In un articolo scritto nel 1958, l’apprensione per la sorte dei principi conquistati dopo il fascismo e la sottolineatura di ciò a cui non si dovrà mai rinunciare, le libertà civili, politiche e sociali
Oggi non crediamo, come credevano i liberali e i socialisti del primo Novecento, che il cammino democratico sia inesorabile
Bisogna essere sempre vigilanti, non rassegnarsi, ma neppure abbandonarsi alle sorti fatalmente progressive dell’umanità
Questo testo comparve nel 1958 su "Risorgimento" che, in occasione del primo decennale della Costituzione, aveva promosso un’inchiesta. Venne poi pubblicato, nello stesso anno, sul bollettino dell’Ateneo di Torino.
di Norberto Bobbio (la Repubblica, 8.1.2009)
Quando parliamo di democrazia, non ci riferiamo soltanto a un insieme di istituzioni, ma indichiamo anche una generale concezione della vita. Nella democrazia siamo impegnati non soltanto come cittadini aventi certi diritti e certi doveri, ma anche come uomini che debbono ispirarsi a un certo modo di vivere e di comportarsi con se stessi e con gli altri.
Come regime politico la democrazia moderna è fondata sul riconoscimento e la garanzia della libertà sotto tre aspetti fondamentali: la libertà civile, la libertà politica e la libertà sociale. Per libertà civile s’intende la facoltà, attribuita ad ogni cittadino, di fare scelte personali senza ingerenza da parte dei pubblici poteri, in quei campi della vita spirituale ed economica, entro i quali si spiega, si esprime, si rafforza la personalità di ciascuno. Attraverso la libertà politica, che è il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione delle leggi, viene riconosciuto al cittadino il potere di contribuire alle scelte politiche che determinano l’orientamento del governo, e di discutere e magari di modificare le scelte politiche fatte da altri, in modo che il potere politico perda il carattere odioso di oppressione dall’alto. Inoltre, oggi siamo convinti che libertà civile e libertà politica siano nomi vani qualora non vengano integrate dalla libertà sociale, che sola può dare al cittadino un potere effettivo e non solo astratto o formale, e gli consente di soddisfare i propri bisogni fondamentali e di sviluppare le proprie capacità naturali.
Queste tre libertà sono l’espressione di una compiuta concezione della vita e della storia, della più alta e umanamente più ricca concezione della vita e della storia che gli uomini abbiano creato nel corso dei secoli. Dietro la libertà civile c’è il riconoscimento dell’uomo come persona, e quindi il principio che società giusta è soltanto quella in cui il potere dello stato ha dei limiti ben stabiliti e invalicabili, e ogni abuso di potere può essere legittimamente, cioè con mezzi giuridici, respinto, e vi domina lo spirito del dialogo, il metodo della persuasione contro ogni forma di dogmatismo delle idee, di fanatismo, di oppressione spirituale, di violenza fisica e morale. Dietro la libertà politica c’è l’idea della fondamentale eguaglianza degli uomini di fronte al potere politico, il principio che dinanzi al compito di governare, essenziale per la sopravvivenza stessa e per lo sviluppo della società umana, non vi sono eletti e reprobi, governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati, classi inferiori e classi superiori, ma tutti possono essere, a volta a volta, governanti o governati, e gli uni e gli altri si avvicendano secondo gli eventi, gli interessi, le ideologie. Infine, dietro la libertà sociale c’è il principio, tardi e faticosamente apparso, ma non più rifiutabile, che gli uomini contano, devono contare, non per quello che hanno, ma per quello che fanno, e il lavoro, non la proprietà, il contributo effettivo che ciascuno può dare secondo le proprie capacità allo sviluppo sociale, e non il possesso che ciascuno detiene senza merito o in misura non proporzionata al merito, costituisce la dignità civile dell’uomo in società.
Una democrazia ha bisogno, certo, di istituzioni adatte, ma non vive se queste istituzioni non sono alimentate da saldi principi. Là dove i principi che hanno ispirato le istituzioni perdono vigore negli animi, anche le istituzioni decadono, diventano, prima, vuoti scheletri, e rischiano poi al primo urto di finire in polvere. Se oggi c’è un problema della democrazia in Italia, è più un problema di principi che di istituzioni. A dieci anni dalla promulgazione della costituzione possiamo dire che le principali istituzioni per il funzionamento di uno stato democratico esistono. Ma possiamo dire con altrettanta sicurezza che i principi delle democrazia siano diventati parte viva del nostro costume? Non posso non esprime su questo punto qualche apprensione.
Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell’umanità. Oggi non crediamo, come credevano i liberali, i democratici, i socialisti al principio del secolo, che la democrazia sia un cammino fatale. Io appartengo alla generazione che ha appreso dalla Resistenza europea qual somma di sofferenze sia stata necessaria per restituire l’Europa alla vita civile. La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti. Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme.
Le libertà oggi a rischio
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 8.1.2009)
Professor Gustavo Zagrebelsky, qual è l’insegnamento essenziale che viene dalla lezione pubblicata in questa pagina?
«Si può notare quanto questo testo sia lontano dal cliché che fa del professor Bobbio un teorico della democrazia esclusivamente formale, cioè della democrazia come insieme di regole procedurali. Senza queste regole, non c’è democrazia. Ma non è vero che la democrazia si esaurisca qui. Non bastano le istituzioni; occorre che le istituzioni siano "alimentate da saldi principi" e questi saldi principi sono l’humus della democrazia. Occorre dunque che le forme della democrazia operino in una sostanza democratica. Bobbio, in questo campo, era tutt’altro che un formalista. Avendo appreso la lezione dalla teoria e dalla storia, sapeva bene che, senza sostanza, la democrazia si trasforma in un guscio vuoto che può contenere, cercando magari di nasconderla o di imbellettarla, qualsiasi sozzura e che ciò, alla fine, si rivolgerà contro le sue regole formali, rendendole odiose ai più. Se le procedure democratiche si riducono a una scorciatoia per gli interessi dei potenti di turno, è facile che la frustrazione dei molti possa essere indirizzata contro la democrazia, invece che contro chi ne abusa. L’origine del populismo è questa».
Sta parlando di noi?
«Sto parlando, mi pare, di un rischio che la democrazia corre in quanto tale. Se poi oggi viviamo in condizioni particolari di pericolo, ciascuno giudichi da sé. Per dare un giudizio, questo testo suggerisce di non limitarci alle forme e di portare l’attenzione sulla sostanza. Bene o male, le forme ci sono o, se non ci sono, è perché, prima, si è persa di vista la sostanza».
Tre sono i punti essenziali indicati da Bobbio: libertà civili, libertà politiche, libertà sociali. Quali libertà sono oggi più "a rischio"?
«Questo testo parla una sola volta di uguaglianza, a proposito della libertà in politica: in democrazia non vi sono "governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati". Ma l’uguaglianza è una condizione onnipervasiva della democrazia. Senza uguaglianza di mezzi materiali e intellettuali, la libertà cambia natura e la democrazia si trasforma in maschera dell’oligarchia, cioè del regime del privilegio di pochi, non necessariamente i migliori, a danno dei molti, non necessariamente i peggiori, ma certamente i più deboli. Cioè: la democrazia, che dovrebbe essere il regime che bandisce tra gli esseri umani l’uso della forza, si rovescia nel suo contrario, cioè nel regime basato sullo squilibrio della forza. Da qui può venire una risposta alla sua domanda. Mai come in questo momento della vita della nostra società constatiamo tanta iniquità nella distribuzione dei beni materiali, delle conoscenze e delle risorse intellettuali. La critica antidemocratica ha sempre sottolineato il rischio della massificazione, dell’appiattimento verso il basso. Ma qui, ora, si prefigura un incubo diverso: il gregge esposto e ignaro, guidato da pochi pastori, cioè da gente che - come diceva Trasimaco - solo l’ingenuo Socrate poteva credere avesse a cuore il bene delle sue pecore, piuttosto che il proprio interesse. Una politica per l’uguaglianza: ecco ciò di cui ci sarebbe bisogno e non si vede in giro, nemmeno a sinistra».
Di fronte all’involuzione in atto, suonano profetiche le parole di Bobbio che, all’ottimismo dei padri, oppone la necessità di essere "democratici in allarme". Non siamo stati abbastanza "in allarme"?
«Bisogna prendere sul serio quanto Bobbio stesso dice della democrazia. Dice che non è un dato di fatto, un "cammino fatale" che si possa percorrere con facile fiducia. No. La democrazia è una meta, anzi "la meta più alta", che richiede molto impegno e molte rinunce e non può vivere senza un ethos adeguato».
È ciò che manca oggi in Italia?
