di Nadia Urbinati (la Repubblica, 28 Gennaio 2010)
In un saggio esemplare e pochissimo conosciuto, scritto alla vigilia della Rivoluzione, il Marchese di Condorcet dava alle stampe la sua requisitoria contro il dispotismo dei moderni. Condorcet partiva dalla definizione classica - quella che fa perno sulla relazione padrone/servoe che designa la subordinazione di qualcuno alla volontà arbitraria di qualcun altro - per avanzare un’importantassima ridefinizione, molto adatta, più di quella antica, alla società moderna. Una società fatta di articolazione e pluralismo dei poteri, a partire da quello economicoe finanziario fino a quello religioso e delle appartenenze di ceto e che riusciva a generare forme di “dispotismo indiretto”, attivo cioè non attraverso la coercizione diretta, quella della volontà che si fa legge dello Stato, ma mediante un’azione a ragnatela di influenza che condiziona le relazioni sociali e politiche con l’esito di far valere per vie traverse la volontà despotica, quella cioè di alcuni, di un ceto o un potentato.
Condorcet aggiungeva anche che era più facile liberare una nazione dal dispotismo diretto che da quello indiretto, perché quest’ultimo operava per vie sotterranee e si avvaleva di una studiata opera di opinione che poteva far apparire le denunce come attacchi calunniosi e invidiosi destituiti di valore fattuale. Non era forse vero che le procedure di selezione del personale politico e le regole del gioco democratico erano rispettate? Il trucco del governo rappresentativo, ecco la conclusione di Condorcet, stava proprio nel riuscire a cancellare dal vocabolario politico la parola dispotismo perché si trattava di un governo non più retto sul potere personale di qualcuno ma invece su procedure di decisione che rendevano il potere politico una funzione temporanea e soggetta al giudizio pubblico, sia per via del voto che dell’opinione.
Ecco il gioco di prestigio cheè stato messo in atto diremmo quasi alla perfezione nel nostro Paese: attraverso l’uso delle regole un potentato acquista potere e usa gli strumenti che le norme gli consentono per rovesciare il governo costituzionale. Il dispotismo indiretto di “una particolare classe” di cittadini che “godono privilegi finanziari e onorifici” è una prova di “quanto facile sia dominare il corpo dei rappresentanti e come infine l’eguaglianza di rappresentanza politica esista solo di nome”, poiché tanto il meccanismo elettorale quanto l’uso distorcente delle istituzioni introducono ineguaglianza tra i cittadini.
L’incrinatura del principio di eguaglianza si estendea macchia d’olioe intacca i codici, quello penale e quello civile, poiché nell’organizzazione della giustizia è la sede della garanzia del diritto o il suo stravolgimento. Condorcet era convinto, con più di una buona ragione storica, che “il dispotismo di un uomo solo esistesse solo nell’immaginazione”. Il dispotismo è sempre di “alcuni” o dei “pochi” mai di uno solo, poiché l’uno ha bisogno di appoggiarsi su un più o meno vasto sistema di amiciziee lealtà. Del resto, “è facile che un piccolo gruppo di uomini riesca a unirsi e la loro ricchezza li renda capaci di comperare altre forme di potere”.
Dal 1994 l’Italia è una democrazia in marcia verso un dispotismo indiretto che non ha bisogno di rovesciare la costituzione per svuotarla. Resa la rappresentanza politica ineguale (poiché questo è l’esito del sistema elettorale che abbiamo) e quindi creata una maggioranza che è in molta parte composta di un ceto di clienti e amici per attuare un progetto che è disarmante nella sua semplicità: governare restando impuniti per tutto ciò che fanno o non fanno; essere al di sopra della legge attraverso la manipolazione della legge. L’ostacolo costituzionale più importante che è rimasto è quello rappresentato dalla giustizia - caduto questo, poco resterà da dire se non che l’Italia non è più una democrazia costituzionale, ma un dispotismo indiretto.
