Un saggio americano: solo gli inglesi riescono a inventarle. Non hanno paura del lato oscuro
di Massimo Gramellini (La Stampa, 08/01/2016)
La rivista letteraria The Atlantic, americana, ha condotto un’inchiesta dettagliata ed è giunta alla conclusione che in quest’epoca di ansie assortite e lettori bisognosi di cure affabulatorie, soltanto gli inglesi siano ancora capaci di popolare l’immaginario dei bambini di ogni nazione ed età.
Alla notizia che l’Inghilterra, magari con l’aggiunta dell’Irlanda, detenga l’esclusiva delle favole qualcuno storcerà il naso e opporrà le sue eccezioni, però è un fatto che il più formidabile parto fantastico degli ultimi decenni è stato il maghetto Harry Potter, britannico, la cui saga si inserisce in un filone avviato dai personaggi di Tolkien e C.S Lewis, britannici anch’essi.
Sarà il rapporto più stretto con la natura e con i miti fondativi pagani, l’assenza di una religione troppo moralista e inibente, la passione diffusa per i saperi esoterici, ma gli inglesi (e gli irlandesi) sembrano avere conservato un seme di conoscenze antichissime e la capacità di diffonderle attraverso un codice di immagini e archetipi che non parla all’emisfero razionale del cervello, ma si rivolge direttamente al subconscio di tutti gli esseri umani.
Uno dei momenti più emozionanti della mia vita è stata la scoperta che, accanto al significato letterale, le favole ne celavano un altro simbolico. Uno dei momenti più tristi è stato accorgermi che di questa scoperta non importava niente quasi a nessuno. Eppure mi vengono ancora i brividi quando penso agli artisti illuminati che dalla notte dei tempi hanno rivestito i segreti dell’esistenza e persino le future rivelazioni della fisica quantistica con le metafore dei racconti per l’infanzia.
Quando penso che la Bella e la Bestia è la storia dello spirito che si riconcilia con la materia. Che la spada nella roccia è un simbolo fallico e la sua estrazione da parte del giovane Artù un rito di iniziazione sessuale. Che il bacio del principe azzurro alla bella addormentata è la metafora di quel risveglio consapevole che sta alla base di ogni antica tradizione spirituale. Che la rinuncia al simbolo del potere - sia esso l’anello elfico che Frodo va a gettare nel vulcano di Mordor o la bacchetta di sambuco che Harry Potter decide di spezzare dopo averla vinta a lord Voldemort nel duello finale - è l’atto supremo di distacco che completa l’evoluzione interiore dell’eroe.
Non è importante comprenderli con la mente, certi significati reconditi. L’emozione della favola li porta egualmente là dove devono andare: al di sotto della corteccia dell’Ego, nel regno della coscienza che Jung chiamava il Sé. La lettura delle favole procede su due livelli. Il subconscio infatti non comprende le parole. Il suo alfabeto è fatto di immagini e suoni.
Mentre il piccolo lettore ascolta le avventure di principi e principesse, da qualche parte dentro di lui si forma l’immagine simbolica su cui potrà fare affidamento per il resto della vita. Quando, smarrita la sbornia di “realtà” tipica dell’età dello sviluppo, sentirà il bisogno di attingere a una conoscenza eterna per lenire le proprie paure e sviluppare i propri talenti.
Tutto questo gli inglesi non lo hanno dimenticato. E hanno avuto la forza di ricordarlo al mondo. Non è solo questione di lingua. Anche gli americani scrivono in inglese, ma le loro trame per l’infanzia esprimono un intento educativo, e dunque pragmatico, che smorza sul nascere lo sbrigliarsi della fantasia.
Huck Finn è un capolavoro e Mark Twain un genio, ma si tratta di un capolavoro e di un genio intrisi di realtà. Persino la metafisica Moby Dick di Melville è appesantita da decine di pagine francamente noiose sulle varie tipologie di balene, quasi che lo scrittore avesse voluto rimarcare la base scientifica della sua straordinaria creazione. La cultura nordamericana ha compresso l’irrazionale fin dalle origini, assieme ai nativi indiani che ne sarebbero stati i naturali cantori. La concretezza etica della società fondata dai Padri Pellegrini ha spinto i compositori di favole a interpretarle non come una vacanza del pensiero, ma come il rivestimento zuccheroso di una medicina fatta di regole morali da impartire sotto forma di apologo con morale incorporata.
E gli italiani? Avendo copiato gli americani praticamente in tutto, non potevamo che seguirli anche in questa strage della fantasia immolata sull’altare della cosiddetta realtà. Pinocchio è un gigante della narrativa universale, eppure fu ignorato per un certo periodo persino dai suoi contemporanei.
Le biografie di Collodi pubblicate dai giornali dopo la sua morte liquidano il burattino in poche righe. L’autore stesso non ebbe piena consapevolezza della sua opera, che toccò a Benedetto Croce sdoganare almeno dal punto di vista letterario. Collodi era un massone e non c’è pagina di Pinocchio che non contenga un riferimento alchemico (a cominciare dal nome del protagonista che si rifà alla ghiandola pineale, il “terzo occhio” di cui ogni tradizione esoterica si ripropone l’attivazione). Ma non ha lasciato eredi.
Oggi si scrivono favole anche molto poetiche, intasate soprattutto di animali che parlano e ragionano come gli umani, ma manca la magia della spiritualità che in un Paese cattolico come il nostro viene ancora associata esclusivamente alla religione. Mentre il misticismo pagano che è alla base delle fantasie immortali degli inglesi si nutre di boschi, di orfani e di lettori che abbiano voglia di lasciarsi lambire dalla loro ombra a costo di perdervisi.
INFANZIA E STORIA: DEMOCRAZIA, FIABA, E MESSAGGIO EU-ANGELICO
AL DI LA’ DEL MITO E DELLA LOGICA TRAGICA....
L’INDICAZIONE DI NELSON MANDELA E DON LORENZO MILANI.
di Federico La Sala *
Nessuno nasce senza ombelico (antico prov. arabo).
A proposito del Crocifisso .... "Coprire di sdegnati improperi il gesto di Adel Smith non aiuta a capire lo scandalo che forse è più tremendo [...] il vero scandalo era avvenuto già prima del suo ricorso al giudice. Forse la croce era già stata tolta dai cristiani stessi, con il pensiero, e di esso non era restata che un’apparenza: due assi di legno, e quando è di aiuto la fantasia magari anche un uomo, scolpito sulla superficie [...] Il gesto della Chiesa che abbandona un crocefisso commissionato [per il Giubileo del 2000, a Tor Vergata, fls] non è meno grave - forse è più grave: Gesù è crocefisso di nuovo - dell’azione di Adel Smith"(Barbara Spinelli, Il caso Ofena. Il doppio scandalo della Croce, La Stampa, 2 nov. 2003)).
Questo, in verità, è il problema. Ieri era la questione di un solo coraggioso - Nietzsche, oggi è diventata (e siamo solo agli inizi!) una questione di tutti gli uomini e di tutte le donne d’Italia e dell’ intera Europa. Nel momento stesso in cui gli specifici rapporti e i vecchi equilibri tra le culture dell’intero mondo legato al Mediterraneo sono tutti da ridefinire e si pone la questione delle radici dell’intera Europa, l’interrogativo sul Crocifisso non può non riaprirsi e riportare alla coscienza i problemi non risolti o mal risolti da duemila anni - non solo a livello interculturale, ma anche all’interno stesso di ogni cultura, compresa la distinzione tra laico e religioso.
E Roma, come Gerusalemme, ridiventa il luogo reale, simbolico, e storico specifico dove si gioca la ’partita’ più importante. Se è vero, come è vero, che l’Europa è nata dall’incontro di diverse culture con il messaggio cristiano e che - come ha scritto lo studioso Khaled Fouad Allam, europeo di origine musulmana - "l’Europa è debitrice verso il cristianesimo", il problema si trasforma e assume quest’altra forma:"Come accogliere l’altro, se si nega se stessi? Come saldare un patto fra le comunità se l’Europa rifiuta di riconoscersi? L’incontro è possibile solo se si è consapevoli delle proprie radici"(La Repubblica, 23-9-2003).
Questo il nodo da sciogliere, e non si scioglie reimponendo vecchie soluzioni. Qui si sta parlando di un’ Europa nuova, di un’ Europa aperta e democratica, e allora bisogna essere chiari e onesti: questa Europa non s’inscrive e non vuole reinscriversi nell’orizzonte imperialistico platonico-hegeliano e cattolico-romano, ma nella tradizione socratico-cristiana - SOLO DIO E’ SAPIENTE (Socrate), SOLO DIO E’ BUONO (Gesu’).
La differenza è abissale, come quella tra Dante e Bonifacio VIII - a proposito di radici, non dimentichiamoci del padre della nostra stessa lingua! Oggi - ha detto il Papa (e in questo ha tuttavia ragione) - non possiamo più vivere "come se Dio non ci fosse" ... ma di che e di chi si sta parlando - del Papa o di Dante? Se vogliamo portare alla luce del sole le radici, è proprio su questa differenza che dobbiamo reinterrogarci radicalmente e riporre da un punto di vista ANTROPOLOGICO la questione aperta e denunciata già da Nietzsche (e da Freud e, recentemente, ripresa anche da René Girard): l’UCCISIONE di DIO e, insieme a essa - non confondiamo il padre con il figlio! - l’uccisione dell’uomo, FIGLIO di Dio, il Crocifisso appunto!
Si tratta di porre in modo nuovo e decisivo l’interrogativo sul MONOTEISMO. E la questione non è affatto solo religiosa, ma è culturale e politica in senso forte - ne va della nostra stessa vita sulla Terra, tout court!
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"Quando furono promulgate le leggi razziali in Italia nell’autunno del 1938, il provveditorato agli studi inviò solerti funzionari in tutte le scuole del Regno per verificare che fossero rigorosamente applicate. [...] Si racconta che in una certa aula scolastica di un istituto elementare, uno di questi funzionari svolgesse con zelo il suo compito di epuratore della razza maledetta e con espressione grifagna ingiungesse: CHI HA IL PADRE EBREO LASCI IMMEDIATAMENTE L’AULA. Tre bimbi con l’aria smarrita si alzarono, raccolsero libri e quaderni, si infilarono il cappottino ed uscirono mesti dalla classe. Verificata l’esecuzione dell’ordine, il funzionario proseguì perentorio: CHI HA LA MADRE EBREA LASCI TOSTO L’AULA. Un solo bambino riccioluto con l’incarnato pallidissimo, gli occhi sgranati, incredulo raccolse le sue cose ed uscì. A questo punto fiero di sé il solerte sgherro con soddisfatta pomposità esclamò: CHI HA IL PADRE E LA MADRE EBREI LASCI IMMANTINENTE QUEST’AULA ARIANA.
Nell’innaturale silenzio che seguì a quest’ultimo ukase, tutti udirono un cigolio che proveniva dalla parete alle spalle della cattedra. Col fiato sospeso tutti i presenti tesero le orecchie e intesero distintamente il suono metallico di un chiodino che cadeva sul pavimento. A questo punto, guidati dallo sgomento impresso sui piccoli volti dei loro alunni, il funzionario della pubblica istruzione ed il maestro si volsero verso la cattedra appena in tempo per scorgere il crocifisso guadagnare con dolenti balzelloni l’uscio e sparire.
Noi ebrei l’abbiamo sempre saputo, l’uomo che in effigie è rappresentato agonizzare sulla croce, è un ebreo. Suo padre terreno e sua madre erano ebrei. Lo era naturalmente suo fratello Giacomo. Ebraica fu la sua formazione e la sua pratica. Ebrei furono i suoi discepoli e a lungo i suoi seguaci furono solo ebrei.
Ebrei furono i primi martiri cristiani. Dopo quasi due millenni di elusione, questi fatti sono riconosciuti e dichiarati a chiarissime lettere dalla Chiesa. Non all’epoca buia della persecuzione e dello sterminio nazista. Allora milioni di innocenti condotti al macello forse avrebbero sperato nella rimozione dei crocefissi da ogni luogo per denunciare l’orrore. Non accadde.[...] Ma l’attuale Pontefice ha assunto su di sé come capo della Chiesa Cattolica la responsabilità delle passate perversioni, ha solennemente riconosciuto le colpe e chiesto perdono"(Moni Ovadia, La cacciata del crocifisso, L’Unità, 1.11.2003, p. 28).
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Allora, 1938, non accadde! Oggi, 2003, non lasciamoci confondere le idee e cerchiamo di andare alle radici. Questa epoca, la nostra epoca, è l’epoca del nichilismo, quella già annunciata da Nietzsche: Dio è morto! E noi lo abbiamo ucciso... E NOI (al di là del laico e del religioso, della destra e della sinistra) CONTINUIAMO AD UCCIDERLO!
Un simbolo è un simbolo. La sentenza del giudice Montanaro che ordina la rimozione del crocifisso da un’aula della scuola elementare di Ofena dice la verità, NIENT’ALTRO CHE LA VERITA’, TUTTA LA VERITA’. Cosa rappresenta oggi per noi, italiani e italiane, il crocifisso? Niente, niente più: il cattolicesimo (e lo dicono pure tutti i sondaggi e le statistiche, al di là delle apparenze e degli opportunismi) ormai è solo una categoria sociologica che non esprime più L’ANIMA della "buona-notizia" e del "lieto-evento", ma dice solo dell’appartenenza ad una parziale visione politico-culturale di una determinata parte della società italiana. Non dice più né delle radici, né di nostro padre e di nostra madre, né di "Dio", né del futuro, né di altro: "C’era una volta. - Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori. - No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno" (Collodi)!!!
Un segnale è un segnale. E la sentenza del tribunale dell’Aquila è solo un campanello d’allarme: STA A TUTTI NOI sentirlo e riflettere, sia da parte dei cittadini e delle cittadine della REPUBBLICA DEMOCRATICA ITALIANA sia da parte dei e delle fedeli della CHIESA CATTOLICO-ROMANA sia di TUTTE LE ALTRE CONFESSIONI RELIGIOSE, e cambiare rotta - prima che sia troppo tardi. Se non l’abbiamo capito, la campana suona per tutti e per tutte: IL PROBLEMA E’ ANTROPOLOGICO, prima di tutto - e poi, politico e teologico! Si tratta - e non metaforicamente - di non buttare l’acqua sporca con il BAMBINO, NOI STESSI.
Teniamone conto. Noi - ognuno e ognuna, in prima persona - NON ABBIAMO ANCORA RISPOSTO alla domanda: CHI SIAMO NOI, IN REALTA? (su questo, mi sia lecito, cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, in forma di lettera aperta, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno, 2001, pp. 9-40).
Cittadini sovrani e cittadine sovrane, re e regine, figli e figlie di "Dio", o ... dei semplici pezzi di legno?! Sta il fatto che "OGNI BAMBINO E’ UN PRINCIPE DELLA LUCE CHE POI CON L’EDUCAZIONE DIVENTA UNA SORTA DI CRETINO"(Marcello Bernardi) - non un ’cristiano’, un essere umano - semplicemente!
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Ripensare tutto e ri-trovare "ciò che è comune" a tutti gli esseri umani e a tutte le culture e le religioni del Pianeta è un passo sempre più obbligatorio.
Bisogna ripartire a contare e ragionare da "zero" - dall’essenziale, dalla relazione amorosa di uomini e donne in carne ed ossa, dalla nascita di ognuno e di ognuna di noi stessi e di noi stesse, e dalla relazione (al di là di un biologismo e naturalismo accecato e accecante ) dei nostri stessi padri e delle nostre stesse madri. Questo ci permette di comprendere quanto per secoli e millenni ci siamo negati (a tutti i livelli - dal religioso allo scientifico!) che ogni essere u-ma-no nasce dall’unione, dall’alleanza, dal rapporto sociale (storico e culturale) di due esseri umani, non dal caso o da un ’incidente’ biologico o tecnico , ... e apre la strada alla possibilità di riequilibrare - pacificamente - il campo delle relazioni!
