico non sarebbe male. Conterebbe più la sostanza: l’errore di Veltroni, quando affondò l’ultimo governo Prodi annunciando che il Pd, rompendo le catene della sinistra radicale, sarebbe «corso da solo» (come se non fosse stato il centro a silurare Prodi). O si potrebbe raccontare D’Alema: il suo rapporto sprezzante con giornalisti e magistrati, i piaceri che fece a Berlusconi, i dispiaceri che procurò a Prodi, l’influenza eccessiva esercitata su Bersani. Ci dedicheremmo a quel che Renzi vuol dire, e alla fiducia che riscuote in persone di prestigio come Pietro Ichino.
Rottamazione è un cartello stradale che depista: non dice quel che promette, né sull’Europa né sulla corruzione né sulla ‘ndrangheta che ci assilla. Vale la pena ripercorrere la storia di questo vocabolo, tanto più cruento in un paese fragile: dopo la Germania, siamo il popolo che più invecchia in Europa. Vale la pena tener viva la memoria, perché lo sgarbo non è episodico ma ha radici in una sistematica denigrazione dei più anziani: nei luoghi di lavoro e nella politica.
Il Parlamento si era appena insediato, nel ‘94, e fu subito offensiva contro un senior come Norberto Bobbio. Eletto alla Camera alta, Franco Zeffirelli giubilò: la Seconda repubblica aveva spazzato via «la triste sfilata dei senatori a vita, uno più cadaverico dell’altro, una vecchia Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola».
Facendogli eco, Maurizio Gasparri diceva di Indro Montanelli: «Quello è arrivato al tramonto della vita e anche delle capacità intellettuali del suo cervello»
L’offensiva rottamatrice proseguì, più feroce, nel 2006-2008. Ricordiamo gli improperi riversati su Rita Levi Montalcini, e sulla sua tenace presenza in Senato per sostenere il governo di centro sinistra. Sul Giornale del 14-7-07, Paolo Guzzanti parlò di vecchi «scongelati, inchiavardati allo scranno e costretti a pigiare col ditino il pulsante guidato da una senatrice badante». Storace promise «un bel paio di stampelle da consegnare a domicilio. Si comincia dalla senatrice a vita Levi Montalcini ». Su Libero, diretto da Vittorio Feltri, apparve il titolo d’apertura: «La dittatura dei pannoloni».
Siamo dunque lontani dal vero, quando scriviamo che Berlusconi è finito, e con lui il lessico d’insulti della Lega. Il loro modo d’essere e di dire sgocciola come da una flebo nelle vene di un’intera generazione. È il suo marchio, così come le parole del ’68 intrisero due generazioni. I francesi faticano ancor oggi a uscire dalla generazione Mitterrand. Faticheremo anche noi, più di quel che si dica.
Il cambiamento è altra cosa. È la crisi non come decadenza ma trasformazione: un desiderio che Renzi intuisce, e vuol incarnare. È un conflitto ineluttabile: fra ieri, oggi, domani. È un progetto diverso di crescita, non nuovo tra l’altro, se già nel 1987 il rapporto Brundtland scriveva: «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». È un orizzonte dato a giovani cui non si può dire, come il ministro Fornero: «Siete troppo choosy!» («schizzinosi » è mal tradotto, cancella il furto della scelta). E che volto devono avere le nostre città, i nostri pubblici spazi e servizi? Come congegnare pensioni che non tramutino gli anziani in gente bandita o - abbondano anche qui truci aggettivi - in esuberi o esodati? Dai tempi dei Viceré e del Gattopardo sappiamo che cambiar facce non basta alle Grandi Trasformazioni.
Rottamazione oltre che parola brutta è diseducativa, non prepara alcunché. Alla sua insegna non può svolgersi dibattito fra candidati alla guida del Paese. Eppure di discussioni dirette c’è bisogno: per districarsi da soli, senza mediatori nei giornali o in Tv. Nelle primarie americane e francesi è la norma, sebbene scabrosa.
Il rottamatore di professione, presente ovunque nei partiti, ti fruga, alla ricerca degli istinti più bassi, delle passioni più tristi. Viene in mente il Viaggio agli inferni del secolo di Buzzati: nei sotterranei milanesi, sotto la metro, c’è un mondo parallelo in cui i vecchi, inservibili, sono scaraventati dalle finestre nei marciapiedi.
Entrümpelung, parola che Buzzati prende dal lessico nazista, significa repulisti, sgombero: è una variante dell’igienica rottamazione. Anche quel repulisti viene celebrato come «festa della giovinezza, della rinascita, della speranza», del Mondo Nuovo.
Accade così che il diverso appaia come uomo di troppo: povero o vecchio, esodato o immigrato. Sono i disastri del moderno, non del barbarico. Una volta che te la prendi con classi d’età, quindi con la biologia, entri nella logica del capro espiatorio, dell’innocente che paga per il collettivo. Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo, secondo René Girard, che riporta ordine in seno alla comunità. Nel linciaggio, la violenza di tutti contro tutti sfocia in violenza di tutti contro uno. Sarebbe bello se a dirlo, con voce non bassa, fossero anche i giovani
Rapporto Ocse
Allarme giovani: il 25% non lavora e non studia
Generazione tradita: non fa nulla un giovane su 4
Abbiamo i docenti più anziani d’Europa: il 58% ha oltre 50 anni
Italia penultima tra i paesi Ocse: alla scuola solo il 9% della spesa pubblica totale
Il personale docente è primo per anzianità: il 58% ha più di 50 anni, il 10% meno di 40
di Luigina Venturelli (l’Unità, 12.09.2012)
MILANO Un Paese avaro nei confronti della scuola è un Paese avaro nei confronti dei propri giovani. Ed è un Paese destinato a pagarne pesantemente le conseguenze, in termini di istruzione, di occupazione e, in fin dei conti, di benessere economico e sociale. La fotografia dell’Italia, penultima tra le nazioni più industrializzate del mondo per spesa pubblica destinata al sistema scolastico quella scattata dall’ultimo rapporto Ocse «Education at a glance» è la diretta proiezione di una crisi che affonda le sue radici in anni di continui tagli alle risorse il colpo di grazia assestato dal recente governo Berlusconi e che, di questo passo, rischia di condannare al declino la penisola. Ai primi posti, infatti, tra i paesi più sviluppati per tasso d’inattività tra i giovani che né studiano né lavorano, 23% contro una media del 16%.
FANALINO DI CODA
Ad oggi l’Italia spende per l’istruzione dei suoi cittadini più giovani solo il 9% del totale della spesa pubblica, piazzandosi al 31esimo posto in una classifica di 32 paesi che vede solo il lontano Giappone in posizione peggiore, contro una media Ocse del 13%. Uno scivolone inevitabile, dopo il calo dal pur modesto 9,8% registrato nel 2000, confermato anche dai ridotti margini di spesa in rapporto al prodotto interno lordo, il 4,9% del Pil contro una media generale del 6,2%. In termini assoluti, la spesa media per studente in Italia non si discosta molto dai livelli Ocse 9.055 dollari rispetto ai 9.249 dollari medi ma è distribuita in modo molto diverso tra i vari gradi di istruzione.
Si conferma l’eccellenza nelle prime fasce scolastiche, dall’asilo alle elementari, che ci vede addirittura sopra la media Ocse pari al 93% e al 97% contro rispettivamente il 66% e l’81% e si confermano le criticità progressive in quelle superiori, tanto che all’università il differenziale con le altre nazioni industrializzate sfiora i 4mila dollari 9.562 euro a fronte dei 13.179 medi.
UNIVERSITÀ AL PALO
Una distanza che si ripercuote immediatamente sui risultati dell’istruzione universitaria, sia in termini di giovani laureati, sia in termini di sbocchi nel mondo del lavoro. La percentuale di persone che hanno conseguito una laurea in Italia resta tra le più basse dell’area Ocse, pur essendo cresciuta nell’arco degli ultimi trenta anni: il 15% delle persone tra i 25 e i 64 anni contro il 31% delle nazioni più industrializzate e il 28% della media Ue (in Francia la quota è del 28%, in Gran Bretagna del 38% e in Germania del 27%). La percentuale di laureati nella fascia d’età 25-34, inoltre, è superiore di soli dieci punti a quella registrata nella fascia 55-64, 21% contro 11%, sintomo della fatica con cui i cambiamenti globali in tema di istruzione collettiva hanno preso piede nel paese.
Di più: ormai avere in tasca una laurea non rende più facile trovare un lavoro, visto che il tasso di occupazione è sceso tra il 2002 e il 2010 dall’82,2% al 78,3% per i laureati, mentre è rimasto stabile per i diplomati (72,3% nel 2002 e 72,6% nel 2010).
E i dati sulle retribuzioni indicano le notevoli difficoltà dei giovani laureati a trovare un lavoro adeguato alla propria preparazione: i lavoratori italiani con una laurea tra i 25 e i 34 anniguadagnano soltanto il 9% in più dei loro colleghi diplomati (la media Ocse è del 37%), mentre i laureati tra i 55 e i 64 anni guadagnano il 96% in più dei coetanei diplomati (la media Ocse è del 69%).
PERSONALE DOCENTE ANZIANO
Non stupisce, dunque, l’estrema difficoltà registrata anche nel ricambio del personale docente: l’Italia infatti ha i professori più anziani dell’area Ocse, il 58% di quelli della scuola secondaria hapiùdi50anni,esoloil10%neha meno di 40. Un dato che il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo protagonista di una rovente polemica con i precari del mondo della scuola per l’intenzione annunciata dal governo Monti di eliminare le graduatorie per passare ai concorsi come modalità d’ingresso nel sistema pubblico d’istruzione si è affrettato a commentare come «elemento di stimolo affinchè le azioni che sono state intraprese siano rafforzate». Insomma: «Sul concorso che abbiamo annunciato, ci dice che la strada intrapresa non è così sbagliata». Ma restano «punti deboli» del sistema che necessitano una strategia di medio-lungo periodo per avere risultati convincenti e stabili: «Li stiamo analizzando per poter intervenire e allocare meglio le risorse» ha assicurato Profumo.
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI BENEDETTO XVI ("DEUS CARITAS EST", 2006). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia (...) Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo (...)
Per la Costituzione - e il dialogo, quello vero ...
"ITALIA". AMARE L’ITALIA: RIPRENDIAMOCI LA PAROLA. VAFFA-DAY?! ONORE A BEPPE GRILLO. Contro la vergognosa confusione dell’ "antipolitica" in Parlamento e della "politica" in Piazza, l’invito ad uscire dalla "logica" del "mentitore". Una lettera (2002), con un intervento di Beppe Grillo (2004)
ITALIA, 1994-2012: POPULISMO E BAAL-LISMO DI STATO. L’Italia come volontà e come rappresentazione di un solo Partito. Il "popolo della libertà": "Forza Italia"!!!
LA DEMAGOGIA DI STATO E IL MESSAGGIO DELLA LIBERAZIONE. Il Presidente Napolitano richiama e sollecita a non «abbandonarsi a una cieca sfiducia», a non «finire per dar fiato a qualche demagogo di turno»
VATICANO: CEDIMENTO STRUTTURALE DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. Benedetto XVI, il papa teologo, ha gettato via la "pietra" ("charitas") su cui posava l’intera Costruzione.
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI FEDELI ALLA PAROLA DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). Materiali per riflettere
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5391
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITA’!
Per ben agire e ben comunicare (anche solo con se stessi o con stesse!), come insegna Dante, ci vogliono TRE SOLI
(la cosiddetta - impropriamente - teoria dei "due soli")!!!
Recitare o essere? Pensieri tra Quaresima e Pasqua
di don Angelo Casati
Viandanti (www.viandanti.org, 30 marzo 2012
Mi succede - qualcuno la ritiene una mia ossessione - di avere in sospetto ogni parola che, poco o tanto, sembra recitata, ogni atteggiamento che, poco o tanto, sembra studiato. Si recita una parte. A volte mi sorprendo a guardarmi. E mi chiedo: "Stai recitando? Stai celebrando o recitando? Stai pregando o recitando? Stai predicando o recitando? Stai parlando o recitando?". Nella recita non ci sei. C’è una parte che indossi. Che non è la tua.
Gesù incantava
Gesù non recitava. Forse per questo o anche per questo, incantava. Era autentico, aderente la vita, non a una parte da recitare. E la gente lo sentiva vero. A differenza di altri. A differenza, per esempio, di una certa frangia - non tutti! - di farisei che "recitavano": "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri, allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente"(Mt.23,5-7).
Qualcuno, anche nel mondo ecclesiastico, sconcertato dalla calda umanità di Gesù, tende a presentarla come se il Signore stesse recitando, quasi non gli fosse consentito, in quanto Dio, di crescere, di essere stanco, di non sapere, di amare i banchetti, di desiderare la tenerezza di un bacio o il profumo dell’unguento, di provare paura e solitudine. Quasi recitasse, in tutto ciò una parte non sua. Gesù non ha mai recitato. Era.
Dominante è il ruolo
C’è il pericolo - lo avverto sempre più acutamente e il racconto delle tentazioni di Gesù, all’inizio della Quaresima, lo segnalava - che anche la religione diventi spettacolo, luogo in cui si recita. Strano verbo, questo "recitare", che abbiamo nel nostro linguaggio religioso legato al pregare! Si "recita" una Ave Maria o un Padre Nostro, si "recita" il rosario. È in agguato la recita. La avverti. A volte è nell’aria. A tradirla è un tono affettato, artefatto, poco naturale, studiato.
Aria strana. L’aria di certi raduni ecclesiastici. Volti impassibili, non tradiscono la benché minima emozione. Ci si parla di errori, di cedimenti o di smarrimenti, sono sempre quelli degli altri. L’inquietudine non esiste. Esiste la sicurezza. Si recita la parte di Dio. Mai uno che dica: "Ho peccato". Lo si dice nella Messa, ma per modo di dire. Nessuno che abbia mai fatto un errore. E che lo riconosca. Domina il ruolo. L’impassibilità del ruolo. Impenetrabili, drappeggiati, diplomatici. E senti la distanza. E come se mancasse gente vera. Non sono i volti che cerchi, quelli che ti incantano fuori le mura, volti che non mascherano le stanchezze e le emozioni, volti che confessano l’inquietudine e la lontananza.
Scrive Carlo Maria Martini: "Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto "Dio" e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che egli opera nella storia, come e perché agisce o in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali".
Come figli di Dio
Comunità alternativa si diventa vivendo il Vangelo, non recitando la parte del "perfetto". Alternativi diventiamo non mascherandoci dietro il ruolo o dietro il titolo, ma dando trasparenza ai rapporti. Incontrandoci come persone. Come figli di Dio. Questa la più grande dignità che ci è toccata. Non esiste, per un vero credente, altra tanto grande.
Essere Papa, essere Vescovo, essere prete, non vale l’essere figli di Dio. E, se figli, liberi, e quindi non soffocati, non mascherati, non misurati da titoli e da ruoli.Quando Papa Giovanni, poco dopo la sua elezione, si accorse che l’ Osservatore Romano introduceva le sue parole con questa formula di rito: "Come abbiamo potuto raccoglierle dalle auguste labbra di Sua Santità", chiamò il capo redattore e gli disse: "Lasciate perdere queste sciocchezze e scrivete semplicemente: Il Papa ha detto".
La grande sfida
Quale perdita per la società, se la Chiesa, che nel mondo dovrebbe apparire come lo spazio dove risplende la libertà e l’umanità dei rapporti, diventasse luogo di relazioni puramente formali, deboli e fiacche, non sincere e intense.
Rischierebbe l’insignificanza. Verrebbe meno alla grande sfida, all’opportunità che oggi le si offre di tessere in una società ampiamente burocratizzata rapporti autentici e profondi.
E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno di noi, Dio chieda meno protagonismo, meno organizzazione, meno recite e più vicinanza, più sincerità?
Alla mente ritorna una pagina folgorante dello scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza quotidiana: "Un uomo" - scrive - "condusse a Gesù la figlia ammalata e gli disse: "Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami". Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare". Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli".
RETTIFICARE I NOMI E BONIFICARE LA CHIESA DALLO SPIRITO DI "MAMMONA ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" O PORTARE AL SUICIDIO LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA?!
Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto per il Padrone Gesu’("Dominus Iesus")!
Federico La Sala
2 011, c’era bisogno di una scossa nazionale
di GIORGIO NAPOLITANO *
Caro Direttore,
il suo giornale ha il merito di essere stato, fin dal concepimento di un programma di celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità, tra i soggetti (anche lei personalmente) che più hanno creduto nella straordinaria importanza dell’occasione che si presentava e dell’impegno che andava esplicato per un sostanziale rafforzamento delle ragioni e del sentimento del nostro «stare insieme» come italiani - nazione - Stato e cittadini.
La quantità e qualità delle iniziative che si sono succedute - tra le quali un particolare spicco hanno assunto quelle promosse a Torino - ci hanno detto che erano insieme maturata un’esigenza e insorta una disponibilità largamente condivise. C’era bisogno di una scossa nazionale unitaria di fronte alle difficoltà, alle derive, agli scoramenti che colpivano il nostro Paese e alle prove sempre più ardue che lo attendevano (e lo attendono).
Ritengo che il quasi imprevedibile successo delle celebrazioni, non ancora del tutto concluse, abbia lasciato un segno profondo, anche contribuendo al crearsi di condizioni più favorevoli per affrontare con fiducia una nuova inedita e incoraggiante fase della vita politico-istituzionale italiana.
* La Stampa, 20/11/2011
La coscienza dello Stato
di Ezio Mauro (la Repubblica, o1.10.2011)
Ieri Giorgio Napolitano ha rotto un pezzo dell’incantesimo che blocca il Paese in questa lunga agonia del berlusconismo. Spazzando via false credenze, mitologie e leggende politiche che pure hanno imprigionato e condizionato l’attività di questo governo, il Capo dello Stato ha detto chiaramente quel che la politica (anche di opposizione) non riesce a spiegare: non esiste un popolo padano, pensare ad uno Stato lombardo-veneto che competa nella sfida della globalizzazione mondiale è semplicemente grottesco, e una via democratica alla secessione è fuori dalla realtà.
Dopo queste parole, vivere nella finzione non sarà più possibile. Ci vuole coraggio istituzionale - quindi responsabilità - nel pronunciarle, perché l’Italia politica ha accettato per anni che crescesse dentro la cultura della destra berlusconiana questa leggenda nera della secessione possibile, della Padania immaginaria, fino alla buffonata delle false sedi ministeriali al Nord, col ritratto di Bossi appeso ai muri. Oggi, semplicemente e finalmente, lo Stato dimostra di avere coscienza e nozione di sé, e dice di essere uno e indivisibile, frutto di una vicenda nazionale e di una storia riconosciuta.
È una frustata alla politica, Lega, governo e maggioranza in primo luogo: ma anche all’opposizione. Napolitano infatti denuncia la rottura del rapporto tra eletti ed elettori, come se la politica si sentisse irresponsabile. E proprio nel giorno in cui le firme per il referendum abrogativo hanno raggiunto un milione e duecentomila, chiama in causa per questo il Porcellum: voluto e votato da Berlusconi e dalla Lega, colpevole di aver spostato la scelta dei parlamentari nelle mani dei capi-partito, spezzando il collegamento tra i cittadini e i loro rappresentanti. Per questo il Presidente chiede espressamente una nuova legge elettorale per ripristinare la fiducia nelle istituzioni.
Guai se le parole del Quirinale restassero inascoltate, al punto in cui è giunta la disaffezione dei cittadini verso il sistema politico-istituzionale. È un invito a dire la verità, a farla finita con gli inganni, a restituire la parola ai cittadini, a "cambiare aria" nel Palazzo. Se accadrà, anche la finzione di governo che si arrocca a Palazzo Chigi avrà vita breve.
DIO E’ SPIRITO, AMORE ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv. 4.8). SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO.
LA TRADIZIONALE "SCOLA" COSTANTINIANA DI BENEDETTO XVI: IL MAGISTERO DELL’INGANNARE IL PROSSIMO COME SE STESSO. Un’analisi di Giancarlo Zizola, con note
(...) Von Balthasar, era molto netto (...). Diceva che «al cristiano è vietato il ricorso ai mezzi d’azione specificamente mondani per un preteso incremento del regno di Dio in terra». Criticava l’integralismo di gruppi di «mammalucchi cristiani che aspirano a conquistare il mondo» (...)
PIANETA TERRA, CRISTIANESIMO, E DEMOCRAZIA "REALE": DIO E’ AMORE ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8). Per una Chiesa al di là della trinità "edipica" - di Mammona e di Mammasantissima ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)!!!!
LE DONNE DELLA MADRE CHIESA E DEL SANTO PADRE. Vergini, madri martiri o suore. Una nota di Natalia Aspesi
Che uomini e donne siano diversi lo sappiamo, e ne siamo contentissime; però dovrebbe essere scontato che abbiano gli stessi diritti (e doveri), ma in realtà non è ancora così, questo lo sappiamo, sulla nostra pelle (...)
L’Onu: metà del mondo non è per le donne. Il “gendercidio”: una strage silenziosa (di Francesca Paxi)
PER UNA UNITA’ D’ ITALIA "AD PERSONAM". L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): NASCE IL PARTITO DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ... E C’E’ ANCORA!!! VIVA IL PARTITO-NAZIONE: FORZA ITALIA, VIVA IL POPOLO DELLA LIBERTA’!!!
MA COME RAGIONANO "GROSSO" I GIURISTI!!! COSTITUZIONE, REGOLE DEL GIOCO, E FALLI A VOLONTA’!!! Intervista a Carlo Federico Grosso di Carla Fusani
UN PAESE CON "DUE PRESIDENTI"!!! BERLUSCONI CONTINUA A CANTARE LA "SUA" CANZONE. IL PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA", DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’", SONO IO: "FORZA ITALIA" ... E CONTINUA AD ATTENTARE ALLA VITA DELLE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE E REPUBBLICANE.
ABUSO ISTITUZIONALE DEL NOME "ITALIA" DA PARTE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO: DIMISSIONI SUBITO.
LA LINGUA E L’UNITA’ D’TALIA. L’Unità non ha cancellato la molteplicità linguistica, l’ha anzi rinsaldata in un vivido mosaico. Siamo diventati italiani senza rinnegare il passato, le tradizioni, le diversità.
L’ITALIA, 150 ANNI FA. Da noi per prima è venuta la lingua. Poi s’è fatta l’Italia. Una nota di Gian Luigi Beccaria
ORIENTAMENTO. «I maturandi portati al Divino Amore». Per scegliere l’università giusta tutti in processione al santuario. 5000 ragazzi al Divino Amore.Paga Gelmini
Giustizia, ma quale dialogo: dieci ragioni per dire no
di Furio Colombo (il Fatto, 13.03.2011)
“Gentile Furio Colombo,
sono una casalinga demoralizzata e incazzata, ma purtroppo del tutto impotente. Mi permetto un piccolo sfogo sulla sua pagina perché mi fa sentire un po’ meno sola di fronte all’attuale, allucinante situazione italiana. Ma come è possibile, mi chiedo, che a un presidente del Consiglio imputato in quattro processi sia offerta collaborazione per riformare ‘insieme’ la giustizia?
Curatola Gabriella”.
L’osservazione è semplice e netta e difficile da eliminare. Penso che rappresenti lo stato d’animo di tanti cittadini, che forse voteranno a sinistra e forse no e stanno col fiato sospeso per vedere se il brusio di favore alla grande riforma di Berlusconi, che comincia a sentirsi tra le file dell’opposizione e nelle dichiarazioni di alcuni con nome e ruolo di prima fila nel Pd, diventerà davvero un modo di partecipare alla grande riforma costituzionale della Giustizia italiana. Ovviamente, in tempo di elezioni, la grande riforma apparirà in testa alla lista dei successi del gruppo Berlusconi (inteso sia come partito sia come azienda) e tra le colpe non perdonabili dell’opposizione in generale e del Pd in particolare.
Bisogna ammettere che l’infiltrazione nelle file e nelle teste dei parlamentari e degli opinionisti di area Pd dell’idea, dopotutto, sulla giustizia si può collaborare, è avvenuta con cautela e bravura , cominciando dalle colonne del Riformista, dai suoi opinionisti di prima fila e dai suoi ex, molto stimati e molto invitati nella vetrine Tv come “rappresentanti della sinistra”. La trovata è stata di iniziare subito il dialogo, (ma anche la zuffa va bene, l’importante è partecipare al gioco) sulle singole parti, innovazioni, trovate e articoli del progetto di legge Berlusconi-Ghedini-Alfano. Qui l’importante è di impedire che si manchi di rispetto al grandioso evento che cambierà la vita italiana, e che tutti, anche gli avversari, prendano sul serio la prova di forza (e di vittoria) che sta per attraversare come una valanga non resistibile il Parlamento mercenario che oggi decide a nome della Repubblica italiana.
MERITA UNA riflessione la possibilità che i Radicali eletti nel Pd, alla Camera e al Senato, accettino di lavorare alla riforma della Giustizia secondo Berlusconi. Penso che sia un errore, che però è coerente con tutte le cose dette e fatte dal partito di Pannella e Bonino (condivise o no dai compagni di strada dei Radicali in tutti questi anni). Infatti i Radicali, che si battono da decenni per una loro riforma della Giustizia (molto prima del 1994, anno che l’uomo di Arcore indica come data di nascita del suo progetto) vedono Berlusconi accostarsi al loro percorso e non viceversa.
Io non accetterei monete da un falsario, persino se sembrano identiche a quelle vere, e credo che a un certo punto scatterà la ben nota intransigenza di quel gruppo politico, e ci sarà una netta rottura, come è accaduto in passato. O almeno lo spero.
Meno facile è mobilitare contro Berlusconi le piazze, le donne, la raccolta di firme, una platea vasta e diversa, come sono gli elettori e I cittadini vicini al Pd, per poi chiedergli all’improvviso di rassegnarsi a discutere di giustizia “insieme”, mentre cominciano, a uno a uno, i processi a carico del grande timoniere della giustizia italiana. E infine, eventualmente, tornare in piazza e poi mobilitarsi per votare contro.
Propongo dunque le dieci ragioni da offrire al Pd per non partecipare in alcun modo alla riforma della Giustizia Berlusconi-Ghedini-Alfano.
1) La riforma nasce come “punizione” e come “vendetta”, e come tale viene annunciata. Anzi è stata rilanciata di colpo dopo l’incriminazione del premier per l’affare Ruby (concussione e prostituzione minorile);
2) Le imputazioni contestate al capo del governo italiano sono troppo gravi, anche come simbolo e immagine del Paese nel mondo, per poter intrattenere una discussione “insieme” sui problemi della giustizia e dei giudici;
3) Berlusconi ha invocato come ragione fondante della sua riforma la vicenda di “Mani Pulite”, il maggior evento di lotta contro la corruzione in Italia. Con la sua nuova legge - promette - la lotta giudiziaria alla corruzione non potrà mai più verificarsi in Italia;
4) Berlusconi è stato coinvolto, in accertate vicende giudiziarie (alcune ancora in corso) nel reato di corruzione di giudici. In altre parole, ha pagato e comprato giudici. Il suo partito-azienda, i suoi avvocati-deputati e lui stesso non possono accostarsi all’argomento “giustizia” e “riforma della Giustizia”, senza suscitare, sospetto e discredito;
5) La maggioranza di cui Berlusconi dispone è una maggioranza in parte comprata. La mancanza di “vincolo di mandato”, indicato dalla Costituzione, non sana questo grave aspetto o sospetto di corruzione. Meno che mai in una legge che riforma vita e attività dei giudici;
6) Berlusconi, personal-mente e attraverso il suo Giornale, ha definito i giudici “un cancro”, “un gruppo eversivo”, una “associazione a delinquere”, una aggregazione di poveri matti. Ci si può associare?;
7) Nell’annunciare che la legge costituzionale di riforma della Giustizia era sul punto di essere presentata in Parlamento, Berlusconi ha detto, riferendosi alla sua “persecuzione: “Così questa storia indegna finirà per sempre”. In tal modo e intenzionalmente, ha voluto rendere chiara per tutti la natura della nuova legge costituzionale: non renderà mai più possibile l’incriminazione dei potenti;
8) È evidente, ripetuta e vistosa la intenzione del premier e dei suoi avvocati di sterilizzare uno dei tre poteri su cui si fonda lo Stato democratico, il potere giudiziario, dopo avere ottenuto il controllo del Parlamento attraverso una poderosa e sfacciata campagna acquisti, e avere stabilito un record di ore di presenza su tutte le reti televisive, di Stato e private, e mentre sono in corso attività finanziarie per alterare gli equilibri di potere in uno dei due maggiori quotidiani italiani ancora indipendenti;
9) Berlusconi ha bisogno di complici. L’Italia è oggetto di scrutinio attento da parte delle democrazie e dell’opinione pubblica democratica del mondo. Una legge che riformi drasticamente il sistema giudiziario italiano, sotto bandiera Berlusconi, sarebbe guardata, fuori dall’Italia, con il sospetto che merita. È indispensabile per lui e i suoi avvocati, avere ben più che i “responsabili” a tariffa che hanno abbandonato altri partiti per offrirgli reputazione, lealtà e voto. Ora occorrono complici che siano la prova della buona fede di questa avventura;
10) La legge di riforma costituzionale della Giustizia non può arrivare sul tavolo del capo dello Stato senza i nomi e le firme di almeno una parte della opposizione e, soprattutto, di una parte del Pd in funzione di garanzia notarile.
Ecco dove il Pd si presenta al Paese come una opposizione invalicabile oppure come il complice necessario di Berlusconi. La campagna elettorale che ci sarà subito dopo si decide qui.
L’avanzata dei responsabili tra paradosso e spudoratezza
di Ermanno Rea (la Repubblica, 7 marzo 2011)
Che in Italia la responsabilità sia una merce piuttosto rara è cosa nota: me lo insegnò già al ginnasio un originale professore di storia che mi diede da leggere una sintesi delle famose tesi di Lutero: impara, ragazzo, impara. Siamo uno strano paese, sempre in bilico tra paradosso e spudoratezza.
Oggi si autodefiniscono «responsabili» quei parlamentari, transfughi da varie formazioni politiche, che sono corsi a puntellare il traballante baraccone governativo. Naturalmente, dicono, in maniera del tutto disinteressata, animati da genuino amore per il premier calunniato, insomma senza alcuna ricompensa, in cambio di nulla.
Siamo sinceri: che gli onorevoli in questione affermino amenità simili, e si costituiscano ufficialmente in «gruppo dei responsabili», ci può anche stare: chi dirà mai che si è lasciato sedurre da qualche succosa promessa politica (per esempio dalla riconferma sicura del mandato parlamentare in caso di elezioni) o addirittura da un bel gruzzolo di contanti (mai lasciare tracce bancarie)? Allarmante invece è il fatto che il titolo di «responsabili», sempre meno velato d’ironia, sia riuscito ad affermarsi nel comune gergo televisivo e giornalistico, per cui Tizio e Caio, come che sia, sono dei «responsabili»; piaccia o no, incarnano una delle massime virtù civili e politiche e perciò sono esempi da imitare. Prendiamo Scilipoti. Nei telegiornali è decisamente un «responsabile». Lo stesso accade a Razzi e a Galearo: fanno parte dell’«area dei responsabili», insomma sono la quintessenza della «responsabilità», senza scherzi. La gente ascolta: qualcuno se la ride ma altri ci credono.
Ricordo lo splendido verso di J. Ramòn Jimenez: «Intelligenza, dammi il nome esatto delle cose». Fino a qualche tempo fa conoscevamo ancora il significato delle parole, almeno in parte. Poi, lentamente, esso è come evaporato, si è fatto via via più ambiguo, fino a inglobare il suo stesso contrario, equiparando per esempio «responsabilità» e «irresponsabilità», o per lo meno oscurando i loro confini agli occhi dei più.
Naturalmente la corruzione del linguaggio è soltanto la spia della corruzione generale. Accade anche fuori d’Italia? Forse. Non però in maniera così incisiva, così spudorata. Chi altri sa mentire come noi? Chi altri sa negare l’evidenza con altrettanto trasporto? Prendiamo Berlusconi. È un autentico maestro in questo campo. Alla maniera di un famoso personaggio femminile di Stendhal che, scoperta dall’amante attraverso il buco della serratura tra le braccia di un altro uomo, smentisce l’adulterio con delirante fatuità (ma come, voi credete più ai vostri occhi che alle mie parole?) egli pretende un credito assoluto, anzi cieco, quale che sia la balla che propina.
