Napolitano ricorda le foibe: verità negata per pregiudizi ideologici *
«Non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità di aver negato o teso ad ignorare la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica». Così, durante la celebrazione della giornata della memoria, il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ricorda il dramma del popolo giuliano-dalmata. Una tragedia, sottolinea, «rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali».
Memorie e verità, insomma, vanno per Napolitano di pari passo con un’ ammissione senza alcuna attenuante delle responsabilità di un’intera classe politica, per quella che lo stesso Presidente ha definito «la congiura del silenzio». «Oggi che in Italia abbiamo posto fine ad un non giustificabile silenzio - dice Napolitano durante la cerimonia al Quirinale - e che siamo impegnati in Europa a riconoscere nella Slovenia un’amichevole partner e nella Croazia un nuovo candidato all’ingresso nell’Unione, dobbiamo tuttavia ripetere con forza che dovunque, in seno al popolo italiano come nei rapporti tra i popoli, parte della riconciliazione, che fermamente vogliano, è la verità. E quello del “Giorno del Ricordo” è precisamente un solenne impegno di ristabilimento della verità».
Napolitano ha quindi voluto richiamarsi esplicitamente al suo predecessore, Carlo Azeglio Ciampi, dicendo che ne raccoglie l’esempio circa «il dovere che le istituzioni della Repubblica sentono come proprio, a tutti i livelli, di un riconoscimento troppo a lungo mancato» delle tragedie di un intero popolo di istriani, fiumani e dalmati, che al confine orientale dell’ Italia, dopo l’8 settembre ’43, furono vittime di un «moto di odio e di furia sanguinaria e di un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica». Una tragedia la cui memoria «ha rischiato di essere cancellata» e che invece, ha aggiunto il capo dello Stato, deve essere trasmessa ai giovani nello spirito della legge del 2004 che ha istituito il Giorno del Ricordo.
Nell’ autunno 1943, ha aggiunto Napolitano citando recenti riflessioni e ricerche, «si intrecciarono giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento della presenza italiana da quella che era e cessò di essere la Venezia Giulia». «La disumana ferocia delle foibe fu una delle barbarie del secolo scorso, in cui si intrecciarono in Europa cultura e barbarie. Non bisogna mai smarrire consapevolezza di ciò - ha sottolineato - nel valorizzare i tratti più nobili della nostra tradizione storica e nel consolidare i lineamenti di civiltà, di pace, di libertà, di tolleranza, di solidarietà della nuova Europa che stiamo costruendo da oltre 50 anni, e che è nata dal rifiuto dei nazionalismi aggressivi e oppressivi, da quello espresso nella guerra fascista a quello espresso nell’ ondata di terrore jugoslavo in Venezia Giulia. La nuova Europa esclude naturalmente anche ogni revanscismo».
Napolitano ha rivolto un omaggio affettuoso a tutti gli eredi di quella buia pagina della nostra Storia e un omaggio altrettanto affettuoso al professor Paolo Barbi, già presidente dell’ Associazione dei profughi giuliano-dalmati (Anvd), che ha rievocato al Quirinale, in pochi tratti, i termini di quella disumana tragedia. Poco prima, il ministro della Cultura Francesco Rutelli aveva testimoniato l’impegno di tutto il governo a rompere il silenzio su questa «dolorosa pagina» e a illuminarne i tratti e a sviluppare alcune iniziative per far conoscere il patrimonio storico culturale di italianità che rimane sulle coste dalmate, su quei territori che furono italiani.
* l’Unità, Pubblicato il: 10.02.07, Modificato il: 10.02.07 alle ore 12.19
La mappa degli orrori - Corriere della sera
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
Eric Gobetti: Cosa si dimentica nel Giorno del ricordo
Le celebrazioni del 10 febbraio denotano un’idea nazionalista che coinvolge tutte le istituzioni democratiche, dice lo storico. E denuncia: «Così si rischia di far passare i fascisti per delle vittime»
Intervista di Leonardo Filippi *
Intitolare un parco alle vittime “delle Foibe e della Shoah”. È la proposta di un’assessora di Tarquinia, in quota Lega Nord. La più recente tra quelle messe in campo negli ultimi anni dalle destre in Italia con un preciso scopo: equiparare due vicende, l’Olocausto e una serie di violenze commesse dalla Resistenza jugoslava durante la Seconda guerra mondiale, entrambe drammatiche certo, ma assolutamente incommensurabili. Per farlo, nazionalisti, neofascisti e nostalgici non si sono fatti problemi ad “inquinare pozzi”. Con mistificazioni storiche, ricostruzioni inventate, numeri senza alcun legame con la realtà. A partire, ad esempio, dai «diecimila infoibati» di cui parla CasaPound. Così, i presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella sono arrivati a definire i morti delle foibe come vittime di una «pulizia etnica» che in realtà non ha avuto luogo.
L’obiettivo finale delle destre radicali è chiaro: disattivare il significato della Giornata della memoria celebrando ogni 10 febbraio un suo “omologo” anticomunista, il Giorno del ricordo; disseccare le radici antifasciste della nostra Repubblica; rilegittimarsi a livello nazionale e internazionale. Per opporci a questo gioco sporco, senza ovviamente sminuire in alcun modo crimini e tragedie che si verificarono sul cosiddetto confine orientale, compreso l’esodo italiano dall’Istria e dalla Dalmazia, e anzi indagandoli, abbiamo da quest’anno uno strumento assai prezioso. Si intitola E allora le foibe?, è appena uscito per Laterza nella collana Fact checking (realizzata con la collaborazione di Carlo Greppi, v. Left del 22 gennaio 2021) ed è l’ultima fatica dello storico e divulgatore Eric Gobetti. Con lui abbiamo fatto il punto su questo capitolo del Novecento, a partire dai riscontri storici, per ricostruire la reale dinamica degli eventi.
Per prima cosa, quando si parla di foibe e di esodo si fa spesso riferimento a territori “da sempre” italiani. È davvero così?
Per parlare di “territori italiani” bisognerebbe intendersi su cosa sia l’italianità, dato che la stessa idea di nazione inizia a diffondersi tra fine Settecento e inizio Ottocento. Dire che queste zone dell’Alto Adriatico, dove si è consumata la vicenda delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata, erano italiane in quanto appartenevano alla Repubblica di Venezia è una castroneria. Venezia non era uno Stato nazione, la venezianità non era l’italianità. Lo stesso discorso vale ancora di più per l’Impero romano. La propaganda fascista gioca su queste ricostruzioni, che per uno storico sono prive di logica. Questi territori erano abitati da italiani, slavi, tedeschi, ungheresi e altri popoli. Vi era una grande commistione di... [...].
* Fonte: Left, 10 febbraio 2020 (ripresa parziale).
PER APPROFONDIMENTI, CFR.:
ERIC GOBETTI, "E allora le foibe?", Bari, Laterza, 2021
Dichiarazione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della firma del Protocollo d’intesa riguardante la restituzione del Narodni Dom alla minoranza linguistica slovena in Italia
Benvenuto Presidente Pahor.
La storia non si cancella e le esperienze dolorose, sofferte dalle popolazioni di queste terre, non si dimenticano.
Proprio per questa ragione il tempo presente e l’avvenire chiamano al senso di responsabilità, a compiere una scelta tra fare di quelle sofferenze patite, da una parte e dall’altra, l’unico oggetto dei nostri pensieri, coltivando risentimento e rancore, oppure, al contrario, farne patrimonio comune, nel ricordo e nel rispetto, sviluppando collaborazione, amicizia, condivisione del futuro.
Al di qua e al di là della frontiera - il cui significato di separazione è ormai, per fortuna, superato per effetto della comune scelta di integrazione nell’Unione Europea - sloveni e italiani sono decisamente per la seconda strada, rivolta al futuro, in nome dei valori oggi comuni: libertà, democrazia, pace.
Oggi, qui a Trieste - con la presenza dell’amico Presidente Borut Pahor - segniamo una tappa importante nel dialogo tra le culture che contrassegnano queste aree di confine e che rendono queste aree di confine preziose per la vita dell’Europa.
* FONTE: PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA.
STORIA E FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO....
Veltroni colpisce ancora. Ovvero l’ignoranza della storia genera mostri
di Angelo d’Orsi *
Allora, il fatto è noto, almeno in cerchie dell’antifascismo. In un programma televisivo (“Le Parole”), il conduttore, Massimo Gramellini, giornalista, divenuto poi narratore di successo e anche intrattenitore del piccolo schermo, in occasione del 75esimo del XXV Aprile, non trova di meglio che intervistare Walter Veltroni. A cui dopo l’introduzione di rito (perché è così difficile per una parte del Paese accettare l’idea che la data della Liberazione costituisca una ricorrenza condivisa, un punto fermo nella identità nazionale della Repubblica) pone la domanda, ossia se non sembri all’illustre ospite (in collegamento...) che quella festa sia importante e che ogni cittadino di questa nazione dovrebbe sottoscriverla, senza polemiche fuori luogo. Ebbene l’intervistato annuisce gravemente, come se stesse facendo una importante concessione all’intervistatore. E ammette, che sì, il 25 aprile 1945 va ricordato e festeggiato, dal popolo italiano, non dimenticando però “la tragedia delle foibe”, su cui come per il 25 aprile non c’è il necessario unanime consenso.
C’è da strabuzzare gli occhi, fregarsi le orecchie, cercare conforto in qualcuno che eventualmente stia assistendo al programma. Ha detto proprio così. L’ex segretario dei DS e poi del PD, ha detto che per apprezzare il XXV Aprile dobbiamo ricordarci delle foibe..., dell’altro “crimine orrendo”. Dunque ha messo sullo stesso piano la Liberazione d’Italia dall’invasore e oppressore nazista, e dal fascismo suo complice-succube, con le “foibe”, un circoscritto episodio su cui dalla fine degli anni Novanta si è montata una macchina di propaganda che in Italia non ha l’eguale. Una macchina che ha cercato nel corso del tempo una impossibile equiparazione tra foibe e campi di sterminio nazista, e ora arriva Veltroni, il grande stratega, lo storico provetto, il politico progressista, a mettere sullo stesso piano quella vicenda con la più grande, la sola rivoluzione che si sia mai fatta in Italia, vittoriosamente, quella culminata con la liberazione di Milano, il 25 aprile 1945.
Poco meno di un anno dopo quella data assurse a simbolo della nuova Italia, sotto il Governo De Gasperi, esattamente il 22 aprile 1946, con un decreto “luogotenenziale” firmato dal principe Umberto II, allora “luogotenente del Regno d’Italia” (la Repubblica sarebbe nata qualche settimana dopo): nel decreto si stabiliva «A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale». Tre anni più tardi quella giornata, il 25 aprile, entrò ufficialmente nel calendario civico dell’Italia repubblicana, tra le festività nazionali, accanto al 2 giugno.
Ma Veltroni, opinionista, saggista, scrittore, regista (difficile decidere in quale ambito abbia dato il peggio, dopo aver detto più o meno addio alla politica attiva, ambito in cui aveva fatto sufficientemente danno), tutto questo sembra ignorarlo. Come pare ignorare la speculazione politica sulle “foibe”, e si spinge all’ardito accoppiamento. Gramellini, più accorto di lui, lascia correre, ma proseguendo nel suo ragionamento, relativo alla ovvietà del 25 aprile 1945 come data simbolo dell’Italia che ha sconfitto il fascismo, cita l’esempio altissimo dei Fratelli Cervi, martiri del fascismo, e per sottolineare che la Resistenza non era solo comunista, afferma che i Cervi non lo erano. Veltroni tace e acconsente, citando come protagonisti della lotta partigiana socialisti, liberali, cattolici, monarchici, militari... Non fa la minima menzione del ruolo che il PCI ebbe in quella lotta, dopo aver già costituito il nerbo dell’antifascismo clandestino e all’estero, nel Ventennio. Né il cenno lo fa Gramellini. Finisce lì, con Veltroni che invitato ancora a spiegare il senso della Liberazione se ne esce con un discorsetto grottesco relativo alla situazione determinata dalla pandemia. Grazie, Walter. Ciao, Massimo.
Il giorno dopo Maurizio Acerbo, segretario del PRC, ossia Rifondazione Comunista, con un intervento sul “manifesto” chiede le scuse di Gramellini, precisando che i Cervi erano comunisti, esprimendo sconcerto per l’atteggiamento di Veltroni. E la settimana seguente Gramellini, dando prova di correttezza a supplire la propria scarsa informazione storica, apre la puntata del suo programma con la precisazione: “I fratelli Cervi provenivano da una famiglia cattolica ed erano comunisti”.
Rimane l’agghiacciante silenzio di Veltroni. E rimane l’amaro della deriva storica di una generazione, quella venuta dopo Berlinguer, che non solo ha scientemente affossato il PCI, ma ha cercato in ogni modo di cancellare il patrimonio ideale e politico che in quel partito si riassume. Del resto, già parecchi anni or sono, nel 2011 (se non sbaglio) l’ex sfidante (trombato) di Berlusconi, dichiarava di non essere mai stato comunista, sottolineando: “Non ero ideologicamente comunista”.
In effetti, Veltroni era probabilmente soltanto “veltroniano”, anche quando obbediva senza fiatare alle dirigenze del partito in cui militava, dopo una lunga carriera nella FGCI, anche quando era dentro la cappa del “socialismo reale”, anche quando insomma “faceva il comunista senza esserlo”. Né poteva essere comunista da segretario dei DS (Democratici di Sinistra) e men che meno da primo segretario del neonato PD (Partito Democratico, di cui fu uno degli inventori). Certo il suo curriculum studiorum è modestissimo (“diploma di istituto professionale per la cinematografia e la televisione”), ma possibile che una militanza lunga e da leader nelle file di partiti “antifascisti” (dal PCI ai DS al PD), non gli abbia insegnato neppure l’abc? E non prova vergogna a parlare dell’importanza della memoria da trasmettere ai “giovani”?
Forse il punto sta proprio nella parola “memoria”. Ancora una volta dobbiamo smettere di usare questo termina ambiguo e fallace, e parlare piuttosto di “storia”. E cominciare a studiarla. La memoria comprende l’oblio e l’errore, e in fondo consente a tutti una giustificazione. Perciò rimane fondamentale lo studio della storia. Accetti un buon consiglio, Veltroni: la bibliografia su fascismo, antifascismo, Resistenza, è molto estesa. E se non sa da che parte cominciare chieda consiglio. Personalmente sono pronto a fornirle qualche utile indicazione. Così eviterà in futuro figuracce come quella che ha compiuto proprio nella ricorrenza del 75esimo della Liberazione. È proprio vero che l’ignoranza della storia genera mostri.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTITUZIONE, EVANGELO, e NOTTE DELLA REPUBBLICA (1994-2016) : PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI .
fls
Mosaico dei giorni
Le voragini carsiche del silenzio
di Tonio Dell’Olio *
Man mano che passa il tempo, siamo moralmente obbligati a chiederci quali siano state le ragioni che hanno portato al silenzio se non al negazionismo esplicito circa il massacro delle foibe. E non basta la semplice lettura ideologica. Lo scrupoloso silenzio non è stato osservato solo dalla sinistra estrema che assecondava e sosteneva le scelte politiche della Jugoslavia di Tito, ma anche da chi, ad esempio, ha governato il Friuli Venezia Giulia dall’immediato dopoguerra fino agli inizi degli anni novanta e oltre.
Mi vado convincendo che le ragioni fossero ancora una volta di tipo economico, strategico, politico. Ovvero che non si doveva disturbare il nostro vicino ingombrante, né tantomeno rischiare di irritarlo, per non compromettere le nostre relazioni commerciali o interferire sullo scacchiere internazionale che nel frattempo si era andato componendo. Non è affatto un caso che la verità è risalita dalle voragini carsiche in cui era stata inghiottita col suo doloroso carico di vittime, solo dopo la decomposizione e la frammentazione della Jugoslavia.
Ancora oggi l’inerzia sul caso Regeni e i silenzi sulle violazioni dei diritti umani, hanno la stessa radice. E allora mi chiedo quanta ipocrisia c’è in certe celebrazioni da parte di chi, prima ha taciuto colpevolmente, e oggi lacrima falsamente senza un minimo di mea culpa? E allora il modo migliore per onorare la memoria delle vittime di ieri è ancora una volta l’impegno per evitarne altre e non smettere di pretendere di conoscere la verità sempre.
Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
in occasione della celebrazione del ‘Giorno del Ricordo’
Palazzo del Quirinale, 09/02/2019
Benvenuti al Quirinale. Rivolgo un saluto al Presidente della Camera dei Deputati, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della Corte costituzionale e al Vice Presidente del Senato.
Un ringraziamento a quanti sono intervenuti, contribuendo in maniera efficace a illustrare, a far rivivere e a comprendere il senso di questa giornata del Ricordo.
Celebrare il Giorno del Ricordo significa rivivere una grande tragedia italiana, vissuta allo snodo del passaggio tra la II guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda. Un capitolo buio della storia nazionale e internazionale, che causò lutti, sofferenza e spargimento di sangue innocente. Mentre, infatti, sul territorio italiano, in larga parte, la conclusione del conflitto contro i nazifascisti sanciva la fine dell’oppressione e il graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attendeva gli Italiani nelle zone occupate dalle truppe jugoslave.
Un destino comune a molti popoli dell’Est Europeo: quello di passare, direttamente, dalla oppressione nazista a quella comunista. E di sperimentare, sulla propria vita, tutto il repertorio disumanizzante dei grandi totalitarismi del Novecento, diversi nell’ideologia, ma così simili nei metodi di persecuzione, controllo, repressione, eliminazione dei dissidenti.
Un destino crudele per gli italiani dell’Istria, della Dalmazia, della Venezia Giulia, attestato dalla presenza, contemporanea, nello stesso territorio, di due simboli dell’orrore: la Risiera di San Sabba e le Foibe.
La zona al confine orientale dell’Italia, già martoriata dai durissimi combattimenti della Prima Guerra mondiale, assoggettata alla brutalità del fascismo contro le minoranze slave e alla feroce occupazione tedesca, divenne, su iniziativa dei comunisti jugoslavi, un nuovo teatro di violenze, uccisioni, rappresaglie, vendette contro gli italiani, lì da sempre residenti. Non si trattò - come qualche storico negazionista o riduzionista ha voluto insinuare - di una ritorsione contro i torti del fascismo. Perché tra le vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni.
Tanti innocenti, colpevoli solo di essere italiani e di essere visti come un ostacolo al disegno di conquista territoriale e di egemonia rivoluzionaria del comunismo titoista. Impiegati, militari, sacerdoti, donne, insegnanti, partigiani, antifascisti, persino militanti comunisti conclusero tragicamente la loro esistenza nei durissimi campi di detenzione, uccisi in esecuzioni sommarie o addirittura gettati, vivi o morti, nelle profondità delle foibe. Il catalogo degli orrori del ‘900 si arricchiva così del termine, spaventoso, di “infoibato”.
La tragedia delle popolazioni italiane non si esaurì in quei barbari eccidi, concentratisi, con eccezionale virulenza, nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945.
Alla fine del conflitto, l’Italia si presentava nella doppia veste di Paese sconfitto nella sciagurata guerra voluta dal fascismo e, insieme, di cobelligerante. Mentre il Nord Italia era governato dalla Repubblica di Salò, i territori a est di Trieste erano stati formalmente annessi al Reich tedesco e, successivamente, vennero direttamente occupati dai partigiani delle formazioni comuniste jugoslave.
Ma le mire territoriali di queste si estendevano anche su Trieste e Gorizia. Un progetto di annessione rispetto al quale gli Alleati mostravano una certa condiscendenza e che, per fortuna, venne sventato dall’impegno dei governi italiani.
Certo, non tutto andò secondo gli auspici e quanto richiesto e desiderato. Molti italiani rimasero oltre la cortina di ferro. L’aggressività del nuovo regime comunista li costrinse, con il terrore e la persecuzione, ad abbandonare le proprie case, le proprie aziende, le proprie terre. Chi resisteva, chi si opponeva, chi non si integrava nel nuovo ordine totalitario spariva, inghiottito nel nulla. Essere italiano, difendere le proprie tradizioni, la propria cultura, la propria religione, la propria lingua era motivo di sospetto e di persecuzione. Cominciò il drammatico esodo verso l’Italia: uno stillicidio, durato un decennio. Paesi e città si spopolavano dalla secolare presenza italiana, sparivano lingua, dialetti e cultura millenaria, venivano smantellate reti familiari, sociali ed economiche.
Il braccio violento del regime comunista si abbatteva furiosamente cancellando storia, diversità, pluralismo, convivenza, sotto una cupa cappa di omologazione e di terrore.
Ma quei circa duecentocinquantamila italiani profughi, che tutto avevano perduto, e che guardavano alla madrepatria con speranza e fiducia non sempre trovarono in Italia la comprensione e il sostegno dovuti. Ci furono - è vero - grandi atti di solidarietà. Ma la macchina dell’accoglienza e dell’assistenza si mise in moto con lentezza, specialmente durante i primi anni, provocando agli esuli disagi e privazioni. Molti di loro presero la via dell’emigrazione, verso continenti lontani. E alle difficoltà materiali in Patria si univano, spesso, quelle morali: certa propaganda legata al comunismo internazionale dipingeva gli esuli come traditori, come nemici del popolo che rifiutavano l’avvento del regime comunista, come una massa indistinta di fascisti in fuga. Non era così, erano semplicemente italiani.
La guerra fredda, con le sue durissime contrapposizioni ideologiche e militari, fece prevalere, in quegli anni, la real-politik. L’Occidente finì per guardare con un certo favore al regime del maresciallo Tito, considerato come un contenimento della aggressività della Russia sovietica. Per una serie di coincidenti circostanze, interne ed esterne, sugli orrori commessi contro gli italiani istriani, dalmati e fiumani, cadde una ingiustificabile cortina di silenzio, aumentando le sofferenze degli esuli, cui veniva così precluso perfino il conforto della memoria.
Solo dopo la caduta del muro di Berlino - il più vistoso, ma purtroppo non l’unico simbolo della divisione europea - una paziente e coraggiosa opera di ricerca storiografica, non senza vani e inaccettabili tentativi di delegittimazione, ha fatto piena luce sulla tragedia delle foibe e sul successivo esodo, restituendo questa pagina strappata alla storia e all’identità della nazione.
L’istituzione, nel 2004, del Giorno del ricordo, votato a larghissima maggioranza dal Parlamento, dopo un dibattito approfondito e di alto livello, ha suggellato questa ricomposizione nelle istituzioni e nella coscienza popolare.
Ricomposizione che è avvenuta anche a livello internazionale, con i Paesi amici di Slovenia e Croazia, nel comune ripudio di ogni ideologia totalitaria, nella condivisa necessità di rispettare sempre i diritti della persona e di rifiutare l’estremismo nazionalista. Oggi, in quei territori, da sempre punto di incontro di etnie, lingue, culture, con secolari reciproche influenze, non ci sono più cortine, né frontiere, né guerre. Oggi la città di Gorizia non è più divisa in due dai reticolati.
Al loro posto c’è l’Europa, spazio comune di integrazione, di dialogo, di promozione dei diritti, che ha eliminato al suo interno muri e guerre. Oggi popoli amici e fratelli collaborano insieme nell’Unione Europea per la pace, il progresso, la difesa della democrazia, la prosperità.
Ringrazio gli ambasciatori di Slovenia, di Croazia e del Montenegro per la loro presenza qui, che attesta la grande amicizia che lega oggi i nostri popoli in un comune destino. Ringrazio l’on. Furio Radìn, Vice Presidente del Parlamento Croato, in cui è stato eletto come rappresentante della Comunità nazionale italiana di Croazia; e l’on. Felice Ziza, deputato all’Assemblea Nazionale Slovena, ove è stato eletto come rappresentante della Comunità nazionale italiana di Slovenia.
Desidero ricordare qui le parole di una dichiarazione congiunta tra il mio predecessore, il Presidente Giorgio Napolitano, che tanto ha fatto per ristabilire verità su quei tragici avvenimenti, e l’allora Presidente della Repubblica di Croazia Ivo Josipović del settembre 2011:
“Gli atroci crimini commessi non hanno giustificazione alcuna. Essi non potranno ripetersi nell’Europa unita, mai più. Condanniamo ancora una volta le ideologie totalitarie che hanno soppresso crudelmente la libertà e conculcato il diritto dell’individuo di essere diverso, per nascita o per scelta”.
L’ideale di Europa è nata tra le tragiche macerie della guerra, tra le stragi e le persecuzioni, tra i fili spinati dei campi della morte. Si è sviluppata in un continente diviso in blocchi contrapposti, nel costante pericolo di conflitti armati: per dire mai più guerra, mai più fanatismi nazionalistici, mai più volontà di dominio e di sopraffazione. L’ideale europeo, e la sua realizzazione nell’Unione, è stato - ed è tuttora - per tutto il mondo, un faro del diritto, delle libertà, del dialogo, della pace. Un modo di vivere e di concepire la democrazia che va incoraggiato, rafforzato e protetto dalle numerose insidie contemporanee, che vanno dalle guerre commerciali, spesso causa di altri conflitti, alle negazioni dei diritti universali, al pericoloso processo di riarmo nucleare, al terrorismo fondamentalista di matrice islamista, alle tentazioni di risolvere la complessità dei problemi attraverso scorciatoie autoritarie.
Molti tra i presenti, figli e discendenti di quegli italiani dolenti, perseguitati e fuggiaschi, portano nell’animo le cicatrici delle vicende storica che colpì i loro padri e le loro madri. Ma quella ferita, oggi, è ferita di tutto il popolo italiano, che guarda a quelle vicende con la sofferenza, il dolore, la solidarietà e il rispetto dovuti alle vittime innocenti di una tragedia nazionale, per troppo tempo accantonata.
Foibe, il ricordo che divide
Si celebra oggi il giorno dedicato agli italiani massacrati dai titini e alla loro cacciata dall’Istria nel Dopoguerra. La destra contro gli storici e l’Anpi
di Mario Baudino (La Stampa, 10.02.2019)
Non appena la Quarta armata jugoslava entrò in Trieste, gli agenti della polizia politica di Tito si dettero da fare: la loro prima preoccupazione fu di arrestare e eliminare i membri del Comitato di Liberazione Nazionale, i leader italiani della Resistenza. Sul confine orientale l’unico antifascismo doveva essere quello dell’esercito vincitore, dei croati, degli sloveni e dei serbi. L’equazione italiano-fascista era funzionale alla geopolitica, e attecchì bene: la marea dei profughi giuliano-dalmati, che per anni si riversarono al di qua del confine abbandonando terre e proprietà, venne spesso accolta in modo oltraggioso dagli esponenti della nostra sinistra (non a Torino, però, dove il sindaco comunista Celeste Negarville organizzò accoglienza e aiuti). Alla Spezia, durante la campagna per le elezioni politiche del ’48, un dirigente della Camera del Lavoro si abbandonò durante un comizio a un gioco di parole piuttosto agghiacciante: «In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani».
La tragedia delle foibe si ripeté due volte: i partigiani jugoslavi erano infatti dilagati in Venezia Giulia nel settembre del ’43 (con l’eccezione di Pola, Fiume, Trieste), per essere poi ricacciati dai tedeschi nell’ottobre nello stesso anno. Ma subito erano cominciate le esecuzioni sommarie (rese pubbliche dalla propaganda bellica della Rsi, e destinate a ripetersi in misura assai maggiore nel ’45) in base all’identificazione dei italiani come nemici, con le vittime annegate in mare o gettate nelle profonde cavità carsiche. E quella tragedia a lungo rimossa in un’Italia che non voleva ammettere né la sua sconfitta né le violenze commesse nei Balcani, ignorata a sinistra fino al 2002 quando un libro molto fortunato di Gianni Oliva affrontò il tabù, ancora divide, nonostante l’istituzione - anch’essa nata da una tormentatissima discussione - del «Giorno del Ricordo». Aveva appunto lo scopo di conciliare le memorie: in parte raggiunto, in parte no.
È di questi giorni la polemica innescata a destra - da Fratelli d’Italia a Casa Pound, proprio gli eredi di quel fascismo che con la sua politica di aggressione e nazionalizzazione è uno dei protagonisti del dramma - contro alcuni convegni, da Parma a Trieste, definiti «negazionisti». È stata diffusa una dichiarazione di Matteo Salvini che chiedeva di rivedere i contributi alle associazioni, «come l’Anpi, che negano le stragi fatte dai comunisti nel dopoguerra». Il clima si è surriscaldato all’insegna, come ormai accade puntualmente, della competizione politica. Nel mirino gli storici, che col procedere della ricerca hanno puntualizzato ad esempio le cifre del massacro di italiani, indagato sui silenzi del Pci e di Togliatti e anche su quelli imbarazzati dei governi post bellici.
Le foibe rimangono uno spaventoso episodio di pulizia etnica - a lungo rimosso -, qualunque ne sia la portata «numerica». Farne oggetto di propaganda è un insulto alla memoria delle vittime. Ne discutono in questa pagina due storici, al di là delle polemiche contingenti.
Foibe, gonfiare le cifre serve solo a alimentare l’odio
La battaglia sul numero delle vittime va avanti da anni, ma i dati sono noti da tempo: c’è qualcuno che li moltiplica per ragioni politiche
di Eric Gobetti (La Stampa, 10.02.2019)
Si è parlato in questi giorni di «negazionismo delle foibe», accusando Anpi e amministrazioni locali di offrire tribune pubbliche a storici schierati politicamente per sminuire la tragedia delle foibe e dell’esodo. La colpa di questi studiosi sarebbe quella di voler contestualizzare il fenomeno, spiegandone le radici con la violenza fascista e la guerra, analizzando puntualmente i fatti, cercando spiegazioni, non giustificazioni. Purtroppo però la terribile tragedia vissuta dalle popolazioni dell’Alto Adriatico in quegli anni è sempre più spesso strumentalizzata.
Si è imposta, a livello politico e mediatico, una versione distorta e in gran parte errata dei fatti. Si tende a semplificare forzatamente le «complesse vicende del confine orientale» menzionate nella legge istitutiva del Giorno del Ricordo, parlando sbrigativamente di massacri e di pulizie etniche, senza alcuno sforzo di comprensione. Con analoga sufficienza si tratta il conteggio delle vittime delle foibe e dell’esodo. Ovviamente non importa quante siano state le vittime: anche solo due sono troppe, quando si tratta di vittime innocenti o di violenze gratuite. Tuttavia gonfiare le cifre a dismisura, raddoppiando o triplicando il numero dei morti, non rende giustizia alle vittime e finisce con l’alimentare un dibattito sterile, basato su dati falsati.
Nonostante infatti le comprensibili differenze interpretative tra studiosi di diversa estrazione e orientamento politico, sui dati di fatto c’è ampia concordanza di vedute.
