IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
Una lezione di ’poesia’ civile di Eduardo - da L’oro di Napoli (YOUTUBE)
VUVUZELA (Wikipedia)
ADDIO AZZURRO
Italia da incubo, addio Mondiale
La Slovacchia vince 3 a 2 e passa agli ottavi con il Paraguay. Inutili le reti di Di Natale e Quagliarella
JOHANNESBURG L’aereo della vergogna è pronto, l’Italia campione del mondo di Marcello Lippi lascia Sudafrica 2010 e torna a casa carica di disonore sportivo: sconfitta 3-2 dalla Slovacchia nello stadio glorioso di Invictus, l’Ellis Park di Johannesburg, dopo avere malinconicamente pareggiato le due gare iniziali con Paraguay e Nuova Zelanda. Fuori dopo il girone eliminatorio, ultima di un gruppo certo tra i meno impegnativi del mondiale, in virtù di un 3-2 firmato per gli avversari da una doppietta di Vittek, centravanti della sconosciuta formazione turca dell’Ankara Gucu, e da una rete della riserva Kopunek su assist da fallo laterale.
Mai davvero in partita, nonostante le reti della rincorsa nel secondo tempo di Di Natale e Quagliarella, la nazionale ha regalato una delle pagine più brutte della storia del calcio azzurro. E proprio la rincorsa è la metafora in chiave italiana di questo mondiale: nel cuore, a un passato luminoso e non replicabile a breve. Nel gioco, in punteggi che hanno sempre visto in vantaggio gli avversari, bravi a sfruttare la modestia attuale della squadra fu campione del mondo.
A Città del Capo e Nelspruit la rimonta era riuscita, a Johannesburg no. Anche perchè Lippi, nella serata risultata poi dell’addio suo e del capitano Cannavaro, ha clamorosamente sbagliato formazione: lui che è sempre stato bravissimo a tirare fuori il massimo dal materiale umano a disposizione. Ha per l’ennesima volta cambiato gli undici e lo schema rispetto a quella precedente. Ne è scaturito un primo tempo tragicomico, una situazione migliorata solo un pò nella ripresa con l’innesto di Pirlo e soprattutto Quagliarella: l’attaccante meno utilizzato finora, sicuramente il più in forma e probabilmente il migliore in assoluto anche per qualità delle giocate. Non è bastato: scattano, forse tardivamente i processi (già contro i rugbysti mancati della Nuova Zelanda era apparso evidente che non c’era motivo di sperare troppo), ma stasera è soprattutto il momento dell’amarezza per l’uscita di scena da una manifestazione che poteva essere affrontata diversamente ma conferma sostanzialmente una cosa: il calcio italiano ha toccato un punto davvero basso della sua parabola.
Scoccata l’ora della verità Lippi si era affidato in avvio a Rino Gattuso, uno che della sincerità in campo e fuori ha fatto il suo vessillo. E per curare il mal di gol, un inconsueto tridente: Pepe, Iaquinta-Di Natale, di vaga estrazione udinese ma sicuramente più promettente di quelli con in campo Gilardino (in nazionale non segna dall’autunno 2009, in assoluto dal 28 marzo 2010). In realtà però in campo Pepe assumeva una posizione arretrata e davanti restavano solo Iaquinta e Di Natale. Si copriva, Lippi: evidentemente sentiva che gli avversari erano pericolosi oltre le previsioni.
E purtroppo per gli azzurri, il ct aveva ragione: perchè il pressing slovacco sui portatori di palla metteva sempre in ambasce gli azzurri,: così dopo un fuoco di paglia durato un paio di tiri di Di Natale e Iaquinta fuori non di molto, il primo campanello d’allerme per Marcehetti suonava al 6’ con un clamoroso errore di Hamsik (smarcato di testa da Vittek) dal dischetto del rigore. Sempre in anticipo sul pallone, gli slovacchi di Weiss inducevano Lippi a modificare continuamente schema e posizioni: a centrocampo, ad esempio, Gattuso passava a destra e Pepe a sinistra. Inutile, perchè poi puntuale come sempre in questo mondiale arrivava l’ingenuità che portava gli avversari in vantaggio: al 25’ De Rossi disimpegnava male su Montolivo (peraltro tutt’altro che tonico), Kucka interveniva e toccava in profondità per Vittek che di destro incrociava e metteva in rete.
La disfatta si configurava e gli azzurri sembravano un pugile suonato al centro del ring: con la Slovacchia che menava senza però trovare il colpo del ko. Ma il tiro di Strba da lontano al 35’ con Marchetti bravo a deviare in angolo e la botta di Kucka al volo al 46’ (palla fuori di pochissimo) in prospettiva italiana non erano certo un bel vedere. Come la derapata che al 47’ costringeva Montolivo, servito in buona posizione da Di Natale, a calciare in maniera grottescamente inoffensiva.
Nella ripresa Lippi inseriva Maggio e Quagliarella al posto di Criscito e Gattuso. Di Natale scialava in avanti con le poche occasioni che gli capitavano, Iaquinta falliva di testa da pochi passi: e così il ct puntava forte su Pirlo che rientrava dall’infortunio al polpaccio. Quagliarella regalava l’illusione del pareggio su un cross di Pepe deviato corto dal portiere (sul tiro del napoletano Skrtel salavava sulla linea) , ma Vittek gelava le speranze italiane al 28 anticipando l’inguardabile Chiellini su cross di hamsik e realizzando il 2-0. La reazione italiana era tutta di nervi: Quagliarella indovinava al 35’ lo scambio con Iaquinta e tirava dal dischetto del rigore, il portiere respingeva male e Di natale finalmente realizzava a porta vuota. Ma grazie a un assist su fallo laterale (roba che non si vede più neanche all’oratorio) Kopunek infilava ancora la porta di Marchetti. Discorso qualificazione chiuso, nonostante il gol del 3-2 su delizioso cucchiaio di Quagliarella al 47’: una prodezza che serviva più ad alimentare i rimpianti che le illusioni.