Si dirà: ma da dove saltano fuori simili personaggi? Possibile che siano soltanto frutti di stagione senza progeniture culturali? Senza precedenti storici? Forse è arrivato il momento che tutti noi italiani cominciamo a interrogarci più seriamente sul nostro passato e sulle nostre perverse eredità, scoprendo che cosa significa veramente la parola «responsabilità». E scoprendo anche che la propria coscienza - perfino quella di un politico corrotto - vale forse qualcosa di più di centocinquantamila euro che, a ben pensarci, è cifra alquanto modesta, soprattutto per chi, in quanto parlamentare, gode di un reddito più che rispettabile. Dio, che paese di straccioni perfino nella corruzione! Ma siamo caduti veramente così in basso?
Ecco “Indignatevi”
“93 anni. È un po’ l’ultima tappa. La fine non è troppo lontana. Che fortuna poterne approfittare per ricordare ciò che ha fatto da fondamento al mio impegno politico”. Comincia così “Indignatevi!”, scritto dal partigiano Stephane Hessel, diventato un caso editoriale in Francia, e adesso proposto in Italia da Add Editore
Pubblichiamo l’appendice: l’appello dei Resistenti alle giovani generazioni, firmato dallo stesso Hessel nel 2004.
di Stephane Hessel (il Fatto, 22.02.2011)
Dal momento che vediamo rimesso in discussione il fondamento delle conquiste sociali della Liberazione, noi, veterani dei movimenti di Resistenza e delle forze combattenti della Francia libera (1940-1945) ci appelliamo alle giovani generazioni perché mantengano in vita e tramandino l’eredità della Resistenza e i suoi ideali sempre attuali di democrazia ed economia, sociale e culturale. Sessant’anni più tardi il nazismo è sconfitto, grazie al sacrificio dei nostri fratelli e sorelle della Resistenza e delle Nazioni Unite contro la barbarie fascista. Ma questa minaccia non è del tutto scomparsa, e la nostra rabbia contro l’ingiustizia è rimasta intatta.
IN COSCIENZA, noi invitiamo a celebrare l’attualità della Resistenza non già beneficio di cause partigiane o strumentalizzate da qualche posta in gioco politica, bensì per proporre alle generazioni che ci succederanno di compiere tre gesti umanitari e profondamente politici nel vero senso del termine, perché la fiamma della Resistenza non si spenga mai:
Ci appelliamo innanzitutto agli educatori, ai movimenti sociali, alle collettività pubbliche, ai creatori, agli sfruttati, agli umiliati, affinché celebrino insieme a noi l’anniversario del programma del Consiglio Nazionale della Resistenza (Cnr) adottato in clandestinità il 15 marzo 1944: Sécurité sociale e pensioni generalizzate, controllo dei “gruppi di potere economico”, diritto alla cultura e all’educazione per tutti, stampa affrancata dal denaro e dalla corruzione, leggi sociali operaie e agricole ecc. Come può oggi mancare il denaro per salvaguardare e garantire nel tempo conquiste sociali, quando dalla Liberazione, periodo che ha visto l’Europa in ginocchio, la produzione di ricchezza è considerevolmente aumentata? I responsabili politici, economici, intellettuali e la società nel suo complesso non devono abdicare, né lasciarsi intimidire dall’attuale dittatura internazionale dei mercati finanziari che minaccia la pace e la democrazia.
Ci appelliamo quindi ai movimenti, ai partiti, alle associazioni, alle istituzioni e ai sindacati eredi della Resistenza affinché superino le poste in gioco settoriali, e lavorino innanzitutto sulle cause politiche delle ingiustizie e dei conflitti sociali, e non soltanto sulle loro conseguenze, per definire insieme un nuovo “Programma della Resistenza” per il nostro secolo, consapevoli che il fascismo continua a nutrirsi di razzismo, di intolleranza e di guerra, che a loro volta si nutrono delle ingiustizie sociali.
CI APPELLIAMO infine ai ragazzi, ai giovani, ai genitori, agli anziani e ai nonni, agli educatori, alle autorità pubbliche perché vi sia una vera e propria insurrezione pacifica contro i mass media, che ai nostri giovani come unico orizzonte propongono il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti. Non accettiamo che i principali media siano ormai nella morsa degli interessi privati, contrariamente a quanto stabilito dal programma del Consiglio Nazionale della Resistenza e dalle ordinanze sulla stampa del 1944. A quelli e quelle che faranno il secolo che inizia, diciamo con affetto: Creare è resistere. Resistere è creare.
DONNE, UOMINI, E COSTITUZIONE. Un’altra storia è possibile
13 FEBBRAIO 2011: ORA BASTA!
MANIFESTAZIONE DELLE DONNE E DELLE CITTADINE, PER LA LORO DIGNITA’ E PER UNA NUOVA ITALIA, AL DI LA’ DEL GOVERNO DEI "PAPI".
L’appello di "Se non ora QUANDO?" - e (a seguire) materiali sul tema
Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignita’ e diciamo agli uomini: se non ora, quando? e’ il tempo di dimostrare amicizia verso le donne.
Il PAESE BORDELLO! MA COME AVETE FATTO A RIDURVI COSI’!!! Una nota di Maurizio Viroli
(...) Siamo dunque riusciti a conquistarci presso l’opinione pubblica americana il poco invidiabile titolo di ‘stato bordello’ o ‘stato in cui governano le puttane’. Gli opinionisti diranno che la colpa è degli oppositori di Berlusconi che diffondono a piene mani stereotipi anti-italiani. La verità è che sono gli altri ad attribuirci immagini poco edificanti anche perché hanno occhi per vedere, e sanno ancora ragionare, un’arte ormai estinta in Italia (...)
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
Federico La Sala
ROMA - Il 17 marzo, festa del tricolore per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, sarà festa nazionale. Lo ha annunciato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta: «Penso che non si andrà a scuola né al lavoro. Ma sarà festa nazionale solo per il 2011, l’anno della ricorrenza», ha precisato.
Letta ha poi spiegato alcuni dettagli: «Il 2 giugno prossimo saranno invitati 26 capi stato europei, più quelli degli Stati Uniti e Russia, a cui si aggiungeranno quelli dei paesi in cui ci sono le comunità italiane più numerose, più radicate e più legate all’Italia. I capi di stato parteciperanno alla parata del 2 giugno caratterizzata sui 150 anni, poi, dopo la colazione al Quirinale, in Campidoglio daranno un saluto all’Italia».
Ancora il 17 marzo il presidente Napolitano si recherà non solo all’Altare della patria, ma anche al Pantheon, dove è sepolto re Vittorio Emanuele II che fu il primo Capo di Stato italiano. Ma, prevenendo ogni ulteriore quesito o polemica, Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni, ha precisato: «Questo non significa che altri successori potranno essere più o meno traslati nella stessa sede. L’Italia - ha sottolineato - fu fatta da Mazzini, Cavour, Garibaldi e da Vittorio Emanuele».
* Il Messaggero, Giovedì 20 Gennaio 2011 - 14:44 Ultimo aggiornamento: Venerdì 21 Gennaio - 14:54
ESPERIMENTO "ITALIA". L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): NASCE IL PARTITO DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" E C’E’ ANCORA! DUE PRESIDENTI di "ITALIA" GRIDANO: FORZA ITALIA!
(...) E’ arrivato il momento che anche Berlusconi, dopo quasi vent’anni, possa distinguere la sorte della sua fortuna di imprenditore, di politico, persino di uomo di grande successo mediatico e di sicurocarisma personale, da quella del suo Paese. Lui, nonostante una notevole considerazione di sé, non si può paragonare a Sansone e gli italiani non possono fare la fine dei filistei.
PRIVACY
di don Aldo Antonelli
"Quello che i cittadini di una libera democrazia fanno nelle mura domestiche riguarda solo loro. Questo è un principio valido per tutti, e deve valere per tutti. Anche per me"! Così ha sentenziato domenica scorsa, a telecamere accese e a coscienza spenta.
Cosicché, per questa analfabeta del diritto, per questo fattucchiero della morale casereccia, in casa si può anche stuprare la moglie e violentare i figli. In casa si possono ordire attentati e architettare colpi di stato. In casa si possono perpetrare assassini e qualsiasi ingerenza lederebbe l’unico sacro diritto del cittadino egotico: la "privacy"! Mi si accappona la pelle al pensare che lo stesso è colui che da sempre ha istituzionalizzato i suoi privati interessi, ha reso pubblici, promuovendoli onorevoli, i suoi personali e privati contabili, commercialisti, avvocati, estetisti, entreneuses, prosseneti e puttane.
Il popolo di lui ostaggio, galvanizzato dalle sue imprese, fa suo questo vangelo delle volgarità per cui l’uguaglianza dei cittadini equivale alla libertà di fare in casa quel che si vuole! Riducendo la casa, da luogo di convivenza affettiva, a vandea di scorribande per le proprie bulimie inesauste. Lui, il difensore della famiglia! Mi sembra che sia stato Piero Calamandrei a denunciare già da tempo questa inclinazione del popolo italiano alla "putrefazione morale, all’indifferenza, alla sistematica vigliaccheria".
Nel suo libretto "Pio XII Il Vicario di Hochhuth Luigi Villa cita queste parole di Indro Montanelli: "In Italia, la "Verità" si può dire solo se si è in tanti. Perché in Italia aver torto non è pericoloso. Basta averlo in coro, cioè insieme a tutti gli altri. I pericoli grossi li corre solo chi nel coro fa stecca, anche se la fa per dire una verità, che poi i fatti convalidano. La legge di questo Paese è quella del gregge. Tutto si può fare, sia l’errore che il riconoscimento dell’errore, purché tutti in sieme. Per l’isolato non c’è scampo. In ogni epoca e sotto qualunque regime egli è e rimarrà sempre il nemico (delle pecore) numero uno"!
Aldo
LUTTO
PER IL PAESE
UMILIATO da un premier immondo, affarista e licenzioso
SEQUESTRATO da un’economia corsara e forcaiola
IMBAVAGLIATO da una TV servile e cortigiana
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LUTTO PER UNA CHIESA
CONNIVENTE E CONCUBINA
MUTA E IMBAVAGLIATA
SENSALE E MERCENARIA
***
LUTTO
La prima intervista di mister B.
Alla vigilia della decisione della Consulta sul Legittimo impedimento, Ecco una chicca d’autore: l’incontro tra Camilla Cederna e il Cavaliere nel 1977. Dove c’è già tutto: dalle bugie alla corruzione, da don Verzé alla politica (l’Espresso, 11 gennaio 2011) *
Nel centenario della nascita di Camilla Cederna (21 gennaio 1911 - 5 novembre 1997) è in uscita per Rizzoli "Il mio Novecento", una raccolta della grande giornalista e scrittrice che per molti anni fu una prestigiosa firma de "L’espresso".
Tra gli articoli che compongono il volume ce n’è uno uscito sul nostro settimanale nell’aprile del 1977: un’intervista ritratto del giovane ed emergente imprenditore edile milanese Silvio Berlusconi. Come nota la stessa Cederna nel suo pezzo, è la prima intervista rilasciata da Berlusconi, che fino ad allora aveva deciso di tenere un profilo molto basso nei suoi rapporti con la stampa.
Il sito de "L’espresso" ripubblica qui di seguito l’articolo in questione, alla vigilia della decisione della Corte Costituzionale sul Legittimo impedimento. Come vedrete, nell’intervista-ritratto della Cederna c’era già quasi tutto di quello che sarebbe diventato, anni dopo, il fenomeno politico-mediatico Silvio Berlusconi.
Serve una città? Chiama il Berlusconi .
Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera. E la cartina falsa verrà distribuita ai piloti: così gli aerei cambiano rotte e non disturbano i residenti del complesso
di Camilla Cederna *
In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a Carlo Emilio Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi.
Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del Cinquecento, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano.
Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti» spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è contento di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia Legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione.
A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice «congesto», macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, «natura non facit saltus». Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e «chiamiamo il Berlusconi» dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completo com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso l’Utopia di Tommaso Moro (infatti, lo ’scrisse’.. leggi l’articolo seguente-solleviamoci), sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui.
Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base Dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuol dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori.
La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa diecimila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia.
Nel ’71 il Consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadrato nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e Dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio comunale di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il cinque-dieci per cento dei profitti (diciottodiciannove miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici Dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella.)
«Il silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio» era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio non c’è. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni novanta secondi decolla un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. (In quattro anni la Civilavia aveva già ordinato sei cambiamenti delle rotte degli apparecchi di Linate.) Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così la Civilavia cambia rotte, ancora una volta.
Quanto a don Verzé, ottiene in cinque giorni, con decreto firmato dal ministro della Sanità Gui, la sostituzione del suo istituto privato e ancora in disarmo in istituto di ricerca a carattere scientifico (un titolo onorifico che viene dato solo in casi eccezionali), con annessa possibilità di avere finanziamenti. Lo Stato manda subito seicento milioni, mentre un miliardo e mezzo sarebbe stato versato dalla Regione. Di qui una polemica con Rivolta finché, due settimane fa, l’ex prete è stato condannato a un anno e quattro mesi per tentativo di corruzione ai danni dell’assessore Rivolta; l’istituto è ora frequentato da studenti e medici dell’università che lamentano la mancanza di strutture e strumenti validi.
Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo «flessibile», cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il quindici per cento del «Giornale» di Montanelli).
«Troppi sono oggi i fattori ansiogeni,» dice «la mia sarà una tv ottimista.» Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e telecomunicazioni. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo.
Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo.
aprile 1977
fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-prima-intervista-di-mister-b/2142005
UN’OFFESA PROFONDA AL MESSAGGIO EVANGELICO E AL MESSAGGIO COSTITUZIONALE. AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est": 2006) E AL GOVERNO DELL’ **ITALIA** UN PRESIDENTE DI UN PARTITO (che si camuffa da "Presidente della Repubblica") e canta "Forza Italia", con il suo "Popolo della libertà" (1994-2010)
NATALE IN VATICANO, SOTTO IL SEGNO DELLE LENTICCHIE: LA CHIESA DI ESAU’. Un testo di Piero Stefani
(...) Il nostro è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ma la nostra Chiesa appare sempre di più quella di Esaù. Il paradosso è che è divenuta tale proprio mentre dichiara di voler conservare e difendere i preziosi valori del passato (...)
NEL NOME DI DIO "MAMMONA" (DEL "DEUS CARITAS"), IL "PAPA" E L’"IMPERATORE" SI PUNTELLANO A VICENDA: "FORZA ITALIA"! Un resoconto di Giacomo Galeazzi e uno di Marco Politi.
(...) BATTUTE A PARTE, resta la preferenza della Segreteria di Stato per l’uomo di Arcore. È questo il nodo del ruolo negativo che la Chiesa-istituzione sta giocando nella più grave crisi attraversata dal Paese negli ultimi decenni. Nulla smuove la gerarchia vaticana dalla sua posizione filoberlusconiana perinde ac cadaver (...)
CHE MISERIA!!! IL POPOLO D’ITALIA, IL POPOLO DELLA LIBERTA’, IPNOTIZZATO, GIORGIO NAPOLITANO CHE GRIDA "FORZA ITALIA", E SILVIO BERLUSCONI CHE RIDE E RIDE A CREPAPELLE!!!
Sulle piste di sabbia. Folate di vento negli occhi e nei capelli. Ovvero la paura della libertà
di Angelo Casati ("mosaico di pace”, ottobre 2010)
Sento rinascermi in cuore di tanto in tanto e ancora non è spenta - eppure di anni se ne sono srotolati da allora, più di dieci - la nostalgia di un’estate in Giordania, nostalgia delle piste di sabbia del deserto. Piste infinite, inafferrabili, a smarrimento di occhi e folate di vento. Negli occhi e nei capelli. E fu desiderio una sera di fissare in righe quella straniante emozione, con gli occhi che già andavano ai giorni futuri:
Sulle piste di sabbia.
E mi sveglierò
su strade grigie
e griderò inascoltato
l’assenza.
Orfano
della magia del deserto
delle sabbie rosate
delle rocce
ubriache di colore.
E sognerò
folate di vento
di libertà
e sabbia nei capelli
spazi senza recinti
e l’eco dopo millenni
di messaggi segreti i-ncisi da beduini
su rocce di basalto.
A segnalare
ai nomadi del futuro
piste segrete
d’indipendenza
nell’infuocato deserto.
Nostalgia di spazi e di libertà, che si fa ferita per restrizione, ora che le case, come fossero picchetti, fanno barriera da un lato e dall’altro della strada e negano sconfinamento alla sete degli occhi, cancellando l’oltre, impoverendo visioni. Mi odo camminare nel segno della restrizione e del contenimento. Quasi fosse scritto divieto, divieto a una sete che chiamo sete di libertà.
tra menzogna e verità
E sento, soffro sulla pelle a incisione la ferita della menzogna, la menzogna circa la libertà. Soffro lo svilimento, l’estenuazione, la sconsacrazione di una parola che è sacra, fatta oggetto di prostituzione. Scrivono libertà su ogni dove, perfino sul nome dei partiti, antichi e nuovi, proprio là dove è trasalimento di paura a ogni sussulto pur minimo di indipendenza, là dove è in sospetto il libero pensare e il libero comunicare.
C’è dunque nelle stanze alte del potere, anche se non confessata, una paura della libertà. Che non è solo di oggi. Chi di noi ha più anni sulle spalle ricorda come non raramente si giustificasse l’imposizione di regole dall’alto o una cieca obbedienza con il fatto che il popolo, la gente semplice - si diceva - è lontana dall’essere matura e dunque va indirizzata. Conseguenza fu la crescita di uomini e donne dipendenti, che pensavano di essere virtuosi, affidando la navigazione della coscienza e dell’intelligenza ad altri. La libertà fa paura a chi sogna un potere assoluto.
Meglio avere vassalli obbedienti, accoliti del nulla, esecutori plaudenti, meglio una massa pilotabile e acclamante che un popolo maturo di pensanti e resistenti. E, confessiamolo, non sempre abbiamo avuto e abbiamo occhi e vigilanza per questo esproprio strisciante della libertà. Le lusinghe del potere sono altamente seduttive. A tal punto la loro fascinazione che a volte neppure ci si accorge che per un pugno di vantaggi si è sul punto di vendere la libertà. Con esiti di raccapriccio, perché un popolo della dipendenza non può che prefigurare panorami di disgusto.
Non è forse vero che nei giorni di fame, di sete, di stanchezza nel deserto era accaduto agli israeliti, sfuggiti al giogo del faraone, di rimpiangere le pentole della carne e le cipolle d’Egitto? Come se vendere la libertà non costituisse baratto di cecità e di mostruosa insipienza.
La lusinga accompagnò nei secoli futuri il popolo di Dio, che si illuse, succede anche oggi, che rimedio ai problemi cruciali del tempo fosse l’entrata in scena dell’uomo forte, l’uomo della provvidenza. Così gli israeliti pretesero da Dio un re. Ma non erano forse usciti i loro padri dall’Egitto, per sfuggire a una sottomissione? Alla sottomissione a un re, il faraone, che si era fatto come Dio, Dio in terra?
Ebbene Dio rispettò la decisione, ma attraverso le parole del vecchio Samuele mostrò quali sarebbero stati i costi di questa scelta, svelando ciò che sarebbe avvenuto in futuro.
Il futuro della concentrazione del potere in uno solo sarebbe stato l’abuso e lo sfruttamento. Li mise sull’avviso: il re, il capo assoluto, avrebbe preso i loro figli per l’esercito; avrebbe preso le loro figlie per il suo harem; avrebbe preso i loro campi, le loro vigne, i loro oliveti più belli, e li avrebbe dati ai suoi ministri, avrebbe preso mano d’opera e bestiame, li avrebbe adoperati per i lavori in casa sua e dei suoi cortigiani.
Sembra di leggere una pagina dei nostri tempi, una descrizione impietosa dei meccanismi e degli esiti di un potere che si arroga il diritto di essere assoluto, assoluto e insindacabile, e piega tutto e tutti ai suoi interessi. La Bibbia conosce questa facile perversione del potere, ed è estremamente critica. La lusinga, dobbiamo riconoscerlo, accompagnò e ancora oggi accompagna, il popolo dei credenti.
Voci di Padri antichi, voci di vigilanti, già nei primi secoli, mettevano in guardia dall’esproprio strisciante e sottile della libertà ad opera di atei devoti. Una delle voci lucide, quella di Ilario di Poitiers, scriveva:
"Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga: non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni per la vita ma ci arricchisce per la morte; non ci sospinge col carcere verso la libertà ma ci riempie di incarichi nella sua reggia per la servitù: non spossa i nostri fianchi ma si impadronisce del cuore; non taglia la testacon la spada ma uccide l’anima con il denaro; non minaccia di bruciare pubblicamente, ma accende la geenna privatamente. Non combatte per non essere vinto, ma lusinga per dominare; confessa il Cristo per rinnegarlo; favorisce l’unità per impedire la pace; reprime le eresie per sopprimere i cristiani; carica di onori i sacerdoti [...] costruisce le chiese per distruggere la fede. Ti porta in giro a parole, con la bocca [...]".
Così Ilario di Poitiers, grande padre della Chiesa. Parole che ci chiamano con forza alla vigilanza, non solo fuori ma anche dentro le Chiese. Non è forse vero che troppo disinvoltamente e presuntuosamente ci definiamo donne e uomini liberi? Ricordate quel gruppo di dirigenti Giudei che a Gesù obiettano: "Come puoi dire: sarete liberi? Noi non siamo schiavi di nessuno".
Anni fa mi capitò di leggere, tra gli aforismi di Luigi Erba, uno che registrava con sottile disincanto la situazione della nostra libertà, scriveva: "Si parla di società permissiva e si inventa un’illusione. In realtà si vive in una selva di divieti e di costrizioni. Molte libertà si conquistano solo con i privilegi e i privilegi si ottengono con la violenza. I privilegi sono di pochi potenti e, a discendere, dei loro portatori d’acqua con le orecchie. Un gran numero di formiche, lavorano per pochi e le poche cicale pretendono che le formiche cantino per intrattenerle". Un pessimismo forse in eccesso, ma non totalmente ingiustificato.
Può succedere purtroppo che perfino all’interno degli spazi ecclesiali a volte la sensazione sia di vivere in un regime di libertà vigilata. Succede quando la libertà viene evocata più per mettere in guardia dalle sue possibili derive che per annunciarne la bellezza e la forza, bellezza e forza di un messaggio che trascina, fa alzare il capo e sprigiona vento di insurrezione, di indipendenza dai mille faraoni che pretendono sudditi devoti. Ci accomuna una vocazione, quella ad essere donne e uomini liberi. Sì, una vocazione. Di tutti. Come dirà Paolo nella lettera ai Galati: "Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà" (Gal 5,13).E ancora: "Cristo ci ha liberati per una vita di libertà" (Gal 5,1).
e la nostra immagine?
Mi chiedo se quando entriamo negli spazi del vivere quotidiano, nel confronto con le donne e gli uomini del nostro tempo, l’immagine che diamo sia quella della libertà dello Spirito o quella di coloro che sono preoccupati di porre paletti o di disegnare recinti. Diamo una notizia buona?
Mi suonano lontane, quanto lontane, le parole che Paolo VI - e volevano essere parole profetiche - pronunciò in un’udienza generale, il 9 luglio 19 69 . Diceva: -"Il nostro tempo di cui il Concilio si fa interprete e guida, reclama libertà. Avremo un periodo nella vita della Chiesa, perciò nella vita di ogni figlio della Chiesa, di maggiore libertà, cioè di minori obbligazioni legali e minori inibizioni interiori. Sarà ridotta la disciplina formale, abolita ogni arbitraria intolleranza, ogni assolutismo, sarà semplificata la legge positiva, temperato l’esercizio dell’autorità, sarà promosso il senso di quella libertà cristiana che tanto interessò la prima generazione cristiana, quando si seppe esonerata dalla legge mosaica e dalle sue complicate prescrizioni rituali".
Commentava Enzo Bianchi: "Sono parole di un Papa, del Papa che ha chiuso il Concilio. Oggi ci paiono distanti e quasi non più ripetibili senza destare sospetti, nella nuova situazione ecclesiale che si è delineata. Sono parole di cui occorre fare memoria". Da fissare a memoria con le parole di Paolo: "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù" (Gal 5 ,1). Da niente e da nessuno. E sia vento di libertà sui nostri volti smunti
Un paese in ginocchio
di Moni Ovadia (l’Unità, 25.09.2010)
L’immagine dell’Italia trasmessa dai media, per una persona per bene di buon senso, è raccapricciante. Lo squallore della sua politica ha sfondato ogni soglia della decenza. Il governo si da con maniacale accanimento alla distruzione delle fondamenta dello stato democratico con lo strumento della demagogia populista più vieta, dell’intorbidamento delle acque per cancellare le differenze fra il giusto e l’ingiusto, fra la legalità e il crimine.
Con questa tecnica antica e oscena vengono demoliti a colpi di mazza i pilastri dell’intera società: i principi costituzionali, la scuola pubblica, la cultura, i fondamenti morali, i diritti civili e i diritti sociali. L’opposizione parlamentare, con rare eccezioni, sembra - anche ad ad un osservatore non particolarmente smaliziato - assistere allo scempio pavida, divisa, balbettante, capziosa, arrogante e stonata. È difficile non pensare che l’unica sua cura sia la propria autoconservazione.
Quanto alla «sinistra fuori dal parlamento» si è virtualizzata. Se non fosse per la coraggiosa Fiom, per un leader carismatico capace di guardare il futuro e per qualche sparuta testa pensante potrebbe bene figurare in un film di Moretti come associazione di reduci.
Spero con tutto il cuore di essere una cattiva Cassandra ma, sulla soglia dell’età della pensione, non riesco ad impedirmi di pensare che si tratti della bancarotta di quasi un’intera classe dirigente che ha sacrificato il benessere di un paese ai piedi di un grottesco omino, aspirante sovrano, truccato come un clown sinistro e sull’altare del cinismo e del conformismo. In questo sfacelo riesco a trarre conforto da quelle donne e quegli uomini dell’Italia reale che continuano a vivere, a lavorare e a lottare secondo i principi della dignità e della giustizia. Grazie a loro sento che essere italiano non è solo una iattura.
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Lottare per il futuro
Noi studenti vogliamo la scuola pubblica
di Sofia Sabatino (l’Unità, 09.09.2010)
Questo governo sta letteralmente distruggendo la scuola pubblica. L’attacco che si sta mettendo in campo non ha precedenti nella storia del nostro paese. Stanno, senza troppi convenevoli, smantellando ogni tassellino che con sforzi disumani, era stato messo in piedi da docenti, studenti e genitori che amano e difendono la scuola pubblica. La cosa peggiore che questo sfacelo viene attutito e celato da una fortissima campagna mediatica che la Gelmini, e questo governo in generale, hanno messo in campo. Il taglio di 8 miliardi di euro in 3 anni approvato dalla scorsa finanziaria, dovrebbe terribilmente stonare con l’idea di scuola che dice di portare avanti il nostro ministro: una scuola “meritocratica”, dove finalmente si sono abbandonati i buonismi del ‘68 e che predilige prima di tutto la qualità. Invece ci troviamo davanti ad una gigantesca psicosi fra la realtà che il nostro ministro descrive, e quello che ogni giorno si palesa davanti ai nostri occhi: una scuola pubblica che non è più pubblica, privata di tutto, che non ha neanche la possibilità di svolgere le sue funzioni ordinarie, figuriamoci la funzione di emancipazione sociale e azzeramento delle differenze fra gli individui.
Noi studenti ci chiediamo come faremo tra poche settimane a rientrare a scuola, con i nostri insegnanti, che fino all’anno scorso erano seduti nelle nostre aule, in presidi ̆ ̆permanenti e scioperi della fame, con delle scuole a cui sono stati azzerati tutti i fondi, nel caos più totale degli indirizzi e delle sperimentazioni scomparse, con meno ore ma gli stessi programmi e le stesse materie, senza laboratori, con costi esorbitanti a carico di noi studenti e delle nostre famiglie, con edifici fatiscenti su cui anche quest’anno non è stato speso un euro.
Si sta mettendo in atto una vera e propria svendita della scuola pubblica, che nonostante rimanga pubblica di facciata, nella sostanza viene depauperata, esautorata dalle sue funzioni. Siamo ritornati in un’Italia che speravamo aver abbandonato per sempre dopo tante lotte, un’Italia in cui l’abbandono scolastico cresce perché mandare un figlio a scuola costa troppo, in cui si lascia la scuola perché non ci si può permettere di recuperare tre insufficienze, in cui a parità di costi, il servizio privato (soprattutto le scuole private per cui fioccano finanziamenti statali) è sicuramente più funzionale di quello pubblico e allora ecco che il pubblico anche se rimane pubblico si svuota di significato. È per questo che dal primo giorno di scuola noi studenti della Rete degli studenti partiremo con delle azioni di protesta che proseguiranno per tutto l’anno scolastico, con una grande mobilitazione studentesca nel mese di ottobre e con la data del 17 novembre, giornata mondiale dei diritti degli studenti.
Ci hanno tolto la patria, ecco quello che Berlusconi e i suoi servi hanno fatto. È questa l’ accusa che
l’opposizione dovrebbe mettere al centro della sua lotta, se vuole vincere e soprattutto se vuole fare
vincere l’Italia.
di Maurizio Viroli (il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2010)
IN QUESTI GIORNI vicini all’8 settembre viene naturale pensare alla morte della patria o all’Italia che manca, per ripetere il titolo del festival Lector in fabula che si apre oggi a Conversano. Di morte della patria parlò per primo, credo, Salvatore Satta, nel De profundis (1948), e ne ha trattato Ernesto Galli della Loggia nel suo libro del 1996. La tesi di Galli della Loggia è nota: con la firma dell’armistizio, si verificò in Italia il crollo completo non solo dello Stato, con la fuga del re e della corte e la disgregazione dell’esercito lasciato in balia degli ex alleati tedeschi diventati nemici, ma anche il dissolversi del sentimento di solidarietà nazionale e del senso del dovere verso il bene comune. Né la Resistenza, per il suo debole carattere di autentico movimento di liberazione nazionale, né la Repubblica, per il troppo ambiguo sentimento di lealtà nazionale della sua élite politica (compreso il Partito Comunista) riuscirono poi a far rinascere e radicare nella mentalità degli italiani un nuovo amor di patria.
A mio giudizio la tesi della morte della patria è un’interpretazione parziale degli avvenimenti che segnarono la storia italiana negli anni successivi all’8 settembre e durante i primi decenni della Repubblica. Anziché di morte della patria è a mio avviso storicamente più corretto parlare di morte e di rinascita della patria, o, meglio la morte di una patria, quella del fascismo e della monarchia, e la nascita di una nuova patria, quella della Repubblica e della Costituzione.
Lo provano documenti e testimonianze di notevole peso. Nell’agosto del 1943 Piero Calamandrei scriveva: “Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere senza retorica in questa frase: Si è ritrovata la patria”. Ancora più eloquente è una pagina di Natalia Ginzburg: “Le parole patria e Italia, che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché accompagnate dall’aggettivo fascista, perché gonfie di vuoto, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D’un tratto alle nostre orecchie risultarono vere”.
LO PROVANO DEI FATTI troppo importanti per essere trascurati come il rifiuto di tanti soldati italiani di entrare nelle truppe della repubblica di Salò in nome di un sentimento di patria faticosamente ritrovato negli orrori della guerra a fianco dell’alleato tedesco. Ma che un sentimento nuovo di patria, fondato su principi di libertà era rinato lo prova la Costituente. Basti citare le parole con cui il relatore presentò all’Assemblea l’articolo che afferma che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Egli disse infatti che la Patria, “non è più la matrigna che il fascismo aveva tentato di creare, ma è la madre generosa che accetta ed accoglie tutti i suoi figli con identico animo. (Applausi)”. È vero che durante i primi decenni della nostra storia repubblicana il sentimento di patria di offuscò e visse confinato in ambiti ristretti dell’élite politica e del popolo.
Ma non morì affatto la lealtà costituzionale. Grazie ad essa la Repubblica ha vinto sfide tremende. La lealtà alla Costituzione è il cuore del sentimento di patria. Non è tuttavia tutto, perché patria vuol dire anche amore del bene comune, vuol dire, in Italia, antifascismo, vuol dire Risorgimento, vuol dire memorie di uomini e donne che hanno dato l’esempio, vuol dire cultura, vuol dire speranze e fini comuni come popolo.
ORBENE, BERLUSCONI e i suoi hanno distrutto con ferocia metodica tutto ciò che è patria, sia detto senza retorica, con tristezza. Hanno offeso in tutti i modi la Costituzione; hanno dimostrato tante volte di preferire il loro interesse al bene pubblico, a tal segno da essere pronti a devastare la legalità per sottrarsi alle leggi; hanno deriso l’antifascismo e favorito la nascita dell’antiantifascismo, sentimento quanto mai pericoloso e moralmente detestabile; hanno distrutto le nostre memorie: quando ne hanno parlato perché non erano in grado di farlo, e quando hanno taciuto per ignoranza o per disprezzo; hanno avvilito ogni forma di cultura seria per sostituirla con il trionfo della banalità e della volgarità; hanno disseccato nell’animo degli italiani, con le loro azioni e le loro parole, ogni speranza collettiva. La storia insegna: non c’è mai stata in Italia una rinascita civile senza o contro l’idea di patria. Oggi, per ritrovare la patria, bisogna liberarci di Berlusconi e della sua corte.
