L’escamotage presidenzialista
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 5 giugno 2013)
Come se fosse l’architettura dei poteri e una Costituzione difettosa, a impedire alla politica e ai partiti di ritrovare la decenza perduta, o a darsene una ex novo. Come se un capo di Stato eletto direttamente dal popolo, e più dominatore - è il farmaco offerto in questi giorni - servisse a curare mali che non vengono da fuori, ma tutti da dentro, dentro la coscienza dei partiti, dentro il loro rapporto con la cosa pubblica, con l’elettore, con la verità delle parole dette.
De Gaulle in Francia concepì la Repubblica presidenziale per sormontare la guerra d’Algeria: aveva di fronte a sé un compito immane - la decolonizzazione - e alle spalle una classe politica incapace di decidere. Non aveva tuttavia uno Stato intimamente corroso come il nostro, in cui i cittadini credono sempre meno. La costituzione semi-monarchica nacque per adattarsi a lui - l’uomo che da solo era entrato in Resistenza, nel 1940 - non per servire un capopopolo stile Berlusconi, che non sopporta il laccio di leggi e costituzioni. La politica francese prima del 1958 era inservibile, ma la corruzione morale e mentale non l’aveva sgretolata sino a farla svanire.
La nostra guerra d’Algeria l’abbiamo in casa: è la nostra casa, squassata, che va decolonizzata. Sono qui dentro i golpisti, non lontani nelle colonie. Piazzare all’ingresso dell’edificio un padre-padrone, con poteri più vasti ancora di quelli che già possiede, non preserva la casa dalla rovina.
E poi non dimentichiamolo. Non fu facile far nascere la Quinta Repubblica. L’accentramento dei poteri all’Eliseo rese il Paese più efficiente, ma moltiplicò opache derive e non lo democratizzò. Avvenne piuttosto il contrario: un Presidente autocrate e decisamente di parte; un Parlamento in gran parte esautorato; un governo sempre sacrificabile dal Capo supremo, e non a caso chiamato fusibile: la Quinta Repubblica è anche questo, e venne confutata da politici e costituzionalisti di rilievo.
Non si oppose solo il socialista Mitterrand, che nel ’64 scrisse Il colpo di Stato permanente, denunciando antiche vocazioni bonapartiste e la perdita - grave - della funzione di arbitro del Presidente. Pur esecrando il precedente regno dei partiti, pur approvando l’elezione diretta, si sollevarono anche costituzionalisti come Maurice Duverger: nella nuova Costituzione, egli scorse fin dal ’59 «spirito di rivincita» e partigianeria: “Ogni costituzione è un’arma politica, attraverso la quale un partito vincitore cerca di consolidare la propria vittoria e trasformare gli avversari in vinti”.
Né la rivolta fu solo di sinistra. L’attacco finale venne da Jean-François Revel che, osservando l’uso socialista della Carta gollista, scrisse un pamphlet feroce: L’assolutismo inefficace. Mitterrand fu accusato di indossare il detestato manto presidenzialista per spezzare la dialettica democratica: “Le costituzioni sono cattive quando il controllo può divenire invadente al punto di paralizzare l’esecutivo, oppure quando l’esecutivo diventa onnipotente al punto di annientare il controllo”.
Testi simili aiutano a capire. Una costituzione è buona se consente controlli: “Senza contropoteri costituzionali - così Revel - il Presidente reagisce solo a forze esterne alle istituzioni: ai media e alle piazze”. Né si può dire che il presidenzialismo sia, almeno, più efficace: “Una buona costituzione non solo associa controllo ed efficacia senza sacrificarli l’un l’altro, ma garantisce l’efficacia perché esiste il controllo”.
Bisogna comunque avere uno Stato e virtù pubbliche ben solidi, per schivare questi pericoli. E l’Italia di oggi, dopo la Prima repubblica degradata in Tangentopoli, nella P2, nei patti Stato-mafia, dopo il ventennio dominato da uno scardinatore di istituzioni come Berlusconi, faticherà a salvaguardare la democrazia se cincischia la Carta proprio ora: è come se De Gaulle l’avesse negoziata con l’Organizzazione dell’armata segreta Oas.
