Intervento del Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano
alla Conferenza Internazionale sulla violenza contro le donne
"Contro ogni sopruso ai danni delle donne.
Mettere al bando tutti i possibili motivi di discriminazione"
"Di indubbia attualità è il richiamo alla non discriminazione, cui ci vincola la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che indica tutti i possibili motivi di discriminazione da mettere al bando: il sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le convinzioni personali, le convinzioni politiche, fino, così recita l’articolo 6 della Carta, alla disabilità e all’orientamento sessuale". E’ quanto ha affermato il Presidente della Repubblica aprendo i lavori alla Farnesina della Conferenza Internazionale sulla violenza contro le donne. *
Discorso
Roma - Ministero Affari Esteri, 9 settembre 2009
Desidero rivolgere un cordiale benvenuto a tutte le personalità partecipanti a questo convegno indetto dal governo italiano nella scia degli incontri dello scorso luglio per il G8, ben al di là del suo formato tradizionale.
Il tema che verrà discusso è parte integrante di una questione cruciale del nostro tempo, se è vero che esso può definirsi - come lo definì anni fa un lungimirante pensatore italiano - l’età dei diritti. Sì, viviamo nell’età dei diritti, intendendo la complessità di questa espressione : diritti proclamati, diritti affermati o in via di affermazione, diritti da conquistare, diritti da rendere universali.
Certo, mai come negli ultimi decenni si era giunti a una visione così ampia, a una consapevolezza così profonda del riconoscimento dei diritti umani come condizione di convivenza civile, libera e democratica. Sempre aperta e legittima è la discussione sui diversi sistemi istituzionali e politici - sui diversi modelli di governo delle società - che coesistono e si confrontano nel mondo. Ma in qualsiasi contesto il pieno riconoscimento, la concreta affermazione dei diritti umani costituisce una innegabile pietra di paragone della condizione effettiva delle popolazioni e delle persone, del grado di avanzamento materiale e spirituale di un paese.
Diritti umani, come abbiamo imparato a dire meglio che con la vecchia formula di diritti dell’uomo, dando risalto alle problematiche proprie di quella metà dell’universo che è fatta di donne. Ed è facile constatare che sono soprattutto le donne a soffrire, in troppe parti del mondo, della limitazione o privazione di diritti fondamentali.
Al centro di questo convegno è stato posto un interrogativo angoscioso, che riguarda la persistenza e diffusione della violenza contro le donne. Si analizzeranno giustamente i molteplici aspetti di questo fenomeno. E desidero dire chiaramente che se ci sono fattispecie terribili di violenza - quelle associate a situazioni di conflitto e di emergenza, o a costumi barbarici come quello delle mutilazioni genitali femminili - troppe altre si riscontrano anche in paesi moderni avanzati: la violenza sessuale nella sua forma più brutale - l’aggressione e lo stupro - ma anche le violenze domestiche e le violenze, di varia natura, nel mondo del lavoro.
Dico questo in riferimento, purtroppo, al mio stesso paese. In paesi evoluti e ricchi come l’Italia, dotati di Costituzioni e di sistemi giuridici altamente sensibili ai diritti fondamentali delle donne, continuano a verificarsi fatti raccapriccianti, in particolare, negli ultimi tempi, di violenza di gruppo contro donne di ogni etnia, giovanissime e meno giovani. E ciò nonostante che il Parlamento italiano già da decenni si sia impegnato in una severa legislazione sulla violenza contro le donne, come reato contro la persona, e abbia di recente affrontato anche l’aspetto delle molestie e delle persecuzioni e discriminazioni contro le donne nei luoghi di lavoro.
In definitiva, qualunque parte del mondo e qualunque paese rappresentiamo in questa sala, dobbiamo sentirci egualmente responsabili dell’incompiutezza dei progressi faticosamente realizzati per l’affermazione della libertà, della dignità, e della parità di diritti delle donne. E dobbiamo sentirci egualmente impegnati a perseguire conquiste più comprensive, garantite e generalizzate.
Decisiva è la dimensione educativa di questo impegno. Non solo nel senso di assicurare l’accesso delle bambine e delle donne all’educazione, ancora negata in tanta parte del mondo. Ma nel senso di educare l’insieme delle nostre società ai valori dell’uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di sesso - articolo 2 della Costituzione italiana ; ai valori della non discriminazione - articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
E’ questo un impegno di indubbia attualità oggi in Italia. Intanto, perché stiamo sperimentando la complessità della presenza crescente di comunità immigrate, e del conseguente processo di integrazione da portare avanti. Integrazione, i cui cardini sono - come dice l’impostazione della seconda sessione di questo Convegno - nel rispetto della diversità di culture, religioni e tradizioni, nel rispetto dell’individuo e della sua dignità, da garantire insieme ai principi e alle leggi nazionali che regolano l’appartenenza alle società d’accoglienza. Ed è da tenersi presente la particolare situazione di vulnerabilità delle donne - insieme col loro specifico contributo - nei processi d’integrazione.
Di indubbia attualità è il richiamo alla non discriminazione, cui ci vincola la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che indica tutti i possibili motivi di discriminazione da mettere al bando : il sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le convinzioni personali, le convinzioni politiche, fino alla, così recita l’articolo 6 della Carta, disabilità e all’orientamento sessuale. Quest’ultima, innovativa nozione, va ricordata e sottolineata nel momento in cui l’intolleranza, la discriminazione, la violenza colpiscono persone e comunità omosessuali.
