Un sondaggio Ipr-Marketing: la grande maggioranza si schiera per una valorizzazione della ricorrenza
La riscoperta dell’Unità d’Italia
Gli attacchi della Lega stanno producendo un effetto contrario
di ANTONIO NOTO*
ROMA - La sollecitazione del Presidente della Repubblica nei confronti del governo per una più spedita pianificazione dei festeggiamenti per l’anniversario dell’Unità d’Italia si accorda con il sentire degli italiani: la maggioranza non solo dice sì alla celebrazione, ma auspica per il futuro una maggiore valorizzazione della ricorrenza.
Interrogato sull’opportunità dell’evento oltre l’80% del campione consultato da Ipr-marketing si è dichiarato favorevole: una percentuale di adesione quasi plebiscitaria, ancora più significativa se letta in chiave territoriale. Da questa prospettiva, infatti, l’indagine evidenzia un trend sostanzialmente analogo nelle diverse aree del paese e in particolare al nord, dove la prevalenza della Lega non incide sull’equilibrio complessivo, con meno di un cittadino su dieci contrario all’iniziativa.
Certo, la lettura dei dati in funzione dell’appartenenza politica individua facilmente come l’area di resistenza verso le celebrazioni si collochi tra gli elettori di centrodestra di appartenenza leghista, dove la quota dei contrari raggiunge il 15%. E tuttavia si tratta anche in questo caso di una percentuale che, aldilà dell’esiguità del numero, evidenzia un deficit rispetto allo stesso bacino di consenso del movimento di Umberto Bossi: ciò a testimonianza dei diversi gradi di radicalità nel profilo del corpo elettorale del partito, specie dopo l’intercettazione di consensi in aree esterne alla base tradizionale, dunque meno ideologizzate.
L’indagine rivela inoltre come una parte considerevole degli italiani, sostanzialmente coincidente con i sostenitori dei festeggiamenti, sia favorevole ad un’ulteriore valorizzazione dell’appuntamento, con l’istituzione di una ricorrenza in calendario che celebri l’unità del Paese. Così la pensa il 92% degli elettori del centrosinistra e il 69% di quelli del centrodestra. Ma soprattutto, di analogo avviso è il 75% dei cittadini del nord.
L’impressione, insomma, è che l’insistenza leghista su determinati temi stia generando nell’area di opinione esterna al movimento un’analoga risposta, una sorta di radicalizzazione in direzione contraria: capace di condurre a esiti imprevisti, magari alla riscoperta e alla rivendicazione di principi all’apparenza dimenticati.
*Responsabile di Ipr Marketing
*la Repubblica, 20 agosto 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PARLARE AD AGOSTO (2009) DELL’UNITA’ D’ITALIA, SOTTO L’OMBRELLONE DEL CAVALIERE DI "FORZA ITALIA"!!!
2011, c’era bisogno di una scossa nazionale
di GIORGIO NAPOLITANO *
Caro Direttore,
il suo giornale ha il merito di essere stato, fin dal concepimento di un programma di celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità, tra i soggetti (anche lei personalmente) che più hanno creduto nella straordinaria importanza dell’occasione che si presentava e dell’impegno che andava esplicato per un sostanziale rafforzamento delle ragioni e del sentimento del nostro «stare insieme» come italiani - nazione - Stato e cittadini.
La quantità e qualità delle iniziative che si sono succedute - tra le quali un particolare spicco hanno assunto quelle promosse a Torino - ci hanno detto che erano insieme maturata un’esigenza e insorta una disponibilità largamente condivise. C’era bisogno di una scossa nazionale unitaria di fronte alle difficoltà, alle derive, agli scoramenti che colpivano il nostro Paese e alle prove sempre più ardue che lo attendevano (e lo attendono).
Ritengo che il quasi imprevedibile successo delle celebrazioni, non ancora del tutto concluse, abbia lasciato un segno profondo, anche contribuendo al crearsi di condizioni più favorevoli per affrontare con fiducia una nuova inedita e incoraggiante fase della vita politico-istituzionale italiana.