E non perché possediamo “la Costituzione più bella del mondo”, ma perché il vero check and balance, il reciproco controllo fra poteri indipendenti, non è compiuto. Più che bellissima, la nostra Carta è finalmente da realizzare. Credere di raddrizzarla con il presidenzialismo vuol dire aggiungere un potere, lasciandola storta. Dicono che il popolo tornerebbe a esser sovrano, votando il Presidente. Non è detto affatto, rammentano i detrattori della V Repubblica.
Mitterrand descrive rischi che saranno anche i nostri: una volta svuotati Parlamento, politica, governi, “si installa una tecnocrazia rampante, una sfera di amministratori indifferenti al popolo” che “confiscano il potere della Rappresentanza nazionale”.
Citiamo ancora Revel: “La logica della V Repubblica deresponsabilizza, perché il potere è attribuito da un onnipotente irresponsabile a creature che sono solo emanazioni della sua essenza, e che dunque partecipano del suo privilegio di irresponsabilità”. De Gaulle non era temuto come tiranno. Ma i suoi successori?
Altro scenario in Italia. Primo, perché non c’è un De Gaulle fra noi. Secondo, perché il contesto conta quando si disfa la Carta e il contesto nostro è quello di uno Stato diviso in bande, che ha patteggiato finanche con le mafie. Un male come il nostro nemmeno sappiamo più bene nominarlo, e proprio quest’afonia trasforma le discussioni sul presidenzialismo in furbo escamotage. In doppia fuga: fuga dai fondamenti (quale bene pubblico è difeso da partiti o sindacati?) e fuga da noi, dalla nostra storia di colpe e misfatti. Una storia in cui si bagnano ormai destra e sinistra.
Se evochiamo parole morali come colpe e misfatti è perché qui è il nostro guaio, dilatatosi a dismisura: l’aggiramento voluto delle volontà cittadine, la parola sistematicamente non tenuta, il tradimento. Il governo Letta è visto come inciucio perché nato da intese tutte fuoriscena, ob-scaena. È strano come i politici, perfino gli innovatori, evitino di menzionare una tema che resta cruciale: la morale pubblica. Giacché è per immoralità che si rinviano le cose prioritarie, anteponendo l’escamotage.
Mai come adesso invece, la questione posta da Berlinguer nei primi ’80 è stata così attuale. Oggi come allora, è obbligo etico il «corretto ripristino del dettato costituzionale», il divieto ai partiti di occupare lo Stato. Nulla è cambiato rispetto a quando Berlinguer diceva a Scalfari che la questione morale «è il centro del nostro problema»: quell’«occupazione » produce sprechi, debito, ingiustizia. È questione morale allontanarsene subito. È urgente, fattibile, e però intollerato dalle oligarchie. Per questo pesa il contesto delle riforme istituzionali, e inane è mimare Parigi.
Questo è un paese dove non è stata mai fatta una legge sul conflitto di interessi. Dove un magnate tv ha governato nonostante una legge del ’57 proibisca l’elezione di titolari di concessioni pubbliche (frequenze tv). E restano le leggi ad personam, grazie a cui quest’ultimo elude processi e condanne. Questo è il paese dove si ha l’impressione che niente sia vero, di quanto detto in politica. Che tutto sia fumo o diversivo.
Il Pd aveva promesso di non governare con Berlusconi, e ora Berlusconi comanda. Aveva promesso di cambiare subito la legge elettorale, restituendo all’elettore la scelta dei suoi rappresentanti, e neppure questo fa. Quel che è accaduto giorni fa è una pagina nera, simile alla pugnalata di Prodi.
La mattina del 29 maggio il deputato Pd Giachetti raccoglie adesioni contro il Porcellum per tornare automaticamente alla legge Mattarella (1 milione 210.000 italiani hanno chiesto un referendum per ottenere proprio questo, il 30-9-11). Circa 100 firmano: di Pd, Sel e 5 Stelle. Ma arriva l’altolà di Enrico Letta e Finocchiaro («È intempestivo, prepotente!») e dei Pd resta solo Giachetti. Se ne parlerà, sì, ma se vorrà Berlusconi.