La lotta contro ogni sopruso ai danni delle donne, contro la xenofobia, contro l’omofobia, fa tutt’uno con la causa indivisibile del rifiuto dell’intolleranza e della violenza, in larga misura oggi alimentate in Italia dall’ignoranza, dalla perdita di valori ideali e morali, da un allontanamento spesso inconsapevole dai principi su cui la nostra Costituzione ha fondato la convivenza nazionale democratica.
In questo spirito desidero esprimere l’impegno dell’Italia, delle sue istituzioni repubblicane, nel sostenere gli orientamenti che scaturiranno dal Convegno, nel sostenerli tanto nel nostro paese quanto nelle più alte istituzioni internazionali.
G8 DONNE, NAPOLITANO: IN ITALIA ANCORA FATTI
RACCAPRICCIANTI (Ansa» 2009-09-09 13:57 - ripresa parziale)
[...]
CARFAGNA: 140 MLN VITTIME DI VIOLENZA NEL MONDO *
"Non siamo qui per lamentare la condizione femminile. Né solamente per denunciare o piangere. Siamo qui per la lotta e per la vittoria". Così il ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna ha aperto, alla Farnesina, la Conferenza internazionale sulla violenza contro le donne. Il ministro ha confermato che "l’affermazione dei diritti delle donne e l’eliminazione delle forme di violenza di cui sono vittime sono priorità del governo italiano sia sul piano interno che internazionale".
Centoquaranta milioni di donne sono vittime nel mondo di abusi fisici, psicologici e sessuali, oggetti di tratta ed aborti selettivi, di molestie. Si tratta di milioni di donne "picchiate, terrorizzate, vendute, violentate, umiliate". Violenze ed "orrori" che si consumano nella maggior parte di casi in famiglia: 50 mila donne ogni anno sono uccise da parenti stretti. Sono cifre impressionanti ed allarmanti quelle fornite dal ministro per le pari opportunità. "I numeri - ha osservato il ministro - confermano l’urgenza e la necessità dell’azione. Secondo l’ Organizzazione mondiale della sanità, almeno una donna su cinque nel mondo è stata vittima di abusi fisici o sessuali nel corso della sua vita. Statistiche della Banca Mondiale segnalano che, per le donne tra i 15 e 44 anni, il rischio di subire violenze domestiche o stupri è maggiore del rischio di cancro, incidenti o malaria. La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani grave e diffusa, che tocca la vita di innumerevoli donne e che é ostacolo al raggiungimento dell’uguaglianza, allo sviluppo e alla pace di tutti i continenti". Ciò che emerge - ha aggiunto Carfagna - "é solo la punta di un’iceberg, la cima di una montagna che proietta la sua ombra sull’intera società". La famiglia è un luogo a rischio per le violenze alle donne ma il 93% degli abusi sessuali perpetrate dai partner (il 67% del totale) non sono denunciati. Sessanta milioni sono poi le spose bambine, 8-14 anni.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ITALIA, LA LINGUA, I DIALETTI, ED ESSERI UMANI «CAPACI DI INTENDERSI E VOLARE»(B. FIGNON).
Donne e uomini «pensanti» per rompere il muro del silenzio
«Sono una snob, preferisco la ricchezza culturale allo scambio tra il corpo e la carriera.
In Italia domina la filosofia della differenza sessuale: le donne sono simili tra loro, dolci e sensibili.
L’«arma» della consapevolezza
di Nicla Vassallo (l’Unità, 12.09.2009)
Da snob mi consento diverse cose, ormai è «facile» si è snob nel confidare nella ricchezza culturale piuttosto che in quella anti-culturale, e/o nel nutrire disinteresse per lo «scambio tra corpo e carriera», e/o nell’esprimersi contro il cinismo. Mi consento di guardare poca Tv orwelliana, sfogliare quotidiani inglesi, indignarmi: è evidente anche a me che le donne (ma non tutte le donne) stiano impiegando ogni risorsa per esibirsi con fare sguaiato, valorizzare un corpo porno-soft (o hard), concepirsi alla stregua di effettivi oggetti sessuali (in quanto oggetti, si vendono e acquistano a «prezzo di mercato»), vivere la propria sessualità in funzione della gratificazione maschile (non di tutti i maschi), agognare denari e successi facili. Già le donne (ma non tutte le donne) aspirano all’uggiosa omogeneità delle letterine, modelle, troniste, veline e, recentemente, escort. Recentemente? Dai tempi di Eva? Senza trascurare che, banalmente, benché spogliarmi sia un mio diritto (si badi bene: non un mio dovere), rimane vero che vi sono nudità e nudità: alcune belle, pure, non strumentali, altre orribilmente pornografizzate.
