CONDANNA DEL PD: HA SUPERATO IL LIMITE.
IL GOVERNO ACCUSA: IMPAZZIMENTO DELLA REALTA’
Grillo attacca Napolitano:
"Vorrei sapere se è malato"
TORINO. «Giorgio Napolitano è in apparente buona salute, ma ricordando il suo passato, non trovano giustificazioni le sue prese di posizione e le sue azioni. Si è pronunciato contro la spettacolarizzazione dei processi quando le procure sono sotto l’attacco del governo. Ha firmato senza battere ciglio il lodo Alfano. Una legge incostituzionale. Ha trascorso un sereno compleanno in piazzetta a Capri tra musicanti e inquisiti, tra cui la moglie di Mastella e Bokassa Bassolino».
Beppe Grillo attacca ancora, e questa volta, nel mirino del comico, finisce Napolitano. «Giorgio Napolitano rappresenta l’Italia. La sua salute non è un fatto privato. La salute - prosegue Grillo - può essere l’unica giustificazione del suo comportamento. Vorrei essere rassicurato se è in grado di esercitare ancora il suo incarico e per quanto tempo. Se possibile disporre della sua cartella sanitaria».
I primi a prendere le distanze dall’affondo del blogger sono quelli del Pd. «È difficile dare una risposta politica a un comico- dice Giorgio Tonini, del coordinamento politico-. Mi limito a osservare che, per l’ennesima volta, Beppe Grillo ha abbondantemente travalicato i confini del buon gusto pronunciando parole insultanti nei confronti del capo dello Stato».
E dai banchi del governo, Cicchitto attacca: «Le affermazioni di Grillo sono il segno che è in atto un impazzimento della realtà italiana con una serie di apprendisti stregoni che si contendono il primato di chi la spara più grossa».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
«Stupore e rammarico»: lo stop del Quirinale
Il Colle allarmato per la decisione di estendere il provvedimento a tutto il territorio
Il comunicato di Palazzo Chigi - l’inattesa decisione del Consiglio dei ministri di estendere all’intero territorio nazionale la dichiarazione di stato di emergenza per l’afflusso di cittadini extracomunitari - ieri ha suscitato le forti preoccupazioni del Colle. «Stupore e rammarico» la reazione che già nel primo pomeriggio è trapelata dal Quirinale per i modi e i contenuti del provvedimento che tocca temi molto sensibili. Come appunto le «procedure accelerate per la gestione dei nuovi centri di accoglienza» - come l’ha spiegata il Capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione Mario Morcone - cuore del provvedimento dell’esecutivo.
E ieri tutti i livelli istituzionali sono stati «scossi» dalla mossa voluta da Maroni, che infatti ha dovuto nel pomeriggio convocare un’apposita conferenza stampa evidentemente per spegnere l’incendio che rischiava di divampare.
Il presidente Fini costretto a chiedere formalmente al governo di riferire al Parlamento perentoriamente entro martedì. Contatti febbrili, un vero e proprio caso. Il titolare del Viminale con le spalle al muro costretto a telefonare direttamente a Napolitano per spiegare, spiegarsi. Ammettendo poi proprio nell’incontro co i giornalisti di aver duvuto inviare tutta la documentazione al Presidente.
Al Colle in particolare - soprattutto tenendo presenti tutti i precedenti in materia, compresi quelli relativi ai decreti adottati dal governo Prodi nel 2007 e nel 2008 - ieri è stata rilevata in particolare la diversità delle interpretazioni date per spiegare il repentino ritorno alla estensione a tutto il territorio nazionale dello stato di emergenza.
Ancora una volta la presidenza della Repubblica ha richiamato in modo fermo quei «paletti» formali - e dunque sostanziali - su cui il presidente non smette di vigilare. Come accaduto sulla questione sicurezza e sulla giustizia.
* l’Unità, 26.07.2008
La calma del Quirinale
baluardo di libertà
di EUGENIO SCALFARI *
SI POSSONO criticare i comportamenti e le decisioni di un presidente della Repubblica? Certo che si può, in Italia come in qualunque paese democratico del mondo. A me è capitato più volte di farlo, con Gronchi, con Segni, con Saragat, con Leone. Anche con Pertini, del quale sono stato amico ed estimatore. Perciò non vedo nulla di sconveniente nelle critiche che alcuni uomini politici e alcuni opinionisti hanno mosso al presidente Napolitano in occasione della promulgazione della legge Alfano sull’immunità delle quattro cariche istituzionali. Gli insulti e le offese di Grillo sono un’altra cosa, per quelli c’è il reato di vilipendio che spetta alla magistratura di perseguire.