* La Stampa, 20/11/2011
L’ANNIVERSARIO
Unità d’Italia, Napolitano a Genova
"Celebrazioni non sono tempo perso"
Il presidente della Repubblica invita le forze politiche a evitare polemiche pregiudiziali e respinge tesi storiche infondate che vorrebbero un Sud da abbandonare a se stesso. Anche perché "la maggioranza dei garibaldini venivanon dal Nord"*
GENOVA - Tutte le iniziative comprese nel "sobrio" programma per celebrare il 150/o dell’Unità d’Italia "non sono tempo perso e denaro sprecato, ma fanno tutt’uno con l’impegno a lavorare per la soluzione dei problemi oggi aperti dinanzi a noi". Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a bordo della portaerei "Garibaldi" per il discorso ufficiale di Genova, implicitamente replicando alle dichiarazioni di diversi esponenti della Lega, con Umberto Bossi . Il capo dello Stato prende la parola nell’hangar della portaerei, al suo fianco, i presidenti del Senato, Renato Schifani, e della Camera, Gianfranco Fini, e il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, insieme ai vertici delle forze armate e delle istituzioni locali. Tra gli esponenti politici, il segretario dell’Udc, Pier Ferdinando Casini.
Reagire a tesi storiche infondate.
Per il capo dello Stato, "non è retorica reagire a tesi storicamente infondate, come quelle tendenti ad avvalorare ipotesi di unificazione parziale dell’Italia abbandonando il Sud al suo destino’’. Ipotesi queste, ’’che non furono mai abbracciate da alcuna delle forze motrici e delle personalità rappresentative del movimento per l’unità’’. "Far rivivere nella memoria e nella coscienza del Paese le ragioni di quell’unità e indivisibilità con cui nacque l’Italia serve a offrire una fonte di coesione sociale come base essenziale di ogni avanzamento, tanto del Nord quanto del Sud, in un sempre più arduo contesto mondiale".
Unità d’Italia, no a polemiche pregiudiziali.
Il presidente della Repubblica sottolinea con forza come i festeggiamenti per l’Unità d’Italia "non possono formare oggetto di polemica pregiudiziale da parte di nessuna forza politica. C’è spazio per tutti i punti di vista e per tutti i contributi. Solo così onoriamo i patrioti, gli eroi e i caduti dei mille che salparono da Genova in questo giorno il 5 maggio di 150 anni orsono". Patrioti che "erano in grande maggioranza lombardi, veneti, liguri", "italiani che si sentivano italiani e che accorrevano là dove altri italiani andavano sorretti nella lotta per liberarsi e ricongiungersi in un’Italia finalmente unificata".
Orgoglio nazionale per affrontare il futuro.
Napolitano sui luoghi dove fu conquistata l’unità d’Italia. Per rinfrescare la memoria e rafforzare la consapevolezza comune delle radici. "Celebrando il 150/o dell’Unità d’Italia guardiamo avanti, traendo dalle nostre radici fresca linfa per rinnovare tutto quello che c’è da rinnovare nella società e nello Stato" dice il capo dello Stato. Ma bisogna "recuperare motivi di fierezza e di orgoglio nazionale, perché ne abbiamo bisogno. Ci è necessaria questa più matura consapevolezza storica comune anche per affrontare con la necessaria fiducia le sfide che ci attendono e già mettono alla prova il nostro Paese. Ci è necessaria per tenere con dignità il nostro posto in un mondo che è cambiato e che cambia".
In difesa di Garibaldi.
I mille erano guidati da un "condottiero" coraggioso e capace. A Giuseppe Garibaldi rende omaggio Giorgio Napolitano, per ripulire la sua figura da "grossolane denigrazioni". Il presidente ricorda le "capacità di attrazione e di guida", il "coraggio e la "perizia" del condottiero. Non a caso, prima della cerimonia Napolitano ha voluto recarsi allo scoglio di Quarto, dove la spedizione dei mille salpò. E il prossimo 11 maggio il presidente sarà in Sicilia, dapprima a Marsala, dove le camicie rosse sbarcarono, e poi ancora a Calatafimi.