Cari amici di Mondadori preferisco la giustizia
di Vito Mancuso (la Repubblica, 03.09.2010)
Giornali, radio, siti, tv, non vi è stato mezzo di comunicazione che non abbia ripreso e alimentato il dibattito sviluppatosi in seguito al mio articolo del 21 agosto «Io autore Mondadori e lo scandalo ad aziendam». Naturalmente ognuno ha detto la sua, sia in merito alla questione in sé sia a me che l’avevo sollevata, facendomi provare l’ebbrezza di un viaggio sulle montagne russe della psiche col passare da coscienza profetica a povero ingenuo, da eroe coraggioso a ipocrita opportunista.
Su quest’ultimo aspetto non ho nulla da replicare, registro solo lo spettacolo di individui così incapaci di prescindere dall’ego e concentrarsi sulle cose in sé da risultare impossibilitati a concepire che qualcuno faccia qualcosa senza volerci guadagnare. Molto più interessante è la dimensione oggettiva della questione, che ritengo di poter riassumere come segue.
1. Esistenza del problema: il problema da me sollevato esiste, non è per nulla nuovo perché risale al 1993 cioè a quando il proprietario della Mondadori entrò in politica, e spesso riaffiora come i sintomi di una malattia non curata. Persino i giornali e le tv (Tg1) che ne hanno sostenuto l’inesistenza in realtà col loro zelo hanno confermato che esiste, perché non si dedicano pagine e minuti preziosi a un falso problema. Si fa così solo con un problema vero di cui si vuole sostenere capziosamente la falsità.
2. Essenza del problema: nella sua specificità il problema consiste in quell’immenso agglomerato di potere che (caso unico in occidente) fa capo all’attuale premier e che genera il nodo da tutti conosciuto come «conflitto di interessi». Se il Gruppo Mondadori non fosse «sua» proprietà, la discutibile legge ad aziendam voluta dal «suo» governo rientrerebbe al massimo nelle normali pressioni che le singole lobby esercitano in ogni democrazia di libero mercato. Purtroppo però la proprietà del Gruppo Mondadori e la guida del governo coincidono, il che conduce chi riflette in modo disinteressato a non poter evitare di associare la legge di cui ha beneficiato il «suo» gruppo editoriale (pagando solo 8,6 milioni invece di 350) alle altre leggi ad personam finora volute dal «suo» governo, compresa la legge-bavaglio contro la libertà di stampa e il progetto di legge sul processo breve.
3. Prospettive di soluzione del problema: Eugenio Scalfari (le cui parole affettuose ricambio con gratitudine) affermava in risposta al mio articolo che il problema «si combatte politicamente». È vero, ma mi permetto di replicare che la politica, come l’essere secondo Aristotele, «si dice in molti modi», non tutti riservati ai politici di professione. Uno di questi modi è la pubblicazione che, come dice la stessa parola, è un gesto pubblico, spesso non privo di risvolti politici e mai privo di risvolti economici, soprattutto per autori da primi posti della classifica vendite. In questa prospettiva io chiedo due cose:
A) l’autore ha il dovere di verificare la correttezza etica (e non solo giuridica) del proprio editore?
B) l’autore ha il dovere di chiedersi quali investimenti sostiene con il profitto da lui generato?
A entrambe le domande si può rispondere di no, che un tale dovere dell’autore non c’è, sostenendo da un lato che l’autore si deve preoccupare solo della libertà di esprimere le proprie idee, del prestigio del catalogo, della professionalità dei funzionari editoriali e basta, e dall’altro lato che ciò che conta per lui è unicamente la capacità di promozione, distribuzione e vendita dell’editrice alla quale affida il suo testo.
Molti degli autori del Gruppo Mondadori intervenuti a seguito del mio articolo hanno sostenuto in parte o per intero queste prospettive, compresi Eugenio Scalfari, Corrado Augias e Adriano Prosperi.
Mentre nessuno si è posto la domanda B, nella risposta alla domanda A Scalfari ha distinto gli attuali dirigenti che guidano l’Einaudi dalla proprietà da cui i medesimi dirigenti dipendono, Augias ha dichiarato che il suo rapporto con la Mondadori «non è con una marca ma con uomini», Prosperi è stato il più duro giungendo a negare la stessa pertinenza del problema: «Mettersi ad aprire una discussione in termini moral-editoriali lascia il tempo che trova».
Io non sono d’accordo. Io penso che discutere pubblicamente delle pubblicazioni sia qualcosa di molto utile se non un dovere, e penso che alle due domande poste sopra si debba rispondere con un netto sì: l’autore ha il dovere di vagliare la correttezza etica della sua editrice (e del Gruppo al quale essa fa capo) e si deve chiedere a quali investimenti contribuisce con il profitto generato dalle vendite delle sue opere. Naturalmente mi posso sbagliare, posso essere ingenuo e mancare di realismo, ma questo è il mio pensiero. Il quale ritengo valga soprattutto per quegli autori che scrivono di etica, di politica, di filosofia e che sono giunti grazie al valore del proprio lavoro a vedersi riconosciuto il ruolo pubblico di «intellettuali», svolgendo così un compito abbastanza delicato verso la società.
Penso sarebbe auspicabile che tutti gli autori fossero attivi nel cercare di arginare l’immenso conflitto di interessi del quale da quasi un ventennio tutti noi italiani (di destra, di centro, di sinistra non importa) siamo prigionieri, ma so bene che non tutti possono sempre permettersi questa battaglia, perché esprimere pubblicamente il proprio pensiero è un privilegio abbastanza raro.
Primum vivere deinde philosophari, questa antica massima di saggezza vale per tutti, nessuno è chiamato a fare l’eroe. Per quanto mi riguarda poter esprimere liberamente il mio pensiero coincide con la possibilità di «combattere la buona battaglia», per riprendere la celebre espressione di san Paolo.
Naturalmente non condanno nessuno né chiamo nessuno a crociate, mi permetto solo di dire che provo ammirazione per tutti quegli intellettuali che, potendo permetterselo, evitano di contribuire con i proventi delle loro opere a finanziare quel conflitto di interessi che è «la madre di tutti i problemi». Sono consapevole altresì che ognuno si sceglie le battaglie ideali come meglio crede e io non intendo insegnare nulla a nessuno, tanto meno alle insigni personalità che in questo articolo ho chiamato in causa, cerco solo di dare il mio contributo perché l’Italia possa un giorno non essere più il paese dei furbi.
Quando avrò concluso il volume per il quale ho un contratto in essere con la Mondadori tirerò le logiche conseguenze di tutto questo ragionamento, come lo stesso farò per un piccolo saggio che avrei dovuto consegnare entro dicembre all’Einaudi per un volume a più autori a cura di Gustavo Zagrebelsky. Ai cari amici che ho in Mondadori ai quali mi legano stima e affetti incancellabili ho scritto ieri: «... magis amica iustitia».
Come vivere senza Berlusconi?
di Philippe Ridet (Le Monde, 7 settembre 2010 - traduzione: www.finesettimana.org)
Si deve ad un teologo discreto una delle cose più vivaci dell’estate italiana. Approfittando di una - molto - breve pausa sul fronte delle polemiche politiche, Vito Mancuso si poneva un grave problema tramite una lettera aperta al quotidiano la Repubblica del 21 agosto: poteva continuare a pubblicare, “in pace con la coscienza” i suoi libri da Mondadori, mentre a questa casa editrice, controllata da Mediaset - il settore dei Media della holding finanziaria della famiglia Berlusconi (Fininvest) -, veniva consentito un ristorno fiscale di svariate centinaia di milioni di euro? La sua risposta è no.
Bisogna riconoscere che questa presa di posizione, piuttosto rara, e questa denuncia di un ennesimo conflitto di interessi non ha scombussolato nessuno più di tanto. Gli scrittori e gli intellettuali sollecitati dalla stampa a reagire non si sono precipitati ad esprimere la loro solidarietà ad un uomo che ormai si rifiuta che il proprio lavoro possa, in qualsiasi modo, arricchire Berlusconi. Al contrario, non sono mancate le riserve, né i sarcasmi. Perché una presa di coscienza così tardiva? gli si è rimproverato, sospettandolo di avere orchestrato una campagna pubblicitaria. Perché tanta ingenuità? gli hanno detto altri, per i quali questa battaglia individuale è persa in partenza. Dal 1994, data della presa di controllo di Mondadori e della vecchia casa editrice torinese Einaudi da parte della Fininvest (per mezzo di un giudice la cui corruzione è stata accertata in seguito) nessuno ignora chi sia il proprietario di queste aziende. Questo non vuol dire tuttavia che gli autori pubblicati dalle case editrici del presidente del Consiglio non si siano posti il problema.
Roberto Saviano, l’autore del best-seller Gomorra, si è posto la questione della propria fedeltà alla Mondadori, quando, in primavera, Berlusconi aveva accusato gli scrittori che trattavano di “Mafia” di “rovinare l’immagine del paese”. Rassicurato da una lettera del presidente della Mondadori, Marina Berlusconi, figlia del Cavaliere, Saviano aveva messo a tacere i propri dubbi.
Ad oggi, quattro autori delle case editrici controllate da Mediaset - tra cui il Premio Nobel della letteratura del 1998 José Saramago (morto a giugno) - si sono visti rifiutare un libro a causa del contenuto ritenuto troppo ingiurioso nel confronti dell’azionista di maggioranza. Vuol dire forse che gli scrittori pubblicati da Mondadori o Einaudi hanno perso ogni capacità di indignazione, preferendo venire a patti col nemico per assicurarsi delle buone vendite?
In verità, è piuttosto un diffuso senso di stanchezza quello che si potrebbe notare. Stanchezza di fronte ad un dibattito continuamente rilanciato a partire dalla prima apparizione di Silvio Berlusconi al potere. Stanchezza all’idea di affrontare questo problema ricorrente: si può boicottare Berlusconi, vivere senza Berlusconi? Bisogna dire che l’impresa non è semplice. Se è facile denunciare l’onnipresenza del suo impero nell’economia italiana, è più difficile farne a meno. Prendiamo il caso di un antiberlusconiano duro e puro, che per nulla al mondo vorrebbe contribuire all’arricchimento del Cavaliere. Chiamiamolo signor Rossi. Per la televisone è abbastanza semplice, il signor Rossi dovrà evitare i tre canali del “Cavaliere” (Canale 5, Italia 1, Rete 4). Il sacrificio non è particolarmente costoso vista la mediocrità dei programmi. Tuttavia dovrà usare con parsimonia i canali della TV pubblica: il capo del governo ha nominato la maggior parte dei dirigenti.
Al cinema il signor Rossi non andrà a vedere i film prodotti da Mediaset o distribuiti da Medusa. Per la stampa eviterà il Giornale, di proprietà del fratello di Silvio Berlusconi. Il signor Rossi rinuncerà ugualmente al settimanale Panorama, come pure ad una quarantina di riviste.
Andando oltre, le cose si complicano. Occorrerà al signor Rossi l’attenzione puntigliosa del vegetariano alla ricerca dei grassi animali. La Finivest possiede infatti partecipazioni in due società italiane, la banca Unicredit e l’assicurazione Generali, che sono tra i maggiori investitori italiani. Con un effetto a cascata, queste partecipazioni piazzano la Fininvest al centro dell’economia e dell’industria del paese. Qualche esempio: se il signor Rossi deve cambiare i pneumatici dell’automobile o il materasso, dovrà rinunciare a Pirelli. Per un conto in banca eviterà Intesa San Paolo, la più grande banca italiana. Se prende l’autostrada, deve evitare la Milano-Torino. Tifoso di calcio, eviterà gli incontri del Milan, di cui Berlusconi è proprietario e presidente. Si vede da questo che la vita senza Berlusconi non è cosa agevole in Italia.
Vito Mancuso è comunque deciso a tentare la sorte. Venerdì 3 settembre, in un nuovo scritto su la Repubblica, ha rinnovato la sfida chiamando gli scrittori di Mondadori e Einaudi a “liberarsi da questo conflitto di interessi nel quale sono tutti prigionieri”. Ma aggiunge: “so bene che non tutti possono sempre permettersi questa battaglia, perché esprimere pubblicamente il proprio pensiero è un privilegio abbastanza raro. Primum vivere deinde philosophari, questa antica massima di saggezza vale per tutti, nessuno è chiamato a fare l’eroe”. Il signor Rossi ne sa qualcosa.
MA QUANDO?
di don Aldo Antonelli
Quando vediamo la luce?
Un vecchio rabbino domandò una volta ai suoi allievi da che cosa si potesse riconoscere il momento preciso in cui finiva la notte e cominciava il giorno.
"Forse quando si può distinguere con facilità un cane da una pecora?".
"No" disse il rabbino.
"Quando si distingue un albero di datteri da un albero di fichi?".
"No" disse il rabbino.
"Ma quando allora?" domandarono gli allievi.
Il rabbino rispose:
"È quando, guardando il volto di una persona qualunque, tu riconosci il fratello o la sorella. Fino a quel punto, è ancora notte nel tuo cuore".
Finisca la notte. E inizi il giorno.
Aldo
Vaticano, "chiuso per restauro"
di Paolo Izzo *
Cara “Liberazione”,
se un giorno si trovano le ossa di una donna nei loro lucernai, dove la luce non entra e nessuna chiarezza è possibile. Se un altro giorno si scopre che l’obbligo della loro astinenz riguarda soltanto i rapporti con l’altro sesso, ma non sono esclusi uomini e bambini; che le violenze su questi ultimi sono fisiche e morali, “annullanti” e distruttive...
Se un altro giorno ancora si stabilisce che, quando la loro parola non ti giunge attraverso campane, messe e politica, viaggia indisturbata su onde elettromagnetiche e cancerogene; vittime sempre i più deboli, i bambini.
Se l’ultimo giorno ci si rende conto che sono ancora tra i Paesi più ricchi del mondo, nonostante l’apparente carità mondiale: evangelizzazione mascherata da solidarietà.
Allora, c’è qualcosa che, ignominiosamente, non va.
Allora, diventa necessario e urgente che dalle loro porte lascino entrare e uscire soltanto... l’arcangelo della Giustizia. E che per tutti gli altri mettano un bel cartello: “chiusi per restauro”
Paolo Izzo
* Liberazione, Lettere - 15.07.2010
L’agognata libertà dei servi
di Furio Colombo (il Fatto, 11.06.2010)
Per quanto i cortigiani siano tra loro diversi e fra loro ostili, la corte è massa e ha il potere di irradiare i propri comportamenti fino agli angoli più lontani della nazione, come il ragno al centro della tela, se si muove, tutto si muove. Il comportamento dei cortigiani, ha scritto Elias Canetti, deve contagiare gli altri sudditi. E ciò che i cortigiani fanno sempre deve indurre gli altri sudditi a fare almeno talvolta altrettanto.
La citazione è dal libro La libertà dei servi di Maurizio Viroli (Laterza). Viroli che insegna teoria politica all’università di Princeton scrive all’inizio del testo, uscito adesso in versione italiana, che il libro gli è stato chiesto dall’editore americano per spiegare ai disorientati cittadini del mondo che cosa succede oggi in Italia. La libertà dei servi lo fa con chiarezza pedagogica. Usa il modello della vita di corte, noto anche a chi conosce appena la storia d’Italia, per raccontare un’immagine diversa dalla brutalità della dittatura, ma altrettanto esigente quanto ai comportamenti: o sei dentro o sei fuori. O conti o non conti. O esisti o non esisti. È questo che ha indotto ciò che, un tempo, era l’opposizione a elaborare i tre espedienti per opporsi senza rompere: la "opposizione propositiva"; quella del dire un sì per ogni no (come per farsi perdonare); quella del male minore.
Tutte e tre le soluzioni comportano un certo rischio di sguardo irritato del sovrano nella vita di corte. Sempre meglio che essere ignorati per sempre dal principe. E’ consigliabile, infatti, mantenere ruolo e visibilità nelle cerimonie, che adesso si svolgono quasi sempre in televisione. Vuol dire confidare nelle buone maniere e decidere che niente è mai troppo per interrompere la vita a corte. C’è sempre un male minore da proteggere per evitare un male peggiore.
Dobbiamo presumere che tutto, finora dal “pacchetto sicurezza” che autorizza i sindaci a negare il pasto e il trasporto scolastico ai bambini immigrati, al trattato con la Libia, che permette la caccia e la detenzione senza limiti ai rifugiati politici che cercano asilo in Italia sia un accettabile male minore. E non provo neppure a includere nella lista una serie di atti di collaborazione offerti, certo in buona fede, e sempre celebrati come trionfo della controparte, come la Lega Nord che ha vinto le elezioni regionali vantando il federalismo fiscale votato anche dall’opposizione. O come i ministri Bondi (legge sugli Enti lirici) e Calderoli (legge sugli Enti locali), che hanno potuto dire alla Camera e ripeteranno, appena possibile, nei talk show di cui sono star fisse che questa legge non sarebbe stata possibile senza la leale collaborazione dell’opposizione, che ringraziano. Insieme a tanti italiani, sono stupito che nessuno nel PD, tra coloro che competono per la leadership, abbia mai tentato di confrontarsi con i promotori del male minore, del "è bene dire sempre un sì dopo il no" , della opposizione propositiva, con l’unica denuncia possibile: perdiamo pezzi, approvazione, senso di appartenenza, orgoglio.
Si continuano a ripetere fiere espressioni come cambio di passo, colpo di reni, un salto in avanti, noi siamo pronti, per poi disporsi esattamente come prima, anche quando un leader ne caccia un altro. Permangono intatte le decisioni che hanno segnato l’opposizione fino ad ora: affrontare ogni dibattito come se fosse normale il governo, la legge che si discute e le ragioni per cui dobbiamo discuterla. E sempre lavorare duro per migliorare, ove possibile, il provvedimento, che vuol dire (se e quando lo sforzo riesce) che il governo e la sua maggioranza potranno vantarsi per gli errori evitati. E nessuno, mai, a cominciare dalla cronaca del giorno dopo, riconoscerà l’eventuale merito di chi avrebbe, solo e sempre, dovuto opporsi.
Perché solo e sempre? Non è eccessivo? Rispondo ricordando che, qualunque forma di confronto umano , dal gioco a scacchi alla partita in campo, conosce un’unica conclusione. Ci sono tante regole di disciplina e di lealtà, ma nessuna prevede di dare una mano a migliorare la strategia dell’avversario. Infatti non esiste un esito per il bene della partita. Quel bene, che è comune (altrimenti ci sarebbero lo scontro fisico e la violenza) prevede che una parte perda e una parte vinca, e non conosce o accetta alcuna altra via d’uscita per arrivare alla fine. Dunque, l’opposizione-proposta, che è una caduta nel vuoto; l’impegno di dire tanti “sì” insieme ai “no”, che è un modo curioso di muoversi con dei pesi aggiunti; la teoria del male minore, che è un’etichetta di buone maniere (non siamo così villani da respingere sempre tutto) non sono che tre modi di arrendersi.
Come non vedere che un simile comportamento non lascia alcun segno nell’attenzione e nella memoria dei cittadini, eccetto la delusione e un triste senso di solitudine? Come non vedere lo spazio che separa gli elettori del Pd e si allarga, dopo ogni male minore, dopo ogni costruttiva proposta? Come non accorgersi della solitudine disorientata dentro il Pd?
LA LETTERA
Sandokan pentiti, il tuo potere è finito
di ROBERTO SAVIANO *
ORA che ti hanno arrestato anche il primo figlio, è giunto il tempo di collaborare con la giustizia, Francesco Schiavone. Sandokan ti chiama ormai la stampa, Cicciò o’ barbone i paesani, Schiavone Francesco di Nicola, ti presentano i tuoi avvocati. E Nicola, come tuo padre, hai chiamato tuo figlio a cui hai dato lo stesso destino. Destino di killer. Accusato di aver ucciso tre persone, tre affiliati che avevano deciso di passare con l’altra famiglia, con i Bidognetti. Nessuno si sente sicuro nella tua famiglia, il tuo gruppo ormai non dà sicurezza. Non ti resta che pentirti. Questa mia lettera si apre così, non può iniziare diversamente, non può cominciare con un "caro". Perché caro non mi sei per nulla. Neanche riesco a porgertelo per formale cortesia, perché la cortesia rischia già di divenire una concessione che va oltre la forma. Scrivendo non userò né il "voi" che considereresti doveroso e di rispetto, né il "lei". Chi usa il "lei", lo so bene, per voi camorristi si difende dietro una forma perché non ha sostanza. Allora userò il tu, perché è soltanto a tu per tu che posso parlarti.
Sei in galera da più di dieci anni. Prima ti eri rinchiuso a Casal di Principe in una casa bunker sotterranea. È lì che ti hanno scovato e arrestato. Oggi hanno catturato tuo figlio in un buco analogo, solo più piccolo: stesso luogo, stessi arredi, simboli di un potere sterile - il televisore a cristalli liquidi - , divenuti più dozzinali con il trascorrere degli anni.
Persino stessa passione per la pittura. Cos’hai pensato quando hai saputo che l’hanno stanato, quando ti hanno riferito che a guidare il blitz identico a quello che ha portato alla tua cattura c’era lo stesso uomo, Guido Longo, allora capo della Dia napoletana, oggi questore di Caserta? Cosa hai pensato quando hai visto l’antimafia di Napoli diretta dal Pm Cafiero de Raho combattere ancora lì, non indebolita nonostante le mille difficoltà? Che sensazione ti ha generato scoprire che "Nic’ò barbone" si è arreso con il tuo stesso gesto, l’identico modo di alzare le mani, quasi si trattasse di un tuo clone, non di tuo figlio? Cosa provi ora che la moglie di Nicola subirà le stesse pene che ha subito tua moglie? I tuoi nipoti vivranno come i tuoi figli senza padre, con i soldi mensili versati da qualche tuo vicario e il destino da camorrista già scritto perché intorno tutti vogliono così, perché tu vuoi così. Cosa provi? È a questo che è valsa la tua scalata alla testa dell’organizzazione, con tutti gli ordini di morte che hai impartito, con tutti gli uomini un tempo tuoi sodali che hai ucciso addirittura letteralmente con le tue stesse mani?
Ogni tuo amico ti è divenuto nemico, hai fatto ammazzare Vincenzo De Falco con cui eri cresciuto, hai fatto ammazzare i parenti di Antonio Bardellino, l’uomo che ti aveva dato fiducia, potere e persino amicizia. Vi tradite l’un l’altro e sapete dal primo momento che questo accadrà anche a voi stessi. Perché questa è la vostra vita, uccidere i vostri più cari amici, distruggere coloro con cui siete cresciuti per non essere distrutti. E sarete distrutti da coloro che oggi vi sono amici, che oggi stanno crescendo nei vostri affari. Come ti sei sentito Francesco Schiavone Sandokan quando in una relazione che hai fatto consegnare ai tuoi legali affermi di vedere fantasmi che ti vengono a trovare nella tua cella? Come ti senti quando piangi, quando ti senti impazzire, quando fai il finto pazzo pur di uscire dalla galera? Quando vieni a sapere che l’altro tuo figlio, Emanuele, è stato arrestato come un qualunque tossico che vende hashish per avere soldi? Lui figlio del capo dell’impero del cemento che si fa beccare come un tossico qualsiasi? Quando il tuo ordine era quello di non far spacciare in paese e invece tuo figlio finisce per farlo a Rimini, come ti senti? L’unica speranza che hai è quella di pentirti, non devi continuare a indossare la maschera della tigre feroce, mentre sei diventato un gatto rinchiuso e castrato.
Castrato come Francesco Bidognetti, tuo alleato e allo stesso tempo rivale, ormai sull’orlo del pentimento, che deve per forza mantenere la pace con uomini che gli hanno ucciso parenti e alleati. Che deve vedere le sue donne tradirlo una alla volta. Un uomo che del comando ormai conserva soltanto il ricordo. Oggi ha difficoltà a mantenere il suo gruppo, i sequestri di beni e gli arresti lo stanno divorando. Eppure i tuoi uomini, quelli che tuo figlio avrebbe ucciso, erano disposti a passare con lui pur di non stare sotto il comando del tuo erede. Hai sempre saputo quale fosse il tuo destino. Fatturate miliardi di euro all’anno, il patrimonio del tuo clan è simile a quello di una manovra finanziaria, ma il vostro non è un destino da uomini. È solo un destino da criminali, coloro che si credono re e si ritrovano prigionieri. Con il wc accanto al tavolo dove mangiate, con un secondino che vi ispeziona, con i vostri figli che hanno vergogna di dire chi siete, e un vetro che vi impedisce di toccare finanche le mani delle vostre mogli.
Come sopporti questa ripetizione di un copione che tu stesso hai scritto sulla pelle della tua discendenza, che a sua volta doveva inciderla nella carne altrui? Sei fiero che il tuo primogenito rischi di finire i suoi giorni in carcere? Costretti a vivere come topi. Per mesi, anni. Condannati, già prima di ogni sentenza, a nascondervi, a mentire, a camuffarvi, a pagare uomini dello Stato per aiutarvi, a comprare politici per difendervi, a mercanteggiare promesse e favori in cambio di protezione e sotterfugi. Ma anche a costringere dei poveri vostri compaesani ad accogliervi sotto minacce, mentre alle vostre famiglie tocca farsi svegliare dalla polizia nel cuore della notte o farsi pedinare per giorni e giorni. È questa la sostanza del vostro impero. Hai avuto e hai ancora molti politici in pugno, condizioni gli appalti di molta parte di questo Paese. Proprio perché stai in galera e porti il peso del tuo potere, ti consideri migliore rispetto a imprenditori e parlamentari vicini che valuti codardi. Eppure di questa superiorità cosa ti rimane? Loro stanno fuori e tu sei dentro. Perché continua a difenderli il tuo silenzio? Cosa mai potrà compensare il tuo ergastolo e la distruzione continua della tua famiglia? Non lo vedi? Francesco Schiavone, che cos’hai ottenuto? L’ergastolo e un futuro sepolto in galera. Non hai più alcuna speranza di uscirne fuori finché sei vivo. E allora, che cosa pensi, che ragioni ti dai della tua vita?
Credo, in realtà, di sapere a cosa stai pensando. Che adesso gli affari fuori sono buoni. La crisi economica aumenta il business del clan la tua galera passa in secondo piano. Pensi che hanno anche promulgato leggi favorevoli. La legge sulle intercettazioni sarà d’ora in avanti il vostro scudo, con questa legge non avrebbero mai potuto arrestare tuo figlio, la legge sul processo breve potrà tornarvi utile. Avete politici alleati nei posti chiave, e (se verrà confermato quanto dichiarano le accuse dell’antimafia di Napoli) il sottosegretario allo sviluppo Nicola Cosentino è in diretto rapporto con la tua famiglia. Non perché tuo parente ma perché in affari con te. Quindi pensi di avere un ministero importante dove passano soldi e favori nelle tue mani.
Ma tu sei e rimani in galera però. Ricordi quello che ha detto Domenico Bidognetti su Nicola Ferraro quando si è pentito? L’ha accusato non perché anche Nicola Ferraro sia tuo parente, ma per gli affari che fa con te e tramite te. Ricordi? Dovresti saperlo. Lui ha dichiarato che "Nicola Ferraro prelevava i rifiuti speciali delle officine meccaniche, anzi fingeva di prelevare i rifiuti ma in realtà faceva delle false certificazioni e venivano smaltiti illegalmente". Lui leader casertano dell’Udeur molto legato a Clemente Mastella è stato arrestato nella retata che azzerò il partito. "Era un imprenditore molto vicino al clan dei casalesi. Prima era più vicino alla famiglia Schiavone, poi deve essersi avvicinato a Antonio Iovine". E poi - continua Domenico Bidognetti che conosci bene e tu stesso l’hai in qualche modo allevato - "a testimonianza dei buoni rapporti fra il Ferraro ed il clan, un anno fa Cicciariello (Francesco Schiavone, cugino omonimo di Sandokan n. d. r.) mi disse che voleva mandare a dire a Ferraro di intercedere presso il suo ’comparè Clemente Mastella Ministro della Giustizia, per fare revocare, un po’ per volta, i 41 bis applicati a noi casalesi. Non so dire se poi Cicciariello attuò questo proposito".
Ecco prima o poi, supponi, qualche politico amico attenuerà la tua pena e tornerai come quando eri giovane a vivere in carcere come in un hotel. Se non toccherà a te stesso, magari a Nicola, tuo figlio. Ti è stato consentito di incontrare un boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, mandante dell’uccisione di Don Puglisi, responsabile della morte di Falcone e Borsellino e delle stragi che nel ’93 colpirono Firenze, Milano e Roma. Chissà cosa vi siete detti nei vostri colloqui durante l’ora d’aria al carcere di Opera, dove entrambi scontate il regime del 41 bis? Avete stretto alleanze, avete escogitato nuove strategie? Avete messo a punto degli strumenti per rivalervi su coloro che vi hanno punito, nel caso non fossero disposti a venire a patti? Avete vagheggiato di avere in mano, pur dal cortile di un carcere di massima sicurezza, il destino dell’Italia? Pensate che il vostro silenzio o una vostra mezza parola possa delegittimare i vertici del potere politico? Mettergli paura? Ingenuità, Schiavone. Non ti rendi conto che siete divenuti burattini pensando di essere burattinai. Ma non vedi quello che sta accadendo?
Ciclicamente appoggiate politici che vi fanno promesse, vi usano per ottenere ciò che gli torna utile, vi scaricano quando non servite più, quando intravedono delle alternative. Perché in questo Paese in cui il potere è sempre in mano a pochi e soliti, i soli di cui è certo che verranno prima o poi rimpiazzati da qualche rivale emergente siete voi. La camorra è potente ma la sua forza si basa sul fatto che i camorristi continuamente cambiano, sono interscambiabili. I cimiteri sono pieni di camorristi indispensabili. Non stai vedendo che stanno eliminando il tuo gruppo? E quello di Bidognetti? E i fedeli Iovine e Zagaria? I due latitanti? Ancora liberi. Liberi di fare affari, di dirigerli. I tuoi reggenti diventati re nei fatti, perché non esiste nessuna incoronazione, mentre le detronizzazioni, quelle esistono, e prima o poi vengono scritte con il sangue, se non quello del sovrano decaduto, almeno quello dei suoi ultimi fedeli. È questo ciò che ti attende e lo sai. Loro ti tradiranno (se non lo stanno già facendo) proprio come tu hai tradito Antonio Bardellino e Mario Iovine.
Quattro anni fa feci un invito nella piazza di Casal di Principe. Lo feci alle persone, soprattutto ai ragazzi che erano lì presenti. Li invitai a cacciarvi dai nostri paesi, a disconoscervi la cittadinanza, a togliere il saluto alle vostre famiglie. "Michele Zagaria, Antonio Iovine, Francesco Schiavone, non valete niente". Urlai con lo stomaco e con la volontà di dimostrare che si potevano fare i vostri nomi, in quella piazza. Che non succede proprio nulla se si fanno. Che non sono impronunciabili, neanche quando si chiede non a una, due, o cinque persone, ma a molte, moltissime, di denunciarvi, di spingervi ad andarvene da Casal di Principe, San Cipriano d’Aversa, Casapesenna. A liberare queste terre. Tuo padre mi ha definito un buffone, non è l’unico a pensarla così. Tu stesso hai fatto scrivere dai tuoi avvocati che racconto menzogne. Sulle pareti di Casal di Principe mai è apparso un insulto a te, neanche dopo la strage di Casapesenna che avevi ordinato. Invece decine e decine le scritte contro di me, e appena si pronuncia il mio nome, i giovani delle mie zone mi riempiono di insulti. E quando vedono i tuoi figli, cosa fanno? Che cosa rappresentano questi ragazzi senza madre, senza padre, con gli occhi delle polizie sempre puntati addosso? Ti credi un uomo a far vivere così i tuoi figli? Tua moglie in prigione, i figli mollati ai parenti. È da uomo di onore, questo? Da uomo di rispetto?