Questo è un paese dove si mente al popolo, annunciando pompose abolizioni del finanziamento pubblico ai partiti, e poi ecco una proposta che obbliga i contribuenti a sovvenzionarli col 2 per mille, anche quando non lo dichiarano (le cosiddette somme “inoptate”) Questo è un paese dove il presidente della Repubblica esercita poteri imprevisti. Con che diritto, sabato, ha definito «eccezionale» il governo: «a termine»? Il Quirinale già ha pesato molto, influenzando il voto presidenziale e favorendo le grandi intese.
Formidabile è la coazione a ripetere inganni, tradimenti. La chiamano addirittura pace, responsabilità. In realtà nessuno risponde di quel che fa o non fa. Deridono Grillo, che chiama portavoce i rappresentanti. Ma loro non sono affatto rappresentanti, essendo nominati. Nessuno è imputabile, e che altro è la non-imputabilità se non la fine d’ogni etica pubblica.
MATERIALI PER RIFLETTERE:
L’ombra lunga del dispotismo
Dal presidenzialismo al dispotismo
di Michele Ciliberto (l’Unità, 06.06.2013)
La discussione, accesa e a volte aspra, sul presidenzialismo va considerata con attenzione, senza condanne pregiudiziali. Essa conferma che nel nostro Paese è aperta la questione della sovranità: chi è oggi il sovrano, in quali forme si esprime, su quale equilibrio dei poteri è fondato?
È un problema cruciale ed è singolare che esso non sia mai afferrato e affrontato nella sua necessaria e obiettiva radicalità. Si continua a restare alla superficie dei process, senza capire che i fenomeni che abbiamo sotto gli occhi compreso quello che si è soliti definire «populismo» hanno questa radice e a questo livello vanno considerati. Che cosa sta facendo il Movimento 5 Stelle se non riaprire, in modo perfino brutale, la questione di chi oggi sia il «sovrano»? Il rifiuto che ha opposto, con durezza, al tentativo di Bersani non scaturisce da una risposta precisa a questa domanda che prescinde volutamente da una dialettica parlamentare ordinaria e si situa fuori dagli argini della «tradizione» repubblicana? Come non capire che su questo punto specifico i capi di quel Movimento si muovono su un’altra onda, che non si incrocia con gli ordinari soggetti della sovranità e con le sue forme tradizionali?
Eppure non è questione di questi giorni, di questi mesi e nemmeno di questi ultimi anni: si è aperta negli anni Settanta, e da allora è iniziato nel nostro Paese uno scontro nel quale sono stati impegnati forze e soggetti diversi politica, magistratura, forze economiche proprio come accade quando, rotto un equilibrio, si sviluppa uno scontro frontale, e di carattere generale, sui caratteri, i soggetti, le forme del nuovo equilibrio da costruire: in una parola, sulle «nuove» forme della sovranità.
Se si analizza la storia italiana da questo punto di vista, si vede che lo scontro ha visto in campo fin dall’inizio una ipotesi di soluzione di carattere autoritario, decisionistico, secondo una vocazione tipica delle classi dirigenti italiane fin dalla fondazione dello Stato nazionale. Che cosa è stato il craxismo, che pure si muoveva in un’area di tipo socialista, se non un tentativo di risolvere il problema della sovranità dall’alto, in una prospettiva di tipo autoritario con il progetto della Grande Riforma? È proprio su questo terreno insidiosissimo perché tocca la dimensione delle istituzioni repubblicane che si può individuare un filo rosso di continuità tra craxismo e berlusconismo (due fenomeni per tanti versi differenti).
Il problema del presidenzialismo viene quindi da assai lontano, e va collocato su questo sfondo per essere compreso e anche combattuto. Oggi arriva in superficie, assumendo questa forma, un problema che percorre come un fiume carsico tutta la nostra storia recente, al quale le forze riformatrici, spesso chiuse in una trincea difensiva, non hanno saputo dare una risposta.
Certo, ha ragione Bersani quando sottolinea che la missione di un partito come il Pd esclude, in linea di principio, ogni forma di «uomo solo al comando». Ma per battere posizioni di questo tipo e capire perché esse si ripropongano periodicamente, assumendo come un Proteo varie forme e penetrando anche nel Pd occorre comprendere le ragioni storiche obiettive da cui questa spinta al presidenzialismo ha preso e continua a prendere forza.