* la Repubblica, 05 maggio 2010
CONFINDUSTRIA
Marcegaglia: "Si celebri l’unità d’Italia ma senza perdere un giorno di lavoro"
Gli industriali, pur condividendo le ragioni della celebrazione, chiedono che non diventi occasione "per la perdita di preziose ore di lavoro" . "C’è il rischio ponte lungo" *
ROMA - Celebrare l’unità nazionale è sacrosanto, purché però questo non comporti la perdita di una giornata di lavoro, per di più collegata a un possibile ’ponte’, visto che la giornata scelta dal governo, il 17 marzo, cade di giovedì. A chiederlo è il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, che assicura comunque che da parte degli imprenditori ci sarà tutto l’impegno "a fare la loro parte a fianco delle istituzioni pubbliche, organizzando momenti di ricordo e di aggregazione attorno alla bandiera nazionale nei luoghi di lavoro".
"Confindustria rispetta e condivide la decisione del governo di celebrare, il prossimo 17 marzo, la ricorrenza della proclamazione dell’Unità d’Italia. Si tratta di una data importante che va vissuta con autentica partecipazione, come momento di orgoglio e di unità nazionale. - si legge nel comunicato di Confindustria - Chiediamo al tempo stesso che si tenga conto delle esigenze di un’economia che sta facendo e sempre più deve fare ogni possibile sforzo per recuperare competitività. Una nuova festività - per di più collocata in una giornata, il giovedì, che si presta ad essere utilizzata per un "ponte lungo" sino al fine settimana - comporta perdite elevate in termini di minore produzione e maggiori costi per le imprese. Darebbe un segnale fortemente dissonante rispetto alle azioni che, faticosamente, le parti sociali stanno mettendo in atto per recuperare ogni possibile margine di produttività, per poter fare nuovi investimenti e salvare posti di lavoro in Italia".
"Chiediamo dunque - conclude il comunicato - che la giornata del 17 marzo venga celebrata come una ricorrenza importante, ma senza che ciò comporti la perdita di preziose ore di lavoro o un aggravio di costi per le imprese".
Confindustria con quest’iniziativa viene incontro alle lamentele di molte delle sue associate, a cominciare da Confindustria Ceramica, che in un comunicato ribadisce che i festeggiamenti del 17 marzo avrebbero un onere, se si trattasse di un giorno di vacanza per i lavoratori, "pari a 2 milioni di euro per il solo settore dell’industria italiana delle piastrelle di ceramica".
* la Repubblica, 04 febbraio 2011
"Non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud" *
"Per ardui che siano gli sforzi da compiere, non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud, essendo storicamente insostenibili e obbiettivamente inimmaginabili nell’Europa e nel mondo d’oggi prospettive separatiste o indipendentiste, e più semplicemente ipotesi di sviluppo autosufficiente di una parte soltanto, fosse anche la più avanzata economicamente, dell’Italia unita. Tutte le tensioni, le spinte divisive, e le sfide nuove con cui è chiamata a fare i conti la nostra unità, vanno riconosciute, non taciute o minimizzate, e vanno affrontate con il necessario coraggio".
* Conferenza del Presidente Napolitano: "Verso il 150° dell’Italia Unita: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso"
Roma, Accademia dei Lincei, 12/02/2010
L’Italia unita e voluta nel Risorgimento
di FRANZO GRANDE STEVENS (La Stampa, 2/1/2010)
Si è in tanti al lavoro, soprattutto a Torino, per realizzare l’anno venturo i vasti programmi di celebrazioni dell’Unità d’Italia; ma, imprevedibilmente, si sono levate distinte voci di dissenso. C’è chi sostiene che qui, dal Piemonte, non si volle un’Unità così come realizzata per tutta l’Italia e chi d’altra parte ritiene che alcune Regioni italiane fossero state brutalmente annesse contro la loro volontà ed i loro interessi.