* La Stampa, 24/6/2010 (18:2)
L’ITALIA IN CAMPO A JOHANNESBURG IN UNA SFIDA SENZA APPELLO
Oggi l’Italia contro la Slovacchia per evitare un’eliminazione choc
Il ct: "Non si può essere stanchi dopo due gare"
Lippi: «Sento che può arrivare quello che aspettiamo»
diMARCO ANSALDO INVIATO A JOHANNESBURG (La Stampa, 24/6/2010)
Il giorno del sorteggio a Città del Capo l’idea che ci saremmo trovati a questo punto non ci aveva neppure sfiorato. Per quanto il calcio italiano sia in declino, e lo si era capito prima che lo dicesse Giancarlo Abete, non potevamo credere che si sarebbe arrivati alla terza partita del girone eliminatorio con il timore che l’Italia torni a casa. Pareva un avvio soft, una delicatezza riservata ai campioni del mondo. Si è trasformato in un calvario che potrebbe concludersi in un fallimento epocale. L’aereo del ritorno è preallertato, la partenza sarà alle 11 di venerdì sera. È una precauzione dovuta, dicono. In effetti non crediamo che l’Italia lo prenderà e non perchè Lippi assicuri «vogliamo restare e andare avanti», che è una ragione inutilmente banale, sarebbe stata una notizia il contrario: noi tutti vorremmo che le cose girassero bene ma non è detto che, per questo, lo facciano.
I motivi per cui la Nazionale ha più chances di vincere che di restare al palo sono oggettivi. Per quanto sia difficile vedere il bicchiere mezzo pieno nei pareggi contro il Paraguay e la Nuova Zelanda, con la Slovacchia esiste ancora una differenza tecnica e di esperienza da sfruttare. Che gli azzurri non siano stati capaci di mostrarla contro i neozelandesi non significa che sarà sempre così. Gli slovacchi sono alla prima volta in un grande torneo e non hanno fenomeni assoluti perché pure Hamsik è un giocatore sopravvalutato, o almeno immaturo, come dimostra ogni volta che si alza la posta. Inoltre nella difficoltà, nelle critiche e nei deliri di Bossi, Lippi ha mantenuto il coperchio sulla pentola in ebollizione, il suo collega Weiss invece ha sbroccato come un campanaro stanco e la sinfonia in arrivo dal ritiro slovacco è di rintocchi alla rinfusa, ognuno va per conto suo.
Si comincia con questa fotografia. Tocca agli azzurri non sfregiarla per paura e poca personalità. «Da un momento all’altro può arrivare quello che stiamo aspettando», ha detto Lippi. L’esempio dell’82, quando l’Italia decollò dopo un inizio inquietante, è più citato dell’86 che vide i campioni del mondo barcamenarsi alla peggio prima di soccombere negli ottavi contro la Francia di Platini. «Le somiglianze con l’82 ci sono e mi fa piacere che l’abbia ricordato Maradona - ha commentato il ct -. Lui fu un testimone diretto del cambiamento che ebbe la Nazionale dopo aver superato le eliminatorie». L’ambizione è di ripetere l’esperienza. «Ci serve un successo per svoltare», concetto che Lippi ha rafforzato con una battuta alla domanda irriverente di un giornalista spagnolo: «Dopo la prima vittoria hanno rialzato subito la cresta». Altrettanto farebbe l’Italia.
E’ l’ora di accantonare i paragoni e i parallelismi su cui si insiste troppo, compreso lo spirito del Mondiale tedesco che Lippi rievoca volentieri. Questa è un’altra storia, purtroppo anche un’altra squadra. Serve progettare l’oggi. Cavare il meglio da quanto c’è, staccando il disco «sull’impegno e la dedizione di questi ragazzi straordinari» perché ci mancherebbe che non ci fossero. Li chiamano, li pagano, li mettono nella vetrina più prestigiosa del mondo e dovrebbero pure sbattersene. A meno che non siamo francesi, l’impegno ci sembra il minimo sindacale. Ora bisogna che l’Italia ritrovi le qualità calcistiche. Non è possibile che continui a prendere gol con la difesa schierata, non è ammissibile che arrivi al tiro due o tre volte a partita, escludendo le frattaglie e i calcetti sporchi che neppure la carità di patria può far confondere con le occasioni da gol.
Questo è il punto, non la buona volontà. Lippi nei giorni scorsi ha allenato molto sul gioco di attacco. Ha insistito sulla velocità della manovra, ha moltiplicato gli esercizi per far arrivare la palla agli attaccanti con ragionevolezza. «Sono dieci giorni che proviamo schemi con la palla bassa, prima o poi ci riusciranno anche in partita - dice il ct - Non prevedo una partita fisica come le altre, la Slovacchia ha attaccanti abili e veloci, noi dovremo fare semplicemente quello che sappiamo ma farlo fino in fondo». Con quali interpreti? Se il centrocampo cambia con Gattuso, l’attacco è il rebus. La sensazione è che si salverà Iaquinta e non Gilardino. «Le mie scelte - spiega Lippi - sono dovute alla condizione fisica, alla disponibilità tattica e all’idea che la Slovacchia deve vincere come noi perciò non può soltanto difendersi ma potrebbe smentirmi. L’ultima cosa che considero è la stanchezza. Non si è stanchi dopo due partite». Anche perché se si è stanchi si va a casa. C’è già l’aereo pronto.