Dal canto mio sono del parere espresso su questo tema da Walter Veltroni: il presidente boccia le leggi palesemente incostituzionali e quelle prive di copertura finanziaria; le altre, approvate dal Parlamento, è tenuto a promulgarle, che gli piacciano oppure no.
Nel caso di specie, non essendo la legge Alfano palesemente incostituzionale e non avendo problemi di copertura finanziaria, la firma di Napolitano era un atto dovuto. Il che non toglie, ovviamente, che quella legge possa non piacere. A me - per restare nel personale - non piace affatto.
Non mi piace nel merito poiché non esiste al mondo una specifica immunità per i presidenti delle assemblee parlamentari e per il capo del governo. Esiste in pochi luoghi limitatamente al capo dello Stato. Gasparri, Bonaiuti, per non parlare di Berlusconi e degli stessi presidenti delle Camere, dicono perciò una rotonda menzogna quando si riparano dietro l’esempio (inesistente) di altri Paesi europei ed occidentali: non è vero, non esiste in nessun luogo una simile legge.
Ma non mi piace neppure per quanto riguarda la procedura adottata. È stato invertito di prepotenza l’ordine dei lavori parlamentari; la legge Alfano è stata messa al primo posto dell’agenda, prima dei decreti economici, prima della legge sulla sicurezza, prima di quella sulle intercettazioni. Nonostante il parere contrario di tutte le opposizioni. La discussione in commissione e nelle aule è stata condotta a passo di carica come se un qualche Attila fosse alle porte. I presidenti delle Camere hanno dato manforte non prestando alcun ascolto alle opposizioni alle quali dovrebbero invece riservare una priorità istituzionale.
La ragione di tutto ciò sta nel fatto che la legge sulla sicurezza era stata manipolata: nata sotto forma di decreto legge e come tale firmato da Napolitano che aveva apprezzato le ragioni di urgenza, vi era stato inserito indebitamente l’emendamento "blocca-processi", che avrebbe paralizzato la giurisdizione e avrebbe stravolto la costituzione materiale e perfino quella letterale.
Di fronte a tanto scempio Napolitano aveva avvertito il governo che non avrebbe firmato la legge di conversione. Per evitare un così clamoroso conflitto istituzionale l’avvocato di Berlusconi che è anche deputato aveva rispolverato il disegno di legge Schifani e a tambur battente l’aveva messo in pista.
L’urgenza riguardava unicamente e soltanto l’imputato Berlusconi. Questo è l’arcano niente affatto arcano di quanto è accaduto e qui c’è la dimostrazione - del resto pubblicamente dichiarata da Berlusconi - che la legge Alfano così come l’emendamento "blocca-processi" sono due strumenti per ottenere l’impunità dell’imputato Berlusconi.
Si è detto che Napolitano abbia scelto il male minore, ma neppure questo è vero: Napolitano si è limitato ad informare il governo che la legge sulla sicurezza non l’avrebbe firmata se non fosse stato ritirato o radicalmente corretto l’emendamento in questione, palesemente incostituzionale e subdolamente inserito con la connivenza dei presidenti delle Camere.
Questo dunque è quanto avvenuto.
* * *
Naturalmente la partita sulla giustizia non è affatto terminata anzi, nelle intenzioni di Berlusconi, è appena cominciata. Qualcuno teme (l’ha scritto Carlo Federico Grosso sulla "Stampa" di venerdì) che "di male minore in male minore" l’eventuale mediazione del presidente della Repubblica si svolga a un livello sempre più basso e non riesca quindi ad evitare un sostanziale stravolgimento della Costituzione.
Io non credo che ciò avverrà perché non credo che Napolitano possa, voglia e debba mediare alcunché. Deve (e l’ha fatto in quest’occasione) esercitare i suoi poteri-doveri di custode della Costituzione e garante del corretto rapporto tra i poteri dello Stato. Non spetta a lui porsi il problema del male minore, che ha carattere politico e riguarda le forze politiche. Se si ponesse quel problema, a mio modesto avviso sbaglierebbe. La "moral suasion" è una prassi del tutto informale che cessa di fronte a concreti passaggi istituzionali.