È molto triste che così si dimentichino - o piuttosto si tradiscano - le migliaia e migliaia di patrioti e di intelligenze di tutta la penisola che credettero negli ideali degli illuministi, della rivoluzione francese, di quella napoletana del ’99, nell’unità degli italiani e per restarne fedeli andarono in esilio, nelle carceri o sacrificarono la loro vita.
Proprio qui in Piemonte, si guardò lontano: si dette la Costituzione (lo Statuto), si riconobbero i diritti delle minoranze (ebrei e valdesi), si combatterono con le guerre di indipendenza gli stranieri che occupavano regioni italiane, si stabilì che la giustizia ordinaria, senza distinzioni e privilegi, fosse applicabile anche agli ecclesiastici, si accolsero gli esuli qui venuti d’ogni parte d’Italia.
Intorno al decennio chiamato «di preparazione» (1849-1859), a Torino convennero i migliori da tutta l’Italia.
Via Po dintorni e il Borgo Nuovo (con i caffè Florio e Perla) furono il centro frequentato, ad esempio, da Francesco De Sanctis, Antonio Scialoja, Pasquale Stanislao Mancini, Bertrando Spaventa, Francesco Crispi (anch’egli convertito all’Unità), Carlo Poerio, Raffaele Conforti, Guglielmo Pepe, Enrico Cosenz, Mariano d’Ayala, Giuseppe La Farina, Guglielmo Pepe, Giovanni Nicotera, Giuseppe Pisanelli, Raffaele Piria, Agostino Depretis, Luigi Settembrini, Francesco Ferrara, Filippo Cordova e tanti tanti altri. E quanta solidarietà essi trovarono! A Scialoja il governo sardo assicurò un appannaggio e la cattedra di economia, poi trasmessa a Francesco Ferrara, a De Sanctis (ricordato con una lapide in via San Francesco da Paola) fu consentito l’insegnamento e qui egli tenne il famoso corso di mirabili lezioni dantesche; Francesco Crispi che stentava la vita fra la mansarda di via Vanchiglia ed il locale «Caffè del Progresso» venne aiutato da Don Bosco che incontratolo macilento in corso Valdocco lo invitò a mangiare dai salesiani (dove è ora Maria Ausiliatrice). A Mancini che aprì uno studio in via Dora Grossa (l’attuale via Garibaldi) che fu anche il luogo di incontro di un cenacolo intellettuale, la professione legale e la cattedra di diritto internazionale - la prima - consentirono di guadagnarsi da vivere. E tanti altri potrebbero ricordarsi.
Tutti si guadagnarono fama e gratitudine (strade e monumenti dedicati, quello di La Farina a piazza Solferino, di Guglielmo Pepe in Piazza Maria Teresa, di Piria nel cortile dell’Università).
Piero Citati che amava «chi imprigionasse nei suoi libri una goccia di passato» ci fece sentire con una vibrazione appassionata la «dolentissima» realtà di affanni dei tanti emigrati politici.
E Benedetto Croce nel 1925 scrisse: «Quando io ripenso a quei calabresi e abruzzesi, balisicatesi e pugliesi, e napoletani di Napoli che agitavano ardenti problemi politici..., che entrarono nelle legioni italiane appena formate... e quando leggo i documenti delle relazioni e amicizie che essi allora legarono con lombardi e piemontesi e liguri e veneti dico tra me: ‘’Ecco la nascita dell’Italia moderna, della nuova Italia, dell’Italia nostra’’».
E in una lettera conservata all’istituto di Studi filosofici di Napoli, Bertrando Spaventa scrisse a Pasquale Villari (il grande allievo di De Sanctis) «di essere giunto alla Mecca a Gerusalemme, la Città Santa degli italiani: Torino» che descriveva così: «Torino, una città seria, silenziosa, gli abitanti non sono oziosi, badano ai loro affari e pare che non sia; pochi gesti, poche parole, proponimento...; hanno creduto e credono che la Costituzione non sia una burla, e la vogliono, ne godono e non sono contenti di perderla. Vita politica attivissima. A me pare una piccola città inglese. Donne... graziose e facilissime, anzi troppo». E così concludeva: «Ma l’anima è ora italiana».