È un fatto: gli equilibri della democrazia repubblicana si sono consumati, le forme della politica di massa sono finite, le culture dell’antifascismo sono tramontate; e sono venute anche meno alcune delle principali preoccupazioni che avevano animato i costituenti formatisi nel fuoco della lotta al fascismo.
In breve, un mondo è finito e occorre costruirne un altro, sapendo quali sono i termini delle alternative oggi in campo: una soluzione di tipo presidenzialistico o una soluzione in termini di democrazia diretta soluzioni polarmente contrapposte, ma entrambe da respingere perché l’una e l’altra autoritarie e, sia pure in forme diverse potenzialmente, dispotiche? Oppure, e questa è la soluzione su cui lavorare, nuove forme istituzionali, politiche e sociali che risolvano in termini di espansione democratica la questione della sovranità ma confrontandosi con i problemi politici e sociali e anche con le nuove esigenze di governabilità proprie di un mondo complesso e globalizzato come il nostro?
È un problema assai vasto, analizzabile da molti punti di vista, a cominciare da quello rappresentato dal bipolarismo e dal rapporto, delicatissimo, tra presidenzialismo e bipolarismo. La forza dell’ipotesi bipolare sta infatti qui: nonostante i suoi limiti sconta un difetto di semplificazione in una storia complessa come le nostra essa può contribuire a una modernizzazione e a uno sviluppo in chiave democratica, del nostro sistema politico, specie se è fondata su un sistema elettorale a doppio turno.
Ma se si sceglie questa strada come io ritengo che si debba fare il presidenzialismo, va respinto in tutte le sue forme.
Se è vero, infatti, che «è nell’essenza dei governi democratici che il predominio della maggioranza sia assoluto», dal presidenzialismo scaturisce, in modo ineluttabile, una moderna forma di «dittatura della maggioranza», con uno stravolgimento dell’equilibrio dei poteri e un netto primato dell’esecutivo sia sul legislativo che sul giudiziario. Se questa è la prospettiva, ciò di cui la nostra democrazia ha bisogno è precisamente il contrario: essa necessita di una alta magistratura che si configuri come principio di equilibrio, garanzia di un bilanciamento dei poteri, base e riferimento di una positiva ed efficace dinamica bipolare.
Dunque una istituzione forte e condivisa, da delimitare con precisione nelle sue prerogative e nei suoi confini. E tanto più indispensabile in una situazione come quella attuale nella quale mancano, o sono assai deboli, strutture in grado di contrapporsi a forze che pur generate democraticamente possono svolgersi in termini autoritari e perfino dispotici, come avviene sempre quando si afferma, in modo incontrollato, il potere della «maggioranza». Ne abbiamo cominciato a fare esperienza negli ultimi venti anni.
Il giorno della fine della guerra civile
risponde Furio Colombo (il Fatto, 06.06.2013)
CARO FURIO COLOMBO, non so se ha notato, ma è finita la guerra civile. Lo ha dichiarato Silvio Berlusconi alle ore 14.12 del 5 giugno. Che cosa diranno gli storici? Luigi
É MOLTO IMPORTANTE esaminare il testo del bollettino della vittoria firmato da Silvio Berlusconi. É scritto così: “Siamo riusciti a mettere insieme il centrodestra e il centrosinistra ponendo fine a una guerra civile”. Berlusconi dunque si attribuisce (“siamo riusciti...”) il merito dello storico evento e mostra di mettersi alla testa, novello generale Cadorna.
Per capire l’improvviso comunicato straordinario, dobbiamo provare a metterci dalle due parti di chi vi partecipa. Dunque, visto da destra e visto da sinistra. A sinistra troviamo un evento piccolo ma esemplare. Il tema è giustificare la nuova vita insieme di una deputata di Berlusconi (Laura Ravetto ) e un deputato del Pd ( Dario Ginefra).