Nel «vademecum» scaricabile on line dal sito dell’Istituto storico della Resistenza di Trieste (prodotto con l’ausilio di numerosi storici riconosciuti a livello nazionale, tra cui spicca Raoul Pupo) si parla di tremila-quattromila uccisi. Secondo la stessa fonte sarebbero circa 250.000 i profughi da quelle regioni. Non sono cifre esatte, per una serie complessa di ragioni, ma rendono l’idea della grandezza del fenomeno.
Discostarsi da queste cifre, come viene spesso fatto sui molti media e purtroppo anche ad alto livello istituzionale, è un errore storico grossolano. Perché dunque si continua a sbagliare? Perché la fiction prodotta dalla Rai Il cuore nel pozzo parla di 10.000 morti? Perché il più recente Rosso Istria, andato in onda venerdì su Rai 3, continua a parlare di 7000 vittime? Perché la cifra di 300.000 o 350.000 esuli continua a essere la più usata quando tutte le ricerche serie hanno appurato la verità?
Purtroppo questo uso strumentale della storia non serve a nessuno e finisce solo col suscitare nuovo odio. Capire è molto più difficile che odiare. Negare la verità, ignorare il pensiero complesso, covare la rabbia... ci siamo già passati molte volte, in passato, ed è sempre finita male.
Le polemiche sono scoppiate fin dalla scelta della data per il Giorno del Ricordo
di Giovanni De Luna (La Stampa, 10.02.2019)
Nel dibattito sulle foibe gli storici vengono relegati in secondo piano; è sempre stato così, a partire dalle polemiche che accompagnarono l’approvazione della legge che istituiva il Giorno del Ricordo, approvata il 16 marzo 2004. La proposta, presentata dall’on. Roberto Menia, trovò un consenso quasi unanime. Ci si divise però sulla data: il centrodestra aveva subito proposto il 10 febbraio; il centrosinistra aveva replicato con il 20 marzo, giorno della partenza dell’ultimo convoglio di profughi italiani da Pola. Fu il sen. Servello (ex Msi) a illustrare le ragioni della scelta del centrodestra: il 10 febbraio era «il giorno del Trattato di Parigi che impose all’Italia la mutilazione delle terre adriatiche». Il fatto che nessuna delle due date fosse legata effettivamente alle foibe non sembrava degno di interesse. Menia citava il numero dell’11 febbraio 1947 del giornale Il grido dell’Istria: «Finis Histriae: 10 febbraio. L’Istria non è più Italia». Non le foibe bisognava ricordare il 10 febbraio, ma l’«infame diktat di Parigi».
Nell’argomentare le varie posizioni ci si confrontò del tutto marginalmente con le ricerche degli storici. I sostenitori (il relatore Luciano Magnalbò) del provvedimento citavano un rapporto della Special Intelligence (?) datato 30 novembre 1944 e pubblicato sul Corriere della Sera («Ci viene riferito che in tutto i partigiani jugoslavi hanno gettato parecchie centinaia di persone nelle foibe»). Altri (Piergiorgio Stiffoni) si riferivano genericamente a documenti dell’Oss, dai quali «risultava evidente che gli alleati, americani e inglesi, fin dall’autunno 1944 ebbero notizia delle foibe ma preferirono non intervenire per non irritare Tito che consideravano un alleato sul fronte antinazista». A sostegno degli oppositori c’erano le conclusioni dei lavori della commissione bilaterale italo-slovena e i Quaderni della Resistenza pubblicati dall’Anpi del Friuli-Venezia Giulia. Questo era tutto.
Quanto alla bibliografia, tutti tirarono in ballo gli stessi libri, quelli dello storico Gianni Oliva: mentre Servello ne citava un brano usandolo per denunciare il mito «autoassolutorio» della Resistenza, sul fronte opposto, Vittoria Franco ne utilizzava un’altra frase all’interno di una impegnata perorazione perché le foibe fossero considerate «un fenomeno dovuto sia alla politica di italianizzazione forzata da parte del fascismo, che mirava all’annullamento dell’identità nazionale delle comunità slovene e croate, sia alla politica espansionistica di Tito per annettersi Trieste e il goriziano».
Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così oggi: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti.
Foibe, la memoria corta degli italiani
Se nello sterminio degli ebrei furono complici dei nazisti, nel caso delle foibe furono coinvolti da un insieme di circostanze più complesse, che solo la memoria corta degli italiani e l’ipocrisia di buona parte della classe dirigente hanno espulso dalla memoria collettiva
di Enzo Collotti (il manifesto, 10.02.2019)
A poco più di due settimane dal giorno della Memoria in ricordo della Shoah, gli italiani sono chiamati a celebrare con il giorno del Ricordo l’orrore e la tragedia delle Foibe. In entrambi i casi come vittime, ma in entrambi i casi come vittime non innocenti. Se nello sterminio degli ebrei furono complici dei nazisti, nel caso delle foibe furono coinvolti da un insieme di circostanze più complesse, che solo la memoria corta degli italiani e l’ipocrisia di buona parte della classe dirigente hanno espulso dalla memoria collettiva.
Già altre volte abbiamo sottolineato le responsabilità del regime fascista nella snazionalizzazione degli sloveni e dei croati che dopo il 1918 vennero a trovarsi entro i confini dello stato italiano. Nel 1941 l’aggressione dell’Italia alla Jugoslavia e l’annessione violenta della provincia di Lubiana a Regno d’Italia contribuirono in modo decisivo alla dissoluzione dello stato Jugoslavo e alla apertura della fase storica che sfociò nella Jugoslavia di Tito. In ciascuna di queste fasi le autorità politiche e militari italiane, al di là di ogni problema geopolitico, si mossero nel presupposto che le popolazioni slave rappresentassero, come ebbe a dire nessun altri che Mussolini, una razza inferiore e barbara nei cui confronti fosse possibile e lecito imporre il pugno duro e purificatore dei dominatori.
Le foibe si inseriscono in questo contesto e nella spirale di violenze che fecero seguito. Al di fuori di questo quadro non c’è la possibilità di comprendere le ragioni degli orrori dei quali parliamo e dei quali rischiamo di tornare a rimanere vittime. Nessuna menzogna potrebbe capovolgere questa realtà della storia o avvelenare la nostra memoria, impedendo la consapevolezza e le nefandezze di un passato che avremmo potuto considerare ormai alle nostre spalle. Se così non è dobbiamo tornare a riflettere sulla superficialità con la quale i politici di turno si sono impossessati di una questione di forte impatto emotivo per alterare la storia e la memoria e sfruttare la credulità di una opinione pubblica anestetizzata dalla retorica patriottarda.
A pensarci bene la questione delle foibe serve a coprire il vuoto di consapevolezza a decenni di distanza della vera realtà della sconfitta del Paese, ma anche della capacità della popolazione di rialzare la testa e di affrontare i sacrifici che hanno consentito la ricostruzione. Mettere al centro dell’attenzione le foibe non serve a sottolineare le offese subite ma a perpetuare uno sterile vittimismo che non contribuisce a fare i conti mancati con il passato, ma neppure a consolidare il consenso a questa nostra democrazia minacciata da tante insidie. Una di queste è la negazione della verità che mistifica la menzogna e alimenta l’ipocrisia.
L’enfatizzazione delle foibe ha ritardato la riconciliazione con le vicine popolazioni slave, ha reso più difficile la cicatrizzazione delle ferite della guerra, ha oscurato i drammi veri delle popolazioni costrette a lasciare le loro case e la loro terra, le uniche che abbiano pagato per tutti gli italiani le malefatte di un regime criminale senza che ci siano stati gesti ufficiali da parte dello Stato democratico di rottura e di risarcimento nei confronti di un passato da condannare senza riserve.
La prassi tutta italiana di coprire con l’oblio passaggi storici che avrebbero meritato un forte impegno di autocritica e di verità in questo, come in tanti altri casi, si è alleata alla rimozione di memorie scomode e allo loro banalizzazione. L’orrore delle foibe deve servire a richiamarci periodicamente alle nostre responsabilità storiche e non certo a rinnovare il rito del nostro vittimismo. E alla fine spiace constatare che il presidente della Repubblica Mattarella non condivida questa per noi ovvia conclusione.
Le foibe per dimenticare i crimini del fascismo
Giorno del ricordo. I mancati conti col nostro passato fascista e l’assenza di una ridefinizione della complessità storica, fanno sì che le foibe vengano presentate come «pulizia etnica» o come violenza perpetrata contro gli italiani in quanto tali
di Davide Conti (il manifesto, 06.02.2019)
Sono collocati da tempo al centro del dibattito in Italia, e non solo, l’uso politico della storia, la formulazione di leggi memoriali ad hoc e il tema, già discusso in Parlamento, di una codificazione normativa. Codificazione che si proporrebbe di sanzionare giuridicamente veri o presunti «negazionisti», determinando una torsione del senso del passato schiacciata sulla misura minuta del quotidiano. Un processo di questa natura comporta una semplificazione dei termini della complessità storica che, in ultima istanza, pone una questione di grande rilievo sul piano della memoria e dell’identità stessa della nostra società.
Da un quindicennio attorno al Giorno del ricordo si consuma un conflitto storico-memoriale che in alcuni casi ha finito per esorbitare nella dimensione politico-diplomatica (basti pensare all’aspra polemica tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’allora Presidente del consiglio croato Stipe Mesic e lo scrittore italo-sloveno Boris Pahor).
Questo conflitto è caratterizzato da un non detto pubblico relativo all’eredità fascista dell’Italia post-bellica che impedisce, di fatto, una completa ricostruzione ed un compiuto conferimento del senso della storia consumatasi sul nostro confine orientale e sfociata nelle violenze subite dagli italiani in quelle terre prima nel 1943, dopo lo sbando dell’8 settembre, e poi nel 1945.
Quanti conoscono in Italia il generale Mario Roatta e le misure di repressione di civili e partigiani jugoslavi riassunte nella sua «Circolare 3 C»? quanto l’opinione pubblica viene resa edotta della condotta del «governatore del Montenegro» Alessandro Pirzio Biroli, del generale Mario Robotti, per il quale in Jugoslavia «si ammazza troppo poco», o del generale Gastone Gambara che nel 1942 scriveva «logico e opportuno che campo di internamento non significhi campo di ingrassamento»?
Quanti sanno che delle migliaia di «presunti» criminali di guerra italiani inseriti nelle liste delle Nazioni Unite alla fine del conflitto nessuno venne processato in Italia o all’estero? Il mito degli «italiani brava gente» ha ragion d’essere di fronte alla consolidata storiografia che ormai da decenni ha ricostruito documentalmente i crimini di guerra del regio esercito e delle formazioni fasciste?
Fu Mussolini stesso, d’altro canto, il 22 settembre 1920 a Pola, ad anticipare ciò che sarebbe accaduto «di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone [...]credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».
I mancati conti col nostro passato fascista, dunque, impediscono di dare compiuta attuazione alle stesse disposizioni del Giorno del ricordo che si propone da un lato di «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe e dell’esodo» e contestualmente di affrontare «la più complessa vicenda del confine orientale». Senza una ridefinizione della complessità storica le foibe vengono presentate come «pulizia etnica» o come violenza perpetrata contro gli italiani in quanto tali.
In realtà l’Esercito Popolare di Liberazione comandato da Josif Broz Tito combatté contro tutti gli eserciti di occupazione e contro tutti i loro collaborazionisti, indipendentemente dalla loro nazionalità: gli ustascia croati, i cetnici serbi, i domobranci sloveni, i nazisti tedeschi ed i fascisti italiani. E sostenne quella lotta di liberazione con al fianco migliaia di soldati italiani unitisi alle formazioni partigiane dopo l’armistizio. Contestualmente un gran numero di jugoslavi deportati in Italia nei campi di internamento dopo l’8 settembre si unirono ai partigiani italiani nella Lotta di Liberazione Nazionale da cui è nata la Costituzione della Repubblica.
L’uso strumentale delle drammatiche vicende del confine orientale e delle foibe ha trovato espressione, nella cronaca politica, negli scomposti attacchi del ministro dell’Interno all’Anpi e nel paradossale voto della commissione Cultura della Camera che, indice del grado di erosione democratica del nostro tempo, vorrebbe impedire all’associazione dei partigiani, che il Parlamento riaprirono dopo il terrore del ventennio fascista, di parlare nelle scuole pubbliche del confine italo-jugoslavo durante la seconda guerra mondiale.
Di quella storia invece è indispensabile parlare. Rosario Bentivegna, comandante dei Gap a Roma e combattente in Jugoslavia, insisteva sempre nel dire «più ancora di ciò che abbiamo fatto noi partigiani si deve parlare di ciò che è stato il fascismo. Solo così sarà possibile seppellirlo per sempre».
Foibe, la lunga marcia del revisionismo storico
di Angelo d’Orsi (il manifesto, 10.02.2018)
Il revisionismo ha compiuto una lunga marcia, a partire dagli anni Sessanta, tra Francia, Germania, Italia, essenzialmente. In Italia ha riscosso notevole fortuna, e ha riguardato essenzialmente la vicenda del comunismo e del fascismo: alla squalificazione del primo, ha corrisposto, in contemporanea, il recupero del secondo.
Il processo ricevé una formidabile accelerazione con «la caduta del Muro», e l’immediata sentenza di morte autoinflittasi dal Partito comunista, quando si accettò non soltanto il terreno dell’avversario ma la sua tesi di fondo: la intima natura maligna, del comunismo.
Tale revisionismo estremistico toccò punte clamorose dopo l’avvento di Berlusconi, e lo «sdoganamento» della destra «postfascista» e il suo ingresso in area governativa.
Il giudizio riduttivo sulla Resistenza, la banalizzazione e la successiva demonizzazione del partigianato, in specie comunista, l’equiparazione tra repubblichini e combattenti per la libertà, la retorica della memoria condivisa, e così via, condussero alla celebrazione del «sangue dei vinti».
Il revisionismo giungeva così alla sua fase estrema, il «rovescismo». E qui si pone la «questione foibe», lanciata da un programma televisivo nei primi anni ‘90.
Una vicenda drammatica della storia dell’Europa che tentava di risollevarsi dalla catastrofe della guerra scatenata dal nazifascismo, finiva in show ma, nella disattenzione degli apparati culturali della democrazia, generava rilevanti esiti politici e persino giuridici.
Da capitolo della storia la foiba diventava un marchio propagandistico: il luogo, il simbolo, la bandiera da agitare in ogni situazione, come in passato si fece con l’Ungheria del 1956, o la Cecoslovacchia del 1968. La foiba fu il nome del martirio subìto da centinaia, migliaia, decine di migliaia (l’andamento delle cifre è grottesco) di italiani «colpevoli solo di essere italiani».
Non si vuole sottovalutare la questione dell’esodo forzoso dei connazionali dalle terre del Nord-Est, che comunque va tenuta distinta da quella delle foibe.
In passato, studiosi come Enzo Collotti e Giovanni Miccoli ci misero in guardia però dalla necessità di non sottovalutare il nesso tra foibe e risposta ai crimini del fascismo. Ma già da allora apparve difficile opporsi all’«operazione foibe». La foiba diventò un tabù: l’invito a riconsiderare scientificamente il problema veniva bollato con l’etichetta di «negazionismo».
E nelle foibe venivano affossate le colpe della nazione italiana, che anzi ne usciva con una sorta di lavacro che le restituiva l’innocenza. La foiba diventava, al contrario, il trionfale verdetto sulle irredimibili colpe del comunismo.
La storia, invece, che ci dice? Che il 1945, con le sue tragedie e le sue atrocità, fu la conseguenza di una politica italiana all’insegna di un razzismo antislavo (la «barbarie» di quella gente), fin dalla stessa origine del Regno dei serbocroati e degli sloveni, verso la fine della Grande guerra.
Nell’Italia dannunziana la «Vittoria mutilata», l’impresa fiumana, furono base culturale dell’ondata antislava, che giunto Mussolini al potere, sedimentò nella pretesa di sottoporre la Jugoslavia al «protettivo» controllo italiano, tanto meglio se si fosse potuto frammentare l’unità di quei popoli faticosamente raggiunta.
Il fascismo non arretrò davanti alla pulizia etnica, che nella Seconda guerra assunse le tinte fosche di una violenza inaudita, nella quale gli italiani fascisti non furono inferiori ai tedeschi nazisti. Noi fingiamo di dimenticarlo, o semplicemente lo ignoriamo; ma come si poteva pretendere che quei popoli dimenticassero?
Le foibe, di cui si è volutamente e grottescamente esagerato numero e portata, sono la risposta jugoslava: e i primi a servirsi di quelle cavità per i «nemici» peraltro furono gli italiani. E il più delle volte erano tombe naturali in cui in guerra si dava sepoltura ai morti, sia le vittime di combattimenti, sia persone giustiziate, accusate di crimini di guerra: in quella situazione vi furono probabilmente anche innocenti infoibati. Ma ridurre tutta la vicenda a questo è esempio di profonda disonestà intellettuale e di un pesante uso politico della storia, tanto meglio se i fatti vengono direttamente «adattati» all’obiettivo perseguito. Che fu più chiaro, con l’istituzione, nel marzo 2004 (II governo Berlusconi), con voto condiviso dal centrosinistra, di una legge istitutiva del «Giorno del ricordo» («dell’esodo degli italiani dalle terre dalmato-giuliane dei “martiri delle foibe”»).
Sabato 10 febbraio ne discutiamo in un convegno a Torino.
In proposito mi limito qui a ricordare quanto scrisse un testimone d’eccezione, Boris Pahor, che giudicò che quella legge «monca, unilaterale, parla del ricordo italiano, tralascia il ricordo altrui», ossia della parte jugoslava, specificamente slovena, che ha subìto un’ampia gamma di crimini e nefandezze da parte italiana.
"La mia Trieste divisa dove si specchia l’intero Novecento"
Lo scrittore: "Le foibe, San Sabba, la cortina, Basaglia... E anche una grande letteratura"
di Eleonora Barbieri (Il Giornale - Ven, 03/02/2017)
C’è l’agendina della nonna, scritta a matita fitto fitto. Una fotografia del nonno in divisa austriaca, una cartolina dal fronte (censurata, la portò a casa a mano). Per costruire La città interiore Mauro Covacich, triestino trapiantato a Roma ormai da dodici anni («Perché? Per amore») ha usato «le prove» che aveva in casa e in famiglia.
Le conversazioni con gli amici. Perfino un elettricista albanese che, mentre gli ristruttura la casa, gli racconta che suo zio è stato uno dei traduttori della Divina Commedia nel suo Paese. O un omonimo croato, Ivan Goran Kovacic, autore nel ’42 di un poema, Jama (cioè foiba) in cui racconta un’esecuzione di massa compiuta dagli ustascia e il quale, a sua volta, sarà ucciso dai cetnici (la sua tomba rimane introvabile, Covacich la va a cercare invano). Così è nato il suo nuovo romanzo, appena pubblicato da La nave di Teseo (pagg. 234, euro 17), che Mauro Covacich presenterà a Trieste sabato, alla Libreria Caffè San Marco.
Trieste è la città interiore per eccellenza.
"In realtà la città interiore è la rete di nessi affettivi e letterari che creo all’interno del libro. Una specie di mappa mentale. Poi certo, la mappa reale è Trieste. Diciamo che è lo sfondo del romanzo, considerando lo sfondo come uno dei personaggi principali".
Che romanzo è La città interiore?
"È un romanzo sulla mia vita considerata come il frutto di un intreccio di storie, luoghi e persone che vengono da più lontano. Appartenenze che danno conto dell’anomalia di Trieste".
Come?
"Per esempio avevo un nonno sloveno in confino politico come comunista, che si è sempre rifiutato di andare in Jugoslavia; e, dall’altra parte, un nonno nella Regia Marina, fervente fascista. La mia vita può essere interessante come metonimia di Trieste: un punto di osservazione per poter restituire la sua complessità. Poi molti nessi sono anche casuali".
Per esempio?
"Beh, abito a 300 metri dall’appartamento dove Joyce scrisse i primi tre capitoli dell’Ulisse: è una presenza con cui fai i conti. E poi il caso di Nino Bibalo, considerato uno dei più grandi compositori del Novecento in Norvegia e da noi quasi sconosciuto".
All’inizio del libro chiede a suo padre: "Se son italian, perché me ciamo Covacich?".
"È la domanda rimasta per tutta la vita, la cui risposta è l’identità multipla di Trieste. Quando faccio questa domanda a mio padre ho 7 anni. È il ’72, Trieste è ancora divisa in Zona A e Zona B, la città poi italiana e l’entroterra, dove andavamo a comprare la carne, la benzina. Ma nel manicheismo buoni/cattivi, italiani/sloveni, per un bambino essere chiamato col nome dei nemici è strano".
Che origine ha Covacich?
"Croato. Significa Del Fabbro. Però mio nonno era sloveno. La domanda quindi è: fino a che punto sono italiano? E poi noi triestini abbiamo tutti un rapporto particolare con l’italiano: come Svevo che l’aveva imparato sui libri di scuola, noi parliamo e pensiamo in triestino. Non è un caso che sia stato uno scrittore come Coetzee a capire così bene questo aspetto di Svevo".
Che cosa ha capito Coetzee?
"Da boero, che ha imparato l’inglese sui libri ma in casa parlava afrikaans, si chiede: chissà quante cose cela Svevo, quanto avrebbe potuto dire, se avesse scritto in triestino".
Nel libro, lei immagina Joyce rimproverare questo a Svevo.
"Joyce e Svevo erano amici e comunicavano in triestino. Nel libro c’è questa lettera che Joyce gli scrive, tutta in triestino, che ho spedito anche a Coetzee. Insomma c’è un elemento di inevitabile limitazione, però il grande scrittore, come Svevo, o Konrad, o Beckett, o Cioran può trasformarla in una risorsa. Questo scrivere come in una lingua straniera è uno specifico triestino, in tutte le epoche".
Il romanzo è ricco di aneddoti. Da dove vengono?
"Dalla memoria di Quarantotti Gambini. C’è un suo incontro diretto con Svevo, da studente: tornando a Capodistria, sul vaporetto si imbatte in quest’uomo che intrattiene i ragazzi con scherzi, giochi, battute, con una voce stentorea. L’opposto di come uno immagina Zeno Cosini, ma del resto Svevo era un magnate, un capitano d’industria".
E il rapporto con Saba?
"È Saba a raccontare, a proposito della loro rivalità sopita, di un incontro casuale, in cui Svevo ha un accesso d’ira e gli dice, in pratica, ti posso schiacciare come un pulcino, un pulisìn".
Anche Quarantotti Gambini è una figura anomala.
"Sì. Era un profondo antifascista e un profondo anticomunista. Perciò fu impiegato nella propaganda antislava. Era un oppositore strenuo di Tito, per lui il dramma più grande della sua vita era l’Istria diventata jugoslava. Però si trova anticomunista in un momento in cui l’intellighenzia italiana è massicciamente comunista. Nell’Onda dell’incrociatore racconta la mia Trieste, il lato B".
Ci sono due Trieste?
"Sì. Il biglietto da visita, il lato A è quello che conosciamo tutti, il porto dell’Impero, l’eredità asburgica, il passato illustre, anche letterario, l’introduzione della psicanalisi con Edoardo Weiss. Ed è un lato incontestabile, quello di Zeno, anche nevrastenico, in una parola mitteleuropeo".
E il lato B?
"È quello meno letterario e più umano: la città di mare, legata al piacere e al benessere fisico, al godersi la vita. Insomma un lato edonistico, levantino direi, che non passa mai nel suo stereotipo".
C’è uno stereotipo di Trieste?
"Non dico che l’eredità asburgica non esista o sia poco importante. Sarebbe da pazzi. Il punto è non cristallizzare la vita di Trieste e tutte le sue attività culturali su questo cliché. Gli Asburgo se ne sono andati nel 1918, noi siamo nel 2017..."
Che cosa bisognerebbe fare?
"Trieste ha le risorse per guardare ad altre città come Belfast, Gerusalemme, Montreal o Città del Capo: città dove l’odio si è trasformato in una forma di convivenza".
A Trieste è successo così?
"Noi per cinquant’anni abbiamo vissuto un odio feroce tra italiani e sloveni. Oggi però non ci si accorge neanche di questo attrito: secondo me a Trieste dovrebbe tenersi un seminario internazionale permanente sull’odio".
Invece ci si copre con la "trapunta asburgica"?
"Si vuole rimuovere il Novecento. Noi abbiamo avuto tutto: il crematorio di San Sabba, le foibe, la riforma psichiatrica di Basaglia, la Zona A e B. Trieste è il corpo vivo del Novecento. Ma tutto questo è stato rimosso, perché non rientra nel cosiddetto storytelling, nella narrazione principale della città finis Austriae".
Perché viene rimosso?
"Perché è più facile l’automatismo Trieste-Vienna che lo sforzo di trovare discorsi più complessi. Così mi liquidano come uno che ce l’ha con l’Austria. Ma io amo l’Austria, lo dica, i miei punti di riferimento letterari sono austriaci, Handke, Bernhard...".
Perciò la questione dell’identità è sempre così centrale, quando si parla di Trieste?
"Sì, perché è paradossale. Per usare la definizione di Quarantotti Gambini, un italiano sbagliato. È trovare la propria identità nella non appartenenza. E la vocazione forte all’essere italiani nasce da qui: perché è il posto in cui l’Italia smette di esistere".
Foibe, la giornata del ricordo
Grasso: “Una pagina terribile”
«L’Italia non può e non vuole dimenticare».
Imbrattati monumenti a Roma *
«Con intensa e profonda commozione sono oggi qui, insieme a voi, per ricordare una delle pagine più tristi che il nostro Paese, il nostro popolo ha vissuto: la tragedia della guerra, delle foibe, dell’esodo».Lo ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso nell’esordio del suo intervento in aula a palazzo Madama in occasione della celebrazione del Giorno del Ricordo.
Grasso ha ricordato che «dieci anni fa il Parlamento italiano ha consacrato la data di oggi, anniversario della firma del Trattato di pace tra l’Italia e le Potenze Alleate nel 1947, quale `Giorno del Ricordo’. Da allora questa giornata è dedicata alla memoria di migliaia di italiani dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia che, al termine del secondo conflitto mondiale, subirono indicibili violenze trovando, in molti, una morte atroce nelle foibe del Carso. Quanti riuscirono a sfuggire allo sterminio furono costretti all’esilio».
«L’occupazione jugoslava - ha affermato Grasso - che a Trieste durò quarantacinque giorni, fu causa non solo del fenomeno delle foibe ma anche delle deportazioni nei campi di concentramento jugoslavi di popolazioni inermi. In Istria, a Fiume e in Dalmazia, la repressione Jugoslava costrinse molte persone ad abbandonare le loro case. La popolazione italiana che apparteneva a quella regione fu quasi cancellata e di quell’orrore, per troppo tempo, non si è mantenuto il doveroso ricordo. Non possiamo dimenticare e cancellare nulla; non le sofferenze inflitte alle minoranze negli anni del fascismo e della guerra, né quelle inflitte a migliaia e migliaia di italiani».
E proprio nel giorno della commemorazione delle vittime delle foibe, alcuni monumenti di Roma sono stati imbrattati con scritte ingiuriose . A denunciarlo è la presidente dell’associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Donatella Schurzel, conversando con i cronisti al Senato dove in mattina si terrà un concerto con il maestro Uto Ughi alla presenza del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, dei presidenti del Senato e della Camera e del presidente del Consiglio.
Il monumento per i martiri delle foibe e il cippo carsico che ricorda le vittime di tutte le guerre sulla via Laurentina sono stati imbrattati con della vernice e sono stati trovati anche dei volantini con i quali si inneggia alla libertà dei popoli, si dichiara morte al fascismo e si critica l’italianità. «È un vecchio prototipo - spiega Schurzel - . Noi non abbiamo mai inneggiato al fascismo, anzi. Questi atti sono il frutto dell’ignoranza di un ideologismo retrogrado e della volontà di negare ciò che la storia ha dimostrato. Vogliono far passare l’idea che gli esuli fossero fascisti, ma non è così, erano italiani».
* La Stampa, 10/02/2014
Foiba di Basovizza.
Una visita al monumento nazionale.
di Michele Zarrella *
O TU CHE IGNARO PASSI PER
QUESTO CARSO FORTE MA BUONO,
FERMATI!
SOSTA SU QUESTA GRANDE TOMBA!
È UN CALVARIO CON IL VERTICE SPROFONDATO
NELLE VISCERE DELLA TERRA.
QUI, NELLA PRIMAVERA DEL 1945,
FU CONSUMATO UN ORRENDO OLOCAUSTO.
A GUERRA FINITA! NELL’ABISSO FUMMO
PRECIPITATI A CENTINAIA,
CRIVELLATI DAL PIOMBO E STRAZIATI DALLE ROCCE.
NESSUNO CI POTRÀ MAI CONTARE!
L’AVIDITÀ DI CONQUISTA, ODIO E VENDETTA
CONGIURARONO E INFIERIRONO CONTRO DI NOI.
ESSERE ITALIANI ERA LA NOSTRA COLPA.
A GETTARCI NEL BARATRO TORME DI INVASORI,
CALATI NELLE NOSTRE TERRE
SOTTO L’INFLUSSO DI UNA MALEFICA STELLA VERMIGLIA.
PER VILTÀ GLI UOMINI NON CI HANNO RESO GIUSTIZIA.
CE L’HA RESA DIO ACCOGLIENDO
I NOSTRI SPIRITI PURIFICATI DA TANTO MARTIRIO.
O TU CHE, ORA NON PIÙ IGNARO
SCENDERAI DA QUESTO CARSO, RICORDA
E RACCONTA LA NOSTRA TRAGEDIA.
Quest’ultima frase segnata su una delle lapidi che si trovano nel monumento nazionale di Basovizza, mi spinge con risoluzione a scrivere la mia esperienza.
Sono stato una settimana in vacanza a Trieste e in Slovenia. Ho trascorso giorni di viaggi, visite, riposo e letture... Fra i tanti luoghi che ho visitato quello che più mi ha emozionato è stato il monumento nazionale della Foiba di Basovizza. Si trova a pochi minuti di auto da Trieste. Quando mia figlia Fabiana mi ha proposto la visita, non pensavo di vivere un’esperienza così profonda.
Poche indicazioni stradali lungo il viaggio. Arrivi percorrendo una strada stretta e parcheggi vicino ad un muro di pietre a faccia-vista alto circa un metro che recinta il monumento e il Centro di documentazione. Una sbarra di ferro blocca l’accesso alle auto, ma lascia libero un varco per i pedoni. È tutto semplicemente triste. È tutto semplicemente vero. È tutto semplicemente silenzioso.