Il privato si è trasformato in pubblico e il pubblico in privato. C’è privacy e privacy, pubblico e pubblico. Si promuove la lotta contro la violenza sulle donne, ma si promuovono anche le escort. Il denominatore comune: esternare. Eppure rido con Roberto Begnini a radio Rtl: «Parleremo anche di cose leggere, escort, mignotte e ballerine, tutte cose pubbliche. Non vorrei, Silvio, toccare temi privati come la crisi e la disoccupazione». Rido perché Begnini è un comico, e non un comico riciclato in un politico, né un politico camuffato da comico (le troppe gaffe di George Bush non mi facevano affatto ridere). Un riso amaro perché permane il dubbio che tutto questo si connetta (come?) a un vecchio slogan femminista: il privato è politico, è pubblico. Nella nostra presente società, scurrile e volgare, gli interpreti e le interpreti dello slogan ormai eccedono: non vorrei discettare con loro di Kate Millett (chi era costei?), meglio qualche «gossip» sui modelli femminili assoluti della contemporaneità: Victoria Beckhman, Paris Hilton, e via dicendo, quando va bene.
Perché non reagire? Reagire a cosa? Non reagiamo a noi stesse che sbeffeggiamo la democrazia, astenendoci dal votare per la fecondazione assistita, la diagnosi preimpianto, la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Non reagiamo quando gli intellettuali tessono le lodi dell’irrazionalità, col risultano che la dicotomia femmina/maschio, donna/uomo (dicotomia sessista) viene a rafforzarsi nell’immaginario collettivo, con i maschi/uomini che permangono nell’essere giudicati non solo animali umani razionali, ma anche attivi e oggettivi, in opposizione a donne che risultano non solo animali non umani (in quanto oggetti sessuali) ma anche irrazionali, emotive, passive, soggettive. Non reagiamo di fronte ai sinonimi di «uomo» e di «donna» che troviamo nella versione 2007 di Microsoft Office Word.
Sinonimi di «uomo»: «essere umano, persona, individuo, genere umano, il prossimo, umanità, gente, maschio, adulto, addetto, operaio, tecnico, giocatore, atleta, soldato, militare, elemento, unità, un tizio, un tale, uno, qualcuno.
Sinonimi di «donna»: «femmina,gentil sesso, bel sesso, sesso debole, signora, signorina, donna di servizio, domestica, cameriera, collaboratrice familiare, colf, governante, dama, regina. Manca «escort»: peccato!
Il referendum, il fascino dell’irrazionalità, i sinonimi Microsoft appaiono innocui rispetto a «culi, fighe, peni, tette» sbattuti ovunque, oltre che in prima pagina. Apparentemente innocui. Perché se irrazionali, emotive, passive, soggettive, le donne non riescono a nutrire fiducia nelle proprie capacità intellettive, ad aspirare, per merito comprovato, non per «gnoccheria», a posizioni scientifico-culturali di spicco, ove il corpo non debba venir mercificato.
Per di più, prima di reagire in quanto donne, e non in quanto donne e uomini consapevoli nonché pensanti, occorre sollevare qualche semplice domanda: cosa abbiamo in comune noi donne, oltre il sesso d’appartenenza - sempre che con «sesso» ci si riferisca a qualcosa di univoco?; l’appartenenza a un sesso e/o a un genere è «naturale», nel senso che, se sei femmina (o maschio), donna (o uomo), rimani tale per la tua intera esistenza? Sostenendo che tutte le donne appartengono al medesimo sesso femminile e tutti gli uomini al medesimo sesso maschile non risultiamo ciechi nei confronti delle tante differenze che sussistono tra le stesse femmine/ donne e tra gli stessi maschi/uomini, rischiando di sottolineare e condizionare indebitamente comportamenti e competenze declinate al «maschile» e al «femminile»? Perché ingabbiare le nostre individualità, le nostre singole peculiarità?
In Italia domina la cosiddetta filosofia della differenza sessuale, su un piano anche socio-politico e religioso: le donne sono essenzialmente simili, e da ciò ne deriva, volente o nolente, che tutte le donne sono (o debbono essere?), più o meno, dolci, empatiche, sensibili; adatte a compiti di cura, e non a quelli dirigenziali, intellettuali, militari, politici, scientifici; umili e deferenti; poco assertive; fisicamente e psichicamente deboli. E perché non anche necessariamente provocanti, con una nuova ermeneutica inconsapevole del «questo corpo è mio e me lo gestisco io», o forse solo un’estrosa interpretazione del «my body is my own business»? È l’essenzialismo, non solo gli uomini di potere e le loro escort, a trasmetterci, almeno a livello teorico, la convinzione che ciò che è virtuoso nel femminile è patologico nel maschile, e viceversa.
È virtuoso l’uomo con le rughe, che si circonda di escort, mentre è patologica la donna con le rughe che si circonda di escort; è virtuoso l’uomo duro, patologica la donna dura fortuna che le realtà ogni tanto smentiscono le fantasie: per esempio, alla fine le rughe di Hillary Clinton hanno prevalso su quelle di John McCain, mentre a capo degli istruttori dell’US Army vi è il sergente maggiore Teresa King. In verità, apparteniamo in modo fluido al mondo, in quanto donne e uomini in carne e ossa; non possiamo esentarci dalle nostre responsabilità individuali, schermandoci dietro la schematicità delle essenze. Responsabilità che concernono anche la preferenza sessuale: desideri, sogni, fantasie, identità, atti, scelte, riconoscimenti privati e pubblici, non invariabilmente eterosessuali, anzi, nonostante l’imperante eterosessismo e la crescente irragionevole omofobia.