«Sì, abbiamo pensato che la democrazia sia un regime naturale, al quale tutti, purché non coartati da qualche dittatore, si sarebbero orientati spontaneamente. Ricorda il discorso di Montesquieu sulla "molla della politica"? La molla che fa funzionare il dispotismo, per esempio, è la paura; il potere dei privilegiati, l’invidia (finché dura e non si trasforma in rabbia). Per la democrazia, che è il regime di tutti, occorre una "virtù" particolare, fatta di serietà e sobrietà negli stili di vita, di stima reciproca, di spirito d’uguaglianza, di rifiuto del privilegio e rispetto del diritto, di cura per le cose pubbliche che, essendo di tutti, non possono essere preda di nessuno in particolare. Potrei continuare e sarebbe un elenco che ci farebbe venire i brividi, per quanto lontani siamo dall’avere consolidato quella molla ideale. L’atteggiamento etico che è stato diffuso dappertutto e con tutti i mezzi, in questi decenni, è l’esatto contrario di tutto ciò. E ci stupiamo se avvertiamo la democrazia scricchiolare?».
È questo l’effetto che le ha fatto leggere le parole di Bobbio?
«Sì. I nemici della democrazia sanno che la prima battaglia per combatterla si svolge nei convincimenti e negli stili di vita che essi promuovono. Gli amici della democrazia dovrebbero fare altrettanto, sul versante opposto».
Bobbio. L’edizione di tutte le opere convegni e mostre
di Massimo Novelli (la Repubblica, 8.1.2009)
Quando Norberto Bobbio venne sepolto nella tomba di famiglia di Rivalta Bormida, il 12 gennaio del 2004, uno dei figli volle leggere uno suo scritto. Il filosofo rinsaldava lì il suo legame con il borgo contadino, adagiato tra basse colline, vigneti e foschie, in cui era nata la madre Rosa Caviglia, e ricordava: «È bene mantenere le proprie radici» che «si hanno solo nel paese d’origine, nella terra, non nel cemento delle città». Così da quelle radici di Rivalta, un piccolo comune in provincia di Alessandria, domani pomeriggio, in coincidenza con il quinto anniversario della morte, cominciano con una cerimonia a Palazzo Bruni le celebrazioni per il centenario della nascita (avvenuta a Torino il 18 ottobre 1909) di uno dei testimoni e dei protagonisti più significativi della cultura del Novecento.
Sabato, nell’aula magna del rettorato dell’Università di Torino, dove Bobbio insegnò a lungo, insieme alla presentazione delle manifestazioni verrà rievocata la sua figura. Sono previsti interventi di Gastone Cottino, Enzo Pelizzetti, Paolo Garbarino, Marcello Gallo e Pietro Rossi. Il calendario delle iniziative promosse dal Comitato nazionale per il centenario, presieduto da Gastone Cottino e sorto per l’impegno del Centro studi Piero Gobetti, entrerà nel vivo tra aprile e ottobre, con punte nel 2010, attraverso seminari, lezioni, un convegno internazionale (al quale dovrebbe prendere parte il capo dello Stato Giorgio Napolitano), uno spettacolo teatrale, una mostra all’Archivio di Stato di Torino e il completamento dell’edizione critica integrale delle sue opere.
Altri appuntamenti sono in programma in Brasile, in Messico e in Spagna. Spiega Marco Revelli, vicepresidente del Centro Gobetti: «Saranno celebrazioni sobrie, nello spirito di Bobbio. L’intento è di lasciare qualcosa di concreto, non di creare degli "eventi" effimeri». Quelle cose concrete di cui si occupava Bobbio, ultimo grande rappresentante dell’"Italia civile". Ne incarnò i principi tanto da diventare per tanti l’estremo maestro, malgrado la sua ritrosia. Bobbio era nato nel 1909, lo stesso anno di Alessandro Galante Garrone e di Leone Ginzburg, che con lui - chi fino in fondo come il "mite giacobino", chi fino alla precoce morte come Ginzburg - percorsero gli impervi e drammatici cammini del secolo scorso. Il centenario sarà l’occasione per riflettere sulla generazione di intellettuali che animò l’antifascismo e la breve eppure fondamentale e sempre viva stagione dell’azionismo. Non a caso il convegno di ottobre porta un titolo eloquente: "Dal Novecento al Duemila. Il futuro di Bobbio".