Significa finalmente capire, cioè, che la famosa ’rivelazione’ parmenidea ed eraclitea che l’Essere è, e che il non-essere non è, riposa su una chiarificazione essenziale - a partire dal nostro proprio presente storico - di natura logica ed etica. In principio era l’Essere, il Logos ... come il giovanneo In principio era il Logos e il ’grande comandamento’ Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso sono sulla stessa strada e non dicono altro che la stessa cosa. E ciò che dicono, se pure può essere apparsa una rivelazione, è prima di tutto e sopratutto una scoperta, un’acquisizione culturale, e una verità antropologica, e non un’invenzione di preti e di sacerdoti - questi vengono dopo!
A partire da noi stessi e da noi stesse, e dal nostro presente ATTUALE, ciò che oggi noi possiamo e dobbiamo fare è rimettere insieme tutti i ’pezzi’ dell’intera drammatica storia della nostra (planetaria) cultura, guarire le ferite, e riprendere il cammino, con una nuova consapevolezza e con una nuova volontà:
1) Fuori del tutto non c’è Dio (Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso: è un punto cruciale della riflessione di Nietzsche e il punto d’approdo dell’intera filosofia contemporanea);
2) Non c’è Dio se non Dio (è l’affermazione fondamentale della religione islamica);
3) Non c’è Dio, se non il Dio dei nostri padri (è l’affermazione fondamentale della religione ebraica);
4) Non c’è Dio, se non il Dio delle nostre madri (è l’affermazione fondamentale della religione cristiana e cattolica).
Se non ora, quando? Bisogna ripartire dalle radici, da qui - dalla nascita di noi stessi e noi stesse e dalla relazione che ci fonda. E’ l’ antropologia che insegna alla politica... e alla teologia. Come in cielo così in terra: FUORI DEL TUTTO NON C’E’ NESSUN DIO, SE NON L’AMORE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI.
Da qui ripartire, dall’essere, tutti e tutte, figli e figlie della Relazione d’Amore di uomini e donne, da questo fatto-culturale attuale, e da questa consapevolezza - senza riduzionismi biologistici e senza fondamentalismi, per fare verità e riconciliazione: non ci sono altre strade.
Oggi non abbiamo più altra via per proseguire, se non quella della verità e della vita.... Un grande concilio, tra tutti gli uomini e tutte le donne di buona volontà di tutta la Terra, come quello immaginato IN CIELO da Nicola Cusano, "per placare la follia dell’ira e di aiutare la verità a manifestarsi", in LA PACE DELLA FEDE (1453), penso che sia da mettere all’ordine del giorno.
Un O.N.U. rinnovato, un UNO della filosofia, della politica, e delle religioni. AL PIU’ PRESTO: ora, non domani. Per il Terzo millennio, per l’intero genere umano - un nuovo monoteismo, quello della libertà, dell’uguaglianza, e della differenza: un "lieto-evento" e una "buona-novella", finalmente..... AMORE è più forte di MORTE (Cantico dei cantici: 8.6 - trad. di G. Garbini). La paura più grande - quella della morte - può essere affrontata e un nuovo essere umano può nascere.
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La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite.
È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più.
Ci domandiamo: “Chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso? In realtà che sei tu per NON esserlo?”
Siamo figli di Dio. Il nostro giocare in piccolo non serve il mondo.
Non c’è nulla di illuminato nello sminuire se stessi perché gli altri non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere, come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non solo in alcuni di noi: è in ognuno di noi.E quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, inconsapevolmente diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso.
Quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri.
(Testo di MARIANNE WILLIAMSON, ripreso dal discorso di insediamento del Presidente della Repubblica del Sudafrica, Nelson Mandela, del 1994).
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A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.
C ’è un solo modo per uscire da questo macabro gioco di parole.
Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù; ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.
A questo patto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico (don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù. Lettera ai cappellani militari).
* IL DIALOGO, Lunedì, 01 dicembre 2003.
PER ULTERIORI "VARIAZIONI" SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
(Federico La Sala) (14.01.2016)
Che ci fa Socrate a cavallo di un bastone?
di Ugo Morelli *
“Facciamo che io sono... e che tu sei...”. Quante infinite volte è stata pronunciata questa frase da quando siamo divenuti sapiens! In quel gioco si realizza forse, oltre allo sviluppo e alla crescita di ogni essere umano, l’unica effettiva pratica della verità che ci consente la nostra condizione. Sì, perché quell’altra verità, non quella nella quale effettivamente ci identifichiamo fingendo, ma quella che continuiamo a cercare vivendo, ci dona senso nell’atto stesso del cercarla, e si relativizza e si allontana se vogliamo fissarla una volta per tutte, avendo nel farsi cercare svolto il suo compito. Quel vero, infatti, come ci ricorda Aldo Giorgio Gargani, verrà e sarà la conseguenza tardiva di un gesto sociale che l’ha preceduto, che gli ha preparato il posto da riempire insieme all’ordine della sua costituzione.
Nel rapporto tra la finzione, intesa come dare forma mettendo in scena, e la verità e le sue pratiche, si genera ogni processo di individuazione, si crea la via mediante la quale diventiamo noi stessi. Il movimento di attraversamento della cornice tra finzione e verità è generativo di individuazione. Socrate, cavalcando un bastone, come ci riferisce Valerio Massimo, entra nella cornice del gioco dei suoi figli: -“Socrate sta, in tal modo, al posto di sé stesso, proprio perché è capace di stare al posto di un altro”, scrive Alfonso Maurizio Iacono [Socrate a cavallo di un bastone, manifestolibri, 2022; p. 17].
Certo, la finzione merita un’operazione di valorizzazione semantica che la sottragga finalmente all’associazione di senso comune con il falso, con la bugia. Accade qualcosa di simile all’illusione, che è schiacciata a sua volta sulla banalizzazione dell’inganno, della falsa credenza o delle aspettative infondate, mentre a sua volta indica la nostra distinzione a giocare dentro l’esperienza con gli altri e gli eventi traendone possibilità estensive rispetto alla consuetudine. L’illusione, come ricorda lo stesso Iacono, ha per Donald Winnicott il valore cognitivo del riconoscimento della realtà, e se è associabile anche all’inganno, è evidente che in tanti casi, come nel gioco teatrale o cinematografico, perdersi entro i suoi confini porta alla verità. Anzi è proprio nello sviluppo della capacità di distinzione tra illusione e inganno che si concretizza lo sviluppo dell’autonomia di una bambina o di un bambino.
Citando Winnicott: “il compito della madre è di disilludere gradualmente il bambino, ma essa non ha speranza di riuscire a meno che non sia stata capace da principio di fornire sufficiente opportunità di illusione” [D. Winnicott, Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in Gioco e realtà, Armando, 1974; p. 38].
Alfonso Maurizio Iacono esplora proprio questioni simili, da anni, e non lo fa da solo, ma con le bambine e i bambini mette Socrate a cavallo di un bastone, non insegnando filosofia ai bambini, né facendo filosofia per i bambini, ma vivendo filosofia con i bambini.
Il tema del libro è duplice: mentre si sperimentano le azioni raccontate, prende corpo un’ipotesi che è l’interrogazione principale del libro, e riguarda il rapporto che il fingere, inteso appunto come un dare forma mettendo in scena, intrattiene con la verità e le sue pratiche.
Quando la cosa in sé è stata sollevata da un sapiens da dove se ne stava appiattata facendo finta che fosse altro da quello che era sempre solamente stata, quella cosa non è più stata la cosa in sé, ma tutte le infinite cose che l’immaginazione anticipatrice e le variazioni finzionali l’hanno fatta diventare e continuano a farla diventare. Non perché un pezzo di selce abbia smesso di essere un pezzo di selce nel momento in cui è stato trasformato in una punta acuminata per uccidere una preda o un nemico, ma perché - ed ecco l’originale pensiero a cui Iacono sta dedicando una vita di ricerca - un mondo intermedio abitato da chi ha fatto come se un pezzo di selce fosse un’arma gli ha consentito di creare e inventare l’inedito, quello che prima non c’era. È abitando l’ambiguità - ambi vuol dire due - che tiene insieme irriducibilmente le polarità, che si crea il possibile, colto, come dice Iacono, con la coda dell’occhio.
Sappiamo oggi che quella possibilità di abitare contemporaneamente due dimensioni, corpo e figura, di entrare e uscire dalla cornice, si è generata evolutivamente nell’interazione tra biologia e cultura. Siamo in grado di definire che tutto sia accaduto nei tempi biologici che ci riportano a circa un milione e trecentomila anni fa, con lo sviluppo dei lobi prefrontali del cervello e la progressiva affermazione del comportamento simbolico fino all’affermazione di homo sapiens. La possibilità di intravedere un’arma in un pezzo di selce non è il superamento del vincolo del pezzo di selce e della sua struttura materiale, ma è l’elaborazione combinatoria di quel vincolo. Anche se, divenendo il padrone del pianeta, secondo la definizione di Ian Tattersall, noi umani abbiamo teso e tendiamo a praticare senza limiti la possibilità, dimenticando o negando il vincolo. Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Prigionieri di una cornice, che ci ostiniamo a confermare, non sappiamo intravedere gli effetti che il modello di sviluppo che ci siamo dati ha sulle stesse condizioni per continuare a darselo e, soprattutto, sulle condizioni della nostra stessa vivibilità. Ecco dove va a finire l’importanza del gioco e del vivere filosofia con i bambini di cui si occupa il libro di Iacono.
Se cavalcare un bastone ha senso perché fa parte del gioco della sostituzione, ciò accade perché un bastone è come un cavallo e il bastone è un cavallo: lo è dentro il mondo dei bambini, i quali sanno molto bene che il bastone non è un cavallo, ma sanno anche che se si mettono d’accordo fra loro, lo può diventare. Che lo diventi, e lo diventa se c’è consenso, può voler dire almeno due cose: che sarà poi impegnativo uscire dalla cornice “il bastone è un cavallo”; che sarà proprio la capacità di uscire da quella cornice uno dei principali frutti generativi del gioco educativo e dell’apprendimento di libertà e democrazia di chi gioca quel gioco.
Imparare la capacità di stare al posto di...è probabilmente una delle principali esperienze di apprendimento della libertà e delle relazioni con gli altri e il mondo. Quando Gregory Bateson, in uno dei suoi percorsi vertiginosi, si e ci domanda quale relazione esista tra un sacramento e la democrazia, ci impegna a giungere a riconoscere il fondamentale ruolo della delega. Inviare un altro al posto nostro o essere inviati al posto di un altro, o collocare con l’immaginazione qualcosa al posto di qualcos’altro, facendo “come se”, apre uno spazio intermedio frutto della finzione (fingo: immagino, formo immagini), che genera figure in un processo di mimesis, come ha mostrato magistralmente Erich Auerbach, [Studi su Dante, Feltrinelli, 2017], sui cui esiti associabili in epoche e luoghi diversi si è concentrata l’ossessiva ricerca di Aby Warburg.
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Esiste una relazione stretta tra finzione e differimento. E qui gli esiti della ricerca di Iacono si incontrano con uno dei percorsi più densi e profondi degli studi di psicologia del ‘900, il cui inestimabile valore persiste e si amplifica col tempo, il lavoro di Lev S. Vygotskji. Secondo l’analisi anticipatrice, validata nel tempo dalla ricerca sperimentale, che Vygotskji mise a punto con il suo straordinario lavoro di ricerca e applicazione, e che documentò in alcuni saggi che ora si possono studiare grazie alla cura di Luciano Mecacci, in un importante libro, La mente umana. Cinque saggi, [Feltrinelli, 2022], lo spazio di sviluppo prossimale svolge almeno tre funzioni nel sostegno all’evoluzione dei sistemi psicologici. La prima riguarda la valorizzazione della rilevanza di tutto quello che è prossimo, vicino, a disposizione del movimento e fonte di azione, incluso il ruolo che svolgono gli oggetti nei processi di attraversamento delle cornici. La seconda riguarda l’incidenza dello spazio come ambiente per il movimento, per le relazioni prossimali di apprendimento e per lo sviluppo del pensiero; la terza, ma certo non la meno importante, ha a che fare con la preparazione del prossimo esito generativo possibile, con lo sviluppo prossimo che la finzione e l’immaginazione preparano.
Le assonanze e le corrispondenze tra la ricerca di Iacono e quella di Vygostskji sono entusiasmanti e lo stesso Iacono, in uno scambio personale, ha riconosciuto la particolare importanza dei saggi dello studioso russo, notando solo di non aver potuto dialogare con il loro contenuto nello scrivere il libro, in quanto ha concluso Socrate a cavallo di un bastone immediatamente prima che il libro che li raccoglie fosse pubblicato.
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Implicati sono in particolare i processi che connettono azione-percezione-apprendimento. A supportare questa rilevanza della prossimalità e degli oggetti sono più recentemente le teorie di James J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva [Il Mulino,1999], con la fenomenologia dell’affordance; quelle evidenze scientifiche sono oggi validate dagli studi, tra gli altri, di Lambros Malafouris sui processi mediante i quali le cose e gli oggetti danno forma alle menti [How Things shape the mind. A theory of material engagement, MIT Press, 2022]. Il material engagement si configura come una sorta di “fidanzamento” tra noi e le cose, attivando pratiche di apprendimento, processi di finzione, capacità di formare immagini, immaginazione e figure, con effetti mimetici che costituiscono l’impasto di apprendimenti e percorsi di crescita di particolare efficacia.
Accanto a questi fattori e integrata con essi, ad entrare in gioco è l’empatia dello spazio. Quel processo che riguarda la formazione e lo sviluppo delle nostre menti, caratterizzate dalla neuroplasticità, che è interconnessa all’intersoggettività, e dallo sviluppo contingente e situato in un contesto. Oltre che embodied, infatti, le nostre menti sono embedded e la loro collocazione in un contesto ne garantisce le possibilità di estensione. Come ha mostrato in un pionieristico lavoro di ricerca Harry Mallgrave, gli artefatti situati in uno spazio e le componenti naturali dello spazio stesso non sono un’astrazione concettuale, ma determinano il senso e il significato del nostro essere nel mondo, mentre concorrono a costruire apprendimenti, conoscenze e orientamenti di valore per degli esseri territoriali come noi umani [Harry F. Mallgrave, L’empatia degli spazi, Raffaello Cortina Editore, 2015].
È lo spazio, e i rapporti che riesce a contenere con gli altri e gli oggetti, a creare le condizioni di quella tensione rinviante che consente a ognuno di noi, in particolare nelle fasi di sviluppo infantili e adolescenziali, di valorizzare le capacità generative e creative del pensiero, fino ad avvicinarci a una relazione estetica col mondo e, quindi, alle soglie della bellezza intesa come estensione delle proprie possibilità per vie che senza quelle esperienze non si verificherebbero [U. Morelli, Mente e Bellezza. Arte, creatività, innovazione, Allemandi & C, 2014, 2° ed.].
Il procedere incalzante di Iacono convoca una ben definita comunità immaginata di esponenti del pensiero, con cui l’autore intrattiene una relazione che attraversa tutta la sua produzione, che vanno da Platone a Bateson, da Vico a Winnicott, per evidenziare un aspetto distintivo e cruciale dell’umana condizione: la capacità di immaginare quello che ancora non c’è abitando l’ambiguità dei mondi intermedi. -Per questa via la sua ricerca storico-filosofica si spinge efficacemente nell’analisi dei processi psicologici fino a connettersi con le neuroscienze, in particolare mediante un sapiente collegamento con la risonanza incarnata (embodied simulation) come processo da cui, nell’intersoggettività, si origina l’individuazione [Vittorio Gallese].
In quelle dinamiche si annidano allo stesso tempo le cause della minorizzazione e dell’esclusione, del conformismo e dell’alienazione.
Iacono ha organizzato l’approfondimento dei suoi percorsi di analisi in sedici capitoli progressivi, riprendendo temi e ricerche che porta avanti da tempo. Si potrebbe sostenere che il libro è un invito appassionato a non dimenticare di essere stati bambini. Sono i bambini, infatti, che quando imitano, quando diventano personaggi, non si perdono affatto nelle loro sembianze, anzi si addestrano a cambiare per rimanere sé stessi. E non solo entrano nei mondi imitando altri mondi, ma li trasformano creativamente.