Non è un uomo una persona che fa vivere così la propria famiglia. Questo lo sai nel profondo di te stesso. Una vecchia espressione napoletana identifica con un’espressione molto efficace un potere fatto solo di sbruffoneria: "guappi di cartone". Voi la usate per definire un uomo che parla e poi non agisce e ha paura. Io la uso per mostrare quanto sia codardo il vostro potere di morte, corrotto il vostro business, e che il vostro silenzio difende tutti quei colletti bianchi, imprenditori, editori, commercialisti, onorevoli, ingegneri che lavorando per voi pensando soltanto di lavorare per delle imprese di cui non vogliono conoscere l’origine. Guappo di cartone sei perché ordini esecuzioni di persone disarmate, fai sparare alle spalle a innocenti. Guappo di cartone perché temi ogni mossa che possa compromettere le tue entrate di danaro, perché sei disposto a perdere faccia e dignità per un versamento in euro. Guappo di cartone che costringi al silenzio della paura tutti i tuoi paesani se vogliono lavorare nelle tue imprese. Guappo di cartone perché non fai crescere nessuna impresa che con te e con i tuoi non faccia affari. Guappo di cartone perché avveleni la terra dove i tuoi avi avevano piantato le pesche, i meli, e ora la terra avvelenata non produce nulla se non cancro.
Può sembrarti assurdo ma siccome nessuno te lo chiede, te lo ripeto io un’altra volta. Collabora con la giustizia. Prima che tutti i tuoi figli finiscano in galera o ammazzati. Prima che le tue figlie siano costrette a matrimoni combinati per farti ancora contare qualcosa, prima che i tuoi nipoti debbano tutti legarsi attraverso matrimoni agli imprenditori locali per cercare di controllarli, sempre, ovunque, in ogni momento. Invita a pentirsi anche tuo fratello Walter. Fuori dal carcere si sentiva il protagonista di Scarface. Non c’era assessore, sindaco, segretario di partito o imprenditore che non volesse fare patti e affari con lui. E ora? Ora in galera lo divora una malattia, ha perso un figlio, è divenuto uno scheletro che cammina e implora ai giudici clemenza, lui che non l’ha mai data alla sua terra e ai suoi nemici. Per cosa taci ancora? Pensi che ti renda onore tutto questo? Pensi che ti rispettino coloro che il tuo silenzio difende? Tutti coloro che avete reso potenti, sensali con la coscienza pulita perché non sparavano, ma costruivano, smaltivano, votavano, governavano. Tutti questi non sono lì con voi. E andranno con chi comanda. Ieri eravate voi oggi sono altri, e domani altri ancora. Loro saranno amici di chi conta. Come sempre. E voi morirete in carcere.
Tu cosa vuoi, Francesco Schiavone? La tua morte? Rimpiangi di non essere finito ammazzato? Come tuo nipote Mario Schiavone "Menelik"? Facesti uccidere per vendicare la sua morte un carabiniere innocente Salvatore Nuvoletta, aveva vent’anni quando il clan dei casalesi chiese la sua testa, non fu lui ad uccidere in un conflitto a fuoco tuo nipote. E l’hai fatto ammazzare lo stesso. Tu e i tuoi uomini. Uccidendolo mentre era disarmato, mentre giocava con un bambino. Questo è onore?
Io sono cresciuto in terra di camorra e so come ragioni. Consideri smidollato chi ha paura di morire, chi ha paura del carcere. Sai che se vuoi davvero comandare sulla vita delle persone, devi pagarlo questo potere. Tu e i tuoi amici vincete perché sapete sacrificarvi mentre i politici e gli imprenditori di questo paese non sanno farlo. Quante volte ho sentito pronunciare queste parole dai miei conterranei. Ma non per tutti è così.
Prima o poi vi schiacceranno. Prima o poi tutti i vostri affari, il vostro cemento, i vostri voti, i vostri rifiuti tossici, tutto questo sarà destinato a finire. Non è la volontà che muta il destino delle cose, e tu, Schiavone, non sei che l’ennesimo di una catena infinita. Ma forse potresti fare un gesto, una scelta che compensi almeno in parte tutto quanto hai fatto. Mostra tutto. Sollevati dal tuo potere, dal potere dei tuoi affari, sottosegretari, sindaci, presidenti di provincia, sollevati dai veleni, dai morti, dalle dannate famiglie che credono di disporre di cose, persone, e animali come sovrani. Collabora con la giustizia, Schiavone. Invita a consegnarsi Antonio Iovine e Michele Zagaria. Sarebbe un gesto che ridarebbe a te e ai tuoi dignità di uomini. Provate ad essere uomini e non utili bestie feroci da business e accordi. Collabora con la giustizia, mostra che sei ancora un essere umano e non solo un agglomerato di cellule capace solo con rancore e avidità di strisciare di covo in covo, o di cella in cella.
©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara
* la Repubblica, 16 giugno 2010
GRANDE EMERGENZA, COMUNICATO DI ALVOL LOOKING HORSE
Abbiamo ricevuto questo importante messaggio di Arvol Looking Horse tramite Paula Horne. Vi invitiamo a riflettere su queste sue parole, e a onorarle. *
Ai Leaders Religiosi e Spirituali di tutto il mondo.
Parenti Miei,
E’ venuto il tempo di parlare ai cuori delle nostre Nazioni e ai loro Leaders. Io questo vi chiedo dal profondo del mio cuore: partendo dallo Spirito delle Vostre Nazioni, unitevi insieme in preghiera. Noi, dal cuore dell’Isola della Tartaruga, abbiamo un grande messaggio per il Mondo; ci spingono a parlare tutti gli Animali Bianchi che hanno mostrato il loro Sacro Colore, che sono per noi il segno che è necessario pregare per la sacra vita di tutte le cose.Mentre io vi invio questo messaggio, molti Popoli degli Animali sono minacciati: coloro che nuotano, coloro che strisciano, coloro che volano, i Popoli delle piante, tutti, alla fine, saranno danneggiati dal disastro (della perdita) di petrolio nel Golfo.
I pericoli che ci troviamo ad affrontare in questa ora non sono (dello spirito) causati dagli Spiriti. La catastrofe che si è verificata con la perdita di petrolio, simile al sanguinamento della Madre Terra, è causata da errori umani, errori che non possiamo permetterci di continuare a fare.
Io ho chiesto, come Leader Spirituale, che ci si riunisca insieme, insieme uniti in preghiera nella totalità e Globalità delle nostre Comunità. La mia preoccupazione è che questi gravi problemi continueranno a peggiorare, con quell’ “effetto domino” riguardo al quale i nostri Antenati ci hanno messo in guardia nelle loro Profezie.
Nel mio cuore, so bene che ci sono milioni di persone che pensano che l’unione delle nostre preghiere per amore della nostra Nonna Terra arrivi molto in ritardo.
Io credo che noi, come persone Spirituali, dobbiamo riunirci e concentrare i nostri pensieri e le nostre preghiere per permettere la guarigione delle molteplici ferite che abbiamo inferto alla Terra.
Poiché noi onoriamo il Ciclo della Vita, convochiamo i Cerchi di preghiera globalmente per contribuire alla guarigione di Nonna terra (la nostra Unc’I Maka in lakota).
Noi chiediamo che si preghi affinché questa perdita di petrolio, questa emorragia, finisca; affinché i venti stiano quieti, così da collaborare in questa opera.
Preghiamo affinché le persone siano guidate mentre tentano di riparare all’errore, e preghiamo perché tutti cerchiamo di vivere in armonia, nel momento in cui scegliamo di mutare il distruttivo sentiero sul quale ora stiamo camminando.
Pregando, arriveremo alla completa comprensione del fatto che siamo tutti connessi gli uni agli altri, e che quello che noi creiamo e facciamo ha effetti durevoli su tutto ciò che esiste. Quindi, uniamoci spiritualmente: Tutte le Nazioni, Tutte le Fedi, Una Preghiera.
Insieme con questa preghiera chiedo anche per favore di ricordare il 21 Giugno quale Giorno della Pace nel Mondo e Giorno in cui si onorano i Sacri Siti: sia che siano siti naturali, o templi, o chiese o sinagoghe o semplicemente il “vostro” particolare posto sacro, recitiamo una preghiera per tutto ciò che vive, perché le nostre Nazioni prendano buone decisioni, per il futuro e il benessere dei nostri figli e delle generazioni che verranno.
Onipikte (Così Che Noi Possiamo Vivere),
Chief Arvol Looking Horse, 19° Generazione dei Custodi della Sacra Pipa della Donna del Vitello di Bisonte Bianco
(Traduzione a cura di Camilla Novelli)
* Fonte: Nativi americani
La Costituzione secondo Berlusconi
L’inferno del demagogo
di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 12.06.2010)
Sapevamo da tempo che il presidente del Consiglio non ama la Costituzione repubblicana. Negli ultimi vent’anni o quasi, a partire dal marzo 1994 in cui ha vinto per la prima volta le elezioni politiche nazionali, l’imprenditore milanese ha sempre parlato il peggio possibile della carta costituzionale. Gli italiani ricorderanno che anni fa la definì una “costituzione sovietica” perché troppo attenta alle esigenze delle masse lavoratrici italiane e, giorni fa, ha sottolineato che in essa si parla di lavoro ma non di imprese e tanto meno di mercato: cioè delle due parole che hanno fino a ieri contrassegnato la sua vita. Avrebbe forse potuto aggiungere che la costituzione non parla neppure di “amici degli amici”: espressione particolarmente cara a chi si iscrive negli anni Settanta alla Loggia massonica coperta P2 di Licio Gelli e a chi ha come amico particolarmente caro un uomo come il senatore Marcello Dell’Utri che di amici siciliani si intende molto,a leggere gli atti che lo riguardano nei processi di Palermo.
Ma oggi non è il caso di polemizzare con le strane amicizie di Silvio Berlusconi quanto di constatare che la sua concezione dello Stato e della democrazia è del tutto incompatibile con i principi e i valori della Costituzione repubblicana come altrettanto incompatibili appaiono i comportamenti dei suoi ministri leghisti che non festeggiano l’anniversario della Repubblica. Peccato che Berlusconi,come del resto i ministri Maroni e Calderoli,abbiano giurato fedeltà al testo costituzionale e dovrebbero comportarsi in maniera coerente: se se ne ha un giudizio negativo o non si riesce ad osservarne i dettami,l’unica soluzione è lasciare il proprio incarico e presentare le dimissioni al Capo dello Stato.
Ma non ci troviamo,a quanto pare,di fronte a persone coerenti e preoccupate della tenuta democratica del paese. Siamo al contrario di fronte a un demagogo populista che da tempo vuole svuotare gli articoli fondamentali della Costituzione e trasformare il nostro Paese in una sorta di regime autoritario dominato dalle televisioni e dai giornali asserviti al governo e alla sua ampia maggioranza parlamentare.
Sicchè gli attacchi alla Costituzione fanno parte della campagna di propaganda che dovrebbe servire a convincere sempre di più la maggioranza degli italiani che la Carta è inutile o peggio dannosa e che Berlusconi ha ragione a lamentarsi sempre di più per i lacci e i lacciuoli che il testo contiene impedendogli di fare tutto quello che vuole come “unto del popolo”. Basterebbe in fondo eliminare dalla Costituzione che all’articolo 1 recita «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» quell’affermazione pignola sui limiti e le forme.
I veleni dell’Ecomafia che investe sulla crisi
di Roberto Saviano (la Repubblica, 7 giugno 2010)
Raccontano che la crisi rifiuti è risolta. Che l’emergenza non c’è più. Gli elenchi dei soldati di camorra e ’ndrangheta arrestati dovrebbero rassicurare che la battaglia è vinta. O almeno, questa è la versione. Molto distante, però, da ciò che realmente accade. Ogni anno Legambiente attraverso il suo Osservatorio ambiente e legalità produce storie e numeri: "Ecomafia".
Quello dei rifiuti è uno dei business più redditizi che negli anni ha foraggiato le altre economie. Come il narcotraffico, il fare affari con i rifiuti, sotterrare scorie tossiche, devastare intere aree, ha permesso alle organizzazioni criminali e a semplici consorterie imprenditoriali di accumulare capitali poi necessari per specializzarli in altri settori. Catene di negozi, imprese di trasporti, proprietà di interi condomini, investimenti nel settore sanitario, campagne elettorali. Sono tutte economie sostenute con i rifiuti. Esempio lampante ne è l’economia campana e i suoi gangli politici che si sono strutturati intorno alla crisi rifiuti.
Il mondo intero non si spiegava come fosse possibile che un territorio in Europa vivesse una piaga tanto purulenta. Come fosse possibile che le dolcissime mele annurche o le pregiate bufale campane, caratteristiche proprio di quelle zone, potessero trasformarsi improvvisamente in prodotti rischiosi per la salute. Possibile che convenga di più avvelenare che concimare e raccogliere?
Evidentemente sì, basta saperne leggere i vantaggi. L’emergenza rifiuti in Campania è costata 780 milioni di euro l’anno. Questa è la cifra quantificata dalla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti nella scorsa legislatura che, moltiplicata per tre lustri (tanto è durata la crisi), equivale a un paio di leggi finanziarie. Di fronte a cifre come questa è comprensibile che nessuno avesse convenienza a porre rimedio all’emergenza. Rapporti di consulenza politica, assunzioni, e persino specializzazione delle ditte nello smaltimento; oggi le imprese campane del settore rifiuti, grazie anche ai soldi dell’emergenza e alla pubblicità - sembra assurdo parlare di pubblicità, no? - che ne hanno ricavato, sono tra le più richieste in Europa. Ma risolvere un’emergenza significa anche non averne più i benefici e gli utili. E in verità, nonostante i proclami, oggi si è risolto poco.
Si è tolta la spazzatura dalle strade ma, come afferma chi lavora nel settore, è solo fumo negli occhi, perché sta per tornarci. «Se non ci saranno altri impianti entro il 2011 la Campania, come molte regioni italiane, rischia una nuova crisi rifiuti». Sono parole dell’amministratore delegato dell’Asia (l’azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani.) Come un tempo, quindi, la spazzatura sta di nuovo per essere accumulata.
Resta quindi il problema di scongiurare una crisi da mancanza di discariche. Una crisi che sarebbe estremamente grave anche perché purtroppo in Italia sono ancora le discariche la valvola di sicurezza del sistema rifiuti. Come risulta dal rapporto di Enea e Federambiente queste continuano a ingoiare il 51,9 per cento del totale della spazzatura del nostro Paese e il 36,5 per cento senza nessun trattamento. Nel Sud le bonifiche delle terre avvelenate da decenni di sversamenti di veleni sono rare e lente. I rifiuti tossici hanno spalmato cancro prima nei terreni, poi nei frutti della terra, nelle falde acquifere, nell’aria. Poi addosso alla gente, nelle loro ossa e nei tessuti molli. Ogni ciclo di vita è stato compromesso.
La diossina, i metalli pesanti e le sostanze inquinanti vengono ingerite, respirate, assimilate come una qualunque altra sostanza. La pelle di ogni cittadino delle zone ammorbate trasuda sudore e scorie. Il cancro ha raggiunto percentuali molto più alte che negli altri Paesi europei. Gli ultimi dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media nazionale. La rivista medica «The Lancet Oncology», già nel settembre 2004, parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche e le donne sono le più colpite.
Ma l’ecomafia non è un fenomeno che appartiene solo al Sud. Nel Sud assume caratteristiche totalizzanti e più evidenti: nelle strade si inscena il dramma dei cassonetti incendiati, il puzzo accompagna ogni movimento, e il silenzio copre ogni cava, ogni singolo luogo dove è possibile accumulare e nascondere. Ma è sempre più il nord Italia il centro del vero business. E la novità di quest’anno, al di là del noto primato di Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, è che il Lazio si posiziona al secondo posto tra le regioni con il più alto numero di reati ambientali.
Tra le inchieste più rilevanti del settore, nel 2009, ce ne sono alcune con nomi fantasiosi, talvolta anche vagamente familiari. "Golden Rubbish", "Replay", "Matassa", "Ecoterra", "Serenissima", "Laguna de Cerdos", "Parking Waste". Alcune, già dal nome si riescono anche a localizzare geograficamente, e tutte quelle che ho citato sono inchieste che riguardano il nord Italia. È evidente che il Nord ce la sta mettendo davvero tutta per non essere secondo al Sud in questa gara all’autodistruzione.
La "Golden Rubbish" è un’inchiesta che vede coinvolta la provincia di Grosseto, ma ancora conserva legami con Napoli e la Campania perché ha preso le mosse da un’inchiesta che riguardava la movimentazione dei rifiuti prodotti dalla bonifica del sito industriale contaminato di Bagnoli. Si tratta di un traffico spaventoso: un milione di tonnellate di rifiuti e un sistema che ha coinvolto decine e decine di aziende di caratura nazionale.
L’inchiesta "Replay" è tutta lombarda e l’organizzazione criminale sgominata operava tra Milano e Varese. Un affiliato al clan calabrese che fa capo a Giuseppe Onorato è finito in manette insieme a un manipolo di colletti bianchi, tra cui funzionari di banche. Lombarda è anche l’inchiesta denominata "Matassa".
È trentina, e precisamente della Valsugana, l’inchiesta "Ecoterra" che ha bloccato un traffico illecito di scorie di acciaierie che venivano riutilizzate, senza alcun trattamento, per coprire discariche o per bonifiche agrarie. Come dimenticare Porto Marghera, dove l’operazione "Serenissima" ha scoperto il traffico illecito di rifiuti diretti in Cina. Ma anche nelle Marche l’"Operazione Appennino" ha intercettato un flusso criminale di scarti derivanti dalle lavorazioni delle industrie agroalimentari e casearie.
È umbra, invece, nonostante il nome spagnoleggiante l’operazione "Laguna de Cerdos" un traffico illecito di rifiuti liquidi di origine suinicola per cui la regione e i singoli comuni si sono a lungo palleggiati le responsabilità. Friulana, invece è l’inchiesta "Parking Waste" che ha smascherato lo smaltimento illecito di medicinali scaduti. In tutte queste inchieste, l’aspetto che più colpisce è il legame strettissimo che si è creato tra gestori delle ditte di smaltimento, politici locali e istituti di credito presenti sul territorio.
Tra le altre cose, vale la pena ricordare che a marzo l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per come ha gestito l’emergenza rifiuti in Campania. È stata condannata per "non aver adottato tutte le misure necessarie per evitare di mettere in pericolo la salute umana e danneggiare l’ambiente". E nella sentenza si legge che l’Italia ha ammesso che "gli impianti esistenti e in funzione nella regione erano ben lontani dal soddisfare le sue esigenze reali".
Come non rimanere colpiti da questo dato: se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati, diverrebbero una montagna di 15.600 metri di altezza, con una base di tre ettari, quasi il doppio dell’Everest, alto 8850 metri.
Se un cittadino straniero conservava l’illusione delle colline toscane e del buon vino, delle belle donne e della pizza gustata osservando il Vesuvio da lontano mentre il mare luccica cristallino, qualcosa inesorabilmente cambia. Tutto assume una dimensione meno idilliaca e più sconcertante. La domanda più semplice che viene da porsi è come può un Paese che dovrebbe tutto al suo territorio, alla salvaguardia delle sue coste, al suo cielo, ai prodotti tipici, unici nelle loro caratteristiche, permettere uno scempio simile? La risposta è nel business: più di venti miliari di euro è il profitto annuo dell’Ecomafia, circa un quarto dell’intero fatturato delle mafie.
Le mafie attraverso gli affari nel settore ambientale ricavano un profitto superiore al profitto annuo della Fiat, che è di circa 200 milioni di euro, e più del profitto annuo di Benetton, che è di circa 120 milioni di euro. Quindi in realtà usare il territorio italiano come un’eterna miniera nella quale nascondere rifiuti è più redditizio che coltivare quelle stesse terre.
Tumulare in ogni spazio vuoto disponibile rifiuti di ogni genere costa meno tempo, meno sforzi, meno soldi. E dà profitti decisamente più alti. Bisogna guadagnare il più possibile e subito. Ogni progetto a lungo termine, ogni ipotesi che tenga conto di una declinazione del tempo al futuro viene vista come perdente. Un euro non guadagnato oggi è un euro perso domani. Questo è l’imperativo del nostro Paese che vede coincidere mentalità dell’imprenditoria legale e criminale.
Per difendere il Paese, per continuare a respirare, è necessario comprendere che in molte parti del territorio il cancro non è una sventura ma è causato da una precisa scelta decretata dall’imprenditoria criminale e che molti, troppi, hanno interesse a perpetrare.
O quello delle ecomafie diventa il tema principale della gestione politica del Paese, o questo veleno ci toglierà tutto ciò che aveva permesso di riconoscere il nostro territorio. La speranza è che questo allarme venga ascoltato, e che non si aspetti di sentire la puzza che affiori dalla terra, che tutto perda di luce e bellezza, che il cancro continui a dilagare prima di decidersi a fare qualcosa. Perché a quel punto sarebbe davvero troppo tardi. E coloro che sono stati chiamati i grandi diffamatori del Paese sarebbero rimpianti come Cassandre colpevolmente inascoltate.
©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara
(Il testo pubblicato è la prefazione al volume "Ecomafia" di Legambiente che sarà in libreria mercoledì 9 giugno)
La patria dell’oblio collettivo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/6/2010)
Vorrei tornare sulle parole di Piero Grasso a proposito di mafia e politica, dette il 26 maggio a Firenze davanti alle vittime della strage dei Georgofili. L’intervista rilasciata a Francesco La Licata dal Procuratore nazionale Antimafia chiarisce infatti alcuni punti essenziali, e pone quesiti alla classe politica e a tutti noi. La domanda che formula, implicita ma ineludibile, è questa: come funziona la memoria collettiva in Italia? Come vengono sormontati i lutti, e vissuti i fatti tragici, i mancati appuntamenti con la giustizia?
In questo giornale ho cercato prime risposte, evocando la richiesta, formulata il 7-8-98, di archiviazione dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi a Roma, Firenze e Milano nel ’93-’94: richiesta firmata da Grasso assieme a quattro magistrati, e accolta poi dal gip di Firenze. Nella richiesta era chiaro il nesso fra Cosa nostra e il soggetto politico nato dopo Tangentopoli (Forza Italia), ma mancavano prove di un’«intesa preliminare». Quell’atto mi parve più esplicito di quanto detto dal procuratore il 26 maggio, e su tale differenza mi sono interrogata. Ma l’interrogativo, più che Grasso, concerne in realtà i politici, e tramite loro l’Italia intera: giornalisti, elettori, ministri ed ex ministri di destra e sinistra.
Per chiarezza, vorremmo citare i principali passaggi della richiesta di archiviazione e confrontarli con quello che Grasso afferma oggi. Nella richiesta (da me impropriamente chiamata «verbale», domenica scorsa) è scritto: «Molteplici (sono) gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima e in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata». E ancora: il rapporto tra i capimafia e gli indagati (Berlusconi e Dell’Utri, citati come autore-1 e autore-2 e rappresentanti il nuovo «soggetto politico imprenditoriale» in contatto con Cosa nostra) «non ha mai cessato di dimensionarsi (almeno in parte) sulle esigenze di Cosa nostra, vale a dire sulle esigenze di un’organizzazione criminale». Il testo firmato da Grasso è inedito, ma gli argomenti che esso contiene appaiono in documenti che la classe politica conosce bene: il decreto di archiviazione dell’inchiesta di Firenze, e quello che archivia la successiva inchiesta di Caltanissetta su Berlusconi, Dell’Utri e le stragi di Capaci e via D’Amelio (3-5-02). Il testo è pubblicato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in un libro, «L’agenda nera», che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere.
Ha ragione dunque il procuratore a dire che nella sostanza non c’è nulla di nuovo in quello che ha ricordato giorni fa a Firenze («Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», per creare disordine e dare «la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»). Secondo alcuni il procuratore avrebbe oggi alzato il tiro, ma non è vero: semmai dice meno cose, su Forza Italia. Ed ecco la conclusione cui giunge nell’intervista: «L’idea che io mi sono fatto di quel terribile momento storico del ‘92 e del ‘93, molto prima dello scorso 26 maggio, era rintracciabile in moltissimi interventi pubblici, oltre che in tre libri pubblicati dal 2001 al 2009. Ritenevo e ritengo ancora quella ricostruzione storica una sorta di patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito».
Proprio qui tuttavia è il punto che duole. L’osceno italiano di cui parla spesso Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e cioè il potere reale esercitato «fuori scena», di nascosto, esclude l’esistenza di un «patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito». A differenza dell’America, o della Germania che di continuo rivanga il proprio passato nazista, l’Italia non ha una memoria collettiva che archivi stabilmente la verità e la renda a tutti visibile. Da noi la memoria storica si dissipa, frantumando e seppellendo fatti, esperienze, sentenze. E di questo seppellimento sono responsabili i politici, per primi.
Senza voler fare congetture, si può constatare che Grasso forse dice meno di quel che sottoscrisse nel ‘98, anche se dice pur sempre molto. Sono i politici a parlare più forte di quanto parlarono tra il ‘98 e oggi.
Sono i politici ad allarmarsi giustamente per le sue parole, a chiedere più verità, come se non avessero già potuto allarmarsi in occasione dei tanti atti giudiziari riguardanti quello che Grasso chiama «il nostro 11 Settembre: dall’Addaura, a Capaci, a via D’Amelio, fino alle stragi di Roma, Firenze, Milano e a quella mancata dello stadio Olimpico di Roma». Non sono i giudici ad aver dimenticato le deposizioni di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’inchiesta sui «mandanti esterni» delle stragi del ‘93, davanti alla commissione nazionale Antimafia il 2-7-02. Nella lettera ritrovata dopo la sua morte, Chelazzi si lamenta con i suoi uffici e scrive: «Mi chiamate alle riunioni solo per dare conto di ciò che sto facendo, quasi che fosse un dibattito».
È così che la memoria fallisce. Che l’osceno resta fuori scena, ostacolato solo dalle intercettazioni. Atti giudiziari e libri vengono sepolti nei ricordi perché sono trasformati in opinioni, per definizione sempre opinabili. Il vissuto viene trasferito nel mondo del dibattito e le sentenze diventano congetture calunniose. È quello che permette a Giuliano Ferrara, sul Foglio del 31 maggio, di squalificare le parole di Grasso definendole «ipotesi e ragionamenti» dotati di «uno sfondo politico e nessun avallo giudiziario». Il patrimonio della memoria collettiva, lungi dall’esser «definitivamente acquisito», è permanentemente cestinato.
I politici partecipano allo svuotamento della memoria usandola quando torna utile, gettandola quando non conviene più. Lo stesso allarme di oggi, non è detto che durerà. È come se nella mente avessero non un patrimonio, ma un palinsesto: un rotolo di carta su cui si scrive un testo, per poi raschiarlo via e sostituirlo con un altro che lascia, del passato, flebilissime tracce. L’intervista di Violante al Foglio, l’1 giugno, è significativa: in essa si dichiara che è arrivato il momento di «capire senza rimestare», di «mettere ordine» tra fatti forse non legati. Manca ogni polemica con il pesante attacco a Grasso, sferrato il giorno prima dal quotidiano.
Dice Ferrara che «non si convive inerti con un’accusa di stragismo a chi governa». Può darsi, ma l’Italia ha dimestichezze antiche con l’inerzia. Se non le avesse, non dimenticherebbe sistematicamente i drammi vissuti, e come ne è uscita. Non dimenticherebbe che del terrorismo si liberò grazie ai pentiti. Che tanti crimini sono sventati grazie alle intercettazioni. Come ha detto una volta Pietro Ichino a proposito dei ritardi della sinistra sul diritto di lavoro, in Italia «si chiudono le questioni in un cassetto gettando la chiave». È il vizio di tanti suoi responsabili (nella politica, nell’informazione) pronti a convertirsi ripetutamente. Pronti al trasformismo, a voltar gabbana. Chi non sta al gioco, chi nel giornalismo ha memoria lunga e buoni archivi, viene considerato uno sbirro, o un rimestatore, o, come Saviano, un idolo da azzittire e abbattere. Occorre una politica più attiva e meno immemore, se davvero si vuole che i giudici non esercitino quello che vien chiamato potere di supplenza.
Le forbici del potere
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 05.06.2010)
Se la tv di Stato taglia a metà la trasmissione di Roberto Saviano, vuol dire che lo Stato intende fare a metà la lotta alla camorra? In vista del cda Rai convocato per martedì prossimo l’interrogativo è più che lecito. Soprattutto alla luce delle inammissibili esternazioni con cui il presidente Berlusconi ha accusato lo scrittore napoletano di danneggiare l’immagine dell’Italia con i suoi libri e i suoi articoli contro la criminalità organizzata. È chiaro, comunque, che si tratta di un altro caso di censura preventiva, ai danni della televisione pubblica, dei telespettatori e dei cittadini italiani.
A quanto sembra di capire, sulle quattro puntate previste del programma che Saviano sta scrivendo per Rai Tre con Fabio Fazio, due sarebbero a rischio: una sulla ricostruzione post-terremoto in Abruzzo e l’altra sullo scandalo dei rifiuti in Campania. Due inchieste di approfondimento, dunque, su due vicende che certamente interessano l’opinione pubblica e hanno una rilevanza civile. Nessuno le ha ancora visionate, e forse non ne ha neppure letto il testo, ma la forbice del censore è già pronta a scattare per impedire a tutti noi di vedere e di giudicare.
Evidentemente, sotto il regime televisivo, siamo condannati ad avere una tv a sovranità limitata. Una tv dimezzata. Una tv con il silenziatore. E il fatto è tanto più grave perché deriva dalla pretesa di un premier-tycoon, un capo del governo che è anche capo del polo televisivo privato in concorrenza diretta con la televisione pubblica. Siamo, ormai, alla censura a reti unificate.
Prima che il presidente del Consiglio smentisca qualsiasi interferenza diretta o indiretta sull’autonomia della Rai, addebitando a chi lo critica l’arte della menzogna di cui è maestro, ricordiamo anche qui i precedenti. Già il 28 novembre del 2009, in un convegno dei giovani del Pdl a Olbia, il premier dichiarò minacciosamente: «Se trovo chi ha fatto le nove serie della Piovra e chi scrive libri sulla mafia che ci fanno fare una bella figura, lo strozzo». Poi, il 28 gennaio di quest’anno, nel corso di una conferenza-stampa a Reggio Calabria rincarò la dose: «Spero che questa brutta abitudine di fare fiction sulla mafia finisca. Queste fiction hanno danneggiato l’immagine del Paese».
Più recentemente, il 16 aprile scorso, lo stesso presidente del Consiglio ha ribadito il concetto che serial tv come La Piovra e libri come Gomorra fanno una cattiva pubblicità all’Italia nel mondo, promuovendo la mafia. Su questa scia, pochi giorni dopo il direttore del Tg 4 Emilio Fede ha sbottato: «Basta, Saviano non è un eroe. Non se ne può più!». E da ultimo, perfino il calciatore milanista Marco Borriello, napoletano di origine, s’è sentito in diritto di dichiarare che Saviano «è uno che ha lucrato sulla mia città», salvo poi pentirsi, esprimere il proprio rammarico e infine ammettere che «il problema è più grande di me».
Ecco, la conclusione del giocatore del Milan può valere anche per il patròn del Milan, per i suoi fans e ancor più per i censori della Rai. Lasciate stare: il problema, effettivamente, è più grande di voi. Non è il libro, il film o la trasmissione di Saviano che fanno una cattiva pubblicità all’Italia. Sono i problemi, i fatti, le situazioni che lui ha il coraggio di denunciare a non fare una buona pubblicità al nostro Paese. E sono le censure a danneggiarne l’immagine nel mondo, a farci fare una pessima figura.
C’è, al fondo di queste insulse reazioni, un’interpretazione puramente mediatica del potere; una visione esclusivamente propagandistica della politica. Come se tutto si riducesse a un maxi-spot, a una campagna promozionale o pubblicitaria, per nascondere i problemi reali, attirare masse di turisti ignoranti o creduloni e magari valorizzare, al di là delle bellezze naturali, le gambe delle nostre segretarie o gli attributi delle nostre escort. Un Carosello permanente al posto della lotta alla mafia.
Dice bene il sito della Fondazione Fare Futuro, presieduta da Gianfranco Fini: «Tagliare la trasmissione di Saviano significa che lo Stato abdica alle sue funzioni per accontentarsi di nani e ballerine, di zerbini e di veline». È il modello della tv di regime, rassicurante e consolatoria, compiacente e servile, falsa e bugiarda. Eppure, sappiamo tutti che all’interno della Rai non mancano né la competenza, né la professionalità né tantomeno il senso di responsabilità: quelle risorse, cioè, che giustificano e legittimano il ruolo della televisione pubblica.
Da Saviano a Santoro, da Floris a Dandini, da Ruffini a Busi, per citare solo i protagonisti o le vittime degli ultimi casi, questa funzione non si difende però a colpi di forbici. Si difende con l’impegno a fare informazione, intrattenimento o spettacolo, al servizio dei cittadini piuttosto che al servizio del potere.