Aggiungo che, di fronte alla pervicace intenzione di atti legislativi imposti a colpi di maggioranza, un’eventuale risposta referendaria sarebbe assolutamente legittima, salvo valutarne l’opportunità politica da parte dei promotori.
* * *
Intanto incalza un altro tema del quale è imminente il passaggio parlamentare. Parliamo delle intercettazioni e del divieto che si vuole porre ai giornali e ai giornalisti di dare notizie e svolgere inchieste sulla fase inquirente dei procedimenti giudiziari.
Qui è in atto un vero e proprio attacco alla libertà di stampa e d’informazione, che è un "bene pubblico" garantito dalla Costituzione. Non parlo del sistema delle intercettazioni e dei poteri della magistratura che vanno certamente armonizzati per quanto possibile con il diritto alla riservatezza delle persone intercettate. Parlo della stampa, dei giornalisti, degli editori.
Calare un sipario di ferro sulla fase inquirente della giurisdizione è, né più né meno che una misura incostituzionale. Tra l’altro consentirebbe eventuali atti di "mala-giustizia" che le Procure potrebbero commettere al riparo di quel sipario e impedirebbe il formarsi di una pubblica opinione che rappresenta un elemento essenziale di controllo sull’operato della magistratura.
Non inganni l’eventuale derubricazione delle sanzioni contro i giornalisti da misure di restrizione della libertà personale a misure pecuniarie; in particolare non ingannino misure pecuniarie pesanti contro gli editori. Una sanzione di questo genere determinerebbe un’intrusione delle proprietà nella conduzione giornalistica vera e propria; intrusione assai grave in un sistema come il nostro dove le proprietà dei giornali non sono quasi mai in mano ad editori che non abbiano altre attività oltre quella editoriale.
Quest’intrusione effettuata a causa di una legge costituirebbe un vero e proprio attentato alla libertà di stampa nella concretezza del suo esercizio e quindi richiederà una resistenza ferma e non corporativa se è vero che la libera stampa è un bene costituzionale strettamente inerente alla democrazia.
* * *
Nei giorni scorsi, a proposito di libera stampa e di doveroso controllo dei procedimenti giudiziari anche nella loro fase inquirente, ha suscitato scalpore la pubblicazione sul nostro giornale d’una lunga intervista del collega Giuseppe D’Avanzo a Giuliano Tavaroli, personaggio molto discusso e centrale nell’inchiesta della Procura di Milano sulle intercettazioni illecite della Telecom. Sarebbe ipocrita da parte mia se, parlando di rapporti tra magistratura e libera stampa, ignorassi questo tema e le reazioni di vario tipo che esso ha suscitato in campo politico e in altri giornali. Del resto D’Avanzo ha già ampiamente risposto ad una serie di illazioni che la sua intervista ha provocato e che non hanno alcun fondamento.
L’inchiesta della Procura di Milano è stata, per quanto mi consta, estremamente rigorosa, ha raccolto una massa di documentazione imponente, ha interrogato numerosi testimoni, ha raccolto corposi indizi. A conclusione di questo lavoro durato tre anni la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio di Tavaroli e di un’altra ventina di personaggi tra i quali emergono l’ex capo del controspionaggio del Sismi, Mancini, e il capo di una società privata di investigazioni, Cipriani. In combutta con loro il capo della "Security Telecom" Tavaroli e i suoi accoliti avevano creato una vera e propria rete all’interno dell’azienda, in grado di violare ogni privatezza con la collaborazione di personaggi e di spezzoni dei servizi più o meno deviati, agenti di Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza.
La Procura ha anche chiesto il rinvio a giudizio dei soggetti giuridici Telecom e Pirelli notificando gli atti ai loro legali rappresentanti dell’epoca: Tronchetti Provera e Buora, senza tuttavia chiedere il loro rinvio a giudizio personale perché i riscontri indiziari a loro carico non sono stati ritenuti sufficienti alla loro incriminazione. Appariranno pertanto in dibattimento in veste di testimoni.