Sul tema, si cfr.:
(Per leggere, cliccare sul rosso)
NORBERTO BOBBIO (Wikipedia)
L’ILLUMINISMO. Adottò il motto oraziano «Sapere aude». Kant: «Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza»
IL PARLAMENTO. Luogo di una vera e propria rappresentazione che in quanto tale ha bisogno del pubblico
Il segreto della democrazia: non avere segreti
Una forma di governo che si fonda sulla piena visibilità del potere, incompatibile con l’esistenza degli arcana imperii cari agli assolutisti
Un intervento del 1988. Si intitola Democrazia e segreto il volume, in uscita da Einaudi (pp. XIX-53, 9), che raccoglie alcuni interventi di Norberto Bobbio (1909-2004), tra i quali una relazione tenuta nel marzo del 1988 a Sassari, nell’ambito di un convegno di studi gius-internazionalistici sul tema «Il trattato segreto». Di questo testo proponiamo qui uno stralcio. Pubblicato la prima volta in edizione fuori commercio come plaquette einaudiana alla fine del 2009, il libro è ora disponibile per tutti, con la prefazione ampliata di Marco Revelli.
di Norberto Bobbio (La Stampa, 16.10.2011)
In un articolo del 1981, intitolato L’alto e il basso. Il tema della conoscenza proibita nel ’500 e ’600 , Carlo Ginzburg prese lo spunto dal passo paolino ( Lettera ai Romani , 11, 20), che nella vulgata suona «Noli autem sapere, sed time», interpretato via via sempre più nel senso di un invito alla rinunzia alla superbia intellettuale e quindi come un ammonimento contro la eccessiva curiosità del sapiente, per fare qualche riflessione sui limiti assegnati alla nostra conoscenza dalla presenza di tre sfere invalicabili: gli arcana Dei , gli arcana naturae e gli arcana imperii , strettamente connessi tra di loro. Chi aveva trasgredito quei limiti era stato punito: esempi classici, Prometeo e Icaro. Ma potremmo aggiungere, forse il più familiare, almeno alla tradizione culturale italiana, l’Ulisse dantesco.
Le grandi scoperte astronomiche del Cinquecento rappresentarono una prima trasgressione del divieto di penetrare gli arcana naturae. Quali ripercussioni avrebbe avuto questa prima trasgressione della prescrizione di arrestarsi di fronte a una delle tre terre proibite, rispetto alla analoga prescrizione nelle altre due? Alla metà del Seicento, racconta Ginzburg, il cardinale Sforza Pallavicino acconsentì a riconoscere che era lecito penetrare i segreti della natura perché le leggi naturali sono poche, semplici e inviolabili. Ma non ammise che ciò che valeva per i segreti della natura valesse anche per i segreti di Dio e per quelli del potere, ritenendo che fosse un atto di temerità violare l’imperscrutabilità della volontà del sovrano non altrimenti che quella di Dio. Negli stessi anni Virgilio Malvezzi ripeté analogo concetto dicendo che «chi per isciogliere i fisici avvenimenti adduce Iddio per ragione è poco filosofo, e chi non lo adduce per iscioglimento di politici, è poco cristiano».
Per contrasto, il pensiero illuministico adottò come suo motto l’oraziano «Sapere aude». Alcuni anni or sono si svolse sulla Rivista storica italiana un dotto dibattito sull’origine del motto (di cui io avevo trovato un altro esempio nel saggio in difesa della codificazione scritto da Thibaut nel 1814) tra Luigi Firpo e Franco Venturi. Firpo risalì a Gassendi, citato dal Sorbière nel suo Diario.
Com’è noto, il motto campeggia nello scritto sull’illuminismo di Kant, che Kant traduce così «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza». È in questo saggio che Kant afferma che l’illuminismo consiste nell’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso e che alla base dell’illuminismo sta la più semplice di tutte le libertà, la libertà di far uso pubblico della propria ragione. «Il pubblico uso della propria ragione deve essere libero, ed esso solo può attuare l’illuminismo fra gli uomini». Conducendo alle logiche conseguenze questa affermazione, si scopre che vengono a cadere i divieti tradizionali posti a guardia degli arcana imperii . Per l’uomo uscito di minorità, il potere non ha, non deve più avere, segreti. Perché l’uomo diventato maggiorenne possa fare pubblico uso della propria ragione è necessario che egli abbia una conoscenza piena degli affari di Stato. Perché egli possa avere una piena conoscenza degli affari di Stato, è necessario che il potere agisca in pubblico. Cade una delle ragioni del segreto di Stato: l’ignoranza del volgo che faceva dire dal Tasso a Torrismondo: «I segreti di Stato al folle volgo ben commessi non sono».
Spetta a Kant il merito di aver posto con la massima chiarezza il problema della pubblicità del potere e di averne dato una giustificazione etica. [...] Affinché questo principio della pubblicità possa essere non solo dichiarato dal filosofo ma attuato dal politico, in modo che, per esprimerci ancora una volta con Kant, non si dia ragione al detto comune «Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», occorre che il potere pubblico sia controllabile. Ma in quale forma di governo questo controllo può avvenire se non in quella in cui il popolo ha il diritto di prendere parte attiva alla vita politica?