Ribellarsi è giusto
Il presidente Mao Tse Dong, il grande timoniere, è figura su cui gravano pesanti ombre, sia per il suo ruolo di leader politico sia per la sua vita personale di coureur des jupes e di impenitente ganimede. Riconosciute le colpe e le debolezze non si può tuttavia negare che l’autore del libretto rosso eccitò le vocazioni rivoluzionarie di folle di giovani dell’intero pianeta con intuizioni folgoranti e ammaestramenti degni della più grande sapienzialità orientale. Alcune frasi del celebre volumetto colpiscono ancora oggi per lo splendore assiomatico della loro verità e hanno una validità etica che si proietta al di là del contesto in cui furono enunciate. Una in particolare dovrebbe essere scolpita nel cuore e nella mente e nell’anima di ogni uomo per bene: «Ribellarsi è giusto!».
La ribellione a leggi ingiuste dovrebbe essere diritto-dovere riconosciuto dalla nostra Costituzione. Se non ricordo male è diritto sancito nella Costituzione della Repubblica Federale Tedesca. Quella nazione sa bene quale sia il nefasto prezzo che si paga all’ubbidienza acritica alle leggi. Da troppo tempo lo spirito di ribellione alle ingiustizie e all’arroganza del potere è bollato con il marchio d’infamia della sovversione o addirittura del terrorismo. Lo sappiamo bene noi che ci ritrovammo a difendere la democrazia al Palalido di Milano, a piazza Navona a Roma, a piazza San Giovanni con il Popolo Viola e in decine di altre circostanze. Di fronte alla legge liberticida che vuole cancellare la fondamentale libertà di stampa chiediamo una riforma costituzionale che sancisca il diritto alla ribellione civile. La democrazia non è fatta di giri di valzer con i compromessi e la routine della real politik, la sua nervatura è fatta di passione, di impegno, di lotta permanente contro gli arbitri del potere. Non dimentichiamolo!
* l’Unità, 29 maggio 2010
Vietato parlare con la stampa
Bavaglio a presidi e professori
Emilia Romagna. L’Ufficio scolastico regionale impone il divieto di parola al personale scolastico
Gelmini applaude. «Non si usa l’istruzione per fare propaganda. Chi vuol fare politica, si candidi»
Il coordinamento docenti modenese rende pubblica una circolare in cui l’Usr impone ai lavoratori della scuola di non avere contatti con la stampa. La Cgil chiede le dimissioni del dirigente. La Gelmini lo difende.
di Chiara Affronte (l’Unità, 22.05.2010)
Bavaglio agli insegnanti che parlano con la stampa o dissentono dalle linee del governo. Se non si “ubbidisce” via alle sanzioni disciplinari. È quello che accade in questi giorni in Emilia-Romagna, dove il dirigente dell’Ufficio scolastico regionale Marcello Limina invia ai presidi una circolare «riservata» (si legge in alto nel documento, ndr) in cui manifesta la volontà di porre uno stop a «dichiarazioni rese da personale della scuola con le quali si esprimono posizioni critiche con toni talvolta esasperati e denigratori dell’immagine dell’amministrazione di cui lo stesso personale fa parte». Toni che prosegue la nota vengono inviati sotto forma di documenti ad autorità politiche, fatti circolare a scuola o distribuiti alle famiglie. Nella circolare Limina “invita” quindi ad «astenersi da dichiarazioni o enunciazioni che in qualche modo possano ledere l’immagine dell’Amministrazione pubblica».
Si scatena il putiferio quando il coordinamento degli insegnanti modenesi Politeia viene a conoscenza dell’esistenza di questa circolare, non ancora resa pubblica da nessun preside, ma datata 27 aprile. La Cgil insorge: «Ritiro immediato della nota e dimissioni del direttore dell’Usr», la richiesta del segretario generale Flc-Cgil Mimmo Pantaleo. Immediata la difesa del ministro Mariastella Gelmini: «Condivido e sostengo pienamente l’operato del direttore Limina che ha invitato tutto il personale della scuola a osservare un comportamento istituzionale afferma il ministro È lecito avere qualsiasi opinione ed esprimerla nei luoghi deputati al confronto e al dibattito. Quello che non è consentito è usare il mondo dell’istruzione per fini di propaganda politica: chi desidera fare politica si candidi alle elezioni e non strumentalizzi le istituzioni».
PRESIDI SCERIFFI
Tutto parte da Modena, dove alcuni insegnanti vengono a conoscenza dell’esistenza della circolare. «Qualche dirigente troppo zelante l’ha messa tra quelle visibili a tutti», riferisce un insegnante. Presa la palla al balzo di una manifestazione contro i tagli della riforma Gelmini che si è svolta a Modena giovedì, i docenti hanno reso pubblica la notizia e firmato una mozione per denunciare il «carattere intimidatorio e lo spirito antidemocratico della circolare che cerca di reprimere le legittime proteste del mondo della scuola». Fatto altrettanto grave, per i “prof” modenesi, quello di «far passare l’idea che i dirigenti, destinatari del documento, siano soggetti superiori di grado, quando in realtà, nel collegio docente, sono figure inter pares. Poi, vuoi per l’avidità di qualcuno, vuoi per il clima autoritario generale, passa l’idea di un ruolo diverso».
La scuola, insomma, non è quella che dipingono Limina e il governo anche per Bruno Moretto della cellula bolognese del comitato Scuola e Costituzione: «Gli insegnanti sono autonomi: lo spirito dell’articolo 33 della Costituzione è quello di creare nella scuola un clima di confronto di posizioni». Meglio per il comitato che «Limina si occupi di ciò che gli compete e risponda ad esempio ai 600 bambini che a Bologna e provincia non avranno posto alla scuola materna l’anno prossimo».
Letargo morale nella Chiesa
di Franz-Xaver Kaufmann
in “Frankfurter Allgemeine Zeitung” del 26 aprile 2010
(traduzione: www.finesettimana.org)
La crisi di fiducia causata dagli abusi sui bambini avvenuti nella sue fila colpisce la Chiesa cattolica in quanto istituzione sociale. La sua incapacità a riconoscere le proprie strutture patogene e le conseguenze degli abusi da parte di membri del clero si basa su di un’organizzazione che continua ad essere cortigiana ed una comprensione di sé che non ha superato lo spirito dell’assolutismo.
La nostra conoscenza della storia del cristianesimo è segnata dalla Chiesa cattolica romana. Come nessun’altra Chiesa cristiana, essa sostiene pubblicamente e teologicamente di essere la vera Chiesa di Gesù Cristo che risale fino agli inizi apostolici. In realtà i risultati di recenti ricerche affermano che la tradizione che Pietro sia stato a Roma e vi sia morto da martire si sia formata solo a partire dalla metà del secondo secolo, ed anche altre tradizioni e i diritti della Chiesa romana che ne sono fatti derivare si basano spesso su incerti presupposti. Ma questo non ha finora provocato alcuna forte e durevole incrinatura della sua stabilità e autorità.
Dal punto di vista storico le religioni legate alla trascendenza appartengono ai fenomeni sociali più duraturi. Sono sopravvissute ai destini economici e politici di interi popoli ed anche a profonde crisi del loro clero e della loro forma. È da questo rapporto con la trascendenza interpretato in modi diversi che traggono la loro forza. Le tradizioni cristiane parlano qui di fede, di una fede che secondo le parole tramandate di Gesù può spostare le montagne. Tale fede non viene delegittimata - è quello che accade sempre nella tradizione cattolico-romana - neanche da gravissime colpe morali del personale della Chiesa.
Che però dei criminali nei confronti di bambini, per i quali già Gesù aveva auspicato una macina al collo, siano stati fino a tempi recentissimi scientemente coperti dalle autorità ecclesiastiche e protetti dall’essere perseguiti dalla legge dello Stato, rimane un fenomeno sconcertante che deve essere spiegato.
In ogni tentativo di spiegazione bisogna distinguere influenze interne ed esterne alla Chiesa. Per cominciare con le seconde, bisogna ricordare che solo in tempi molto recenti i diritti dei bambini sono diventati uno dei grandi problemi morali della società. Questo deriva dalla dottrina politica dei diritti umani generali, quelli che spettano ugualmente ad ogni persona. Tale dottrina, che ha svariate radici risalenti molto indietro nella storia europea, ha acquisito forza sociale e politica solo nella seconda metà del 20° secolo.
Determinante fu l’approvazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo da parte delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Ma ricordiamo che tale atto non fu assolutamente salutato come un avvenimento storico. Si trattava piuttosto solo di una delle tante dichiarazioni dell’Assemblea generale dell’ONU. In una storia delle Nazioni Unite pubblicata nel 1982 non viene neppure nominata. La promozione dei diritti umani come base del diritto, sia come concezione morale che concezione di diritto internazionale, è solo uno sviluppo della storia più recente.
Il riconoscimento (che rimuoveva il discorso del diritto naturale) della dottrina dei diritti umani presente nei documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965) le diede un efficace impulso. Ma ci volle ancora molto tempo prima che i diritti dei bambini fossero formulati e riconosciuti. Solo nel 1959 l’assemblea generale dell’Onu approvò una “Dichiarazione dei diritti dei bambini”. Seguì nel 1989 una vincolante convenzione dei diritti dei bambini, che è stata nel frattempo ratificata da 193 stati, comunque dalla Repubblica federale tedesca con delle riserve di diritto straniero.
Solo negli ultimi decenni sono aumentate in Germania le iniziative per il riconoscimento e l’attuazione dei diritti dei bambini. La sensibilità dell’opinione pubblica per le lesioni di tali diritti è ormai fortemente cresciuta. Questo potrebbe essere un motivo determinante per le attuali reazioni pubbliche ai casi rivelati di abusi e maltrattamenti su bambini. Tale comportamento contrasta con grande evidenza con la scarsa risonanza di simili casi nel passato, che si può ben qualificare di letargo morale.
Anche per la Chiesa cattolica non si può escludere un simile letargo morale, perché la coscienza all’interno della Chiesa si forma in uno scambio sotterraneo con i valori della società. Ma ci sono anche circostanze più specifiche alla base di tali silenzi e coperture. Ad esempio nella Chiesa cattolica la morale coniugale ha sempre occupato un posto più importante all’interno della morale familiare rispetto alla morale dei genitori, che invece ha svolto un ruolo maggiore nel protestantesimo.
Nel 19° secolo nei Länder cattolici c’erano molti brefotrofi ai quali venivano affidati assolutamente solo bambini illegittimi. Le norme di una genitorialità responsabile sono nate nel 20° secolo in ambito evangelico, mentre la Chiesa cattolica ha sempre condotto una inutile battaglia contro tutti i metodi contraccettivi considerati artificiali.
È vero che anche in ambito cattolico abusi su bambini, punizioni e maltrattamenti corporali vengono considerati peccati gravi. Ma la Chiesa è abituata a peccati gravi tra i suoi membri, proprio per questo c’è l’istituto della confessione. Il patos con cui oggi si reagisce ai crimini su bambini è estraneo alla Chiesa.
Un forte motivo di silenzio da parte delle autorità ecclesiastiche su comportamenti delittuosi di loro membri, e in particolare del loro clero, di cui erano venuti a conoscenza, potrebbe derivare da una specie di effetto a distanza del segreto della confessione: le fonti di segnalazioni ecclesiastiche ad uffici statali non sarebbero di norma rimaste nel buio, cosicché non si sarebbero potute escludere ammissioni provenienti da conversazioni in confessione. Quindi la fiducia nel segreto della confessione avrebbe potuto essere scossa.
Ma dal punto di vista della mentalità le ripercussioni delle secolari tensioni tra Chiesa e Stato devono essere state più forti: anche dopo la perdita dei diritti del potere temporale, la Chiesa ha sempre mantenuto dei privilegi per il suo clero, che voleva poter sottoporre solo alla propria giurisdizione. Con un esame più attento si sarebbero probabilmente potute scoprire anche più gravi infrazioni, non relative a bambini, di membri del clero contro leggi dello Stato, ma che comunque non sono state denunciate. Ciò non deriva probabilmente solo dalla conosciuta “difesa della casta”, ma dalla coscienza di sé di una Chiesa che per molto tempo si è definita con il concetto di “societas perfecta” come un “dirimpettaio” dello Stato e che quindi non si pone sotto lo Stato.
È vero che questa posizione è stata implicitamente superata dalle dichiarazioni del Vaticano II, ma è probabilmente ancora molto viva proprio negli ambienti romani. Tanto più importante è quindi l’ormai esplicita direttiva papale alla Chiesa mondiale, in caso di abusi su bambini, di attenersi senza eccezioni alle prescrizioni del diritto dello Stato.
Infine non sono da sottovalutare le preoccupazioni per la considerazione della “santa Chiesa”. “Evitare scandali” è un antico principio ecclesiastico, che, contrariamente al suo senso originario, vale anche per la difesa dell’immagine della Chiesa. Per questo viene rimosso il fatto che il personale della Chiesa sia composto da autentici peccatori, che sono tali almeno secondo la dottrina della Chiesa sul peccato. In reazione all’attuale discussione sugli abusi, un parroco di Bonn ha fatto una proposta, che merita di essere meditata: appendere a tutte le porte della chiesa un cartello con scritto: “Qui entrano solo peccatori”.
Quando delle supposizioni - come nel caso dell’attuale segretario di Stato cardinal Bertone - o delle affermazioni documentabili sul coinvolgimento di alti dignitari ecclesiastici in gravi casi di abusi vengono smentite o sottaciute, senza che venga espresso alcun rammarico per i fatti realmente accaduti, questo suscita scandalo nella pubblica opinione e dolore tra i cattolici - e non solo per la renitenza di fronte all’accresciuta sensibilità morale per il problema dei diritti dei bambini.
Si tratta di qualcosa di più fondamentale: secondo la natura delle cose, la prova in caso di abusi non è affatto semplice. Anche qui deve valere innanzitutto il principio, in caso di dubbio, dell’innocenza dell’accusato. Ma in ambito ecclesiastico non c’è alcun modo sperimentato di procedere per provare tali accuse e per arrivare in ogni caso ad una decisione finale, cosa che è invece caratteristica del processo penale dello Stato.
A causa della competenza universale dei vescovi tutto sta nelle mani del vescovo o del suo vicario generale. Né a livello della diocesi né a livello dell’intera Chiesa non c’è nessuno cui spetti l’effettivo compito di un chiarimento delle accuse penali, nel senso di svolgere un esame preventivo per la trasmissione del caso alla magistratura dello Stato.
Il fatto che dei cattolici vittime di abusi si rivolgano prima alla loro Chiesa e non direttamente alla magistratura dello Stato rappresenta una prova di fiducia, a cui da parte dell’istituzione ecclesiastica non corrisponde un’istanza istituzionalizzata. Non bastano degli uffici reclami, perché il trattamento dei reclami non è verificabile, rimane a discrezione del vescovo.
Questo relitto dell’assolutismo interno alla Chiesa, in una cultura improntata al diritto statale, solleva anche delle questioni di ordine teologico: come si deve qualificare la peccaminosità che si diffonde in determinate strutture della Chiesa? Ci si potrebbe chiedere: si può mantenere la tradizionale distinzione tra la peccaminosità del personale della Chiesa e la santità dell’istituzione, quando evidentemente sono delle caratteristiche strutturali della Chiesa a indirizzare le mentalità verso un letargo morale o altri deplorevoli difetti?
La dichiarazione di sostegno al papa in occasione della messa di Pasqua, letta dal cardinale Sodano, che per diversi anni è stato segretario di Stato, non solo è ipocrita, perché Sodano stesso è personalmente coinvolto, ma misconosce anche completamente il modo in cui la situazione viene percepita dall’opinione pubblica. In questo modo viene nuovamente confermata la mentalità del silenzio e della copertura o almeno del letargo morale, con cui le autorità vaticane fino a pochi anni fa si sono occupate di casi di religiosi che per il diritto secolare avevano commesso dei reati.
E a favore di chi sarebbe la dichiarazione di sostegno? Certo non a favore del papa, per il quale certi gesti cortigiani dovrebbero risultare piuttosto penosi. Chissà se troverà il coraggio di separarsi da tali discutibili amici? L’attuale débacle mediatica della Chiesa cattolica minaccia di sfociare in una débacle morale. Il problema morale della Chiesa non è né l’abuso sui bambini in quanto tale e neppure le forme di punizione che ci appaiono oggi in parte barbariche e che non sono affatto tipiche della Chiesa. Ma è la sua incapacità a riconoscere le proprie strutture patogene e le conseguenze delle sue coperture clericali. La sua incapacità a mettere in discussione tutto ciò e a trarne delle conseguenze pratiche.
Molte cose dipenderebbero da strutture ecclesiali obsolete e vecchie concezioni che la Chiesa ha di sé, i cui presupposti risalgono all’alto medioevo e che non hanno ancora superato lo spirito dell’assolutismo. La competenza universale del papa e dei vescovi, che nessuno può controllare, ha perso da tempo la sua utilità organizzativa e, con il crescente inserimento in rete della Chiesa mondiale, la mancanza di un ordinato sistema di governo in Vaticano diventa sempre più irritante.
La mancanza di organismi di governo e la rispettiva disciplina diventa tanto più grave quanto più complessi sono i compiti della Chiesa a livello mondiale. La crisi di fiducia verso la Chiesa cattolica non riguarda tanto il suo personale, che probabilmente nella storia non è mai stato più qualificato, né forse più competente in fatto di morale. Riguarda la Chiesa come istituzione sociale, il suo centralismo, la sua monocratica concezione di sé, la mentalità clericale, l’inefficienza della sua organizzazione ancora cortigiana e la mancanza di una certezza del diritto e di un comportamento corretto di fronte a sviluppi conflittuali.
All’origine dell’attuale indignazione per gli abusi su bambini e adolescenti che quasi quotidianamente viene alimentata da nuove rivelazioni c’è stata una lettera coraggiosa dell’attuale rettore del Collegio Canisius di Berlino, padre Klaus Mertes SJ, agli ex allievi del collegio, nella quale si riconoscevano “degli abusi (sessuali) non isolati, ma sistematici e durati anni”, da parte di due confratelli che vi lavoravano come insegnanti, su allievi del collegio. Alcuni giorni dopo, il provinciale della provincia tedesca dei gesuiti, Stefan Dartmann, ha pubblicato una relazione su ulteriori casi di abuso in istituti diretti da gesuiti in Germania e all’estero. In questo modo era stato dato avvio ad un’azione che presto ha obbligato altri istituti cattolici, ma anche laici ed evangelici, ad occuparsi pubblicamente delle pratiche di abusi su bambini, di tipo sessuale od altro.
È stato come se il balzo in avanti dei gesuiti avesse rimosso molteplici ostacoli a riconoscersi in esperienze penali dello stesso tipo e a discuterne. Anche famosi pedagoghi sono stati sospettati di connivenza come le autorità della Chiesa. Gli episodi tedeschi sono stati subito messi in relazione con quelli dell’Irlanda e degli Stati Uniti, però a quel punto si sono focalizzati sulla Chiesa cattolica. Questi attacchi molto ampi e in qualche occasione anche scurrili contro la Chiesa cattolica romana possono diventare salutari?
Chi conosce anche solo un poco la storia della Chiesa cattolica romana sa che la storia del papato e in particolare della sua corte romana è attribuibile alla Chiesa dei peccatori piuttosto che a quella della sua pretesa santità. Lo storico Leopold von Ranke definì nel 19° secolo lo stato del Vaticano come la più arretrata delle comunità politiche. E per molti principati religiosi le cose non andavano meglio. La Chiesa dovrebbe essere riconoscente a Napoleone e a Garibaldi per averla liberata da impegni secolari.
Dopo la perdita del potere temporale la Chiesa ha cercato di intensificare il suo potere morale sulle anime dei credenti, cosa che le è riuscita fintanto che altre prospettive ideologiche sono rimaste al di fuori dell’orizzonte dei fedeli. Contemporaneamente però la Chiesa ha rafforzato la sua autorità morale con un orientamento più fortemente spirituale. Da quando il Concilio Vaticano II ha aperto la Chiesa al mondo, il papa è diventato un’autorità morale a livello mondiale.
Dal punto di vista storico però non sono mai stati i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica ad incarnare la forza morale del cristianesimo, ma sono stati prima i martiri e poi gli ordini religiosi. Nonostante tutti i deficit presenti anche qui, essi restavano fedeli al modello di perfezione cristiana in povertà, castità e obbedienza e diventavano così per i laici una concreta e quotidiana esortazione.
La Chiesa cattolica, a partire soprattutto dalla controriforma, era organizzata in una struttura duale di diocesi ed ordini religiosi indipendenti, che ha contribuito in larga misura alla sua vitalità. Invece il Concilio Vaticano II ha trattato gli ordini in modo matrignesco; non per niente è entrato nella storia della Chiesa come “concilio dei vescovi”.
Gli ordini religiosi hanno perso autonomia, e i vescovi si sono sottomessi alle esigenze di perfezione cristiana. Questa è effettivamente una pretesa eccessiva, di cui alla lunga non tutti sono all’altezza; ma su questo vengono valutati in un’epoca in cui si esige corrispondenza tra parole e fatti.
Ora in Germania un ordine religioso si è di nuovo messo in evidenza. I gesuiti sono stati i primi e sono rimasti anche gli unici ad aver reso pubblici di propria iniziativa gli abusi sessuali su bambini nei propri istituti. Non è stato necessario spingerli a farlo. Ciò che hanno messo in moto si spera che sensibilizzi in maniera durevole sia la coscienza pubblica che quella della Chiesa. Gli scandali pubblici - ringraziando i media - hanno il potere di lasciare un’impronta sulla memoria collettiva, se hanno un peso dal punto di vista morale. Si può sperare che il bubbone sia ormai scoppiato, almeno in Germania.
L’autore è professore emerito di politica sociale e sociologia all’università di Bielefeld.
Originario
di Zurigo, ha partecipato alla fondazione dell’università di Bielefeld. Si è occupato, oltre che di
storia e teoria della politica sociale, anche di sociologia familiare e religiosa.
INFORMARE PER RESISTERE.
I nostri eroi
di Diego Cugia*
Mi chiamo Diego Cugia, detto Jack Folla, facevo l’autore, lo facevo alla radio e alla Tv, fondai un movimento, “Gli invisibili”, talmente invisibili che se ne vedono pochissimi, parlo di me al passato, sono estinto come le foche monache o le betulle nane, da più di tre anni non posso mettere piede in una radio o in una televisione di questo Reame, sono estinto perché qualcuno ha usato l’estintore, infatti certe parole bruciano, lasciano ustioni sulla coscienza e le ustioni son brutte da vedere, e allora bisogna spegnerle le parole, come si fa per estinguere le fiamme.
Estintore e silenziatore sono gli strumenti della dittatura mediatica, di questo fascismo sottile, i nuovi pompieri del potere hanno sostituito manganello e olio di ricino, oggi non serve spedire i dissidenti al confino, da noi basta e avanza un clic, una lucetta rossa che si spegne, uno studio radiofonico vuoto, buio, un microfono col cappuccio, non sei più in onda, così sei isolato, sei zombie. E “Zombie” è stato il titolo del mio ultimo programma alla radio, Radio24, perché a Radiorai mi avevano già estinto, adesso sono definitivamente scomparso, amen. Io non sono un eroe, né un martire, ero solo un italiano che parlava con sincerità.
Da bambino mio nonno alla domenica mi portava lassù, sulla terrazza del Pincio. Mi portava a vedere il teatrino di Pulcinella. Pulcinella veniva preso a manganellate in testa dal carabiniere e moriva. E da morto strillava: “A carabiniè!” Dio mio quanto mi piaceva questa battuta. Allora il carabiniere gli diceva: “Zitto, sei morto, e i morti non parlano.” E Pulcinella rispondeva: “E io voglio parlà!” Ecco, oggi Gino Strada mi ha risorto e io voglio parlà. Ma non di me, chi se ne fotte di me, l’io fa schifo, io-io-io il raglio dell’asino, no, voglio parlare delle parole, che in Italia non sono più quelle di una volta, come mio nonno diceva delle stagioni. Per esempio proprio queste: le parole martire o eroe.
Un mercenario armato fino ai denti, con un elevato ingaggio economico, che veniva ucciso in zona di guerra, un tempo era un soldato professionista morto nell’espletamento del suo dovere. Che nel caso di un soldato è il dovere di uccidere. Un mestiere (per questo li pagano tanto) che mette in conto l’eventualità contraria, quella di essere ucciso. Da noi, invece, oggi un mercenario morto in guerra armato fino ai denti è un eroe.
Ai tempi in cui nonno mi portava a vedere Pulcinella, -mio nonno era siciliano- mi educava al concetto che i mafiosi erano gentaccia, mala pianta, delinquenti. Oggi il genitore politico di tutti noi italiani, il presidente del consiglio, ci educa al concetto che un mafioso di nome Mangano è un eroe.
Ma da qualche giorno, in Italia, è accaduto qualcosa di clamoroso, qualcosa che ha scombinato definitivamente il mio sistema di valori, tanto che mi sto rivoltando nella tomba. (Tra parentesi sono sepolto qui a Roma, se volete portarmi un fiore sto in via Salaria, a Villa Ada, la prima panchina a destra). Che vi stavo dicendo? Ah si. Il fatto clamoroso. Prima però devo fare una doverosa premessa. Come tutti gli scrittori io ero un narcisista di merda. E’ brutto, è puzzolente essere narcisisti, e ci sono cascato anche stavolta, da resuscitato, porca pupazza l’ho rifatto, vi ho parlato di me, di mio nonno, di Pulcinella e di quella cosa perduta che amo più di una donna perduta: la radio. Ma proprio perché ho questo difetto...proprio perché sono un narcisista, un egoista... io amo chi ama gli altri. Io amo chi si dona. Chi rischia la propria vita per salvare quella degli altri, ecco, quello per me è un eroe. Un faro, un esempio, un modello da imitare. E per tutta la vita mi sono schiaffeggiato dicendo “Impara da questi, scordati del tuo stupido te stesso, donati, datti agli altri e poi dimenticalo.”
C’è un bellissimo verso di un poeta francese, René Char, dedicato agli scrittori, che dice “Affrettati a trasmettere la tua parte di meraviglioso, di ribellione, di amore, e poi disperditi con la polvere. Nessuno saprà la vostra unione.”
Fine della premessa. Allora cos’è successo di nuovo, di clamoroso in Italia? Quale altra parola ha mutato radicalmente senso? Una delle nostre più belle parole, una di quelle che gli italiani dovrebbero lucidare come l’argenteria di casa: volontario. Volontario: il contrario del narcisista.
Fra i miei ricordi di zombie ce n’è uno che mi è particolarmente caro. Quand’ero Jack Folla una ragazza chiese d’incontrarmi prima di partire da volontaria per un Paese africano. Venne a trovarmi qui a Roma. Aveva appena 19 anni, dei sandali da frate, una gonnellina a fiori, e degli occhi così azzurri che il cielo stesso, a guardarli, si sarebbe dovuto vergognare. Stava partendo per andare a dare una mano in un ospedale dei padri comboniani. “Ma vai così, a Fiumicino, adesso, da sola?” Questa piccola infermiera fece la faccia di chi scende un momento da casa per prendere il latte. “Certo. Perché?” E’ morta di Ebola pochi mesi dopo. E in Italia lo sappiamo in tre: il suo ragazzo, sua mamma e io.
Anche per questo, da allora, sono amico di Emergency. Perché stimo queste persone nate per donarsi che poi si sperdono con la polvere, in un’unione di fuoco. E non c’è estintore che tenga. Le loro vite sono grandi notizie accese eternamente che la televisione non ci dà, ma che ci colmano di senso la vita. Perché sono le loro vite che ci danno forza. A me per esempio, da’ forza che esista Gino Strada, e migliaia e migliaia di volontari di Emergency e che ci siate tutti voi, per loro, in questa piazza. Ho dunque appreso dalla televisione italiana che anche questa parola, volontario, nel loro nuovo vocabolario, è cambiata. Ho sentito un ministro, appena saputa la notizia dei tre operatori di Emergency portati via dai servizi segreti afghani (perché, secondo loro, stavano ordendo un attentato), un ministro che ha detto, qualora la notizia si fosse rivelata vera, che si sarebbe vergognato di essere italiano, laddove non si era affatto vergognato di proclamare eroe un mercenario armato fino ai denti. La novità di oggi, quindi, il nuovo sinonimo italiano, è che i volontari sono “terroristi”. I mafiosi eroi di cui vantarsi, i mercenari martiri di cui andare orgogliosi, e i volontari di Emergency terroristi di cui vergognarsi. Neanche Pulcinella l’avrebbe sparata così grossa. Ma in Tv l’hanno confermata: “I tre volontari hanno confessato! HANNO CONFESSATO!”. Chirurghi bombaroli. Non ci si crede. Anche le cazzate non sono più quelle di una volta.
L’altra sera, ad Annozero c’era coso, non mi ricordo mai il nome, quello che si chiama come il burro danese che ho in frigorifero: Lutpak. Ah, no, Luttwak. Ecco Luttwak- faccia- da- burro ha dichiarato che tutte le Ong, le organizzazioni non governative che sfamano le popolazioni in fuga dalle zone di guerra, sono colpevoli di prolungare la guerra. In sostanza il concetto era il seguente: se tu li sfami, invece di lasciarli morire, (che la guerra finirebbe per mancanza di gente da ammazzare), tu, si proprio tu, buona e brava organizzazione umanitaria, sei una guerrafondaia! Se noi paesi occidentali siamo costretti a prolungare la guerra, che adesso si chiama missione di pace, la colpa è tua che ci sfami le nostre vittime e ce le rinvigorisci! Erano mezzi zombie, e tu che mi combini? tu me li fai risorgere davanti così io sono costretto a sparargli di nuovo per colpa tua. Cristo!
E’ proprio vero, caro nonno: le parole non sono più quelle di una volta. Noi sì. Invecchiati, ingrassati, mezzivivi e mezzi morti, noi continuiamo a pensarla con la spietata, celeste franchezza di quando eravamo bambini.
Da adulto, i miei Tremal-Naik, Nembo Kid e Flash Gordon, i miei eroi, sono diventati quelli di Emergency, gli uomini che si danno nell’anonimato, i non narcisisti, quelli che si donano agli altri, salvano la loro vita e si disperdono con la polvere. E io sto con loro. Sono loro i miei eroi, i miei monumenti di polvere che nessuno vede. Non hanno medaglie, né funerali di Stato. I politici li detestano perché questi medici custodiscono la più atroce delle verità: in guerra muoiono più bambini che soldati. E questa è una di quelle notizie che non deve mai arrivare alla pancia degli italiani che si informano in Tv. La loro pancia dev’essere piena di burro Luttwak. Di eroi a rovescio. Di parole tradite. Di guerre chiamate pace per cui nessuno deve vederne il sangue. Perciò fuori dalle palle i giornalisti, le telecamere, i fotoreporter, i volontari e adesso anche i chirurghi che ricuciono quel che noi, missionari di pace, abbiamo fatto a brandelli. Se lo dici, se parli, sei isolato, sei morto. Statevi tutti zitti e buoni davanti alla Tv. Vi diremo noi, a cose fatte, chi era il buono e chi era il cattivo. Io non sto zitto, voglio parlare da morto come Pulcinella, non sto buono, non mangio il burro cattivo, e non guardo la Tv. Io sto con Emergency.
* l’intervento di Diego Cugia alla manifestazione per Emergency in piazza San Giovanni a Roma
http://www.articolo21.org/989/notizia/i-nostri-eroi.html
"Il premier mi vuole zittire ma sui clan non tacerò mai"
"Assurdo preferire il silenzio il premier si scusi con le vittime"
Lo scrittore: non so se Mondadori è ancora adatta a me
"Sono accuse che sento da anni. Per gli Schiavone anzi sarei io il vero camorrista"
"Destra e sinistra non c’entrano. Io continuerò a parlare anche agli elettori del Pdl"
di Roberto Saviano (la Repubblica, 17.04.2010)
Presidente Silvio Berlusconi,
le scrivo dopo che in una conferenza stampa tenuta da lei a Palazzo Chigi sono stato accusato, anzi il mio libro è stato accusato di essere responsabile di "supporto promozionale alle cosche". Non sono accuse nuove. Mi vengono rivolte da anni: si fermi un momento a pensare a cosa le sue parole significano. A quanti cronisti, operatori sociali, a quanti avvocati, giudici, magistrati, a quanti narratori, registi, ma anche a quanti cittadini che da anni, in certe parti d’Italia, trovano la forza di raccontare, di esporsi, di opporsi, pensi a quanti hanno rischiato e stanno tutt’ora rischiando, eppure vengono accusati di essere fiancheggiatori delle organizzazioni criminali per il solo volerne parlare. Perché per lei è meglio non dire.