Poiché l’imputato numero uno di un processo di questa importanza ha accettato di parlare con il giornalista D’Avanzo, il giornale ha deciso di pubblicare la sua intervista senza apportarvi censure di sorta ma avvertendo più volte nel testo che l’intervistato essendo un indagato esprime le sue tesi ovviamente interessate e non necessariamente coincidenti con quella verità che soltanto in dibattimento potrà emergere. Alcuni giornali si sono preoccupati di erigere una sorta di cintura di protezione attorno a Tronchetti Provera e all’ipotetico rischio che l’intervista di Tavaroli possa farne in dibattimento un coimputato anziché soltanto un testimone.
Tutto è possibile anche perché gli imputati attuali faranno di tutto per chiamare in correità personaggi eminenti (Tronchetti certamente lo è) nel tentativo di diminuire le proprie responsabilità diluendole in capo ad altri. Debbo a dire a questo proposito che molto più dell’intervista di Tavaroli mi ha colpito la lettura dei verbali dell’interrogatorio del presidente della Pirelli. Il quale afferma quasi ad ogni riga d’un lunghissimo documento pieno di domande e di osservazioni da parte dei pubblici ministeri, di non aver mai saputo nulla dell’attività di uno dei suoi più importanti collaboratori.
Ammettiamo che questa tesi sia vera: getterebbe comunque una luce sinistra sull’organizzazione di un’azienda titolare di un servizio di pubblica utilità immensamente importante e depositario delle più intime privatezze dei suoi milioni di utenti.
L’importanza oggettiva dell’intervista di Tavaroli è l’aver portato all’attenzione dell’opinione pubblica questo essenziale aspetto d’una questione che ci riguarda tutti molto da vicino.
* * *
Voglio chiudere queste mie note inviando pubblicamente a Piero Fassino che conosco da vent’anni i sensi della mia affettuosa stima e rinnovata amicizia. Quel figuro che ha cercato di coinvolgerlo aveva nelle mani strumenti sofisticatissimi mirati a falsificare e ricattare. È augurabile che nella Telecom attuale queste pericolosissime pratiche siano rese impossibili. Vorremo esserne sicuri come utenti e come cittadini.
* la Repubblica, 27 luglio 2008.
Non aprite quella porta
di Furio Colombo *
Dichiarano lo stato di emergenza nazionale all’improvviso, con frivola incompetenza e salda fede leghista. Pretesto: una invasione di immigrati (succede sempre d’estate, con il mare calmo) che tormenta sempre la fantasia malata della Lega Nord e del ministro Maroni, uno che ha giurato fedeltà alla Lega prima che alla Repubblica italiana. Realtà: poter disporre del diritto di arresto, deportazione, creazione di nuovi campi, forse intenzione di fermare in mare le imbarcazione disperate. Come vedete un’emergenza c’è ed è per quel che resta di civile, di umano, di democratico nell’Italia governata da Berlusconi.
Non è solo un brutto film quello che stiamo vivendo e di cui siamo quasi tutti comparse. È anche un film fuori sincrono, nel senso che sono oscure le parole, sono oscuri i fatti. Ma anche così, anche a condizioni minime di rappresentazione e narrazione della realtà, viviamo in un pauroso fuori sincrono. È l’effetto che certe volte accade, con disorientamento del pubblico, nella proiezione di un film: colonna sonora e immagine non corrispondono. Il risultato è: guardi la scena e non riesci a credere né alle parole né alle immagini. Per esempio, un ministro della Repubblica, titolare di una funzione chiave nel governo italiano (ministro delle Riforme) dedica gesti e parole volgari a un simbolo istituzionale (l’inno della Repubblica italiana) denigra in modo stupido gli insegnanti italiani del Sud (uno di loro è accusato di avergli bocciato il non geniale figlio), ma soprattutto pronuncia queste parole: «Contro la canaglia romana quindici milioni di uomini del Lombardo-Veneto sono pronti a farla finita». In altre parole un ministro della Repubblica, eletto con voti secessionisti e portato a Roma da un premier senza scrupoli, a cui conviene la confusione che copre l’illecito, parla da secessionista con l’autorità di Ministro del Paese che occupa e disprezza, e con cui intende «farla finita». È lo stesso ministro-chiave insediato nella capitale italiana ma capo di una forza violentemente anti- italiana, che pochi giorni prima incitava la nazionale di calcio della «Padania» nel «campionato degli Stati non riconosciuti».