Kant certamente non è uno scrittore democratico nel senso che per «popolo» intende non tutti i cittadini ma solo i cittadini indipendenti, ma quale sia il valore che egli attribuisce al controllo popolare sugli atti del governo risulta ancora una volta in tema di diritto internazionale là dove, affermando che la pace perpetua può essere assicurata soltanto da una confederazione di Stati che abbiano la stessa forma di governo repubblicana, ne dà la ragione col celebre argomento che solo con il controllo popolare la guerra cesserà di essere un capriccio dei principi, o, con l’espressione kantiana, una «partita di piacere».
Sino a che il potere del re era considerato come derivante dal potere di Dio, gli arcana imperii erano una diretta conseguenza degli arcana Dei . In uno dei suoi discorsi Giacomo I, principe assoluto e teorico dell’assolutismo, definì la prerogativa, cioè il potere regio non sottoposto al potere del parlamento, come un «mistero di Stato» comprensibile solo ai principi, ai re-sacerdoti che, come dèi in terra, amministrano il mistero del governo. Un linguaggio come questo in cui l’appello al mistero svolge un ruolo essenziale, e si sottrae ad ogni richiesta di spiegazione razionale sul fondamento del potere e del conseguente obbligo di obbedienza, è destinato a scomparire via via che il discorso del governo si sposta dall’alto al basso, e, per restare in Inghilterra, dalla prerogativa del re ai diritti del parlamento.
Il linguaggio esoterico e misterico non si addice all’assemblea di rappresentanti eletti periodicamente dal popolo, e quindi responsabili di fronte agli elettori, pochi o molti che siano, ma non si addiceva del resto neppure alla democrazia degli antichi, quando il popolo si riuniva in piazza ad ascoltare gli oratori e quindi a deliberare. Il parlamento è il luogo dove il potere viene rappresentato nel duplice senso che esso è il luogo dove si riuniscono i rappresentanti e dove, nello stesso tempo, avviene una vera e propria rappresentazione, che in quanto rappresentazione ha bisogno del pubblico e deve quindi svolgersi in pubblico. Coglie bene questo nesso tra rappresentanza e rappresentazione Carl Schmitt quando scrive: «La rappresentanza può aver luogo soltanto nella sfera della pubblicità. Non c’è alcuna rappresentanza se si svolga in segreto e a quattr’occhi [...]. Un parlamento ha carattere rappresentativo solo in quanto crede che la sua attività sia pubblica. Sedute segrete, accordi e decisioni segrete di qualsivoglia comitato possono essere molto significative ed importanti, ma non possono avere mai un carattere rappresentativo».
Con ciò non si vuol dire che ogni forma di segretezza debba essere esclusa: il voto segreto può essere in certi casi opportuno; la pubblicità delle Commissioni parlamentari non è riconosciuta. C’è anche chi, come Giovanni Sartori, nella nuova edizione, aggiornata ed arricchita, della sua teoria della democrazia, condanna la richiesta di una politica sempre più visibile, come poco consapevole delle conseguenze che la maggiore visibilità comporta. Ma non si può non riconoscere con Schmitt che «rappresentare» significa anche «rendere visibile e rendere presente un essere invisibile mediante un essere pubblicamente presente».
Possiamo concludere questa riflessione con Richard Sennett che nel suo aureo libretto sull’autorità, pubblicato nel 1980 (tradotto in italiano nel 1981) afferma: «Tutte le idee di democrazia che abbiamo ereditato dal XVIII secolo sono basate sulla nozione di un’autorità visibile». E cita il detto di Jefferson: «Il dirigente deve agire con discrezione ma non gli deve essere concesso di tenere per sé le sue intenzioni».
Esce un Meridiano dedicato ai suoi scritti curato da Marco Revelli
Bobbio, Il pessimismo di un illuminista
Il legame tra giustizia e libertà è il filo rosso delle riflessioni e degli interventi con cui il filosofo torinese accolse via via le sfide che la realtà pose alla sua intelligenza e cultura
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 24.11.2009)
Uno spettro si aggira per l’Italia: non il comunismo, regredito ufficialmente a mostro spaventa-bambini da cartoon giapponese. Quello che sembra destinato a levarsi al suo posto si chiama Illuminismo. E’ uno spettro che appare nei sogni di certi uomini di Chiesa, gli unici peraltro a evocarlo per nome, con aggettivi come «bieco», «torvo» e così via, con l’orrore e la determinazione dell’esorcista che affronta il demonio. Roba vecchia, degna degli sberleffi di Gavroche. Ma proprio nel contesto italiano dei nostri anni dominato da rivalse clerico-fasciste si affaccia oggi un illuminista italiano: Norberto Bobbio. Un’ampia selezione di scritti suoi curata con passione e intelligenza da Marco Revelli compone uno splendido Meridiano Mondadori grazie al quale possiamo rileggere una proposta pacata e intransigente di moralità civile e di impegno culturale e capire in che cosa possa riconoscersi un illuminista.