In coda, una postilla: è interessante immaginare come professori e studiosi di legge e istituzioni politiche che si sono fatti opinion-supporters di questa maggioranza, spieghino ai loro studenti i principi dello stato di diritto, le regole del governo limitato, il costituzionalismo; e in quale periodo storico situano la pratica della divisione dei poteri, e infine, come definirebbero o in quale categoria collocherebbero il governo del quale sono oggi benevoli commentatori.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il partito del leader
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 27 Giugno 2014)
I CITTADINI italiani si fidano di Renzi non dei partiti e, presumibilmente, neppure del suo partito. Quello che Diamanti chiama il Partito di Renzi non è, infatti, la stessa cosa del Partito democratico. Certamente non è politico nel modo in cui questo lo è. Il partito politico, anzi i partiti politici, non sono in declino da oggi, ma oggi il loro declino è ancora più abnorme proprio perché avviene insieme al successo di un partito del segretario. Il paradosso è che pare difficile capire come Renzi possa ridare onore ai partiti (al Pd, in questo caso) anche perché egli ha costruito il suo successo di audience proprio grazie a una martellante retorica contro i partiti, non escluso il suo. Certamente contro le dirigenze logore e attempate. La rottamazione è stata sia un’apertura (ai giovani) che una chiusura (non solo alle vecchie generazioni ma anche) a un modo di essere del partito. Il Partito di Renzi è un partito nonpartito, nato come partito anti-partito. Merita ricordare che l’attuale segretario del Pd ha conquistato l’opinione e il governo del paese prima ancora di conquistare una maggioranza elettorale (o di essere eletto): un’incoronazione ecumenica che è avvenuta fuori del partito a tutti gli effetti e fuori delle istituzioni. Nei media e sotto i gazebo. Ecco perché ha un senso chiamare questo fenomeno plebiscitarismo dell’audience. Come si può ricostruire il partito partendo da qui?
Per tentare di rispondere a questa domanda occorre cercare prima di tutto di capire da che cosa è caratterizzato il Partito di Renzi, ovvero che cosa faccia sì che i cittadini si fidino di esso molto più di quanto non si fidino del Partito democratico. Certo, le continue notizie sulla corruzione sono un fattore potente di sfiducia nella politica ufficiale, anche se non coinvolgono solo le vecchie dirigenze nazionali dei partiti ma anche imprenditori e poteri locali: cioè proprio quella parte d’Italia che sembrava meno esposta alla tentazione del malaffare perché lontana da Roma. E invece vediamo che i poteri radicati sul territorio sono forse ancora più esposti alla corruttela. Ma questa denuncia morale dei partiti tradizionali, locali e nazionali, non basta a spiegare la grande popolarità del Partito di Renzi. C’è dell’altro.
Per esempio, c’è il fatto che il Partito di Renzi ha fatto saltare la struttura della catena di comando propria del partito politico. I partiti (e questo lo si vede soprattutto nel caso del Pd, proprio perché in origine non personalistico) erano strutture collettive, aristocrazie (o oligarchie, se si vuol essere severi) che hanno fatto e condiviso scelte e che ora danno l’impressione al comune cittadino di impedire che emergano responsabilità individuali. Quando emergono, perché la magistratura indica potenziali responsabili di illeciti, è comunque troppo tardi. Al contrario del partito strutturato per collettivo, il Partito di Renzi è identificato con il suo leader e mostra al mondo la dimensione personale.
Ciò sembra convincere i cittadini che in questo caso, se non altro, vi è un responsabile individuale, visibile e senza coperture dietro dirigenze collettive. E del resto Renzi stesso ha reso assai popolare questa visione personale di responsabilità dichiarando spesso di “metterci la faccia”. “Ci metto la faccia”: questo un collettivo non può dirlo, sia esso una segreteria o un comitato centrale o un’assemblea nazionale. Solo il singolo può metterci la faccia, enunciare la sua responsabilità senza rete. È evidente che nelle azioni politiche la responsabilità non è mai un fatto semplice da imputare perché tante e complesse sono le condizioni che portano a una decisione, non ultima una larga discussione dentro e fuori del partito, condivisioni di idee e visioni che corresponsabilizzano molti o diversi. Il segretario del partito politico è in questo caso rappresentativo di un progetto, di una narrazione che unisce molti (e idealmente dovrebbe convincere tanti), non però un artefice dell’identità del partito in solitaria responsabilità. Ma anni di corruzione e malaffare ci hanno consegnato un’altra immagine della responsabilità: quella giudiziaria che è comunque del singolo, di colui che risponde direttamente alla legge. Ecco dunque la tensione tra due dominii di responsabilità: quello politico, mai solitario e mai semplice; quello giudiziario, sempre del singolo. Nel secondo caso “metterci la faccia” ha più senso che nel primo caso.