Bossi chiede scusa alla Nazionale
"La mia una battuta, spero vinca il mondiale"
Il leader della Lega aveva detto: ’’Tanto la partita con la Slovacchia se la comprano’’.
Poi il dietrofront *
ROMA - Umberto Bossi si è scusato con la Nazionale per le parole pronunciate ieri. Alla richiesta di un pronostico su Italia-Slovacchia di domani, decisiva per il prosieguo azzurro ai mondiali in Sudafrica, il leader della Lega aveva risposto così: "Tanto la partita se la comprano: vedrete che al prossimo campionato ci saranno due o tre calciatori slovacchi che giocano nelle squadre italiane...". Parole che avevano scatenato la dura reazione della federcalcio (’’stavolta Bossi ha passato il segno’’) e innescato una fastidiosa polemica. Che lo stesso Bossi ha deciso di chiudere spiegando che la sua era solo una battuta. "Chiedo scusa alla Nazionale - ha detto il ministro per le Riforme all’Ansa - La mia era una battuta, fatta alla buvette, mentre ero con i miei. Guarda che casino che è venuto fuori. Adesso starò più attento a fare battute, meglio non farle davvero, si rischia di far casino se non si è capiti. E comunque chiedo scusa alla Nazionale. Finirà che gli azzurri vinceranno il campionato del mondo, io gli faccio gli auguri. Pentito? Ho chiesto scusa alla Nazionale. Per il resto stop. Una cosa è chiara, anche se già la sapevo, ed è il vecchio proverbio popolare ’Scherza con i fanti ma lascia stare i santi’. Toccare la nazionale è, in questo momento, come scherzare con i santi".
LA RUSSA: "ERA UNA BATTUTA NON FELICE" - "Ero stato il primo a dire che avevo avuto notizia che si trattava solo di una battuta scherzosa. Non è stata una battuta felice, ma era pur sempre una battuta scherzosa, che nasconde però qualcosa: il fastidio che prova la Lega nel constatare che il 99 per cento degli italiani ha un forte sentimento di identità nazionale che si manifesta anche nelle occasioni sportive. Sono contento che sia rientrata la polemica". Così il ministro della Difesa e coordinatore del Pdl, Ignazio La Russa commenta le dichiarazioni del leader della Lega Umberto Bossi, che si è scusato per le sue frasi di ieri sulla partita Italia-Slovacchia. Bossi ha precisato oggi che la sua ("Tanto la partita contro la Slovacchia la compreranno...") era solo una battuta e ha augurato agli Azzurri di vincere il Mondiale.
* la Repubblica, 23 giugno 2010
Bossi: "L’Italia si compra la partita"
La Figc: "Stavolta ha passato il segno"
MILANO - Dalla Lega Nord ancora strali contro la Nazionale. E la Figc replica con durezza. E’ il leader Bossi a fare una battuta pesante sugli azzurri in serata, forse nel tentativo di fare una battuta. dimenticando che sul calcio non si scherza mai: "Tanto la partita se la comprano: vedrete che al prossimo campionato ci saranno due o tre calciatori slovacchi che giocano nelle squadre italiane...". Così ha risposto il Senatur a chi gli chiedeva un pronostico sulla partita di giovedì. E’ solo l’ultima di una lunga lista di prese di posizione, iniziative di disturbo. Dal tifo per il Paraguay a una generale insofferenza verso una squadra che si chiama "Italia".
La Federcalcio replica un’ora dopo dal Sudafrica: "Stavolta Umberto Bossi ha passato il segno". E giudica "offensiva" la dichiarazione del leader del Carroccio.
E’ anche il caso di ricordare il modo in cui Gigi Riva e De Rossi hanno reagito alle ultime sortite della Lega Nord. Il team manager della Nazionale ha detto: "Siamo un paese alla deriva". E De Rossi: "Vuol dire che la prossima volta tiferemo "contro la Padania .
* la Repubblica, 22 giugno 2010
Vecchia Europa calcio e politica gli stessi vizi
PAOLO MASTROLILLI (la Stampa, 22/6/2010)
Anche nel calcio siamo diventati il «Vecchio Continente», non solo in politica, economia e società. Vecchie idee, vecchie abitudini, vecchi errori, che tutti conoscono. Ma che conserviamo gelosamente. Ma li avete visti in questi giorni alla tv Lippi, Capello e Domenech? Gli allenatori di Italia, Inghilterra e Francia non assomigliavano ai periclitanti leader dei loro rispettivi paesi all’uscita di un Consiglio Europeo dedicato alla crisi? La cacofonia a cui ci hanno abituato le riunioni di Bruxelles è apparsa all’improvviso riprodotta sotto forma di farsa sui campi di calcio del Sudafrica. Le vecchie potenze appaiono incerte. Il nucleo dei paesi fondatori è messo severamente alla prova. Resiste l’Olanda, ma per il resto sono guai. Anche la corazzata Germania ha rivelato piedi di burro.