La Padania è infatti uno di quegli Stati. “Non riconosciuti” vuol dire non ancora liberi. Infatti, in quella occasione il grido di Bossi era un rauco “Padania” al quale la sua folla doveva rispondere con l’urlo “Libera”. Una manifestazione secessionista da fuori legge, e certamente incompatibile con l’immagine, benché logora e screditata, di Ministro della Repubblica. È chiaro a tutti che si tratta di un gesto pericoloso contro il quale, ti immagini, si rivolta con indignazione la classe dirigente di un Paese. Sono questi i casi in cui si può verificare un serio e vero sentimento trasversale di condanna, di presa di distanza, di separazione da una visione così bassa e così irresponsabile della vita pubblica italiana da parte di un garante (un Ministro importante) della vita pubblica italiana. Dopo tutto si tratta della stessa classe dirigente occupata per una decina di giorni in una staffetta di condanne esterrefatte e continue dedicate all’ormai celebre «delitto di piazza Navona», rispetto a cui impallidiscono altri fatti- pur duri- della cronaca nera italiana. Ma in piazza Navona affermazioni immensamente discutibili (che personalmente ho scelto di respingere subito) erano state fatte da due comici, celebri e popolari, certo, ma liberi da responsabilità istituzionali. Eppure non c’è confronto. Entro giorni due (due) i più autorevoli giornali e telegiornali italiani potevano scrivere e dire «archiviata la questione Bossi». Archiviata quando, da chi? E come è possibile che si sia rapidamente condonato come «colore» il gesto volgare contro l’istituzione e l’appello alla rivolta da parte di un Ministro della Repubblica?
* * *
«Archiviato» anche il problema giustizialista (ovvero di implacabile persecuzione delle compatte forze giustizialiste) di Silvio Berlusconi. Sentite il titolo (un titolo esemplare ma certo non il solo): «Tolto il macigno giustizia, niente più alibi per le riforme» (ilMessaggero, 24 luglio). Un intervistato del “Giornale Radio 3” (ore 8.45 del mattino del 23 luglio) ci spiega anche meglio: «È venuto anche meno l’alibi dell’antiberlusconismo giudiziario». Come dire: chi, d’ora in poi, si sottrae a un fitto e proficuo dialogo sulle riforme, non ha ragioni e indignazioni da invocare, perché il grande imputato non ha più problemi con la giustizia.
Ognuno di quei problemi, compreso il processo Mills, con la pesante imputazione di corruzione giudiziaria, è stato allontanato da Berlusconi con una legge fatta per Berlusconi dall’ex segretario privato di Berlusconi, divenuto Ministro della Giustizia, in consultazione accurata e continua con gli avvocati di Berlusconi. Il quadro è rappresentato con triste umorismo dal vignettista Giannelli sulla prima pagina del Corriere della sera del 24 luglio: Berlusconi, vestito da mago, salta sul collo del Presidente della Repubblica e, profittando di quella elevazione e di quel livello che di suo non possiede, brandisce la bacchetta magica dell’ autoritarismo ormai senza limiti.
Immagino la dispiaciuta amarezza con cui il Presidente Napolitano avrà guardato quella vignetta. È ciò che è accaduto: comporre un «pacchetto di immunità» nel quale il più onesto e disinteressato degli italiani (vedere la sua vita, prima ancora della sua carica) si trova stretto accanto all’italiano più noto nel mondo per il suo attivo, aperto e smaccato conflitto di interessi nei confronti e a danno dello Stato che governa; e per le sue innumerevoli imputazioni, che hanno indotto la rivista finanziaria inglese “The Economist” ad aprire con il titolo di copertina a piena pagina «Mamma mia!».
In altre parole, Berlusconi imputato, per liberarsi dal più rischioso ed imminente dei suoi processi, ha formato una scorta composta dalle tre più alte cariche dello Stato. Due saranno forse state consenzienti, per amicizia o solidarietà o affinità. Ma il capo dello Stato, un uomo che - per esempio - l’opinione politica repubblicana e democratica degli Stati Uniti ha stimato e ascoltato fin da quando era esponente del Partito Comunista italiano, adesso, appare inserito dentro una legge-ricatto. Di essa il Capo dello Stato non ha alcun bisogno a causa delle prerogative istituzionali che disegnano il suo ruolo, al di sopra (ma anche estraneo) rispetto ad ogni altro ruolo.