Se il silenzio deve essere violato, non potrà, in fondo, esserlo che da donne e uomini, consapevoli e pensanti. La donna non è che pura apparenza, al pari de l’uomo, uno strumento coercitivo per imporre a singoli individui determinati comportamenti, legittimare determinate pratiche e delegittimarne altre. Ruoli culturali, professionali, sessuali e sociali distinti? Se rispondi in senso negativo, non sei una «vera donna» o un «vero uomo»? La disapprovazione contenuta nel «Tu non sei una vera donna» ci interessa sul serio? Le «vere» donne ormai (escort o madonne, che siano, nella vecchia classificazione, non affatto desueta) non risultano, forse, donne solo a causa di desideri sessuali, che corrispondono a quelli che la donna deve avere, donne che frequentano certi palazzi e certi uomini?
Come reagire? Con una comunicazione, fisico-verbale, ove non susanticonformistica, in cui le donne (almeno alcune) travalicano, anche da tempo, lo stereotipo logorato dell’oggetto da assoggettare, consumare. Donne e uomini, consapevoli e pensanti, possono relazionarsi tra loro da veri e propri individui, rispettarsi, per evidenziare le molteplici differenze che corrono tra donne, al di là di quelle insulse omogeneizzazioni che le desiderano comunque silenti.
Pur ricordando che anche il silenzio è una forma di comunicazione, rompiamo il silenzio, sì, insieme agli uomini pensanti, seguendo la stupenda mente androgina di Virginia Woolf (chi era costei?) nelle Tre ghinee: «Ci troviamo qui... per porci delle domande. E sono domande molto importanti; e abbiamo pochissimo tempo per trovare la risposta. Le domande che dobbiamo porci... e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse, la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, per sempre... È nostro dovere, ora, continuare a pensare... Pensare, pensare, dobbiamo... Non dobbiamo mai smettere di pensare: che “civiltà” è questa in cui ci troviamo a vivere?». Difficile accusare Virginia Woolf e la sottoscritta di bigottaggine; per quanto mi riguarda, sono solo una vecchia signora posata, di quarantasei anni, che cerca di adempiere al proprio dovere. ❖
LA VIOLENZA È PURE QUI
di Barbara Spinelli (L’Altro, 11 settembre 2009)
Un evento destinato ad essere epocale, il primo G8 sulla violenza contro le donne, disertato da first ladies e compagni, e relegato alla competenza settoriale delle ministre di famiglia. Neanche un messaggio di saluto o di buon auspicio dai grandi otto, indice forse di quanto davvero ci fosse bisogno di organizzare questo evento, se non altro per reclamare la necessità di discutere delle strategie di contrasto alla violenza di genere all’interno del G8 stesso, posto che comunque anche questo è uno degli obiettivi del millennio che dovrebbe interessare i Grandi.
Lo ha sottolineato tra gli applausi, Nasina Rahmani, coordinatrice di Action Aid Afghanistan: «La prospettiva di genere pervade tutti i temi, ma è stata disdegnata dal G8, anche se tutti i temi trattati in quella sede riguardavano in primo luogo le donne, che rappresentano più della metà della popolazione mondiale». Pure, in assenza, di first ladies in giro per shopping, la femminilizzazione dell’evento nel migliore italian style era palpabile, stava nel tocco di classe degli scialli, braccialetti e fiori bianchi con cui la Ministra ha omaggiato le relatrici. Poche le studiose italiane e le Ong invitate, pesava l’assenza in sala dei centri antiviolenza e dell’Udi. Corpose le delegazioni governative africane e mediorientali.
Assenti rappresentanze di donne centro e sudamericane ed australiane. Che si trattasse di una grande sceneggiatura ad uso e consumo dei media nazionali ed internazionali si sapeva: questa Conferenza è funzionale sia ad una ricandidatura nel Consiglio dei diritti umani dell’Italia, sia ad ottenere visibilità e consensi dalla comunità internazionale in vista del deposito, da parte del Governo, entro fine anno, del Rapporto periodico al Comitato per l’applicazione della Convenzione Onu per l’Eliminazione di ogni forma, di discriminazione (Cedaw).
Tuttavia, non era così scontato che il Governo assumesse come propri i contenuti che da sempre l’Onu propone in tema di violenza di genere come violazione dei diritti umani, visto il presupposto pubblicitario della rosa bianca, declinazione per immagini della retorica familista e protezionista che da sempre ha caratterizzato l’approccio della Carfagna. E invece Mara ha stupito tutti, nominando addirittura il patriarcato ed andando ben oltre quelli che sono gli indirizzi Onu, con un approccio a tratti marcatamente femminista. Ad ascoltarla dal vivo, con quel suo tailleur dal girocollo mozzato, gli occhioni grandi grandi, fissi, e il fard marrone sul viso pallido che le disegnava quel triangolo alieno sul volto, con la sua vocina atona, c’era da rimanerci fulminati: «La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani grave e diffusa, che tocca la vita di innumerevoli donne e che è un ostacolo al raggiungimento dell’uguaglianza, allo sviluppo e alla pace in tutti i continenti. Non è un tema politico, non è una battaglia che si può combattere solo con le leggi, con la polizia, con le alleanze politiche. E’ piuttosto una voragine scura inflitta nei secoli, un taglio nell’anima dell’uomo stesso (...). Non c’è Paese, no c’è universo sociale che possa dirsi alieno dalla sciagura della violenza sulle donne (...). Noi non siamo qui per lamentare la condizione femminile (...). Noi vogliamo portare alla luce e lottare, usando contro il problema globale un’arma globale (...). Non siamo qui solo per denunciare, per raccontare, per piangere ma per combattere». I contenuti del suo discorso di apertura mi hanno lasciato perplessa. Lo sviluppo della Conferenza ha poi conlèrmato la, fondatezza dei miei dubbi.