Il caso che governa le cose umane porta in libreria questo imponente volume insieme all’intervista data da Alberto Asor Rosa a Simonetta Fiori. Due voci diversissime, confrontabili solo per via di quelle opposizioni dilemmatiche care a Bobbio. Due testimonianze, tuttavia, di quello che fu e non è più il ruolo civile dell’intellettuale in un paese dove oggi non ci si vergogna a rispolverare la parola di Scelba - «culturame». Fermiamoci a Bobbio: il suo è un illuminismo di metodo e di desiderio. «Vorremmo essere illuministi» scrisse nel 1955. Si professò illuminista ma anche pessimista: non alla maniera di Sebastiano Timpanaro e del suo indimenticabile Leopardi, e tuttavia pur sempre alla scuola di Hobbes, di Machiavelli, di Marx. Quel pessimismo, su se stesso e sul paese dove si trovò a operare, non fu mai dismesso: ma proprio per questo si sentì spinto a non abbandonare mai la fede nella ragione.
«Uomo di ragione e non di fede», si definì nelle ultime volontà. Quella ragione era fatta di fede nell’Italia civile. La «sua Italia» - il titolo da lui scelto per un libro concepito come ultimo - l’aveva imparata alla scuola di maestri e di compagni qui rievocati e raccontati nella prima sezione del volume. Su tutti spicca Piero Gobetti. Il nome di quell’«esile biondo miope ragazzino», come lo descrisse Augusto Monti, ricorre in questi scritti con una frequenza più alta di quella di Machiavelli, appena minore di quelli di Kant, Hegel e Marx.
L’Italia dove si formò era il paese che cancellava le vite e spegneva i pensieri degli oppositori e degli uomini liberi: ma le scintille accese da maestri come Gobetti e da amici come Leone Ginzburg bastarono a Bobbio per illuminargli il percorso in una ricerca intellettuale calata nel vivo dell’azione: «L’ora dell’azione» si intitolò il primo suo articolo, stampato nel settembre 1944 in un giornale clandestino del Fronte degli intellettuali nella Torino occupata. Seguirono quelli sul quotidiano del Partito che si chiamò appunto di Azione, un quotidiano intitolato: Giustizia e libertà. Il binomio inquietò il filosofo della libertà, Benedetto Croce che parlò di «ircocervo», preoccupato che la volontà giacobina di giustizia sociale soffocasse la libertà.
Ma che rapporto ci può essere tra libertà e uguaglianza? Ecco uno dei temi della casistica morale della politica di allora. Aiutano a ricomporre questa casistica i saggi della seconda sezione, intitolata ai «dilemmi etici» posti da questioni come intellettuali e politica, pace e guerra, libertà e uguaglianza. Marco Revelli richiama giustamente l’attenzione sullo stile del pensiero di Bobbio: un pensiero «dicotomico, duale, aporetico», un procedere per dilemmi. Le coppie oppositive si ritrovano nella terza sezione su «le forme della politica» e sono quelle di un dialogo dei massimi sistemi del ‘900: democrazia e dittatura, socialismo e comunismo, destra e sinistra. Il congedo lo danno le pagine di meditazione sulla morte e sul non essere del De senectute, un altissimo breviario morale scritto al termine del secolo come ricapitolazione di una vita e riflessione sui cambiamenti del mondo.
«Uomo di studio, non apolitico ma neppure troppo politicizzato»: così Bobbio si definì nell’autobiografia intellettuale che apre il volume. La distanza dai tumulti verbali e dall’uso strumentale della pagina scritta fu per lui una costante: la si riconosce nell’ironia lieve con cui rispose agli attacchi giornalistici dell’avanzante regime berlusconiano contro le «cariatidi velenose» dei senatori a vita. Ma la sua vigilanza sulla questione dei diritti di libertà fu pronta e severa. Il legame tra giustizia e libertà è il filo rosso delle riflessioni e degli interventi con cui Bobbio accolse via via le sfide che la realtà pose alla sua intelligenza e alla sua sterminata cultura. Un filo che parte da un capo: aveva imparato dal grande maestro di studio e di integrità morale che ebbe per professore, Francesco Ruffini, che «tutte le libertà civili sono solidali» e che una volta ammessa la prima, la libertà religiosa, «non possono non essere ammesse tutte le altre».