Un’evidenza costante del lavoro di Iacono è che abitare i mondi intermedi e cogliere le differenze con la coda dell’occhio sia la condizione dell’individuazione e dell’emancipazione soggettiva e collettiva. L’azione educativa dovrebbe fare tesoro degli esiti di queste importanti ricerche, al fine di scegliere la strada della valorizzazione e del potenziamento del vivere filosofia. L’attenzione a valorizzare le emozioni di base della ricerca, della giocosità, della cura, può essere la via per lo sviluppo delle capacità di differimento, di esercizio del dubbio, di attraversamento dei confini del conformismo. Seguendo ancora una volta Vygotskji, se il gioco si forma in quella condizione dello sviluppo nella quale si manifestano le tendenze non realizzabili e i desideri per il momento non esaudibili, proprio in quella tensione derivante dall’abitare mondi intermedi può nascere l’anelito di libertà e la ricerca dell’autonomia contro la minorità. Su questo aspetto della cruciale questione Iacono si era espresso in un importante volume già precedentemente [Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, 2000].
Il problema irrisolto, come Iacono lo chiama, è uno dei nostri principali problemi: le difficoltà di percepire la cornice, cioè il confine che permette di distinguere un universo di senso da un altro, un contesto da un altro, come accade a Don Chisciotte che confonde i burattini con i cavalieri, sono anche le nostre difficoltà. Non riuscire a vivere l’autonomia delle scene nel teatro delle nostre vite e confonderle con il mondo con cui siamo mimeticamente in relazione, pregiudica la nostra libertà. “Quello di accettare mondi autonomi che sono uniti e nello stesso tempo separati da altri mondi è il problema irrisolto di Don Chisciotte. È invece ciò che apprendono i bambini quando giocano”. Così Iacono conclude il suo libro e, in fondo, ci suggerisce che il gioco e l’educazione, o forse i giochi educativi, sono pratiche di verità, ma anche pratiche di libertà.
Così come non finiamo dove finisce la nostra pelle, perché siamo gli altri e siamo aria, acqua, terra, energia, allo stesso modo e per le stesse ragioni la nostra mente è relazionale ed estesa e in quell’estensione si individua, nel gioco dei mondi intermedi.
Anne Carson, mostrando ancora una volta come i poeti ci arrivano sempre prima, in La bellezza del marito. Un saggio romanzato in 29 tanghi, La Tartaruga, 2022], scrive:
“Immagina la mente che si muove sulla superficie piana / del linguaggio ordinario / quando all’improvviso / quella superficie si rompe o si complica. / Emerge l’inatteso. / Imitazione (in greco mimesis) / è in Aristotele termine generico per i veri sbagli della poesia. / Ciò che mi piace di questo termine / è la disinvoltura con la quale accetta / che ciò che affrontiamo quando facciamo poesia è errore, / l’ostinata creazione di errore, / la volontaria infrazione e complessità di sbagli / dai quali può sorgere l’inaspettato”. [cfr. Marilena Renda su doppiozero].
Appuntamento alla prossima finzione e alla prossima estensione: a quello che ancora non siamo e che possiamo diventare.
*FONTE: Doppiozero, 23 Settembre 2022 (RIPRESA PARZIALE).
Donna
Dopo 300 anni tolta dall’oblio la scrittrice che inventò il termine ’fiaba’, dimenticata perchè discriminata
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 23 Dicembre 2020)
Contrariamente a scrittori noti in tutto il mondo come Hans Christian Andersen, Charles Perrault o ai fratelli Grimm, il nome di Madame d’Aulnoy resta sconosciuto ai più anche se dietro questo nome de plume si nasconde una delle più geniali scrittrici del XVII secolo. Marie-Catherine Le Jumel de Barneville, conosciuta come Madame o Contessa d’Aulnoy, inventò il termine "conte de fée" o fiaba, quando pubblicò una importante raccolta nel 1697-98.
Come al solito la storia della letteratura nel corso dei secoli non ha mai dato troppo spazio al valore delle scrittrici donne che venivano di fatto discriminate. A differenza, per esempio, di Perrault, che era contemporaneo di Madame d’Aulnoy: mentre l’autore di Cenerentola o del Gatto degli Stivali veniva accolto all’Academie Francaise e reso immortale, l’opera di Madame d’Aulnoy - sebbene ugualmente importante - appare raramente al di fuori delle antologie.
Eppure Madame d’Aulnoy fu la scrittrice francese che per prima ha coniò il termine "fiaba", a designare un racconto breve, spesso tratto dalla tradizione popolare e centrato su avvenimenti e personaggi fantastici come elfi, fate, maghi, streghe.
Il riscatto arriva dopo trecento anni: verrà infatti pubblicata in inglese per la prima volta l’opera di Marie Chatherine Le Jumel de Barneville grazie alla Princeton University Press che ha annunciato per marzo una nuova raccolta della sua opera intitolata L’isola della felicità con illustrazioni e un saggio dell’artista Natalie Frank. L’opera contiene anche la prima traduzione in inglese di La fiaba di Mira, una delle prime opere di D’Aulnoy, che racconta della bella Mira che uccise decine di uomini, una specie di Maga Circe.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
Le lacrime sono il vino del godimento
di Enrico Spadaro (Ondaiblea, 09 aprile 2020)
È con sensazioni di triste gioia che sembra avvicinarsi questa Pasqua, in cui quasi tutti i cristiani non possono fisicamente partecipare ai riti della Settimana Santa. Sembra quasi un paradosso, un ossimoro pronunciare queste parole, “triste gioia”: “gioia” nell’imminente resurrezione di Cristo, “triste” perché forse non totalmente vissuta.
Eppure esiste un termine greco, che racchiude un concetto forse maggiormente conosciuto nel mondo cristiano ortodosso, “charmolypi” (χαρμολύπη), che esprime al tempo stesso sentimenti di gioia (hara) e di tristezza (lypi). Si ritrova tale termine negli scritti di San Giovanni Climaco (525/575-603/650), monaco che visse quasi tutta la vita presso il monastero del Sinai. Nella sua dottrina, e in particolare nel suo scritto più celebre, La Scala della divina ascesa, vengono prevalentemente esaltati coloro che dopo aver peccato si pentono, poiché i dolori patiti permettono loro - attraverso il pentimento - di accedere alla vera “gioia” del Paradiso. Questi peccatori redenti sembrano aver provato la morte per poi essere risorti come Cristo, sono stati abbandonati e infine salvati dal Padre. Le lacrime che hanno versato sono così benedette: “Beati i sofferenti, perché essi saranno consolati”. (Matteo 5,4).
Il concetto espresso da San Giovanni Climaco potrebbe rinviare ad un elemento essenziale delle fiabe secondo lo scrittore britannico J.R.R. Tolkien (1892-1973), vale a dire la consolazione del lieto fine, per cui l’autore, nel suo saggio Sulle Fiabe (1939) conia il termine “eucatastrofe”, l’improvviso capovolgimento felice degli eventi, “ed è in quanto tale un evangelium, che fornisce una visione fuggevole della Gioia, quella Gioia oltre le muraglie del mondo, intensa come il dolore”.[1]
Con evangelium, Tolkien, fervente cattolico, non poteva che intendere il Vangelo, considerato come l’unica vera fiaba, e infatti continua il proprio saggio: “la Nascita di Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa storia comincia e finisce nella gioia.”
L’immensa opera letteraria di Tolkien e soprattutto i due romanzi principali, Lo Hobbit (1937) e Il Signore degli Anelli (1954-55), sono pieni di momenti in cui si verifica un’eucatastrofe, ma forse uno di quelli più evocativi è rappresentato dagli istanti immediatamente successivi la distruzione dell’Unico Anello tra le fiamme del Monte Fato. Frodo e Sam si credono spacciati e svengono, ma vengono salvati dalle grandi aquile e si risvegliano a Gondor con Gandalf al loro capezzale.
Tolkien descrive il momento attraverso le sensazioni di Sam:
E qualche pagina dopo:
Gioia e dolore sembrano fondersi e le lacrime sono la via che porta alla gioia, secondo la teorizzazione tolkieniana dell’eucatastrofe, ma anche secondo il concetto di “charmolypi” di San Giovanni Climaco. Inoltre, occorre sottolineare la data della distruzione dell’Anello, il 25 marzo, che è sì il giorno dell’Annunciazione a Maria, ma nella tradizione medievale era anche il giorno della crocifissione, il Venerdì Santo, un giorno di dolore che anticipava la gioia della Pasqua.
I momenti d’eucatastrofe in Tolkien non saranno forse l’espressione totale di beautitudine, ma potrebbero essere una rappresentazione di gioia e dolore, che preannuncia la “Gioia” finale del Paradiso.
Enrico Spadaro
Note
[1] Tolkien. Il medioevo e il fantastico. Milano, Bompiani, p. 225.
[2] Tolkien. Il Signore degli Anelli. Milano, Bombiani, p. 1136.
[3] Ibid., p. 1139.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PASQUA: BUONA PASQUA DI RESURREZIONE E DI RISURREZIONE.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
“Le fiabe sono il luogo di tutte le ipotesi”: vita e opere di Gianni Rodari, l’eterno bambino
A 100 anni dalla nascita vogliamo celebrare Gianni Rodari, lo scrittore che, con le sue storie rivolte ai bambini di tutto il mondo, ha rivoluzionato la letteratura per ragazzi, dando voce a luoghi e personaggi che neanche si pensava l’avessero, la voce. Facendo (ri)scoprire a diverse generazioni il piacere della lettura
di Martina Marasco *
L’approfondimento sui libri e la vita dell’autore
A volersi impegnare, forse si può trovare un adulto di oggi che non conosca neanche una filastrocca, una poesia o una favola di Gianni Rodari - ma bisogna impegnarsi parecchio.
A 100 anni dalla sua nascita vogliamo celebrare lo scrittore che, con le sue storie rivolte ai bambini di tutto il mondo, ha rivoluzionato la letteratura per ragazzi, dando voce a luoghi e personaggi che neanche si pensava l’avessero la voce, facendo (ri)scoprire a diverse generazioni il piacere della lettura.
Giovanni Rodari nasce il 20 ottobre 1920 a Omegna, in provincia di Verbano-Cusio-Ossola. Resta in Piemonte fino alla morte del padre, nel 1929, quando si trasferisce a Ranco, un paesino in provincia di Varese sulle sponde del Lago Maggiore. Lì si diploma come maestro a soli 17 anni e inizia a insegnare nella scuola elementare del paese. Resta nel varesotto fino al 1943, quando, durante la seconda guerra mondiale, è costretto a prestare servizio presso l’Ospedale Militare di Baggio.
Nonostante abbia iniziato a pubblicare i suoi libri molto più tardi, gli anni a Varese si manifesteranno più volte nel corso della sua poetica. Basti pensare al celebre incipit di Favole al telefono, “C’era una volta il ragionier Bianchi di Varese”, o ai racconti della signorina Bibiana, alla leggenda del lago di Varese o a parecchie delle sue filastrocche - citiamo, tra le tante, il Terzo indovinello: “Un dottore di Cesena andò a letto senza cena. La domanda impertinente è la seguente: aveva fame perché era un dottore o perché a Cesena non c’è il Lago Maggiore?”.
È nel 1944 che comincia ad avvicinarsi al Partito Comunista e a intraprendere il mestiere che lo accompagnerà per gran parte della sua vita: il giornalista. Dopo la Liberazione, infatti, comincia a lavorare dapprima all’Unità con la rubrica La domenica dei piccoli e poi, nel 1950, si trasferisce a Roma dove fonda, insieme a Dina Rinaldi, il giornale per ragazzi il Pioniere.
L’anno successivo Gianni Rodari è scomunicato. Il Vaticano, infatti, contesta duramente il lavoro dello scrittore, dichiarandolo “un ex-seminarista cristiano diventato diabolico” (in relazione al fatto che, prima dell’insegnamento, la madre lo spinse in seminario) e ordina di bruciare nei cortili degli oratori le copie del Pioniere, e i primi libri di Rodari, come Il libro delle filastrocche (1951) o Il romanzo di Cipollino (1951).
Ma per tornare a leggere Rodari, non bisogna aspettare poi molto: Giulio Einaudi, infatti, pubblica intorno alla metà degli anni ‘50 quelli che sono ancora oggi i suoi capolavori: Filastrocche in cielo e in terra, Favole al telefono, Il pianeta degli alberi di Natale, Il libro degli errori: il successo è immediato, e nel 1970 Rodari è insignito del Premio Andersen.
Nel 1973 viene pubblicato il suo capolavoro pedagogico, l’unico saggio indirizzato non ai bambini, ma agli insegnanti, ai genitori e a coloro che avevano a che fare con i più piccoli: Grammatica della Fantasia; introduzione all’arte di inventare storie.
I temi vengono a galla con facilità: il bisogno di un assoluto laicismo all’interno della scuola, l’importante impronta antifascista, gli ideali pacifisti e la centralità dell’espressione del bambino - un aneddoto vuole che i primi editor dei suoi romanzi furono proprio i suoi alunni del varesotto - la libertà di espressione e la morale innecessaria, che lascia al bambino la possibilità di trarre le proprie conclusioni.
Nel 1980 Rodari si fa ricoverare a Roma per un’operazione alla gamba sinistra; quattro giorni dopo, muore a causa collasso cardiaco. Dagli anni ‘80 a oggi i suoi libri sono stati pubblicati in moltissime edizioni, letti e studiati, senza la percezione che le storie narrate siano scritte 70 anni fa.
Forse la potenza dell’autore sta proprio in questo, nella sua capacità di essere attuale dopo tanto tempo, di far emozionare i bambini di oggi e i bambini di ieri nei genitori di oggi, senza risultare obsoleto o fuori luogo, fuori tempo.
Favole al telefono (1962)
“C’era una volta il ragionier Bianchi di Varese. Era un rappresentante di commercio e sei giorni su sette girava l’Italia intera vendendo medicinali. La domenica tornava a casa sua, e il lunedì ripartiva. Ma prima che partisse la sua bambina gli diceva: ‘Mi raccomando, papà: tutte le sere una storia’”.
Così, ogni sera, il ragioniere cercava un telefono a gettoni e chiamava la sua bambina, per raccontarle una storia. Le storie non erano mai troppo lunghe - con quello che costava una telefonata - ma lo erano abbastanza per far addormentare col sorriso tutti i bambini del mondo.
Favole al telefono contiene gioielli di poesia difficili da imitare: uno specchio della sensibilità per cui l’autore è famoso. Un esempio fra tutti, la favola Inventare i numeri.
“Quanto costa questa pasta?”
“Due tirate d’orecchi”.
“Quanto c’è da qui a Milano?”
“Mille chilometri nuovi, un chilometro usato e sette cioccolatini”.
“Quanto pesa una lacrima?”
“Secondo: la lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la Terra”.
Il libro degli errori (1964)
In una lettera a Giulio Bollati, Rodari spiega di aver scritto un libro che raggruppa filastrocche e racconti basati sugli errori di ortografia. L’errore è la materia: l’autore vuole far passare l’errore ideologico nascosto da quello ortografico. C’è un’Itaglia sbaiata nelle antologie scolastiche, e a quindici anni dalla caduta del fascismo i testi sono pieni di realtà da correggere.
L’errore si fa anche portavoce della disubbidienza alle regole, quelle sbagliate, se si vuole davvero cambiare il mondo. Un libro necessario, italianissimo. Dice Rodari: “Gli errori hanno molti richiami regionali: la zeta dei milanesi, le doppie dei meridionali. Un libro molto italiano. Credi che vi possa interessare?”.
Ladro di “erre” può essere un ottimo esempio:
“[...] io non mi meraviglio
che il ponte sia crollato,
perché l’avevano fatto
di cemento “amato”.
Invece doveva essere
“armato”, s’intende,
ma la erre c’è sempre
qualcuno che se la prende.