Si può dire quindi che il Partito di Renzi ha preso corpo a partire da una mentalità della responsabilità che è di tipo legale piuttosto che di tipo politico e che ha fatto breccia nell’opinione proprio per il troppo abuso della legge che ha segnato questi anni lunghi e infiniti di politica irresponsabile. È qui, in questa torsione personale (individuale) della responsabilità, in questa espansione della dimensione giuridica (e giudiziaria) che va cercata l’attrazione popolare del leader plebiscitario nell’Italia democratica post-partitica. Un’attrazione che si manifesta sia nel paese che nel Parlamento (dove il Partito di Renzi, non il Pd, fa da calamita che attrae consensi sbaragliando le opposizioni). Il Partito del leader è figlio di un’epoca che ha incenerito la responsabilità politica, la quale in una democrazia è collettiva e complessa, raramente di un leader solo al comando. È figlio di una politica le cui storture hanno portato i responsabili nelle aule di tribunale, un luogo dove ciascuno è costretto a metterci la faccia. Il problema è che questa non è la responsabilità sulla quale il partito politico può rinascere come progetto, compagine collettiva unita da una visione di paese e non solo dal magnetismo del cavallo vincente.
L’Italia rassegnata
di FERDINANDO CAMON (La Stampa, 29/1/2010)
Ho ospite in casa un amico straniero, un francese. Passiamo giornate e serate insieme. E guardiamo la tv. Il suo sguardo ha cambiato il mio.
Lui, straniero, guarda con eccitazione notizie delle quali io, italiano, neanche m’accorgo. A Favara è crollata una casa, due bambine sono morte, carabinieri e magistrati si son riuniti per vedere se c’è qualche problema: il crollo è colposo? è colpevole? ci sono case nuove non assegnate? perché? ci sono responsabilità? Ieri sera trapelava che non c’era nessun indagato. Perché? Bisogna vedere a chi spettava la sicurezza a suo tempo, a chi il controllo degli edifici, a chi l’assegnazione degli alloggi. Per me, italiano, è tutto normale. È stato così nel passato, lo è nel presente, lo sarà nel futuro. Non ho mai pensato di lasciare ai miei figli un’Italia senza mafia, senza camorra e senza ’ndrangheta. Mafia, camorra e ’ndrangheta qui sono e qui resteranno. Edilizia e mancati controlli formano un binomio fisso. Morte di inquilini e nessun indagato è la prassi. Sud e disgrazie vanno insieme. Dal Sud diranno: come Nord ed evasione. Ma certo, hanno ragione.
Ma l’amico straniero mi fa mille domande: se una casa è legalmente abitata e crolla, invece di cercare se ci sono dei colpevoli, non bisognerebbe cercare chi sono? Gli edifici hanno un costruttore: costui non resta agli atti? Gli edifici sono stati collaudati? Il collaudatore risulta agli atti? Provo a dirgli: ma a Perugia i collaudi non si trovavano... Lui osserva: un documento che non si trova, o non c’è o è nascosto. Fa un ragionamento elementare, che sta al terremoto di Perugia come i pareri di Perpetua al problema di don Abbondio. E cioè: per fare un edificio pubblico si bandisce una gara, affidata la costruzione non si permettono varianti, stabiliti i tempi non si ammettono ritardi, finiti i lavori si passa al collaudo, e il collaudatore non deve spartire interessi col costruttore. Sono cinque punti. Ne è stato infranto qualcuno a Perugia? Il sospetto è: tre, quattro, a volte tutti. Più uno: anche i tempi della ricostruzione urgente sono stati scavalcati.