I guai extracalcistici della vecchia Europa li conoscevamo da tempo: la nostra popolazione non cresce, non crea, non rischia. La nostra economia e il nostro lavoro sono paralizzati da regole anacronistiche, a cui restiamo aggrappati negando la realtà, perché temiamo ogni cambiamento che può mettere in discussione gli antichi privilegi. La società europea appare immobile: chi ha la fortuna di nascere nel contesto giusto può sperare di ripetere la vita dei suoi padri, gli altri devono sperare nel caso o nel miracolo.
Studiare, impegnarsi, prepararsi, in genere serve soprattutto ad aprire gli occhi sulle possibilità che esistono lontano dai nostri confini. La politica, insensibile a tutte queste evidenze, sembra concentrata solo sulla tattica quotidiana necessaria alla sopravvivenza: scarsi gli occhi che guardano lontano, immaginando il futuro del paese invece che quello della propria carriera personale. Inutile poi sperare nella ricerca di soluzioni utili e condivise a livello europeo, perché tanto ogni volta che arriva un’emergenza prevalgono solo le logiche nazionali.
Tutto questo si sta replicando sui campi da gioco della Coppa del Mondo, là dove, in teoria, fantasia e creatività potrebbero liberarsi senza intralci. E invece i risultati, ma più ancora i comportamenti delle grandi squadre europee in Sudafrica fino a questo momento hanno riprodotto in modo emblematico vizi e inerzie del Vecchio Continente. I francesi, si sa, hanno inventato la rivoluzione, e quindi non sprecano mai un’occasione per contestare l’autorità. Almeno, però, nei bei tempi andati facevano rotolare le teste e basta. Ora la nazionale gioca da schifo, i giocatori se la prendono con l’allenatore, Anelka che esagera e viene cacciato, e i compagni come reagiscono? Fanno un’assemblea, redigono un comunicato, e per proteggere i loro diritti inalienabili si astengono dal lavoro: Georges Sorel, piuttosto che Robespierre. La prossima volta, invece del capitano, convocheranno in squadra un sindacalista.
Gli inglesi, si sa, hanno conquistato il mondo con l’intraprendenza. Siccome la loro isola piovosa gli andava stretta, appena potevano lasciavano il calore delle case e delle famiglie, e si imbarcavano per viaggi perigliosi, che li avevano trasformati nella potenza dominante del globo. Nella missione sudafricana la nazionale dei tre leoni non conquista neppure l’Algeria, e i giocatori come cercano il riscatto? Lamentandosi con Capello, che ha bandito dal ritiro le wags, signore e signorine che coltivano le più alte virtù nazionali.
I tedeschi, si sa, sono tedeschi. Quando la macchina funziona come previsto dalle istruzioni, travolgono l’Australia. Quando qualcosa si inceppa, tipo con la Serbia, perdono la testa.
Noi italiani, quest’anno poco estro e tanta buona volontà, stiamo già polemizzando prima ancora di essere stati eliminati. È vero però che avevamo due talenti, Cassano e Balotelli, e non siamo riusciti ad integrarli nel progetto. Magari non erano Michelangelo e Leonardo, ma di questi tempi non potremmo permetterci di lasciare a casa neppure Pinturicchio.
Anche la Spagna ha tentennato, forse per una leziosità che non fa parte della sua tradizione, mentre solo chi ha fame da troppo tempo, come il Portogallo, conserva l’audacia per azzannare.
Dai luoghi comuni bisogna sempre fuggire, però non c’è dubbio che in Sudafrica la grande Europa sta dando l’impressione di un continente fermo, timoroso, preoccupato di non perdere quello che ha invece di conquistare qualcosa di nuovo. Zidane ci ha detto che le grandi squadre del Vecchio Continente hanno tutte lo stesso problema: i valori mondiali si sono livellati e noi non siamo più competitivi come un tempo. Faceva un’analisi calcistica, ma inavvertitamente esprimeva anche un’importante verità che si vede in tutti i campi: la società globale non ha più pazienza con chi punta i piedi e frena, invece di correre, sperimentare, mettersi in gioco. Volta le spalle e ci lascia indietro.
Lo storico dell’università di Yale Paul Kennedy, parlando dei problemi geopolitici che limitano l’Europa sulla scena internazionale, ci disse una volta che siamo come una vecchia signora decaduta, costretta a svendere le gioie del passato glorioso per tirare avanti. Speriamo che abbia torto, naturalmente. Speriamo di essere smentiti in fretta, magari cominciando da una spettacolare finale tutta europea al Mondiale.
La patria immaginaria
di ILVO DIAMANTI *
"La Padania non esiste", ha sostenuto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, all’indomani della manifestazione di Pontida. Capitale simbolica della Patria "padana". Dove sono echeggiati discorsi che evocano il federalismo, la secessione. Distintamente o in alternativa. Come ha fatto il viceministro Castelli, minacciando: "Federalismo o secessione!".
Si potrebbe dire che, mai come oggi, la Lega abbia assunto centralità politica e culturale, in questo Paese disorientato. Perché mai come oggi il dibattito politico appare contrassegnato dal linguaggio introdotto - e imposto - dalla Lega. Tutto interno e intorno all’appartenenza e all’identità territoriale. Gianfranco Fini ha, infatti, pronunciato le sue critiche intervenendo a un seminario sul tema: "Patriottismo repubblicano e Unità d’Italia". Appunto: l’Unità d’Italia. Divenuta un tema centrale dell’agenda politica, proprio in vista del 150enario. Come tutto quel che riguarda l’Italia: l’inno di Mameli, la nazionale di calcio, il Tricolore. E, sotto il profilo dell’organizzazione dello Stato: il federalismo. Anche questa, una definizione largamente in-definita. Perché non è mai stato chiarito, fino in fondo, cosa si intenda. Quale Italia, con quali e quante regioni, macro-regioni, meso-regioni.