Il cemento senza erre
(oppure con l’erre moscia)
fa il pilone deboluccio
e l’arcata troppo floscia.
In conclusione, il ponte
è colato a picco,
e il ladro di ‘erre’
è diventato ricco [...]”.
La grammatica della fantasia (1973)
“L’incontro decisivo tra i ragazzi e i libri avviene sui banchi di scuola. Se avviene in una situazione creativa, dove conta la vita e non l’esercizio, ne potrà sorgere quel gusto della lettura col quale non si nasce perché non è un istinto. Se avviene in una situazione burocratica, se il libro sarà mortificato a strumento di esercitazioni (copiature, riassunti, analisi grammaticale eccetera), soffocato dal meccanismo tradizionale: “interrogazione-giudizio”, ne potrà nascere la tecnica nella lettura, ma non il gusto. I ragazzi sapranno leggere, ma leggeranno solo se obbligati”.
Pubblicato nel 1973, La grammatica della fantasia è la summa di una serie di lezioni che Gianni Rodari aveva tenuto, nel 1972, a maestri, genitori, educatori nella città di Reggio Emilia. Unica opera saggistica, come suggerisce il sottotitolo Introduzione all’arte di inventare storie, La grammatica della fantasia si propone di insegnare agli adulti e ai bambini come leggere, scrivere e raccontare storie, imparando a sfruttare il mezzo più importante che abbiamo, ossia la parola, senza dimenticarsi della fantasia, che dovrebbe essere necessaria nell’educazione. Parafrasando le parole dello stesso Rodari, il valore della liberazione che può avere la parola è fondamentale per tutti; non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo.
Le filastrocche
Il libro delle filastrocche (1950), Il treno delle filastrocche (1952), Filastrocche in cielo e in terra (1960), Filastrocche del cavallo parlante (1970), La filastrocca di Pinocchio (1974); postume, Filastrocche lunghe e corte (1981), Il secondo libro delle filastrocche (1985), Filastrocche per tutto l’anno (1986). Le filastrocche di Rodari sanciscono la sua celebrità, vengono lette nelle scuole, fatte imparare a memoria. Ci sono le Favole al rovescio, col lupo che scappa da Cappuccetto Rosso o la Bella Addormentata che non dorme; ci sono pellerossa che vanno a trovare Gesù bambino nel Presepe, scuole in cui, sui banchi, ci sono i grandi e non i piccini, pani così grandi che saziano tutto il mondo, c’è Napoli senza sole, ci sono l’ago, l’ama, Don Chisciotte e persino il Re Sole. Tra le tante, tantissime, ne vogliamo riportare una delle più significative; si intitola Promemoria.
Promemoria
“Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola,
a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra:
per esempio, la guerra”.
* Il Libraio, 27.01.2020 (ripresa parziale - senza immagini).
“La fiaba russa” di Vladimir Propp
di Gianfranco Marrone (Doppiozero, 04.11.2019)
Vladimir Jakovlevič Propp nasce a San Pietroburgo il 17 aprile 1895 e muore a Leningrado il 22 agosto 1970. Come dire che, pur essendo rimasto sempre nella stessa città, la storia gli è passata davanti, e quei luoghi hanno assunto nel corso del (suo) tempo tutt’altro senso e ben diverso sapore. Certo, per un folklorista come lui, abituato a riflettere sulla distanza dei secoli, se non dei millenni, quei settantacinque anni del Novecento saranno state bazzecole. Resta comunque il fatto che i pesanti cambiamenti epocali di cui è stato testimone - la rivoluzione russa e il lungo regime politico-culturale sovietico che ne è seguito - hanno parecchio pesato sul suo lavoro a dir poco geniale.
A trentatré anni, nel 1928, Propp pubblica quello che resterà il suo capolavoro, Morfologia della fiaba, libro che cambia radicalmente il modo di considerare la narrazione folklorica (non regno della fantasia ma domino spirituale sottoposto a rigorose leggi antropologiche) e, soprattutto, inventa un nuovo metodo per analizzarla (l’analisi strutturale del racconto). Una fotografia dell’epoca lo ritrae con un’espressione insieme eccitata e perplessa: eccitata perché consapevole, forse, della sua personale rivoluzione epistemologica; perplessa perché cosciente, con buona probabilità, del fatto che ben pochi sapranno apprezzarla.
Il libro ha successo. A suo modo. Viene additato in tutti i manuali sovietici di folklore (anche scolastici) come il perfetto esempio di ciò che, in sede scientifica, non va fatto: ed è tacciato di sterile formalismo. Il nome di Propp va così a far compagnia - un’ottima compagnia, diremo oggi - a quelli di Jakobson e di Sklovskij, di Tynjanov e di Ejchenbaum. Tutta gente che egli personalmente nemmeno conosce, accomunata dal fatto di non esser gradita agli accigliati alfieri del materialismo dialettico. Eppure la sua idea di morfologia non discendeva affatto dal formalismo linguistico dell’Opojaz moscovita, quanto piuttosto dalla teoria goethiana delle piante, peraltro riccamente citata nel libro.
È così che, per quieto vivere, la ricerca di Propp cambia strada: la tesi di dottorato viene dedicata, come recita il titolo italiano del libro che ne conseguirà, alle Radici storiche dei racconti di fate: abbandonato il metodo morfologico per tornare alla storia, Propp va alla ricerca delle possibili origini delle favole slave, e le ritrova in certi riti di iniziazione del neolitico.
Come l’eroe della fiaba parte verso l’altro regno e torna solo se trasfigurato, analogamente i giovani preistorici venivano abbandonati nella foresta ed erano considerati adulti se e solo se sapevano cavarsela da soli ritornando, malconci, nel villaggio. È la vecchia teoria folklorica dei residui che, discutibile in generale, produce in questo caso un esito ricco di fascino. Ma la passione per le strutture narrative non cessa di permeare le ricerche successive, di modo che le maggiori opere di Propp, una volta presa la cattedra universitaria, mescolano con non comune sagacia istanze formali e interessi storici. Il tutto alla luce di una visione antropologica di ampio respiro che ripensa il folklore come strato basilare dell’esperienza umana e sociale. Ed è la volta di volumi come Edipo alla luce del folklore, Comicità e riso, I canti popolari russi, Feste agrarie russe, oltre ai numerosissimi interventi sparsi in volumi e riviste d’ogni tipo.
La svolta si ha per iniziativa dei due compari dello strutturalismo novecentesco, due eccelsi studiosi ebrei entrambi transfughi, durante la seconda guerra mondiale, a New York: il linguista Roman Jakobson, che fa tradurre in inglese la Morfologia della fiaba nel 1958, e l’antropologo Claude Lévi-Strauss, che nel 1960 gli dedica una lunga recensione destinata a far scalpore.
Improvvisamente scoppia una specie di Propp-mania. Al punto che, a metà degli anni Sessanta, la nascita della narratologia francese - con Barthes, Greimas, Todorov, Genette e tanti altri - si celebra in nome di opere come la Poetica di Aristotele e la Morfologia di Propp. Si parva licet. Tutti a usare la stringa delle 31 funzioni narrative presenti nella fiaba, elaborata trent’anni prima dallo studioso russo per analizzare racconti d’ogni tipo (popolari come letterari, mediatici come cinematografici, etc.), cambiandola e adattandola, ma tenendola sempre e comunque come basilare punto di riferimento metodologico.
La casa editrice Einaudi confeziona nel ’66 una versione italiana del testo proppiano di grandissimo prestigio (a cura di Gian Luigi Bravo), ponendo in appendice la traduzione della recensione lévi-straussiana (polemica su certi punti teorici) e la replica che lo stesso Propp, già in età avanzata, prova a fornire. È curioso: mentre l’antropologo francese, dichiarandosi seguace del folklorista russo, prova a rilanciarne le idee nel terreno spinoso della mitologia amerindia, quest’ultimo si chiude in ritirata, inneggiando al primato della storia sulla struttura, della letteratura artistica su quella popolare. Incomprensione reciproca? Per gran parte sì. Ma i sovietici sono ancora là, e sorvegliano ogni idea letteraria considerata eversiva.
Il tutto si risolve - ed è qui che volevo arrivare - in quello che sarà l’ultimo libro di Propp, uscito postumo a Leningrado nell’‘84 e tradotto in italiano da Einaudi, a cura di Franca Restani, nel ’90 con il titolo La fiaba russa. Lezioni inedite. Da considerare come la summa teorica del lavoro proppiano e, di conseguenza, come suo testamento spirituale. Peccato che sia finito in Atlantide, sparito prestissimo, cioè, dal mercato editoriale del nostro Paese e mai più ripubblicato.
Rileggerlo oggi fa bene allo spirito, rinfresca la memoria, e costituirebbe un bello stimolo, oltre che per i tanti attuali studiosi di letteratura e di folklore alla ricerca di un qualche metodo, nonché per i numerosi fan del cosiddetto storytelling, spesso assai bisognosi di iniezioni di teoria, ossia di uno sguardo critico su quel che era ed è la forma narrativa dans tous ses états. L’immagine che ritrae Vladimir Propp nei suoi ultimi anni di insegnamento ce ne dà un ritratto molto cambiato: la soddisfazione emana da tutti i pori. È provato: ma ce l’ha fatta.
Il libro si legge facilmente: ha un carattere divulgativo alto, sebbene parole come ‘scienza’ o ‘scientifico’ ricorrano spesso. Elaborare una scienza della fiaba è stata la sfida epistemologica del lavoro di Propp, e queste lezioni inedite sono la testimonianza che ne valeva la pena. Ma di che scienza si tratta? Non certo un riadattamento ad hoc del positivismo ottocentesco, né tantomeno una riproposizione ingenua di quel mito dell’esattezza matematica e dell’oggettività dura e pura che ancor oggi è assai diffuso. Gettare uno sguardo rigoroso e condiviso alla narrazione folklorica significa piuttosto, per Propp, avere contezza dei numerosi problemi interpretativi che essa pone allo studioso e, ancor prima, al pubblico stesso della fiaba: materiale orale per eccellenza, dunque di difficilissima presa, roba che sfugge da tutti i lati, che si ripresenta in vesti sempre diverse, con personaggi, situazioni, intrecci e valori che cambiano a ogni momento, a seconda dei paesi e delle epoche, dei regimi di senso e delle poetiche implicite.
Fare scienza della fiaba è dunque in primo luogo saper gestire il gioco fra oralità e scrittura, da un lato, fra varianti e invarianti, dall’altro. Due fenomeni strettamente legati fra loro che suscitano problemi d’ogni sorta, e su cui le migliori scienze umane di ieri e di oggi - antropologia, critica letteraria, linguistica, semiotica - non cessano di interrogarsi. Così nella Fiaba russa Propp si dilunga sui diversi modi, momenti e problemi della trascrizione, letteraria e no, del folklore narrativo: riportare sulla carta una fiaba significa al tempo stesso preservarla dall’oblio e fissarla in un canone, garantirle una vita futura ma sempre uguale a se stessa. Trasformando così una singola variante narrativa in una specie di modello ideale per le narrazioni future.
Da un lato infatti, scrive Propp, “la fiaba è il simbolo dell’unità fra i popoli; i popoli si capiscono a vicenda attraverso le fiabe”; d’altro canto però questa specie di patrimonio poetico comune “viene raccontato da ogni popolo in modo particolare”, da ogni gruppo sociale e perfino da ogni individuo in modo diverso, dando rilievo ora a un intreccio ora a un altro, ora a un personaggio ora a un altro, ora a un finale ora a un altro. Da un lato la stabilità, dall’altro la creatività: nessuna delle due istanze può vivere senza l’altra. Grande lezione di umiltà artistica che è insieme condizione di possibilità d’ogni invenzione umana e sociale.
Così il libro ripercorre le mille e mille varianti delle fiabe di magia, di quelle a forma di novella, delle altre cumulative, delle favole con animali e così via, rintracciandone ogni volta tipologie e differenze, abbozzando provvisorie classificazioni. Leggiamo di personaggi tipici come la fanciulla perseguitata e il diavolo sciocco, i tre fratelli e l’eroe solitario, la sudiciona trasformata in principessa e la strega cattiva che salva i bambini in pericolo, il contadino gabbato dal nobile e la nave volante, gli indovini fortunati e i ladri furbi. Tutto un immaginario al tempo stesso fantasioso e meccanico che è ancora il nostro, o che forse dovrebbe esserlo, a dispetto delle stereotipie narrative che i media vecchi e nuovi pretendono di propinarci.
In fondo, ancora una volta aveva ragione Italo Calvino quando scriveva, dopo averne lette e scritte a migliaia, che le fiabe, comunque, sono sempre vere.
Parte il Festivalfilosofia
Mamma, ho assaggiato la verità
Da venerdì 14 settembre a Modena, Carpi e Sassuolo la 18ª edizione, dedicata al vero.
La lectio di Silvia Vegetti Finzi: così i bambini imparano a distinguere sincerità e bugia
di SILVIA VEGETTI FINZI (Corriere della Sera, 13.09.2018)
Niente è più difficile che definire la verità, tanto che i dizionari se la cavano con una tautologia: per lo Zingarelli la verità è «la qualità di ciò che è vero», per la Treccani il «carattere di ciò che è vero». Solo quando compare l’alternativa tra vero e falso, la verità diviene evidente. Altrimenti è come l’aria: si avverte solo quando manca. Poiché mentire è un’abilità assai precoce e i bambini in proposito la sanno lunga, per prima cosa diamo loro la parola.
Premetto che per essere tale una bugia deve presumere l’intenzione di mentire, ma questa consapevolezza richiede un’evoluzione psichica piuttosto complessa che dobbiamo conoscere per non accusare e punire ingiustamente i bambini per colpe che non sono in grado di comprendere.
Dapprima la verità si riferisce all’esistenza concreta, alla realtà immediata, all’evidenza delle cose. Per i più piccoli la verità si dispiega dinnanzi ai loro occhi, è quello che vedi, che senti, che puoi toccare e assaggiare. Sino a tre anni confondono fantasia e realtà, desiderio e verità. Quando si sentono accusati mentono spontaneamente senza preoccuparsi della verosimiglianza delle loro giustificazioni, come Marcello che incolpa il fratellino di due mesi di aver rotto il lampadario con una pallonata. Nel frattempo, prima di punire un bambino meglio chiedersi: «Perché mente?», «lo abbiamo messo davvero in condizione di essere sincero?».
A quattro la verità è nei fatti per cui è più grave rompere quattro bicchieri senza farlo apposta che uno intenzionalmente. Ma già a sette anni i bambini colgono appieno il valore della verità quando osservano: «È preziosa»; «è una cosa che ti fa star bene», «è nella famiglia», come risulta dalle interviste raccolte dall’insegnante Marta Versiglia , nelle classi seconda e quarta di una scuola elementare di Piacenza.
Verso i nove anni la verità s’interiorizza, diventa una questione personale: «Per me la verità è dire cose che so solo io», «è un segreto», una «emozione che ti comunica un senso di gioia e di liberazione». Mentre prima era nei fatti, ora diventa un impegno morale: «La mia verità è fare cose belle e non cose brutte», «la verità la devi dire altrimenti più nessuno crederà in te».
Il verbo «dovere», sempre più frequente col progredire dell’età, rappresenta la voce degli educatori, genitori e insegnanti, ma già emergono atteggiamenti di autonomia morale. Le motivazioni espresse rivelano una differenza profonda tra la morale maschile, razionale, generica e astratta, e la morale femminile, più attenta ai rapporti interpersonali e ai sentimenti. Per Pietro la verità è pace nel mondo, per Corrado amicizia, per Fabio giustizia, per Guido fiducia e rispetto.
Jasmin invece, come altre compagne, situa la verità nei rapporti reciproci, nello scambio di parole e di affetti: «La verità è essere sinceri anche nei momenti peggiori, non incolpare nessuno e chiedere scusa quando abbiamo sbagliato noi». Per Angela la verità bisogna dirla per non vergognarsi di fronte alle amiche. Per Carlotta per non far male agli altri. Per Michela: «È fiducia nei propri genitori - e osserva - alcune volte però, ma poche, non bisogna dirla per non far stare male le persone». «Io come tutti avrò detto delle bugie - confessa Alba - però crescendo sono consapevole di ciò che sta succedendo».