Una scritta a caratteri cubitali ti accoglie:
ONORE E CRISTIANA PIETA’ A COLORO CHE QUI SONO CADUTI
IL LORO SACRIFICIO RICORDI AGLI UOMINI
LE VIE DELLA GIUSTIZIA E DELL’AMORE SULLE QUALI FIORISCE LA VERA PACE
e già essa ti immerge in sentimenti umani di pietà e compassione mettendo i brividi sulla pelle.
Un gran rispetto per quelle pietre e quella croce ti avvolge. Cammini sull’acciottolato sfuggente da cui spunta qualche piantina profumata tipica del luogo. Ne raccolgo un rametto per sentirne il profumo, poi lo porgo a Fabiana, che dopo averla annusata me la restituisce. Non è uguale al profumo delle nostre piantine selvatiche. Lì da sotto il ciottolato che copre tutta l’area spunta qualche piantina e qualche fiore a ricordarci che la vita è sempre più forte di chi la vuol sopprimere.
Poi cammini sul selciato e entri nel piccolo Centro di documentazione dove foto, didascalie ed un filmato con la testimonianza di un infoibato salvatosi per miracolo ti fanno raccapricciare e pensare sulla ferocia degli uomini.
Infoibato è colui che viene spinto nella foiba. La foiba è un crepaccio a forma di secchio che penetra nel suolo a profondità variabili che nel caso di Basovizza raggiunge i 256 metri. http://www.foibadibasovizza.it/in-breve.htm.
Nel suo racconto descrive come nottetempo, alla luce della luna, dopo essere stati spogliati e torturati venivano legati da un filo di ferro che avvolgeva le braccia posizionate e bloccate dietro la schiena, in modo da formare una catena di uomini che sotto la minaccia delle armi veniva portata sul cratere della foiba. Lì, legando il primo uomo ad un sasso, venivano spinti nel baratro in fondo al quale c’era dell’acqua. Mentre rotolavano, le pietre acuminate del Carso ne straziavano le carni già dilaniate dal ferro e dalle sevizie degli aguzzini. Chi non moriva subito era destinato ad ancor più atroci martiri.
Di fronte a tali azioni non ci sono parole atte a descrivere tutte le emozioni. Lo può solo la poesia.
ALTO DILANIA IL GRIDO DELLE FOIBE
SI TORCONO OMBRE, S’URTANO LE OSSA
CHE SGUARDO UMANO PLACHERA’ IL DELIRIO?
DIVELTI
I NOSTRI CUORI SPROFONDANO IN QUEL GORGO
E INDIFFERENTI ALLO STRAPIOMBO IRTO
MANSUETE SI INCONTRANO COLOMBE
(Lina Galli, 1958)
Suggerisco una visita.
Gesualdo, 3 luglio 2011
Michele Zarrella
"Non restare ostaggi del passato. Possiamo finalmente guardare avanti e riconoscerci nella comune appartenenza europea" *
"L’essenziale è ’non restare ostaggi’ - come ho avuto modo di dire incontrando il Presidente Türk - né in Italia, né in Slovenia, né in Croazia ’degli eventi laceranti del passato’. L’essenziale è, secondo le parole dello stesso Presidente Türk, non far nascere ancora ’conflitti dai ricordi’". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della celebrazione al Quirinale del "Giorno del Ricordo" dedicato alle vittime delle foibe e degli esuli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra.
Il Capo dello Stato ha sottolineato che "in ciascun paese si ha il dovere di coltivare le proprie memorie, di non cancellare le tracce delle sofferenze subite dal proprio popolo". "Possiamo finalmente - ha proseguito il Presidente - guardare avanti, costruire e far progredire una prospettiva di feconda collaborazione sulle diverse sponde dell’Adriatico".
Il Presidente Napolitano ha ricordato che "l’Adriatico, dopo aver sofferto a lungo lacerazioni e conflitti, viene oggi trasformato dalla prospettiva euroatlantica. Le nuove generazioni, slovene, croate, italiane si riconoscono in una comune appartenenza europea che arricchisce le rispettive identità nazionali".
Secondo il Capo dello Stato "la presenza di minoranze nazionali nei nostri tre Paesi rievoca vincoli storici e culturali che si snodano attraverso secoli di civiltà e costituisce una ricchezza comune di cui fare tesoro". "Il quadro di fondo - ha osservato il Presidente - e’ dunque una nuova comunità di valori fra i tre paesi. Siamo ormai, o stiamo per diventare, tutti cittadini europei. Il sacrificio delle generazioni che ci precedono non e’ stato versato invano se oggi possiamo insieme costruire un avvenire migliore per i nostri popoli e per l’Europa".
Il Presidente Napolitano ha fatto proprie le parole pronunciate da Enzo Bettizza nel corso del suo intervento al Quirinale circa la costruzione di un comune parco della pace da Caporetto a Duino: lungo quella striscia di terra europea, insanguinata dalla prima guerra mondiale, lungo la quale morirono un milione di europei. "Sarebbe un modo visibile di restituire alla nostra memoria, affinché il male non si ripeta più, il ricordo di tutti gli innocenti caduti, o assassinati, fra le petraie del Carso, nelle trincee del ’15-’18 e nelle foibe del 1945".
* PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA: WWW.QUIRINALE.IT
Giovedì 10 febbraio la celebrazione del "Giorno del ricordo" al Quirinale
Giovedì 10 febbraio, alla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si celebra al Quirinale il "Giorno del Ricordo", istituito con la legge del 30 marzo 2004 al "fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale".
Dopo l’intervento del sottosegretario Gianni Letta e la relazione del giornalista e scrittore Enzo Bettiza, verrà eseguito un concerto dell’orchestra "I Cameristi Triestini", diretta dal Maestro Fabio Nossal.
Il sottosegretario Letta consegnerà i diplomi e le medaglie commemorative del Giorno del Ricordo ai congiunti degli infoibati.
* www.quirinale.it
Saluto del Presidente Napolitano in occasione della cerimonia per il Giorno del Ricordo
Palazzo del Quirinale, 10/02/2010 *
Siano consentite anche a me brevi parole, anche se tutto è stato detto nel modo migliore nei vibranti e ricchi interventi del sottosegretario Letta e del professore De Vergottini, che ho entrambi apprezzato anche perché si sono collocati in piena continuità con le nostre cerimonie degli scorsi anni e con quanto io stesso ho voluto dire fin dalla prima occasione, dopo la mia elezione a Presidente, di celebrazione del Giorno del Ricordo. E che ho voluto dire per spiacevoli e ingiustificate poi abbiano potuto essere alcune reazioni fuori d’Italia alle mie parole pur rispettose di tutti.
Siamo qui per rinnovare anche quest’anno l’impegno comune del ricordo, della vicinanza, della solidarietà, contro l’oblio e anche contro forme di rimozione diplomatica che hanno pesato nel passato e che hanno causato a tanti di voi profonde sofferenze. Siamo dunque più che mai con quanti vissero la tragedia della guerra, delle foibe, dell’esodo, siamo accanto a loro e ai loro famigliari, accanto alle famiglie delle vittime innocenti di orribili persecuzioni e massacri. Questo significano i riconoscimenti che sono stati consegnati dal sottosegretario Letta a nome del governo al Quirinale e che vengono consegnati anche in altre città italiane. Il nostro è un impegno di vicinanza anche per la soluzione dei problemi ancora aperti, e certamente all’attenzione del nostro Governo, nel rapporto con le nuove istituzioni e autorità slovene e croate.
Ho ricevuto nei giorni scorsi una lettera molto bella da Trieste, a firma di due docenti, il prof. Segatti e il prof. Spadaro, e vorrei che la stessa equanimità mostrassero tutti coloro che intervengono con loro scritti per ricostruire la storia di vicende così dolorose. La stessa equanimità e lo stesso rigore scientifico che hanno caratterizzato la straordinaria opera che ho ricevuto questa mattina dagli autori, professore De Vergottini e professore Lago che, con la decisiva collaborazione dell’Istituto geografico militare, hanno ricostruito la toponomastica nei secoli di Istria, Fiume e Dalmazia.
Credo comunque di poter citare e fare mie le considerazioni dei due studiosi triestini che mi hanno scritto sul valore dell’occasione che il Giorno del Ricordo offre per riflettere anche su "quale sia stata l’esperienza storica, civile, politica degli italiani della costa orientale dell’Adriatico, dei giuliani, fiumani e dalmati, di lingua italiana".
Condivido questa sollecitazione, e condivido l’esigenza che un "capitolo così originale e specifico della cultura e della storia non solo italiana ma europea" sia non semplicemente riconosciuto ma acquisito come patrimonio comune nelle nuove Slovenia e Croazia che con l’Italia si incontrano oggi nell’Unione Europea, in una Unione Europea che è per sua natura portatrice di rispetto delle diversità e di spirito della convivenza tra etnie, culture e lingue già fecondamente e lungamente convissute nel passato.
Un eminente scrittore italiano, Claudio Magris, ha anche dato di recente notizia del saggio di una studiosa austriaca dedicato all’apporto di grandi intellettuali giuliani all’irredentismo democratico che si espresse in una generosa partecipazione alla guerra del 1915-18, con il fine politico del pieno conseguimento del moto risorgimentale per l’Unità d’Italia e insieme con il fine ideale di una pacificazione dell’Europa nella libertà e nella fraternità tra i popoli.
Si tratta di memorie da coltivare tutte in vista del centocinquantenario dell’Italia unita e di un rinnovato impegno a costruire quell’Europa sempre più rappresentativa delle sue molteplici tradizioni e sempre più saldamente integrata di cui c’è bisogno nel mondo globalizzato di oggi e di domani.
CITTA’ D’ITALIA CHE HANNO ONORATO I MARTIRI DELLE FOIBE NELLA PROPRIA TOPONOMASTICA Un sentito ringraziamento Città - Alfabetico Lombardia ABBIATEGRASSO (Milano) Parco Martiri delle Foibe Puglia ACQUAVIVA DELLE FONTI (Bari) Piazza Martiri delle Foibe Piemonte ACQUI TERME (Alessandria) Piazza Martiri delle Foibe Lombardia ALBANO SANT’ALESSSADRO (Bergamo) Via Martiri delle Foibe Veneto ALBIGNASEGO (Padova) Viale Martiri delle Foibe Piemonte ALESSANDRIA Via Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati Piemonte ALESSANDRIA Via Vittime delle Foibe Sardegna ALGHERO fraz. Fertilia (Sassari) Via Martiri delle Foibe Umbria ALLERONA scalo (Terni) Largo Martiri delle Foibe Puglia ALTAMURA (Bari) Via Caduti delle Foibe Veneto ALTAVILLA VICENTINA fraz. Tavernelle (Vicenza) Via Martiri delle Foibe Marche ANCONA Scalinata Italiani di Istria Fiume e Dalmazia Lazio ANTRODOCO (Rieti) Giardino Martiri delle Foibe Toscana AREZZO Largo Martiri delle Foibe Piemonte ARONA (Novara) Largo Martiri delle Foibe Umbria ASSISI - S.Maria degli Angeli (Perugia) Via Martiri delle Foibe Abruzzo AVEZZANO (L’Aquila) Via Martiri delle Foibe Veneto BADIA POLESINE (Rovigo) Via Martiri delle Foibe Lombardia BARANZATE (Milano) Giardino Martiri delle Foibe Puglia BARI Via Martiri delle Foibe Umbria BASCHI (Terni) Piazza Martiri delle Foibe Veneto BASSANO DEL GRAPPA (Vicenza) Via Martiri delle Foibe Sicilia BAUCINA (Palermo) Via Martiri delle Foibe Veneto BELLUNO Piazzale Vittime delle Foibe Campania BENEVENTO Piazzale Martiri delle Foibe Umbria BETTONA (Perugia) Via Martiri delle Foibe Lombardia BIASSONO (Monza-Brianza) Via Martiri delle Foibe - Istria (1943 - 47) Emilia-Romagna BOLOGNA Giardino Martiri d’Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, Emilia-Romagna BOLOGNA Rotonda Martiri delle Foibe Lombardia BONATE SOPRA (Bergamo) Parco Martiri delle foibe Piemonte BORGO SAN DALMAZZO (Cuneo) Piazzale Vittime delle Foibe Piemonte BRA (Cuneo) Piazza Martiri delle Foibe Lombardia BRESCIA Via Martiri delle Foibe Lombardia BRESCIA Via Vittime d’Istria, Fiume e Dalmazia Puglia BRINDISI Via Martiri delle Foibe Lombardia BRONI (Pavia) Via Martiri delle Foibe Lombardia BRUGHERIO (Monza-Brianza) Parco Martiri delle Foibe Emilia-Romagna BUDRIO (Bologna) Via Vittime delle Foibe Veneto BUSSOLENGO (Verona) Viale Martiri delle Foibe Sardegna CAGLIARI Parco dei Martiri delle Foibe Toscana CALCINAIA fraz. Fornacette (Pisa) Via Vittime delle Foibe Lombardia CALCINATO (Brescia) Via Martiri delle Foibe Lombardia CALOLZIOCORTE (Lecco) Parco Martiri delle Foibe Toscana CAMAIORE (Lucca) Via Martiri delle Foibe Liguria CAMOGLI (Genova) Scalinata Martiri delle Foibe Puglia CARAPELLE (Foggia) Via Martiri delle Foibe Campania CARDITO (Napoli) Via Martiri delle Foibe Piemonte CASALE MONFERRATO (Alessandria) Via Vittime delle Foibe Campania CASERTA Via Martiri delle Foibe Puglia CASSANO DELLE MURGE (Bari) Parco ai Martiri delle Foibe e all’Esodo Istriano-giuliano-dalmata Emilia-Romagna CASTEL MAGGIORE (Bologna) Rotonda Martiri delle Foibe Emilia-Romagna CASTELFRANCO EMILIA (Modena) Via Martiri delle Foibe Campania CASTELLABATE fraz. Lago di Castellabate (Salerno) Via Martiri delle Foibe Campania CASTELLABATE fraz.. San Marco (Salerno) Via Norma Cossetto Campania CASTELLABATE fraz.. San Marco (Salerno) Via Giovanni Romito - Vittima delle Foibe Piemonte CASTELLAMONTE (Torino) Via Martiri delle Foibe Veneto CASTELNUOVO DEL GARDA (Verona) Via Martiri delle Foibe Lombardia CASTIGLIONE DELLE STIVIERE (Mantova) Via Martiri delle Foibe Puglia CEGLIE MESSAPICA (Brindisi) Via Martiri delle Foibe Lazio CERVETERI (Roma) Via Martiri delle Foibe Emilia-Romagna CERVIA (Ravenna) Parco Martiri delle Foibe Lombardia CHIARI (Brescia) Piazzetta Martiri delle Foibe Veneto CHIUPPANO (Vicenza) Via Martiri delle Foibe Piemonte CHIVASSO (Torino) Via Martiri d’Istria e Dalmazia Umbria CITTA’ DI CASTELLO (Perugia) Via Martiri delle Foibe Marche CIVITANOVA MARCHE (Macerata) Via Martiri delle Foibe Lazio CIVITAVECCHIA (Roma) Parco Martiri delle Foibe - Parco Uliveto Piemonte COGGIOLA (Biella) Largo vittime delle Foibe Piemonte COLLEGNO (Torino) Giardino Esuli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia Lombardia COMO Piazza Martiri Foibe Istriane Lombardia COMO Rondello Don Angelo Tarticchio Lombardia COMO fraz. Albate Giardini Martiri italiani delle Foibe istriane Veneto CONEGLIANO (Treviso) Via Martiri delle Foibe Puglia COPERTINO (Lecce) Via Martiri delle Foibe Lombardia CORNAREDO (Milano) Via Vittime delle Foibe Emilia-Romagna CORTEMAGGIORE (Piacenza) Via Martiri delle Foibe Lombardia COSTA VOLPINO (Bergamo) Parco Martiri delle Foibe Veneto CREAZZO (Vicenza) Via Martiri delle Foibe Lombardia CREMA (Cremona) Piazza Istria e Dalmazia (Martiri delle Foibe) Piemonte CRESCENTINO (Vercelli) Via Martiri delle Foibe Veneto DANTA DI CADORE (Belluno) Via Vittime delle Foibe Lombardia DESENZANO DEL GARDA (Brescia) Via Martiri Italiani delle Foibe Piemonte DOMODOSSOLA (Verbano-Cusio-Ossola) Piazzale Vittime delle Foibe Istriane Veneto DUE CARRARE (Padova) Piazza Norma Cossetto Veneto DUE CARRARE (Padova) Piazza Vittime delle Foibe Marche FABRIANO (Ancona) Via dei Martiri delle Foibe Istriane Marche FERMO Largo Vittime delle Foibe Emilia-Romagna FERRARA Via Martiri delle Foibe Emilia-Romagna Fidenza (Parma) proposta attesa delibera Via Martiri delle Foibe Toscana FIRENZE Largo Martiri delle Foibe Puglia FOGGIA Piazza dei Martiri Triestini Umbria FOLIGNO (Perugia) Piazzale Martiri delle Foibe Lazio FONDI (Latina) Piazza Martiri delle Foibe Veneto FONTANIVA (Padova) Via Martiri delle Foibe Emilia-Romagna FORLI’ (Forlì-Cesena) Via Martiri delle Foibe Toscana FORTE DEI MARMI (Lucca) Piazza Martiri delle Foibe Veneto FOSSO’ (Venezia) Via Martiri Giuliani e Dalmati Abruzzo FRANCAVILLA AL MARE (Chieti) Via Martiri delle Foibe Lazio FROSINONE Piazza Martiri delle Foibe Puglia GALATINA (Lecce) Piazza Vittime delle Foibe Piemonte GATTINARA (Vercelli) Piazza Martiri delle Foibe Lombardia GAVIRATE (Varese) Piazza Martiri delle Foibe 1943 - 1945 Toscana GAVORRANO (Grosseto) Via Martiri d’Istria Liguria GENOVA Passo Vittime delle Foibe Friuli-Venezia Giulia GORIZIA Largo Martiri delle Foibe Friuli-Venezia Giulia GORIZIA Via Norma Cossetto Piemonte GOZZANO (Novara) Via Vittime delle Foibe Friuli-Venezia Giulia GRADO (Gorizia) Piazza Martiri delle Foibe (pass. a mare) Toscana GROSSETO Piazza Martiri delle Foibe Istriane Piemonte GRUGLIASCO (Torino) Giardino Vittime delle Foibe Veneto GRUMOLO DELLE ABBADESSE (Vicenza) Piazza Norma Cossetto Lazio GUIDONIA MONTECELIO - Villalba (Roma) Piazza Martiri delle Foibe Liguria IMPERIA Giardini Martiri delle Foibe Marche JESI (Ancona) Piazza Martiri delle Foibe Marche JESI (Ancona) Via Martiri delle Foibe Veneto JESOLO (Venezia) Viale Martiri delle Foibe Calabria LAMEZIA TERME (Catanzaro) Via Martiri delle Foibe (attesa uff. delibera) Abruzzo LANCIANO (Chieti) Piazza Martiri delle Foibe Abruzzo L’AQUILA Via Norma Cossetto Puglia LATERZA (Taranto) Via Martiri delle Foibe Lazio LATINA Piazzale Martiri delle Foibe Lazio LATINA Viale Martiri di Dalmazia Friuli-Venezia Giulia LATISANA (Udine) Via Martiri delle Foibe Veneto LAVAGNO fraz. San Pietro (Verona) Via Martiri delle Foibe Lombardia LAZZATE (Monza-Brianza) Largo Martiri delle Foibe Puglia LECCE Via Martiri delle Foibe Lombardia LECCO Riva Martiri delle Foibe Veneto LEGNAGO (Verona) Via Norma Cossetto Piemonte LEINI’ (Torino) Via Martiri delle Foibe Lazio LEONESSA (Rieti) Largo dei Martiri delle Foibe Istriane Sicilia LICATA (Agrigento) Piazzale Martiri delle Foibe Lombardia LIMBIATE (Monza-Brianza) Piazza Martiri delle Foibe Lombardia LISSONE (Monza-Brianza) Piazza Martiri delle Foibe Liguria LOANO (Savona) Via Martiri delle Foibe Calabria LOCRI (Reggio Calabria) Via Martiri delle Foibe Veneto LONIGO (Vicenza) Via Martiri delle Foibe Toscana LUCCA Via Martiri delle Foibe Marche MACERATA Via Vittime delle Foibe Marche MAIOLATI SPONTINI (Ancona) Largo Martiri delle Foibe Sicilia MANDANICI (Messina) P.zza Carabiniere Domenico Bruno-Martire delle Foibe Lombardia MAPELLO (Bergamo) Via Esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia Lombardia MAPELLO (Bergamo) Via Martiri delle Foibe Lazio MARCELLINA (Roma) Piazza Martiri delle Foibe Lazio MARINO (Roma) Piazzale Caduti delle Foibe Friuli-Venezia Giulia MARTIGNACCO (Udine) Piazzale Martiri delle Foibe Toscana MASSA (Massa-Carrara) Parco del ricordo ai Martiri delle Foibe. Sicilia MAZARA DEL VALLO (Trapani) Via Martiri delle Foibe Puglia MELISSANO (Lecce) Piazza Martiri delle Foibe Sicilia MESSINA P.zza Martiri delle Foibe, Esuli di Istria, Fiume e Dalmazia Lombardia MILANO Via Martiri Triestini Lombardia MILANO Largo Martiri delle Foibe Emilia-Romagna MIRANDOLA (Modena) Via Martiri delle Foibe Emilia-Romagna MODENA Via Martiri delle Foibe Puglia MODUGNO (Bari) Parco del Ricordo delle Foibe Veneto MOGLIANO VENETO (Treviso) Via Martiri delle Foibe Piemonte MONCALIERI (Torino) Via Vittime delle Foibe Marche MONTE PORZIO (Pesaro) Via Martiri delle Foibe Veneto MONTEBELLUNA (Treviso) Vicolo Martiri Giuliani e Dalmati Veneto MONTECCHIO MAGGIORE (Vicenza) Via Martiri delle Foibe Marche MONTELUPONE (Macerata) Via Martiri delle Foibe Lazio MONTEROTONDO (Roma) Largo Martiri delle Foibe Abruzzo MONTESILVANO (Pescara) Via Martiri delle Foibe Lombardia MORTARA (Pavia) Via Martiri delle Foibe Campania MUGNANO DI NAPOLI (Napoli) Via Vittime delle foibe Veneto NANTO (Vicenza) Via Martiri delle Foibe Puglia NARDO’ (Lecce) Piazzale Martiri delle Foibe Lazio NEPI (Viterbo) Parco Martiri delle Foibe Lombardia NERVIANO (Milano) Via Martiri delle Foibe Sicilia NISCEMI (Caltanisetta) P.za Martiri delle Foibe di Istria, Dalmazia e V.G. Umbria NOCERA UMBRA (Perugia) Via Martiri delle Foibe Emilia-Romagna NOCETO (Parma) Via Martiri delle Foibe Piemonte NOVARA Via Vittime delle Foibe Lombardia NOVATE MILANESE Giardino Martiri delle Foibe Veneto NOVENTA VICENTINA (Vicenza) Via Vittime delle Foibe Puglia ORIA (Brindisi) Via Martiri delle Foibe Sardegna ORISTANO Via Martiri delle Foibe Lombardia OSPITALETTO (Brescia) Via Martiri delle Foibe Marche OSTRA VETERE (Ancona) Giardino Martiri delle Foibe Sardegna OZIERI (Sassari) Via Martiri delle Foibe Veneto PADOVA Passaggio Martiri delle Foibe Veneto PADOVA Via Nicolò e Pietro Luxardo Friuli-Venezia Giulia PAGNACCO (Udine) Piazzale Martiri delle Foibe Lombardia PALAZZOLO SULL’OGLIO (Brescia) Piazza Martiri delle Foibe Istriane Emilia-Romagna PARMA Via Martiri delle Foibe (seduta n.1 6.4.09 app.all’unanimità - str.n. 9)(Intit. N.1173 del 17.09.09) Friuli-Venezia Giulia PASIAN DI PRATO (Udine) Via Martiri delle Foibe Umbria PERUGIA Via Vittime delle Foibe (Parco) Marche PESARO (Pesaro-Urbino) Parco Esuli Giuliano-Dalmati Abruzzo PESCARA Piazza Martiri Dalmati e Giuliani Veneto PESCHIERA DEL GARDA (Verona) Via Caduti delle Foibe Toscana PIETRASANTA (Lucca) Piazza Martiri delle Foibe Campagna PIGNATARO MAGGIORE (Caserta) Via Caduti delle Foibe Veneto PIOVE DI SACCO (Padova) Via Martiri delle Foibe Toscana PISA Rotonda Martiri delle Foibe Puglia POGGIORSINI (Bari) Via Martiri delle Foibe Lazio POMEZIA (Roma) Via Martiri delle Foibe Lombardia PONTE SAN PIETRO (Bergamo) Piazza Martiri delle Foibe Toscana PONTEDERA (Pisa) Via Caduti delle Foibe Friuli-Venezia Giulia PORDENONE Pedonale/ciclabile Martiri delle Foibe Emilia-Romagna PORRETTA TERME (Bologna) Piazza Martiri delle Foibe Toscana PORTOFERRAIO (Livorno) Via Martiri delle Foibe Veneto PORTOGRUARO (Venezia) Via Vittime delle Foibe (attesa delibera) Emilia-Romagna PORTOMAGGIORE (Ferrara) Via Martiri delle Foibe Friuli-Venezia Giulia POVOLETTO (Udine) Ponte Martiri delle Foibe Toscana PRATO Via Martiri delle Foibe Lazio PRIVERNO (Latina) Giardino Martiri delle Foibe Puglia PUTIGNANO (Bari) Via Martiri delle Foibe Piemonte QUATTORDIO (Alessandria) Via della Memoria (Vittime delle Foibe) Liguria RAPALLO (Genova) Piazzale Martiri delle Foibe Emilia-Romagna RAVENNA fraz. Porto Corsini Parco Martiri delle Foibe Marche RECANATI (Macerata) Via Martiri delle Foibe Toscana REGGELLO (Firenze) Via Caduti delle Foibe Emilia-Romagna REGGIO EMILIA fraz. Coviolo Viale Martiri delle Foibe Emilia-Romagna RICCIONE (Rimini) Piazzale Martiri delle Foibe Trentino-Alto Adige RIVA DEL GARDA (Trento) Largo Caduti delle Foibe Piemonte RIVAROLO CANAVESE (Torino) Via Martiri delle Foibe Lombardia ROBECCO SUL NAVIGLIO (Milano) Via Martiri delle Foibe Sicilia ROCCALUMERA (Messina) Piazzetta Vittime delle Foibe Lazio ROMA Via Norma Cossetto Lazio ROMA Via Icilio Bacci Lazio ROMA Via Riccardo Gigante Lazio ROMA (Laurentina) Largo Vittime delle Foibe istriane Friuli-Venezia Giulia RONCHI DEI LEGIONARI (Gorizia) Piazzale Martiri delle Foibe Veneto ROSA’ (Vicenza) Via Martiri delle Foibe Lombardia ROVATO (Brescia) Via Martiri delle Foibe Trentino-Alto Adige ROVERETO (Trento) Largo Vittime delle Foibe 1943 - 1947 Puglia RUVO DI PUGLIA (Bari) Via Martiri delle Foibe Lazio SABAUDIA (Latina) Largo dei Martiri delle Foibe Lombardia SALO’ (Brescia) Via Martiri delle Foibe Lombardia SALO’ (Brescia) Galleria Martiri delle Foibe Veneto SAN BONIFACIO (Verona) Piazza Martiri delle Foibe Friuli-Venezia Giulia SAN DANIELE DEL FRIULI (Udine) Via Luxardo Veneto SAN DONA’ DI PIAVE -Calvecchia (VE) Via Martiri delle Foibe Veneto SAN GIOVANNI ILARIONE (Verona) Via Martiri delle foibe Veneto SAN GIOVANNI LUPATOTO (Verona) Parco Martiri delle Foibe Emilia-Romagna SAN LAZZARO DI SAVENA (Bologna) Via Martiri delle Foibe Piemonte SAN MAURO TORINESE (Torino) Vittime delle Foibe e degli Esuli da Istria, Fiume, Dalmazia, Alto Isonzo. Toscana SAN MINIATO fraz. Ponte a Egola (Pisa) Via Vittime delle Foibe Puglia SAN SEVERO (Foggia) Largo Vittime delle Foibe Liguria SANREMO (Imperia) Via Martiri delle Foibe Liguria SANTA MARGHERITA LIGURE (Genova) Giardini Vittime delle Foibe Lazio SANTA MARINELLA (Roma) Parco Martiri delle Foibe Lombardia SANT’ANGELO LODIGIANO (Lodi) Via Martiri delle Foibe Veneto SAONARA (Padova) Via Martiri Giuliani e Dalmati Sardegna SASSARI Via Martiri delle Foibe Emilia-Romagna SASSO MARCONI -Borgonuovo (Bologna) Piazzale Vittime delle Foibe Emilia-Romagna SASSUOLO (Modena) Piazza Martiri delle Foibe Piemonte SAVIGLIANO (Cuneo) Via Martiri delle Foibe Campania SCAFATI (Salerno) Via Martiri delle Foibe Veneto SEDICO (Belluno) Via Martiri delle Foibe Lazio SELCI (Rieti) Piazza Martiri delle Foibe Veneto SEREN DEL GRAPPA (Belluno) Via Vittime delle Foibe Lombardia SERIATE (Bergamo) Via Martiri delle Foibe Marche SERVIGLIANO (Fermo) Via Martiri delle Foibe Piemonte SETTIMO TORINESE (Torino) Via Vittime delle Foibe Calabria SIMERI CRICHI (Catanzaro) Piazza Vittime delle Foibe Veneto SOVIZZO (Vicenza) Via Martiri delle Foibe Puglia SURBO (Lecce) Largo Vittime delle Foibe Puglia TARANTO Piazzale Vittime delle Foibe Sardegna TEMPIO PAUSANIA (Olbia-Tempio) Via Martiri delle Foibe Istriane Veneto TEOLO (Padova) Via Martiri delle Foibe Abruzzo TERAMO Via Martiri delle Foibe Abruzzo TERAMO fraz. 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Onara (Padova) Via Martiri delle Foibe Puglia TORRE MAGGIORE Foggia) Via Martiri delle Foibe Piemonte TORTONA (Alessandria) Giardini Esuli Istriani, Fiumani, Dalmati e Rimpatriati Trentino-Alto Adige TRENTO Via Vittime delle Foibe Veneto TREVISO Piazza Martiri delle Foibe Puglia TRICASE (Lecce) Via Martiri delle Foibe Friuli-Venezia Giulia TRIESTE Largo don Francesco Bonifacio Friuli-Venezia Giulia TRIESTE Via Norma Cossetto Friuli-Venezia Giulia TRIESTE Viale Martiri delle Foibe Piemonte TROFARELLO (Torino) Via Martiri delle Foibe Puglia TUGLIE (Lecce) Via Martiri delle Foibe Campania TUORO (Caserta) Via Martiri delle Foibe Lombardia UGGIATE TREVANO (Como) Piazzetta 10 febbraio - Giorno del Ricordo delle Vittime delle Foibe e dell’Esodo Lombardia URGNANO (Bergamo) Piazza Martiri delle Foibe Veneto VALDOBBIADENE (Treviso) Parco Martiri delle Foibe Veneto VALEGGIO SUL MINCIO (Verona) Via Martiri delle Foibe Lombardia VARESE Via Istria - Martiri delle Foibe Abruzzo VASTO MARINA (Chieti) Via Martiri Istriani Veneto VEDELAGO fraz. Casacorba (Treviso) Piazza Martiri delle Foibe Lazio VELLETRI (Roma) Via Martiri delle Foibe Veneto VENEZIA fraz. Marghera (Venezia) Piazzale Martiri Giuliano-Dalmati delle Foibe Liguria VENTIMIGLIA (Imperia) Giardini Martiri delle Foibe Piemonte VERBANIA (Verbano-Cusio-Ossola) Parco Norma Cossetto Piemonte VERCELLI Via Martiri delle Foibe Toscana VIAREGGIO (Lucca) Via Martiri delle Foibe (attesa oK Pref.) Veneto VICENZA Largo Martiri delle Foibe Lombardia VIGEVANO (Pavia) Via Martiri delle Foibe Veneto VIGONZA (Padova) Via Martiri delle Foibe Piemonte VIGUZZOLO (Alessandria) Piazza Vittime delle Foibe Toscana VILLAFRANCA IN LUNIGIANA (Massa Carrara) Piazza Martiri delle Foibe Lombardia VILLONGO (Bergamo) Via Martiri delle Foibe Lazio VITERBO Largo Martiri delle Foibe Istriane Sicilia VITTORIA fraz. 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I Morti dimenticati Non troverete i loro nomi sui libri di storia nelle scuole. Per questo parleremo di Loro. INDOCTI DISCANT ET AMENT MEMINISSE PERITI (chi ignora impari e chi conosce ami ricordare) LE IDEE NON SI STROZZANO, ED ANZI DAL PATIBOLO RISORGONO, TERRIBILMENTE FECONDE" (Vedetta d’Italia" 1950) LA VERITA’ PUO’ IMPIEGARE TANTO TEMPO A RIVELARSI MA ALLA FINE ARRIVA, SEMPRE.