E’ una lezione la cui lungimiranza possiamo oggi verificare nell’esperienza dell’attacco congiunto che un ritorno di fiamma clericale e una oscena dittatura televisiva conducono ai fondamenti costituzionali della Repubblica. Oggi da lì si è obbligati a ripartire. Ma non da zero, non dal livello del suolo: è dal sottosuolo che a Bobbio stesso - scrivendone sul Ponte nel gennaio 1994 - parve «uscito l’incantatore plebeo, cui si accompagnano i grandi demagoghi e i grandi mestatori in nome, udite! Della liberaldemocrazia». Si poteva scendere più in basso? Secondo Bobbio, no. Liberi noi di pensare che, almeno qui, lui si sia sbagliato.
l’inedito
Per cinquant’anni «democrazia» sempre con il punto interrogativo
Per la prima volta a stampa la conferenza tenuta a Brescia nel 1959. Diceva: «Mai smettere di farci domande sul nostro sistema»
DI MARCO RONCALLI (Avvenire, 15.10.2009)
Ad un secolo esatto dalla nascita di Norberto Bobbio - 18 ottobre 1909 - il centesimo volume della nuova serie della collana ’ Il pellicano rosso’ della Morcelliana arriva in libreria con uno scritto di fatto sconosciuto del filosofo divenuto per molti il simbolo e la coscienza critica dell’Italia civile. Si tratta del testo di una conferenza tenuta a Brescia alla fine degli anni ’ 50 dove troviamo il pensatore ancorato alle ragioni del liberalsocialismo e già ben consapevole della divaricazione tra aspirazioni e realizzazioni che taglia la democrazia italiana, mentre il Paese si allontana dal secondo dopoguerra. Quale democrazia? ( a cura di Mario Bussi, premessa di Francesca Bazoli; pagine 104, euro 10,00), così dunque titola questo volumetto di nitida forza argomentativa e che lascia scoprire in nuce quelli che saranno ’ temi ricorrenti’ nell’ulteriore approfondimento bobbiano del concetto in esame: fra teorie delle élite e realismo politico, ideali di libertà ed efficienza dei poteri sociali, proprio alcuni dei futuri leitmotiv: comprese le distinzioni dualistiche fra ’ essere’ e ’ dover essere’ della democrazia.
Insomma una ’ grammatica della democrazia’, spiegata per la prima volta il 27 maggio 1959, nel contesto di quegli Incontri di cultura , occasioni per un confronto aperto fra le voci più significative del pensiero contemporaneo, che - ricorda qui Francesca Bazoli - furono promosse da alcuni intellettuali bresciani cattolici e laici raccolti intorno a Stefano Bazoli, già costituente e deputato.
Una riflessione a proposito della quale lo stesso Bobbio, nella sua ultima visita a Brescia il 27 maggio 1994 per un convegno in occasione del ventesimo anniversario della strage di Piazza della Loggia, disse: « Mi piace ricordare che venni qui fra voi la prima volta trentacinque anni fa, il 27 maggio, invitato dall’avvocato Stefano Bazoli, a inaugurare gli Incontri di cultura con un discorso che avevo intitolato: ’ Quale democrazia?’. Un titolo che ha continuato ad essere attuale in tutti questi anni. Oggi, più attuale che mai. Se dovessi ripeterlo, quel punto interrogativo non lo toglierei. Ne potrei, semmai, aggiungere un altro » .
Parole sintomatiche che, riconfermando l’attualità di quel lontano discorso - scrive ancora Francesca Bazoli - ricordavano « come la democrazia, in quanto insieme di regole per il confronto politico, debba continuamente interrogarsi sullo stato della sua salute, pena il rischio di scivolare in qualcosa che democratico non è » .
Particolarmente interessante, come fa notare il curatore Bussi, il passaggio in cui nel testo, affermato quale fine della democrazia l’eguaglianza, quest’ultima non viene più richiamata quale presupposto delle regole del gioco, ma come ideale regolativo: « Si istituisce in tal modo la dialettica tra ’ eguaglianza formale’ e ’ eguaglianza sostanziale’ di cui troviamo un’esemplare formulazione nel primo e nel secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione italiana » .
La conseguenza? « Tutti gli uomini sono formalmente uguali ( valore), ognuno ha ottenuto il diritto di votare ( metodo- regola del gioco), ma a favore di ognuno, soprattutto dei più deboli, va anche perseguito tenacemente il fine di una maggiore giustizia distributiva, rimuovendo gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione ( ideale) » .