Consegnati i discorsi introduttivi alla stampa, dunque proiettata urbi et orbi la figura di bianco agghindata della Mara paladina dei diritti umani, i lavori della Conferenza hanno rivelato la schizofrenia della messinscena mediatica, mostrando i contenuti reali delle politiche di pari opportunità veicolate dal governo italiano: approccio colonialista e di stampo repressivo per quanto concerne i diritti delle donne migranti, assenza di una visione d’insieme dello stato di autodeterminazione delle donne italiane, incapacità di cogliere gli obbiettivi prioritari nelle politiche nazionali, negazione del ruolo cruciale dei centri antiviolenza e dell’associazionismo femminista nella lotta quotidiana alla violenza di genere.
Da segnalare l’attenzione delle relatrici alla lotta alla tratta: l’intervento di Isoke Aikpitanyi ha zittito la platea, e le sue affermazioni durissime come pietre hanno lasciato il segno («ogni donna immigrata stuprata salva una donna bianca dallo stupro, è sempre più fucile usare violenza contro chi non esiste, non ha diritti», «la tratta è come uno stupro a pagamento»), così come il suo momento di commozione, subito trasformato in show per le doti consolatorie della Ministra.
Al finire della prima giornata, nel susseguirsi incessante di quaranta relatori (di cui una o due Ministre - spesso della Famiglia - per ogni Panel), pesava come un macigno l’assenza di voci italiane capaci di pronunciarsi sullo stato delle donne in Italia. Se Giuseppe Losasso di "Smile Again" ha parlato del progetto di chirurghi plastici italiani di ricostruzione del volto di donne’pakistane acidificate, patetici sono stati i tentativi di Alessandra Necci (consigliera del presidente del senato) di raccontarci nel panel sull’accesso all’educazione come le donne italiane si sono conquistate il diritto all’istruzione partendo dall’antica Roma ad oggi (e saltando passaggi significativi come quello del femminismo) e quello di Simonetta Matone nel panel sul ruolo del diritto internazionale di esporre (tema scelto a piacere?) il dramma della sottrazione al genitore italiano del minore da parte del genitore straniero.
Tolta la dichiarazione introduttiva che la violenza contro le donne riguarda ogni cultura e paese, i compatrioti intervenuti sì sono ben guardati dal fornire un quadro di insieme sullo stato dei diritti delle donne nel nostro Paese, offrire dati statistici, illustrare gli interventi legislativi in materia. Zero autocoscienza.
Al contrario, numerosi sono stati gli interventi di donne e uomini italiani pronti a puntare il dito contro le barbarie delle mgf e l’intollerabile schiavitù in cui l’islam relega le donne musulmane: il multiculturalismo fa male alle donne! Un eco che si ripete, anche da parte di attiviste americane ed europee, un susseguirsi di rigurgiti coloniali, che ci vedono ancora, nonostante il tramonto di Bush, pronti a esportare democrazia per le donne degli altri, lasciando le nostre a fare gli angeli del focolare tra lividi e mazzate, alla mercé di folli e ignoranti. Patetica Souad Sbai, secondo la quale chi bruciava reggiseni in piazza negli anni settanta si dovrebbe oggi vergognare di tollerare il burqa, e non da meno Carlo Panella, secondo il quale solo l’unica religione che rende schiave le donne è quella musulmana, per cui va imposta per legge una versione dell’Islam gender oriented o non si sconfiggerà mai la violenza contro le donne. Argomentazioni fondamentaliste, che, per la quantità degli interventi di condanna del mondo musulmano, hanno trasformato i lavori della conferenza in un proclama strumentale a ribadire che la violenza sulle donne riguarda comunque soltanto gli altri, e nello specifico i musulmani, considerazione strumentale per ribadire la legittimità del colonialismo culturale occidentale e dunque di politiche securitarie ed escludenti verso l’immigrazione proveniente da Paesi indesiderati.
Fortunatamente, non sono mancati interventi chiarificatori, che hanno riportato il dibattito entro i giusti binari: tra questi va segnalato quello applauditissimo dalle ong di Elahm Manca, intellettuale e scrittrice araba, che ha ribadito con forza l’incongruenza del dibattito per come si stava sviluppando: «Non si tratta di condannare la religione musulmana e rivendicare l’applicazione dei diritti umani come acquis di valori occidentali, ha detto, si tratta di diritti umani, un patrimonio universale che deve essere invocato da ogni donna del mondo per liberarsi ognuna dalla religione o dalla cultura che la opprime con una rivoluzione sessuale, affinchè uomini e donne possano interpretarlo imparando ad acquisire una volontà libera da ostacoli dogmatici».