In arrivo due libri dell’autore più volte candidato al Nobel.
«Sono stato tradotto tardi perché racconto l’oppressione di noi sloveni»
Io, coscienza scomoda per l’Italia
Boris Pahor: «Tutti gli uomini, se ne hanno l’occasione e la possibilità, sono cattivi»
di Isabella Bossi Fedrigotti (Corriere della Sera, 30.09.2009
PROSECCO PROSEK (Trieste) - È un omino asciutto e ironico lo scrittore di cittadinanza italiana e lingua slovena, Boris Pahor, lucido e perfettamente memore di ogni dettaglio della sua tormentata vita nonostante gli anni siano 96. Poiché il bar Lucsa, nel quale «riceve» di solito, è chiuso per turno, aspetta in strada, lì accanto, impermeabile addosso e cartella in mano, l’aria di un austero professore di scuola, cosa che in realtà egli è stato per circa vent’anni.
È contento perché il visitatore non si dà arie come temeva («Ne arrivano tanti di pomposi», dice) e si meraviglia quasi quando viene a sapere di essere lo scopo principale del viaggio e non un secondo piccione - minore - da prendere con una sola fava. Ed è anche contento di apprendere che il visitatore è di Rovereto, in quanto è di Rovereto il primo editore italiano (Nicolodi, ora Zandonai) che ha infine creduto in lui, da molti anni conosciuto, pubblicato, invitato e premiato in Paesi come la Francia e la Germania.
Dopo la pubblicazione da Nicolodi del romanzo Il petalo giallo nel 2004 - una quarantina d’anni dopo la sua stesura - è stata una valanga. Sono stati tradotti Il rogo nel porto, Necropoli, Qui è proibito parlare e il 7 ottobre escono altri due libri di Pahor: da Rizzoli una lunga memoria in forma di intervista (condotta da Mila Orlic), intitolata Tre volte no, per intendere la sua opposizione a fascismo, nazismo e comunismo; e da Zandonai il romanzo Una primavera difficile, che narra del ritorno alla vita fisica e sentimentale di un reduce dei Lager, alter ego dello scrittore. «E il telefono nel mio studio - aggiunge lo scrittore -, che taceva sempre, ormai suona anche sei volte in un pomeriggio! Vogliono interviste, vogliono racconti, vogliono portarmi in giro per convegni, conferenze, incontri, per promuovere i libri. Adesso poi che ho un indirizzo di posta elettronica, l’unica cosa moderna che io abbia, arrivano messaggi di invito anche lì, ma li apro solo ogni tanto quando vado a Trieste da un amico editore, perché il computer da me non ha posto. Questa notorietà non mi piace tanto perché mi fa sentire come una specie di Lollobrigida senza reggipetto che tutti vogliono vedere da vicino. Viceversa, però, sono orgoglioso per la rivincita della mia lingua e della mia cultura in passato così dolorosamente sprezzate. ’Bruti s-ciavi’ ci chiamavano».
Perché l’Italia la scopre solo ora?
«A causa delle cose che scrivo, naturalmente, che ancora oggi non si vogliono conoscere e riconoscere realmente. Di come, per esempio, il nazionalismo italiano abbia vessato e oppresso la minoranza slovena, non solo durante il fascismo ma anche negli anni che lo hanno preceduto, subito dopo la Grande Guerra. Ci sono stati maestri che sputavano in bocca ai bambini sorpresi in classe a parlare sloveno, ci sono stati licenziamenti e umiliazioni di ogni sorta. Gli impiegati pubblici di origine slovena venivano trasferiti d’ufficio in luoghi lontani e mio padre, impiegato comunale, fu costretto a dimettersi perché rifiutò di spostarsi in Sicilia. Ripiegò sul mestiere del nonno, vendere burro in piazza, e fummo perciò costretti a traslocare in un sottoscala. Arresti, botte e condanne a morte erano all’ordine del giorno, eppure il mito degli italiani brava gente è sempre vivo e caso mai si parla delle foibe, mai di quello che è toccato a noi. Se penso che abbiamo dovuto aspettare il 2000 perché venisse riconosciuto il bilinguismo in queste zone e addirittura il 2009 perché il discorso del presidente della Repubblica nel giorno della Memoria ricordasse anche ciò che il fascismo aveva fatto alla popolazione slovena».
I romanzi e i racconti di Pahor riportano fedelmente le vicissitudini della sua lunghissima vita: l’unica cosa che inventa - assicura - sono i nomi dei personaggi e i dialoghi, e soltanto perché non se li ricorda più.
«Avendo così tante cose da raccontare non vedo perché dovrei inventare. Io invento soltanto dal vero e mi fido di più di quegli scrittori che fanno altrettanto».
Nato nel 1913, ha fatto in tempo a vivere sulla sua pelle di scolaro la chiusura degli istituti sloveni e l’italianizzazione forzata, esperienze narrate, per esempio, ne Il rogo nel porto e in Qui è proibito parlare. Poi il liceo nel seminario di Capodistria - l’unica maniera di continuare gli studi per un quasi analfabeta di ritorno al quale era stata portata via la lingua madre - e la guerra in Libia, della quale porta nella memoria una delle date più importanti della sua vita:
«Quella in cui a Bengasi, sotto le bombe, passai l’esame di maturità, visto che quello del seminario non era riconosciuto. Quando andai a vedere i risultati fui apostrofato in corridoio da un professore che mi chiese chi fossi. Boris Pahor. Ah, Pahor, fece con un sorriso, l’autore del migliore tema d’italiano! E fu grazie a quel tema che ebbi sei anche in greco, materia in cui avevo fatto scena muta a una domanda sui lirici visto che lì in Africa non ero riuscito a trovare il libro».
Necropoli, considerato il suo libro maggiore, narra invece l’esperienza di deportato politico in vari Lager tedeschi, ultima stazione Bergen-Belsen. Un viaggio di quindici mesi attraverso una serie di città dei morti, appunto, imprigionato dai fascisti per i suoi legami con i resistenti sloveni e poi «passato» ai nazisti. Viaggio al quale pensa di essere sopravvissuto per due ragioni:
«Perché oltre al tedesco parlavo sloveno e qualche parola di francese, per cui un medico norvegese, internato politico a sua volta, mi prese come interprete-infermiere; e perché mi concentravo al massimo per vivere solo nel presente: non pensare al passato e nemmeno al futuro, solo oggi, adesso e cercare di non soccombere. Ho ricordato dopo, scrivendo. Raccontare a voce era infatti impossibile, non aveva senso perché chi non è passato per quell’esperienza, anche se ci mette buona volontà, non può capire, non può. Forse è per questo che molti sopravvissuti si sono poi uccisi. E la cosa più terribile della vita nel Lager - spiega ancora - non era il freddo, la fame, la dissenteria bensì l’assuefazione all’orrore. L’uomo è fatto così, per fortuna e per disgrazia. Perciò i cadaveri, gli innumerevoli, quotidiani cadaveri dei compagni di prigionia non erano più corpi che conservavano il ricordo di un essere umano, ma soltanto materia morta da buttare via».
L’assuefazione ha però anche un’altra faccia, per cui se qualcosa giunge all’improvviso a interrompere una situazione diventata normale nonostante la sua tragicità, la si percepisce come uno strappo violento, come l’inizio di una nuova era. Per Pahor, la nuova era cominciò - ricordo vivo e incancellabile - con le lenzuola fresche di bucato della Croce rossa di Lille, nelle quali dormì per la prima volta dopo un’eternità, l’indomani della liberazione. E cosa le ha insegnato la sua lunga vita?
«Che l’uomo, tutti gli uomini, donne comprese, se ne hanno l’occasione e la possibilità, sono cattivi. Per questo ho sempre paura che tutto possa ricominciare. L’altra paura, lo confesso, è molto più terra terra, e riguarda il modo in cui andrò all’altro mondo. Ma è più che altro una lieve preoccupazione, perché ne ho visti così tanti andarci».
Torturati ’’fino a un’orribile morte, italiani assolutamente immuni da ogni colpa’’
Foibe, Napolitano: ’’Nulla a che vedere con il revisionismo storico’’
Il capo dello Stato nel discorso di celebrazione al Quirinale: ’’Coltiviamo la memoria delle responsabilità storiche del regime fascista. Non dimenticare nemmeno le sofferenze inflitte agli sloveni’’. Letta: ’’Vinta la congiura del silenzio’’
Roma, 10 feb. (Adnkronos) - Il ’Giorno del Ricordo’ voluto dal Parlamento per commemorare le vittime delle foibe e l’esilio forzato di fiumani, istriani e dalmati alla fine del secondo conflitto mondiale e nell’immediato dopoguerra "corrisponde all’esigenza di un riconoscimento umano e istituzionale, già per troppo tempo mancato e giustamente sollecitato" ma "esso non ha nulla a che vedere con il revisionismo storico, con il revanscismo e con il nazionalismo". Tiene a sottolinearlo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo discorso di celebrazione al Quirinale.
"La memoria che coltiviamo - precisa il capo dello Stato - innanzitutto è quella della dura esperienza del fascismo e delle responsabilità storiche del regime fascista, delle sue avventure di aggressione e di guerra". Proprio in tal senso, ricorda Napolitano, "non c’è espressione più alta di questa nostra consapevolezza di quella che è segnata nell’articolo 11 della nostra Costituzione, là dove è sancito il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli".
Il ’ricordo’ evocato dal presidente della Repubblica deve essere pieno, senza lacune storiche, politiche o ideologiche né tanto meno nazionali. "Non dimentichiamo e non cancelliamo nulla - esorta infatti Napolitano - tanto meno le sofferenze inflitte alla minoranza slovena negli anni del fascismo e della guerra". Ovviamente, allo stesso tempo, "non possiamo nemmeno dimenticare le sofferenze, fino a un’orribile morte, inflitte a italiani assolutamente immuni da ogni colpa. E non possiamo non sentirci vicini a quanti hanno sofferto comunque di uno sradicamento cui è giusto che si ponga riparo attraverso una obiettiva ricognizione storica e una valorizzazione di identità culturali, di lingua, di tradizioni che non possono essere cancellate".
Napolitano ricorda che "da cinque anni, per iniziativa del mio predecessore Carlo Azeglio Ciampi e per mio conseguente impegno, il ’Giorno del Ricordo’ viene celebrato in Quirinale. Questa prassi non comune - spiega - vale a esprimere il sentimento di vicinanza affettuosa e solidale che lega le istituzioni repubblicane a quanti vissero personalmente, o attraverso i loro famigliari, le tragiche vicende della persecuzione, dell’orrore delle foibe, dell’esodo massiccio degli italiani dalle terre in cui erano profondamente radicati".
Inoltre, "ritengo che non abbiano alcuna ragion d’essere polemiche dall’esterno nei nostri confronti: con gli Stati di nuova democrazie e indipendenza sorti ai confini dell’Italia, vogliamo vivere in pace e in collaborazione, nella prospettiva della più larga unità europea". I Quirinale si dice "lieto dei chiarimenti del presidente sloveno, la cui giovane personalità ho avuto modo di apprezzare già in due incontri lo scorso anno".
Da parte sua, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta sottolinea nel suo intervento che "è stata vinta la congiura del silenzio: la celebrazione al Quirinale fa giustizia di tanti ritardi, di tante sofferenze, di tante incomprensioni e di tante colpevoli omissioni". Per Letta, questa giornata serve a "mantenere viva la memoria di quei giorni tragici per la storia del nostro Paese; la memoria degli eccidi delle foibe e dell’esodo doloroso e non dimenticato che senza retorica è stato definito ’biblico’".
Celebrazione del Giorno del Ricordo al Quirinale
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, celebra martedì 10 febbraio al Palazzo del Quirinale il "Giorno del Ricordo" istituito nel 2004 in memoria della tragedia degli italiani e delle vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale
Fonte: www.quirinale.it
Il caso
Lo scrittore triestino-sloveno pone il problema delle responsabilità per la pulizia etnica
Pahor riapre la polemica sulle foibe
«Silenzi sugli eccidi del Duce: potrei dire no a un’onorificenza della Repubblica»
L’iniziativa. Un appello per conferirgli dopo la Legion d’Onore una menzione speciale al premio Strega
di Marisa Fumagalli (Corriere della Sera, 27.04.08)
TRIESTE - La reazione «politicamente scorretta» di un grande vecchio della letteratura di confine, scoperto e acclamato in tempi troppo recenti, resuscita i fantasmi del passato e crea un «caso imprevisto », mettendo perfino in imbarazzo le istituzioni.
Succede, dunque, che Boris Pahor, nato a Trieste nel 1913, sloveno ma di cittadinanza italiana («me la imposero, durante la dittatura di Mussolini»), sulla cresta dell’onda perché il suo libro Necropoli, scritto quarant’anni fa nella lingua madre, è stato tradotto, rivelandoci l’esperienza più drammatica della sua vita (la detenzione nel lager nazista di Natweller- Struthof) oltre alle sue qualità di letterato, abbia quasi preventivamente rifiutato una proposta di onorificenza. «Stenterei ad accettarla - ha detto - da un presidente della Repubblica che ricorda soltanto le barbarie commesse dagli sloveni alla fine della Seconda guerra mondiale, ma non cita le precedenti atrocità dell’Italia fascista contro di noi». L’amarezza di Pahor nasce dal fatto che il capo dello Stato, nel Giorno del ricordo del 2007 ed anche nel febbraio scorso, non citò «le fucilazioni degli ostaggi sloveni e i crimini dei campi di concentramento italiani». Sottacendo così una parte di storia.
«Il suo mi sembra un giudizio eccessivo, uno sguardo troppo stretto sulle parole di Napolitano», commenta, con un certo disagio, colui che ha avuto l’idea di premiare Pahor. È il sottosegretario (uscente) agli Interni, Ettore Rosato (Pd), che, durante la cerimonia del 25 Aprile, alla Risiera di San Sabba, ha pensato di compiere un bel gesto annunciando l’iter per il riconoscimento onorifico. Aggiunge: «Il Giorno del ricordo è dedicato alle foibe, su quella tragedia mise l’accento il Presidente. Di antifascismo si è parlato tante volte». E il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza (Pdl), pur apprezzando lo spirito libero di Pahor, «intellettuale onesto», invita a superare il passato, forte del processo di pacificazione tra sloveni e italiani.
Il grande vecchio è d’accordo, ma nel merito della polemica non arretra di un millimetro. «Qui, nella Venezia Giulia, il clima, certo, è rasserenato - osserva -. Ciò mi sta bene. Ma la storia è storia. E non è accettabile che il capo dello Stato pronunci, come ha fatto, a proposito della tragedia delle foibe, parole che rievocano "i delinquenti sanguinari slavi" senza dar conto dell’oppressione fascista, della barbarie etnica, che la precedettero. Inoltre - continua - Napolitano sa bene che i comunisti italiani, allora, erano complici. Che furono loro a dare ai partigiani jugoslavi i nomi di coloro che andavano eliminati ».
Espressioni forti, nette. «Non posso distruggere metà della mia gioventù», riflette Pahor. Poi torna sulle ombre del passato che, oggi, la politica tenta di dissipare: «Ricordo bene quando, tempo fa, vennero a Trieste Luciano Violante e Gianfranco Fini. Si misero d’accordo, nel non attaccarsi a vicenda... Comunque sia, le mie condizioni per un’eventuale onorificenza sono queste: dev’essere citato non solo il mio libro Necropoli, ma anche le altre opere letterarie. Il rogo nel porto, per esempio. Dove si raccontano i crimini fascisti. Chiedo - conclude - che l’espressione crimini fascisti venga scritta, nero su bianco».
Arriverà o no per Pahor il cavalierato della Repubblica? Vedremo. Candidato al Nobel, lo scrittore triestino l’anno scorso fu insignito della Legion d’Onore di Francia, Paese dove, da tempo, è una celebrità. Ora è il suo momento italiano: per lui si prospetta un’altra onorificenza. Elido Fazi, editore di Necropoli, ha promosso una raccolta di firme, affinché gli venga attribuita, nell’ambito dello Strega, la «menzione d’onore». Il premio non potrebbe vincerlo. Il regolamento prevede che le opere in concorso siano scritte in lingua italiana.
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Alle origini della tragedia
I fascisti inventarono le fosse poi le vittime furono italiane
La proposta
Sarebbe meglio che il giorno del ricordo si trasformasse in quello dei ricordi
di Predrag Matvejevic (Corriere della Sera, 27.04.08)
Ho scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho avuto modo di sostenere gli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia (detti con un neologismo caratteristico «esodati »). L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via «fra asilo ed esilio».
Condivido il cordoglio italiano, nazionale e umano, per le vittime innocenti, espresso giustamente e senza ambiguità dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sì, le foibe sono un crimine grave. Sì, la stragrande maggioranza di queste vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell’«infoibamento».
La tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre del 1920 Benito Mussolini tiene un discorso a Pola (e non è stata certo casuale la scelta della località). E in quell’occasione dichiara: «Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara». Ecco come entra in scena il razzismo, accompagnato dalla «pulizia etnica». Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le origini, li si costringe a emigrare...
Ed è appunto in un contesto del genere che si sente pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della «foiba». È il ministro fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da solo il nome vittorioso di «Giulio Italico», a scrivere già nel 1927: «La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria» (da Gerarchia, IX, 1927). Affermazione alla quale lo stesso ministro aggiungerà anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: A Pola xe l’Arena, la Foiba xe a Pisin.
Le foibe sono dunque un’invenzione fascista. E dalla teoria si è passati alla pratica. L’ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai «lavori coatti» in questa zona durante la Seconda guerra mondiale testimonia nel giornale triestino Il Piccolo (5 novembre 2001): «Sono stati i fascisti i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari». La vicenda «con esito letale per tutti» che racconta questo testimone, cittadino italiano, fa venire brividi.
Le camicie nere hanno eseguito numerose fucilazioni di massa e di singoli individui. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in Slovenia, in Montenegro. A ciò bisogna aggiungere una catena di campi di concentramento, di varia dimensione, dall’isoletta di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. Spesso si transitava in questi luoghi per raggiungere la risiera di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva anche ad Auschwitz e soprattutto a Dachau. I partigiani non erano protetti in nessun Paese dalla Convenzione di Ginevra e pertanto i prigionieri venivano immediatamente sterminati come cani. E così molti giunsero alla fine delle guerra accaniti: «infoibarono » gli innocenti, non solo d’origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono i crimini in prima persona e per proprio conto. La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse. Abbiamo comunque cercato di parlarne. Purtroppo, oggi ne parlano a loro modo soprattutto i nostri ultranazionalisti, una specie di «neo-missini » slavi.
Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su altre esperienze. Ad esempio culturali... Non mi sembra giusto proclamare solo un «giorno del ricordo», sarebbe meglio il giorno dei ricordi. Aggiungo infine che capisco bene Boris Pahor. Lui, da slavo e sloveno, come anche Zoran Music, un caro amico defunto, grandissimo pittore ad un tempo sloveno e veneziano, ci sono stati nei campi di sterminio fascisti...
(traduzione di Silvio Ferrari)
Storia
Su foibe e false ricostruzioni storiche
In occasione del 10 febbraio ecco un utile contributo della giornalista e scrittrice triestina Claudia Cernigoi, autrice dell’importante ricostruzione storica "Operazione "foibe" tra storia e mito" (KappaVu, Udine 2005).
GIORNATA DELLA MEMORIA E GIORNO DEL RICORDO *
Dopo l’istituzione del Giorno della Memoria per il 27 gennaio (anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa sovietica), le associazioni irredentistiche degli esuli istriani hanno tanto fatto e brigato da ottenere, nel 2004, che il 10 febbraio, cioè a pochi giorni di distanza da questa ricorrenza, venisse istituito il "Giorno del Ricordo" (si noti qui anche la similitudine linguistica tra "ricordo" e "memoria"), "dell’esodo e delle foibe", ricorrenza istituita anche con il beneplacito di buona parte del centrosinistra, soprattutto i DS. A tre anni di distanza da questa "operazione", possiamo vedere gli effetti che essa ha avuto sulla scena politica e culturale italiana (ma anche internazionale).
Innanzitutto vediamo che già da metà gennaio, cioè in prossimità del Giorno della Memoria, le associazioni degli esuli riempiono il calendario di proprie iniziative che, stante la vicinanza delle date e stante il fatto che, vuoi per capacità organizzativa, per spirito combattivo, per disponibilità di fondi, o chissà per quali altri motivi, sono molto più numerose e visibili di quelle indette per il 27 gennaio, mettendo di fatto in secondo piano quelle relative a questa ricorrenza. C’è però una differenza di fondo nell’atteggiamento di chi si occupa delle due "giornate".
Mentre nelle intenzioni di chi ha ideato la Giornata della Memoria e di chi per celebrare questa giornata organizza convegni, dibattiti, iniziative culturali lo scopo era quello di ricordare ciò che è stato (la follia guerrafondaia e criminale del nazifascismo) affinché la storia non si ripeta e non vi siano più genocidi e violenze, la stessa cosa non la rileviamo nelle iniziative indette dalle varie associazioni di "esuli istriani" per il 10 febbraio (e parliamo qui della Lega Nazionale ed anche delle Comunità istriane). Chi ha avuto modo di sentire o di leggere le testimonianze dei sopravvissuti dai lager nazifascisti (e diciamo nazifascisti perché anche il fascismo ha avuto i propri lager, pensiamo solo a quello di Gonars che si trovava a pochi chilometri da Trieste, circostanza spesso ignorata dagli stessi antifascisti), sa perfettamente che nella memoria di essi non c’è posto, di norma, per l’odio, per il rancore, per il desiderio di vendetta. Nella maggior parte dei casi, chi ha vissuto sofferenze indicibili, preferisce dimenticare, cerca l’oblio e per questo lascia da parte i sentimenti di odio che invece tengono vivo il dolore del ricordo.
Se andiamo invece a seguire le iniziative per il Giorno del Ricordo (10 febbraio), vediamo che la maggior parte di esse non sono finalizzate al superamento della fase storica che ha portato al Trattato di pace (perché il 10 febbraio è quello del 1947, quando l’Italia finalmente siglò il trattato di pace con il quale venivano sanciti i nuovi confini sorti dopo la seconda guerra mondiale), ma al reiteramento di una propaganda irredentistica, che partendo da dati storici falsi (come l’ingigantimento delle cifre degli "infoibati", cioè di coloro che, nell’allora Venezia Giulia furono uccisi, per vari motivi, tra i quali anche fatti di guerra, dai partigiani jugoslavi o condannati a morte come criminali di guerra dai tribunali jugoslavi), e dalla ripetizione della vecchia teoria (un tempo solo fascista) che il trattato di pace fu in realtà un diktat per l’Italia, ribadisce la teoria degli "ingiusti confini", delle "terre rubate" e conclude con lo slogan "volemo tornar".
Ora non ci dilungheremo sulla questione delle "foibe", perché fin troppo spesso ne abbiamo parlato su queste pagine; diciamo solo che quelli che vengono fatti passare per "infoibati sol perché italiani" nella maggior parte dei casi si possono inserire nella categoria dei "morti per cause di guerra", ricordando che nel corso della seconda guerra mondiale sono morte milioni di persone, a causa di una guerra che è stata voluta ed iniziata (cosa che pochi ormai ricordano) dalla volontà imperialistica dei regimi nazifascisti.
È stata l’Italia fascista ad invadere, senza dichiarazione di guerra, ed a spartirsi, assieme ai propri alleati, la Jugoslavia, devastandola e provocando orrende stragi di civili; sono stati i regimi nazifascisti che hanno dichiarato guerra al mondo intero, perché volevano prendere il controllo di esso, e, dato che fortunatamente per i destini del mondo, la cosa non gli è riuscita e sono stati sconfitti (anche grazie al contributo di sacrifici delle varie resistenze europee, tra le prime quella jugoslava), alla fine del conflitto hanno dovuto pagare, in termine di perdita di territorio, questa sconfitta.
Così entriamo nel merito della questione che più è dibattuta in questi giorni nei convegni organizzati per il 10 febbraio: la questione degli "ingiusti confini". Se, come abbiamo sentito dire spesso in vari convegni cui abbiamo assistito, il diritto italiano sull’Istria e su Fiume era dato dal fatto che questi territori erano stati annessi in seguito alla prima guerra mondiale (dove Fiume, ci si lasci dire, è stata annessa all’Italia con un colpo di mano in barba al trattato di pace ed al diritto internazionale), volendo seguire questa logica (che non è quella di "sangue e di suolo" che altri proclamano), dobbiamo accettare anche il fatto che in seguito ad un altro conflitto altri confini sono stati tracciati e territori che erano stati conquistati grazie ad una guerra vinta, sono poi stati tolti per una guerra (d’aggressione, ricordiamolo) perduta.
Così abbiamo sentito il professor Raoul Pupo, che sicuramente non è uno storico "neofascista", sostenere che in realtà il trattato di pace del 1947 non è stato firmato con l’Italia, ma sopra l’Italia, perché alla fine della guerra l’Italia non esisteva come soggetto politico internazionale e quindi non aveva alcuna possibilità di negoziare, con i vincitori della guerra, i propri confini. Questa interpretazione, che è un po’ una variante del concetto di diktat, però non tiene conto di una cosa fondamentale: che l’Italia non era stata aggredita da nessuno degli Stati che vinsero la guerra, e che il fatto che l’Italia aveva perso la guerra era la mera conseguenza del fatto che l’aveva iniziata. L’attribuzione dell’Istria alla Jugoslavia, sostiene Pupo, rientra nella logica geopolitica di "accontentare" Tito, all’inizio concedendogli i territori che aveva militarmente conquistato, e successivamente per "tenerselo buono" in funzione antisovietica.
Ma al di là del diritto di "conquista" (che, come abbiamo visto prima, viene di solito fatto valere per i territori annessi dopo la prima guerra mondiale dall’Italia), queste interpretazioni di Pupo non tengono conto di altre cose. Che i territori istriani, ad esempio, non sono "italiani" per diritto di "sangue e di suolo", dato che la popolazione è mistilingue, con predominanza di sloveni e croati all’interno e di istro-veneti sul litorale. Perché quindi dovrebbe essere "naturale" che questi territori dovessero rimanere all’Italia piuttosto che alla Jugoslavia, tenendo anche conto che l’Italia doveva risarcire danni di guerra di non poca entità al Paese che aveva invaso? Una volta sancito, in queste conferenze "storiche", che i confini sono, tutto sommato, ingiusti, i vari relatori vanno ad analizzare la questione dell’ "esodo" degli istriani.
Diciamo subito che, a parer nostro, un "esodo" che si prolunga per vent’anni non può essere un "esodo" causato da "pulizia etnica". Citiamo a questo proposito la testimonianza del giornalista Fausto Biloslavo, di passata militanza nel Fronte della gioventù, che si è più volte autopresentato come "nipote di infoibato e figlio di esule", che nel corso di un intervento ha spiegato che il nonno paterno, di Momiano, dovette fuggire a Trieste "rocambolescamente" all’arrivo dei partigiani, "perdendo tutto", e la moglie poté raggiungerlo assieme ai figli appena nel 1954. Dunque la famiglia rimase per nove anni a Momiano, sotto il "regime titino", che evidentemente non li "infoibò", né li espulse, nonostante con tutta probabilità il nonno fosse stato coinvolto con il regime fascista, se aveva dovuto filare via in fretta e furia abbandonando moglie e figli.
Ma queste contraddizioni stranamente non vengono rilevate da chi ascolta. Del resto, il racconto di Biloslavo non si discosta molto, per coerenza, da altre interpretazioni "storiche". Il professor Pupo, ad esempio, sostiene che all’inizio il "regime jugoslavo" aveva fatto una distinzione tra italiani assimilabili al "regime" (operai, contadini, proletariato in genere) ed altri non assimilabili (i ceti più elevati), che furono cacciati fin dall’inizio.