Tanto noi siamo ormai un laboratorio avanzato del riformismo. A parole. Capaci di lanciare la corsa al federalismo fiscale e, al contempo, di asfissiare Regioni e Comuni, dotati di poteri che non possono esercitare per assoluta mancanza di risorse. Capaci di affidare la stessa materia - il federalismo - a 3 (tre) ministri: Bossi, Calderoli e, da qualche giorno, Brancher. Questo Paese, ormai politicamente diviso tra Nord, Centro e Sud. Assai più che fra Destra e Sinistra. Oggi si trova, di nuovo, a discutere di Padania. Che è una patria immaginaria. Ma, tanto in quanto se ne parla, tanto in quanto diventa l’etichetta di prodotti e manifestazioni (dai campionati di calcio ai concorsi di bellezza ai festival della canzone), tanto in quanto è discussa: esiste. Come "invenzione", operazione di marketing. Ma c’è.
Per questo, le polemiche di questi giorni confermano l’importanza della Lega, come attore politico e - ripeto, senza timore di ironie - culturale. Perno di una maggioranza di centrodestra, altrimenti povera di radici e identità. Il problema, per la Lega è che anch’essa rischia di essere danneggiata dal crescente successo dei suoi miti e del suo linguaggio. Perché le impedisce di usare, come sempre, le parole e le rivendicazioni in modo plastico e allusivo. E, dunque, di muoversi in modo agile sulla scena politica. Anche in passato, d’altronde, l’invenzione della Padania, dopo un primo momento di successo, divenne un vincolo.
Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell’esperienza di governo con Berlusconi. Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l’indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania. Che non è semplicemente il Nord. La patria dei produttori e dei lavoratori contro Roma ladrona e il Sud parassita. No. La Padania è una Nazione. Altra. Diversa dall’Italia. E quindi alternativa. In nome della Padania, Bossi e la Lega trionfano alle elezioni del 1996 (il risultato in assoluto più ampio raggiunto fino ad oggi). Promuovono una marcia lungo il Po, nel settembre successivo. A cui partecipano alcune decine di migliaia di persone. Poche per proclamare la secessione. Da lì il rapido declino della Lega Padana. Abbandonata da gran parte dei suoi elettori, che la volevano (e la vogliono) sindacalista del Nord a Roma. Non movimento irredentista di una Patria indefinita.
Per questo nel 1999 Bossi rientra nell’alleanza di centrodestra, accanto a Berlusconi. Per questo riprende la tela del federalismo. La secessione scompare. La Padania diventa un mito. Un rito da celebrare una volta all’anno. Che, tuttavia, oggi suscita imbarazzo. Come gli altri miti su cui poggia l’identità leghista. L’antagonismo contro Roma. La lotta contro l’Italia e contro lo Stato centrale. Perché oggi la Lega governa a Roma, a stretto contatto con i poteri centrali dello Stato nazionale italiano. Usa un linguaggio rivoluzionario, ma è un attore politico normale e istituzionalizzato.
Nel 1992 Gian Enrico Rusconi scrisse che la provocazione della Lega ci ha costretti a ragionare su cosa avverrebbe se cessassimo di essere una nazione. Ci ha imposto, cioè, di riflettere sulla nostra identità nazionale. Oggi, per ironia della storia, è la Lega - come ha sottolineato Fini - a trovarsi di fronte alla stessa questione. Se le sia possibile, cioè, "cessare di essere padana". Spiegando, apertamente, ai suoi stessi elettori e agli elettori in generale, dove si ponga. Fra l’Italia e la Padania. Federalismo e secessione. Opposizione e governo.
* la Repubblica, 22 giugno 2010
Mediocrità azzurra specchio del Paese
di MASSIMO GRAMELLINI (La Stampa, 21./6/2010)
Fra coloro che ieri davanti alla tv imputavano a Marcello Lippi di aver assemblato la sua mestissima Nazionale privilegiando i sudditi ai condottieri c’erano molti italiani che nella vita di tutti i giorni purtroppo si comportano allo stesso modo.
Dirigenti d’azienda, titolari di negozi e responsabili di «risorse umane» che sul lavoro privilegiano la fedeltà al talento, l’affidabilità all’estro e il passo del pedone alla mossa del cavallo. Intervistati, risponderebbero anche loro come Lippi: «Non abbiamo lasciato a casa nessun fenomeno». Ma è una bugia autoassolutoria che accomuna quasi tutti coloro che in Italia gestiscono uno spicchio di potere e lo usano per segare qualsiasi albero possa fargli ombra: è così rassicurante passeggiare splendidi e solitari in mezzo ai cespugli, lodandone l’ordine perfetto e la silente graziosità.
L’abbattimento di ogni personalità dissonante viene chiamato «spirito di squadra».Maè zerbinocrazia. Tutti proni al servizio del capo, è così che si vince. Eppure la storia insegna che il capo viene tradito dai mediocri, mai dai talenti. I quali sono più difficili da gestire, ma se motivati nel modo giusto, metteranno a disposizione del leader la propria energia.