Ecco in che senso è inevitabile, in questi giorni, pensare con sostegno, amicizia, solidarietà al Capo dello Stato. Ci sono cittadini che cadono nella trappola di Berlusconi o in quella dell’antipolitica e che dicono: «Andiamocene via. Sono tutti uguali, sono tutti la stessa gente». Oppure provvedono i pr di Berlusconi a farvi credere: «Non c’è differenza fra noi e il Quirinale. Vedete? Siamo tutti nello stesso pacchetto di immunità». Tocca a noi dire che la figura del Capo dello Stato non si confonde, non si identifica e non ha niente a che fare con un meccanismo un po’ ignobile pensato e usato come trappola, e che il giurista Carlo Federico Grosso ha definito «il male minore». «Ma è il male minore all’interno di una strategia fondata sulla continua minaccia di un male peggiore» (La Stampa, 25 luglio). È una trappola che in apparenza funziona perché il formalismo giuridico del ruolo presidenziale (immaginato per un Paese normale in cui tutte le altre cariche dello Stato sono pulite e non hanno la giustizia alle calcagna) richiede di firmare ciò che nella forma appare legale (dopo l’approvazione delle Camere) e costituzionale (dopo le precauzioni cosmetiche per far apparire vivo un cadavere giuridico).
Naturalmente stampa e tv in servizio permanente effettivo per il premier-padrone-imputato, sanno il loro mestiere. E dedicano alla firma, inevitabile e dovuta, (in attesa del giudizio della Corte Costituzionale) del presidente della Repubblica, minuti di tv e pagine di giornali. E sono pronti a trasformare in scandalo riflessioni come quelle proposte da Antonio Padellaro su questo giornale. Che significano: non lasciamo solo il Capo dello Stato con questa legge grave e ben congegnata. Il Capo dello Stato è l’alibi e l’ostaggio che dobbiamo negare a Berlusconi. Allo stesso modo, insieme con Padellaro mi sento di dire - finché riusciamo a dirlo -: non lasciamo soli i cittadini che hanno fiducia nella legge, nella Costituzione, nel giusto processo, nella informazione libera e responsabile, nel Capo dello Stato come garanzia.
Un popolo democratico, nei momenti di allarme, non cerca il dialogo con chi ha provocato l’allarme. Lo cerca con il suo punto alto di riferimento. Si volge in modo naturale verso il presidente della Repubblica. Come può essere un problema, o anche solo un segno di poco rispetto, questo spontaneo voltarsi di tanti cittadini verso il Presidente, mentre intorno volano insulti, minacce, volgarità di governo, promesse incalzanti di fare peggio, sia con la violenza fisica (Bossi) sia con leggi ancora peggiori (Berlusconi)? È naturale, nel cuore di una democrazia che non vuole spegnersi nonostante Berlusconi, cercare orientamento e risposta. Un’opinione pubblica fiduciosa è il più alto sostegno della democrazia. Una opinione pubblica allo sbando, o nella trappola dell’antipolitica è un grande pericolo.
Rompiamo l’antica abitudine delle istituzioni a parlare solo alle altre istituzioni. Ci sono milioni di cittadini che non vogliono essere mandati a casa dalla antipolitica che vede tutti uguali a tutti. Ma vogliono essere parte viva di una stagione di speranza, fatta di informazione, mobilitazione, partecipazione.
* * *
Nel frattempo il cielo della Repubblica è solcato da messaggi misteriosi, sullo sfondo di scenari che richiederebbero un libero sistema di informazioni e un sistema politico (Camera e Senato) funzionante. Ma la Camera e il Senato sono l’altro grande ostaggio della paralisi imposta al paese dagli interessi di Berlusconi. Ecco alcune domande che, stranamente, non sono diventate né materiale giornalistico, né spunto per una inchiesta approfondita.