Ammesso e non concesso che questa interpretazione sia attendibile, non passa per la mente dello studioso che si fosse trattato di una "epurazione" politica e di classe e non etnica? Che furono indotti ad andarsene i possidenti, che avrebbero perduto, con il socialismo, i loro possedimenti, nonché i fascisti, esattamente come accadde per sloveni e croati che non si identificavano nel nuovo sistema di governo? Pupo sostiene poi che successivamente, dopo la svolta del Kominform, anche gli italiani che erano rimasti furono cacciati via, perché tutti simpatizzanti per l’URSS, in questo modo sarebbe stata completata la "pulizia etnica": questa ci sembra ancora più fuorviante come interpretazione.
Se ciò che sostengono questi studiosi, cioè che la comunità italiana fu interamente espulsa, con le buone o con le cattive, dalla Jugoslavia, fosse vero, oggi non avremmo in Istria una comunità italiana forte, compatta, ricca di istituzioni culturali, cosa che pure viene invece rivendicata da quegli stessi rappresentanti degli esuli che prima parlano di pulizia etnica e poi del fatto che gli italiani in Istria sono tuttora numerosi e presenti, senza rendersi conto che la seconda cosa escluderebbe la prima.
La comunità italiana in Jugoslavia ha sempre goduto di diritti specifici, a cominciare dalle scuole, per proseguire con il bilinguismo e con i seggi garantiti nei vari parlamenti. Se questo significa pulizia etnica, cosa dovrebbero dire gli sloveni d’Italia, che se oggi hanno le scuole con lingua d’insegnamento slovena è solo grazie al fatto che sono state istituite dagli angloamericani e poi conservate in base ad una precisa clausola contenuta nel Memorandum del 1954, mentre tutti gli altri diritti sono ben al di là di venire? Ma è proprio grazie alle mistificazioni degli argomenti storici che alla fine emergono i contenuti che sono, a parer nostro, più preoccupanti, e che possono essere sintetizzati nello slogan "volemo tornar" che tanto spesso viene citato in queste rassegne, e sui quali contenuti ritorneremo, per un approfondimento, in un prossimo articolo.
Targa sulla Stele della Foiba di Basovizza
Memorial di Basovizza
O tu che ignaro passi per questo Carso forte ma buono, fermati! Sosta su questa grande tomba! E’ un calvario con il vertice sprofondato nelle viscere della terra. Qui, nella primavera del 1945, fu consumato un orrendo Olocausto. A guerra finita! Nell’abisso fummo precipitati a centinaia, crivellati dal piombo e straziati dalle rocce. Nessuno ci potrà mai contare! Avidità di conquista, odio e vendetta congiurarono e infierirono contro di noi. Essere italiani era la nostra colpa. A gettarci nel baratro furono torme di invasori, calati nella nostra terra sotto l’influsso di una malefica stella vermiglia. Per viltà gli uomini non ci hanno reso giustizia. Ce l’ha resa Dio accogliendo i nostri spiriti, purificati da tanto martirio. O tu che, ora non più ignaro, scenderai da questo Carso, ricorda, e racconta la nostra tragedia.
Federazione Grigioverde 2004
Un libro fon-da-men-ta-le, che deve circolare, che va diffuso con ogni mezzo necessario e letto dal maggior numero di persone possibile. La lettura spalanca il mondo davanti agli occhi. Questo saggio è uno strumento di lotta, è un’ascia di guerra dissepolta, alfine. Claudia Cernigoi, dopo anni di ricerche, ha riscritto e ampliato la sua opera del ’97, Operazione "Foibe" a Trieste. Ora il libro parla anche dell’Istria e si chiama Operazione "Foibe" tra storia e mito, lo ha pubblicato la Kappa Vu di Udine nella collana "Resistenza storica". Trecento pagine fitte e documentatissime, costa sedici euro e sono ben spesi. Mooolto ben spesi.
Cernigoi ha passato a pettine tutti gli archivi consultabili di qua e di là del confine. Il suo libro smantella con rara e lucida spietatezza le dicerie, le falsificazioni, le leggende contemporanee e le buffonate che, modellate dalla propaganda nazionalista sul confine orientale, si sono fatte strada nell’opinione pubblica senza mai essere messe in questione, fino a spingere il Parlamento a istituire una giornata commemorativa. Nel mentre, si è realizzata una fiction campionessa d’ascolti basandosi su fandonie che i vari "foibologi" hanno preso di pacca da Questo è il conto!, opuscolo in lingua italiana diffuso dai nazisti sul Litorale Adriatico, subito dopo il periodo del "potere popolare", nel 1943. Operazione "Foibe" tra storia e mito deve diventare IL testo di riferimento per chi voglia occuparsi di "foibe" in modo scientifico, e non sto parlando di geologi.
Cernigoi dimostra che le liste degli "infoibati" sono state oggetto di pesanti manipolazioni. In quegli elenchi, gli pseudo-storici delle "foibe" (molti dei quali neofascisti: chi proveniente da "Ordine Nuovo", chi coinvolto nel golpe Borghese etc.) hanno infilato tutti i dispersi, compresa gente che nel frattempo era tornata a casa, non con le gambe in avanti o dentro un’urna bensì viva e vegeta. I "foibologi" hanno aggiunto anche i nominativi di partigiani e civili uccisi dai nazifascisti. Come spiega molto bene l’autrice, l’infoibamento fu teorizzato, evocato, minacciato dal nazionalismo italiano fin dall’inizio del secolo, per esser poi messo in pratica durante l’occupazione nazifascista. Va aggiunto che molti nomi di "infoibati" sono doppi o addirittura tripli, sovente la stessa persona figura "infoibata" in posti diversi, e in un caso tre nominativi di presunti "infoibatori" (Malvagi Partigiani Slavo-Comunisti) figurano pure nella lista dei relativi "infoibati"! Della serie: se la cantano e se la ridono. Una lista in particolare, quella degli "infoibati" (in realtò comprensiva di tutti i dispersi) della provincia di Trieste, dopo attento esame registra una percentuale d’errore superiore al 65%. Su 1458 nomi, ben 961 si rivelano sbagliati!
Tutti gli altri caduti (e nemmeno questi furono tutti "infoibati") erano torturatori della Milizia di Difesa Territoriale o della X Mas, massacratori vari, collaborazionisti, delatori, etc. Di molti di costoro Cernigoi fornisce il cursus honorum, ricavato da documenti e fonti d’epoca. A conti fatti, viene smentita la propaganda sugli ammazzati "solo perché italiani". I motivi erano ben altri. Il "feeling" non era antitaliano, ma antifascista. Quanto alla soppressione del CLN di Trieste da parte dei "titini", spesso citata come esempio di politica fratricida tra nemici del fascismo, Cernigoi spiega in modo chiaro che - a causa della repressione tedesca - in città si susseguirono ben tre CLN, molto diversi l’uno dall’altro, l’ultimo dei quali composto da loschi figuri di destra, anche ex-X Mas. Col paravento dell’antifascismo, costoro cercavano addirittura alleanze con residui del regime fascista in funzione nazionalista e anti-slava, inoltre preparavano - e in alcuni casi eseguirono - attentati e azioni armate contro i partigiani di Tito. Risulta abbastanza normale che questi ultimi abbiano deciso di arrestarli, portarli a Lubiana e colà processarli.
Per quanto riguarda i finti "infoibati", è particolarmente buffo (si fa per dire) il caso di Remigio Rebez, "il boia di Palmanova", tenente della X Mas e feroce torturatore. Condannato a morte dopo la Liberazione, gode dell’amnistia di Togliatti (o meglio, della sua interpretazione estensiva da parte dei magistrati) e si trasferisce a Napoli, dove muore addirittura nel 1996. La stampa triestina dà notizia del suo decesso, gli dedica distici elegiaci, ma si guarda bene dal dire ai lettori che il suo nome figura sulle liste degli "infoibati" fornite da vari storici di destra come Papo, Pirina etc.
Un altro esempio di chi e cosa si possa trovare in quegli elenchi: viene presentato come "vittima degli slavi" tale Eugenio Serbo, "capitano 57° Rgt. Art. Div., rimpatriato dalla Germania fu catturato dagli Slavi e deportato nei pressi di Lubiana; risulta deceduto il 14/12/44 a Leitmeritz". Lapidaria, Cernigoi: "Leitmeritz è però il nome tedesco di Litomerice, cittadina che si trova nell’attuale Repubblica Ceca nei pressi di Terezin, praticamente a metà strada tra Praga e Dresda. Ci pare difficile che i non meglio identificati ’Slavi’ nominati da Papo siano riusciti a deportare il capitano Serbo a Lubiana e farlo morire nel 1944 in un lager tedesco".
Anche soffiando e gonfiando e gonfiandosi, come la rana che vuol competere col bue, i "foibologi" non sono mai riusciti a presentare elenchi plausibili. L’ammontare complessivo delle "vittime" non superebbe le 500 persone tra Venezia Giulia e Litorale Adriatico. Il resto ("decine di migliaia di vittime" etc.) è fantasy, non c’è nessun riscontro documentale. L’anno scorso il ministro Gasparri parlò addirittura di "milioni di infoibati", ma la verità è che siamo ben lontani da quel "genocidio per mano rossa" cercato disperamente dalla destra per contrapporlo alla Shoah e poter ricorrere al "benaltrismo" ogni volta che si parla di leggi razziali, Salò, stragi etc. Cernigoi non nega che vi siano state vendette personali ma, ricostruendo il contesto e riportando alla luce materiali d’archivio, dimostra che si trattò di azioni individuali e sporadiche, non certo di una politica di sterminio o "pulizia etnica" da parte dei partigiani jugoslavi.
Altre truffe sono i resoconti degli scavi avvenuti nel dopoguerra, a opera di società speleologiche che stavano alla destra fascista come il negozio di fiori sta al Gruppo TNT. Più ci si allontana nel tempo, più si moltiplicano i morti trovati nella data foiba. Se, putacaso, nel ’46 erano otto, si può star sicuri che oggi si dice che erano ottanta, e così via. La stessa foiba di Basovizza, divenuta monumento nazionale e frequente location di picchetti e commemorazioni, è più un oggetto di propaganda che di seri studi storici. Non è stato dimostrato in alcun modo che in fondo a quella cavità carsica sia finito "un numero rilevante di vittime, civili e militari, in maggioranza italiani, uccisi ed ivi fatti precipitare". Alla sola Basovizza, Cernigoi dedica un capitolo che pare la messa in scena di una lunga, macabra pochade.
La "tragedia delle foibe" è una truffa ideologica, e la cosa peggiore è che studiosi come Cernigoi e Sandi Volk (autore di un altro saggio importante e recensituro, Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale, Kappa Vu, 2005) sono praticamente i soli a confutarla con gli strumenti della storiografia. La propaganda di destra viene accettata a cresta bassa anche a "sinistra", Bertinotti compreso. Tutt’al più si tratteggia vagamente il contesto, si fanno dei distinguo, gli eredi del PCI se ne chiamano fuori dicendo "Noi coi titini non c’entriamo niente" etc.
Le ricerche della studiosa hanno, innegabilmente, messo in evidenza certe lacune, certi iati nella documentazione storica, e, di conseguenza, alcune forzature presenti, indiscutibilmente, nella riflessione storiografica, nella ricostruzione, se vogliamo nella mitizzazione ideologica e identitaria, riguardanti le foibe.
La Cernigoi non può essere liquidata come "negazionista". E’ forse, in assoluto, la ricercatrice più attenta ed informata sulle foibe. Del resto, i "revisionisti" (da una parte e dall’altra) sono i soli che avvertano l’esigenza di frugare nella polvere degli archivi. Gli storici ufficiali, che nulla hanno da rivedere, preferiscono evitare questa spesso ingrata ed avara fatica. Il revisionismo è, proprio per questo, una costante necessità del lavoro storiografico, anzi di ogni ricerca culturale.
Ma, a ben vedere, nemmeno coloro che sono stati bollati e censurati (e in alcuni paesi incarncerati) come "negazionisti" dell’Olocausto (Faurisson, Mattogno, per non citare che i principali) "negano" che siano esistiti i lager, i crematori, le deportazioni, e, nel complesso, la persecuzione antiebraica. Essi sostengono che tale persecuzione fosse finalizzata non allo sterminio, ma alla deportazione verso Est ("soluzione finale territoriale"). Certo, le modalità disumane in cui tale deportazione fu compiuta fecero sì che essa portasse alla morte (per freddo, fame, tifo, sfinimento) di svariate centinaia di migliaia di persone: cinque milioni per Hilberg, quattro per Reitlinger, un numero impossibile da precisare per Arno Mayer (e ho citato solo storici ufficiali). Per citare quest’ultimo, "le fonti per lo studio delle camere a gas sono rare e inaffidabili"; e non aggiungo altro.
Jean-Claude Pressac, massimo studioso di Auschwitz, nella sua ultima intervista giunse addirittura alla conclusione che, a proposito della Shoah, non si potesse più parlare di genocidio, e che "tutto ciò che era stato inventato intorno a sofferenze troppo reali" fosse "destinato alle pattumiere della storia".
La Cernigoi ha buon gioco nel rilevare le lacune della documentazione, la mancanza di testimonianze relative alle riesumazioni e alle sepolture. Ma le si potrebbe obiettare che svariate ricerche, svariati scavi (compiuti sia durante le inchieste post-belliche dell’autorità sovietica, sia in tempi più recenti) non hanno rilevato tracce significative delle immense fosse comuni che (a Treblinka, a Belzec, a Chelmno, a Sobibor) dovrebbero contenere i resti di un milione e mezzo di cadaveri.
Si dice che, in mancanza di un riscontro documentario, di una prova oggettiva, è necessario prestar fede alle testimonianze (peraltro, abbiamo testimonianze giurate relative a camere a gas in lager che oggi la storiografia ufficiale riconosce esserne stati privi; e tutto si può dire, ma non che il Rapporto Gerstein, principale fonte sulle camere a gas, sia, nelle sue diverse stesure, immune da assurdità e contraddizioni, a meno che non si voglia credere - per non addurre che un esempio - che venti persone potessero essere stipate in un metro quadrato).
Ma non si vede perché lo stesso valore non debba essere riconosciuto alle testimonianze per quanto riguarda le foibe. Del resto, si può essere davvero certi che esse siano state perlustrate fino in fondo? E’ possibile raggiungere il fondo di quelle cavità carsiche, così irregolari e scoscese? Il vuoto abissale ed insondabile delle foibe è quasi un simbolo del vuoto stesso, dell’oscurità stessa della conoscenza storica, soprattutto qualora essa debba misurarsi con l’immensità sconfinata della tragedia e del male.
Non ci sono prove autoptiche delle torture subite dagli infoibati. Ma, se è per questo, le autopsie eseguite sui cadaveri di Stuthof, che si presumeva fossero stati gasati, non rivelarono traccia di gasazione. Né sono state trovate tracce di acido cianidrico nelle camere a gas di Auschwitz. Bisogna credere alle testimonianze, evidentemente, nell’uno come nell’altro caso. La testimonianza umana deve prevalere sul dato scientifico. La storia è fatta dall’uomo, e solo dall’uomo può essere compresa e autenticata. "Verum ipsum factum".
Infine, quando si precisa che l’accanimento dei comunisti era rivolto contro una classe sociale, non contro un’etnia, non vi è il rischio di legittimare, o di considerare meno gravi, implicitamente, una cieca violenza, un cieco odio, di matrice ideologica? Non si tratta pur sempre di vite umane annientate, di innocenti che hanno sofferto solo per la condizione della loro nascita, come per un’involontaria colpa prenatale?
Quando si parla di pericolo comunista, di odio bolscevico, si fa riferimento, purtroppo, ad una realtà che non appartiene solo al passato. Dai Gulag della Corea del Nord ai laogai cinesi, l’annientamento del "nemico di classe" si perpetua. Si dice che si deve conoscere il passato per evitare che certi errori si ripetano. Il problema è che, a Yodok, quegli errori, e quegli orrori, ora, mentre parliamo, si ripetono, sotto gli occhi del mondo, che tace. Ed è inutile fingere di ignorare che il Partito Comunista Italiano mantenne cordiali relazioni con gli analoghi partiti di varie parti del mondo, i quali si macchiavano di atrocità non troppo dissimili da quelle naziste.
Poco importa che il criterio fosse classista, e non razziale. Persone innocenti soffrivano e morivano. L’odio di classe non è meno grave e meno atroce di quello razziale; a meno che non si voglia subordinare l’individuo, con la sua umanità fragile e dolente, all’ipostasi ideologica di una definizione categoriale. Il che denoterebbe mancanza di umanità, oltre che di senso storico.
Ansa» 2008-02-10 14:18
FOIBE, NAPOLITANO: ONORIAMO LE VITTIME ITALIANE
(di Alberto Spampinato)
Il ricordo della tragedia delle foibe, l’omaggio alle vittime di quegli anni, il riconoscimento delle ingiustizie sono doverosi, ma "non possono e non devono prescindere da una visione complessiva", da un inquadramento storico, che non può dimenticare il prima e il dopo, ha detto Giorgio Napolitano celebrando il Giorno del Ricordo al Quirinale. Il quadro d’insieme è stato richiamato dal ministro della Cultura Francesco Rutelli e dal vice presidente dell’ Associazione degli esuli istriani e giuliano-dalmati Lucio Toth.
Quella barbarie, che produsse circa 20 mila morti e 350 mila profughi fra i nostri connazionali, ha ricordato Toth, ha radici lunghe e profonde, negli scontri tra nazionalismi ottocenteschi; poi, nel Novecento, nell’impatto tra gli imperialismi; e ancora dopo nello scontro tra le ideologie. Vicende drammatiche e complessa difficili da comprendere in tutte le sfumature mentre accadevano, ma che "oggi si possono e si devono capire, esplorando le vicende con animo sereno, per far ritornare in primo piano la ragione e la verità". Queste considerazioni hanno indotto il presidente della Repubblica ad aggiungere all’ultimo momento, a braccio, una frase al testo scritto del suo intervento, per richiamare un duro giudizio dell’anno scorso che "suscitò qualche reazione inconsulta fuori Italia": per l’esattezza un incidente diplomatico con l’allora presidente croato Stipe Mesic, chiuso nel giro di qualche giorno.
Napolitano citò recenti ricerche per dire che al confine orientale dell’Italia, dopo l’8 settembre 1943, migliaia di italiani furono vittime di un "moto di odio e di furia sanguinaria e di un disegno annessionistico slavo che prevalse in tutto nel trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica". Su questo passaggio si appuntò la reazione croata. Mesic ci vide elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico. Altri lamentarono l’uso del termine ’slavo’. Oggi Napolitano si é limitato a richiamare il concetto dicendo: "Era giusto esprimermi a nome della Repubblica con quelle parole, con quell’impegno che qui ho sentito ricordato con piacere dal ministro Rutelli".
Rutelli ha parlato dell’emozione provata poco prima consegnando 75 medaglie ricordo agli eredi delle vittime. "Ho avvertito la tenacia della sofferenza, l’orgoglio e la dignità rispetto alla desolazione umana, materiale e morale, subita a suo tempo da loro per i loro cari e questo ci ricorda - ha detto il vice presidente del Consiglio - che l’impegno per la libertà si vive e conquista ogni giorno. Oggi si tratta di quindi di proiettare questo ricordo verso il domani, senza dimenticare le tradizioni storiche culturali che legano questa gente con l’Italia, in un realtà che, se pensiamo ai sanguinosi giorni vissuti dalla ex Jugoslavia, venti anni fa ci sarebbe parsa impensabile: con la Slovenia non ci sono più confini e quel paese ha la presidenza dell’Eu. Una situazione che deve farci sperare che si possa risolvere anche la questione del Kossovo". Quelle terribili vicende, ha ricordato Napolitano, hanno lasciato ferite profonde, oggi rimarginate per effetto del lungo tempo trascorso, ma soprattutto dell’entrata in campo dell’Europa unita quale comune cornice di civiltà e di pace. Una cornice da rafforzare, perché ancora pochi anni fa, quando sembrava impensabile, abbiamo avuto
Foibe, la tragedia di due popoli contro
di Bruno Gravagnuolo *
Qualche settimana fa, nel recensire un libro di Eric Salerno sugli ebrei libici italiani internati nel lager di Giado, Dario Fertilio sul Corsera scriveva che «nessun altro luogo, includendo l’isola di Arbe nel Quarnaro, fu teatro di stragi italiane numericamente più rilevanti». In realtà a Giado i morti di stenti furono «solo» 560, benché per un ordine iniziale, per fortuna revocato, i circa mille internati dovevano essere uccisi tutti, prima dell’arrivo degli inglesi nel 1943. Ebbene quel che colpisce, nel resoconto, sono l’incipit e l’inciso: «Nessun altro luogo, includendo l’isola di Arbe... ».
Eppure Giado fu una «piccola» cosa in confronto ad Arbe, e a Gonars, Visco, Monigo, Renicci. Campi slavi, dove morirono più di 7mila sloveni di stenti, malattie, e maltrattamenti, inflitti loro dagli italiani occupanti in Slovenia, Croazia e Dalmazia. E anche «piccola» cosa in relazione alle 13 mila vittime degli italiani nella sola zona di Lubiana in quegli anni. In una guerra d’occupazione che costò all’ex Jugoslavia oltre 250mila morti.
Ora, non intendiamo farne colpa grave a Fertilio, ottimo collega e per solito informato, oltre che bravo narratore. Ma l’incipit e l’inciso su Giado ed Arbe, sono un sintomo ben preciso, con cui occorre pure fare i conti. Sono il segnale di una dimenticanza ben precisa, che in tutto questo dopoguerra ha assunto i tratti di una vera e propria rimozione. Destinata ad alimentare comodi schematismi ed equivoci, sia in ordine ai crimini italiani nella seconda guerra mondiale («gli italiani brava gente»), sia in relazione ai crimini subiti dagli italiani in quella grande tragedia. E il discorso è tanto più rilevante oggi, alla vigilia del 10 febbraio, giornata del ricordo in cui si celebreranno i torti e le ingiustizie patiti dalle genti giuliano-dalmate, espulse dai loro territori, dopo il trattato di pace con la Jugoslavia e a seguito della persecuzione jugo-comunista, che costrinse quelle genti ad emigrare forzosamente. Con in più lo spregio dello scherno a sinistra, e dell’incomprensione della madre-patria, che doveva accoglierle come masse di profughi, indesiderati e imbarazzanti.
Ecco spiegata la ragione forte che ci ha indotti, in occasione del 10 febbraio, a voler celebrare quel giorno con un volume scomodo e imbarazzante delle «Chiavi del tempo», ma altresì rigoroso: Pierluigi Pallante, La tragedia delle foibe. Memoria e Storia. In edicola con l’Unità domani 9 febbraio (pp. 275, euro 7,50, più il prezzo del quotidiano). Un gesto editoriale spigoloso, ma dovuto. Alla memoria dei vivi e dei morti del grande dramma dalmata-giuliano, culminato prima con le foibe, e poi con l’espulsione di circa 350mila italiani. Gesto di cui è autore in primo luogo uno storico che da anni si occupa della questione nazionale, con particolare riferimento al Friuli Venezia Giulia. Già collaboratore di Storia contemporanea al tempo in cui era diretta da Renzo De Felice con cui si laureò, e allievo di un altro grande storico scomparso come Paolo Spriano.
Il libro è un dossier attualissimo e aggiornato di tutta la vicenda, dall’annessione italiana dell’Istria già a partire dal 1919, fino all’esodo che si protrae al 1954, anno del ritorno di Trieste all’Italia. Con in più cartine dei confini e territori, indice dei nomi e ricchissima appendice documentaria, in particolare centrata sui rapporti tra il Pci e i comunisti jugoslavi. Libro quindi non reticente ed esaustivo sui passaggi fondamentali del dramma. E senza sconti alle stesse ambiguità del Pci, che benché attestato sin dagli anni trenta sulla difesa dell’italianità di Trieste e dell’entroterra, mostrò ambivalenze e oscillazioni in quel contesto dominato dalla pressione dell’armata jugoslava. E finì con il non opporre un contrasto risolutivo all’annessionismo titino, sino a rompere con il Cln e a risultare diviso internamente, rispetto all’egemonia jugoslava.
Le foibe. Nel saggio di Pallante, che mette a frutto una ricca storiografia di sinistra in opera da più di trent’anni, esse appaiono come implosione distruttiva sul nemico «etnico» e «sociale», che convoglia decenni di rancore e risentimento repressi nell’elemento slavo. E in una terra mistilingue, in bilico dai tempi di Venezia su due possibilità: incontro fruttuoso e multietnico, e inimicizia nazionale contrapposta. Trieste è un po’ il simbolo di questa ambivalenza. A prevalenza italiana, come Zara, Pola e le città rivierasche, era pur sempre ancora nel 1915 la più grande città slovena, con 56 mila abitanti di quel «ceppo».
Lì, e prima nell’entroterra a prevalenza slava, si consuma la tragedia. In due fasi. Inizialmente, con lo sbandamento dell’esercito italiano dopo l’8 settembre, ci sono gli infoibamenti degli italiani sull’onda della jacquerie popolare, che non fa distinzioni di sorta tra le responsabilità, nell’elemento occupante alleato dei nazisti. Dopo invece, con l’entrata a Trieste il 30 aprile 1945 della IV armata del generale Dprasin, coadiuvata dal VII e dal IX corpus sloveni, avverrà la mattanza degli italiani: alcune migliaia nelle foibe carsiche. Altre, sino a un numero di 10mila, destinate a scomparire nei campi di internamento titino. Difficile quantificare il numero degli infoibati, uccisi spesso da vivi con le mani legate ai morti fucilati. Una commissione italo-sloveno-croata ne calcola l’ammontare presuntivo a 4-5mila.
Ma il punto vero è un altro. Perché tanta furia? Certo, la vendetta. Il furore convogliato da anni di oppressione, fucilazioni e rastrellamenti legati all’occupazione italiana. Che aveva installato in Croazia un dittatore sanguinario croato come Ante Pavelic. Che con i suoi generali inflessibili - Roatta, Ambrosi, Pirzio Biroli, Robotti - incitava i soldati a non fare del sentimentalismo: 50 slavi per ogni italiano ucciso. Ovvero, come telegrafava Mussolini: «Non siate padri di famiglia in Montenegro!». E poi giocavano nella memoria slava i lunghi anni di snazionalizzazione. Con la cancellazione dei nomi sulle tombe, la proibizione di parlare serbo-croato. La cacciata del clero slavo e la distruzione politico-sociale della società civile locale, in una con il «rinsanguamento» italico forzoso. Ma detto tutto questo, verità non smentibili e documentate da Pallante, vi fu dell’altro. Vi fu il progetto titino di nazionalizzazione jugoslava dell’Istria, congiunto alla trasformazione collettivista. Rispetto a cui, come avvisava Kardelij braccio destro di Tito, andava rimosso ogni ostacolo italiano, foss’anche antifascista (perciò più pericoloso). Fu così che l’iniziale collera etnica divenne pulizia politica preventiva. Era un disegno coerente con il ruolo egemone e «bolscevico» che il comunismo titino si assegnava in centro-europa, e che Stalin stesso dovette arginare. Poi per paradosso, proprio la Jugoslavia divenne la faccia antistaliniana e più tollerante del comunismo dell’est. Ma nel frattempo il dramma s’era consumato. E l’Italia ormai nella Nato non aveva nessuna voglia di ricordare una vicenda amara, che pur dentro la sconfitta e il prezzo pagato non la vedeva esente da colpe.
* l’Unità, Pubblicato il: 08.02.08, Modificato il: 08.02.08 alle ore 8.15
TRIESTE. In occasione della giornata che domenica farà memoria delle vittime della violenza titina, apre il centro di documentazione
Viene inaugurato a Basovizza, luogo delle fosse comuni e delle violenze comuniste, e vuole
essere un mezzo per la riappacificazione fra sloveni e italiani
Foibe, ricordo e riconciliazione
DA TRIESTE FRANCESCO DAL MAS (Avvenire, 07.02.2008)
Sotto il segno della ’memoria condivisa’. Di più: nella prospettiva della riconciliazione. Come, peraltro, sollecita il vescovo di Trieste Eugenio Ravignani, a ogni ’Giorno del ricordo’. Quello del 10 febbraio, domenica prossima, ha infatti in agenda l’inaugurazione a Basovizza del Centro di documentazione, con la mostra storica permanente sulla stagione delle grandi violenze sul confine nordorientale. E ci sarà anche un testo didattico di accompagnamento. Il tutto orientato ad una condivisione di questa tragica storia: «o, almeno ci proviamo», si schermiscono i componenti della Commissione promossa dal Comune di Trieste e composta dagli storici Giuseppe Parlato (presidente), Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Paolo Sardos Alberini (della Lega nazionale, che ha in gestione il museo) e Adriano Dugulin. Siamo appunto a Basovizza, sul Carso triestino, la foiba per antonomasia. Ma sulle foibe non ci si dilunga troppo in questo Centro, neppure nella Mostra; vengono descritte puntualmente e si fa memoria degli infoibati, ma senza eccessi, senza ridondanze. Si preferisce insistere sul concetto di stragi. Si fa netta distinzione tra infoibati e deportati. Per l’inghiottitoio di Basovizza non ci si limita a rilanciare l’’ipotesi giornalistica’ dei 2500 martiri che vi sarebbero stati sepolti. Gli storici hanno voluto una ricostruzione ’rispettosa della memoria’ ma anche ’rigorosa’ rispetto a quello che già si conosce.
Il ’Giorno del Ricordo’ coincide, si sa, con la data esatta del Trattato di pace di Parigi (che nel 1947 sancì la perdita dei territori dell’Istria e di Pola) ed il drammatico esodo dei 350 mila italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia e le vittime delle Foibe. Si tratta di una delle pagine più drammatiche e dolorose della storia del Novecento sul confine Nordorientale.
Dopo decenni di letture opposte di quanto accaduto; di separazioni e lacerazioni, si tenta, appunto, una ricucitura. Tanto che domenica mattina il vescovo Ravignani officerà una messa sulla foiba, ritenendo, appunto, che, memoria a parte, ci siano i presupposti almeno per una memoria riconciliante. «Il Centro di documentazione testimonia in primo luogo il perenne omaggio dell’Italia - sottolinea Raoul Pupo, uno degli storici più autorevoli su quest’area del Paese - alle vittime delle stragi. Allo stesso tempo consente di offrire migliore risposta alla domanda di storia che negli ultimi anni si è fortemente intensificata, soprattutto da parte del mondo della scuola».
La mostra permanente allestita nel Centro presenta infatti una spiegazione, seppur sintetica, ma appunto condivisa, dei fatti, delle logiche che li hanno prodotti e della loro collocazione «all’interno della stagione di conflitti e prevaricazioni che ha purtroppo distinto il Novecento al confine orientale d’Italia».