La Nazionale di Lippi assomiglia alla Nazione non perché è vecchia, ma perché privilegia, appunto, i mediocri. Averli avuti ieri in panchina, certi vecchi! Contro i goffi neozelandesi sarebbe servito più un quarto d’ora di Totti o di Del Piero che una vita intera di Iaquinta, Pepe e Di Natale, tre bravi figli che, con tutto il rispetto, se hanno giocato anni e anni nell’Udinese, una ragione ci dovrà pur essere. I pochi campioni veri, da Buffon a Pirlo, sono zoppi. Oppure vecchie glorie che si rifiutano di andare in pensione, come l’imbarazzante Cannavaro che ha più o meno l’età di Altafini e forse avrebbe fatto meglio a presentarsi in Sudafrica anche lui nelle vesti di commentatore.
C’è, naturalmente, anche la questione dei giovani. La follia antistorica di questa Nazionale e di questa Nazione non consiste tanto nel continuare a lasciar fuori i Cassano, ma i Balotelli. Non i talenti troppo a lungo incompresi o compresi solo a metà, ma quelli ancora acerbi che chiedono solo un’occasione per sfondare e, non ricevendola, spesso emigrano in cerca di fortuna. Balotelli è il loro simbolo e non solo per via del colore della pelle, che ne fa l’italiano di domani. Lo è perché a vent’anni ha già vinto Champions e scudetti, e ha un fisico e un talento che ne fanno un predestinato, imparagonabile agli smunti replicanti dell’attacco azzurro. Eppure per lui non si è trovato un posto neppure nel retrobottega.
Mi rifiuto di credere che un capufficio dell’esperienza di Lippi non sappia riconoscere la differenza fra un fuoriclasse potenziale come Balotelli e i bravi mestieranti che si è portato appresso. Ma il successo rende sordi al buonsenso. Ci si illude di poter vincere meglio da soli, muovendo pedine inerti sulla scacchiera. Poi quelle pedine si rivelano di burro e alla fine ci si ritrova soli, con un po’ di unto fra le dita.
LA BEFFA
La canzone anti-Italia che spopola in Rete
Quattro tedeschi ironizzano sul Mondiale azzurro
«Non abbiamo ancora digerito la sconfitta del 2006...» *
MILANO - «Non importa chi vince la Coppa. Basta non sia l’Italia!». È questo (in versione un po’ più volgare) il refrain della canzone più in voga in questo momento in Germania. Trasmessa dalle radio è già un tormentone in rete. E un caso nei social network.
HIT - «Solo su Internet l’Italia è ancora una hit», titola la Bild. Ed in effetti il beffardo brano della band tedesca «Die vier Sterne» («Le 4 stelle») è tra i più visti su YouTube, scambiato migliaia di volte anche nei vari social network. Dopo il rap di Trapattoni, la canzone «Numero uno» dedicata dal cantante Matze Knop a Luca Toni, in Germania ora spopola «Nur Italien nicht!», un pezzo di dubbio gusto musicale sulla nazionale di Marcello Lippi. È cantato da un gruppo di comici e cabarettisti della Germania - tutti molto noti nel Paese grazie ad una trasmissione tv. «L’idea di fare questa canzone ci è venuta dopo l’1-1 nella partita d’esordio degli azzurri contro il Paraguay», spiegano i quattro membri del gruppo Dittmar Bachmann, Achim Knorr, Lutz von Rosenberg Lipinsky e Sven Hieronymus.
LUOGHI COMUNI - Il brano, assai tagliente (accompagnato da un videoclip alquanto trash), è farcito, ovviamente, di luoghi comuni e termini che caratterizzano lo stereotipo del nostro Paese e del nostro calcio. Il refrain della canzone è più che mai eloquente: «Wer den Cup gewinnt, ist scheiß egal, nur Italien nicht, Italien nicht!». Che tradotto significa: «Non importa un fico secco (per dirla in modo elegante, ndr) chi vince la Coppa. Che non sia l’Italia, che non sia l’Italia!». E prosegue: «Un gol nei primi secondi basta per 90 minuti»; «Spintoni, sputi e insulti: questo è il calcio italiano»; «Catenine e scarpette d’oro; creme e gel, sembrate delle squillo»; «Ci piace il vostro cibo, ma per il calcio non avete tutte le rotelle a posto». E ancora: «Pizza, pasta, mafia - Berlusconi. Questo ci basta, altro non vogliamo».
SCONFITTA 2006 - Ciononostante, interpellati dai media, i membri della band sostengono di non voler offendere o provocare i tifosi italiani. Che la canzone vuole solo essere spiritosa, insomma, «una presa in giro e nulla più». Anche perché «non abbiamo digerito la sconfitta dopo i tempi supplementari del Mondiale di Germania 2006». Al quotidiano Rhein-Zeitung aggiungono: «L’abbiamo prodotta in meno di 48 ore, il successo era inaspettato. Non sappiamo se col singolo incideremo un cd, vediamo dove ci porta l’onda». Per i quattro è però già chiaro quale sarà il team che si porterà a casa il trofeo: «Alemania, certamente», come chiosano nella canzone.