Il tg procede, va sulle case abusive di Ischia. Arriva la squadra dello sfratto, e si scatena l’inferno: non solo la famigliola insediata nella prima casupola da buttar già, ma altre trecento persone organizzano barricate: pietre, bottiglie, spranghe, bastoni. Il vicequestore finisce al pronto soccorso. Domanda: ma è una sola casa abusiva? No, seicento. Costruite in una notte? No, da tempo. Mesi? No, dieci anni. Prima che faccia un’altra domanda, lo precedo: in tante città ci sono case abusive vecchie di mezzo secolo. E non solo al Sud. Risultano al catasto? No. Risultano alle foto aeree? Sì. E perché non sono censite? Non lo so. Pagano l’Ici? Mai pagata.
Noi italiani non vediamo queste illegalità, perché non sono rare, sono normali. Ognuno di noi ha una quindicina di amici, va al cinema con loro, con loro in pizzeria. Sa benissimo quanti e quanto evadono. Se una famiglia ha quattro case, son quattro prime case, intestate a padre, madre, figlio, figlia. Applicano una morale condivisa da gran parte degli italiani: lo Stato non mi riguarda, io ho soltanto la mia famiglia, sono onesto se faccio l’interesse della mia famiglia. Se un padre ha dei problemi con le tasse, la famiglia lo ama di più.
Tutti son convinti che mafia, camorra e ’ndrangheta non verranno mai distrutte, perché chi dovrebbe distruggerle spartisce i loro interessi. Se cambi governo, il nuovo governo subentra al precedente anche negli interessi. Siamo rassegnati. Ad Haiti son cadute le case dei poveri, perché eran fatte male, le case dei ricchi sono ancora in piedi. Noi italiani lo abbiamo capito in due giorni. Qui in Italia abbiamo lo stesso problema da mezzo secolo, ma la rassegnazione ci rende ciechi.
Il Rapporto 2010 si chiude con un forte allarme: "Un Paese che non immagina il futuro"
Segnali preoccupanti di disagio e di ostilità nei confronti delle Istituzioni
Eurispes: "I politici capipopolo
che tolgono il futuro all’Italia" *
ROMA - Un paese immobile, privo di idee e progetti, nel quale sembra che anche i soggetti che si propongono per guidare l’Italia futura siano in realtà più interessati a una transizione senza fine. Insomma, gli fa più comodo che le cose vadano così. E, secondo l’Eurispes che ha pubblicato il suo rapporto 2010, le cose non vanno affatto bene.
Manca un progetto, non sembrano volerlo (o essere in grado di produirlo) le forze e i soggetti che si propongono alla guida del Paese, e questo "mortifica le attese degli italiani e impedisce di immaginare e costruire il futuro". "Non abbiamo timore di essere accusati di eccessivo allarmismo, ma dal nostro osservatorio - avverte il presidente Fara - cogliamo segnali preoccupanti di disagio, di distacco, quando non di ostilità nei confronti delle Istituzioni che aspiranti capipopolo vorrebbero cavalcare. E mentre tutto ciò accade, la nostra classe dirigente appare interessata solo agli equilibri di potere, a costruire e smontare alleanze, ad operare per il proprio esclusivo tornaconto, ad imbastire lucrosi affari, a difendere privilegi e vantaggi senza rendersi conto che l’intero sistema si sta progressivamente sfaldando".
Ecco alcuni dei risultati dell’indagine su aspetti particolari della vita e dei sentimenti profondo del Paese.
Informazione "in prigione". Per oltre la metà degli italiani, l’informazione in Italia "non è libera dalle influenze esterne". Di parere opposto, l’altra metà (il 39 %) che si identifica negli schieramenti politici di centro-destra eritengono che "l’informazione sia libera".