Emerge tuttavia il sospetto che la bugia non riguardi soltanto i bambini. Scrive un alunno di quarta: «A volte anche i grandi mentono» ma subito si rassicura: «Lo fanno per il nostro bene».
Spesso ci dimentichiamo che i bambini crescono in costante relazione con adulti che mentono quanto e ben più di loro. Mentono per gioco quando li lusingano esclamando: «Sei un campione!» o «ecco la mia principessa». E mentono in modo ben più grave quando, convinti di proteggerli, nascondono o falsificano questioni fondamentali, senza riflettere sulle conseguenze dei loro atti. Gli effetti della menzogna sono diversi se il bambino è soggetto oppure oggetto di una affermazione reticente o falsa.
La bugia del bambino fa parte di un processo di sviluppo che evolve da una spontanea reazione di difesa alla consapevolezza della propria volontà, della propria responsabilità. Quella dell’adulto costituisce invece un’azione responsabile da valutare in termini morali, considerando intenzioni e conseguenze, senza concedersi facili alibi.
Il bambino che sa di mentire si vergogna della sua debolezza mentre quello ingannato dalle persone che ama si sente impotente e smarrito. Tuttavia, nonostante sia un’esperienza dolorosa, l’incontro con la bugia ha un aspetto positivo perché lo aiuta a superare la pretesa di un sapere onnipotente, rivelandogli che ognuno conserva in sé una zona di segreto e di mistero.
Nonostante ogni smentita, la convinzione che il desiderio sia in grado di soddisfarsi da solo perdura nel sogno, nelle fantasie, nel gioco, nel pensiero magico, nelle favole e nei miti.
L’immaginazione, per quanto irreale, svolge una funzione consolatoria e creativa. Basta pensare all’amico immaginario che il bambino troppo solo evoca per farsi compagnia. Se il genitore lo deride o gli ingiunge di non dire stupidaggini, si sentirà ferito e, chiudendosi in se stesso, smetterà di esprimere il suo mondo interiore. La bugia, iscritta nel tessuto della comunicazione, negli equivoci che costellano ogni scambio, si rivela patologica quando diviene una modalità reiterata, quasi coatta di interagire con sé stessi e con gli altri, quando il bambino inganna e si inganna e come forma di vita, come modalità predominante di difesa e di reazione.
Dapprima il bambino, che fa propria la verità dei familiari, è convinto di essere ciò che gli altri pensano di lui. Solo con la pubertà si porrà il compito di definire sé stesso, di delineare la sua identità. Un compito particolarmente arduo in questi anni quando gli adolescenti, alle prese con la difficoltà di crescere, vengono attratti dalle suggestioni del mondo virtuale, dove tutto appare possibile e reversibile. Che cosa possono fare gli educatori per proteggerli e guidarli? Oltre alle regole di comportamento quotidiano, ormai note, è fondamentale rendere le esperienze dei ragazzi concrete e vive, affascinanti e promettenti. Il mondo reale deve proporre un futuro realizzabile attraverso la responsabilità dei propri desideri e la condivisione degli obiettivi.
In ogni caso la verità è una condizione necessaria all’integrità personale e alla vita sociale: di menzogna si muore. Dopo tante variabili, una domanda torna ad assillarci: è possibile raggiungere la coincidenza del vero e del fatto, del sentire e del dire?
Come sostiene Karl Jaspers, la verità non è mai un possesso assoluto e definitivo ma tensione e ricerca. Per noi che viviamo nell’esserci del tempo, la verità è un obiettivo al tempo stesso impossibile e ineludibile. Eppure è questa contraddizione che ci rende umani.
Il festival
Da venerdì 14 a domenica 16 settembre Modena, Carpi e Sassuolo ospitano la diciottesima edizione del Festivalfilosofia che quest’anno è dedicato al tema della verità. In programma circa 200 eventi in vari luoghi delle tre città: lezioni magistrali, mostre, concerti, incontri, letture, per bambini, spettacoli, cene filosofiche. Tra gli ospiti, Silvia Vegetti Finzi che terrà la sua lectio magistralis sul tema «I bambini e la verità» sabato 15 a Carpi (piazza Martiri, ore 20.30)
Il mestiere di scrivere
Rileggendo le bozze dell’autobiografia, un pensiero: nulla pare corrispondere alla vita
L’invenzione più vera della verità che può mettere ordine nel Caos
di Raffaele La Capria (Corriere della Sera, 15.08.2018)
Correggendo le bozze di un mio libro autobiografico non avrei mai creduto di entrare in un giro di pensieri come questo che cercherò di descrivere. Mentre vedevo scorrere sulle pagine eventi e momenti della mia vita sentivo che nulla era veramente corrispondente a quel che la mia vita era stata.
Ciò che era accaduto era confuso e disordinato e, a ripensarlo, immerso in una specie di caos, forse perché mentre la si vive la vita corre, ti trascina e non ti dà il tempo di guardarla e nemmeno di giudicarla. Invece ciò che avevo scritto mi sembrava avere un senso e un significato, ed essere più vero del veramente accaduto.
Mi domandai come mai, e la ragione era che la mia narrazione io l’avevo inventata, ricostruendo tutto e dando a tutto un ordine, un senso che non aveva nella realtà, e così quell’invenzione era diventata più vera della verità, più vera degli sparsi elementi estratti dal caos da cui era nata. Insomma avevo scritto una favola cui ora credevo. Ma, azzardai, non era anche una favola l’inizio del Libro dei Libri?
«In principio Dio creò il cielo e la terra», così comincia il libro scritto dall’Ispirato. Prima, prima del principio, «la terra era una cosa deserta e vacua, e tenebre erano sopra la faccia dell’abisso». In principio c’era il Nulla, poi arriva Dio e dal Nulla crea il mondo. Il Nulla è qualcosa che nessuno riesce a concepire, così come Dio, così come il Principio. Ma con queste tre entità inconcepibili comincia la favola, la narrazione.
Questa favola, questa narrazione, è un’invenzione, perché cosa poteva sapere l’Ispirato che l’ha scritta, del Nulla del Principio e di Dio? Dunque è un’invenzione, un’ispirazione, che però mette ordine nel Caos originario.
«E Iddio separò la luce dalle tenebre... Così fu sera, poi fu mattina, che fu il primo giorno», come si legge nella Bibbia del Diodati, bellissima e poetica. Che prosegue con la separazione delle acque che son sopra e quelle che son sotto, e Iddio nominò quelle che son sopra cielo. Insomma Dio mette ordine, ed è quest’ordine che fa esistere il mondo che conosciamo, la natura e tutte le cose. A questo punto una voce entra in campo e mi dice: «Di che parli? Vuoi mettere in dubbio la parola del Signore, la Bibbia in cui crediamo, dicendo che chi l’ha scritta non poteva saper nulla di quello che scriveva?»
Ma no, non parlo della Bibbia, parlo della Narrazione, parlo della Favola, parlo di quella narrazione e di quella favola che ogni religione racconta, di quella invenzione che è il racconto, che rende vero quel che dice per il modo in cui lo dice. Parlo dei miti e delle saghe in cui i popoli si riconoscono e dove trovano la propria identità.
Cosa sarebbe un cristiano senza la narrazione del Vangelo, quale sarebbe il suo concetto del bene e del male se non fosse confortato dall’esempio di Gesù che la narrazione degli evangelisti ci ha lasciato?
Io rispetto i credenti di ogni religione e il racconto in cui si riconoscono, e penso che il racconto, se ben inventato e ben congegnato può fare a meno della ragione. Senza un racconto cui possiamo aggrapparci l’umanità sarebbe smarrita e forse in preda a sogni devastanti.
Non è il sonno della ragione che crea i mostri ma l’esercizio della ragione in una sfera che non le appartiene. Credo anche che la letteratura abbia questa funzione di creare invenzioni che rendono più vera la realtà, che a dir la verità è cosa inconoscibile anche quando sembra a noi vicina e a portata di mano.
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE...
LA CORONA DEL REGNO, IL PALOMBARO, E LA LEGGENDA DI "(NI) COLA PESCE" *
*
Cola Pesce
Una volta a Messina c’era una madre che aveva un figlio a nome Cola, che se ne stava a bagno nel mare mattina e sera. La madre a chiamarlo dalla riva:
Cola! Cola! Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce?
E lui, a nuotare sempre più lontano. Alla povera madre veniva il torcibudella, a furia di gridare. Un giorno, la fece gridare tanto che la poveretta, quando non ne poté più di gridare, gli mandò una maledizione:
Cola! Che tu possa diventare un pesce!
Si vede che quel giorno le porte del Cielo erano aperte, e la maledizione della madre andò a segno: in un momento, Cola diventò mezzo uomo mezzo pesce, con le dita palmate come un’anatra e la gola da rana. In terra Cola non ci tornò più e la madre se ne disperò tanto che dopo poco tempo morì.
La voce che nel mare di Messina c’era uno mezzo uomo e mezzo pesce arrivò fino al Re; e il Re ordinò a tutti i marinai che chi vedeva Cola Pesce gli dicesse che il Re gli voleva parlare.
Un giorno, un marinaio, andando in barca al largo, se lo vide passare vicino nuotando.
Cola! - gli disse. - C’è il Re di Messina che ti vuole parlare!
E Cola Pesce subito nuotò verso il palazzo del Re.
Il Re, al vederlo, gli fece buon viso.
Cola Pesce, - gli disse, - tu che sei così bravo nuotatore, dovresti fare un giro tutt’intorno alla Sicilia, e sapermi dire dov’è il mare più fondo e cosa ci si vede!
Cola Pesce ubbidì e si mise a nuotare tutt’intorno alla Sicilia.
Dopo un poco di tempo fu di ritorno. Raccontò che in fondo al mare aveva visto montagne, valli, caverne e pesci di tutte le specie, ma aveva avuto paura solo passando dal Faro, perché lì non era riuscito a trovare il fondo.
E allora Messina su cos’è fabbricata? - chiese il Re. - Devi scendere giù a vedere dove poggia.
Cola si tuffò e stette sott’acqua un giorno intero. Poi ritornò a galla e disse al Re:
Messina è fabbricata su uno scoglio, e questo scoglio poggia su tre colonne: una sana, una scheggiata e una rotta.
O Messina, Messina,
Un dì sarai meschina!
Il Re restò assai stupito, e volle portarsi Cola Pesce a Napoli per vedere il fondo dei vulcani. Cola scese giù e poi raccontò che aveva trovato prima l’acqua fredda, poi l’acqua calda e in certi punti c’erano anche sorgenti d’acqua dolce.
Il Re non ci voleva credere e allora Cola si fece dare due bottiglie e gliene andò a riempire una d’acqua calda e una d’acqua dolce. Ma il Re aveva quel pensiero che non gli dava pace, che al Capo del Faro il mare era senza fondo. Riportò Cola Pesce a Messina e gli disse:
Cola, devi dirmi quant’è profondo il mare qui al Faro, più o meno.
Cola calò giù e ci stette due giorni, e quando tornò sù disse che il fondo non l’aveva visto, perché c’era una colonna di fumo che usciva da sotto uno scoglio e intorbidava l’acqua. Il Re, che non ne poteva più dalla curiosità, disse:
Gettati dalla cima della Torre del Faro
La Torre era proprio sulla punta del capo e nei tempi andati ci stava uno di guardia, e quando c’era la corrente che tirava suonava una tromba e issava una bandiera per avvisare i bastimenti che passassero al largo. Cola Pesce si tuffò da lassù in cima.
Il Re ne aspettò due, ne aspettò tre, ma Cola non si rivedeva. Finalmente venne fuori, ma era pallido.
Che c’è, Cola? - chiese il Re.
C’è che sono morto di spavento, - disse Cola. - Ho visto un pesce, che solo nella bocca poteva entrarci intero un bastimento! Per non farmi inghiottire m son dovuto nascondere dietro una delle tre colonne che reggono Messina!
Il Re stette a sentire a bocca aperta; ma quella maledetta curiosità di sapere quant’era profondo il Faro non gli era passata.
E Cola:
No, Maestà, non mi tuffo più, ho paura.
Visto che non riusciva a convincerlo, il re si levò la corona dal capo, tutta piena di pietre preziose, che abbagliavano lo sguardo, e la buttò in mare.
Va’ a prenderla, Cola!
Cos’avete fatto, Maestà? La corona del Regno!
Una corona che non ce n’è altra al mondo, - disse il Re. - Cola, devi andarla a prendere!
Se voi così volete, Maestà, - disse Cola - scenderò. Ma il cuore mi dice che non tornerò più su. Datemi una manciata di lenticchie. Se scampo, tornerò su io; ma se vedete venire a galla le lenticchie, è segno che io non torno più.
Gli diedero le lenticchie, e Cola scese in mare.
Aspetta, aspetta; dopo tanto aspettare, vennero a galla le lenticchie.
Cola Pesce s’aspetta che ancora torni.
(Palermo)
*Cfr.: Fiabe italiane raccolte e trascritte da Italo Calvino, Einaudi, Torino 1971, vol. II, pp. 602-604.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA SOVRANITÀ, LA DIGNITÀ DI OGNI CITTADINO E DI OGNI CITTADINA, E "I DUE CORPI DEL RE". La lezione di Kantorowicz...
LA COSTITUZIONE, "I DUE CORPI DEL RE", E I DUE PATTI DEL CITTADINO. L’ analisi di Barbara Spinelli (2006)
I due corpi del re vanno tenuti disgiunti, perché resti vivo l’inaugurale patto che dissuade dalla guerra di tutti contro tutti, e che fonda un rapporto non effimero, non continuamente modificabile, fra i cittadini e chi li comanda.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
Genetica e geografia delle fiabe
Come si diffonde la cultura e che cosa la ferma? Una ricerca risponde con una storia di geni, migrazioni e racconti popolari
di Sylvie Coyaud (OggiScienza, 11 agosto 2017)
CULTURA - Eugenio Bortolini, ora del Dipartimento di Beni Culturali all’Università di Bologna, Luca Pagani dell’Estonian Biocentre di Tartu e dell’Università di Padova e altri undici fra antropologi, etnografi e genetisti, hanno provato a sovrapporre la mappa della diversità dei genomi umani e quella delle fiabe, dall’Europa all’Asia passando dal Medioriente.
Come tanti letterati dai fratelli Grimm in poi, e come Luigi Luca Cavalli Sforza, vogliono capire se l’eredità culturale, trasmessa dai genitori anch’essa, viaggia come quella etnica e genetica nel bagaglio materiale e immaginario dei migranti. O se i racconti popolari viaggiano per conto proprio con il “telefono senza fili” della comunicazione e degli scambi. Se sono portati da Ulisse alla corte di Alcinoo e da un mercante giunto da lontano in una fiera di paese.
O se la faccenda è più complicata perché
Sui PNAS, Bortolini e i suoi colleghi elencano per prime le difficoltà e i fattori di confusione. I tempi e le distanze non coincidono. I geni variano per 40 mila anni in metà del mondo, le lingue sono imparentate su un raggio di 10 mila chilometri dal luogo d’origine e le fiabe condivise su un raggio di 6 mila chilometri. E tutto questo in media approssimata con grandi variazioni regionali e tante eccezioni.
Così delle 308 fiabe che hanno scelto di inseguire, su quasi seicento registrate in Europa e in Asia, perché sono presenti in almeno cinque di 33 popolazioni euroasiatiche, 15 sono rimaste all’interno dei loro confini etno-linguistici. Ma 19 hanno fatto un bel po’ di strada. Sono (probabilmente) partite dall’Europa dell’Est, come “Il serpente ingrato” che attacca l’uomo che lo ha salvato e viene punito da altri animali; dal Caucaso come “L’anello magico” che aiuta un ragazzino a superare prove e realizzare desideri; dall’Asia settentrionale come “Pollicino”; dall’Africa come “L’uomo che parlava con gli animali”.