Per intenderci, se gli sloveni vogliono venire oggi a Basovizza - chiosa Pupo - possono farlo senza sentirsi sotto accusa. La Commissione come è riuscita a raggiungere un approdo che nessuno contesta? «Abbiamo scelto di evitare ogni concessione alla retorica - risponde Pupo -, convinti che l’evidenza dei fatti possiede già una propria drammatica eloquenza.
Abbiamo inoltre cercato di evitare ogni ambiguità nel linguaggio, perché spesso in passato la confusione terminologica ha alimentato polemiche irrispettose delle memorie dolenti che quegli episodi ancora evocano, ed ha spalancato spazi al negazionismo». Gli storici non hanno abdicato alla loro professione.
Qui, al Centro di Documentazione, tutte le cose vengono chiamate con il loro nome. Nulla si tace. Nulla si media, tanto meno si sottopone a compromesso. «Si è messo in luce come le foibe, cioè le cavità carsiche - puntualizza Pupo - siano state utilizzate per far scomparire parte soltanto delle vittime delle stragi. E si è distinto fra gli infoibati e i più numerosi scomparsi nella deportazione ». Viene chiarito, per quanto possibile, ciò che accadde a Basovizza, tra la fine di aprile ed i primi di maggio del 1945, «ricordando - rileva ancora Pupo - i combattimenti partigiani e tedeschi, l’inumazione nel pozzo dei caduti in battaglia da parte germanica, le testimonianze che ci parlano di processi sommari e della fucilazione di alcune centinaia di persone di nazionalità italiana, i cui corpi vennero gettati nell’abisso assieme (non lo si dimentichi) a grandi quantità di materiali di ogni tipo. Abbiamo ricordato gli inutili tentativi di recupero delle salme e le polemiche che ne sono seguite, e particolare attenzione è stata dedicata ai deportati».
Farà discutere- ma anche questa memoria è stata condivisa - il collegamento tra le stragi del 1945, che ebbero il loro epicentro nelle province di Trieste e Gorizia, «e la cui responsabilità pesa sul movimento di liberazione guidato da Tito e sugli organi dello Stato comunista jugoslavo », con gli episodi simili accaduti in Istria nel 1943, sempre a danno degli italiani, ed anche con le ’violenze di massa’ che segnarono la fine della guerra in Slovenia ed in Croazia, «sempre ad opera dei partigiani comunisti».
La mostra consente al visitatore di allargare lo sguardo «per poter meglio comprendere come le stragi del 1945 abbiano costituito uno dei picchi delle violenze novecentesche nell’area dell’Adriatico orientale». Ecco, quindi, una carrellata di immagini che iniziano con la devastazione delle associazioni irredentiste italiane di Trieste nel 1915, che proseguono con l’incendio del Narodni Dom da parte dei fascisti nel 1920, la devastazione squadrista della sinagoga nel 1942, la creazione del lager nazista della risiera di San Sabba. Una tragica carrellata che si conclude con il campo profughi di Padriciano, vicino a Basovizza, che nel secondo dopoguerra ospitò alcuni gruppi di italiani esuli dall’Istria. «Si tratta di una sintesi delle tragedie del secolo scorso - osserva, concludendo, Pupo - concentrata in quello che non a caso viene chiamato sempre più spesso il laboratorio giuliano».
Foibe, l’Ue critica la Croazia: da Mesic linguaggio inappropriato *
«Il linguaggio utilizzato dal presidente croato è inappropriato». Anche se inizialmente da Bruxelles non si era voluta esplicitamente prendere posizione sulle durissime parole del presidente della Croazia Mesic contro il discorso di Napolitano in ricordo delle Foibe (Mesic ha parlato di «razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico»), adesso Pia Ahrenkilde, una delle portavoce della Commissione europea, sottolinea: «La Commissione ritiene che questo acceso scambio mostri quanto sia importante l’integrazione europea». La portavoce ha comunque ribadito l’auspicio già espresso martedì che le buone relazioni tra Croazia e Italia «si applichino anche a questa questione».
Proprio mercoledì il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha pronunciato davanti al parlamento europeo un discorso per rilanciare la Costituzione. E, rispondendo successivamente alle domande dei giornalisti, che gli chiedevano se siano gli egoismi economici o i buchi neri della memoria (come shoah e foibe) ad essere forieri di maggiori spaccature, Napolitano ha detto: «La soluzione di queste questioni sono i principi e i valori dell’Unione europea, di tolleranza, di pluralismo e di riconoscimento delle diversità e naturalmente di riaffermazione della libertà». Gli «egoismi nazionali» e le «visioni chiuse in senso nazionale» sono «certamente entrambe anacronistiche».
Poco prima, il Capo dello Stato, si era rifiutato di rispondere ad una domanda diretta di un giornalista inglese sulla querelle nata in Croazia dopo le sue dichiarazioni sull’eccidio delle Foibe. «Rispondo solo su questioni relative al contenuto del mio intervento nell’Aula del Parlamento europeo».
* l’Unità, Pubblicato il: 14.02.07, Modificato il: 14.02.07 alle ore 14.11
L’Italia e le foibe. No alla memoria unilaterale
di Giacomo Scotti (il manifesto, 13 febbraio 2007)
A giudicare dalla stampa slovena e croata che arriva a Trieste, i discorsi pronunciati in Italia per la «Giornata del ricordo», da quello del Capo dello Stato agli altri in centinaia di località, hanno destato interesse ma anche preoccupazione negli ambienti politici e nella popolazione della Slovenia e della Croazia, soprattutto in Istria. In questa regione, teatro degli eventi ricordati per le foibe e l’esodo, proprio in questi primi giorni di febbraio le associazioni della Resistenza e le famiglie delle vittime delle stragi fasciste e naziste, hanno commemorato le vittime di alcune stragi compiute nel febbraio 1944 dagli occupanti nazisti e dai collaborazionisti repubblichini italiani al loro servizio - militanti nella X Mas, nella Milizia Territoriale, nei reparti armati del Partito Fascista Repubblicano e in altre formazioni.
La «Giornata del Ricordo» del 10 febbraio, coincide dunque con anniversari altrettanto tragici e tristi per le popolazioni italiane, slovene e croate dell’Istria che, dopo una breve parentesi «partigiana» (dal 9 settembre ai primissimi giorni di ottobre 1943) conobbero l’occupazione nazista, l’annessione all’«Adriatische Kunstenland» tedesco e - soprattutto nei mesi di ottobre, novembre e dicembre del 1943 - un’interminabile serie di massacri di civili, di incendi di villaggi e di deportazioni. Con l’aiuto dei fascisti italiani i tedeschi diedero la caccia agli «infoibatori», ai combattenti della Resistenza, ai cosiddetti «badogliani» e a tutti coloro che gli si opponevano, massacrando nel giro di pochi mesi oltre 5.000 civili italiani e slavi e deportandone 12.000 nella sola Istria. Un’altra ondata di stragi e di distruzioni si ebbe nel febbraio-marzo-aprile 1944, sempre con la complicità e il sostegno dei fascisti italiani. Quello che la stampa slovena e croata rimprovera agli uomini politici italiani è il fatto che «la memoria italiana è una memoria selezionata»: è giusto rievocare le tragedie delle foibe e dell’esodo, ma perché - si chiedono il Novi List di Fiume, il Vjesnik di Zagabria, la Slobodna Dalmacija di Spalato, il Delo di Lubiana ed altri - non si ricordano i venti anni di persecuzioni fasciste contro gli slavi in Istria e le stragi in Montenegro, Dalmazia e Slovenia sotto l’occupazione dell’esercito italiano dall’aprile 1941 all’8 settembre 1945? Perché non si ricordano le vendette compiute «dopo le foibe del settembre 1943», nel litorale adriatico?
Il pubblicista e storico zagabrese Darko Dukovski, intervistato dal Novi List ha duramente condannato i «crimini della rivoluzione» riconoscendo che «la storia delle foibe è strettamente collegata alla storia dell’esodo degli italiani dall’Istria e da Fiume», aggiungendo che «una delle conseguenze delle foibe fu l’esodo e, quindi, lo stravolgimento della fisionomia etnica dei territori ceduti dall’Italia alla Jugoslavia col trattato di pace. Il che non significa, però, che fascisti e non fascisti furono gettati nelle foibe per stravolgere la fisionomia etnica della regione». Anche perché, sloveni e croati che pure finirono nelle foibe furono dieci volte più numerosi degli italiani. «Si offende la verità - continua lo storico - quando da parte italiana, oggi, si parla di genocidio e di pulizia etnica. Si tratta del tentativo di falsificare la verità storica, di presentare il movimento resistenziale croato e sloveno come criminale». Dukovski cita - senza però relativa data - un documento fascista: il tenente della Mvsn Domenico Motta che in una relazione segreta alla questura di Pola affermò che gli insorti istriani, nella prima metà di settembre 1943 avevano «liquidato» per lo più segretari del Fascio, podestà ed altri gerarchi insieme a innocenti vittime di vendette personali. E Conclude il suo intervento (due paginoni del quotidiano) difendendo le posizioni del presidente croato Stjepan Mesic. Affermando che «la vendetta delle foibe posta in atto dagli insorti-partigiani istriani» nel settembre 1943 ma anche nell’immediato dopoguerra, «non giustifica i crimini: le foibe restano un crimine ingiustificabile»; infine afferma che, «le ricerche devono continuare e bisognerà continuare a trattare questa tematica ma con obiettività, restituendola agli storici; purtroppo - sono certo che la verità e l’obiettività continueranno ad essere calpestate dai politici fino a quando le foibe e l’esodo serviranno a raccogliere consensi politici e voti. Il crimine non può essere dimenticato, deve essere ammonimento alle future generazioni, ma bisogna ricordare i crimini compiuti da ambo le parti».
Più o meno questa è la posizione degli osservatori croati e sloveni: sarebbe ora che i responsabili politici in Croazia e Slovenia riconoscessero apertamente, pubblicamente, le stragi compiute in Istria nel settembre 1943, a Zara e Fiume, a Trieste e Gorizia e dintorni nell’immediato dopoguerra da parte delle truppe jugoslave; non si deve però parlare di odio anti-italiano, perché migliaia di soldati italiani furono aiutati dai partigiani e civili croati e sloveni a salvarsi dai tedeschi. Gli eccidi che portarono alla morte o alla scomparsa si circa diecimila fascisti e non fascisti furono crimini e basta, non prodotto di odio anti-italiano. Al tempo stesso sloveni e croati chiedono che anche da parte italiana, e al più alto livello, ufficialmente, vengano riconosciute e condannate le stragi compiute dai fascisti e dall’esercito italiano in Montenegro, Dalmazia, Croazia e Slovenia dall’aprile 1941 all’inizio di settembre 1943, e le stragi dei repubblichini al servizio dei nazisti dall’ottobre 1943 a fine aprile 1945 sul «Litorale Adriatico». Solo così si potrà costruire una memoria condivisa.
LA MEMORIA DELL’ESILIO: ESODO E IDENTITA’ AL CONFINE DEI BALCANI di Pamela Ballinger, Il Veltro Editrice, Roma 2010, pagg. 512.
Nell’ormai vasto panorama della ricerca scientifica sul complesso tema di Istria e Dalmazia, questo ampio studio, tradotto in italiano a diversi anni dalla stesura originaria, deve essere segnalato per alcune peculiarità, a cominciare dalla straordinaria ricchezza della bibliografia, che comprende oltre 700 titoli, accuratamente catalogati in appendice, e quel che più conta, oggetto di specifiche consultazioni documentate, anziché della semplice elencazione tipica di tanti testi che vanno per la maggiore. Un altro carattere particolare importante è costituito dal fatto che l’Autrice non appartiene al mondo della storiografia, ma a quello dell’antropologia culturale comparata, e prima ancora, dalla sua nazionalità statunitense: cosa tanto più ragguardevole, perché in precedenza gli studi americani sulla questione adriatica avevano avuto dimensioni marginali, fatta eccezione per qualche importante monografia come quella di Michael Ledeen sull’impresa fiumana di Gabriele d’Annunzio.
La Ballinger non si è limitata a svolgere un pur encomiabile “desk work” ma si è impegnata in una ricerca sul campo che ha richiesto la permanenza di circa un anno e mezzo sul posto, con presenze particolarmente significative a Trieste ed a Rovigno, arricchite da una lunga serie di interviste ad esponenti degli Istituti di ricerca ed a quelli del momento politico, e soprattutto ai protagonisti di base: da una parte, gli esuli da Venezia Giulia e Dalmazia, e dall’altra, i cittadini sloveni e croati di espressione italiani, i cosiddetti “rimasti”. Ne è scaturito un affresco di grande interesse anche dal punto di vista psicologico, in specie per l’analisi delle diverse motivazioni che, sia nell’uno che nell’altro gruppo, diedero vita, spesso dopo vivaci dibattiti familiari, alla decisione di esodare o di rimanere.
A monte dei singoli drammi, restano la grande tragedia collettiva della guerra e la consapevolezza che le ragioni ed i torti fossero difficilmente separabili, tanto più che alle responsabilità di parte italiana ed a quelle senz’altro maggioritarie di parte jugoslava si andarono a sommare le “colpe” degli Alleati, incapaci di comprendere quanto accadeva, come nel caso emblematico di Pola, dove le maggiori attenzioni delle Potenze di occupazione non furono dedicate alla grande emergenza dell’esodo ed alla sua concentrazione nell’angoscioso inverno del 1947, ma alle partenze del Governo militare anglo-americano e delle forze armate che lo supportavano (non a caso, la gestione di detta emergenza fu posta a carico del Governo italiano, con tutti gli ulteriori problemi derivanti dalla sua lontananza fisica e dalle priorità della ricostruzione postbellica).
Pagine importanti sono dedicate dalla Ballinger, secondo logica, alla questione di Trieste, dove venne creandosi il primo nucleo significativo di quella lunga stagione della politica internazionale che sarebbe passata alla storia con il nome di Guerra Fredda, e dove il dramma delle foibe conobbe momenti particolarmente tragici nei quaranta giorni di occupazione titina, dopo la fine della guerra, con una virulenza quasi peggiore di quella che aveva caratterizzato la prima “ondata” del 1943 in Istria e Dalmazia, se non altro perché elevata a sistema politicamente programmato da parte del regime comunista jugoslavo, mentre dopo l’otto settembre le esplosioni di violenza avevano assunto, in alcuni contesti, i segni di una “jacquerie” a sfondo prevalentemente classista.
L’Autrice, nonostante la sua formazione scientifica, dimostra di muoversi con discernimento nelle vicende di una storia particolarmente poliedrica come quella di Venezia Giulia e Dalmazia e di conoscere uomini e cose con una profondità motivazionale suffragata proprio dalla sua preparazione antropologica di base. Nello stesso tempo, aderisce sia pure inconsapevolmente all’assunto di Tacito secondo cui per “professare incorrotta fedeltà al vero, di ciascuno bisogna parlare senza amore e senza odio”, ma ammette che l’esperienza dell’esodo finì per segnare in maniera incancellabile la vita dei suoi protagonisti, tanto da renderne problematica la descrizione degli eventi e da farne, in tanti casi, dei veri e propri “sradicati”, come i profughi erano stati definiti, mezzo secolo prima della Ballinger, da Don Luigi Stefani, il non dimenticato Cappellano alpino esule da Zara.
L’approccio esterno, pur corretto da un’indagine metodologicamente corretta, finisce spesso per creare qualche discrasia, come è accaduto in questo volume: ad esempio, quando si afferma che Trieste è diventata “più italiana” a seguito dell’esodo istriano, e che nella città di San Giusto vennero espropriati terreni slavi per costruirvi le case destinate ai profughi; quando si sostiene che la conquista dannunziana di Fiume fu opera di una “banda” di disertori; quando si sottolinea che talune Associazioni degli esuli hanno dato soverchio spazio a personaggi “compromessi con il regime fascista” ed a pregiudiziali irredentiste che l’Autrice manifesta di non condividere; o quando si insiste sul processo di “vittimizzazione” che avrebbe contraddistinto per tutti questi decenni il movimento giuliano e dalmata, al pari degli stessi “rimasti” (sebbene alcuni di loro avessero deciso di accettare il regime di Tito per dichiarata adesione all’ideologia comunista). Peggio ancora, per alcuni infoibati non si manca di porre in luce come costoro fossero stati fascisti e collaboratori dei tedeschi, quasi per insinuare che la colpa del loro assassinio finisce per essere quanto meno affievolita: d’altra parte, non si può dimenticare che la Ballinger è americana e che, in quanto tale, non può “mentire alle proprie radici” pur cercando di restare per quanto possibile al di sopra delle parti.
Non mancano errori contingenti dovuti ad informazioni inesatte, come quando si dice che il Presidente della Federazione degli Esuli, Renzo Codarin, è stato un parlamentare di Alleanza Nazionale, o quando si chiarisce che il Cavalierato di Vittorio Veneto era un’onorificenza spettante ai nati nel 1909 (!) che nel corso della prima guerra mondiale avevano combattuto sul fronte dell’Isonzo, senza dire dell’insensibilità con cui Redipuglia viene definita un “ricettacolo” di tombe (ma nella fattispecie può avere inciso negativamente una traduzione talvolta perfettibile).
Nella generalità dei casi la Ballinger è ben documentata, anche alla luce delle opportune verifiche: ad esempio, nel porre in evidenza il carattere “sacrale” assunto dalle foibe, in particolare grazie all’opera del Vescovo di Trieste e Capodistria, Mons. Antonio Santin, od a quella di Padre Flaminio Rocchi; nella questione dei criminali di guerra o presunti tali che vennero richiesti all’Italia da parte jugoslava in misura largamente superiore a quanto era accaduto per gli altri Stati vincitori, od in quella del “processo agli infoibatori” conclusosi con un nulla di fatto a causa di opinabili valutazioni giudiziarie. Ciò, per non dire dello scandalo del pagamento di circa 30 mila pensioni dell’INPS a favore di aventi causa jugoslavi che potessero vantare periodi sia pure minimi di lavoro durante il periodo di sovranità italiana, o peggio, di servizio partigiano nell’Armata rossa di Tito (la Ballinger precisa che le pensioni versate all’estero sono circa 600 mila, per cui quelle pagate in Jugoslavia ne costituivano “solo” il cinque per cento, ma non aggiunge che avevano ben diversa matrice giuridica e che si giovano persino di reversibilità integrale).
Vengono proposti all’attenzione del lettore diversi episodi toccanti come quello del piccolo Leonardo esule dalla Zona “B” a cui il poliziotto italiano di guardia alla frontiera offre una cioccolata calda, primo tangibile segno della “diversa” civiltà occidentale; dell’usanza istriana di raccogliere il pane che fosse caduto da tavola affrettandosi a baciarlo per riconoscerne la sacralità; o delle ricorrenti visite di tanti esuli (anche per l’etimo, cacciati “extra solum”, secondo la definizione datane tredici secoli or sono da Isidoro di Siviglia) alle tombe rimaste in Istria, come manifestazione di “pietas” e segno di religiosità, ma nello stesso tempo di tutela sia pure minima dell’ultimo simulacro di italianità.
Pamela Ballinger conosce bene la storia, dal patto di amicizia italo-jugoslava del 1937 alle ragioni che la infransero quattro anni dopo; dall’impegno nella RSI di uomini come Carlo Mazzantini, sensibili soprattutto al richiamo dell’onore, al fatto che l’Italia abbia avuto, assieme alla Danimarca, la più alta quota percentuale (quasi nove decimi) di ebrei sopravvissuti all’Olocausto nell’ambito dell’Europa occupata, secondo la testimonianza di Susan Zuccotti; dalle vicende del “diktat” alla drammatica farsa di Osimo, a proposito della quale non esita a porre in evidenza che il voto di ratifica in Parlamento sarebbe stato “incentivato” da compiacenti bustarelle, ben più potenti della definizione di “trattato imbecille” datane dall’On. Giacomo Bologna, democristiano dissidente, e dell’opposizione sostenuta dalla Lista per Trieste, di cui viene messo in luce il limite derivante dall’aggregato interpartitico.
Resta il fatto che nove italiani su dieci decisero di esodare e che molti di costoro, come rileva la Ballinger, erano di sinistra: quella di partire non fu una scelta, ma un’opzione largamente maggioritaria, che in tanti casi ebbe per motivazione saliente il “pensare al futuro dei nostri figli” (in altri termini, una ragione non già ideologica ma pragmatica, al pari di quella di tutti coloro che fuggivano per il rischio di infoibamento). Resta il fatto che l’accoglienza in Italia fu spesso matrigna, tanto da spingere all’emigrazione un quarto dei profughi e da alimentare nei loro cuori un sentimento di profonda delusione nei confronti della Patria, o meglio della sua classe politica responsabile di averli traditi ancora una volta (era già accaduto ai dalmati nel 1919 ed ai fiumani nel 1920). E resta il fatto che tutti gli istriani sono stati vittime, compresi i pochi “rimasti” costretti ad annegare in un oceano slavo, secondo la felice espressione di Loredana Debeliuh Bogliun.
Oggi, molti esuli “provano malessere” quando tornano a Pola, a Fiume od a Zara ed avvertono una lontananza siderale dalla loro terra, sebbene geograficamente vicina. Ecco un sentimento che spesso si cerca di sopire e che l’Autrice ha il merito di avere posto nella giusta luce, pur senza essere in grado di indicare una terapia idonea a superare questa sensazione di ineluttabilità: dopo tutto, non tocca prioritariamente a lei, che è americana, proporre soluzioni od antidoti, Ciò compete con tutta evidenza al movimento giuliano e dalmata e prima ancora ai tanti protagonisti della complessa vicenda adriatica, chiamati a trovare conforto nella fede ed a trasmettere alle generazioni avvenire l’impegno di realizzare il proprio sogno di giustizia.
carlo cesare montani
Rimasti e rimanenza A proposito dei cittadini croati e sloveni di espressione italiana
Nelle occasioni ufficiali e nella stessa pubblicistica giuliana, istriana e dalmata si parla, ormai sistematicamente, dei cosiddetti “rimasti”, ovvero di coloro che non scelsero la via dell’esilio e preferirono stare a casa, nella presunzione che questa scelta fosse, a vario titolo, la più conveniente. E’ appena il caso di rilevare che oggi, nella classificazione dei “rimasti”, si comprendono anche i loro eredi di seconda e terza generazione, diversamente da quanto accade per gli esuli, nel cui caso si preferisce fare riferimento ai discendenti, che esprimono una realtà diversa, per non avere sperimentato, in specie nel caso dei più giovani, il dolore della partenza e della diaspora.
Sulla quantificazione degli esuli e dei “rimasti” si sono versati fiumi d’inchiostro, ma nessuno può sollevare il minimo dubbio sulla differenza abissale che separa gli uni dagli altri. Il solo fatto che l’esodo si sia protratto per tanto tempo, alla luce delle diverse vicende politiche occorse alle zone di provenienza (Zara e Fiume apparvero subito condannate, mentre a Pola, e soprattutto nella Zona “B” del mai costituito TLT si confidò a lungo nella salvezza, senza dire che molti attesero le elezioni italiane del 18 aprile 1948 nel timore di un successo comunista) ha reso impossibile una rilevazione precisa, ma le fonti più accreditate sono concordi nella stima di 350 mila unità.
La percentuale dei “rimasti”, alla fine, fu quasi marginale, tanto che la storiografia contemporanea ne quantifica la consistenza in meno di 30 mila. Si deve aggiungere che gran parte di costoro appartengono alle nuove generazioni, costituite dai figli e dai nipoti di quelli che scelsero di restare; e che laddove si effettuasse una trasposizione analoga per gli esuli, la cifra iniziale di 350 mila aumenterebbe a dismisura, dovendosi tenere conto di un’evoluzione demografica quanto meno proporzionale.
Prescindendo dalle cifre, da cui emergono grandezze comunque non comparabili, va detto che al giorno d’oggi parlare dei “rimasti” come di italiani che furono in grado di resistere alla prevaricazione ed all’usurpazione, o se non altro, di tenere alta la bandiera, è una palese forzatura, trattandosi nella realtà di cittadini croati e sloveni di espressione italiana, o meglio bilingue. In effetti, non si può parlare nemmeno di “rimasti”, se non per la quota ormai largamente minoritaria di quanti decisero di non esodare.
Rimanere, secondo il vocabolario, vuol dire restare, ma fra gli altri significati, concordare: cosa che si può condividere senz’altro anche nella fattispecie, perché la maggioranza dei “rimasti”, fatta eccezione per talune persone anziane e malate, fu certamente d’accordo, almeno in una prima fase, con il nuovo regime e con le sue promesse di palingenesi democratica ed egualitaria: un sogno utopistico, che avrebbe indotto bruschi e drammatici risvegli dei quali è rimasta traccia significativa in memorie e testimonianze dirette e nelle realizzazioni cinematografiche dell’epoca, come “La città dolente”.
Oggi, i veri “rimasti” altro non sono, a ben vedere, se non la rimanenza della rimanenza, ed in ogni caso, esprimono una componente etnica del tutto marginale nell’ambito dei rispettivi Paesi. In particolare, gli sloveni di espressione italiana sono poco più dell’uno per mille, mentre in Croazia la quota è di poco superiore, ma sono tredici le altre etnie quantitativamente prevalenti.
Con questo, non si vuol dire che i “rimasti” non abbiano diritto a specifiche attenzioni, ma dimensionare il fenomeno nella sua reale consistenza e sottolineare, cifre alla mano, che la grande scelta di giustizia e di civiltà fu fatta solo dagli esuli, a cui dovrebbero competere riconoscimenti che, al contrario, sono stati sempre negati, o nella migliore delle ipotesi elargiti con il contagocce (basti pensare alla tutela delle tombe oltre confine, alla surreale vicenda degli indennizzi o risarcimenti che dir si voglia, alle questioni anagrafiche e previdenziali, e per finire, al lungo silenzio ufficiale sulle vicende storiche di Venezia Giulia e Dalmazia, ed in particolare, sull’esodo e sulle foibe, eliso dal “Giorno del Ricordo” in misura spesso strumentale).
Non appare ragionevole sostenere che quello dei “rimasti” sia stato un merito, come capita di leggere in qualche dichiarazione ufficiale o nella stessa storiografia: al massimo, si potrà parlare di condizioni rese necessarie dalle circostanze, a meno che non si voglia dare un giudizio di valore positivo sul fatto di avere abbracciato l’invasore, in quanto vessillifero di una nuova ideologia che peraltro sarebbe stata impietosamente condannata dagli eventi.
Si potrebbe aggiungere che qualcuno di costoro è arrivato ad affermare, per dirne una, che la strage di Vergarolla del 18 agosto 1946 fu dovuta ad un mozzicone di sigaretta, quando tutti sanno quali ne furono le matrici, ed ora, anche nomi e cognomi dei responsabili, ma è preferibile sorvolare su interpretazioni surreali che non hanno alcun riscontro scientifico, né tanto meno, uno straccio di testimonianza.
Si può comprendere, ma non sempre giustificare - come nel caso di realizzazioni inutili per la mancanza di soggetti interessati a fruirne - che il Governo italiano intenda supportare la presenza “italiana” in Istria e Dalmazia, ma non si può fare a meno dal sottolineare che tali interventi, anziché maggioritari, avrebbero dovuto essere subordinati alle giuste e necessarie misure in favore degli esuli, già offesi dalle tante discriminazioni, fra cui i trattamenti pensionistici graziosamente elargiti a fior di infoibatori (senza dire che alcuni interventi, come quello in materia anagrafica, avrebbero avuto costo zero per la finanza statale).
La cooperazione è certamente commendevole, ma non deve essere a senso unico, se non al costo di perdere ogni fondamento etico.
carlo cesare montani
Giù le mani dalle foibe
di Enzo Collotti (il manifesto, 11.02 2007)
I fatti ci hanno dato ragione. I timori che avevamo espresso fin da quando fu istituito il giorno del ricordo si sono puntualmente avverati. Anche dalle più alte cariche dello Stato si è sentito il dovere di enfatizzare una retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del nostro passato, l’unica che possa servire ad elevare il nostro senso civile, ma che alimenta ulteriormente il vittimismo nazionale. Per questo vogliamo ribadire quanto scrivevamo già due anni fa con la prima Giornata del Ricordo per onorare le vittime delle foibe.
Non era difficile prevedere che collocare la celebrazione a due settimane dal Giorno della Memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno l’unico denominatore comune di appartenere tutte all’esplosione sino allora inedita di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia. Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili la cosa più sorprendente è l’incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l’incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile e ambiguo pentitismo, non contribuisce - come fa il discorso del presidente Napolitano - a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.
La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia, di una regione italiana, senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell’italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell’italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando parliamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l’Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro paese.
Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d’Aosta) addirittura da prima dell’avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica?
I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero, che volevano impedire lo sviluppo dei porti jugoslavi per conservare all’Italia il monopolio strategico ed economico dell’Adriatico. Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega?
Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell’arco di un ventennio con l’esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell’odio, delle foibe, dell’esodo dall’Istria.
Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. Al singolo, vittima di eventi più grandi di lui, può anche non importare capire l’origine delle sue disgrazie; ma chi fa responsabilmente il mestiere di politico o anche più modestamente quello dell’educatore deve avere la consapevolezza dei messaggi che trasmette, deve sapere che cosa significa trasmettere un messaggio dimezzato, unilaterale. Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale (Msi) un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell’esodo per rinfocolare l’odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l’unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionalistico e della guerra fredda.
I profughi dall’Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell’Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci ha esortato Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, 2005) bisogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell’Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall’Istria, ma l’Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornavano (i più fortunati) dai campi di concentramento - di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari - centinaia di migliaia - che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione?
La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte rimozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d’Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.
Foibe, le ferite nascoste
di Guido Crainz (la Repubblica, 10.02.2007)
Nel terzo anno in cui si celebra la "giornata del ricordo" delle vittime delle foibe e dell’esodo istriano - nella data del Trattato di Pace di Parigi, siglato il 10 febbraio del 1947, sessant’anni fa - è forse possibile comprendere ciò che l’iniziativa ha stimolato e ciò che ha lasciato ancora in ombra. Indubbiamente ha contribuito al superamento di una prolungata rimozione, ha permesso il riemergere della memoria dolente e ferita di una lacerazione significativa: eppure qualcosa sembra ancora sfuggire, la ricostruzione del passato appare ancora insufficiente.
Certo, è cresciuta la consapevolezza che il dramma del secondo dopoguerra è parte di una storia più lunga, e su questo si sofferma ora in modo puntuale un saggio di Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale (Il Mulino, pagg. 392, euro 27). Da tempo gli studi della Cattaruzza hanno richiamato l’attenzione su questo nodo, e hanno contribuito al tempo stesso a inscrivere il tragico epilogo della vicenda istriana in una vicenda più ampia, anch’essa largamente rimossa. Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo era il titolo di un volume da lei curato qualche anno fa assieme a Marco Dogo e Raoul Pupo che collocava l’esodo giuliano all’interno dell’Europa del 1945: con particolare riferimento alle feroci espulsioni di milioni di tedeschi dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria, e alle ancor più feroci espulsioni reciproche di polacchi ed ucraini da aree che li avevano visti convivere per secoli.