è meglio la narrativa del silenzio. Del visto e taciuto. Del lasciar fare alle polizie ai tribunali come se le mafie fossero cosa loro. Affari loro. E le mafie vogliono esattamente che i loro affari siano cosa loro, Cosa nostra appunto è un’espressione ancor prima di divenire il nome di un’organizzazione.
Io credo che solo e unicamente la verità serva a dare dignità a un Paese. Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine o da chi commette il crimine?
Il ruolo della ‘ndrangheta, della camorra, di Cosa nostra è determinato dal suo volume d’affari - cento miliardi di euro all’anno di profitto - un volume d’affari che supera di gran lunga le più granitiche aziende italiane. Questo può non esser detto? Lei stesso ha presentato un dato che parla del sequestro alle mafie per un valore pari a dieci miliardi di euro. Questo significa che sono gli scrittori ad inventare? Ad esagerare? A commettere crimine con la loro parola? Perché? Michele Greco il boss di Cosa Nostra morto in carcere al processo contro di lui si difese dicendo che "era tutta colpa de Il Padrino" se in Sicilia venivano istruiti processi contro la mafia. Nicola Schiavone, il padre dei boss Francesco Schiavone e Walter Schiavone, dinanzi alle telecamere ha ribadito che la camorra era nella testa di chi scriveva di camorra, che il fenomeno era solo legato al crimine di strada e che io stesso ero il vero camorrista che scriveva di queste storie quando raccontava che la camorra era impresa, cemento, rifiuti, politica.
Per i clan che in questi anni si sono visti raccontare, la parola ha rappresentato sempre un affronto perché rendeva di tutti informazioni e comportamenti che volevano restassero di pochi. Perché quando la parola rende cittadinanza universale a quelli che prima erano considerati argomenti particolari, lontani, per pochi, è in quell’istante che sta chiamando un intervento di tutti, un impegno di molti, una decisione che non riguarda più solo addetti ai lavori e cronisti di nera.
Le ricordo le parole di Paolo Borsellino in ricordo di Giovanni Falcone pronunciate poco prima che lui stesso fosse ammazzato. «La lotta alla mafia è il primo problema da risolvere ... non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti e specialmente le giovani generazioni le spinga a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale della indifferenza della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale dà al lavoro dei giudici, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze». Il silenzio è ciò che vogliono. Vogliono che tutto si riduca a un problema tra guardie e ladri. Ma non è così. E’ mostrando, facendo vedere, che si ha la possibilità di avere un contrasto. Lo stesso Piano Caserta che il suo governo ha attuato è partito perché è stata accesa la luce sull’organizzazione dei casalesi prima nota solo agli addetti ai lavori e a chi subiva i suoi ricatti.
Eppure la sua non è un’accusa nuova. Anche molte personalità del centrosinistra campano, quando uscì il libro, dissero che avevo diffamato il rinascimento napoletano, che mi ero fatto pubblicità, che la mia era semplicemente un’insana voglia di apparire. Quando c’è un incendio si lascia fuggire chi ha appiccato le fiamme e si dà la colpa a chi ha dato l’allarme? Guardando a chi ha pagato con la vita la lotta per la verità, trovo assurdo e sconfortante pensare che il silenzio sia l’unica strada raccomandabile. Eppure, Presidente, avrebbe potuto dire molte cose per dimostrare l’impegno antimafia degli italiani. Avrebbe potuto raccontare che l’Italia è il paese con la migliore legislazione antimafia del mondo. Avrebbe potuto ricordare di come noi italiani offriamo il know-how dell’antimafia a mezzo mondo. Le organizzazioni criminali in questa fase di crisi generalizzata si stanno infiltrando nei sistemi finanziari ed economici dell’occidente e oggi gli esperti italiani vengono chiamati a dare informazioni per aiutare i governi a combattere le organizzazioni criminali di ogni genealogia. E’ drammatico - e ne siamo consapevoli in molti - essere etichettati mafiosi ogni volta che un italiano supera i confini della sua terra. Certo che lo è. Ma non è con il silenzio che mostriamo di essere diversi e migliori.
Diffondendo il valore della responsabilità, del coraggio del dire, del valore della denuncia, della forza dell’accusa, possiamo cambiare le cose.
Accusare chi racconta il potere della criminalità organizzata di fare cattiva pubblicità al paese non è un modo per migliorare l’immagine italiana quanto piuttosto per isolare chi lo fa. Raccontare è il modo per innescare il cambiamento. Questa è l’unica strada per dimostrare che siamo il paese di Giovanni Falcone, di Don Peppe Diana, e non il paese di Totò Riina e di Schiavone Sandokan. Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare. Credo semplicemente che ci sia un movimento culturale e morale al quale aspirare.
Io continuerò a parlare a tutti, qualunque sarà il credo politico, anche e soprattutto ai suoi elettori, Presidente: molti di loro, credo, saranno rimasti sbigottiti ed indignati dalle sue parole. Chiedo ai suoi elettori, chiedo agli elettori del Pdl di aiutarla a smentire le sue parole. E’ l’unico modo per ridare la giusta direzione alla lotta alla mafia. Chiederei di porgere le sue scuse non a me - che ormai ci sono abituato - ma ai parenti delle vittime di tutti coloro che sono caduti raccontando. Io sono un autore che ha pubblicato i suoi libri per Mondadori e Einaudi, entrambe case editrici di proprietà della sua famiglia. Ho sempre pensato che la storia partita da molto lontano della Mondadori fosse pienamente in linea per accettare un tipo di narrazione come la mia, pensavo che avesse gli strumenti per convalidare anche posizioni forti, correnti di pensiero diverse. Dopo le sue parole non so se sarà più così. E non so se lo sarà per tutti gli autori che si sono occupati di mafie esponendo loro stessi e che Mondadori e Einaudi in questi anni hanno pubblicato. La cosa che farò sarà incontrare le persone nella casa editrice che in questi anni hanno lavorato con me, donne e uomini che hanno creduto nelle mie parole e sono riuscite a far arrivare le mie storie al grande pubblico. Persone che hanno spesso dovuto difendersi dall’accusa di essere editor, uffici stampa, dirigenti, "comprati". E che invece fino ad ora hanno svolto un grande lavoro. E’ da loro che voglio risposte.
Una cosa è certa: io, come molti altri, continueremo a raccontare. Userò la parola come un modo per condividere, per aggiustare il mondo, per capire. Sono nato, caro Presidente, in una terra meravigliosa e purtroppo devastata, la cui bellezza però continua a darmi forza per sognare la possibilità di una Italia diversa. Una Italia che può cambiare solo se il sud può cambiare. Lo giuro Presidente, anche a nome degli italiani che considerano i propri morti tutti coloro che sono caduti combattendo le organizzazioni criminali, che non ci sarà giorno in cui taceremo. Questo lo prometto. A voce alta.
©2010 Roberto Saviano / Agenzia Santachiara
La porta della libertà
di Furio Colombo (il Fatto, 28.03.2010)
Nessuno di noi finora ha tenuto conto di una domanda che pure dovrebbe apparire urgente e drammatica. La domanda è questa: riuscirà la Repubblica Italiana a rientrare nella normalità democratica senza avere prima capito e detto e denunciato il grave stato di fuori gioco in cui si trovano ormai da tempo in questo Paese tutte le istituzioni? Fino ad ora ha prevalso, se non altro per l’ autorevolezza di chi l’ ha espressa, la persuasione che alcuni episodi separati, non sempre denunciati, non sempre redarguiti, non formino di per sé un comportamento grave e costante e non debbano, quindi, essere affrontati in difesa della Repubblica e della sua Costituzione, come un grave pericolo in atto. Il più delle volte, a parte il silenzio, l’invito ha queste caratteristiche: ci sono due parti che debbono riconciliarsi. Offra ciascuna il suo “passo indietro” e “ i toni bassi” e “il rispetto delle istituzioni”, senza “delegittimare l’avversario”.
Questi ammonimenti sono saggi da un punto di vista molto importante: evitare il peggio. Chi li propone, a volte in modo ripetuto e con una preoccupazione che si percepisce molto intensa, questo “peggio” deve averlo intravisto o addirittura vissuto in alcune occasioni rimaste non pubbliche. Va dunque considerato e apprezzato lo sforzo di “evitare il peggio”, tenendo conto, però, che nelle vicende politiche sia nazionali che internazionali, tale intento di scartare un pericolo ha sempre portato a un pericolo più grave. Infatti lo spazio lasciato vuoto da fatti veri non riconosciuti e non descritti ai cittadini, viene invaso, ogni volta, da fatti più gravi e letali. Il lettore può pensare che mi sto tenendo un po’ alla larga. Perciò preciso. Vi prego di notare che dirò le stesse cose che molti di coloro che si oppongono vanno dicendo tutti i giorni, durante i quindici anni di Berlusconi.
Ma questa volta lo dico nel modo formulato dalla domanda: se si possa uscire da un pericolo ormai molto grave e imminente fingendo di non vedere, ed evitando di descrivere quel pericolo. Non è ciò che è accaduto a Monaco quando normali e prudenti statisti democratici hanno accettato e avvalorato la finzione di avere raggiunto un accordo con normali e democratici statisti di parte opposta che però erano Hitler e Mussolini? Purtroppo abbiamo imparato che prudenza e saggia cautela non diminuiscono il rischio contro la democrazia.
Il modo in cui avvengono le cose oggi in Italia lo conosciamo: un esecutivo, per sua natura pronto nell’ agire e nel reagire (per questo la Costituzione circonda ogni esecutivo di verifiche, contrappesi, controlli, garanzie per i cittadini) e per giunta reso fortissimo dal doppio potere, pubblico e privato, lancia attacchi violenti, con intenzione di piena rottura contro i centri costituzionali di verifica, controllo e garanzia. Alla fine di ogni attacco, complice quasi tutta la stampa (d’ altra parte comprata o succube o spaventata) manca la descrizione di quell’attacco, la portata distruttiva. Persino le intenzioni esplicite, proclamate dal capo di quell’esecutivo che attacca le altre istituzioni, vengono omesse. Qui il problema non è l’ arbitro (mi riferisco con tutto il rispetto al Capo dello Stato) perché il problema non è il rapporto fra maggioranza e opposizione e non è l’eventuale lamentela dell’opposizione.
Qui stiamo parlando di iniziative ripetute di tipo rivoluzionario contro la Costituzione, i suoi organi di controllo, i suoi giudici e le fondamentali leggi della Repubblica tuttora in vigore. In quel punto e in quel momento dell’ aggressione, che è ogni volta un colpo duro e forse finale al muro democratico, c’è l’ ultima, estrema possibilità di difesa della Repubblica. Vi sono consiglieri, in luoghi autorevoli, che insistono nel suggerire, come unica cura, come unico intervento risolutivo di questo momento grave, una ragionevole e ben visibile equidistanza.
Ma equidistanza da che cosa? La parte offesa di questo tremendo gioco non è l’ opposizione. Il suo mestiere comprende il dare e avere, argomenti duri e aggressivi (vedi la brutalità senza riguardi che i repubblicani americani riservano al loro Presidente, vedi l’impegno senza tregua con cui Barack Obama tiene testa a quell’ offensiva) .
La parte offesa, adesso, in Italia, sono le istituzioni dello Stato, sono i magistrati (tutti), sono le Corti, fino alla Cassazione e alla Corte Costituzionale, sono le authority di garanzia, come quella delle comunicazioni. Quando i giudici si comprano (nei pochi casi in cui si può) o si insultano con modalità di separazione definitiva dallo Stato di diritto, quando cade ogni finzione sull’ appartenenza comune alle leggi fondamentali, violandole e annunciandone la soppressione ogni volta che sono un ostacolo, la controparte è la Costituzione, sono le sue radici di libertà, la sua originaria e incancellabile natura antifascista. Questa è la descrizione di una grave e pericolosa situazione politica. Se continueremo a non riconoscerla fingendo di credere che due parti in contrapposizione debbano smettere di delegittimarsi e giungere a più miti consigli, si nega la realtà, si cancellano i fatti, si murano le porte di uscita.
L’obbligo della verità dopo troppi silenzi
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 27 marzo 2010)
Nel caso dei preti pedofili bisognerà evitare almeno che tutto si riduca alla solita diatriba fra clericali e laici. O che ci si metta addirittura a contare i numeri: quanti i pedofili tra i preti, quanti tra i non preti.
Sono cose che abbiamo già visto quando si discuteva su quanti eretici e quante streghe fossero stati mandati a morte dai tribunali della Chiesa cattolica e quanti da altre chiese e da altri poteri. E intanto passava in secondo piano la sofferenza delle vittime e la tenebra dell’intolleranza e si cancellava la responsabilità storica, giuridica, culturale degli assassini.
L’apologetica e la controversia uccidono la verità. E qui la questione della verità è fondamentale: e deve stare a cuore agli uomini di governo della Chiesa più che a chiunque altro se sono capaci di prendere sul serio il loro stesso ufficio e di capire quale sia la tremenda responsabilità che si sono assunti. Per candidarsi al governo delle coscienze bisogna dimostrare di saper rispettare la verità.
L’occultamento del vero, avvenga per trascuratezza burocratica o per malinteso spirito di corpo, uccide la fiducia. Tanto più quando si tratta di una verità orrenda che dovrebbe far tremare chi la viene e a conoscere e dovrebbe accendere di furore, di pena, di fame di giustizia chi ha il compito di governare e di giudicare.
Non per niente a tanti è venuto spontaneo citare la terribile parola del Gesù dei vangeli: bisogna che gli scandali avvengano ma guai a coloro che sono causa degli scandali. La macina al collo e il suicidio come la sola pena adeguata per chi scandalizza questi piccoli: questa la violenza estrema della parola evangelica. Gli echi di questa pagina hanno risuonato nei secoli: le abbiamo ritrovate in un grande capolavoro di Dostoevskij che tutti hanno letto o dovrebbero leggere.
E si ricorderà che Gesù di Nazareth non scendeva nei dettagli. Chissà cosa avrebbe detto delle attenuanti che sono state evocate in questi giorni: l’età del colpevole, il suo stato di salute, il silenzio delle vittime, di quelle creature piccole. Piccole e mute: non solo perché prive dell’uso della parola. Mute, perché per uscire dal buio e dal silenzio senza parole di quella lurida aggressione, al bambino e alla bambina che l’hanno subìta può non bastare una vita intera. Una vita compromessa, avvilita, oscurata per sempre da chi gode della fiducia dei fedeli in grazia del suo abito e della parola evangelica - quella frase, «lasciate che i pargoli vengano a me», si provi a immaginarla sulle labbra del prete pedofilo.
Per questo ci è parso singolarmente infelice il grido «Basta scandali!» che è risuonato in Piazza San Pietro e che ha unito per un attimo il capo della Chiesa cattolica al responsabile della protezione civile italiana. C’è chi davanti al brontolio di tuono della tempesta che ruggiva nel mondo intero e che bussava ormai alle porte dell’ovattato mondo della comunicazione italiana, sempre timoroso e pronto a inginocchiarsi davanti ai poteri consacrati e agli abiti talari ha evocato l’idea di una congiura anticristiana.
Ma simili bassi servigi hanno il torto di nascondere agli occhi degli italiani la gravità del problema. Non solo per la Chiesa: anche per il nostro paese che non può permettersi di subire tutta insieme la vergogna dell’ondata di discredito internazionale che si abbatte oggi sui due volti che lo rappresentano nel mondo: e passi pure che l’opinione pubblica rida di noi per le grottesche performances di un leader politico che dichiara guerra al cancro. Ma se la tempesta si abbatte sul papa di Roma e sulle autorità cattoliche, allora sì che le fondamenta storiche del Paese sono scosse.
E dunque guardiamo in faccia la verità: che è quella di una turpitudine storica e non solo episodica, giuridica e non solo morale. Questa vicenda è cominciata secoli fa: la inaugurò papa Paolo IV Carafa quando nel 1559 stabilì che i preti e i frati colpevoli di reati di natura sessuale nati nel contesto della confessione sacramentale dovessero essere sottoposti al Sant’Uffizio dell’Inquisizione. Era una misura in apparenza radicale, dura, minacciosa per i colpevoli: in realtà era la via d’uscita per chiudere la conoscenza di episodi scandalosi nello spazio giuridico di un tribunale ecclesiastico segretissimo. La ragione della scelta era ovvia: Lutero aveva bruciato non solo la bolla di scomunica ma anche l’intero corpus del diritto canonico, giudicato da lui una delle muraglie con cui il clero si era alzato al di sopra del popolo cristiano.
La Chiesa cattolica ribadì la superiorità sacrale del clero, mantenne il diritto canonico e il privilegio del foro per i chierici e, nel confermare l’obbligo del celibato ecclesiastico, preparò un comodo rifugio per chi lo infrangeva e per chi infangava il sacramento del perdono dei peccati attentando ai minori e alle donne che si affacciavano al confessionale. Da allora e per secoli i processi per i casi di «sollicitatio» sono stati nascosti dal segreto impenetrabile del Sant’Uffizio mentre i colpevoli venivano semplicemente trasferiti di sede per difendere il buon nome del clero: fino a oggi. E il segreto è diventato anche più fitto e ha coperto altre e più gravi turpitudini quando, per opera del cardinal Alfredo Ottaviani prefetto del Sant’Uffizio, fu approvata una istruzione per il «crimen sollicitationis» immediatamente sepolta nel segreto dei palazzi vaticani.
Quella istruzione imponeva un segreto assoluto sulle materie relative non solo al reato di «sollicitatio» ma anche a quello che veniva definito il «crimine pessimo»: cioè l’atto sessuale compiuto da un chierico con fanciulli impuberi dei due sessi o con animali. Chissà perché al cardinal Ottaviani venne in mente di includere anche questo nuovo versante del crimine sotto l’antico mantello protettivo.
Il Sant’Uffizio scomparve ufficialmente dalla nomenclatura istituzionale vaticana nel 1965 e Ottaviani uscì di scena, mentre il Concilio Vaticano II sembrava aprire scenari nuovi: scenari di fiducia verso il mondo moderno incluso il principio fondamentale fra tutti della trasparenza e della verità come obbligo dei governanti verso i governati. Ma concluso il concilio il vento cambiò. E la nuova Congregazione per la dottrina della fede fece sua l’istruzione del cardinal Ottaviani. Un documento ufficiale della Congregazione governata dal prefetto cardinal Joseph Ratzinger datata 18 maggio 2002 ne riprese la sostanza. Si intitola «De delictis gravioribus». Dunque il cardinal Ratzinger ha coperto con quel segreto specialissimo le vicende che per il suo ufficio doveva conoscere e governare.
Oggi non per sua scelta ma per la pressione di un mondo in rivolta gli si pone nella sua nuova veste il problema di decidere quale percorso proporre alla Chiesa cattolica. Ed è un singolare esempio dei corsi e ricorsi storici che tocchi di nuovo a un papa tedesco, il secondo dell’età moderna dopo quell’Adriano VI che dovette fare i conti con la Riforma luterana, affrontare un problema che ha trovato specialmente nella coscienza della Germania un’eco profonda: un problema che ripropone ancora una volta e su di una materia terribile la questione della capacità della Chiesa di interpretare i segni dei tempi. Si tratta di decidere se conservare o abbandonare quello che è stato fin dall’inizio uno strumento per difendere dalla verità e dalla giustizia i membri del clero.
I PASTORI SI MANGIANO LE PECORE? E’ "UN FENOMENO RIDOTTO"!!!
SMS: “E’ vero che non si può accusare Berlusconi di abigeato (furto di bestiame) come titola Il Giornale. Ma è perché si è già portato via tutte le pecore”.
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
Regime, scene di un crollo
di Furio Colombo (il Fatto, 17.03.2010)
Un giorno qualcuno potrà dividere il regime Berlusconi (finora quindici anni ininterrotti) in tre periodi: quello del finto innocente, della negazione risoluta davanti ai fatti. Chi, io? ma io mi dimetterei immediatamente se fosse vero; quello in cui comincia lui e poi si guarda intorno smarrito come nel gioco “lo schiaffo del soldato”; quello della rivendicazione del fatto (o reato) compiuto come di un naturale e legittimo diritto. E la violenta denuncia: “Ci dobbiamo difendere”.
Ho detto “quindicennio ininterrotto” del regime Berlusconi nonostante due periodi (uno molto breve) di governo del centrosinistra a causa di due trovate di Berlusconi che spero gli storici non trascureranno. Il primo è di agire, in democrazia, con la trovata di sospendere la democrazia nel suo partito. Ciò gli dà uno spazio di libertà (a parte i soldi, a parte il conflitto di interessi) che i suoi avversari, appesantiti dalla necessità del consenso, non possono fronteggiare. Il secondo è di non governare mai e di fare opposizione, anzi campagna elettorale sempre. Per farlo deve arrecare danno - e lo fa - alla Repubblica. Il danno più grave è portarsi via - forse solo a causa del suo fascino leaderistico - potenti funzionari dello Stato, guardiani delle garanzie, verificatori e tutori della legalità, notai della vita istituzionale e della vita pubblica. Clamoroso è il caso dell’Autorità delle Comunicazioni.
Comincia il crollo del regime. Si vedono ovunque nel Pdl crepe, lacerazioni, perdite di rispetto. Le barzellette rimbalzano tra sms ed e-mail, tra l’Italia e il mondo. Quella che trovate oggi sul telefonino spiega: “E’ vero che non si può accusare Berlusconi di abigeato (furto di bestiame) come titola Il Giornale. Ma è perché si è già portato via tutte le pecore”.
Il fatto è che sta facendo crollare la Repubblica e con lui cadono nel vuoto i lavoratori senza fabbrica, i precari senza contratto, le aziende svendute senza padrone. Ma con lui cominciano a cadere anche pezzi importanti delle Istituzioni repubblicane. Per ogni regola è stato legiferato uno strappo. Per ogni strappo ci vuole un garante a rovescio. Un garante della illegalità. Sarà una lista lunga e un danno immenso.
Via Padova, la città in cui speriamo
editoriale (www.chiesadimilano.it, 16 febbraio 2010)
Quanto accaduto nei giorni scorsi in via Padova è un episodio grave e bisognoso di approfondimento. L’aggressione e la morte di un giovane, il conflitto etnico tra bande rivali, le reazioni violente che ne sono seguite, denunciano una situazione da leggere nella sua complessità con lucidità di giudizio e senza fermarsi al cono d’ombra dei fatti delittuosi. L’uccisione si colloca in uno scenario di diffuso disagio sociale che, complice l’indifferenza di chi avrebbe potuto intervenire prima ma non lo ha fatto, perdura da tempo ed è destinato a rimanere tale fintantoché non si deciderà insieme di voltare pagina e ristabilire le condizioni per una normale e costruttiva convivenza civile.
La prima parola è la ferma condanna della violenza. Non accettiamo di assistere inermi a questa spirale di aggressività: morire in questo modo è, oltre che drammatico, assurdo. Nemmeno vogliamo addomesticare il cuore e i sensi all’abitudine per la violenza posta quotidianamente sotto i nostri occhi; continuiamo a operare per l’edificazione di una città aperta e umana, capace di coniugare sicurezza e integrazione.
Abbiamo ascoltato in questi giorni interventi istituzionali limpidi, capaci di richiamare con severità ed equilibrio ai valori che fondano la convivenza, ma anche al consueto e triste gioco politico di parte, nel quale i problemi reali vengono puntualmente sacrificati sull’altare della ricerca del consenso elettorale. I media con alcuni servizi hanno cercato di entrare con discrezione ed intelligenza nella situazione concreta del quartiere e dei suoi abitanti, mentre con altri hanno offerto spettacolarizzazioni non rispettose della verità dei fatti e delle persone. Sembra per questo necessario mantenere quella pacata ragionevolezza che, consapevole della gravità dell’accaduto, non desiste dal ricercare la giusta misura delle cose e non si lascia prendere dall’emotività, dai giudizi affrettati e dall’illusione che esistano soluzioni drastiche e immediate per risolvere i conflitti.
Dieci anni fa proprio in via Padova l’uccisione di un gioielliere e di un tabaccaio coronavano nel sangue una tristissima stagione di violenza e degrado per il quartiere e per l’intera città. Allora criminali e vittime erano italiani: in qualche modo i nuovi arrivati si sono sostituiti ai delinquenti locali. A ben vedere il problema principale non riguarda, quindi, solo la criminalità organizzata, ieri, o l’immigrazione non governata, oggi, ma anche il degrado del tessuto civile del quartiere.
Quando un territorio, un lembo di città non è governato con lungimiranza, ma abbandonato alle logiche infernali dell’incuria, della lacerazione, della prepotenza diventa facilmente terreno di coltura per le patologie più gravi del disagio sociale.
Per quanto riguarda le sfide dell’immigrazione, da tempo la Chiesa Ambrosiana cerca di promuovere un’articolata riflessione e indicare alcune linee costruttive. Risuonano oggi come molto opportune le parole pronunciate dall’Arcivescovo nel Discorso di S. Ambrogio del 2008: «Occorre, con una visione complessiva del fenomeno, guardare agli immigrati non solo come individui, più o meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta che devono essere responsabilmente da essi assunti. La coniugazione dei diritti e dei doveri farà sì che essi non restino ai margini, non si chiudano nei ghetti, ma - positivamente - portino il loro contributo al futuro della città secondo le loro forze e con l’originalità della propria identità».
Da parte dei milanesi occorre riconoscere in questi anni un preoccupante calo della tensione morale e civile e la conseguente fatica a trasmettere la solidità di un ethos pubblico condiviso e normativo. Non è forse ancora più necessario oggi tornare a conoscere, rispettare, apprezzare le regole, i valori, il senso delle istituzioni e delle tradizioni civili? Su quale base comune costruire altrimenti una convivenza coi nuovi arrivati?
Se cresce ormai positivamente la consapevolezza che la via da percorrere è quella dell’integrazione, resta ancora equivoco il senso da attribuire a questa espressione. Per alcuni coincide sostanzialmente con l’“adeguamento integrale” di altri ai nostri modi: di parlare, di vivere, di agire, di consumare... In buona sostanza con l’omologazione. In realtà un’autentica integrazione suppone anzitutto conoscenza, dialogo, ascolto a partire dalla riscoperta delle proprie radici, così che le diverse componenti dell’unico corpo sociale possano contribuire, ciascuna con la propria originalità, al bene comune e al volto di una città migliore.
L’albero buono si riconosce dai frutti buoni, ma di fronte a frutti cattivi occorre scendere in profondità e risanare le radici: ripartire dalla famiglia. Essa, come sottolinea Benedetto XVI, «è un fondamento indispensabile per la società e per i popoli, e anche un bene insostituibile per i figli. È nel focolare domestico che s’impara a vivere veramente, a valorizzare la vita e la salute, la libertà e la pace, la giustizia e la verità, il lavoro, la concordia e il rispetto» (Discorso al VI Incontro Mondiale delle Famiglie di Città del Messico). A tutte le famiglie, italiane o immigrate, occorre assicurare quanto è necessario a una vita dignitosa, per sé e i propri cari, e così assolvere al proprio compito sociale: casa, scuola, lavoro, assistenza per bambini, anziani, disabili e malati. Non sarebbe tempo di prendere in seria considerazione l’urgenza dei ricongiungimenti familiari?
In particolare le prime vittime di una politica paralizzata dalla ricerca del consenso e poco audace nel progettare, realizzare, governare la “metropoli” del presente e del futuro sono le giovani generazioni. C’è forse vera differenza fra il disagio violento, tribale e rancoroso delle gang etniche e quello più narcisistico, autodistruttivo e spietato dei giovani “bene”? La sfida educativa nei confronti dei giovani, ancora più acuta nel contesto della seconda generazione di immigrati, è davvero centrale per le famiglie e per le altre agenzie educative. Giustamente la riflessione dei sacerdoti del decanato di Turro, in cui è situata via Padova, sottolinea la preziosità dei luoghi di educazione giovanile come le scuole, gli oratori e le comunità cristiane. Realtà già presenti, ma bisognose di ulteriore sostegno. Perché non promuovere per davvero un “esercito” di educatori piuttosto che di militari?
Partiamo dal riconoscimento e dal sostegno dei molti segni di speranza e delle diverse realtà vive del quartiere: i cittadini che scelgono positivamente di abitarvi, le comunità cristiane con le loro attività, le forze politiche, sociali e culturali che mantengono un legame col territorio, i commercianti, le scuole, le associazioni di volontariato.
Segno di speranza è anche la Messa celebrata per il Decanato domenica 7 febbraio dal Cardinale Tettamanzi insieme a più di 1500 persone. Chi vi ha partecipato ha potuto sperimentare un momento di autentico entusiasmo popolare, il ritrovato orgoglio di abitare il quartiere, la bellezza della fede e dei legami di fraternità che essa genera.
Insomma, non un gesto isolato, ma la rivelazione di quel volto autentico della città per cui vale la pena lottare, amare e vivere, al quale si richiamava quel giorno l’Arcivescovo concludendo la sua omelia: «Di fronte a una società che ne è povera, la comunità cristiana si presenti invece come il luogo nel quale la speranza continuamente sorge e viene offerta, a tutti e a ciascuno, attraverso la testimonianza di un amore misericordioso».
La crisi di regime
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 22.01.2010)
È bene chiamare le cose con il loro nome: stiamo vivendo una crisi di regime. Dalla quale si esce con una rifondazione della Repubblica secondo una lettura dinamica dei principi della Costituzione o, al contrario, abbandonando quei principi, con una rottura che porta, appunto, a un mutamento di regime. Negli ultimi tempi, infatti, si sono moltiplicate le dichiarazioni di chi esplicitamente sostiene la necessità di mutare i fondamenti della Costituzione, a cominciare dal suo articolo 1. Non bisogna sottovalutare questi atteggiamenti, considerandoli esuberanze personali: si commetterebbe lo stesso errore fatto quando si è derubricato il linguaggio razzista di molti politici a folklore.
Ma vi sono anche prese di posizioni apparentemente più moderate, che prospettano aggiramenti dei principi costituzionali che possono rivelarsi ancor più insidiosi degli attacchi diretti. Molti continuano a dire che la prima parte della Costituzione non si tocca, che principi e diritti fondamentali non sono in discussione. Ma la Costituzione affida la garanzia dei diritti alla libera valutazione del Parlamento e al controllo di una magistratura indipendente. Nel momento in cui la voce del Parlamento viene spenta (lo abbiamo visto con il processo breve) e si prospettano radicali riforme costituzionali della magistratura, ecco che l’apparenza è quella di un rispetto della prima parte della Costituzione, la sostanza è quella di una sua erosione. La riforma costituzionale è già in atto, nel modo più inquietante.
Parlando di modifiche costituzionali, bisogna partire da alcuni punti fermi. Il primo dei quali riguarda il fatto che la Costituzione non è tutta "disponibile" per qualsiasi scorreria di interessati riformatori. Nel 1988 la Corte costituzionale lo ha detto esplicitamente: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali», perché «appartengono all’essenza dei valori sui quali si fonda la Costituzione». Siamo di fronte all’indecidibile, a un limite che non può essere superato «neanche dalla maggioranza e neanche dall’unanimità dei consociati». Una considerazione, questa, da tenere ben presente in un tempo in cui l’appello alla maggioranza viene continuamente adoperato per legittimare qualsiasi iniziativa. E si deve aggiungere che tutto questo trova il suo fondamento profondo nell’articolo 139 della Costituzione, dove si stabilisce che «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol solo dire, banalmente, che non si ammette il ritorno ad un regime monarchico. Poiché la forma repubblicana del nostro Stato risulta dall’insieme dei principi contenuti nella Costituzione, tutto quel che altera questo quadro porta con sé una violazione radicale della Costituzione, e un conseguente passaggio da regime politico ad un altro.
Intraprendendo un cammino di riforma in un clima culturale e politico degradato com’è quello attuale, bisogna anzitutto individuare gli ambiti legittimi di una eventuale revisione. Gli studiosi sottolineano proprio questa necessità, ricordando ad esempio che la riforma del Parlamento non può trasformare la nostra Repubblica da parlamentare in presidenziale o negare l’effettiva rappresentatività della democrazia italiana (lo ha fatto Gianni Ferrara). Allo stesso modo, e più radicalmente, non si può mettere in discussione «il valore del lavoro come base della Repubblica democratica» (sono parole del Presidente della Repubblica), perché questa non è una affermazione a sé stante, ma individua un principio sul quale s’innesta una tutela forte della persona, per quanto riguarda la sua «esistenza libera e dignitosa» (articolo 36) e l’inviolabilità della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Queste sono parole dell’articolo 41, che in questi fondamentali principi individua un limite all’iniziativa economica privata, limite da tempo ritenuto inaccettabile da una critica che vuole sovvertire la gerarchia costituzionale, mettendo mercato e concorrenza al posto del lavoro. Ma proprio le drammatiche vicende di Rosarno dovrebbero dimostrare la straordinaria attualità della linea indicata da quell’articolo. Infatti siamo di fronte a una impressionante storia di sfruttamento e di negazione dell’umano, che conferma la necessità di mantenere, e eventualmente di rafforzare, il principio che fa prevalere sulle ragioni del mercato il rispetto della persona del lavoratore, della sua libertà, dignità, sicurezza.