1 - Chi stava parlando con chi, a nome di chi, e a proposito di che cosa, quando all’improvviso è stata lanciata una non credibile, non plausibile accusa a Fassino e a Nicola Rossi? Nel senso tetro della parola, è un gioco. Ma che gioco è, e chi sono i giocatori, e quale è la posta? Proprio perché l’insinuazione appare subito campata in aria, è evidente che si tratta di un imbroglio deliberatamente organizzato, la falsa pista di tutti i thriller . Restano le domande: che si è messo in moto? Perché adesso, in termini tanto pesanti, destinati a provocare tumulto e scandalo ma anche distrazione? È chiaro che tutto è inventato in questa storia. Ma non è una svista. È urgente decrittare il gioco, intercettare il percorso, e identificare gli autori. Dopo tutto siamo al centro della più grande vicenda di spionaggio politico mai realizzato con strutture private nel mondo occidentale.
2 - A Napoli è scomparsa la spazzatura. Manca una certificazione indipendente. Deve bastarci la parola? Ma chi si ricorda il numero di migliaia di tonnellate da smaltire dovrebbe esigere di sapere, prima di rendere il dovuto onore al successo: dove è finito l’ammasso di anni e anni di spazzatura nel miracolo della pulizia fatta in soli 80 giorni? Tutto è possibile, ma dove dirci come. Per esempio, dov’è finita la camorra, potente e presente dovunque? Si è arresa, è in ritiro, è in attesa, è in affari (forse altri affari)? Qualcuno vorrà aiutarci a sapere, magari per imparare e ammirare?
3 - Dialogando con Felice Cavallaro del Corriere della sera (24 luglio) Marcello Dell’Utri, ammette e anzi certifica, telefonate e incontri con due malavitosi di chiara fama, Aldo Miccichè, che opera dal Venezuela e si fa sentire con Dell’Utri per telefono, e Antonio Piromalli che, riuscendo a sfuggire alla polizia, fa una scappata nell’ufficio del senatore (13 marzo).
Attenzione, non dite che «è il solito Dell’Utri, che tutte queste cose le sappiamo già e non conta più». Dell’Utri, in piena campagna elettorale, ha ricevuto un pubblico, esteso, drammatico elogio di Silvio Berlusconi, forse un vero e proprio messaggio a qualcuno. In quella stessa occasione Berlusconi ha proclamato «eroe» il pluriomicida mafioso Mangano, per molti anni ospite di casa Berlusconi e poi morto in prigione mentre scontava l’ergastolo. Dell’Utri è tuttora il reclutatore e organizzatore dei giovani del partito (il suo incarico si riferisce a Forza Italia. Sarà stato esteso al partito del Popolo della libertà, dunque aperto ai giovani di An?).
Ed è comunque - nell’intervista al Corriere - l’autore della seguente confessione: «Miccichè voleva contattare un azienda di petrolio russa. Io sono molto amico di questi russi. È materia di cui si occupano tutti, pure io. Una cosa normale. Niente di male. Lo stesso Miccichè mi chiese di occuparsi del voto italiano in Venezuela. Io lo misi in contatto con Barbara Contini (ricordate? La “governatrice di Nassirya”, al tempo della morte del caporale Vanzan, ndr) cioè una persona di altissimo livello che coordina questo settore». Dunque un avamposto di potere, di governo, di maggioranza è luogo ospitale di accoglienza e smistamento di persone come Piromalli, di mediazioni d’affari come quella richiesta da Miccichè, ma soprattutto di inclusione rapida del volontario Miccichè nella campagna elettorale e nel partito di Berlusconi, attraverso l’immediata messa in contatto di un celebre e ricercato personaggio (ricercato da molte polizie) che offre affari e politica, con la dirigente («altissimo livello») del partito di Berlusconi Barbara Contini.
È bene tenere presente tutto ciò per sapere in ogni momento perché dobbiamo fare cordone e stare dalla parte del Capo dello Stato. Quando è stato chiesto ad Anna Finocchiaro, «ora che è stata archiviata la questione giudiziaria di Berlusconi, si può ripartire col dialogo?», la senatrice opportunamente ha risposto: «il dialogo non è una porta che si apre e si chiude a piacimento». Ha ragione. Infatti, se la apri e corri il rischio che entrino in scena Miccichè e Piromalli. Anche se non sei giustizialista, la normale prudenza del buon padre di famiglia ti sconsiglia di aprire quella porta.
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 27.07.08, Modificato il: 27.07.08 alle ore 14.38