Con prudenza, anche per le incertezze insite negli assunti iniziali - da quale punto focale irraggia di preciso “L’apprendista stregone”? - e per l’influenza della stampa da quattro secoli a questa parte, gli autori traggono poche conclusioni dai loro modelli e da analisi statistiche:
Propongono però un metodo per studiare l’evoluzione culturale, e lo illustrano con la diffusione in tre continenti di bambini abbandonati nel bosco, matrigne perfide, principesse da conquistare e animali parlanti.
Ambiziosi e insieme modesti, sanno che la loro è una carta incompleta. Sperano che sia utile ad altri esploratori di quello che ci accomuna e ci divide, per
È l’ultima frase dell’articolo, e sembra proprio un invito a considerare quel gigantesco lavoro sulle fiabe come un esempio familiare, divertente, per identificare - e magari abbattere - altre barriere che emergono e riemergono anche nell’Europa occidentale.
L’importanza di perdersi nel bosco
di Giovanna Zoboli *
Dopo l’attentato di Manchester, nel quale al termine di un concerto di Ariana Grande sono rimasti uccisi numerosi ragazzi la maggior parte dei quali ancora minorenni, come dopo ogni atto di terrorismo su media e social network è circolata la domanda “Come spiegare gli attentati ai bambini”. Famiglia Punto Zero, social di promozione culturale della genitorialità e approfondimenti tematici sulla famiglia, ha girato la domanda a Nadia Terranova, scrittrice per adulti e ragazzi, che tiene una bella pagina dedicata alla letteratura per l’infanzia sull’inserto Robinson.
«Il problema - ha risposto Terranova - non è svegliarsi ogni volta e chiedersi come spiegare gli attentati ai bambini, il problema è che bambini a cui le favole sono state edulcorate, a cui non si può più leggere niente perché “è troppo difficile”, che non hanno più un’elaborazione simbolica della paura perché i grandi hanno paura della loro paura, sono infinitamente più fragili. E il problema non è la cronaca o una soluzione-medicina all’indomani di ogni fatto di cronaca, ma un immaginario indebolito da rifortificare.»
Centra il punto Terranova. Dietro la fragilità dei bambini c’è quella di un mondo incapace di offrire una sponda al problema del Male: l’infinita fragilità di adulti, voraci consumatori di falsi miti di massa e di ogni genere di impostura, oggi, in aggiornata versione fake news, ma, si direbbe, incapaci di sguardo sulla realtà, come testimoniano continui episodi, ultimo dei quali la vicenda del bambino morto di otite. La questione non è nuova.
L’ambientalista Ed Ayres spiega che «un modello generale di comportamento tra le società umane è quello di diventare, via via che s’indeboliscono, più cieche alla crisi, anziché più attente.» E tuttavia, nel tempo, questa difficoltà a incontrare il reale, evidente in tutti gli ambiti delle nostre vite e della nostra società, paradossalmente si manifesta in campo educativo, a scuola, in famiglia, e ovunque vi siano bambini, in una calcificata resistenza nei confronti della finzione letteraria e del suo potere catartico, ove la letteratura non si configuri esclusivamente come attività di intrattenimento, ma diventi pratica di ricerca di senso.
Sono le fiabe, in particolare, a essere le prime vittime di questa lugubre e ostile diffidenza. Dopo qualche migliaio di anni, la più perfetta fra le finzioni, il più celebre degli incipit, C’era una volta, garanzia di distanza, e quindi di elaborazione simbolica, fra realtà del presente e passato della fiaba, non convince più.
Una ipotesi potrebbe essere che essendo gli adulti sempre più incapaci di distinguere fra realtà e finzione, individuino nella finzione letteraria, che obbliga il lettore a sospendere temporaneamente la propria incredulità, un potenziale innesco a traumi e comportamenti devianti, temendo che la fiaba funzioni da miccia a paure incontrollate e dannose alla crescita, come se i bambini apprendessero dell’esistenza della paura dalle fiabe e non la sperimentassero in prima persona nella propria esperienza quotidiana.
Già i Fratelli Grimm, a stare ai loro carteggi, si lamentavano del problema, osservando che il perbenismo dei lettori li costringeva a sistematiche ripuliture dei testi orali raccolti durante il loro lavoro di ricerca. E in effetti le loro Fiabe o Märchen, come le leggiamo oggi, sono il risultato di ben sei edizioni nelle quali si procedette a successive riscritture per adeguarle al gusto del pubblico borghese, disturbato dal perturbante delle narrazioni popolari.
Oggi, il grande interesse per le fiabe e il fiabesco di certa parte della cultura attraverso le ricerche di studiosi che negli ultimi anni hanno lavorato a divulgare la conoscenza delle fiabe e la loro importanza in ambito letterario ed educativo, permette di accedere a raccolte di fiabe di grande interesse, come la prima bellissima edizione dei Grimm, quella redatta fra il 1812-1815, che in Italia, intitolata Principessa Pel di Topo, curata da Jack Zipes e illustrata da Fabian Negrin, è stata edita da Donzelli nel 2012 (a questa è seguita quella integrale, Tutte le fiabe, del 2015).
Raccolte importanti a cui si dovrebbe attingere per letture ai bambini, prima ancora che ad adulti, senza timori e incertezze, poiché, come spiegano psicologi, antropologi, evoluzionisti, pediatri, educatori, la razza umana, adulti e bambini, da sempre hanno bisogno di sperimentare la paura, e la narrazione è uno dei sistemi più antichi ed efficaci perché questo avvenga, a livello simbolico, senza incorrere in pericoli reali.
In L’istinto di narrare, Jonathan Gotschal, nel terzo capitolo, L’inferno è amico delle storie, scrive: «Nel suo straordinario Come funziona la mente Pinker (teorico dell’evoluzione umana, ndr) sostiene che le storie ci dotano di un archivio mentale di situazioni complesse che un giorno potremmo trovarci a dover affrontare, unitamente a una serie di possibili soluzioni operative. Così come i giocatori di scacchi memorizzano risposte ottimali a un’ampia gamma di attacchi e difese, noi ci attrezziamo per la vita reale, assorbendo schemi di gioco funzionali».
E più avanti: «La costante attivazione dei nostri neuroni in risposta a stimoli derivanti dal consumo di finzione narrativa rafforza e ridefinisce le vie neurali che consentono una navigazione competente nei problemi dell’esistenza. In questo senso siamo attratti dalla finzione narrativa non a causa di un’anomalia dell’evoluzione, ma perché la finzione è, nell’insieme, vantaggiosa per noi. Questo perché la vita umana, specialmente la vita sociale, è profondamente complessa e le poste in gioco molto alte. La finzione consente al nostro cervello di fare pratica con le reazioni a quei generi di sfide che sono, e sono sempre state, le più cruciali per il nostro successo come specie». La tesi di Gotschall in L’istinto di narrare è, infatti, che l’attitudine alla narrazione abbia determinato il successo della specie umana.
Molto prima dei moderni studi antropologici, peraltro, nell’antica Grecia, filosofi e pensatori, a proposito di Poesia e Tragedia, interpretavano lo straordinario potere della finzione letteraria come catarsi. -Ciò che avveniva durante la lettura di versi o sul palcoscenico induceva il pubblico a purificarsi, elaborando in profondità dilemmi etici, e vivendo intensamente come spettatori vicende che a tutt’oggi, nei teatri antichi di Siracusa, Taormina, Segesta, Epidauro, muovono le nostre coscienze e ci educano alla necessità della ricerca di senso.
Da alcuni anni Chiara Guidi, insieme alla compagnia teatrale Socìetas Raffaello Sanzio, si è fatta interprete di spettacoli che mettono al centro della scena le fiabe e i bambini, attraverso quello che ha definito “metodo errante”. Per innescare questo metodo, spiega «bisogna preparare un posto inerte, come le pagine di un libro. Il teatro è un’apparecchiatura spaziale e temporale che permette di far sorgere la figura. Sono i bambini a metterlo in moto con la loro presenza.»
Grazie a questa presenza e azione infantile si entra nella fiaba, nel racconto mitico, arrivando a toccarli, generando un atto di creazione, un’esperienza d’arte. Da questo metodo sono nate le esperienze teatrali delle Favole di Esopo (1992), di Hänsel e Gretel (1993), Buchettino (1995), Pelle d’asino (1996), Jack e il fagiolo magico (2013).
Fra i suoi spettacoli più noti, c’è Buchettino che Guidi in un’intervista del 2012 racconta così:
«è una favola raccontata da una attrice messa dentro a una stanza di legno che diventa una grande cassa di risonanza dove, all’esterno, dei tecnici rumoristi fanno i rumori della favola: suonano la favola. I bambini sono a letto coperti con delle coperte: cinquanta bambini, cinquanta coperte, cinquanta lenzuoli, cinquanta cuscini, e il letto diventa una barca, e diventa anche il luogo della protezione, perché se ho paura mi copro con la coperta, consapevole che quella coperta diventa una corazza che mi protegge. Non c’è nulla da vedere: però, ascoltando, è possibile vedere.
I bambini oggi ascoltano poche favole, le favole non sono più favole della tradizione perché queste sono favole che fanno paura e non possono essere raccontate ai bambini. Si può far vedere il male attraverso la società dello spettacolo ed escludere invece la catarsi della favola che sempre porta il lieto fine.
Sarebbe necessario un ritorno dei bambini a favole che sono l’espressione di un’esperienza che conduce attraverso la vita della favola alla vita possibile futura di un bambino che diventerà adulto.»
La grande intuizione di questa rappresentazione, in un momento storico in cui i bambini sono accuratamente tenuti lontani dalle fiabe, è mettere al centro dell’azione scenica i bambini come ascoltatori di fiabe, spettatori, ma dentro il corpo stesso della fiaba, nel suo pericolo, attivamente impegnati a ricrearla con l’immaginazione, seguendo la narrazione orale e l’andamento sonoro della vicenda.
La storia di Buchettino, che poi è quella di Pollicino ovvero Le petit poucet di Charles Perrault (Buchettino è il titolo della versione toscana) come è stata portata in scena da Chiara Guidi, con l’adattamento di Claudia Castellucci, è stata pubblicata da Orecchio Acerbo nel 2015 in una bella edizione con le illustrazioni di Simone Massi.
Per origine, storia e natura le fiabe si prestano più di ogni altro genere letterario a rielaborazioni, metamorfosi, riscritture attraverso i medium più diversi: dal teatro al cinema, al fumetto, alla poesia, all’illustrazione, alla danza, alla musica.
Questa estrema duttilità è una grande risorsa dal punto di vista educativo, poiché permette di proporre ai bambini una quantità di varianti e di linguaggi che diventano ottimi strumenti di ri-narrazione e indagine. Il linguaggio in cui si sceglie di raccontare una fiaba, infatti, determina la forma stessa della narrazione portando, ogni volta, a galla delle vicende aspetti che in altre versioni rimangono impliciti, nascosti.
Nella raccolta poetica In mezzo alla fiaba, edita da Topipittori nel 2015 con illustrazioni di Arianna Vairo, Silvia Vecchini decostruisce venti fiabe della tradizione per ricostruirle attraverso venti composizioni poetiche. La prima volte che le lessi, rimasi folgorata dal testo che dedicò a Pollicino, poiché non avevo mai realizzato consapevolmente, ma solo inconsciamente, quale fosse il suo centro tensionale:
Se tuo padre è un orco
non ti basterà dormire
indossando una corona
la violenza è cieca
il coltello non ragiona.
Al cuore di questa vicenda, Vecchini mette, anziché l’abbandono dei figli nel bosco da parte dei genitori afflitti da una miseria senza scampo, l’eccidio delle orchessine uccise dal padre-orco al posto di Pollicino e dei suo fratelli che scambiano i loro cappelli con le corone delle bambine, condannandole a morte e ingannando l’orco.
Nell’illustrazione che Gustave Doré dedicò a questo momento della fiaba vediamo le orchessine che dormono tutte insieme in un grande letto cosparso di ossa. Accanto a questo, specularmente, il lettore immagina il letto in cui dormono Pollicino e i suoi fratelli. È certo che in questa fiaba lo stare a letto di bambini e bambine è fortemente implicato con il tessuto stesso della storia, ed è certamente anche questo che rende la messa in scena di Chiara Guidi così potente e liberatoria.
La fiaba di Pollicino di Perrault ha numerosi punti di contatto con quella di Hänsel e Gretel dei Grimm, in particolare nella parte iniziale che procede identica: la decisione dei genitori di abbandonare i figli a causa della miseria, l’abbandono nel bosco, lo stratagemma dei sassolini bianchi per ritrovare la strada di casa, e poi quello, fallimentare delle briciole mangiate dagli uccelli, che decreta lo smarrimento dei bambini e il pericolo di essere mangiati nel primo caso dalla strega, nel secondo dall’orco. Silvia Vecchini nella poesia in cui riscrive Hänsel e Gretel mette al centro della scena il vincolo di salvezza che stringe fratello e sorella:
A tutti servirebbe un fratello
che nel momento più scuro
esca di nascosto e si riempia le tasche,
che nel bosco resti al tuo fianco
e lasci cadere a ogni passo
un sassolino bianco.
Se in Pollicino, infatti, sono le doti straordinarie del più piccolo dei fratelli e apparentemente incapace, a salvare gli altri, inetti, qui il lieto fine è sancito dalla collaborazione dei due bambini, ugualmente impegnati nel salvarsi reciprocamente la vita. Sottolinea questo significato anche Bruno Bettelheim che in Il mondo incantato dà una lettura di grande interesse di Hänsel e Gretel, in cui l’accento è posto sulla necessità dei bambini di affrontare il bosco per crescere, conquistare l’autonomia, liberandosi, attraverso il pericolo corso e superato, dalla tendenza regressiva a rifugiarsi nella casa e nel supporto dei genitori.
Uscita nel 2009 per Gallimard Jeunesse e in Italia edita da Orecchio Acerbo, Hänsel e Gretel, attraverso le insuperabili illustrazioni di Lorenzo Mattotti, che tocca qui uno dei suoi punti più alti, è davvero “la fiaba per eccellenza” come l’ha definita Chiara Guidi: un percorso attraverso il buio e la luce che segna la crescita come capacità di riconoscere e opporsi al Male e superare il pericolo con le proprie forze. Dev’essere questa eccellenza la ragione per cui questa fiaba non smette di esercitare il suo fascino su disegnatori e illustratori.
L’ultima versione edita in Italia è uscita per Canicola che inaugura con questo Hänsel e Gretel, della tedesca Sophia Martineck, la collana di fumetti “Dino Buzzati” dedicata ai bambini. Fedele alla versione dei Grimm, Martineck nelle illustrazioni attualizza interni e abiti dei protagonisti: la casa dei genitori ha una moderna cucina a gas, un lavello di acciaio e i bambini indossano giacca a vento ed eskimo. Fiabesco rimane il bosco, antico e senza tempo, intrico di ombre e tronchi, dove la casa della strega si manifesta come un’allucinazione.
Il modo di narrazione del fumetto che racconta in forma dialogica, porta in primo piano la crudezza della vicenda attraverso le parole che si scambiano genitori e figli. La sbrigativa menzogna con cui vengono lasciati soli nel bosco urta contro la drammatica consapevolezza dei bambini, e del lettore, che sanno bene che la promessa di tornarli a prenderli dopo il taglio della legna è destinata a non compiersi. Ugualmente interessanti sono i dialoghi dei bambini, le loro parole sempre affettuose, fiduciose, speranzose anche nello spavento: fiabesche, insomma, quanto il bosco atemporale, analogia che sottolinea quanto l’infanzia appartenga a una dimensione profondamente radicata nella natura e nei suoi simboli.
Del Pollicino di Perrault, invece, nella versione dei Grimm non rimane niente, se non il titolo e il tema del bambino piccolissimo che riesce a superare ogni sorta di avventure con grande scaltrezza. È una fiaba allegra, scanzonata questa, da poco pubblicata in Italia da Quodlibet/Ottimomassimo nel volume Fiabe a fumetti, scritte e disegnate da Rotraut Susanne Berner, vincitrice lo scorso anno dell’Hans Christian Andersen Award.