Continue, poi, sono le prese di posizione che, alterando la gerarchia costituzionale, negano il fondamentale principio di eguaglianza. Di nuovo la questione degli immigrati è un buon terreno di verifica. Molti giudici hanno sollevato la questione di legittimità delle nuove norme sull’immigrazione clandestina. Reagendo a questa iniziativa, si è sostenuto che, qualora la Corte le dichiarasse incostituzionali, si avrebbe una sorte di estinzione della Repubblica italiana come Stato, poiché essa perderebbe una prerogativa fondante della statualità, cioè il diritto di regolare quel che avviene sul proprio territorio. Questo atteggiamento è rappresentativo della revisione "strisciante" della Costituzione. Ricordiamo, allora, che il Presidente della Repubblica, in una lettera a Maroni e Alfano nello stesso giorno in cui emanava la legge sulla sicurezza, esprimeva «perplessità e preoccupazione» per alcune norme di «dubbia coerenza con i principi dell’ordinamento», riferendosi specificamente anche alle norme sull’immigrazione clandestina. Le eccezioni di costituzionalità avanzate dai magistrati riguardano la ragionevolezza di quelle norme e il loro rispetto del principio di eguaglianza. La cittadinanza, infatti, è ormai vista come l’insieme dei diritti che accompagnano la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, superando proprio le angustie del criterio della territorialità. Non si può ammettere quindi, che una repubblica democratica neghi il principio di eguaglianza e il rispetto dei diritti fondamentali in relazione al modo in cui si è entrati sul suo territorio.
Esplicite o striscianti, dunque, sono molte le mosse che incitano a revisioni costituzionali che incidono sui principi, fornendo così la testimonianza di un cambiamento di regime che si vuole imporre, o almeno secondare. Quanto, poi, al presunto invecchiamento d’una Costituzione votata sessant’anni fa, vorrei ricordare una recentissima sentenza del Conseil Constitutionnel francese, che ha dichiarato incostituzionale una legge per la sua scarsa comprensibilità (quante leggi italiane reggerebbero a un simile controllo?) richiamando gli articoli 4, 5, 6 e 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.
L’obbligo di una esplicita riflessione culturale e politica sugli intoccabili fondamenti costituzionali è oggi ancor più ineludibile perché siamo di fronte a quello che si può definire un vero "risveglio costituzionale". Molti cittadini cercano e realizzano forme di organizzazione e di azione partendo appunto dalla Costituzione. Questo riconoscimento ci parla di vitalità della Costituzione, quella che ha nel sentire dei cittadini il suo più solido fondamento. Qui può radicarsi una vera opposizione al mutamento di regime. Vogliamo tenerne conto?
CATTOLICESIMO, BERLUSCONISMO, CRISTIANESIMO: DIO E’ RICCHEZZA ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2008)!!! QUESTA E’ LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI E LA CHIESA "CATTOLICA" E’ LA CUSTODE "UNIVERSALE" DELL’ORDINE SIMBOLICO DI "MAMMONA" E DI "MAMMASANTISSIMA" ....
QUESTO MATRIMONIO S’HA DA FARE, DOMANI, E SEMPRE!!! L’ANNUNCIO A GIUSEPPE, NELLA TRADIZIONALE LETTURA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA, DI GIANFRANCO RAVASI
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
Mosca apprezza, invece, l’impegno di Benedetto XVI sui «valori tradizionali cristiani» e intende arrivare presto al disgelo con il Vaticano: «Siamo alleati nella stessa sfida contro un’aggressiva secolarizzazione, quindi un incontro tra il Patriarca e il Pontefice è possibile e auspicabile, a condizione che cattolici e ortodossi non cerchino di sottrarsi i credenti».
La rivolta dei poeti: «Berlusconi, giù le mani dalla democrazia»
di Pietro Spataro *
Tanto, dicono, sopravviene rapido e crudo l’oblio». È un verso della poesia di Roberto Roversi che pubblichiamo qui accanto. Una delle tante che compongono questa «antologia della ribellione » che gira sull’on line da qualche giorno e sta suscitando grande interesse.Unastranezza nell’Italia di oggi. Trenta poeti (giovani e vecchi, del Nord e del Sud) si mettono al lavoro e scrivono versi per protesta: contro la minaccia incostituzionale di Berlusconi, per difendere il valore della resistenza e della memoria. Sembrava un’impresa impossibile. Quando Davide Nota, che è un giovane poeta di ventotto anni pieno di passione, ha cominciato a telefonare a noi più anziani, in pochi avremmo scommesso sulla riuscita. Pensavamo a Pasolini e misuravamo la distanza tra il suo grido e questa «Italia rotta» di oggi. Racconta Davide: «Tutto è cominciato quando Berlusconi ha proposto di cambiare nome alla Festa della Liberazione. Ne abbiamo parlato io e Gianni D’Elia e all’inizio si pensava a una cosa così, duepoesie contro l’oblio». Poi invece le poesie sono diventate di più: per la precisione quarantadue.
I poeti sono trenta e sono diversi tra loro: ci sono i «grandi vecchi » come Roberto Roversi, quelli della generazione di mezzo come Gianni D’Elia, Maurizio Cucchi e Franco Buffoni. Ma poi soprattutto ci sono tantissimi giovani: quelli che sono lanuova generazione che esprimeforse la rabbia più fresca e battagliera. Questa antologia insomma è un altro segno che qualcosa si muove nel mondo della cultura. «Si tratta di una rivolta della coscienza - spiega Gianni D’Elia - Assistiamo a un attacco al diritto che fa spavento. È ilmomentodi farecomediceva Dante: “Così gridai con la faccia levata”. Nonpossiamo permettere che la cultura sia travolta dalla tv». Aggiunge Franco Buffoni: «Cerchiamo di far sentire un fiato civile in un’epoca di disinteresse. Siamo noi i veri liberali, mica loro».
Nata per difendere la Costituzione e i valori dell’antifascismo la raccolta strada facendo ha assunto anche un taglio diverso. È diventata il grido di dolore contro la decadenza dell’Italia. «Un tentativo di resistenza contro l’orrore che abbiamo attorno - dice Maria Grazia Calandrone - Abbiamo il dovere di batterci contro questa catastrofe, cominciando dalla scuola che deve fornire gli strumenti per capire. Siamo circondati da una cultura della paura e del sospetto che fa venire i brividi». Aggiunge Flavio Santi: «Questa destra è pericolosa. Noi tentiamo di scalfire il muro di silenzio. I poeti ci sono ancora, questo vogliamo dire: per fermare l’omologazione per cui tutto va bene e tutto è uguale». È la prima volta forse nella storia d’Italia che trenta poeti si mettono insieme per gridare più forte. L’antologia sta girando nei vari social metwork, appare su alcuni siti importanti (Micromega, Reset italia, Nazione Indiana e daoggi anche sul sito dell’Unità). È una piccola cosa, ma spesso dalle piccole cose viene il meglio. È un modo per dire no a quello che Leopardi chiamava «il servilismo verso l’imperio dell’autorità». E oggi purtroppo in giro se ne vede un bel po’. Servirà? Direbbe Franco Fortini: «La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi».
Un appunto in prosa di poesia
Roberto Roversi
Largisce pace la pace
e la guerra di guerra risuona.
La guerra dice la pace fiacca e induce
all’ozio l’uomo calcolatore.
La guerra dice che la guerra è
inevitabile furore
e il grido degli uomini in battaglia
strappa nel cielo penne e penne agli angeli
peccatori.
Tanto, dicono, sopravviene rapido e crudo l’oblio
on mazza e scudo
a scalciare il sudario dei ricordi
che hanno acidula voce
e sono bagnati nel fiume di sangue degli anni
(senza pietà)
Ma i pensieri di ferro rovente non sono la rana
buttata in un fosso sperduto.
Il furore a Cassino
Varsavia Stalingrado
Dresda Coventry Berlino
tutta Italia spianata
porte d’inferno aperte ogni giornata.
Calpestare l’oblio
il viaggio dei ricordi non è mai finito
là c’ero anch’io.
Golpe sottile
Giuliano Scabia
Si aggira nelle menti, nei media,
un golpe sottile, un assopimento
spettacolare indotto da paura
e dissolversi delle visioni. L’ora
è venuta di lasciare il novecento
con le sue catastrofi e bellezze,
ma dicendo: siamo orgogliosi
di ciò che fu fatto per il bene,
non lo rinneghiamo: voi, col vostro
Gran Porcone e le sue Madonne
velinose andate pure alle glorie
delle falsate storie. Dignità e valore
è libertà, durezza e verità, amore
delle città, non tresca, non truffa,
non menzogna. Ciò che bisogna
adesso è: SVEGLIA ITALIA!
Scrollati dal fango che t’ammalia!
Nella piatta illusione del tempo
Maurizio Cucchi
Nella piatta illusione del tempo,
Nella comunità precaria
Dei morti e dei vivi,
Non si cancella l’offesa, non si modifica
Il senso della storia. Nel presente
Totale la vittima
E l’assassino conservano
Espressioni diverse, facce
Opposte: il nero
Resta nero e la storia
Non lo stinge, non lo sbiadisce.
Mai.
La Liberazione
Gianni D’Elia
Sciagurata sineddoche d’Italia,
la parte per il tutto del peggiore
carattere affarista, Smisuralia
d’iniquo e ingiusto, sovrano e signore.
Italiano del Duemila, tutta aria
di denaro e potere, il solo amore,
bassa statura, che animo non varia,
di riccastro ed impresario in calore.
Insigne erede di sozza fazione,
ossessa forza, che il Paese caria
dagli schermi e dai fogli del padrone,
liberaci di te, ci manca l’aria.
Per quanto studi per l’eterna azione
cammini già la tua vita mortuaria,
sei già nel tuo pacchiano Partenone,
sciagurato diffuso in terra ed aria.
S’aspetta che tu vada, odioso clone,
Primo, Secondo e Terzo Berluscone,
tu, già fuori della Costituzione,
contro i cives e la Costituzione,
tu e la tua burlesca Liberazione!
Credono di essere il paese
Lina Salvi
Credono di essere il paese,
ma sono fuori dallo Stato,
appiccando il fuoco con viso
coperto, a tradimento, alle baracche
di quei nomadi, che con un euro
comprano tre mattoni
per una casa nel loro paese,
i nostri sono scappati incuranti,
nelle auto ritoccate, i bambini
a decine chiedono notizie
dei loro compagni, perplessi,
in un’altra storia.
Altra preghiera
Pietro Spataro
Liberaci dal vuoto del potere
dall’ideologico concorrere violento
dai tribunali di partito, dall’erosione
del libero discorrere degli uomini
allontanaci dalle urla di governo
dagli elenchi fraudolenti dei nemici
dall’odio che scava a fondo e lascia
lungo la via un’aspra solitudine
forma essiccata del pensiero
decadenza inarrestabile, inquietudine
Soprattutto e con ogni forza
Raimondo Iemma
Metto in comune un bicchiere.
Sorrido a uno sconosciuto
cerco altre parole
telefono a un amico
di cui da tempo non ho notizie
riconosco la voce di sua madre.
Quanto più sgomenta
la sofferenza di ogni uomo
per la ferocia dei suoi pari
quanto più subdolo diventa
il nuovo vocabolario
di inchiostro bianco cenere
non smetterò di credere nella felicità e nel domani
nell’idea che queste due parole
abbiano tanti significati
quanti sono gli uomini.
Soprattutto e con ogni forza
non cederò alla tentazione
di opporre disprezzo al disprezzo
nonostante tutto vorrò praticare il coraggio e
l’amore.
Ho voglia di stare al mondo e lottare.
Aprile
Davide Nota
Se ne vanno, la notte, silenziosi,
in lenta carovana, gli occhi al suolo,
i morti che di noi ancora sono
morti e se ne vanno silenziosi.
Il vento tra le foglie del castagno,
il passo tra le felci, il legno franto,
il canto delle rane nello stagno,
il pianto scivoloso del canale...
Scompaiono, di notte. Torneranno
come le pietre che la terra inuma?
Sapere i loro segni che consuma
la pioggia non ci basta a ricordare
che vivi ci sognarono e son morti.
* l’Unità, 25 novembre 2009
CITTADINI SOVRANI. NÉ DI PIÙ NÉ DI MENO
di Paolo Farinella, prete Manifestazione del 5 dicembre 2009, ore 16,00 Largo Lanfranco (Davanti alla Prefettura) Genova *
Sono qui come cittadino sovrano orgoglioso di esserlo e senza paura di difendere questa mia dignità che non mi deriva dal potere, ma ce l’ho per nascita ed è un diritto inalienabile riconosciuto dalla Costituzione alla quale deve essere sottomesso ogni potere e ogni parlamento. Anche a costo della morte, anche a costo di andare sulle montagne non rinuncerò mai a questa libertà e a questa sovranità che è colorata dal rosso del sangue dei martiri della Resistenza a cui si aggiunge il sangue dei magistrati e degli avvocati e dei cittadini che per difendere la legalità sono stati ammazzati come cani.
La loro memoria grida davanti alla nostra coscienza. O stiamo dalla loro parte o stiamo dall’altra. Non c’è via di scampo. Una nuova tirannia oggi sovrasta l’Italia e noi non possiamo permetterlo. A coloro che scrivono lettere anonime con minacce anche di morte, dico apertamente: non ho paura di voi che vi nascondete sempre dietro l’anonimato, dietro la vostra vergogna. Io ci sono e ci sarò sempre e nessuno riuscirà a farmi tacere in difesa della giustizia, del diritto, della libertà e della libertà di coscienza. Nessuno. Fino a tre giorni dopo la morte, io parlerò.
Parlo anche come prete perché lo sono e sono orgoglioso di esserlo e nessuno né vescovi né papi riusciranno a non farmelo essere. Poiché qualcuno mi accusa di essere eretico, voglio tranquillizzare i cattolici presenti: le cose che dico sono dottrina tradizionale della Chiesa. Se gli altri, compresi i vescovi, se le dimenticano, gli eretici sono loro, non io.
Nel vangelo di Lc si dice che alcuni farisei simpatizzanti misero in guardia Gesù da Erode che voleva farlo uccidere («Erode ti cerca») e Gesù rispose: «Andate a dire a quella volpe che io scaccio gli spiriti maligni» (13,31-32). Con la complicità e il sostegno della mafia uno spirito maligno si è impossessato del nostro Paese e noi come laici in nome della Costituzione e come credenti in nome del Vangelo abbiamo il dovere e il diritto di scacciarlo: «La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere» (CCC 2265).
Diciamo a Bertone, che va a braccetto come un fidanzatino con Berlusconi ad inaugurare mostre, che Paolo VI nella Populorum progressio del 26 marzo del 1967 al n. 31 prevede come lecita «l’insurrezione rivoluzionaria nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali di una persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese» (cf anche Giovanni Paolo II, L’Istruzione Libertatis conscientia (Libertà cristiana e liberazione, 22.3.1986).
Non ci troviamo forse di fronte alle prove generali di una tirannia? Lo Stato democratico e le Istituzioni repubblicane sono state invase dai barbari e da mafiosi, che di ogni principio morale e democratico hanno fatto e stanno facendo scempio immondo. Il barbaro per eccellenza, lo spirito immondo, la volpe di oggi, che fa i gargarismi con l’acqua benedetta, mentre fa accordi con la mafia, si chiama Silvio Berlusconi anzi Berluskonijad perché è un misto tra il comunista Putin del kgb e il reazionario iraniano Ahmadinejad. E’ lui l’ultimo sovietico rimasto in Italia. Infatti la Russia del dittatore Putin e i paesi arabi più retrivi dove non esiste democrazia, sono i posti più prediletti da lui Addirittura dorme anche nel letto di Putin. Rifiutato dalle cancellerie democratiche del mondo, avete un presidente del consiglio che si rifugia in Bielorussia, dove ha osannato il dittatore Lukashenko che il mondo civile non ha mai riconosciuto. Tra dittatori si capiscono. Oggi è partito per Panama, mentre sarebbe ora che partisse per san Vittore. Dico vostro presidente del consiglio perché io l’ho ripudiato pubblicamente il 6 luglio 2009.
Per lui parole come democrazia, verità, eguaglianza, diritti, serietà, legalità, ecc. sono bestemmie perché l’uomo è abituato fin dalla nascita a vivere di falsità, a nutrirsi di illegalità, ad architettare soprusi, a complottare con la mafia, a mettere in atto ogni sorta di prevaricazione con un unico e solo scopo: l’interesse privato e l’ingordigia del suo super ego. Ora siamo all’attacco finale: lo chiamano «processo breve», ma è un solo l’abolizione del processo per annullare la giustizia perché c’è un’emergenza: bisogna impedire i processi che lo vedono imputato per reati gravissimi commessi prima di entrare in politica. Per capire di che si tratta e per divulgare in modo semplice, leggete la pagina che oggi sul Secolo pubblicano il Comitato per lo Stato di Diritto e Giustizia e Libertà hanno pubblicato, a pagamento, una pagina bella oggi sul Secolo XIX, dove potete vedere le conseguenze.
Io credo però che l’obiettivo non sia però il processo breve, ma il totale affossamento della giustizia: in questi giorni ne abbiamo le prove: Cosentino è indagato per Mafia e la maggioranza nega l’arresto; Dell’Utri è stato condannato in primo grado, Schifani (il nome stesso è un programma) frequentava e difendeva mafiosi e ora i pentiti parlano di Berluskonijad e del parto scellerato che sta alla base della fondazione del partito-azienda. I rapporti con la mafia sono naturali e quanto pare i mafiosi gli ha fatto da padrini nella sua nascita come imprenditore-truffatore. Sono motivi sufficienti perché il governo voglia dichiarare illegale ogni indagine per delitti di mafia, pagando così il pedaggio che egli e la sua famiglia e i suoi compari devono a «cosa loro» perché quella cosa non è e non sarà ma i «cosa nostra».
Tutti sanno che questa frenesia di interrompere il processo è condannata dal diritto e anche dalla morale tradizionale della Chiesa che esigono una giusta proporzione tra le parti in giudizio e la ricerca della verità morale. Noi sappiamo che la Corte Suprema lo bollerà ancora una volta, ma a lorsignori basta guadagnare tempo per andare in prescrizione. Lo sanno e proprio perché sono esperti in depistaggio, lo hanno usato per fare venire la diarrea al PD che c’è cascato. Ora aspettiamo i dossier arrivati dalla Bielorussia.
Bersani è la bella addormentata nel bosco che aspetta il bacio del principe che non arriva nemmeno travestito da rospo. Enrico Letta, il nipote del cardinal Mazzarino-Gianni Letta, Gentiluomo di Sua Santità, ha detto che è un diritto di B. difendersi «dal processo». Dovrebbe dimettersi non perché ha detto questo, ma perché è ignorante in fatto di giurisprudenza. Bocciato senza appello, all’ergastolo anche oltre la morte. Da quando ha cominciato a frequentare cattivi cattolici il PD è diventato come la maionese: si monta e si sgonfia in un baleno. Ora hanno la fregola delle riforme e di sedersi al tavolo del dialogo. Con questa gente non si può dialogare. Devono andare a casa, anzi in galera. Mafia e P2 sono al governo e stanno preparando le condizioni per impadronirsi definitivamente del Paese e delle nostre coscienze.
Le nostre coscienze non le avranno mai, perché noi saremo pronti ad andare anche sulle montagne a resistere perché non accettiamo e non accetteremo di essere governati da mafiosi, corrotti, frequentatori di minorenni e utilizzatori finali di prostitute e dall’avvocato Ghedini che paghiamo noi, mentre difende il ladro che ci ha rubato non solo una parte considerevole di denaro sottratto a noi (è fresca la notizia che la finanziaria taglia 103 milioni sui libri di scuola), ma ci deruba anche l’onore all’estero, la dignità sociale e la nostra sovranità di cittadini in casa.
Non possiamo rassegnarci. Non possiamo rassegnarci al luogo comune che la «politica è cosa sporca». E’ una trappola! Non è la Politica ad essere sporca, ma alcuni uomini e donne sporchi che la insozzano e coloro che li hanno votati sono correi e dovrebbero prendere un ergastolo per uno. Per noi Politica è il modo più nobile e diretto di servire il nostro popolo, senza servirsi di esso.
Vogliamo che Berlusconi e chiunque delinque, sia processato secondo lo statuto della nostra Costituzione. Vogliamo conoscere la verità sulla corruzione dei giudizi e dei testimoni. Vogliamo conoscere la verità sulle stragi della mafia. Vogliamo conoscere quanto la mafia sia dentro gli affari di Berlusconi. Vogliamo sapere con inequivocabile certezza se il presidente del consiglio sia un capobastone, un ricattato o una vittima.
Pretendiamo una magistratura libera, indipendente, senza condizionamenti di sorta. Vogliamo vivere in un Paese democratico, in un Paese civile, in un Paese dignitoso. Vogliamo riappropriarci del nostro orgoglio di cittadini sovrani e non permettiamo ad una manica di mafiosi di sottomerci come schiavi. Costi quel che costi, anche a costo della vita. Ai cattolici presenti io, Paolo prete cattolico tradizionalista dico: è parte della nostra missione nel mondo compiere e rendere attuale il programma politico del Magnificat della Madonna che celebreremo il giorno 8 dicembre: non ha senso andare in chiesa l’8 dicembre, se poi vanifichiamo le parole di Maria di Nàzaret, donna rivoluzionaria:
«51 Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.
54 Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre» (Lc 1,51-55).
Queste parole hanno una traduzione laica, rivolta a tutti, credenti e non credenti che abitano, anzi che sognano un Paese autenticamente laico, dove la separazione tra Religione e Stato debba essere rigorosissima. Ecco a voi come parola d’ordine di questa sera, le parole di Pier Paolo Pasolini a 37 anni dalla morte: «E noi abbiamo una vera missione, in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà» (P. P. Pasolini). Nulla di più, nulla di meno.
Genova, dal palazzo della Prefettura, sabato 5 dicembre 2009, ore 16,00-18,00
*Il Dialogo, Mercoledì 09 Dicembre,2009 Ore: 16:13
MESSAGGI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA (www.quirinale.it):
"Nuovo impegno collettivo per riscattare il senso alto della politica"
"Si avverte la necessità di un nuovo impegno collettivo per riscattare il senso alto della politica e costruire una società democratica più equa e più solidale, tollerante e inclusiva, che sappia fare tesoro della propria eredità storica nel guardare al futuro in modo aperto". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio inviato in occasione del XIII Meeting sui diritti umani dal tema "Riconciliare l’Italia. Riconciliare il mondo", promosso dalla Regione Toscana.
Una inizitiva che vede "il coinvolgimento attivo di migliaia di studenti per approfondire il tema della riconciliazione, contro il razzismo, contro la violenza, contro ciò che divide anzichè unire. E’ sulla formazione dei giovani - ha aggiunto il Capo dello Stato - che si deve far leva per assicurare uno sviluppo equilibrato della nostra società, per radicare il principio che in ogni democrazia accanto ai diritti, ad iniziare proprio dai diritti dell’uomo, vi sono dei doveri, per suscitare un rinnovato spirito di solidarietà".
"L’Italia ha bisogno dello ’spirito di leale collaborazione’ concordamente auspicato al Senato"
In relazione alle espressioni pronunciate dal Presidente del Consiglio in una importante sede politica internazionale, di violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia volute dalla Costituzione italiana, il Presidente della Repubblica esprime profondo rammarico e preoccupazione. Il Capo dello Stato continua a ritenere che, specie per poter affrontare delicati problemi di carattere istituzionale, l’Italia abbia bisogno di quello "spirito di leale collaborazione" e di quell’impegno di condivisione che pochi giorni fa il Senato ha concordemente auspicato.
L’estinzione dello Stato
di Stefano Rodotà (la Repubblica,2o.11.2009)
Possono le istituzioni sopravvivere in un ambiente in cui la loro delegittimazione diviene una deliberata strategia politica? Che cosa accade quando il rispetto della Costituzione è costretto a rifugiarsi in luoghi sempre più ristretti? Stiamo percorrendo una anomala e inquietante via italiana all’estinzione dello Stato?
L’Italia sta diventando un perverso laboratorio dove elementi altrove controllabili si combinano in forme tali da infettare l’intero sistema. E il contagio si diffonde dalla politica all’intera società, dove ogni giorno vengono messi in scena il degrado del linguaggio, il disprezzo delle regole, l’esercizio brutale del potere. Di fronte a pretese e interventi particolarmente devastanti, come quelli che stravolgono la legalità in nome dell’interesse di uno solo, si evoca lo "stato d’eccezione", una categoria politica costruita per giustificare l’esercizio autoritario del potere di governo e che, tuttavia, rivela una sua nobiltà intellettuale che non si ritrova nelle miserabili prassi italiane di questi tempi. Che sono ormai così diffuse e radicate da impedire che si parli dello stato d’eccezione come di qualcosa appunto eccezionale. Come si è parlato di "emergenza permanente", per imporre logiche autoritarie e manomettere i diritti, così è ragionevole definire lo stato delle cose italiane come uno "stato d’eccezione permanente".
Sono gli stessi principi costituzionali ad essere regolarmente violati, a cominciare da quello di eguaglianza. Non dimentichiamo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il "lodo Alfano" proprio per il suo contrasto con quel principio. Dobbiamo ricordarlo ancora oggi di fronte alle proposte di approvare una legge costituzionale che riproponga i contenuti di quel testo: anche questo tipo di legge deve rispettare l’eguaglianza. Lo ha sottolineato fin dal 1988 la Corte costituzionale, affermando che i «principi supremi» dell’ordinamento italiano non possono essere «sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali». Tra questi principi spicca proprio quello dell’eguaglianza tra i cittadini.
Ma la diseguaglianza è stata codificata da molte leggi, è penetrata profondamente nella società, sta creando categorie di "sottocittadini". Nella vergogna del "processo breve" vi è la maggior vergogna dell’esclusione dai benefici degli immigrati clandestini. Questa erosione delle basi della convivenza nega l’universalità dei diritti fondamentali, legittima il rifiuto dell’altro e del diverso, e così apre le porte a quei fenomeni di razzismo e omofobia che rischiano di diventare una componente stabile del panorama italiano.
Una volta messi da parte i principi, la distorsione del sistema istituzionale diventa inevitabile e quotidiana, e non è più sufficiente a spiegarla il richiamo del conflitto d’interessi incarnato dal presidente del Consiglio. Si è manifestata una nuova forma di "Stato patrimoniale", dove si mescolano risorse pubbliche e private, l’influenza politica si sposa con la pressione economica, le aziende della galassia berlusconiana diventano snodi politici determinanti. Lo rivelano, tra l’altro, non solo il continuum Mediaset/Rai e gli annunci di normalizzazione di canali televisivi ancora un po’ fuori dal coro, ma anche le manovre che riguardano l’assetto complessivo delle telecomunicazioni, la proprietà dei giornali, il sistema finanziario.
Un potere che si è progressivamente concentrato in poche mani, con una idea proprietaria dello Stato che cancella gli altri soggetti istituzionali e azzera ogni controllo. Conosciamo la deriva che sta travolgendo il Parlamento, espropriato d’ogni funzione, e che ha portato alla clamorosa decisione di una "serrata" di dieci giorni della Camera dei deputati, decisa dal suo Presidente per denunciare l’impossibilità di lavorare. Un fatto davvero senza precedenti, che avrebbe dovuto provocare reazioni forti, che è stato piuttosto ricondotto alle schermaglie tra Fini e Berlusconi. La funzione legislativa è saldamente nelle mani del Governo attraverso i decreti legge e le leggi delega, e grazie al diffondersi delle "ordinanze di protezione civile", sottratte a qualsiasi controllo parlamentare e che contengono sempre più spesso norme di carattere generale, ben al di là delle emergenze che le giustificano. Ma è soprattutto la dimensione costituzionale ad essere evaporata. La Costituzione non appartiene più al Parlamento, tant’è che d’ogni legge in corso di discussione si discute se il presidente della Repubblica la firmerà o no, quali siano i rischi di una dichiarazione d’illegittimità da parte della Corte costituzionale. I custodi della Costituzione sono altrove, e la stessa Carta costituzionale rischia di veder mutato il suo significato se una istituzione centrale, il Parlamento, si comporta come se le fosse estranea.
Molte aree istituzionali vengono così desertificate, prendendo anche a pretesto vere o presunte inefficienze. Si documentano i ridottissimi tempi di lavoro del Parlamento e se ne trae spunto per denunciare i deputati fannulloni, non per indicare misure per rivitalizzare il Parlamento, possibili già oggi. La stessa tecnica è adoperata per attaccare la magistratura e legittimare l’ennesima legge ad personam, quella sul processo breve, giustificata con l’argomento della ingiustificata durata dei processi. Ma è del 1999 la riforma dell’articolo 111 della Costituzione che parla di una loro "ragionevole durata", sono anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo ci condanna per le lungaggini della giustizia, sono decenni che il dissesto dell’amministrazione giudiziaria può essere definito "una catastrofe sociale". Così sensibile al problema, la maggioranza di centrodestra non ha mosso un dito nella fase di governo tra il 2001 e il 2006, assai interventista in materia di giustizia, ma non per approvare misure e attribuire risorse per tagliare i tempi processuali, bensì per andare all’assalto dell’indipendenza della magistratura. E oggi vuole profittare di questa situazione per sottrarre Berlusconi ai processi e assestare un colpo ulteriore all’efficienza e alla credibilità della magistratura.
Un "dialogo" sulle riforme costituzionali, e la stessa politica quotidiana dell’opposizione, non possono ignorare tutto questo. E bisogna ricordare che la Costituzione si conclude con un articolo che oggi esige particolare attenzione. È scritto nell’articolo 139: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol dire, banalmente, che non si può tornare alla monarchia. Significa che il nostro sistema costituzionale presenta una serie di caratteristiche che definiscono la "forma repubblicana" e che non possono essere modificate senza passare ad un regime diverso. È proprio quello che non si stanca di ripetere, con sobrietà e fermezza, il Presidente della Repubblica
Appello
Alziamo le nostre coscienze e tiriamo su la nostra schiena
di Paolo Farinella, prete *
Il governo e la maggioranza hanno valicato ogni ritegno: ormai delinquono in pubblico e in tv apertamente al grido minaccioso di «Salvare Berlusconi ad ogni costo». Il parlamento chiuso si riapre per approvare una leggina che metta al sicuro Berlusconi dai «suoi processi» e non importa se questa leggina non solo annienta gli scandali di truffa, falso in bilancio, bancarotta, ecc. ma annulla il diritto di milioni di cittadini che hanno diritto ad una sentenza ed eventualmente ad un risarcimento. Con questa legge che riduce solo i tempi dei processi, senza dare personale, strumenti e mezzi per accelerarli, si consuma la supremazia definitiva del sopruso sul diritto, della mafiosità sulla legalità, dell’impudenza sulla dignità e la sconfitta definitiva dello stato di diritto.
Berlusconi, dopo il lodo Alfano torna ad essere, almeno teoricamente, un cittadino come gli altri e come tutti deve essere processato e assolto o condannato con una sentenza inappellabile. Non possiamo tollerare ancora una volta una legge che lo salvi impunemente, anche in presenza di sentenze in corso. Non possiamo assistere inattivi, inermi e complici di una immoralità e indegnità di questa portata.
Usiamo la rete non solo per resistere, ma per reagire, per impedire che ancora una volta il corrotto, corruttore, compratore di giudici, di sentenze e di testimoni, il predatore fiscale che con le sue evasioni e i suoi conti esteri ha rubato a tutti noi e a ciascuno di noi. Una leggina riguarda Mediaset che deve al fisco circa 200 milioni di euro e se la caverà con un misero 5%. Come è possibile che i pensionati, i lavoratori a stipendio fisso, i precari, i cassintegrati, le donne, i senza lavoro, possano ancora votarlo e vederlo come un modello?
Come è possibile che assistiamo rassegnati alla vivisezione della Costituzione e della sopravvivenza di uno scampolo di dignità? Siamo calpestati ogni giorno nei nostri diritti e derisi nella nostra dignità e non siamo in grado di reagire come si conviene ad un popolo di gente che ogni giorno si ammazza per vivere onestamente del proprio lavoro e nel rispetto della Legge.