L’Italia e il confine orientale è interamente dedicato alle vicende specifiche e di lungo periodo di quest’area: l’acutizzarsi delle tensioni fra nazionalità già all’interno dell’impero asburgico; la radicalizzazione nazionalistica provocata dalla prima guerra mondiale e l’annessione all’Italia di territori in cui vivevano centinaia di migliaia di sloveni e croati; il violento affermarsi del fascismo e poi la politica del regime; l’occupazione italiana e tedesca della Jugoslavia nel 1941 e poi l’operare - dopo l’8 settembre del 1943 - della "Zona di operazioni Litorale Adriatico", alle dirette dipendenze della Germania. In questo quadro incandescente - in cui gli odii fra nazionalità erano già portati all’estremo - si inserì la politica di Tito, volta esplicitamente ad annettere alla Jugoslavia l’intera Venezia Giulia. Di qui i traumi drammatici della fase finale della guerra e del dopoguerra, con la tragedia delle foibe e l’esodo della quasi totalità degli italiani da quelle zone.
Una storia di lungo periodo, dunque, tratteggiata efficacemente molti anni fa in uno dei tanti, densi romanzi dello scrittore istriano Fulvio Tomizza, La miglior vita. Su questa stessa storia rifletteva già nel 1947 Ernesto Sestan, il grande storico di origine istriana, che dedicava «alle ceneri dei miei vecchi, là nel cimitero di Albona» un libro di straordinaria e dolente finezza intellettuale, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale. Il dolore non faceva velo alla lucidità critica dello storico, capace di tratteggiare magistralmente l’inasprirsi dei nazionalismi ottocenteschi, e poi le responsabilità del fascismo. «Un fascista giuliano che sarà poi ministro di Mussolini», annotava Sestan, «ha riassunto così "il programma di snazionalizzazione: "Bisogna impedire agli avvocati slavi che sono pericolosi la libera attività (...). Bisogna togliere i maestri slavi dalle scuole, i preti slavi dalle parrocchie"». I più, nella popolazione italiana, "applaudirono o assentirono tacendo".
In questo quadro irrompe la guerra, e nel 1941 vi è l’occupazione della Jugoslavia da parte della Germania, dell’Italia e dell’Ungheria: quell’aggressione congiunta, osserva Marina Cattaruzza, «implicava per il popolo sloveno un pericolo incombente di estinzione», provocava «un senso di giustificata angoscia» per la possibilità stessa di sopravvivere come entità collettiva.
Abbiamo da tempo documentati studi sulla crescente ferocia dell’occupazione fascista della Slovenia, così come sul trauma dell’8 settembre e poi sul controllo nazista del territorio. Per una breve fase in Istria, in quel settembre, sono i partigiani jugoslavi a tenere il campo, e si ha allora la prima esplosione di violenze anti-italiane. Si svolge in quei giorni anche il dramma di Norma Cossetto, uccisa barbaramente a ventitré anni: un libro di Frediano Sessi, Foibe rosse (Marsilio, pagg. 149, euro 12) lo ricostruisce con sensibilità e partecipazione. Ai molti studi sulla tormentata e complessa fase che porta al dopoguerra si aggiunge ora uno sguardo non riducibile a schemi e a odii, una "anomalia" di grande umanità: Borovnica ‘45, al confine orientale d’Italia. Memorie di un ufficiale italiano, di Gianni Barral (a cura di Renzo Timay e con penetranti Note di inquadramento storico di Raoul Pupo). Il testo è pubblicato dalle Edizioni Paoline (pagg. 303, euro 16), ma era già comparso nella rivista Zaliv (Il golfo), fondata e animata dallo scrittore sloveno di Trieste Boris Pahor.
È davvero una testimonianza particolare. Agli inizi del 1943 Barral è un giovane studente di origine provenzale, ufficiale degli alpini, inviato a presidiare la Valle dell’Isonzo: scopre qui il mondo sloveno, nella cui cultura e nella cui lingua si immerge con passione. Conosce, anche, la ragazza che poi sposerà. Il suo sguardo ci avvicina a un caleidoscopio di culture e di vicende, ci fa scoprire inaspettati momenti di solidarietà umana e di pietas anche all’interno delle diverse fasi di una guerra feroce, e di un feroce dopoguerra: nel maggio del 1945, dopo un complesso percorso, Barral è deportato appunto nel campo di concentramento di Borovnica, un inferno. Per la sua conoscenza dello sloveno è utilizzato nell’amministrazione del campo, e ce ne riferisce. Il maggio del 1945 è anche il mese che segna il culmine delle violenze anti-italiane a Trieste, Gorizia e nelle zone controllate allora dai partigiani jugoslavi, con migliaia di persone gettate nelle foibe o uccise nelle prigioni e nel corso di disumani trasferimenti (muoiono in questo modo anche sloveni e croati ostili al nuovo regime).
Inizia allora la fase che porta alla Conferenza di Parigi, cui Alcide De Gasperi si presenta con amara e lucida consapevolezza: «Prendendo la parola a questo congresso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me» (è il tema de L’Italia e il trattato di pace del 1947 di Sara Lorenzini, pubblicato ora da Il Mulino, pagg. 218, euro 12). Prende avvio in quei mesi il grande esodo: «I fuggiaschi di Pola e dell’Istria», scriveva Giani Stuparich, «sbarcavano come storditi, si afflosciavano sulle rive, accanto alle loro misere masserizie». Si alternano allora speranza e disperazione, alimentate sino al "Memorandum di intesa" del 1954 dalle discussioni fra le potenze sulla definizione dei confini: e l’esodo non conosce più freni quando quei confini appaiono ormai tracciati.
È la vicenda che ci è stata raccontata con grande intensità da Marisa Madieri, Anna Maria Mori, Nelida Milani, o dall’Enzo Bettiza di Esilio, e da una miriade di altre voci. A lungo inascoltate, o quasi, ci hanno riproposto straniamenti e sofferenze, non solo materiali. Hanno disegnato l’immagine di un’Italia che «all’inizio è stata una matrigna», per citare una delle testimonianze proposte da Enrico Miletto in Istria allo specchio (Franco Angeli, pagg. 288, euro 16). Utilizzando con intelligenza e attenzione un’ampia mole di fonti orali Miletto ricostruisce le molteplici vie che disperdono istriani e dalmati nell’umiliante esperienza dei campi profughi e altrove, in un’Italia che mostra spesso estraneità, incapacità di accogliere. Continuando un lavoro precedente (Con il mare negli occhi, pubblicato sempre da Angeli) Miletto pone quella Italia, in realtà, di fronte a uno specchio impietoso.
Una storia lunga, dunque, un intrecciarsi di dolori e lacerazioni che possiamo comprendere appieno solo ponendo a confronto punti di vista differenti, facendo dialogare le diverse e opposte memorie che in questa storia si sono sedimentate, al di qua e al di là di confini che dovrebbero ora avviarsi a scomparire. Questo in larga misura ancora ci manca, e a colmare questa lacuna occorre lavorare. Possono acquistare ulteriore, positivo significato in questo quadro quegli atti simbolici e istituzionali di pacificazione fra Italia, Slovenia e Croazia che sono ancora allo studio, e di cui si è parlato anche di recente. All’interno della costruzione di un’Europa più ampia atti pubblici di questo tipo sono stati compiuti da tempo in paesi segnati da lacerazioni del passato ancor più profonde. E naturalmente atti simbolici diventano realmente fecondi se li accompagnano processi culturali capaci di coinvolgere in profondità la società, la scuola, tessuti connettivi differenti e molteplici. Siamo ancora lontani da questo. Siamo lontani da un confronto diffuso di conoscenze e di vissuti che sappia comprendere le sofferenze e i dolori di tutte le vittime, e che permetta a ogni comunità nazionale di riconoscere anche le proprie responsabilità. Alcuni anni fa una commissione storico-culturale italo-slovena ha segnato comunque un avvio importante, mentre nei rapporti con la Croazia le rigidità e le difficoltà sembrano maggiori anche su questo terreno. È solo piccola parte, naturalmente, del più ampio confronto culturale che riguarda un’Europa segnata sotterraneamente più di quanto si creda da traumi lontani: lo hanno segnalato l’estate scorsa le accese polemiche suscitate in Germania, in Polonia e altrove da una mostra berlinese sulle espulsioni di tedeschi dall’Europa centro-orientale del 1945. Misurarsi con ferite talora nascoste, rimuovere sordità, far dialogare memorie ancora tenacemente divise appare oggi aspetto non secondario e non superfluo di un impegno culturale.
Lettera via e-mail di don Aldo Antonelli (fls)
L’amministrazione fascista di Avezzano ha tappezzato la città di manifesti in ricordo delle Foibe. E’ bene ricordare a questi signori che la causa scatenante del sentimento antitaliano è stato proprio il regime fascista.
Sentite cosa ebbe a dire Mussolini:
"Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani". Benito Mussolini, 1920
Un fascista giuliano che sarà poi ministro di Mussolini ha riassunto così il programma di snazionalizzazione slava: "Bisogna impedire agli avvocati slavi che sono pericolosi la libera attività (...). Bisogna togliere i maestri slavi dalle scuole, i preti slavi dalle parrocchie" (Ernesto Sestan: "Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale").
Vi [...] segnalo l’articolo di Guido Crainz su La Repubblica di oggi.
Un abbraccio a tutti
Aldo
È vergognoso che un prete giustifichi la violenza !!
Vorrei ricordare a questo "don" che furono infoibati anche civili, antifascisti, sloveni anticomunisti e membri di quel Comitato di liberazione nazionale tanto temuto da Tito e dalle sue mire annessionistiche.
Giustificare una mattanza umana simile, eseguita persino a guerra finita, da uno che porta una croce sul petto, non è solamente scandaloso, ma sacrilego !!
Caro Biagio
vedo che continui (ripeto: come negli altri interventi dei vari forum) a non ascoltarti e, come si evidenzia anche in questo caso, chi non sa ascoltarsi non sa nemmeno ascoltare e leggere le parole altrui .... e parla solo di sé!!!
Don Aldo parla d’altro!!! - e non dà affatto un contributo per "giustificare", ma sollecita solo a connettere insieme memoria e verità ... e a non dimenticare la lezione della Montagna (del messaggio evangelico, come della Costituzione - vedi la lezione di Piero Calamandrei !!!).
M. saluti,
Federico La Sala
Nuova luce sull’orrore delle foibe
La Giornata del ricordo oggi celebra una memoria finalmente condivisa. Ma sloveni, croati e italiani devono interrogarsi ancora sul proprio passato
di GIANNI OLIVA *
Primavera 1945: mentre il resto dell’Italia esce dal conflitto tra le ferite da rimarginare e l’ansia del «si ricomincia», sul confine Nord orientale la guerra prosegue nella pace. A Trieste, a Gorizia, nell’Istria molti italiani scompaiono portati via dalle proprie case dall’Ozna, la polizia politica dell’esercito jugoslavo del maresciallo Tito. Si tratta di persone coinvolte con il vecchio regime fascista, di antifascisti attivi nel comitato di liberazione nazionale della Venezia Giulia, di impiegati dello Stato italiano, di cittadini che non appartengono a nessuna di queste categorie ma che per una vendetta privata, un regolamento di conti vengono coinvolti nel dramma di quei giorni. Gli arrestati «scompaiono» e di loro non si sa più nulla: molti saranno uccisi e gettati nelle foibe, i grandi inghiottitoi naturali di cui è cosparso il territorio Carsico.
Altri moriranno in campi di concentramento in Slovenia e in Croazia. Difficile dire quanti: la cifra oscilla tra una valutazione minima di 5 mila morti e una massima di 12 mila: in ogni caso si tratta di una strage che non trova paragoni nella storia italiana in tempo di pace.
Il maresciallo Tito voleva l’Istria e Trieste
Il retroterra di questa violenza sono le sedimentazioni del ventennio fascista, le arroganze del nazionalismo italiano del ventennio, le durezze dell’occupazione italo-tedesche dei Balcani nel 1941-‘43. Su questo retroterra si inserisce però un preciso progetto politico del nazionalcomunismo di Tito: il maresciallo voleva raggiungere il confine dell’Isonzo e annettere alla nuova Jugoslavia le terre mistilingue dell’Istria e quelle a netta prevalenza italiana di Trieste, Gorizia e Monfalcone. Perché al tavolo delle trattative di pace venisse riconosciuta una annessione così ampia era però necessario che nessuno, in quelle terre, difendesse l’identità italiana: da qui la strage etnico politica delle foibe.
Su questi fatti è caduto nel corso del tempo un triplice silenzio. Silenzio internazionale, in primo luogo: quando nel 1948 Tito rompe i rapporti con l’Unione Sovietica di Stalin diventa per l’Occidente un interlocutore che, come tale, non deve essere messo in difficoltà con domande imbarazzanti. Silenzio di partito: per il Pci di Togliatti parlare di foibe significava evidenziare le contraddizioni tra la sua natura di partito «nazionale» e la sua politica «internazionalista». Silenzio di Stato: l’Italia del 1945 vuole presentarsi come un Paese vincitore e rimuove dalla sua memoria tutto ciò che riguarda la sconfitta. Non si parla di infoibati e di profughi giuliano-dalmati perché nessun Paese vincitore ha migliaia di concittadini assassinati dopo la fine della guerra e altre centinaia di migliaia costretti ad abbandonare le loro terre.
Non più bandiera della destra, tabù della sinistra
Oltre sessant’anni dopo ci sono le condizioni per una memoria condivisa? Per molti anni le foibe sono state considerate una bandiera dalla destra e un tabù dalla sinistra. La larga maggioranza parlamentare che nel 2004 ha istituito del 10 febbraio la Giornata nazionale del ricordo è stato il segnale importante di un superamento delle lottizzazioni ideologiche del passato.
Tanta strada è però ancora da percorrere: sloveni e croati da un lato, italiani dall’altra, se vogliono essere consapevolmente cittadini d’Europa devono interrogarsi sul proprio passato, gli uni riconoscendo gli orrori delle foibe, gli altri le violenze del fascismo e della guerra ’41-’43 nei Balcani. Le «memorie» che vogliono rafforzare il presente e guardare al futuro non possono essere fatte di omissioni e di censure, ma devono fondarsi su consapevolezze critiche e onestà intellettuale.
* La Stampa, 10/2/2007
Caro Federico,
penso invece di saper leggere e ascoltare molto bene le parole altrui. E di saper leggere anche "fra le righe".
Definire fascista, una giunta comunale, democraticamente scelta, è già offensivo per le persone che ne fanno parte e per gli abitanti di quel paese che l’hanno eletta (altro che lezione della montagna !).
L’intervento del "don" è chiaramente indirizzato a quella parte politica che ha il coraggio di denunciare quei massacri, al contrario di quell’altra parte politica che ha sempre cercato di sminuirne la portata storica, e quindi politica e morale, così come ha cercato da sempre di giustificare o di nascondere gli assassinii di tutti quei fascisti sconfitti e trucidati dai nostri "bravi partigiani".
Non possiamo essere così ipocriti, ignorare i fatti e giustificare ciò che è inamissibile !Le fosse ardeatine, Marzabotto, i morti della Lombardia, sono verità che danno fastidio a una parte politica, che ha sempre cercato di nascondere la storia di una parte dell’Europa, quella caduta in una dittatura (comunista) che ha causato molti più morti del nazismo !
Inviterei don Aldo a trascorrere più tempo nel confessionale e di occuparsi meno di politica...
Caro Biagio mi auguro che lo stesso don Antonelli abba l’occasione per risponderti. Per quanto mi riguarda, confermo quanto già detto. Continui a concepirti le cose con spirito risentito e ancora molto al di qua delle inequivocabili e limpide dichiarazioni già di Ciampi e ora di Napolitano.
Questa la mia opinione. Ad ogni modo, come sempre, ti ringrazio per l’intervento.
M. saluti,
Federico La Sala
Il capo dello Stato alle celebrazioni del "Giorno del ricordo". "Assumerci la responsabilità di aver negato la verità per ideologia"
Foibe, Napolitano consegna le medaglie d’oro "Riconoscimento troppo a lungo mancato"
Il presidente ha ricordato "le vittime di una furia che assunse i contorni di una pulizia etnica". Plauso bipartisan al discorso. Fini: "Belle parole". Commenti favorevoli da Udc e dal vicepremier Rutelli *
ROMA - "Un riconoscimento troppo a lungo mancato, un dramma negato per ideologia". Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano alla cerimonia dedicata alle vittime delle foibe. Il capo dello Stato ha consegnato oggi una medaglia d’oro ed un diploma ai parenti di trenta italiani uccisi nell’ambito della persecuzione etnica scatenata dalle milizie titine tra Trieste e Fiume alla fine della seconda guerra mondiale.
"Non dobbiamo tacere, - ha detto Napolitano - assumendoci la responsabilità di aver negato o teso ad ignorare la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica" il dramma del popolo giuliano-dalmata. E’ stata una tragedia, ha spiegato, "rimossa per calcoli dilomatici e convenienze internazionali"
"Oggi che in Italia abbiamo posto fine ad un non giustificabile silenzio, e che siamo impegnati in Europa a riconoscere nella Slovenia un’amichevole partner e nella Croazia un nuovo candidato all’ingresso nell’Unione, dobbiamo tuttavia ripetere con forza che dovunque, in seno al popolo italiano come nei rapporti tra i popoli, parte della riconciliazione, che fermamente vogliano, è la verità. E’ quello del ’Giorno del Ricordo’ è precisamente un solenne impegno di ristabilimento della verità", ha aggiunto il capo dello Stato.
Napolitano ha voluto richiamarsi esplicitamente al suo predecessore, Carlo Azeglio Ciampi, dicendo che ne raccoglie l’esempio circa "il dovere che le istituzioni della Repubblica sentono come proprio, a tutti i livelli, di un riconoscimento troppo a lungo mancato" delle tragedie di un intero popolo di istriani, fiumani e dalmati, che al confine orientale dell’ Italia, dopo l’8 settembre ’43, furono vittime di un moto di odio e di furia sanguinaria che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica". Una tragedia la cui memoria "ha rischiato di essere cancellata" e che invece, ha aggiunto il capo dello Stato, deve essere trasmessa ai giovani nello spirito della legge del 2004 che ha istituito il Giorno del Ricordo.
Plauso bipartisan. Il discorso di Napolitano ha suscitato un plauso bipartisan. Commenti positivi sono stati espressi da Gianfranco Fini, leader di An: "E’ stato molto bello quello che ha detto il Capo dello stato richiamando anche le parole del suo predecessore. E’ possibile ora avere una memoria condivisa, onorare il sacrificio di tanti connazionali che sono stati costretti all’esilio o trucidati perchè italiani. Ricordare è doveroso per tutti, soprattutto ora che finalmente gli italiani conoscono una pagina della storia che è stata per tanti anni negata a strappata".
Concorda con le parole del presidente anche il vicepremier Francesco Rutelli per il quale è importante che "l’Italia tributi un riconoscimento giusto e saggio ai famigliari delle vittime delle foibe e all’intero popolo giuliano-dalmata. E’ un bene che ciò avvenga con il largo consenso dell’intero schieramento politico e parlamentare, anche se questo riconoscimento è avvenuto tardivamente". Favorevole all’intervento del Capo dello Stato anche Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc: "Sulle foibe il Capo dello Stato ha il coraggio e l’onestà intellettuale di dire le cose come stanno. Paroleche gli fanno onore e rendono giustizia alla verità e ai martiri di uno dei periodi più bui della storia contemporanea. Parole che son un monito sui danni gravissimi che un uso distorto dell’ideologia può provocare anche oggi".
* la Repubblica, 10 febbraio 2007
Caro Federico,
vorrei finalmente tanto capire questo "connubio" fra la tua rispettabilissima e onorabilissima persona e i vari "don", con cui dialoghi e con cui riesci ad andare persino d’accordo.
Tu personifichi quell’istinto di autonomia e di indipendenza assoluta, caratteristico della tentazione dell’uomo all’inizio del mondo. Per te tutto è possibile, perchè l’uomo è per te assoluto ! Per te i valori religiosi devono essere soggetti alla volontà dell’uomo, non la volontà dell’uomo soggetta al valore religioso. Il tuo rappresenta il tentativo di servirsi della fede ai fini della potenza e della assoluta indipendenza dell’uomo.
Siamo tutti coinvolti dal peccato dell’orgoglio, fonte dello stesso peccato originale (perciò diciamo che esso è trasmesso e trasmissibile da uomo a uomo in tutte le generazioni), ed è in questo tutto il problema del nostro "io". Io o Dio; io al posto di Dio; oppure: io e Dio . Qua giacciono tutti i mascheramenti. Qua nascono l’assolutizzazione degli istituti, il concepire lo Stato etico, lo Stato laico, la Costituzione come la nostra "nuova Bibbia". In poche parole: il culto dell’ io a dimensione statale.
Ciò che mi sorpende, come credente, è il comportamento di questi "tuoi" don che sembrano non aver capito tutto il valore del messaggio di Cristo: chi non rinnega il suo "io" non può ritornare a Dio !Ciò significa rinunciare a osare l’inosabile ! Questa è la scelta della logica della fede. Probabilmente i "tuoi" don non hanno ancora capito il valore di questa rinuncia, a quali profondità può giungere la natura e "ciò che è dentro l’uomo".
Questo è il mio parere. Non voglio che don Antonelli perda il suo tempo a rispondermi. Se mi leggesse, preferirei immensamente di più una sua preghiera.
Pure io ti ringrazio per lo spazio e il tempo che mi dedichi, pazientemente, e immeritatamente, ogni volta.
Carissimi saluti. Biagio Allevato
Caro Biagio
vedo che equivochi ancora e di grosso. Accetta il consiglio!!! Rileggi il discorso della Montagna (Messaggio evangelico e la Costituzione - la nostra "Bibbia civile")! Non è una metafora - vale, sia dal p.d. v. religioso che dal punto di vista laico (distinzione, ma non separazione!), ed è: la Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri!!!.
Riprendendo le tue stesse parole, devo dire e ripetere: Ciò che mi sorpende, come credente, è il comportamento dei "tuoi" don" - non di don Milani, di don Giuseppe Dossetti, di don aldo Antonelli, e di centomila altri e altre, ma dei tuoi Papa Ratzinger, dei tuoi Ruini, Caffarra, Forte, Scola, Bertone, ecc. ecc. - che sembrano non aver capito tutto il valore del messaggio di Cristo: chi non rinnega il suo "io" non può ritornare a Dio!!!
Ma che "credente" sei e cosa pensi di Gesù’! Egli non è un "cretin", e nemmeno un cattolico-romano - è un "chretien"!!! Non confondiamo e ricordiamocelo. Egli - con il suo e "Padre nostro" - parlava e parla ogni giorno e ogni momento a "tu per tu" ("Io e il Padre") e sapeva e sa "osare l’inosabile"!!! Don Aldo lo sa - e lo insegna!!!
Con la cecità e la confusione - con la "caritas"(il "caro-prezzo") e il "van-gelo" (le celle "frigorifere") - non si va da nessuna parte: solo all’inferno, e non per liberare i morti, ma per restare con loro e diventare come loro (morti tra morti), nel gelo eterno!!!
Rileggi anche Dante - sempre più tra noi!!! E capirai meglio anche da dove viene la lezione di Ciampi e di Napolitano e, finalmente (al di là degli strumentalismi e delle cecità) non solo la "giornata del ricordo" ma anche la "giornata della memoria" e la nostra Costituzione - la Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri!!! Rileggi la lezione di Piero Calamandrei. . Comincia....
Molti saluti,
Federico La Sala
Foibe, la memoria e gli avvoltoi
di Corrado Stajano *
La memoria delle foibe è atroce e sessant’anni dopo continua a lacerare gli animi. Se si decide di dire la verità bisogna farlo con coraggio, senza nulla temere, senza ambiguità, senza nascondere o mascherare quel che accadde. È necessario dire tutto senza fini di parte evitando di adoperare quei fatti per trarne vantaggi politici. Il ministro Gasparri, di cui è nota l’eleganza del pensiero e dell’azione, ha dato dell’infoibatore (Il Piccolo, 30 gennaio), a chi critica la strumentalizzazione dei crimini commessi dai partigiani di Tito.
I quali, mossi da odio ideologico e nazionalistico, gettarono nelle foibe del Carso migliaia di avversari politici, non soltanto italiani, non soltanto fascisti. Claudio Magris, limpido scrittore, conosce meglio degli altri, uomo di frontiera qual è, il valore della moderazione, capace di tutelare quanti temono il mondo ostile di là dalle mura. Davanti alle affermazioni del rozzo ministro il quale, con quelle parole, confessava in sostanza il suo ruolo di strumentalizzazione, Magris ha reagito con severità inconsueta ( Corriere della Sera, 1 febbraio), anche perché ha vissuto e sofferto quel dramma e ne ha scritto spesso e sempre senza paraocchi.
Ha fatto una lezione al ministro e a quanti rovesciano la realtà per fini non nobili. Ha sottolineato la cecità e l’abuso dell’estrema destra che ricorda quei delitti soltanto per rinfocolare i propri rancori razzisti antislavi. Ha criticato il calcolo opportunista di tanta sinistra italiana che per macchiavelleria ha cercato in passato di ignorare, dimenticare e far dimenticare la tragedia delle foibe e dell’esodo istriano, fiumano e dalmata affinché non si parlasse delle responsabilità del comunismo. Ha alzato la voce contro i moderati che hanno avuto tutte le possibilità di esprimersi e sono stati invece zitti. «Fino a pochi anni fa, ha scritto Magris, parlare delle foibe non serviva” alla lotta politica e dunque non se ne parlava. Oggi quei morti servono e dunque se ne parla, ma per usarli quali strumenti di una lotta politica che non ha nulla a che vedere con la storia di quelle tragedie. (...) Si conosca e si sappia la storia dele foibe. Ma che oggi la destra al potere - erede di quella colpevole della nostra catastrofe nella Seconda guerra mondiale e della mutilazione dell’Istria - usi le foibe per difendere il proprio potere è una bestemmia. Usare oggi le foibe contro la sinistra italiana di oggi è indegno».
Se non si fa uno sforzo anche scolastico di ripensare quel che accadde nel Novecento in quella che fu definita la polveriera balcanica, dall’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando che provocò lo scoppio della Prima guerra mondiale ai guasti del fascismo alla Seconda guerra mondiale al dopoguerra a oggi non si riuscirà mai a servire la verità. È necessario almeno partire dal fascismo, ripensare alla cancellazione dei diritti delle minoranze croate e slovene nelle terre italiane. E poi all’invasione nazifascista della Jugoslavia nel 1941. Altro che «italiani brava gente». La 2ª Armata comandata dal generale Roatta, si comportò spesso con la ferocia mutuata dai nazisti. Per le atrocità commesse il generale finì negli elenchi dei criminali di guerra. La provincia di Lubiana fu allora annessa all’Italia, fu creato il regno di Croazia dove fu spedito a regnare persino un re nostrano, Aimone di Savoia Aosta, Zvohimiro II.
In un piccolo prezioso libro di Guido Crainz, storico e conoscitore della società, Il dolore e l’esilio, appena uscito da Donzelli, è riportato un documento davvero impressionante, la circolare 3C del generale Mario Roatta (1 marzo 1942), «che prevede di incendiare e demolire case e villaggi, uccidere ostaggi, internare massicciamente la popolazione. Il suo spirito è riassunto da Roatta nella massima: “Non dente per dente, ma testa per dente”. In base ad essa si disponeva l’arresto, la confisca dei beni e l’internamento per le famiglie da cui mancassero dei membri: sospetti, quindi, di essersi uniti ai “ribelli”» (...) «Occorre distruggere i paesi e sgomberare le popolazioni», ribadisce Roatta nell’agosto 1942 ai comandanti di corpo d’armata. E il generale Robotti, sempre nell’agosto del 1942, dà queste indicazioni ai comandanti di divisione che ha convocato: «Non importa se nell’interrogatorio si ha la sensazione di persone innocue. Ricordarsi che per infinite ragioni anche questi elementi possono trasformarsi in nostri nemici. Quindi sgombero totalitario. Dove passate levatevi dai piedi tutta la gente che può spararci nella schiena. Non vi preoccupate dei disagi della popolazione. Questo stato di cose l’ha voluto lei. Quindi paghi». E poi: «Lo stesso generale in quel tempo annotava su un documento: “Si ammazza troppo poco!” E ancora: “Gli uomini non sono nulla e l’unica cosa che conta è il Paese e il suo prestigio, assieme a quello del regime».
Mussolini, a Gorizia il 31 luglio 1942, parla in questo modo: «Sono convinto che al “terrore” dei partigiani si deve rispondere con il ferro ed il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta. (...) È cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto per il bene del paese ed il prestigio delle forze armate. Questa popolazione non ci amerà mai».
Almeno in questo Mussolini vede giusto. Bastano i pochi documenti citati a far capire che cosa è successo in quel magma incandescente: non vogliono di certo servire ad alimentare giustificazionismi di maniera per le atrocità commesse poi dai partigiani comunisti di Tito e per le loro vendette. Vogliono semplicemente esser utili per cercare di capire gli snodi degli avvenimenti.
Nel 1943 esplode una rivolta contadina parallela alla guerra partigiana. Le vittime non sono soltanto i fascisti, ma tutti coloro che fanno ricordare l’amministrazione italiana odiata per il suo fiscalismo, per le sue vessazioni poliziesche. I connotati etnici della rivolta e di quelle terribili morti si saldano allora con motivazioni sociali. Nel 1945 le vittime sono soprattutto i militari di Salò, ma vengono perseguiti e uccisi nelle foibe dai titini anche gli antifascisti del CLN che disturbano l’egemonia comunista. E con loro tutti quanti rappresentano una qualsiasi autorità, segretari comunali, maestri, farmacisti, postini, guardie campestri. Italiani.
Scrive Crainz, studioso che esce dai nudi schemi di molti compilatori di vicende umane, pieno di curiosità nei confronti delle culture e degli stili di vita che gli servono a dar corpo alla storia, come furono tragici, in quelle terre, gli anni dal 1941 al 1945. Segnati dai difficili rapporti tra la Resistenza jugoslava e quella italiana, dalle decisione di Tito di occupare e di annettere Trieste e tutta la Venezia Giulia, «dalla sostanziale subalternità dei comunisti italiani rispetto a quella volontà, pur tra oscillazioni e contraddizioni». Sullo sfondo di una guerra aspra tra gli eserciti nazifascisti affiancati dagli ustascia di Ante Pavelic e l’armata partigiana di Tito.