Fiabe a fumetti raccoglie otto fiabe dei Grimm, trasposte nel segno limpido, aggraziato e umoristico caratteristico della grande autrice tedesca. È infatti la bellezza visiva del fiabesco a fare la parte del leone in questo libro, in cui le storie sono rese in massima sintesi, una sorta di morfologia della fiaba alla maniera di Propp, in cui i bambini più piccoli, aiutati dallo stampatello, potranno familiarizzare con le trame delle storie e i loro protagonisti, osservando e divertendosi a osservare analogie e differenze delle trame.
Benché i contenuti paurosi delle vicende qui non siano censurati, come invece spesso avviene in numerose mortificanti riduzioni in commercio, è straordinario osservare come il fascinoso immaginario nordico a tinte cupe dei Grimm subisca una metamorfosi che lo porta ad avvicinarsi alla luminosa e ludica allegria delle Fiabe italiane curate da Italo Calvino. Come se in questa autrice nata in Germania, come in tanti suoi conterranei prima di lei, covi una segreta passione per la luce mediterranea, e la disposizione al comico del suo folklore.
Fra il 1970 e il 1972, uno fra i più grandi illustratori del Novecento, Maurice Sendak realizzò una serie di illustrazioni per una selezione delle fiabe dei Grimm, edite poi nel 1973 da Farrar, Straus and Giroux con il titolo The JuniperTree. Per avvicinarsi alle storie e al loro immaginario, Sendak fece un lungo viaggio in Europa e in Germania, e un’accurata ricerca sugli stilemi della pittura tedesca, in particolare su Dürer. -Quando il libro uscì, ci furono parecchie critiche riguardo al modo che aveva scelto per rappresentarle. Piuttosto contrariato, l’autore spiegò che più che “rappresentare” la storia, aveva voluto puntare al suo lato oscuro, sotterraneo: a quello, cioè, che la storia non dice, o meglio, dice nascostamente. Di queste fiabe gli interessava «cogliere il momento in cui la tensione fra storia ed emozione è perfetta, così che il lettore leggendo, possa sorprendersi, pensando che si tratta ’semplicemente’ di una favola.»
Ai molti che giudicarono queste immagini claustrofobiche, cupe, poche adatte ai bambini (che peraltro hanno sempre amato follemente il lavoro di Sendak come dimostra la fortuna dei suoi libri in tutto il mondo) affermò: «Credo che i bambini intuiscano il significato profondo di ogni cosa. Sono solo gli adulti che per la maggior parte del tempo leggono la superficie. Sto generalizzando, naturalmente, ma le mie illustrazioni non sorprendono i bambini. Loro sanno cosa c’è in queste storie. Sanno che matrigna significa madre, e che il suffisso -igna è lì per evitare che gli adulti si spaventino. I bambini sanno che ci sono madri che abbandonano i loro bambini, emotivamente, non letteralmente. Talvolta vivono con questa realtà. Non mentono a se stessi. E vorrebbero sopravvivere, se questo accade. Il mio obiettivo è non mentire loro.»
Sendak aveva ragione, naturalmente. Oggi sappiamo che l’ingresso della matrigna nella fiaba di Hänsel e Gretel, si dovette ai malumori del pubblico ottocentesco che nella madre della fiaba, attiva promotrice nell’abbandono dei figli, videro compromessa e infangata la figura materna, che invece si pretendeva intatta, nella sua tradizionale funzione di accudente angelo del focolare. Per questo le parole di Sendak risultano tanto più veritiere, lucide.
Non mentire ai bambini significa anzitutto per gli adulti non mentire a se stessi, recuperare la possibilità di confrontarsi con la realtà, saperla leggere, incontrarla. Magari proprio a cominciare dalla finzione letteraria, dalle fiabe che come scrive Italo Calvino nella prefazione alla sua raccolta, «sono vere».
* DoppioZero, 08.06.2017 (ripresa parziale, senza immagini).
reportage
Tra i banchi delle nuove scuole che seguono le tracce di don Milani
di Valentina Pigmei, giornalista *
Ho deciso di festeggiare i 50 anni della pubblicazione di Lettera a una professoressa andando a visitare alcune scuole. Scuole, a volte soltanto virtuali, dove si fa ciò che sarebbe piaciuto al burbero priore di Barbiana: scuole un po’ strane, né pubbliche né private, scuole senza voti né bocciature, dove s’insegna a tutti, ricchi e poveri, italiani e immigrati, non “un ospedale che cura i sani e rifiuta i malati”, per usare le famose parole di don Milani.
Scuole dove chiunque ha lo stesso diritto all’eccellenza, proprio perché s’insegna là dove sembra impossibile farlo: si fanno corsi di scrittura creativa a ragazzi che non hanno mai letto un libro, s’insegna italiano a migranti che sono spesso analfabeti nella loro lingua madre, s’insegna filosofia ai bambini delle elementari. Ma chi sono oggi i ragazzi di Barbiana? Non è facile rispondere. Sono gli immigrati? I ragazzi delle periferie? I carcerati?
Nuove povertà e nuove parole
Fondata a Roma dallo scrittore Eraldo Affinati insieme alla moglie Anna Luce Lenzi, la Penny Wirton è una scuola non profit dove i migranti possono imparare gratuitamente la lingua italiana. È una scuola aperta a tutti, con 22 sedi sparse per l’Italia.
Affinati, che insegna da 30 anni in un istituto professionale, non ha dubbi: “L’ultima foto di don Milani è un’immagine di lui con un bambino africano in braccio. Si parte da lì. Oggi i ragazzi di Barbiana sono quelli che arrivano dalla Nigeria, dalla Siria, dall’Afghanistan”. Affinati, autore di L’uomo del futuro, un libro straordinario che ripercorre la vita del priore, mi spiega che per don Lorenzo “la povertà non è solo quella economica, è la mancanza delle parole indispensabili per sciogliere i nodi dell’esistenza. Chi non sa esprimersi, non sa pensare”.
Se così è, allora temo che il problema sia più trasversale. Forse i ragazzi di Barbiana sono un po’ dappertutto: sono gli studenti delle periferie, quelli che abbandonano la scuola, quelli che non hanno nemmeno un libro in casa.
A questi ragazzi, e non solo, si rivolge il Centro formazione supereroi di Milano, una neonata associazione non profit, fondata da due editor di lunga esperienza e grande simpatia umana, Edoardo Brugnatelli e Giuseppe Strazzeri. Aiutati da 40 volontari tra scrittori, grafici, poeti, hanno cominciato a fare laboratori di scrittura creativa nelle scuole di Milano, dalla quinta elementare fino alle superiori.
Il progetto è quello di avere presto una sede a Milano, possibilmente in una zona periferica, dove poter accogliere i ragazzi dopo la scuola. Non sono certo i primi a farlo, negli Stati Uniti lo scrittore Dave Eggers (che è peraltro amico dei due milanesi) ha fondato nel 2002 826 Valencia, una scuola con simili intenti, che oggi ha sette sedi in altrettante città statunitensi e una versione inglese fondata da Nick Hornby. Progetti simili in Italia sono Il porto delle storie in provincia di Firenze e La grande fabbrica delle parole, sempre a Milano.
Qualche settimana fa mi sono faticosamente mimetizzata tra i banchi della classe prima H del liceo Besta di Milano (zona Cimiano) e ho assistito alla prima parte del laboratorio del Centro formazione supereroi. I ragazzi attorno a me avevano quella timidezza e quegli sguardi vacui tipici della loro età. Del resto, per loro il termine “scrittura creativa” è un concetto astruso e poco interessante. Brugnatelli ha captato subito la loro benevolenza chiedendo se per caso sapessero chi ha distrutto l’impero romano. “Non ci sono voti, né note sul registro”, li rassicura. Qualcuno borbotta, qualcun altro mormora piano piano: “I barbari?”. “Si dice che l’impero sia stato distrutto dai ratti”, dichiara l’insegnante e invita gli studenti ormai ammutoliti a disegnare un topo su un foglio di carta.
Quando sei di fianco a loro nel momento in cui scoprono di aver dentro di sé un sacco di storie, be’ sono bei momenti anche per noi
Dopo che ognuno ha prodotto il suo topo, Brugnatelli, tira fuori una pantegana di peluche dallo zaino e propone ai ragazzi di copiarla e poi confrontare i due disegni. Quando gli studenti si accorgono che sono migliori i disegni dal “vero”, è chiaro a tutti che per creare è più facile avere un modello.
Long John Silver non era un pirata, ma un amico del suo creatore, Stevenson, che aveva una gamba di legno; Severus Piton di Harry Potter era il professore di chimica dell’autrice, J.K. Rowling, e così via. Con questo semplice esercizio i ragazzi capiscono che per inventare spesso si parte dalla realtà cambiandola un po’, ma soprattutto capiscono una cosa importantissima: le loro vite o quelle dei loro amici e dei loro famigliari possono essere interessanti se raccontate in un certo modo. Ed è allora questi ragazzi di prima superiore, molti dei quali non hanno mai letto nemmeno Harry Potter, si mettono a scrivere la loro biografia in terza persona (che andrà poi stampata sul libro di racconti che produrranno alla fine del laboratorio).
Le biografie che i ragazzi scrivono sono davvero fantasmagoriche. Alcuni scrivono cose divertentissime, apocalittiche, perfino intime. Devo ammettere che trascorro due ore molto belle, e invidio un po’ i volontari del Cfs: il processo di veder studenti annoiati trasformarsi in scrittori in erba è energia allo stato puro. “Quando hai l’occasione di vederla davvero all’opera, la fantasia”, mi dice Brugnatelli alla fine, “quando sei di fianco a loro nel momento in cui scoprono di aver dentro di sé un sacco di storie, quando si accorgono che anche il più insulso pomeriggio della loro vita è interessante, be’ sono bei momenti anche per noi”.
Nel frattempo Francesco Gungui, uno dei volontari più attivi del Centro, scrittore per ragazzi con una grande esperienza di laboratori, ha tenuto un altro workshop nella stessa classe di fianco, dal titolo Racconta agli alieni il pianeta Terra. Prossimamente lavorerà con altre scuole, chiedendo agli alunni di intervistare il compagno di banco e scriverne la biografia futura. “I bambini e i ragazzi che seguono i nostri corsi”, spiega Gungui, “imparano tutte le risorse della comunicazione, imparano a esprimersi e ad articolare quello che pensano. Ne guadagna tantissimo l’autostima, la dignità”. Lo diceva Flannery O’Connor: “Io scrivo perché non so quello che penso finché non leggo quel che dico”. Sono certa che il Cfs possa diventare a breve un vero riferimento cittadino, “uno spazio accogliente e protettivo”, per usare le parole di un’altra leggendaria insegnante, Carla Melazzini.
Il costo dell’insegnamento
Don Milani era convinto che la scuola costasse molto poco. Per lui bastava “un po’ di gesso, una lavagna, qualche libro regalato e quattro ragazzi più grandi a insegnare”. In certi casi è vero, e la storia della Penny Wirton che racconterò nelle prossime righe, è la dimostrazione che si possa insegnare a costo zero.
Ma è vero anche il contrario. A volte ci vogliono molti denari, soprattutto se si tratta di offrire agli studenti uno spazio per approfondire la scienza e la tecnologia. Se vi capita di andare a Bologna, visitate l’Opificio Golinelli, è un’ex fonderia, nella periferia della città. È un posto aperto a tutti, scuole e privati cittadini, dai bambini di 18 mesi agli studenti universitari: novemila metri quadrati di struttura modernissima, colorata, luminosa.
Inaugurato nel 2015, l’Opificio è stato realizzato grazie a Marino Golinelli, un signore che oggi ha 97 anni, industriale modenese a dir poco illuminato, che ha deciso di fare questo regalo alla sua città d’adozione. Qui all’Opificio, un vero e proprio centro sperimentale, unico in Italia, per la sua offerta e completezza, ci sono stampanti in 3d, microscopi di ultima generazione, apparecchi per studiare il dna e molto altro. Nel 2016 l’Opificio ha accolto 150mila persone (fino a 400 studenti al giorno), tra i quali anche alcuni studenti dell’alternanza scuola/lavoro. Ma questo non è solo un posto per piccoli scienziati. In occasione della Bologna Children Book’s Fair il prossimo aprile, per esempio, si terranno qui una serie di laboratori, per la maggior parte gratuiti, tra i quali spicca Art Explosion, il workshop di action painting con Hervé Tullet (tutte le informazioni sul sito della fondazione Golinelli).
Pausa filosofica
Di eccellenza in eccellenza. A Roma c’è un giovane professore che da dieci anni organizza laboratori di filosofia per le scuole primarie (dalla terza elementare alla quinta) all’interno di alcune scuole pubbliche.
Si tratta di un lavoro di semi-volontariato per Nicola Zippel, che di mestiere insegna al liceo (filosofia, ovviamente). “Lo faccio volentieri, perché dai bambini imparo una libertà e una freschezza di pensiero che non si trova più negli adulti”, racconta. “Oggi, al contrario, nella scuola c’è un grande bisogno di parlare di sé in maniera diversa, di introdurre temi differenti, anche per contrastare la tendenza ‘valutativa’ della nuova scuola che spinge i ragazzi alla competitività. Invece la filosofia insegna proprio come fermarsi a riflettere. Insegna a prendersi una pausa”.
Entrando nei locali della Penny Wirton si ha l’impressione di un affollatissimo alveare, pieno di banchi fitti
Zippel lavora anche sulla formazione e sulla trasmissione del metodo, che lui ha ideato e che oggi è raccontato in un libro appena uscito, I bambini e la filosofia. Esemplare in questo senso è il lavoro fatto nell’ambito dell’alternanza scuola/lavoro dallo stesso Zippel, che ha portato due classi del liceo, divise in gruppi da tre, a tenere a loro volta i laboratori di filosofia ai bambini.
Un’operazione simile è quella che succede anche alla Penny Wirton di Eraldo Affinati dove alcuni dei volontari sono proprio i ragazzi dell’alternanza scuola/lavoro. Qui infatti è stato messo in pratica il metodo teorizzato da don Milani del “faccia a faccia”: ogni studente ha insegnante personale con cui entra in contatto diretto. A volte si tratta anche di ex maestri o pensionati.
La casa del pensiero
Entrando nei locali della Penny Wirton, che al momento ha una nuova sede in zona Ostiense grazie alla generosità della regione Lazio, si ha l’impressione di un affollatissimo alveare, pieno di banchi fitti. Lo spazio ormai non è sufficiente per i 180 studenti che la scuola ospita dal lunedì al giovedì pomeriggio, e per altrettanti maestri che siedono di fronte a loro.
Come mi spiega Affinati, il metodo “faccia a faccia” è fondamentale perché si riesce a promuovere una vera integrazione: spesso nascono addirittura rapporti duraturi tra i ragazzi e gli insegnanti. A Milano, dove la Penny Wirton è diretta dalla scrittrice Laura Bosio, ci sono ormai 150 studenti: “Grazie all’insegnamento ‘uno a uno’”, dice Bosio, “i nostri allievi non imparano solo la lingua italiana, ma lo ‘spirito’ di chi la parla, in un rapporto di scambio profondo. E la parola, lo sappiamo, è la casa del pensiero. Non siamo solo noi a dare a loro: ciascuno di questi ragazzi e ragazze ci porta qualcosa di importante, la loro storia --spesso drammaticissima e vissuta con una forza interiore per noi inimmaginabile - la loro cultura, la loro giovinezza, la loro speranza, nonostante tutto. Come si augurava don Milani, anche noi speriamo che i muri delle nostre scuole assorbano la sofferenza e trasmettano idee”.