Nel suo ultimo libro Arrigo Levi scrive: «Emancipazione e Risorgimento, nella cultura degli ebrei italiani, furono una cosa sola. Essi diventarono italiani, come lo diventarono veneziani e napoletani, piemontesi e lombardi, esattamente negli stessi anni».
Soltanto chi manchi di letture o abbia spirito fazioso può oggi sostenere che nel Risorgimento - periodo favoloso della nostra Storia - non si volle l’Italia unita, o addirittura che non la si voglia oggi.
Tanto più oggi poi quando la Costituzione definisce l’Italia «una Repubblica...» costituita da «Comuni, Province, Città metropolitane, Regione e Stato», si è costituita l’Unione Europea e si tende ad un’Europa sempre più unita (come ricordano e sollecitano i Presidenti della nostra Repubblica). Al punto che le nostre leggi ordinarie non possono essere in contrasto non soltanto con la nostra Costituzione, ma anche con «l’ordinamento comunitario» o gli «obblighi internazionali».
La complicità del silenzio
di Adriano Prosperi(la Repubblica, 25.08.2009)
Titi Tazrar è una dei cinque sopravvissuti al viaggio dei disperati. Ha 27 anni. E’ ricoverata all’ospedale di Palermo. La attende, lei e gli altri sopravvissuti, l’incriminazione per il reato di immigrazione clandestina.
I procuratori competenti per territorio non hanno alternative: non possono ignorare l’art. 10 bis del decreto sicurezza. Né possono ignorarlo gli italiani che vanno per mare. Sono le leggi che creano i reati; creano anche l’omertà, la volontà di chiudere gli occhi, la capacità di non sentire le grida di aiuto, di chi non vedeva i convogli di deportati del Terzo Reich e di chi navigando oggi nel mar di Sicilia ignora i barconi africani. Dietro la paura c’è il potere. Noi tutti dimentichiamo volentieri quanto l’opera del potere sia efficace nel modellare la pasta morale dell’umanità. Oggi in Italia il decreto sicurezza produce paura, produce morte, cancella le reazioni umanitarie.
Bisogna cancellare il decreto, denunziarlo davanti al mondo, sperare nell’intervento di autorità esterne visto che non possiamo sperare in una rivolta del paese. Ma per ora, aspettando il processo e l’espulsione, Titi Tazrar è ancora in Italia. I giornalisti la cercano, lei risponde in uno stentato inglese. Una cosa ha detto che ci interroga tutti: «Sono partita perché volevo venire in Italia. Non in Germania o Francia, ma in Italia. Voglio restare qui».
A questa domanda si deve dare una risposta. Una sola. Titi deve restare qui, con gli altri superstiti. Perché al disopra della legge scritta c’è la giustizia, senza di che la legge è arbitrio, violenza, suprema ingiustizia. Chi ha attraversato l’inferno di quei pochi chilometri di mare senza trovare fra gli infiniti natanti che lo affollano un briciolo di umanità, chi ha visto finire a mare prima i bambini abortiti poi le loro madri poi tutti gli altri, non può essere rimandato al punto di partenza. Se accettassimo in silenzio questo esito saremmo complici di un infame gioco dell’oca. Titi e i quattro sopravvissuti con lei hanno conquistato un diritto.
Lei è partita per venire proprio qui da noi. E noi italiani scopriamo all’improvviso nella sua frase la risposta al problema che da giorni è al centro del confuso discorrere sul se e sul come celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Lo ha capito subito con una dichiarazione che gli fa onore il Presidente della Camera Fini quando ha detto che bisogna far sentire «l’Italia come patria anche a coloro che vengono da paesi lontani e che sono già o aspirano a diventare cittadini italiani». Patria è la parola giusta.