Ma ci sarebbero anche altre sottolineature da fare, ad esempio, sulla democrazia internazionale e i dispositivi per portare la pace nelle relazioni fra gli Stati. In conclusione, pagine che stanno alle origini del Bobbiopensiero, ma hanno retto l’usura del tempo. Un piccolo classico che - usando i parametri dello stesso senatore a vita allievo di Gioele Solari, mancato più di cinque anni fa - si rivela « sempre attuale, onde ogni età, addirittura ogni generazione, sente il bisogno di rileggerlo e rileggendolo di interpretarlo » . Va da sé per provare a incidere nella realtà del proprio tempo, per contribuire a proteggere il diritto in stagioni di grandi incertezze e di transizioni incompiute.
Democrazia - "Demo" e "Open Source"
di Antonio Caruso
δήμος (démos): popolo e κράτος (cràtos): potere
Democrazia è un termine che ha attraversato il corso del tempo senza peraltro aver mai assunto il valore reale di governo del popolo e oggi, più che mai, sembra aver perso completamente quel significato per assumerne altri due: maschera e dimostrazione ingannevole.
Nel nome del cràtos sono stati commessi crimini terribili e ancora se ne commettono, Gaza è un esempio lampante. Nel nome del démos si perpetuano abusi di ogni tipo.
La democrazia è un’opera incompiuta, una concessione parziale che prevede solo nella sua teorizzazione la partecipazione del popolo e che funge da maschera per quelle oligarchie che si nutrono di potere e prosperano grazie all’egemonia, alla sopraffazione e all’assoggettamento. Gli oligarchi non hanno mai pensato di concedere realmente qualcosa alla popolazione, piuttosto hanno sempre meditato di ingannarla con strumenti subdoli capaci di imporre la dipendenza; per contrastare la forza dirompente di un’umanità stanca e desiderosa di affrancarsi dall’assoggettamento, hanno pensato, di applicare l’etichetta democratica a tutte le loro azioni, così da convincere il popolino incosciente a ostacolare e a contestare il popolo cosciente.
La bilancia pende un po’ troppo sul cràtos, e mai sul dèmos.
La cultura dominante (che domina invece di servire) ci ha abituato a dividere, a separare, a classificare ma mai a considerare gli eventi o le persone in una prospettiva di UNI - ONE in cui gli UNI, i tanti, grazie alla relazione diventano ONE, uno. Ci siamo sempre preoccupati di connotare in modo analitico ogni cosa senza riuscire mai a cogliere l’intero. Edgar Morin ci ha suggerito qualcosa in merito:“C’è un’inadeguatezza sempre più ampia, profonda e grave tra i nostri saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realtà o problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari dall’altra.”
E’ stata la nostra forma mentis a separare il démos dal cràtos, a farci perdere l’equilibrio e a prediligere la dimensione disgregante rispetto a quella unificante. Abbiamo creduto e crediamo che la democrazia sia la panacea per tutti i mali. Ma è proprio nella sua radice che si nasconde l’inganno: demo - crazia.
Le “demo” in informatica sono versioni dimostrative di software che consentono la prova dell’applicativo con delle forti limitazioni temporali o funzionali. Si possono usare solo per alcuni giorni e non permettono di "salvare” il lavoro svolto, ciò che faticosamente l’utente ha “costruito". Sono versioni subdole che fanno "assaggiare” la libertà e la sovranità - la creazione è un atto di sovranità - solo a metà", il fine è sempre lo stesso: invogliare l’utente a comprare il prodotto per rendersi dipendente da altri.
Così è la democrazia, una dimostrazione molto limitata, che lascia solo "assaggiare" la libertà e la sovranità ponendo delle forti limitazioni. Il fine è quello delle “demo”: ottenere il consenso (far comprare il programma) per mantenere il popolo in una condizione di dipendenza. E’ un’ombra nella grotta platonica che ci mantiene legati alla memoria storica in senso stretto, ma non a quella memoria capace di svelarci chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.
Per liberarsi dalla dipendenza il popolo pensante ha dato vita ad un progetto che trova nell’UNI - ONE il suo fondamento e che si chiama “Open Source”. Esso è l’epifania del popolo libero e cosciente, è una sorgente aperta e accogliente che non sopporta le limitazioni e trova nella relazione il suo equilibrio e il suo punto di forza. L’”Open Source” crea in base alle necessità e distribuisce le risorse in modo equo e solidale. E’ il prodromo di una società che potrebbe ESSERE ... se solo volesse.
Antonio Caruso