Come ben diceva la ministra della famiglia del Marocco, stupri e violenze d genere sono gli unici crimini al mondo in cui le vittime vengono socialmente e giuridicamente considerate colpevoli dell’offesa che subiscono. Ecco che allora, suggerisce una attivista di Ni poutes Ni soumises, il primo passo per restituire dignità alle donne è veicolare attraverso la cultura, l’educazione, la sensibilizzazione, il senso del rispetto nei confronti delle Persone, aldilà del genere, orientamento sessuale o etnia di appartenenza. Insomma va riconosciuta la matrice culturale universale del patriarcato, e per smantellarlo bisogna rivolgersi soprattutto agli uomini, perché come giustamente a osservato Zeyno Baran, direttora dell’Hudson Institute Center for Eurasian Policy, nel panel sull’integrazione, è arrivata l’ora di insegnare agli uomini ad usare comportamenti civili e rispettosi nei confronti della donna per insegnar loro cosa distingue la bestia dall’essere umano!
Dello stesso avviso l’intervento di Gianguido Pagi Palumbo, di maschile plurale, che sottolinea la necessità di una seria presa di coscienza di tutti gli uomini a partire dal capo dello stato e al premier fino al singolo cittadino, perché alle donne servono uomini nuovi al loro fianco, che si siano interrogati sulla propria maschilità, pena a una lotta destinata al fallimento. D’altronde, faceva, notare la Bonino, se tutte le violenze subite dalle donne avessero investito il corpo maschile, se ad essere mutilato fosse stato il loro organo riproduttivo, forse il problema si sarebbe risolto ben da tempo!
La Conferenza si è chiusa nella maniera più onorevole per l’immagine internazionale del nostro Paese, ovvero accogliendo le posizioni più femministe e lungimiranti delle sessioni. Peccato però, che ancora una volta i diritti umani sono destinati a rimanere lettera morta, se la lotta alla violenza degli uomini contro le donne si riduce all’ennesima dichiarazione governativa di impegno formale.
Allarme violenza. Donne all’inferno
Nel mondo 140 milioni di vittime. Da Occidente a Oriente stupri e molestie senza confini. La famiglia continua a essere luogo di orrori e umiliazioni: 50mila omicidi all’anno commessi da parenti stretti. L’Italia maglia nera: in sette milioni hanno subito abusi. I racconti drammatici delle afghane
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, l’Unità 10.9.09)
Picchiate, terrorizzate, vendute, violentate, umiliate. Un mondo rosa segnato dai più terribili crimini. Spesso impuniti, se non giustificati da codici vergognosi e da società patriarcali che considerano la donna molto meno di un oggetto. Dati agghiaccianti, testimonianze sconvolgenti, denunce argomentate: sono il sale della Conferenza internazionale sulla violenza contro le donne promossa dall’Italia come presidente di turno del G8 apertasi ieri alla Farnesina. I dati, innanzitutto: ripresi nel suo intervento dalla ministra per le Pari Opportunità Mara Carfagna. Centoquaranta milioni: sono le donne vittime nel mondo di abusi fisici, psicologici e sessuali. Una violenza diffusa, un terribile filo rosso-sangue che unisce Oriente a Occidente, democrazie «evolute» a regimi teocratici e sessuofobici. E non è certo l’istituzione-famiglia a far argine alla violenza contro le donne. È vero il contrario.
Non solo cifre. Violenza e orrori si consumano nella maggior parte dei casi tra le mura domestiche: 50mila donne sono uccise ogni anno da parenti stretti, molti dei quali riescono a farla franca perché coperti da codici retrivi, come quello sui «delitti d’onore» che vige ancora in decine di Paesi in Africa, Asia, Medio Oriente.
Dietro ognuna delle 140 milioni di donne vittime di abusi e violenze, di stupri domestici e di stupri di guerra, c’è un volto, una storia, spesso il tentativo eroico, pagato con la morte, di ribellarsi ai propri aguzzini. Il loro sacrificio ha generato ribellione, ha portato altre donne, in Africa, in Asia, nella civilizzata Europa, a essere protagoniste di straordinarie battaglie di libertà. Alcune di loro sono presenti a Roma. Presenti anche per quelle donne che sono divenute il simbolo di una battaglia di civiltà e che hanno pagato per questo un prezzo altissimo: con gli arresti domiciliari che si protraggono da anni, la premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi, o ancor peggio con la morte, Neda Salehi Agha-Soltani, la studentessa iraniana uccisa dai miliziani, divenuta il simbolo dell’«Onda verde» di Teheran. Il loro vissuto, la loro determinazione sono una goccia di speranza. Una goccia in un mare putrido. Quello che l’Organizzazione Mondiale della Sanità sintetizza in questo dato: almeno una donna su cinque nel mondo è stata vittima di abusi fisici o sessuali; una su quattro è stata maltrattata da un partner o ex partner; quasi tutte le donne hanno subito una o più molestie di tipo sessuale: telefonate oscene, esibizionismi, molestie sul lavoro. Statistiche della Banca Mondiale segnalano che per le donne da i 15 ai 44 anni, il rischio di subire violenze domestiche o stupri è maggiore del rischio di cancro, incidenti o malaria.
La famiglia è un luogo a rischio per le violenze alle donne, ma il 93% degli abusi sessuali perpetrati dai partner (il 67%) non sono denunciati. Si tratta di un fenomeno in crescita, come in crescita è il numero delle spose bambine (8-14 anni): oggi sono oltre sessanta milioni. Un universo di dolore e di rivolta che ha il volto, le parole, le lacrime di Isoke Aikpitanyi, nigeriana, 30 anni. Alla platea della Conferenza di Roma, Isoke racconta la drammatica esperienza del terribile viaggio dalla Nigeria, del suo arrivo in Italia, delle violenze di cui è oggetto da parte di donne connazionali (maman) e di uomini che la impongono sulla strada. «La prima violenza che si subisce dice è proprio quella delle maman che trattano le altre donne come serve. In Africa fra le donne c’è solidarietà, in Europa diventano carnefici». Isoke parla delle violenze subite, della famiglia che «fa finta di niente e che ci chiede soldi.