Elmar Burchia
Corriere della Sera, 21 giugno 2010
Vista dall’Italia
Non è solo colpa di Lippi
siamo proprio modesti...
di FABRIZIO BOCCA
Adesso che nel curriculum di post campioni del mondo abbiamo anche un pareggio con la Nuova Zelanda, possiamo infilarci in quella lista di grandi nazionali - la Francia, l’Inghilterra, la Germania, la Spagna etc - cui il mondiale sta letteralmente andando di traverso. Posto che siamo convinti di essere ancora una grande nazionale: e sembrerebbe proprio di no. Da oggi in poi sarà bene guardare prima in casa nostra e poi in quella degli altri. Abbiamo una nazionale modesta ed è difficile, ora come ora, continuare ad autoconvincersi che più si va avanti più chances avremo, che in fin dei conti non siamo così male, che con un po’ di fortuna il colpo si può fare. Le chiacchiere se le porta via il vento della savana: se non si riesce a fare gol - se non su un rigore pure mezzo regalato - il problema è grosso, quasi insormontabile.
Veniamo al punto dolente. Lippi ha riproposto la stessa formazione della mediocrissima partita col Paraguay: ha soltanto disposto i giocatori in maniera diversa. Usare un modulo (4-4-2) piuttosto che un altro (4-2-3-1) non fa grande differenza. Azzeccare gli uomini e affrontare la partita con la giusta aggressività e concentrazione sì. Detto che abbiamo una nazionale mediocre, questo è il problema di base, con una squadra scelta meglio avremmo avuto forse qualche chances in più però: ma ci troviamo nel campo delle ipotesi, siamo onesti, e la ricerca di un solo colpevole serve solo a far nascondere dietro un dito tutti quelli che hanno delle responsabilità. Se ci convincessimo che oggi ha sbagliato tutto Lippi e basta, sbaglieremmo a nostra volta. Probabilmente - anzi ne sono sicuro - ha sbagliato a portarsi alcuni di questi giocatori, piuttosto che altri, ma questo è un punto, importantissimo, che al momento bisogna tenere congelato fino a quando resteremo in corsa per Sudafrica 2010. E speriamo di rimanerci ancora a lungo. Ma intanto rischiare di passare per secondi in un girone così facile - il più facile del mondiale, ricordiamolo - lo considero già un delitto.
Sinceramente non salverei nessuno dalla bocciatura, non sarebbe giusto. Il problema è che Lippi più che su un modulo, si è intestardito su certi nomi, soprattutto in attacco, e con quelli è andato avanti. Il fatto che sia col Paraguay, sia con la Nuova Zelanda abbia smontato e rimontato la squadra nel secondo tempo la dice tutta. Anche sulle sue convinzioni, mai messe in dubbio - evidentemente - nemmeno dalle deludenti prove della squadra. Mi pare insomma che anche lui sia andato avanti a tentativi: e fin dal giorno in cui ha dovuto stravolgere la lista dei convocati a causa di infortuni e clamorosi scadimenti di forma. A Nelspruit al 16° del secondo tempo avevamo una squadra letteralmente inventata ex novo, con le punte buttate dentro piuttosto a casaccio nel tentativo di fare gol. Per dirla tutta non si capisce nemmeno perché abbia tirato fuori Pepe che era uno che dava un po’ di brillantezza alla manovra. "Non faceva quello che gli avevo chiesto " ha detto il ct. Ci manca solo ora che venga meno la tanto strombazzata compattezza del gruppo: che del resto non basta, da sola, a vincere le partite. Detto con un po’ di cattiveria, ma anche per sdrammatizzare un po’, ognuno ha i Domenech suoi...
Abbiamo cercato di vincere, si diceva, buttando in campo tutti gli attaccanti a disposizione. Un po’ quelle mosse che in Italia siamo stati abituati a veder fare a Mourinho, che però ha avuto anche intuizioni più convincenti e ha saputo certamente trasmettere più cuore e più grinta. Lo dico così, per pura curiosità, e per fare un confronto impietoso ma curioso. Nel secondo tempo si è vista una nazionale spinta avanti più dalla disperazione che dalla propria qualità. E non è bastato...
Non mi soffermerei troppo qui sul perché abbiamo giocato con Gilardino piuttosto che con Pazzini, con Iaquinta piuttosto che Di Natale, o del perché il capitano Cannavaro prenda gol che mettono in imbarazzo lui e la nazionale: c’è un problema generale di qualità dell’Italia. Se non riesci a battere il Paraguay è difficile fare i fenomeni con chiunque. La realtà? Siamo dei campioni del mondo che devono arrabattare intanto la qualificazione agli ottavi. Poi si vedrà...
* la Repubblica, 20 giugno 2010
IL COMMENTO
Solo la tecnologia ci può salvare dalle insopportabili vuvuzelas
Non appartengono alla cultura zulu, non hanno nulla di ancestrale e non derivano dal corno di koudou
di Aldo Grasso *
Un tifoso suona le vuvuzelas a Soweto, Johannesburg (Epa) Mettiamo la sordina alle vuvuzelas! Questi Mondiali 2010 rischiano di passare alla storia non per il gioco espresso ma per il fastidiosissimo suono delle trombette: noiose come uno sciame di zanzare inferocite, moleste come i bongo nelle notti estive, irritanti come i «ma va là» di Ghedini. Se il Sudafrica di Nelson Mandela si fa conoscere in tutto il mondo per il ronzio stordente delle vuvuzelas di plastica significa che qualcosa non ha funzionato. Prima di cercare di capire com’è possibile eliminare l’orrida colonna sonora, eliminiamo un equivoco alimentato dall’onnipotente presidente della Fifa Joseph Blatter. Le vuvuzelas non appartengono al repertorio culturale zulu, non hanno nulla di ancestrale, non affondano le loro radici nella musica etnica e non derivano dal corno di koudou (una specie di antilope). Rompono e basta!