Come può accadere una cosa simile? Semplice, spiega il giovane Pd: “Non sono accecato dall’antiberlusconismo” (Corriere della Sera, 31 maggio). Sulla destra compare in televisione (Tg3, 4 giugno) l’austera Gelmini che sillaba questo messaggio: “Una eventuale condanna di Berlusconi sarebbe lesiva della democrazia”. Che vuol dire “non fatevi venire delle strane idee sulla indipendenza della magistratura , perché allora la guerra continua”.
Posso raccontare, senza che sembri un vanto, una storia del tutto simile che mi riguarda, ovvero “chi tocca i fili muore?” Dunque, leggo su “Dagospia” del 4 giugno questa frase di Paolo Madron che risponde a una mia obiezione al suo libro). “I ricordi di Bisignani sul suo soggiorno americano erano più precisi. Ricordava come, in quanto capo della Fiat Usa, Colombo fosse presente nei consigli di amministrazione di alcune banche, tra cui la Overseas Union Bank, entrate poi, ai tempi di Tangentopoli, nelle indagini del pool di Mani Pulite”.
Strana memoria. Identica a quella del capo gruppo Pdl Renato Brunetta, che, per rispondere (anche lui) a una frase che non gli andava, è stato folgorato dallo stesso frammento di memoria, espresso con lo stesso argomento e le stesse parole.
Ma tutto ciò, parola per parola, si trova in un articolo di due pagine (la 2 e la 3) con foto gigante, (ma con il titolo a bandiera a pag. 1) a firma Renato Farina, sul quotidiano “Libero” del 30 marzo 2001. Ti dicevano che tutto era già scritto in un libro di Marco Travaglio. Quel libro è stato ripubblicato e distribuito da “L’Unità” quando io lo dirigevo. Come vedete, la guerra è finita, ma solo per chi accetta la resa, che deve essere incondizionata, come allora. Non c’è posto, nel mondo delle larghe intese, per chi sia ancora “accecato dall’antiberlusconismo”.
LA STAGIONE DELLA GRANDE MENZOGNA (di Angelo Casati) *
A volte, mi sembra, è una mia sensazione, che questa sia la stagione della menzogna. Della grande menzogna. Come fosse diventata un impero. E noi dentro, o, forse meglio, sotto questo impero. Fino quasi all’assuefazione. Non c’è indignazione, non c’è rivolta, non c’è ribellione. Troviamo normale che si dica una cosa e il giorno dopo senza perdere la faccia si dica esattamente il contrario, assistiamo ai più incredibili e spudorati trasformismi. Sì, all’assenza totale del pudore.
Come se le parole non avessero più un suono, un colore, come se non avessero più peso. Le stesse parole usate per dire una cosa e per dire il contrario, le hanno scolorite. Le parole svuotate, senza il contenuto, vuote della realtà. Perché tanto l’importante è dare annunci, anche se poi la cosa non succede. Tanto la gente ci crede! Che sia questo, me lo chiedo, il grande male? Capita a tutti noi, penso, in certi giorni di guardarci intorno con occhi disincantati e di diventare un po’ tristi.
A me capitò in un giorno della scorsa estate. E mi vennero questi pensieri che ora vorrei condividere. Avevo dato loro un titolo: Rito e menzogna. Eccoli:
Hanno abbassato i monti,
l’hanno chiamata religione.
Hanno impoverito l’orizzonte,
l’hanno chiamata fede.
Hanno spento i sentimenti,
l’hanno chiamata ascesi.
Hanno svuotato il comandamento,
l’hanno chiamata morale.
Hanno omologato il tutto,
l’hanno chiamata unità.
Hanno zittito le coscienze,
l’hanno chiamata ubbidienza.
Hanno mummificato i riti,
l’hanno chiamata divina liturgia.
Hanno ucciso i profeti,
l’hanno chiamata ortodossia.
Hanno chiuso le porte,
l’hanno chiamata identità.
Hanno respinto le barche,
l’hanno chiamata sicurezza.
Hanno cacciato i giudici,
l’hanno chiamata giustizia.
Hanno succhiato i poveri,
l’hanno chiamato equilibrio.
Hanno deliberato leggi ingiuste,
l’hanno chiamata legalità.
Hanno imbavagliato un parlamento,
l’hanno chiamata efficienza.
Hanno manipolato un popolo,
l’hanno chiamata democrazia.