Non possiamo tollerare più che un uomo disponga dello Stato, delle sue Istituzioni, che ordini alla Rai di firmare un contratto di 6 milioni di euro al suo maggiordomo Bruno Vespa perché è bravo a fargli il bidet. Non possiamo tollerare che un suo dipendente, Minzolini, pontifichi a suo nome dalla tv di Stato; non possiamo più tollerare che sia smantellata Rai anche se aumenta ascolti e fatturato solo perché indigesta al satrapo senza statura. Non possiamo più tollerare che ci domini a suo piacimento e a suo uso e consumo. Se lui è l’utilizzatore finale delle prostitute a pagamento, noi vogliamo essere le sue mignotte «a gratis»?
Mettiamo in moto una rivoluzione e riportiamo il treno dentro i binari della Legge, delle Istituzioni, della Legalità, della Giustizia, della Dignità e del nostro Onore. E’ ora il tempo di scendere in piazza non per rivendicare un aumento di stipendio, ma per rivendicare un sussulto di dignità e di orgoglio di essere Italiani e Italiane che non vogliono essere scaricati come spazzatura. Berlusconi sta imperando e sta distruggendo tutto perché noi lo permettiamo o quanto meno lo tolleriamo.
Alziamoci in piedi e non pieghiamo la testa, chiedendo a gran voce, se necessario con uno sciopero generale ad oltranza, le dimissioni di Berlusconi, dei suoi avvocati pagati da noi e la conclusione dei suoi processi perché in Italia nessuno può essere più uguale degli altri e tutti, nessuno escluso, devono sottostare alla Maestà del Diritto.
Mi appello alle organizzazioni sindacali, ai partiti, alle associazioni nazionali e internazionali, ai gruppi organizzati, all’Onda lunga della scuola, ai blogger, alle singole persone di buona volontà con ancora una coscienza integra perché «el pueblo unido jamás será vencido».
LETTERA Al Sig. Presidente della Repubblica On.
Giorgio Napolitano
di Paolo Farinella, prete
Ho appena inviato la seguente e-mail al Presidente della Repubblica
Se ritenete, fate lo stesso: inondiamo il Quirinale di e-mail, uno tsunami di e-mail, lettere, cartoline, telegrammi, piccioni viaggiatori, mosche cocchiere, tutto ciò che occorre perché si veda e si senta lo sdegno di tutti noi.
Paolo Farinella, prete
Al Sig. Presidente della Repubblica
On. Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale
00100 Roma
Via e-mail: presidenza.repubblica@quirinale.it
Sig. Presidente,
Con orrore prendiamo atto che il parlamento, chiuso da settimane per irresponsabilità del governo, riprende freneticamente l’attività per porre rimedio alla sentenza della Consulta che, bocciando il «lodo Alfano» (che pure Lei aveva firmato), ha dichiarato l’uguaglianza assoluta tra tutti i cittadini, compreso il presidente del consiglio dei ministri.
Il governo, la maggioranza, il parlamento e il Paese sono bloccati sulle vicende giudiziarie del presidente del consiglio che continua a pretendere leggi su misura per salvarsi dai processi dove è inquisito di reati gravissimi per i quali alcuni suoi complici sono stati condannati definitivamente (Previti) o in primo grado (Mills). La pretesa di leggi su misura viene fatta in pubblico, alla luce del sole, nella certezza dell’impunità assoluta, anche a costo di annullare migliaia e migliaia di processi gravissimi (Parlat, Cirio, Antonveneta, Eternit, rifiuti a Napoli, ecc.), lasciando centinaia di migliaia di cittadini vittime di ingiustizia senza risposte, senza risarcimenti, senza una sentenza con attribuzione di responsabilità. Sig. Presidente, il Paese è stufo di questo andazzo e in molti siamo pronti alla rivoluzione perché non possiamo tollerare più che le nefandezze di un uomo che si è servito sempre dello Stato distruggano lo Stato stesso per salvare lui e mettere al sicuro il suo patrimonio, frutto di evasione fiscale, riciclaggio, falso in bilancio e corruzione. Non tolleriamo più che un sistema mafioso condizioni lo stato di diritto e calpesti la dignità e la laboriosa onestà della maggior parte delle cittadine e cittadini che hanno sempre avuto il sommo rispetto per la Legalità, anche contro i propri interessi pratici.
Sig. Presidente, lei è l’ultimo baluardo del Diritto, il garante supremo della Carta Costituzionale, il rappresentante della unità nazionale. A nome di migliaia di persone oneste, la supplico di non fermarsi alla pura forma dei suoi compiti, ma di fare tutto il necessario perché il governo e il parlamento tornino ad essere esempio specchiato di trasparenza di vita, di legalità e di esempio morale. Non diventi, anche indirettamente, complice di norme e leggi improvvisate sulle necessità e sui tempi del presidente del consiglio, anche se mascherate con qualche pennellata di «esigenza generale» perché lei sa che così non è. Noi vogliamo che il sig. Berlusconi Silvio si sottoponga la giudizio dei tribunali della Repubblica, come un qualsiasi cittadino. Sig. Presidente stia dalla parte dei cittadini onesti, del Diritto e della Dignità dell’Italia che in questo momento è mortificata proprio da quel governo che dovrebbe condurla fuori dalla crisi economica e sociale e invece la sta infognando e annegando nella melma dell’indecenza. Se necessario, sciolga le Camere per ingovernabilità mafiosa.
Con flebile speranza,
Paolo Farinella, prete
Il gruppo di garanti guidato da Ciampi delle celebrazioni dei 150 anni
Riscritto il progetto Bondi, si sottolinea l’identità e la coesione nazionale
La rivincita dell’Unità d’Italia
Il comitato ribalta l’impianto ’leghista’
di SIMONETTA FIORI *
Sono i Garanti dell’Italia unita, al loro compito cercano di rimanere fedeli. Così il nuovo documento proposto da un gruppo di studiosi raccolti intorno al presidente Carlo Azeglio Ciampi ha proprio il sapore di una correzione rispetto alle linee-guida presentate un mese fa dal ministro Bondi. Cominceranno il 17 marzo del 2011 le celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. La data di avvio è stata proposta dal Comitato dei Garanti, che ieri ha reso pubblico il suo documento con i "suggerimenti" per il ministro Bondi. La rilevanza politica di questo nuovo atto consiste nel contrapporre alla "disunità" enfatizzata nelle linee guida del ministero, influenzato dai mal di pancia di Bossi (i localismi, la valorizzazione dei dialetti, le ombre del processo risorgimentale), una lettura che invece insiste sul carattere unitario della costruzione nazionale. E questo carattere unitario scaturisce da una tradizione storica che dal Risorgimento arriva alla Carta Costituzionale passando attraverso la stagione fondante della Resistenza.
Quella che è emersa nei giorni scorsi dal Comitato dei Garanti - presieduto da Carlo Azeglio Ciampi e composto tra gli altri da Gustavo Zagrebelsky, Walter Barberis, Roberto Pertici, Simona Colarizi, Elena Aga Rossi, Ernesto Galli della Loggia - è una lettura della storia nazionale molto distante dagli umori della Lega o dalle interpretazioni neoguelfe cui pure è sensibile il presidente del Consiglio. Ora spetta al ministro Bondi tradurre in mostre, manifestazioni nelle scuole, musei virtuali e fiction televisive questa lettura dell’identità nazionale. Ci saranno i soldi? E, soprattutto, ci sarà la volontà politica di valorizzare un’interpretazione della storia italiana così estranea alla visione dei governanti?
Vediamolo in dettaglio questo bilanciamento. Intanto nel cappello del documento si specifica che queste celebrazioni devono trasmettere essenzialmente un "significato unitario", ossia il "patrimonio di identità e di coesione nazionale che gli italiani hanno maturato nella loro storia". Questo non significa trascurare "le difficoltà del percorso di formazione nazionale" o "problemi ancora irrisolti come il divario tra Nord e Sud" né significa appiattire "gli elementi di pluralità e diversità" molto esaltati dal ministro Bondi, ma tutti questi aspetti devono essere trattati entro una cornice solidamente unitaria, cementata da un’identità nazionale "che ha le sue radici nella formazione della lingua italiana", scrive Ciampi, "e che negli ultimi due secoli s’è sviluppata in una continuità di ideali e valori dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituzione Repubblicana".
Un capitolo centrale del documento investe le "istituzioni", questione ignorata nelle precedenti celebrazioni dell’Unità d’Italia. "L’unità di un popolo", vi si legge, "si misura sulla tenuta delle sue istituzioni, sulla capacità di fare di tante terre, distinte e anche lontane, un territorio integrato". Parlare dell’unità d’Italia equivale dunque a parlare delle sue istituzioni unitarie, della loro attuale tenuta. Centocinquant’anni di trasformazioni profonde: "dalla monarchia alla repubblica; dall’oligarchia liberale alla democrazia aperta a tutte le classi; dallo Stato centralizzato alle autonomie territoriali, al federalismo; dalla emarginazione delle donne dalla vita pubblica e sociale alla loro partecipazione; dai diritti di libertà ai diritti sociali, la salute, il lavoro, l’istruzione; dallo Stato-guardiano allo Stato del benessere; dalla separazione società-Stato alla "nazionalizzazione delle masse", allo Stato pluralista; dallo Stato confessionale alla laicità dello Stato". Il "documento riassuntivo" di questo percorso è la Costituzione, che dovrebbe assurgere a simbolo delle celebrazioni unitarie. Da queste considerazioni discende un’altra integrazione suggerita a Bondi dai Garanti: le manifestazioni non dovrebbero essere circoscritte al solo Risorgimento. La ricorrenza del 2011 investe la "vicenda italiana in tutta la sua unitarietà e interezza": non solo dunque la lotta per l’indipendenza, ma anche il successivo consolidarsi dell’identità italiana lungo un secolo e mezzo, con speciale attenzione "al tratto del percorso unitario compreso negli ultimi sessant’anni".
In questo quadro di riferimento - che valorizza anche la crescita di benessere legato al lavoro, il ruolo delle Forze Armate, la storia di genere - si potranno pure affrontare i singoli episodi, personaggi e luoghi geografici indicati dalla precedente bozza di Bondi (viaggi nella storia locale italiana, ritratti di statisti e artisti eminenti, luoghi delle memoria, targhe e monumenti riscoperti e puliti), elementi che tuttavia, sprovvisti della cornice unitaria, non sono più funzionali allo spirito delle celebrazioni. Conseguente a questa impostazione è anche la riflessione sui dialetti. "La valorizzazione delle lingue particolari", si legge nel documento, "è un fatto positivo se serve alla pluralità nell’unità; non ha invece alcuna relazione con le celebrazioni dell’Unità d’Italia, è anzi controproducente, se si riduce alla pura e semplice coltivazione di culture locali chiuse in sé, a vocazione folcloristica". Bondi aveva proposto il "censimento dei dizionari dialettali". Una "priorità dubbia", liquida il Comitato. Al momento Bossi è servito. La palla ora passa al ministero.
© la Repubblica, 7 ottobre 2009
La Stampa, 7/10/2009 (17:58)
LA SENTENZA
"Il Lodo Alfano è incostituzionale"
La Consulta boccia l’immunità
per le più alte cariche dello Stato:
«Serviva una legge costituzionale»
ROMA Il verdetto della Consulta è arrivato: il Lodo Alfano è incostituzionale. Dopo un’intera mattinata in camera di consiglio, i 15 giudici della Corte si sono riaggiornati nel pomeriggio ed hanno comunicato la bocciatura dell’immunità per le quattro più alte cariche dello Stato.
La Consulta ha bocciato il Lodo per violazione dell’art.138 della Costituzione, vale a dire l’obbligo di far ricorso a una legge costituzionale (e non ordinaria come quella usata per sospendere i processi nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato). Il Lodò è stato bocciato anche per violazione dell’art.3 (principio di uguaglianza). L’effetto della decisione della Consulta sarà la riapertura di due processi a carico del premier Berlusconi: per corruzione in atti giudiziari dell’avvocato David Mills e per reati societari nella compravendita di diritti tv Mediaset
L’illegittimità è stata votata da nove giudici su 15, sei i contrari. Nelle ultime ore era circolata l’ipotesi, poi smentita dalla sentenza, di una sorta di "terza via" che avrebbe consentito di salvare in parte la norma, sollevando vizi e suggerendo ritocchi da introdurre. Soluzione, quest’ultima, che avrebbe mitigato le forti reazioni al verdetto e che proprio per questo rappresenterebbe un accettabile compromesso per chi ha ruoli istituzionali. Il clima nei palazzi della politica è infuocato. Lo dimostrano le parole di questa mattina pronunciate da Umberto Bossi: se la Consulta bocciasse il Lodo Alfano, aveva avvertito il ministro leghista prima del pranzo con il presidente della Camera Gianfranco Fini, «noi entreremmo in funzione trascinando il popolo. E il popolo ce lo abbiamo, sono i vecchi Galli». Uscendo dallo studio di Fini il leader della Lega aveva rincarato la dose: se il lodo sarà bocciato, le elezioni regionali si trasformerebbero in un referendum a favore o contro Silvio Berlusconi. «Il popolo si esprimerebbe su Berlusconi e Silvio vincerà, grazie anche a alleati come noi».
Le opposizioni insorgono. Mentre Franceschini parla di «esplicita intimidazione» alla Corte costituzionale, il candidato alla segreteria del Pd Bersani manda un avvertimento preciso alla Lega: «Bisognerà finirla di fare pressioni sulla Consulta: Bossi ricordi che il popolo non ce l’ha solo lui». «E’ un fatto gravissimo - protesta l’esponente del Pd Andrea Martella - che un ministro della Repubblica interferisca in maniera tanto plateale in una decisione della Corte costituzionale, tra l’altro a camera di consiglio aperta. Non è questo il momento di instillare altro veleno nella vita del Paese. Il governo e gli esponenti della maggioranza si fermino». «Le minacce di insurrezione di Bossi sono irresponsabili e qualcuno dovrebbe fermarlo e ricordargli che è un ministro della Repubblica e non un semplice militante del suo partito» afferma Marina Sereni, vicepresidente dei deputati Pd.
IL COMMENTO
Il coltello del potere
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Ora che si annuncia il character assassination di Gianfranco Fini, come per la brutale liquidazione del direttore dell’Avvenire, non tiene conto discutere di chi preme il grilletto.
Quel che conta è mettersi dinanzi la figura del mandante, le ragioni della sua mossa intimidatoria per fermare l’immagine della scena distruttiva in cui siamo precipitati. Quel che accade, non c’è altro modo per dirlo: Silvio Berlusconi, con il suo giornale, avverte il partner che, en passant, è anche la terza carica della Repubblica. Lo minaccia con formule che fanno venire il freddo alla nuca: "Ultima chiamata per Fini... Fini ha l’esigenza immediata di trovare una ricollocazione: o di qua o di là. Non gli è permesso... Deve risolversi subito... E ricordi che, bocciato un Lodo Alfano, se ne approva un altro". E infine, lo scintillio del coltello: "Ricordi che delegare i magistrati a far giustizia politica è un rischio. Perché oggi tocca al premier, domani potrebbe toccare al presidente della Camera. E’ sufficiente - per dire - ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme".
Nella "strategia della tensione" (le Monde), inaugurata per l’autunno dal capo del governo, il giornalismo diventa strumento di intimidazione e minaccia. Ce ne possiamo meravigliare? L’avevamo già visto all’opera contro Dino Boffo, quel giornalismo assassino. Quel che conta è scorgere dietro quell’alterazione dell’informazione, la manovra politica, seguire i passi del manovratore. Anche quel dispositivo si era avvistato per tempo. Dopo il rimescolamento nell’informazione controllata direttamente o indirettamente dall’Egoarca, era già chiaro in luglio che sarebbe cominciato il tempo dell’aggressività. Non era difficile prevedere che una stagione di prepotenza avrebbe demolito deliberatamente i non-conformi, degradato i perplessi, umiliato gli antagonisti. Dentro la maggioranza o nell’opposizione. Dentro la politica o fuori della politica. Nel mondo dell’impresa, della società, della cultura, dell’informazione. Nessuno oggi - si deve aggiungere - può dirsi al sicuro dalle ritorsioni dell’Egoarca. Non lo è stata la moglie del premier, la madre dei suoi figli, che per prima ha subito un mortificante rito di degradazione. Non lo è stata la Chiesa dei vescovi italiani, umiliata con le accuse taroccate al direttore dell’Avvenire.
Ora tocca al presidente della Camera al quale viene interdetto, con la minaccia di "uno scandalo", di manifestare il proprio pensiero, che poi dovrebbe essere un suo diritto costituzionale. Vale la pena di parlare di Costituzione. Nel lavoro assegnato dal capo del governo al suo giornale, c’è innanzitutto la distruzione dei principi della Carta. L’Egoarca sa che la Corte costituzionale potrebbe cancellare la legge che lo rende immune e fa sapere che se ne impiperà. Farà approvare una nuova legge. Disporrà che sia "immediatamente in vigore".
I giudici sono avvisati. Del Parlamento l’Egoarca non se ne cura, è un trascurabile accidente. Se il presidente della Camera ritiene di doversi mettere di traverso, magari rispettando i regolamenti, sappia che finirà nel tritacarne di uno scandalo che non c’è, ma che i media controllati faranno credere vero e infamante. Fini è anche co-fondatore del partito del presidente del Consiglio, è un uomo libero che liberamente - anche se in contrasto con il partner politico - esprime le sue convinzioni su temi (immigrazione, fine-vita) sensibili e controversi. Il presidente del Consiglio gli fa sapere che deve tacere, adeguarsi, rendere le sue idee conformi. In caso contrario, la "macchina della calunnia", che ha organizzato in Sardegna e ad Arcore quest’estate, lo stritolerà.
Il paradigma che informa, in questa stagione, l’Egoarca è soltanto un fragoroso, orientale abuso del potere. Berlusconi ha rinunciato anche all’obiettivo dichiarato di ridurre i poteri plurali e diffusi a vantaggio di una forma politico-istituzionale accentrata nella sua figura di premier cancellando il quadro politico dove competono le forze sociali e politiche, rivendicando le sue decisioni direttamente in televisione in nome della legittimità conquistata con il voto.
Oggi, Berlusconi non reclama più nemmeno la legittimità di quel potere. Preferisce mostrarne, senza alcuna finzione ideologica, con immediata concretezza, soltanto la violenza pura. Gli interessa soltanto alimentare l’efficienza di una macchina di potere che non vive di idee, progetti, discussioni, riforme, alterità, ma di brutalità, imperio, conformismo e terrore. Quel che si intravede è un uomo solo, circondato da cattivi consiglieri, prigioniero di una sindrome narcisistica, incapace di fare i conti con una realtà che non controlla più, che non riesce più annullare. Illiberale fino alle midolla, avverte il declino e vede ovunque oscuri pericoli.
Nella stampa estera, nelle cancellerie europee, nell’Ue, tra i suoi alleati di governo e di partito, nelle gerarchie ecclesiastiche, nella magistratura, nell’informazione pubblica. Ogni dissenso - anche il più motivato e amichevole - gli appare un atto persecutorio cui replicare "colpo su colpo". Questa deriva rende oggi Silvio Berlusconi un uomo violento e pericoloso. Nella sua crisi trascinerà lo Stato che rappresenta. Lo abbiamo già detto e ogni giorno diventa più vero. La scena in cui siamo precipitati è la decadenza di un leader che non accetta e non accetterà il suo fallimento. Trascinerà il Paese nella sua sconfitta, dividendolo con l’odio.
* la Repubblica, 15 settembre 2009
25 Gennaio 2008...12:22 am
Mastella cita Neruda. Quello finto.
Tempi duri per l’ufficio stampa di Clemente... ormai si capiva quanto fosse privo di fantasia, il politikanten di Ceppaloni.
Era chiaro, doveva abbandonare il governo e doveva farlo in modo plateale, tragico, amaro. Doveva, insomma, obbligare per un attimo l’uditorio a provare pena per il governo. A provare pena per la sua situazione. A Mastella POPprovare pena per lui messo alle strette dal governo italiano, dal sistema della magistratura.
Serviva un buon metodo, una poesia. Parliamo di amore quindi parliamo di Pablo Neruda.
E parte e fa il suo pezzo, cita Neruda?
NO! Semplicemente una Bufala. Bella figura abbiamo fatto!
Trattasi di una poesia di Martha Medeiros, brasiliana di Porto Alegre, pubblicitaria e cronista per Zero Hora.
Ecco il testo:
Lentamente muore
chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all’errore e ai sentimenti.
Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita, di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.
Lentamente muore
chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.
Soltanto l’ardente pazienza
porterà al raggiungimento
di una splendida felicità.
Muore un po’ alla volta chi si arrende.... LETTERA 129
di Ettore Masina *
1
Non accade spesso, purtroppo, che la televisione mi tocchi “dentro”. L’ultima volta è capitato sabato scorso (26 gennaio) mentre seguivo “Che tempo che fa”, e Antonio Albanese, uno dei nostri migliori attori, stava dando voce e gesti a una sua creatura, l’onorevole Lacettola. Lacettola, lo dico per chi non lo ha mai incontrato sul video, è un parlamentare clientelista, maschilista, prepotente, mafioso, ignorante - e, da uomo di potere, orgoglioso della sua ignoranza. Improvvisamente Albanese si è fermato, è ammutolito, in silenzio si è tolto la parrucca, la giacca con le spalle “rinforzate”, la cravatta sgargiante, insomma la “divisa” di Lacettola. Ha guardato un attimo la telecamera, con uno sguardo triste e forse disperato. Poi, invano richiamato da Fazio, ha lasciato lo studio. Il messaggio mi è parso chiaro. In quelle ore Lacettola cessava di essere una caricatura, era diventato un personaggio del tutto reale: era quel senatore dell’ Udeur che poco prima, nell’aula di palazzo Madama, sputava in faccia al collega, era quell’altro, di AN, col golfino rosso sulle spalle, come se fosse in gita fuori porta, che masticava fette di mortadella a bocca aperta, era quell’altro ancora, di Forza Italia, che aveva stappato una bottiglia di spumante e la offriva ai colleghi. Con la sua faccia triste da inerme cittadino, Albanese sembrava chiedere a se stesso ma anche a noi: “Perchè continuare nella satira? Ormai i Lacettola hanno vinto”.
Siamo in molti, credo, a condividere quella desolazione. Ritornano (non “al potere”: quello, più o meno legalmente, non l’hanno mai perso davvero), ritornano alla direzione dello Stato, con una forte maggioranza in Parlamento, Berlusconi & Co.,: il capitalista brianzolo barzellettiere, irriso da tutti gli economisti del mondo, ma anche temuto per le sue improvvisazioni, la smodata ricchezza, l’astuzia predatoria; e i suoi manutengoli: quelli di stretta familiarità (come Dell’Utri, condannato in primo grado a 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e in secondo grado per estorsione aggravata) e i mascalzoncelli ravveduti, tornati a brucare la mano del padrone, come Casini; gli eversori della giustizia piegata ad personam perchè poi il Capo possa vantarsi di essere stato, “prima”, perseguitato; i Fini che fanno sapere ai giornalisti di essere padri tenerissimi di figli neonati ma non dimenticano di essere stati autori di leggi spietate; le Moratti che, in base a quelle leggi, cacciano dagli asili comunali i figli degli emigrati non “in regola”; i Bossi che si vantano di poter trovare facilmente le armi per una rivoluzione padana; l’onorevole Storace che insulta la signora Levi Montalcini...
Sono già sicuri di stravincere le prossime elezioni ed io credo che non si sbaglino: il governo Prodi, i partiti che lo hanno sostenuto e travagliato, hanno, quantomeno, sottovalutato l’urgenza di una legge sul conflitto di interessi, di nuove norme per le elezioni. Abbiamo davanti una catena di giorni più che difficili: una campagna in cui la sproporzione dei poteri mediatici impiegati dall’una e dall’altra parte ci farà sputare sangue, se vorremo parteciparvi. Vinceranno le elezioni, alla grande. C’è un’Italia poveraccia e infuriata dalla precarietà che già preme idealmente alle porte dei seggi per votare contro tutto ciò che possa sembrare “disciplina”. Un’ Italia mucillaginosa, dice il Censis, un’Italia in cui, dice l’Eurispes, il 51 per 100 degli adulti non si fida più di alcuna istituzione e addirittura l’89,6 per 100 considera in blocco l’universo dei partiti come una casta di mascalzoni, tutti eguali fra loro..
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Considero Albanese - l’ho già detto -un ottimo attore, apprezzo molto gli autori di “Che tempo che fa” (non per niente c’è fra loro Michele Serra) e penso che quello dell’altra sera sia stato un eccellente coup de théatre. E però lasciatemi dire che la psicosi del perdente perduto è il modo migliore per rendere trionfale la vittoria dei Lacettola. E questo non è soltanto un problema politico, già di per sé di fatale importanza.
Non basta, infatti, a mio avviso, elencare le difficoltà economiche del momento, con una crescente “proletarizzazione” di fasce sempre più ampie di ceto medio, né lo sgangherato ansimare dei processi costituzionali che dovrebbero generare governi saldi, politiche di giustizia , investimenti a lungo raggio e così via. Non basta la certezza che il nuovo governo di destra ripercorrerà la strada delle impunità, delle leggerezze, del travolgimento dei diritti dei cittadini. Si tratta, anche, di etica: di tornare a scegliere valori e prospettive. Si tratta di dare, o di negare, qualità alla nostra vita.
Berlusconi lavora sui circenses, a pagamento. Basta seguire per qualche ora la ottusa banalità dei programmi delle sue televisioni, i film più belli massacrati dalla pubblicità, i suoi tg bugiardi, i suoi “divertimenti” goliardici, le sue “striscie” vagamente ricattatorie. per comprendere quale devastazione culturale semini fra il gli utenti. Come sappiamo, attraverso i suoi dipendenti infiltrati nella RAI, non si limita a presenze istituzionali nella cosiddetta televisione pubblica, piegandone i dirigenti. Del suo amico Craxi si diceva che governasse un clan di nani e ballerine, Berlusconi non si interessa dei nani.
Temo fortemente che con il suo nuovo governo, l’onda (o dovrei dire: l’orda?) montante della malacultura diventerà regime; e a un regime non si può rispondere se non con un vasto e profondo impegno culturale e morale. Forte sarà la tentazione di rinchiuderci in noi stessi, mandando al diavolo la politica, anche quella dei partitii cui abbiamo creduto. Berlusconi & Co. faranno di tutto per convincerci che questa sarà saggezza. Forte sarà la tentazione di serrarci in casa, di evitare problemi che sembrano non toccarci personalmente, di cercare di difendere il futuro dei nostri figli e nipoti, pagando, se necessario, qualche prezzo. Faranno di tutto per convincerci che questa sarà realismo. Forte sarà la tentazione di rispondere a chi venisse a sollecitarci per qualche militanza politica. “Grazie, ho già dato”.
Forse tocca proprio ai vecchi come me, che hanno qualche cicatrice da obiezione di coscienza, dire: “Badate, la vita è bella soltanto quando è piena, cioè amorosa e coraggiosa. Non si tratta di impugnare una clava e presidiare l’imboccatura della grotta di famiglia, ma di vivere in modo che la sera, ponendo la testa sul cuscino, si possa dire a noi stessi: “Beh, povero cane, anche quest’oggi non hai perso la tua dignità né minacciato quella degli altri”. Si tratta - e questo è il dono più bello che posiamo fare ai nostri figli e nipoti- di creare reti di consentaneità, di solidarietà, di amicizia militante, non soltanto proclamata. Di ricordare gli antichi maestri. Di ricordare le antiche resistenze. Di non cedere le speranze più care.
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Amici che hanno vissuto questa sgradevolissima esperienza mi dicono che l’incursione di un ladro in una casa non provoca soltanto danni e perdita di oggetti che hanno un valore ben più alto di quello venale, viene vissuta come una profanazione di qualcosa di sacro; ed è umiliante, come l’incontro con un voyeur o un esibizionista.. Mi è capitato di vivere questi sentimenti quando l’onorevole Mastella, mentre sparava la sua lupara rosa contro il governo di cui faceva parte, ha citato una poesia che anche lui, come me, credeva di Pablo Neruda.
Questa poesia, con l’amore e la gelosia del discepolo (di Neruda, non di Mastella) io l’avevo fatta mia, citandola agli amici che, il 14 febbraio 2003, circondavano me e Clotilde nella festa per il cinquantesimo anniversario del nostro primo incontro. Riconosco il mio arbitrio, e per di più adesso so che la poesia non è di Neruda ma della scrittrice brasiliana Marha Medeiros; ma non voglio che “Lentamente muore” rimanga soltanto sui resoconti stenografici della Camera, legata, oltre a tutto, a una brutta pagina della democrazia italiana:
Perché (ringraziando l’inconsapevole Martha) non farne un programma di resistenza alla subcultura berlusconiana?
Un abbraccio
Ettore Masina
[...]
PS. Dopo più di due mesi di “assenza” sono riuscito ad aggiornare il mio sito: www.ettoremasina.it
PPS. A proposito del mio discorso, mi sembra importante farvi sapere che il 12 e il 13 aprile prossimi si svolgerà a Rimini il 22.mo Convegno nazionale della Rete Radiè Resch. Il tema generale è: “Tessere reti: restituire, ricostruire, resistere“. I lavori saranno aperti da Antonietta Potente, teologa della liberazione, che vive fra le popolazioni indigene della Bolivia; saranno chiusi da Mario Tronti, politico, filosofo e sociologo. Come sempre, avranno grande importanza le testimonianze dei gruppi del Sud della Terra ai quali la Rete è legata da reciproca solidarietà. Con mia delizia aggiungo che le amiche e gli amici dell’associazione hanno deciso di festeggiare gli ottant’anni del fondatore e lo faranno la sera del sabato 12. La cosa divertente è che io compirò gli anni (spero) soltanto il 4 settembre successivo: ma i convegni della Rete hanno cadenza biennale e si svolgono abitualmente all’inizio della primavera
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro
Muere lentamente quien no voltea la mesa cuando está infeliz en el trabajo,
Muore lentamente chi non rovescia il tavolo quando è infelice nel lavoro,
Visto che si parla di forti emozioni, dette da un Maestro della poesia come Neruda, nel mio piccolo vorrei proporre questa poesia di Pino Mango, carica di senso e sensazioni:
LETTERA AD UN AMICO
Hai mai sentito il rumore del pensiero?
E’ quasi come il silenzio.
Lo puoi coprire cantando,
dal ventre di tua madre
allo sguardo severo di tuo padre;
dal solco impotente sulla fronte
accigliata e impaurita del peccato
al petalo di una rosa rosso velluto,
carico di brina
e tenue nel suo altalenare verso il suolo.
Puoi sentire la vita,
rallegrata dall’onda ventilata e fresca,
di un’alba appena sbocciata
e già sfiorente del suo tramonto
viola e giallo oro,
viola disattento al marrone aggressore.
Trapunta insertata di diamanti opalescenti
e schivi ad ogni angolo del giorno e della notte,
in virtù di un faro che ci attende,
ad indicare il cammino,
con amore e indifferenza, a seconda del cuore;
come l’ape innamorata al suo gelso maturo.
Hai mai sentito il rumore del pensiero?
E’ quasi come il silenzio;
non farci caso e più diventa immenso.
Non farci caso
e vivi!
Dagli un senso!
Pino Mango
Fica proibido (È proibito)
Fica proibido chorar sem aprender,
(È proibito piangere senza imparare)
Levantar-se um dia sem saber o que fazer,
(svegliarti la mattina senza sapere che fare)
Ter medo das tuas recordações
(avere paura dei tuoi ricordi)
Fica proibido não sorrir ante os problemas,
(E’ proibito non sorridere ai problemi)
Não lutar pelo que queres,
(non lottare per quello in cui credi)
Abandonar tudo por medo,
(desistere, per paura)
Não transformar em realidade teus sonhos
(Non cercare di trasformare i tuoi sogni in realtà)
Fica proibido não demonstrar o teu amor,
(E’ proibito non dimostrare il tuo amore)
Fazer com que alguém pague pelo teu mau humor
(fare pagare agli altri i tuoi malumori)
Fica proibido deixar os teus amigos,
(E’ proibito abbandonare i tuoi amici)
Não tentar compreender aquilo que viveram juntos,
(non cercare di comprendere coloro che ti stanno accanto)
Chamá-los somente quando precisa delese
(chiamarli solo quando ne hai bisogno)
Fica proibido não seres tu perante todos,
(E’ proibito non essere te stesso davanti alla gente)
Fingir para as pessoas que não te importas,
(fingere davanti alle persone che non ti interessano)
Esquecer todos os que te querem
(dimenticare tutti coloro che ti amano)
Fica proibido não fazeres as coisas para ti mesmo,
(E’ proibito non fare le cose per te stesso)
Ter medo da vida e dos teus compromissos,
(avere paura della vita e dei suoi compromessi)
Não viver cada dia como se fosse o último
(non vivere ogni giorno come se fosse l’ ultimo )
......
Pablo Neruda