Immigrati e lavoro. "Gli immigrati rubano il lavoro agli italiani". A esserne convinto quasi un italiano su quattro, un campione di intervistati pari al 24,8 %. Non basta. La convinzione diviene infatti mano mano più accentuata quanto più a destra si collocano gli intervistati: si passa dal 17,3% dei soggetti di sinistra al 33,3% di quelli di destra. La "caccia al lavoro" è dunque alla base di molte discriminazioni. E a proposito di xenofobia, dal rapporto Eurispes 2010 emerge che "i mezzi di informazione sono, per il 31,7 % degli italiani, responsabili dell’ondata di xenofobia che ha attraversato il nostro Paese negli ultimi mesi. Ma c’è anche un 24,7% del campione intervistato che la pensa in modo completamente opposto: gli episodi xenofobi sono la conseguenza del comportamento degli immigrati, delle politiche governative (per il 17,2%), o dell’atteggiamento degli italiani (per il 13,3% del campione intervistato).
Matrimoni misti è boom. Boom di matrimoni misti al nord d’Italia. La percentuale piùà alta di matrimoni tra stranieri e italiani si registra infatti in Emilia Romagna che si aggiudica il primato seguita dalla Lombardia, Valle d’Aosta e Liguria. Percentuali nettamente più basse al sud e nelle isole. Nelle nozze fra italiani e straniere le donne sono spesso originarie dell’est d’Europa e dell’America centro-meridionale. Nel 30,1 & dei casi, invece, le spose sono originarie dell’Unione europea. Le italiane preferiscono invece gli uomini nord-africani (34,1% dei casi), gli europei e per ultimi gli americani. E nel 2010 i matrimoni misti subiranno un’ulteriore accelerata. Rispetto al 2007, l’incremento sarà del 32 %. "La crescita del numero degli immigrati in Italia - viene rilevato dal rapporto - è legata in particolar modo agli immigrati provenienti dai paesi Ue di nuova adesione, in primo luogo la Romania". La crescita è dovuta, appunto, al boom di matrimoni misti che nel 2007 ha raggiunto il suo apice con 23.560 celebrazioni: una cifra pari al 9,4% del totale dei matrimoni celebrati in Italia.
Meglio la scuola privata. Scuole meno complicate per sfuggire al recupero dei debiti. I giovani italiani "fuggono dai licei" e si dirigono nelle scuole private, istituti "più facili da cui uscire più in fretta". Le nuove tendenze della scuola italiana sottolineate dal rapporto Eurispes 2010, mostrano infatti che a preferire le private sono soprattutto gli alunni rimandati nelle scuole superiori. Cade anche il mito della scuola "privata e costosa" perché - spiega il rapporto - oltre ai contributi statali, le scuole private ricevono spesso dei contributi erogati singolarmente dalle regioni e dalle amministrazioni locali a seconda delle esigenze territoriali. Questo rende meno onerose le somme di denaro richieste ai genitori per iscrivere i propri figli nelle scuole non statali e ne facilitano, quindi, l’ingresso.
Eutanasia? Sì grazie. Meno contrari ma anche meno favorevoli. Rispetto al 2007 le variazioni sono comunque lievissime: la stragrande maggioranza degli italiani (il 67,4%) continua ad essere favorevole alla "dolce morte", l’eutanasia. Solo il 21,7 % continua a dire "no", mentre una percentuale considerevole, il 10,9%, non si sente in grado di dare alcun parere in merito. Di più, gli italiani favorevoli ad una legge che istituisca il testamento biologico sono l’81,4 %. Una cifra più alta di 6,7 punti rispetto al 2007.
* la Repubblica, 29 gennaio 2010
Emergenza nazionale
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 30/1/2010)
Fra politica e magistratura sono tempi di grande tensione. Ma ieri, all’inaugurazione solenne dell’anno giudiziario in Cassazione davanti al parterre delle alte cariche dello Stato, i toni sono stati misurati e composti. È bene che sia stato così, anche se i problemi esistono, sono profondi e non sono certamente le chiacchierate di un mattino a dissiparli.
Il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Cassazione hanno pronunciato parole condivisibili. Sullo sfondo vi era, ovviamente, il tema del «processo breve» appena votato in Senato dalla maggioranza con l’intento di salvaguardare il premier dai processi in corso. Entrambi i due alti magistrati hanno sottolineato che un processo rapido costituisce, comunque, esigenza imprescindibile di ogni società civile. Ma hanno soggiunto che l’obiettivo non può essere conseguito tramite leggi di giornata, asfittiche e di corto raggio; deve essere invece perseguito attraverso riforme organiche di vasto respiro, accompagnate da un potenziamento delle risorse umane e materiali destinate all’esercizio della giurisdizione.