Oggi se ne parla guardando solo al passato. Ritengono alcuni che si tratta di ritrovare o di ribadire una specie di identità collettiva che avremmo ereditato perché qui siamo nati; argomento non di qualità diversa da quello di chi propone invece di sostituire all’Italia la sua piccola patria locale, il pezzo di suolo dove gli fa comodo vivere e di cui vorrebbe chiudere le porte agli altri. Ebbene, in questione non è l’indiscutibile appartenenza di fatto e di diritto della popolazione italiana a uno fra gli stati europei; né lo è il dovere delle nostre istituzioni di esplorare e commemorare e far conoscere le ragioni e i caratteri storici e culturali dell’esistenza del paese. Tutto questo è doveroso, ma non sufficiente.
Ciò che abbiamo ricevuto - dice una famosa massima di Goethe - dobbiamo conquistarlo perché possiamo dirlo nostro. Da noi la passività dell’eredità ricevuta è moltiplicata dagli abissi di ignoranza di un paese in preda all’analfabetismo di ritorno. Oggi il problema è ancora quello antico: la nazione come volontà e speranza di futuro. Un plebiscito di tutti i giorni, diceva Ernest Renan. A questo plebiscito aderisce oggi Titi Tazrar quando affronta il deserto e l’orrore in nome di una speranza e di un desiderio che ha nome Italia.
Quanto a noi italiani, con lei e con tutto il suo popolo abbiamo un grande debito storico, una promessa non mantenuta. Titi è figlia di un popolo che fu unito a quello italiano nelle sofferenze e nelle miserie delle nostre guerre coloniali. Accanto agli eritrei hanno vissuto e combattuto tanti italiani, poverissimi come loro, spediti in guerra da una patria che stava nel cuore di uomini come il siciliano Vincenzo Rabito, autore dell’indimenticabile Terra matta, che come lui non riconobbero più la patria in quella "porca Italia" fascista che li mandava a combattere altri disperati come loro, ma che si riconciliarono poi con la riconquistata libertà del paese.
La storia della patria italiana è quella dei processi di integrazione che hanno portato le masse a diventare coscienti del loro essere l’Italia. Processi lunghi, difficili, spesso bloccati e rovesciati da scelte sbagliate. Se Cavour ebbe chiara coscienza del fatto che una volta creata l’Italia bisognava creare gli italiani, le lacerazioni e le violenze di una storia più che secolare hanno attraversato e ostacolato quel progetto, lasciando alla polemica clericale il facile compito di seminare tra le classi popolari delle campagne il discredito verso lo scomunicato Stato liberale.
E si può ben capire che non fosse vissuto come patria uno stato che mandava l’esercito nel Mezzogiorno a piegare i cosiddetti briganti e nelle pianure padane la polizia a incarcerare gli scioperanti. Come disse Camillo Prampolini nel 1894, replicando in Parlamento all’accusa di Crispi ai socialisti di essere "senza patria", il problema era precisamente quello di dare una patria alla massa dei diseredati, ai braccianti di Molinella come ai contadini veneti guidati dai parroci che si affollavano sulle banchine di Genova. L’integrazione di quelle masse nella vita del paese richiese lotte durissime, passò attraverso lacerazioni profonde, costò l’immane bagno di sangue della prima guerra mondiale.
Oggi i loro nipoti non raccolgono più i pomodori nell’agro napoletano e loro eredi non sono costrette a lavori domestici e ad assistere vecchi e malati: sono liberi, liberi di studiare, viaggiare, sviluppare attività creative e produttive. Al loro posto sono subentrati quelli che sono per ora degli schiavi, dei ribelli, dei fratelli in spirito di Vincenzo Rabito, tentati come lui dalla ribellione allo sfruttamento disumano ma tentati ancor più dalla speranza di diventare i nuovi italiani.