Le vuvuzelas le ha inventate un signore che si chiama Freddie «Saddam» Maake: il suo punto di partenza era una di quelle trombette con peretta di gomma che si montano sulle biciclette come campanello. All’inizio, essendo d’alluminio, la vuvuzela era vietata negli stadi, nonostante Saddam e i suoi amici la usassero per infastidire gli avversari. Nel 1989 Saddam trova un industriale che comincia a fabbricare vuvuzelas di plastica. Siccome le cattive idee si diffondono con la rapidità della luce, eccoci qui a tentare di arginare questo incubo indifferenziato e stordente che rompe le scatole a calciatori, telecronisti e spettatori di tutto il mondo. Difficile sperare che i suonatori di vuvuzelas si ravvedano. Non resta che arrangiarsi. Il primo consiglio è operare sul suono del televisore di casa. La vuvuzela agisce su un frequenza che oscilla tra i 200 e 250 hertz.
Agendo sul bilanciamento, si abbassano i toni che si situano in questa gamma, si alzano gli altri e si rinuncia, ovviamente, all’effetto surround. Bisogna poi sperare che Sky e Rai facciano come la Bbc e la Zdf che stanno cercando di filtrare all’origine i rumori di fondo, rispolverando magari i vecchi microfoni direzionali. Anche le HBS (Host Broadcast Services), le società che forniscono i segnali audio e video per le varie piattaforme, si stanno attrezzando. Su Internet, senza alcuna garanzia, si offrono software per eliminare il fastidio. Il Popolo Viola sta già pensando di adottare le vuvuzelas per scendere in piazza contro la «legge bavaglio». Se c’è un’idea «intelligente» la sinistra non se la fa mai scappare.
Aldo Grasso 1-Corriere della Sera, 7 giugno 2010
azzurri gelati dalla rete di smeltz in avvio. poi pareggia iaquinta su rigore
Italia brutta e a secco di gol
Con la Nuova Zelanda finisce 1-1. E ora la squadra di Lippi rischia davvero l’eliminazione
dal nostro inviato *
NELSPRUIT (SUDAFRICA) - E adesso si rischia. Nel «gironcino» l’Italia colleziona un altro pareggio (il secondo di fila) e finisce in una buca dalla quale sarà dura tirarsi fuori. Troppo brutta per essere vera la squadra bloccata dalla Nuova Zelanda e ora (quasi) obbligata a vincere contro la Slovacchia per non dire addio al Mondiale.
IN CAMPO COL 4-4-2 - C’è una sola novità (per giunta annunciata) nell’undici proposto da Lippi rispetto alla gara d’esordio con il Paraguay: in porta, al posto del malandato Buffon, spazio a Marchetti. C’è però un’altra idea tattica. Mollato il 4-2-3-1 si punta sul 4-4-2. Iaquinta fa compagnia a Gilardino. Marchisio lascia la trequarti (dove non ha brillato) per traslocare sulla fascia sinistra di centrocampo. Moduli diversi, stesso risultato: qualche sprazzo, tanta confusione e buchi in difesa.
AVVIO CHOC - La riprova si ha subito. Al 7’ punizione dalla destra dei neozelandesi, spizzata e punta del piede di Smeltz (per la verità in fuorigioco) che beffa Marchetti. Nell’occasione Cannavaro non fa proprio un figurone. Centrato l’insperato obiettivo, i neozelandesi si ritirano nel guscio imbastendo un gioco ridotto all’essenziale. Prima regola: buttarla nel mucchio a cercare i tre giraffoni Fallon, Smeltz, e Killen. Seconda regola: usare piedi, testa e anche mani se servono. L’alfiere del gioco duro è Fallon (nomen, omen) che in 45’ minuti rifila tre gomitate in faccia a Zambrotta, Chiellini e Cannavaro e rimedia solo un’ammonizione.
PRESSING ITALIANO - E l’Italia? La reazione dei lippiani produce una serie di angoli, un tiro sballato di Chiellini (17’) da due passi, un fendente di Zambrotta (22’) che sibila vicino al palo e un bellissimo rasoterra di Montolivo (25’) che lo centra in pieno, il palo. Il pareggio, che arriva su rigore trasformato da Iaquinta al 28’ per trattenuta di Smith su De Rossi, è un premio alla nostra volontà. A quel punto t’aspetti la goleada e invece continua il calvario. È sugli esterni che gli azzurri non vanno. Pepe ha perso lo smalto dell’esordio contro il Paraguay. E Marchisio, che Lippi vuole incursore alla Perrotta, si sfianca ma non punge.
GILARDINO SPENTO - Nella ripresa il ct ha provato a suonare un altro spartito. Il piano B prevede l’uscita di scena di Gilardino (con la serata di Nelspruit è da 85 giorni che non segna) per Di Natale e di Pepe per Camoranesi. Nell’ultima mezz’ora viene gettato nella mischia anche Pazzini (subentrato a Marchisio) a formare un tridente d’attacco. Ma l’occasionissima capita sui piedi del talentino kiwi Wood: al 38’ diagonale di poco fuori. Fosse entrata, saremmo già sul volo che ci riporta a casa.
Luca Gelmini
Corriere della Sera, 20 giugno 2010