Parole ineccepibili, che il mondo del diritto pronuncia da anni, ma che, per anni, sono state ignorate dalla politica che, giorno dopo giorno, ha lasciato che la giustizia s’impoverisse. Ha ragione il Primo Presidente a denunciare l’intollerabilità di una situazione che, nella gerarchia mondiale in materia di giustizia, vede l’Italia solo al centocinquantesimo posto, al pari del Gabon, della Guinea e dell’Angola. Ma occorre ricordare che, se ciò è capitato, è soprattutto colpa di chi, al governo e in Parlamento, a tutto ha pensato tranne che a rendere efficiente la macchina giudiziaria dotandola, per legge, dei mezzi e degli strumenti necessari.
Ed occorre, ulteriormente, ricordare, ancora una volta con le parole del Primo Presidente, che senza un disegno riformatore di ampio respiro della legislazione penale e dell’organizzazione giudiziaria sarebbe vano pretendere di «imporre ex lege una risposta di giustizia che possa in concreto essere breve ed efficace a fronte di un crescente carico di domanda». In altre parole, prescrivere per legge un processo breve senza dotare gli addetti dei mezzi e degli strumenti idonei a rispettare i tempi stabiliti, significa introdurre, semplicemente, una mannaia destinata a cancellare processi, condanne, soluzioni giudiziarie. Un disastro ulteriore, e forse definitivo.
Il ministro della Giustizia, stando alle notizie di agenzia, ha cercato di abbozzare, riconoscendo che la condizione della giustizia italiana, specie di quella civile, costituisce «una vera e propria emergenza nazionale», ed annunciando «un piano straordinario di smaltimento delle pendenze». In realtà, sarebbe necessario un progetto complessivo di intervento sui codici civili e penali, sugli organici del personale giudiziario, sulla distribuzione delle sedi giudiziarie, sulla copertura dei posti vacanti. Non un intervento straordinario, ma un ordinario, serio, riassetto globale del sistema legislativo e giudiziario.
Un’ultima annotazione. Sempre il ministro, in un unico accenno leggermente polemico in una giornata «pacificante» ricca di composto equilibrio istituzionale, ha dichiarato di avere rispetto per l’indipendenza dell’ordine giudiziario, ma ha sottolineato che «i giudici sono soggetti alla legge» e che «la legge la fa il Parlamento libero, democratico, espressione del popolo italiano», quello stesso popolo italiano in nome del quale i giudici pronunciano le loro sentenze.
Anche questa è annotazione, di per sé, assolutamente condivisibile, costituendo, ciò che è stato detto, fotografia della divisione dei poteri propria dello Stato di diritto. Occorre tuttavia ricordare, al ministro e a noi tutti, che il Parlamento, nel legiferare, è sovrano, ma è, comunque, tenuto a rispettare la Costituzione (cosa sovente dimenticata in questi ultimi tempi). Nel dibattito di ieri in Cassazione è stato d’altronde ignorato un profilo di grande importanza. Si è parlato ampiamente della necessità di riformare con legge ordinaria la giustizia penale e civile per renderla efficiente (cosa sulla quale sono tutti, bene o male, a parole d’accordo); si è però taciuto sulle ventilate riforme costituzionali attraverso le quali una parte consistente del personale dei partiti intenderebbe rimodulare i rapporti di potere fra politica e magistratura.
È, questo, un profilo di grandissima delicatezza. Non si vorrebbe infatti che, con la scusa del riequilibrio fra i poteri dello Stato, si intendesse in realtà proteggere in modo abnorme il mondo politico intriso di malaffare. La speranza è che il clima con il quale il tema della giustizia ordinaria è stato affrontato ieri nell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione consenta di affrontare con altrettanta distensione anche quello, assai meno pacifico, che concerne la ventilata riforma costituzionale. Per intanto si attende con una certa apprensione che cosa accadrà, oggi, nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario in ciascuna sede di Corte d’Appello.