Davanti a noi c’è una alternativa: taglieggiarli con le sanatorie, chiuderli in centri di espulsione, oppure tentare la scommessa dell’integrazione. Con le plebi senza diritti del nostro passato, con quei contadini e operai tentati da una speranza che si chiamava rivoluzione proletaria e cancellazione delle patrie borghesi, l’integrazione è avvenuta: una imprevedibile svolta della storia ha portato un’Italia scalciante e urlante nel mezzo dello sviluppo civile del 900. È sulla base di questa consapevolezza storica che oggi si può dare un senso alla celebrazione dell’unità d’Italia guardando avanti, a una nuova e più coraggiosa integrazione.
Napolitano: "Il patrimonio del Paese da Nord a Sud è indivisibile"
AURONZO DI CADORE (BELLUNO) - "L’inscindibilità del nostro patrimonio nazionale dal Nord al Sud, del patrimonio di storia e di bellezza che fa grande la nostra Italia", è stata sottolineata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel discorso in occasione della iscrizione delle Dolomiti nel patrimonio Unesco. Il presidente ha infatti evidenziato come i due luoghi iscritti nel patrimonio naturale Unesco siano le isole Eolie e le Dolomiti.
* la Repubblica, 25 agosto 2009
Invece di festeggiare stabiliamo che e’ ora di dire la verita’! Cos’e’ stata l’unificazione dell’ Italia, ovvero la conquista sanguinosa delle Duesicilie? Un’operazione di guerra criminale finanziata dalle potenze colonialiste dell’ epoca Regno Unito e Francia contro un nazione davvero unita, pacifica ricca e indipendente. La nostra patria e’ stata saccheggiata, distrutta e ridotta al rando di colonia interna. Lo stesso Garibaldi, nelle sue lettere da Caprera lo confessa. Festeggiare la verita’, non le favole e le bugie raccontate fin ora.
Giulio Larosa Pescara (Duesicilie)
Caro Giulio Larosa Pescara (Duesicilie)
Se ha ben letto l’art. e l’appello contro l’indecenza, l’invito è proprio quello da Lei indicato:
Festeggiare la verita’, non le favole e le bugie raccontate fin ora.
Grazie per il Suo intervento e molti cordiali saluti.
Per la Redazione
Federico La Sala
Con una nota del Quirinale il capo dello Stato torna sul tema del centocinquantennale
"Nella lettera a Berlusconi il presidente aveva chiesto con urgenza spiegazioni"
Unità d’Italia, Napolitano insiste
"Servono un chiarimento e fondi certi" *
ROMA - Dopo il dibattito delle ultime settimane, e il suo forte appello di qualche giorno fa, Giorgio Napolitano torna sul tema dei 150 anni dell’unità d’Italia (che cadranno nel 2011). E lo fa attraverso una nota diffusa dal Quirinale, in cui torna a insistere sulla necessità di un chiarimento su come verrà celebrata la ricorrenza. E anche sulla necessità di fondi certi con cui affrontare l’evento.
"In relazione al dibattito in corso sulle celebrazioni del 150/mo anniversario dell’Unità d’Italia - è scritto nel comunicato - si precisa che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nella lettera inviata lo scorso 20 luglio al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva sottolineato come occorra ormai con la massima urgenza un chiarimento: se necessario, un esplicito e preciso ripensamento selettivo, e dunque ridimensionamento del programma di investimenti infrastrutturali, tenendo conto delle disponibilità del bilancio pubblico (Stato, Regione ed Enti locali). E nello stesso tempo, una soddisfacente definizione delle iniziative più propriamente rispondenti al carattere e agli scopi di una seria celebrazione dell’evento. Su questa base ed entro limiti che dovranno e vorranno porsi, certezza delle risorse su cui poter contare".
"Si fa altresì presente - prosegue la nota - che nella lettera inviata il 23 luglio al Presidente del Comitato Italia 150 di Torino, professor Antonio Saitta, il capo dello Stato aveva espresso l’auspicio che "possano superarsi i ritardi e si giunga ad approvare finalmente un programma articolato su pochi ma significativi progetti di carattere prevalentemente culturale, pedagogico e comunicativo, diretti a rappresentare e rafforzare la nostra identità nazionale".
* la Repubblica, 21 agosto 2009