Marco Galeazzi, su l’Unità (2 febbraio), ha elencato gli storici, non pochi e di prim’ordine, che nei decenni hanno studiato in modo approfondito la questione istriana, le foibe, il comportamento del Pci. Tra gli altri, Giovanni Miccoli, Galliano Fogar, Giampaolo Valdevit, Roberto Spazzali, Raoul Pupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste che ha scritto molto su questi temi nel corso del tempo e ha appena pubblicato un libro importante, Il lungo esodo, (Rizzoli), accentrato soprattutto sull’abbandono delle proprie case e delle proprie terre, tra il 1944 e la fine degli anni 50, di 250mila italiani di Zara, Fiume, delle isole del Quarnaro, dell’Istria diventate jugoslave.
Tutto questo per dire che esistono opere scientifiche di livello alto, esistono i documenti. Quelli dell’Archivio del Pci depositati presso la Fondazione Gramsci e quelli dell’Archivio dell’ex polizia segreta jugoslava, l’Ozna, aperti nel 1990. Libri e documenti, ma come confinati anch’essi perché la sanguinante questione istriana non è mai diventata, per ragioni non soltanto politiche, una questione nazionale. E dobbiamo così ascoltare il linguaggio analfabetico e oltraggioso di un ministro della Repubblica e dei suoi disinformati seguaci.
Foibe, il presidente croato attacca Napolitano *
Il presidente della Croazia Stipe Mesic si è detto oggi «costernato» dalle dichiarazioni del presidente Giorgio Napolitano in occasione della Giornata del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo «nelle quali è impossibile non intravedere elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico». Il presidente croato Stjepan Mesic ha risposto con estrema durezza al discorso pronunciato il 10 febbraio scorso, «giorno della memoria» a ricordo delle vittime italiane delle foibe e degli esuli istriani e dalmati, dal presidente Giorgio Napolitano.
Mesic si è riferito alla frase che Napolitano ha pronunciato sabato scorso al Quirinale quando, consegnando diplomi e medaglie agli eredi delle vittime delle foibe, ha collegato quelle vicende con il «moto di odio e di furia sanguinaria» e con il «disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica».
Il comunicato di Mesic fa riferimento alle «recenti dichiarazioni giunte dal vertice dello Stato della vicina Italia». Il presidente croato si dice «dispiaciuto e sorpreso dal contenuto e dal tono» di tali dichiarazioni «che - aggiunge - si riferiscono ad alcuni aspetti del passato prossimo, ma toccano anche i rapporti attuali tra Italia e Croazia». «Queste dichiarazioni, nelle quali è impossibile non intravedere elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico, si inseriscono difficilmente nella dichiarata volontà di migliorare i nostri rapporti bilaterali», prosegue il comunicato di Mesic.
«È motivo di costernazione ed è potenzialmente estremamente pericoloso mettere in questione il Trattato di Pace che l’Italia ha firmato nel 1947». «Il presidente croato - prosegue il comunicato, formulato in terza persona - si è di recente e a più riprese pronunciato molto chiaramente per la condanna di ogni crimine commesso da parte dei vincitori durante e dopo la Seconda guerra mondiale, ma anche per l’analisi dell’intero contesto storico dicendosi contrario a ogni tentativo di offuscare fatti, come pure al tentativo di trasformare gli sconfitti della storia in vincitori».
«Per la Croazia è assolutamente inaccettabile qualsiasi tentativo di mettere in discussione gli Accordi di Osimo, stipulati tra Jugoslavia e Italia, che la Croazia ha ereditato come uno dei Paesi successori della Federazione jugoslava», si sottolinea più avanti nella nota, che si conclude così: «Il presidente Mesic crede fermamente nella necessità di rafforzare ulteriormente i rapporti amichevoli italo-croati, non solo nell’interesse dei due paesi ma anche in quello dell’Europa che si unisce. Nel contempo ritiene di dover alzare una voce di protesta contro ogni tentativo che, in nome di qualsiasi motivo o espediente, possa mettere in dubbio le basi sulle quali è edificata l’Europa unita, tra le quali l’antifascismo ha un posto di primo piano».
Solidarietà al presidente Napolitano è espressa da tutta la politica italiana. «Una reazione che stupisce ed addolora, e che appare del tutto immotivata», ha detto il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema. Mentre per Jacopo Venier deputato e responsabile esteri del PdCi, «chiunque conosca un minimo la storia passata e recente delle terre di confine non può che constatare come la reazione del presidente croato Mesic fosse assolutamente prevedibile». «Bisogna - ha concluso il deputato comunista - smetterla subito con questa strumentalizzazione politica della storia che può riaprire ferite antiche e alimentare nuovo razzismo». va giù duro anche il ministro della Giustizia Clemente Mastella. «Se il Presidente croato Stipe Mesic conoscesse il passato del Presidente Napolitano eviterebbe di dire le sciocchezze da lui oggi pronunciate in merito alle recenti dichiarazioni del Capo dello Stato italiano sulle foibe». La destra solidarizza. «È incredibile che le parole di amicizia e di pace del Presidente Napolitano vengano volutamente equivocate dal Presidente Mesic con un linguaggio che speravamo di non dover più ascoltare da nessun politico europeo», ha affermato Carlo Giovanardi (Udc). Mentre Casini consiglia al presidente croato «di andare a ripetizione per un pò di tempo dal Presidente Napolitano».
* l’Unità, Pubblicato il: 12.02.07, Modificato il: 13.02.07 alle ore 15.17
Matvejevic: «Il ricordo di un crimine non può cancellare l’altro»
di Umberto De Giovannangeli *
«Ho grande stima per il Presidente Napolitano, così come non posso dimenticare che è grazie a Stipe Mesic che non sono stato incarcerato in Croazia come avrebbero voluto gli ultranazionalisti. Proprio per questo mi sento di dire che in questo frangente sia l’uno che l’altro hanno avuto cattivi consiglieri. La Giornata della Memoria per ristabilire correttamente una verità storica deve divenire la Giornata delle Memorie, perché il ricordo di un crimine non cresca sull’oblìo di un altro crimine».
A parlare è Predrag Matvejevic, scrittore, saggista, professore di Slavistica all’Università La Sapienza di Roma. Il suo percorso culturale e umano (nato a Mostar, da madre croata e padre russo) è quello di un intellettuale che ha cercato nel cuore dell’«inferno balcanico» di costruire «ponti» di dialogo tra identità, etniche e religiose, diverse e spesso violentemente contrapposte. E proprio per questo, Matvejevic si dice ferito dalle polemiche di queste ore: «Apprezzo - dice lo scrittore - lo sforzo compiuto da Napolitano di trovare un punto di equilibrio tra una sinistra che non ha ancora fatto i conti con il crimine delle Foibe e una destra che ha cercato di usare quella vicenda per cancellare la memoria dei crimini perpetrati dai fascisti italiani contro “la razza inferiore slava”. Ma per come è stata pensata e voluta questa Giornata da Alleanza Nazionale e dal precedente governo di centrodestra, era inevitabile un passo falso».
Il presidente della Croazia Stipe Mesic si è detto «costernato» dalle dichiarazioni del Presidente Napolitano in occasione della Giornata delle Foibe e dell’Esodo, usando parole durissime di condanna.
«Stimo i due Presidenti ma credo che in questa occasione abbiano avuto cattivi consiglieri. L’Italia che io amo è quella odierna, proiettata nel futuro, un Paese che intende dare una direzione nuova all’Europa, quella del Mediterraneo. Ma quella che ha “usato” la Giornata del Ricordo delle Foibe è un’altra Italia, che vive ancora dei cadaveri di una parte dell’altra».
Da cittadino con doppio passaporto - italiano e croato - come valuta le parole del Presidente Napolitano?
«Avverto in lui l’esigenza impellente di parlare a quella sinistra che aveva chiuso gli occhi di fronte alla tragedia, perché tale è, delle Foibe. Napolitano ha cercato di trovare un equilibrio tra questa sinistra “smemorata” e una destra aggressiva, maccartista per la quale i comunisti (identificando con questo termine chiunque si dica di sinistra) restano quelli che mangiano i bambini. Tra questi due estremi c’è la volontà di Giorgio Napolitano di cercare un equilibrio; uno sforzo intellettuale, politico e morale che io approvo, ma in questo sforzo si possono commettere anche dei passi falsi, come quello che rappresenta la Giornata del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo per come è stata pensata e voluta dalla destra italiana».
In cosa consiste questo passo falso?
«Le Foibe sono un crimine ed io rivendico il coraggio di averne scritto in Jugoslavia quando farlo era pericolosissimo. Ma la memoria di un crimine non può fondarsi sull’oblio di un altro crimine. Non possiamo dimenticare il discorso di Pola di Mussolini, nel Venti, quando il capo dei fascisti sostenne che bisognava “espellere questa razza barbara, inferiore slava da tutto l’Adriatico”. E nel 1928, il suo ministro Giulio Italico vomitava parole d’odio: “Colui che non accetta l’italianità dell’Istria e della Dalmazia finirà nelle foibe...”. Nessuno dei miei cari amici italiani sapeva che Ante Pavelic, il peggiore fascista che si possa immaginare, era stato addestrato per anni con i suoi ustascia a Lipari dai fascisti italiani e finanziato da Mussolini. Pavelic e le sue bande di criminali sono arrivati a Zagabria con i camion di Mussolini. Ante Pavelic: tremo ancora al pensiero dei crimini orrendi che è stato capace di pepetrare con i suoi ustascia: quelli che hanno massacrato comunisti, serbi, ebrei; che hanno realizzato campi di sterminio che non avevano nulla da invidiare ai lager nazisti. Vorrei ricordare un nome: Rade Koncar. Uno dei primi collaboratori di Tito per la Dalmazia, un partigiano fucilato dai fascisti italiani. C’è una responsabilità mussoliniana e italiana in questo. E c’è una memoria che non va svilita. Questo è l’humus in cui sono maturati questi crimini. La vendetta non è giustificabile in alcun modo, ma non si può dimenticare ciò che le camice nere hanno fatto nei Balcani. Nel Giorno della Memoria non si possono dimenticare le altre Memorie. I crimini non si possono giustificare, da qualunque parte siano stati commessi. E non va dimenticato che nelle Foibe sono finiti anche parecchi slavi».
Insisto sul concetto di «passo falso»: se non è nelle parole di Napolitano, dove va individuato?
«In ciò che c’è dietro l’istituzione di questa Giornata del Ricordo. Questa Giornata è stata una concessione ad Alleanza Nazionale che l’ha voluta per ragioni che poco o nulla hanno a che vedere con la verità storica e molto con calcoli elettorali. Calcoli che si sono perfettamente coniugati con il maccartismo berlusconiano. Al presidente del Consiglio Romano Prodi vorrei suggerire di trasformare questa Giornata nella Giornata delle Memorie. Sono convinto che il Presidente Napolitano ne coglierebbe il senso e sosterrebbe questa iniziativa».
C’è amarezza nelle sue parole...
«Quando sono stato in Jugoslavia ho difeso gli “esodati” e ho parlato apertamente delle Foibe. E proprio per questo mi sento ferito non dalle parole di Giorgio Napolitano ma da chi ha voluto questa Giornata della Memoria per usarla contro altre Memorie cancellate».
* l’Unità, Pubblicato il: 13.02.07, Modificato il: 13.02.07 alle ore 8.42
INFOIBATI IN ISTRIA VENEZIA GIULIA E DALMAZIA PER TIPOLOGIE PROFESSIONALI
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RAFFAELE AVALLONE Martire delle Foibe Medaglia “ad memoriam” (Legge 30 marzo 2004 n. 92)
FRANCESCO AVALLONE DALLE FOIBE ALL’ESODO
Salerno 2014 Sono nato a Fiume da genitori salernitani: mio padre prestava servizio presso la Questura dove collaborava con il Commissario Giovanni Palatucci, proseguendo un rapporto che era già iniziato a Genova, prima del loro trasferimento. La mia testimonianza intende rendere onore, innanzi tutto, proprio al Dr. Palatucci: un vero e proprio Eroe, le cui straordinarie benemerenze si vorrebbero mettere in dubbio, se non addirittura distruggere. In proposito, mi ha negativamente sorpreso un articolo sul “Corriere della Sera” del 21 giugno 2013, successivo di pochi giorni all’incontro mondiale dei fiumani tenutosi nella città liburnica. Ebbi modo di parlare con la redazione, ponendo in evidenza che sarebbe bastato intervenire a detta assise per reperire notizie vere e sicure su Palatucci, anziché riportare informazioni di seconda mano, e quindi opinabili. A seguito della mia protesta e di quelle altrui, dopo due giorni venne pubblicata una rettifica, ma soltanto parziale. Pertanto, sento il dovere di restituire alla figura del Commissario Palatucci tutti gli onori che gli sono dovuti. Ho vissuto a Fiume per sette anni, fra il 1938 ed il 1945: sostanzialmente, lo stesso periodo in cui vi prestò la propria opera il “Giusto fra le Nazioni” che risponde al Nome di Giovanni Palatucci. Ricordo che tante volte, alla sera, mio padre usciva con lui per organizzare il salvataggio di molte persone, in larga maggioranza di fede ebraica, destinandole ad altre città italiane dove poteva contare su riferimenti sicuri, e talvolta anche all’estero. L’episodio che ha cambiato radicalmente la mia vita e le sorti della mia famiglia ebbe luogo nel 1943; Palatucci aveva già disposto che mio padre accompagnasse due famiglie di Ebrei da Fiume a Salerno. Forse, pensava di salvarlo, ma un collega chiese di sostituirlo in questa missione, in quanto aveva la famiglia a Salerno: episodio ovviamente privo di qualsiasi responsabilità singola, confermato in tempi successivi dai congiunti del collega medesimo. Mio padre rimase a Fiume con Palatucci e con noi, Vittima di una sorte iniqua, che si sarebbe compiuta nel maggio 1945, non appena la città venne invasa dai partigiani di Tito: sorte atroce oltre che imprevedibile, al pari di quella subita dal Commissario. Mio padre fu gettato in una foiba carsica, forse ancora vivo, quando aveva 45 anni e la guerra era già finita, mentre Palatucci sarebbe scomparso in età ancora più giovane, a soli 36 anni, nel campo di sterminio tedesco di Dachau, ucciso dal tifo dopo incredibili stenti, privazioni ed angherie. L’Olocausto del Commissario porta la data del 10 febbraio 1945: una data che sarà sempre ricordata perché con la legge 30 marzo 2004 n. 92, la Repubblica italiana l’ha riconosciuta quale “Giorno del Ricordo” al fine di non dimenticare la tragedia delle Foibe e dell’Esodo, e la triste vicenda dei confini orientali; entrambe sconosciute alla maggior parte degli italiani. Ciò, senza dire che il 10 febbraio 1947 la firma del “diktat” coincise col gesto di estrema protesta compiuto da Maria Pasquinelli. Le Foibe sono cavità naturali che si aprono nel terreno e sprofondano nella roccia anche per cento metri ed oltre, dove sono scomparsi, Vittime dei titini, tanti Italiani innocenti, la cui cifra, comprensiva di quelli fucilati, deportati senza ritorno od altrimenti massacrati, sale ad alcune decine di migliaia, con un’incidenza di donne e bambini pari, secondo la recente ricerca di Giuseppina Mellace, ad almeno il sette per cento. L’Esodo istriano, fiumano e dalmata, invece, riguarda 350 mila italiani, cacciati dalle loro case e costretti ad abbandonare affetti, focolari e sepolcri degli Avi, pur di rimanere liberi e fedeli alla patria. Una piccola riflessione: si parla tanto dell’immigrazione extra-comunitaria, ma sul nostro dramma è scesa per troppo tempo una cortina di pervicace silenzio. Il Presidente della Repubblica, che ringraziamo, ha conferito una Medaglia ai Congiunti degli Infoibati e delle altre Vittime di una vera e propria pulizia etnica (il "genocidio programmato" di cui allo studio del prof. Italo Gabrielli), ma gli Esuli sono stati oggetto di strumentalizzazioni politiche sempre in agguato, che non dovranno più avvenire. A volte si può credere di “seppellire” un passato di tristezze e di sofferenze custodito gelosamente, ma spesso torna a prorompere dalla coscienza, ed allora si avverte il bisogno di farlo conoscere e di attualizzare una tragedia la cui memoria storica è giusto diffondere. Questa mia testimonianza è una storia vera, vissuta da me, dalla mia famiglia e da tanti italiani in un contesto storico volutamente dimenticato. E’ una storia scolpita nel mio animo e nella mia mente, che non potrà essere mai cancellata. In tutti questi anni, le più alte Autorità Istituzionali hanno chiesto scusa a tutti. Noi, per fare un esempio significativo, pretendiamo le scuse dalla città di Bologna, dai Sindacalisti e dai Ferrovieri di Bologna; perché pretendiamo le scuse? Lo vedremo fra poco. Ora, ritorniamo all’epoca di quei tragici avvenimenti; vivevamo bene a Fiume; mio fratello aveva dieci anni, mia sorella sette ed io tre. Ma alla fine della guerra, col ritiro degli ultimi reparti tedeschi (2 maggio 1945) la città venne occupata dalle truppe del Maresciallo Tito, come quasi tutta la Venezia Giulia, in una sorta di silenzio tombale. Senza nulla far trapelare, l’ordine di questa gente malvagia e crudele era quello di estirpare radicalmente ogni traccia di italianità eliminando in senso fisico uomini e donne, ricchi e poveri, militari e civili; confiscando e sequestrando i nostri beni ed infine, cacciando dalle proprie case chi era riuscito a rimanere vivo. I partigiani procedevano a retate improvvise, talvolta uccidendo per un nonnulla. I primi ad essere prelevati furono i servitori dello Stato, ed in particolare, gli appartenenti alle Forze dell’Ordine quali Pubblica Sicurezza, Guardia di Finanza, Esercito e Carabinieri. Portati sul ciglio delle foibe, legati fra di loro con un filo di ferro ai polsi, il primo del gruppo era il più fortunato perché veniva ucciso con un colpo di pistola alla nuca, ma precipitando trascinava tutti gli altri nel baratro: questi italiani hanno subito una morte atroce dopo sofferenze inumane; chissà dopo quanti giorni sarà arrivata per molti di loro, una morte liberatrice? Fra questi Italiani gettati nelle foibe c’era anche mio padre, con la sola colpa di avere onorato il proprio dovere. I superstiti venivano sequestrati nelle abitazioni: sotto i palazzi bivaccavano famiglie slave in attesa che "liberassimo" le nostre case. Mia madre, donna di un coraggio e di una forza d’animo non comuni, venne informata in un primo momento che il marito era stato fucilato, ed ebbe modo di cercarlo nei magazzini del porto dove erano state poste le salme di parecchie Vittime in attesa di riconoscimento, ma la ricerca fu vana; da altre indiscrezioni, si seppe che era stato infoibato. Rimase sola con tre bambini, tentando di salvare qualcosa e chiedendo l’autorizzazione a partire e portare fuori città cinque casse contenenti le cose più care, quali indumenti e documenti: ebbene, il comando partigiano diede l’autorizzazione ben sapendo che sarebbe stato impossibile trasportare quelle casse, senza dire che pervennero diversi avvertimenti da chi bivaccava sotto casa: “Signora, pensi a salvare i bambini, lasci stare tutto il resto”. Venimmo caricati su camion vecchi e sgangherati, ed un solo borsone conteneva tutto ciò che possedevamo: tra l’altro, un documento (ora depositato nel Museo fiumano di Roma) comprovante che quanto sto scrivendo è la pura verità. Con questi mezzi di fortuna su cui campeggiava la famosa stella rossa a cinque punte che incuteva terrore solo a guardarla, attraversammo Fiume caricando altri infelici come noi e viaggiando fino a Trieste, dove fummo scaricati alla stazione ferroviaria, mentre altri furono ammassati nella Risiera di San Sabba o nei tristemente famosi Silos. La pulizia etnica avvenne in silenzio, dovuto in buona misura all’acquiescenza dei pubblici poteri, ed in primo luogo del Partito Comunista Italiano e dei suoi alleati, coinvolti in responsabilità governative: un silenzio che talvolta è più straziante del dissenso e di qualsiasi indignazione ululata, di qualsiasi verità dichiarata. Dall’Italia avremmo atteso un’accoglienza normale, che invece fu pessima: nonostante la morte dei nostri Cari, e la perdita di tutto ciò che avevamo, fummo etichettati come i profughi istriani, fiumani e dalmati che avevano abbandonato il “paradiso” di Tito, e quindi da ignorare e dimenticare. L’Esodo dei 350 mila venne oscurato per il lungo decennio in cui si sarebbe protratto (fino al 1954); l’Italia ci accoglieva, ed avrebbe continuato a farlo anche in seguito, come relitti scomodi, e non come concittadini degnissimi che avevano sacrificato tutto alla patria. Da quel momento fummo cancellati. Restammo diversi giorni accampati nella stazione di Trieste; poi, grazie alla Croce Rossa Internazionale ed alla Pontificia Opera di Assistenza, vennero predisposti alcuni carri merci con qualche giaciglio in paglia che scendevano lentamente verso il Sud, fra mille difficoltà dovute ai disastri bellici. Chi aveva qualche punto di riferimento scendeva nella stazione più vicina; quanto a noi, per giungere a Salerno impiegammo dieci giorni. La maggior parte dei profughi venne stipata nei 114 campi dislocati su tutto il territorio nazionale, dove angherie e prevaricazioni erano all’ordine del giorno, subite con dignità e con tanta pazienza cristiana. Molti ebbero la possibilità di espatriare, soprattutto oltremare, come negli Stati Uniti d’America, in Canada, in America Latina, in Australia, dove furono accolti con maggiore disponibilità e se non altro, con quel rispetto che l’Italia non ha mai avuto nei nostri confronti, né sul piano morale né su quello materiale. I profughi emigrati non furono meno di 80 mila! Tornando al caso di Bologna, giova porre in luce che, sempre grazie alla Croce Rossa Internazionale ed alla Pontificia Opera di Assistenza, erano stati preparati alcuni punti di ristoro nelle stazioni ferroviarie, dove venivano distribuite vivande per gli adulti e latte caldo per i bambini; a volte i treni giungevano con forte ritardo e noi piccoli davamo segni di insofferenza e nervosismo, o piangevamo per la fame, quella vera, quella che attanaglia lo stomaco: chi non l’ha sofferta non può immaginarla. Con impazienza attendevamo l’arrivo a Bologna, dove era annunciato un punto di ristoro, ma un’amara sorpresa ci aspettava: il comitato centrale e gli alti gerarchi del PCI avevano ordinato che non bisognava rifocillarci: avvenne così che, con la stessa crudeltà dei partigiani slavi, le vivande ed il latte furono gettati sulle rotaie, mentre noi fummo oggetto di contumelie e di sputi. Apostrofandoci con l’accusa di essere fascisti, i ferrovieri chiusero i portelloni e ci dirottarono verso Rimini: a distanza di 70 anni, mi sto ancora chiedendo come sia stato umanamente possibile dare un ordine di quel genere. Personalmente non ricordo l’episodio (ottobre 1945), data la mia tenerissima età, ma lo ricordano perfettamente mia sorella Concetta e mio fratello Pasquale rispettivamente di sette e dieci anni. Si tenga presente che non fu un episodio isolato, come avrebbe dimostrato, addirittura sedici mesi dopo, l’accoglienza non dissimile che il treno dei profughi polesi, in viaggio da Ancona (dove erano sbarcati dal “Toscana” fra gli insulti dei portuali) e diretto al campo di raccolta della Spezia, ebbe proprio a Bologna, senza nemmeno la possibilità di sostare! Arrivati a questo punto debbo chiarire che né il Commissario Palatucci né mio padre erano iscritti al Partito Nazionale Fascista: quindi, l’accusa di Bologna era a più forte ragione infondata. Il Dr. Palatucci ed i suoi uomini salvarono un alto numero di Ebrei da morte sicura, perché altrimenti sarebbero stati destinati ai campi di sterminio nazisti, sebbene si tenda spesso a dimenticarlo. Ciò accadde quando in Italia gli antifascisti ed i partigiani, nella migliore delle ipotesi, erano ancora “in sonno” se non addirittura fascisti tutti d’un pezzo. La sola risposta ai fatti di Bologna, ripetuti per almeno due anni - come dicevo prima - fra il 1945 ed il 1947, sta nel fatto che i mandanti erano privi di coscienza. Eppure, il massimo della beffa doveva avvenire parecchio più tardi: esattamente nel 2007, quando la città di Bologna decise di dedicare agli Esuli una lapide dal testo inaccettabile, collocata in stazione, sotto la pensilina del primo binario; infatti, vi è scritto che dopo “un’iniziale incomprensione” Bologna seppe accogliere con calore gli Esuli istriani, giuliani e dalmati. L’ostracismo, al contrario, durò a lungo, cosa che evidenzia a più forte ragione, se per caso ve ne fosse bisogno, la vile menzogna di quella targa. Pretendiamo la correzione della Targa di Bologna, errata storicamente. NEL CORSO DEL 1947 DA QUESTA STAZIONE PASSARONO I CONVOGLI CHE PORTAVANO ESULI ISTRIANI, FIUMANI E DALMATI: ITALIANI COSTRETTI AD ABBANDONARE LE LORO CASE DALLA VIOLENZA DEL REGIME NAZIONAL-COMUNISTA JUGOSLAVO E A PAGARE, VITTIME INNOCENTI, IL PESO E LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA D’AGGRESSIONE INTRAPRESA DAL FASCISMO. BOLOGNA SEPPE PASSARE RAPIDAMENTE DA UN ATTEGGIAMENTO DI INIZIALE INCOMPRENSIONE A UN’ACCOGLIENZA CHE E’ NELLE SUE TRADIZIONI, FACENDO SUOI CITTADINI MOLTI DI QUESGLI ESULI. OGGI VUOLE RICORDARE QUEI MOMENTI DRAMMATICI DELLA STORIA NAZIONALE BOLOGNA 1947 - 2007
COMUNE DI BOLOGNA A.N.V.G.D.
Evidentemente, la verità è dura da ammettere, tanto che un’interrogazione parlamentare presentata dall’On. Roberto Menia per chiedere la rimozione di quell’offesa non ebbe alcun seguito concreto: motivo di più per rinnovare (anche all’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia, autrice di quel “memorial” assieme al Comune) l’appello a rispettare la verità storica, e prima ancora, noi profughi, viaggiatori sugli allucinanti carri bestiame. I campi di raccolta, come si diceva, erano più di cento; noi riuscimmo ad evitare quel triste destino perché la mia famiglia era proprietaria di alcuni immobili sulla costa amalfitana che abbiamo venduto per poter sopravvivere; poi, arrivati alla maggiore età, ognuno di noi ha preso la sua strada, ed io mi sono impiegato presso un importante Istituto bancario dove, grazie a Dio, ho svolto le mie mansioni per 40 anni con impegno e con successo. Uno di questi campi si trovava all’estrema periferia di Salerno, dove alloggiavano due famiglie di amici che a Fiume avevano abitato vicino a noi: si trattava di persone un tempo ricchissime, e vederle in quelle condizioni ci rattristava sempre di più. Cercammo di portare loro un po’ di cibo, sia pure fra difficoltà quasi insormontabili: per rendere l’idea di come si sopravviveva in quel campo, basti pensare che gli Esuli dovevano convivere con nomadi e con persone di etnia Rom, tanto che la popolazione locale, a sua volta povera ed ignorante, aveva ribattezzato quell’inferno come “campo degli zingari”. Queste pagine tristi della nostra storia, o meglio della storia d’Italia, non sono mai state scritte compiutamente, né tanto meno metabolizzate da parte di una Nazione e di uno Stato che hanno preferito dimenticare. Nondimeno, bisogna pur dire che le persone per bene esistono su tutti i versanti dello schieramento politico, anche se si tratta pur sempre di eccezioni. A questo riguardo, voglio ricordare l’esempio di qualche Sindaco comunista ligure o piemontese, e delle loro Amministrazioni, che accolsero i profughi con esemplare disponibilità anche attraverso l’invito, prontamente accolto, di mettere a disposizione quanto potesse alleviare il loro dramma, almeno sul piano della sistemazione logistica. Tutto ciò, mentre in altre grandi città come Ancona, Venezia e la stessa Bologna l’ostracismo nei confronti degli Esuli, tanto gratuito quanto immotivato, raggiunse livelli parossistici. Il Trattato di pace del 10 febbraio1947, non a caso definito “diktat” nella nostra memoria e nella stessa storiografia, venne letteralmente imposto all’Italia, che nonostante la sua condizione di Stato cobelligerante fu costretta ad affrontare enormi sacrifici finanziari, onerose riparazioni di guerra ed umilianti amputazioni territoriali. Tuttavia, pur nella sua iniquità, almeno sulla carta concedeva agli italiani di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, nonostante la condizione irreversibile di Esuli, l’opportunità di rimanere proprietari di immobili ed altri beni. La Jugoslavia sottoscrisse tali clausole in perfetta malafede, essendo ben consapevole che non avevano alcuna consistenza sostanziale, in quanto il suo Governo aveva già provveduto a definire il programma di nazionalizzazione. Peggio ancora fu quanto accadde con il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975 tra Italia e Jugoslavia, ratificato da Camera e Senato dopo oltre un anno, tra forti contrasti nella stessa maggioranza governativa. In effetti, con quell’atto (un alto tradimento perseguibile con la pena dell’ergastolo) l’Italia volle rinunciare alla sovranità sulla Zona “B” del mai costituito Territorio Libero di Trieste, senza alcuna contropartita: non era mai accaduto nella storia del diritto internazionale. Fu un accordo vile, ed oltre tutto inutile, tanto che lo stesso Tito avrebbe detto di non essersi mai aspettato simili concessioni. La politica estera italiana basata sulla rinuncia ebbe a ripetersi all’inizio degli anni novanta, quando lo sfascio della Repubblica federativa diede luogo alla creazione dei nuovi Stati sovrani di Croazia e Slovenia, prontamente riconosciuti dal Governo di Roma a titolo parimenti gratuito, senza che l’ipotesi di denunziare Osimo venisse presa nemmeno in considerazione. Lo stesso è avvenuto, infine, con l’ingresso sloveno e croato in Europa, rispettivamente del 2004 e 2013: ultimo esempio della pervicace “cupidigia di servilismo” che Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando avevano nobilmente denunciato all’Assemblea Costituente sin dal 1947, quando l’Italia, dopo avere subito il trattato di pace, volle ratificarlo senza riserve. Francesco Avallone (figlio del Caduto)