Spesso si scappa da un inferno che non è peggiore di quello che si trova. Ciò che pesa tanto è il giudizio pubblico, il fatto che vedendoci sulle strade, magari mezze nude, si pensi che tutto ciò sia voluto da noi». La storia di Isoke Aikpitanyi è a lieto fine. Nel 2003 incontra un cliente che poi l’aiuterà a trovare il coraggio di scappare dai suoi aguzzini e che diventerà suo marito. Ma per una storia a lieto fine ve ne sono mille altre dall’esito opposto.
L’Italia alla sbarra. Di questo universo di violenza sopraffazione, abusi contro le donne, l’Italia è parte integrante. Nel nostro Paese sette milioni di donne hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita. Di queste (dati Istat) 2 milioni e 938 mila hanno subito violenza dal partner o dall’ex. Il rapporto dell’Istat sottolinea come «nella quasi totalità dei casi le violenze non sono denunciate; il sommerso è elevatissimo e raggiunge circa il 93% delle violenze da un partner, ed inoltre, è consistente anche la quota di donne che non parla con nessuno delle violenze subite (33,9% per quelle subite dal partner)».
Storie personali s’intrecciano con la tragedia di un popolo. È il caso dell’Afghanistan: «Le donne sono le vere vittime della guerra che da decenni sconvolge il mio Paese e sono state discriminate sia sotto il governo dei talebani che, precedentemente, dei mujahiddin». Due movimenti estremisti, che «impedivano con la forza alle ragazze di frequentare le scuole», denuncia Nasima Rahmani, coordinatrice del programma ActionAid per i diritti delle donne in Afghanistan. «Io stessa racconta non ho potuto studiare fino all’età di nove anni e ho impiegato ben 13 anni per potermi laureare in legge perché i talebani ci obbligavano a rimanere in casa». Con la caduta del regime del mullah Omar, aggiunge Nasima, «l’accesso all’istruzione è diventato più facile, anche se ancora oggi meno di un terzo degli iscritti a scuola in Afghanistan è donna». La violenza contro le donne è anche questo: negar loro il diritto all’istruzione. A ricordarlo è anche la yemenita Shada Nasser, l’avvocata che ha difeso le «spose bambine» nelle cause di divorzio: il problema dello Yemen, dice, «è la povertà e l’analfabetismo.
Rivendicazioni di libertà che cominciano a far breccia anche nelle realtà più chiuse. Samar Al Mogren, giornalista dell’Arabia Saudita, sottolinea che nonostante nel suo Paese il percorso per l’emancipazione sia partito tardi ora sta andando avanti in modo spedito. Lì le donne non possono ancora guidare l’auto e per recarsi all’estero hanno bisogno del permesso scritto del marito (come è capitato a lei) ma, ad esempio, sul fronte dell’informazione, rileva, «si iniziano a vedere spiragli interessanti». «La violenza contro le donne è un fenomeno trasversale a tutti i Paesi e a tutte le classi sociali» sostiene con decisione Mufuliat Fijabi, rappresentante dell’Ong nigeriana Baobab. «Ci sono violenze in presenza di tutte le religioni, in tutto il mondo - le fa eco Sayran Ates, avvocata turca che vive in Germania dove ricopre incarichi direttivi nella Conferenza islamica tedesca. Il problema viene dal fondamentalismo. L’Islam ha bisogno di una rivoluzione sessuale. Bisogna dare alle donne i propri diritti e parlare di sessualità, libera e non discriminata».❖
***
Le associazioni criticano il summit: «Solo parole, il governo stanzi fondi»
L’aveva anticipato nei giorni scorsi in un’intervista a l’Unità. Lo ha ribadito ieri: Quella promossa dall’Italia è una Conferenza «inutile, non c’è alcuna proposta concreta. La violenza alle donne non si combatte con i braccialetti ma con progetti e programmi. E poi qui non sono rappresentati i Movimenti delle donne». Assenza denunciata anche dall’Udi. Così Daniela Colombo, presidente di Aidos, una ong che realizza programmi di cooperazione allo sviluppo per i diritti delle donne. Colombo critica «la mancanza di continuità con il passato» che inficia i risultati degli interventi contro la violenza, «qui ognuno parla per conto suo, dice qualcosa, ma senza una proposta concreta. Domani (oggi, ndr) vedremo il documento ma per ora non c’è nulla di concreto».
La presidente dell’Aidos sottolinea che la violenza contro le donne si combatte con programmi educativi sin dall’infanzia e con interventi nel sistema sanitario («ci sono manuali dell’Onu su questo») e poi c’è la questione delle risorse: «L’Italia denuncia Daniela Colombo quest’anno ha dato appena 500mila euro alle agenzie dell’Onu come Unifem e Unfpa, contro i 4 milioni dello scorso anno e i 50 milioni della Spagna». Cifre che inchiodano il governo Berlusconi a impegni assunti e non mantenuti. A parole senza fatti. Un classico del Cavaliere. U.D.G.
Sui giornali internazionali impazzano gli articoli sul premier e le sue feste
"Uno degli aspetti più deprimenti dello scondalo è che resti ancora al potere"
La stampa estera e le "donne del Cavaliere"
e il Times di Londra titola: "Roma brucia"
dal corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - "Roma brucia". Il titolo dell’editoriale del Times di oggi si ferma a questo, ma è chiara l’allusione a un Nerone che suona la cetra mentre tutto crolla attorno a lui. "Uno degli aspetti più deprimenti dello scandalo che avvolge il primo ministro italiano è che egli, nonostante un calo di consensi nei sondaggi, rimanga ancora al potere", afferma il commento della direzione del quotidiano londinese.
Ci sono varie spiegazioni di questo, continua l’editoriale, "la più pertinente sembra essere la mancanza di un’alternativa credibile in un’opposizione divisa dopo la caduta del governo Prodi e tra gli stessi alleati del premier nel centro-destra". Ma anche se per il momento Berlusconi sopravvive, il presidente della Camera Gianfranco Fini, dopo il dissidio di questi giorni con il leader del Pdl, "sta sicuramente pensando al lungo termine" e "rappresenta il meglio della destra, valori familiari e conservatorismo tradizionale".
Tre cose rendono Berlusconi "vulnerabile", scrive il Times. La prima è "il danno che egli ha causato all’immagine dell’Italia all’estero". La seconda è "la mentalità da bunker in cui si è rinchiuso, le cause per diffamazione, le smentite, il voler far finta di credere che tutto va bene, nascondono una rabbia cocente per l’incapacità del suo mondo virtuale di proteggerlo". La terza è un "non detto timore di ricatti".
Varie delle giovani donne con cui il premier si è intrattenuto, osserva l’editoriale, sembrano essere straniere. "Cosa accadrebbe se una potenza straniera decidesse di strumentalizzare questa pacchiana faccenda? Non è una preoccupazione solo per Roma. L’Italia è un importante partner occidentale nella Nato, dai Balcani all’Afghanistan. Il comportamento del primo ministro preoccupa e imbarazza tutti gli amici del suo Paese".
Oltre all’editoriale, il Times dedica un’altra pagina intera al caso Berlusconi, con due articoli, nei quali osserva che le rivelazioni sulle deposizioni di Gianpaolo Tarantini a proposito delle "30 donne fornite a Berlusconi per i suoi party aumentano la pressione sul premier", la cui bonomia e i cui sorrisi "appaiono sempre meno convincenti, perché i problemi si accumulano, distraendolo in un momento in cui l’Italia ha bisogno di una mano ferma" che guidi l’economia. Il capo del governo, conclude il quotidiano di Londra condividendo l’opinione di un commentatore italiano, dà l’impressione di essere "un uomo arrabbiato, sconfitto e depresso, che litiga con tutti".
Titoli e servizi analoghi sugli altri principali quotidiani britannici. "Altre cinque donne pagate da Berlusconi", titola il Daily Telegraph, notando che gli ultimi sviluppo "aumentano la sensazione che la permanenza al potere del premier abbia i giorni contati" a causa dei suoi conflitti con i media, la Chiesa, gli alleati interni. Anche il Guardian, come il Times, osserva che il fatto che varie delle donne incontrate da Berlusconi siano straniere potrebbe avere "compromesso la sicurezza nazionale, come afferma l’opposizione". E il Daily Mail titola su "Silvio e la sua galleria di ragazze da party", pubblicando una serie di foto delle donne coinvolte nello scandalo.
Le nuove rivelazioni figurano nei titoli di tutta la stampa europea e internazionale. "Trenta accompagnatrici per allietare le serate del Cavaliere", titola il Figaro in Francia, dove Le Monde parla di una "strategia della tensione" lanciata da Berlusconi contro i suoi avversari, che però "potrebbe rivelarsi più pericolosa di quanto lui pensi". In Spagna, il Mundo titola: "Prostituzione e cocaina sono le chiavi del successo, un imprenditore ammette che pagava droga e ragazze per Berlusconi". La Voz de Galicia scrive che Tarantini ha organizzato "fiesta con 30 chicas" per Berlusconi. El Pais titola: "Un amico di Berlusconi gli organizzò 18 feste con prostitute", ricordando, in un altro servizio, che proprio in questo momento di crisi personale e di scandali il premier italiano si appresta a incontrarsi in Sardegna con il premier spagnolo Zapatero, con il quale "ha ben poco in comune, ideologicamente e personalmente", ma l’incontro era stabilito da tempo.
In Irlanda, un altro paese fortemente cattolico che segue con grande attenzione l’evolversi della Berlusconi story, l’Irish Times la definisce "una soap opera" in cui si aggiungono sempre nuovi colpi di scena e l’Irish Independent titola sulle "esplosive rivelazioni" riguardo a "trenta call girls" che "andavano ai party di Berlusconi".
E continuano a fare il giro del mondo, la vicenda arriva fino in Australia, dove Mx scrive sulla "string of hookers", la collana di prostitute, del premier; e in Argentina, dove il Clarin titola senza mezzi termini: 30 prostitute a 18 feste per "el capo".
* la Repubblica, 10 settembre 2009