Peccato, penso, che queste esperienze trovino posto fuori della scuola e non dentro di essa e, se è vero che don Milani ha lavorato sempre ai margini dell’istituzione, quella scuola inclusiva e non classista da lui sognata e teorizzata non ha molto a che fare con quella di oggi, sempre più “americanizzata” e valutativa. Del resto per gli insegnati dare un voto è molto più facile di scrivere un giudizio. Insegnare può essere un lavoro molto faticoso. Quando a don Milani chiedevano: “Come bisogna fare a scuola?”, lui rispondeva: “Bisogna essere veri”. E a volte questa autenticità, come mi ha scritto Eraldo Affinati, “porta anche a farsi del male. Perché educare significa ferirsi, bruciarsi le mani”.
* Internazionale, 11 Mar 2017 (ripresa parziale).
Murakami: vi insegno a vivere con le ombre
Alziamo muri tra noi e gli altri perché temiamo la nostra ombra
La letteratura non evita gli angoli bui degli individui e delle società, non allontana i nostri lati oscuri: li affronta e illumina le nostre paure
di Haruki Murakami (la Repubblica, 03.11.2016)
SU suggerimento di Mette Holm, la mia traduttrice danese, ho letto solo recentemente L’Ombra, storia scritta da Hans Christian Andersen: era sicura che l’avrei trovata interessante. Prima di leggerla, non avevo proprio idea che Andersen avesse scritto storie simili. Leggendo la traduzione giapponese de L’Ombra, ho trovato la trama intensa e spaventosa. La maggior parte dei giapponesi pensa che Andersen abbia scritto solo fiabe per bambini. Invece, sono rimasto sbalordito nello scoprire che avesse scritto un racconto così cupo e senza speranza.
La domanda mi è sorta spontanea: «Perché ha sentito la necessità di scrivere una storia del genere?». Il protagonista è un giovane, che lascia la madrepatria nel nord del paese e va verso una terra straniera a sud. Lì succede qualcosa di inatteso: perde la propria ombra. È turbato e confuso ma, alla fine, riesce a ricreare una nuova ombra e torna a casa sano e salvo. In seguito, però, l’ombra perduta torna da lui: nel frattempo era diventata più saggia, più potente e anche indipendente; da un punto di vista finanziario e sociale era ora molto più affermata del suo vecchio padrone. In altre parole, l’ombra e il suo ex padrone si erano scambiati di posto. Ora l’ombra era il padrone e il padrone l’ombra.
A questo punto, l’ombra si innamora di una meravigliosa principessa proveniente da un’altra terra e diventa il re di quella terra. Il suo vecchio padrone, l’unico a conoscenza del suo passato di ombra, viene assassinato. L’ombra gli sopravvive e ottiene un grande successo, mentre il suo vecchio padrone, l’essere umano, si estingue tristemente.
Non ho idea di quali fossero i lettori che avesse in mente Andersen quando scrisse questo racconto. Penso però che in esso sia percepibile come Andersen, scrittore di fiabe, decise di abbandonare l’ambito nel quale aveva lavorato fino ad allora e cioè le fiabe per bambini, e aveva preso a prestito lo schema dell’allegoria per adulti e tentato audacemente di riversarvi il suo cuore di individuo libero.
E a questo punto vorrei parlare di me. Io non pianifico la trama mentre scrivo un romanzo. Quando scrivo un romanzo, il mio punto di partenza è sempre una singola scena o un’idea. Poi, a mano a mano che scrivo, lascio che questa scena o idea si sviluppi da sola. Mentre scrivo, sono il testimone di ciò che accade. Dunque, per me scrivere un romanzo è un viaggio di scoperta, proprio come dei bambini che ascoltano una storia e che, impazienti, si chiedono come andrà a finire.
Mentre leggevo L’ombra, la prima impressione che ho avuto è stata che anche Andersen scriveva per “scoprire” qualcosa. Ho l’impressione che gli fosse venuta l’idea della tua ombra che ti lascia e ha usato tale idea come punto di partenza per scrivere la storia e l’ha scritta senza sapere come sarebbe andata a finire.
La maggior parte dei critici moderni e anche molti lettori hanno la tendenza a leggere le storie in maniera analitica. Vengono formati dalla scuola, o dalla società, che fa credere loro che questo sia il metodo di leggere più corretto. La gente analizza e fa recensioni dei testi da un punto di vista analitico, o sociologico o anche psicoanalitico. Il fatto è che, se un romanziere dovesse tentare di scrivere una storia in modo analitico, l’intrinseca vitalità della storia andrebbe perduta. Non si creerebbe nessuna empatia tra lo scrittore e i lettori. Spesso succede che i romanzi che mandano i critici in visibilio non piacciono molto ai lettori, ma altrettanto spesso i lavori che i critici ritengono eccellenti dal punto di vista analitico non riescono a conquistare la naturale empatia dei lettori.
Ne L’ombra di Andersen, si vedono tracce di un viaggio alla ricerca di sé stesso che respinge quel tipo di facile analisi. Questo non può essere stato un viaggio agevole per Andersen, dato che si trattava di scoprire e di vedere la propria ombra, il lato oscuro di sé stesso che avrebbe voluto evitare di guardare. Ma da scrittore onesto e accurato, Andersen ha affrontato quell’ombra in modo diretto, nel bel mezzo del caos, ed è andato avanti senza paura.
Quando scrivo un romanzo, mentre attraverso l’oscuro tunnel della narrazione, incontro una visione totalmente inaspettata di me stesso, che deve essere la mia ombra. A questo punto, ciò che mi viene richiesto è di descrivere questa ombra nel modo più accurato e sincero possibile, senza distogliere lo sguardo da es- sa, senza analizzarla in maniera logica; piuttosto, la devo accettare come una parte di me stesso. Tuttavia, non sarebbe giusto arrendersi al potere di questa ombra. La devi assorbire questa ombra e, senza perdere la tua identità di persona, la devi interiorizzare come una parte di te stesso. Devi condividere con i tuoi lettori tale procedimento, tale sensazione.
Nel Diciannovesimo secolo, quando è vissuto Andersen, e nel Ventunesimo, il nostro, dobbiamo, quando necessario, affrontare le nostre ombre, sfidarle e, a volte, anche lavorare con esse. Ciò richiede il giusto tipo di saggezza e coraggio. Certo, non è compito facile. A volte sorgono dei pericoli. Ma se le persone evitano le ombre, potrebbero non crescere e maturare nel modo corretto. Oppure, ancora peggio, potrebbero finire come lo studioso nella storia L’ombra, distrutte dalla propria ombra.
Non devono essere solo gli individui ad affrontare le proprie ombre. Proprio come gli individui, anche le società e le nazioni hanno le loro ombre. Se da una parte vi sono gli aspetti luminosi, come contraltare, vi saranno quelli oscuri. Se vi è un lato positivo, ci sarà anche quello negativo.
A volte tendiamo a distogliere gli occhi dall’ombra, cioè da quelli che sono i nostri aspetti negativi. Oppure tentiamo di eliminare quegli aspetti a tutti i costi. Ciò perché le persone vogliono evitare il più possibile di guardare al proprio lato oscuro, ai propri difetti. Tuttavia, affinché una statua sembri solida e tridimensionale, le ombre sono necessarie: eliminare le ombre conduce solo a una piatta illusione. Una luce che non genera ombre non è una vera luce.
Per quanto alto sia il muro che tiriamo su per tenere fuori gli intrusi, per quanto escludiamo gli estranei, per quanto riscriviamo la storia adattandola ai nostri desideri, non riusciamo a fare altro che danneggiare e ferire noi stessi. Con pazienza dobbiamo imparare a vivere con la nostra ombra. E a osservare il nostro lato oscuro. A volte, in un tunnel buio, sei costretto ad affrontare i tuoi aspetti negativi. Se non lo fai entro breve, la tua ombra crescerà sempre più forte e, una notte, tornerà a bussare alla tua porta e ti sussurrerà: «Sono tornata». Le storie eccezionali possono insegnarci molte cose. Ci insegnano lezioni che vanno oltre il tempo, le varie epoche e culture.
Traduzione di Assia Rosati
Quei muri tra noi e gli altri
Murakami: vi insegno a vivere con le ombre
Alziamo muri tra noi e gli altri perché temiamo la nostra ombra
La letteratura non evita gli angoli bui degli individui e delle società, non allontana i nostri lati oscuri: li affronta e illumina le nostre paure
di Haruki Murakami (la Repubblica, 03.11.2016)
SU suggerimento di Mette Holm, la mia traduttrice danese, ho letto solo recentemente L’Ombra, storia scritta da Hans Christian Andersen: era sicura che l’avrei trovata interessante. Prima di leggerla, non avevo proprio idea che Andersen avesse scritto storie simili. Leggendo la traduzione giapponese de L’Ombra, ho trovato la trama intensa e spaventosa. La maggior parte dei giapponesi pensa che Andersen abbia scritto solo fiabe per bambini. Invece, sono rimasto sbalordito nello scoprire che avesse scritto un racconto così cupo e senza speranza.
La domanda mi è sorta spontanea: «Perché ha sentito la necessità di scrivere una storia del genere?». Il protagonista è un giovane, che lascia la madrepatria nel nord del paese e va verso una terra straniera a sud. Lì succede qualcosa di inatteso: perde la propria ombra. È turbato e confuso ma, alla fine, riesce a ricreare una nuova ombra e torna a casa sano e salvo. In seguito, però, l’ombra perduta torna da lui: nel frattempo era diventata più saggia, più potente e anche indipendente; da un punto di vista finanziario e sociale era ora molto più affermata del suo vecchio padrone. In altre parole, l’ombra e il suo ex padrone si erano scambiati di posto. Ora l’ombra era il padrone e il padrone l’ombra.
A questo punto, l’ombra si innamora di una meravigliosa principessa proveniente da un’altra terra e diventa il re di quella terra. Il suo vecchio padrone, l’unico a conoscenza del suo passato di ombra, viene assassinato. L’ombra gli sopravvive e ottiene un grande successo, mentre il suo vecchio padrone, l’essere umano, si estingue tristemente.
Non ho idea di quali fossero i lettori che avesse in mente Andersen quando scrisse questo racconto. Penso però che in esso sia percepibile come Andersen, scrittore di fiabe, decise di abbandonare l’ambito nel quale aveva lavorato fino ad allora e cioè le fiabe per bambini, e aveva preso a prestito lo schema dell’allegoria per adulti e tentato audacemente di riversarvi il suo cuore di individuo libero.
E a questo punto vorrei parlare di me. Io non pianifico la trama mentre scrivo un romanzo. Quando scrivo un romanzo, il mio punto di partenza è sempre una singola scena o un’idea. Poi, a mano a mano che scrivo, lascio che questa scena o idea si sviluppi da sola. Mentre scrivo, sono il testimone di ciò che accade. Dunque, per me scrivere un romanzo è un viaggio di scoperta, proprio come dei bambini che ascoltano una storia e che, impazienti, si chiedono come andrà a finire.
Mentre leggevo L’ombra, la prima impressione che ho avuto è stata che anche Andersen scriveva per “scoprire” qualcosa. Ho l’impressione che gli fosse venuta l’idea della tua ombra che ti lascia e ha usato tale idea come punto di partenza per scrivere la storia e l’ha scritta senza sapere come sarebbe andata a finire.
La maggior parte dei critici moderni e anche molti lettori hanno la tendenza a leggere le storie in maniera analitica. Vengono formati dalla scuola, o dalla società, che fa credere loro che questo sia il metodo di leggere più corretto. La gente analizza e fa recensioni dei testi da un punto di vista analitico, o sociologico o anche psicoanalitico. Il fatto è che, se un romanziere dovesse tentare di scrivere una storia in modo analitico, l’intrinseca vitalità della storia andrebbe perduta. Non si creerebbe nessuna empatia tra lo scrittore e i lettori. Spesso succede che i romanzi che mandano i critici in visibilio non piacciono molto ai lettori, ma altrettanto spesso i lavori che i critici ritengono eccellenti dal punto di vista analitico non riescono a conquistare la naturale empatia dei lettori.
Ne L’ombra di Andersen, si vedono tracce di un viaggio alla ricerca di sé stesso che respinge quel tipo di facile analisi. Questo non può essere stato un viaggio agevole per Andersen, dato che si trattava di scoprire e di vedere la propria ombra, il lato oscuro di sé stesso che avrebbe voluto evitare di guardare. Ma da scrittore onesto e accurato, Andersen ha affrontato quell’ombra in modo diretto, nel bel mezzo del caos, ed è andato avanti senza paura.
Quando scrivo un romanzo, mentre attraverso l’oscuro tunnel della narrazione, incontro una visione totalmente inaspettata di me stesso, che deve essere la mia ombra. A questo punto, ciò che mi viene richiesto è di descrivere questa ombra nel modo più accurato e sincero possibile, senza distogliere lo sguardo da es- sa, senza analizzarla in maniera logica; piuttosto, la devo accettare come una parte di me stesso. Tuttavia, non sarebbe giusto arrendersi al potere di questa ombra. La devi assorbire questa ombra e, senza perdere la tua identità di persona, la devi interiorizzare come una parte di te stesso. Devi condividere con i tuoi lettori tale procedimento, tale sensazione.
Nel Diciannovesimo secolo, quando è vissuto Andersen, e nel Ventunesimo, il nostro, dobbiamo, quando necessario, affrontare le nostre ombre, sfidarle e, a volte, anche lavorare con esse. Ciò richiede il giusto tipo di saggezza e coraggio. Certo, non è compito facile. A volte sorgono dei pericoli. Ma se le persone evitano le ombre, potrebbero non crescere e maturare nel modo corretto. Oppure, ancora peggio, potrebbero finire come lo studioso nella storia L’ombra, distrutte dalla propria ombra.
Non devono essere solo gli individui ad affrontare le proprie ombre. Proprio come gli individui, anche le società e le nazioni hanno le loro ombre. Se da una parte vi sono gli aspetti luminosi, come contraltare, vi saranno quelli oscuri. Se vi è un lato positivo, ci sarà anche quello negativo.
A volte tendiamo a distogliere gli occhi dall’ombra, cioè da quelli che sono i nostri aspetti negativi. Oppure tentiamo di eliminare quegli aspetti a tutti i costi. Ciò perché le persone vogliono evitare il più possibile di guardare al proprio lato oscuro, ai propri difetti. Tuttavia, affinché una statua sembri solida e tridimensionale, le ombre sono necessarie: eliminare le ombre conduce solo a una piatta illusione. Una luce che non genera ombre non è una vera luce.
Per quanto alto sia il muro che tiriamo su per tenere fuori gli intrusi, per quanto escludiamo gli estranei, per quanto riscriviamo la storia adattandola ai nostri desideri, non riusciamo a fare altro che danneggiare e ferire noi stessi. Con pazienza dobbiamo imparare a vivere con la nostra ombra. E a osservare il nostro lato oscuro. A volte, in un tunnel buio, sei costretto ad affrontare i tuoi aspetti negativi. Se non lo fai entro breve, la tua ombra crescerà sempre più forte e, una notte, tornerà a bussare alla tua porta e ti sussurrerà: «Sono tornata». Le storie eccezionali possono insegnarci molte cose. Ci insegnano lezioni che vanno oltre il tempo, le varie epoche e culture.
Traduzione di Assia Rosati
di Marco Ciardi (Il Sole-24 Ore, 30 ottobre 2016)
Se vi è capitato di sentire dire da qualcuno che leggere Harry Potter fa male, perché non aiuta i ragazzi a crescere bene, beh, sappiate che si è sbagliato di grosso. Perché riempire la testa di giovani lettori con storie di maghi e streghe, di unicorni, ippogrifi e altre creature fantastiche? La risposta a questa domanda è già stata data, alcuni secoli fa, da uno degli inventori della scienza moderna, Galileo Galilei: quando leggiamo un libro di fantasia non è assolutamente importante che quello che c’è scritto dentro sia vero. Però sviluppare l’immaginazione e la creatività sin da piccoli ci sarà di grande aiuto in qualsiasi attività poi svolgeremo da grandi. La lettura preferita di Galileo era un libro di Ludovico Ariosto, l’Orlando Furioso, praticamente l’Harry Potter dei suoi tempi. E non pare che quella lettura gli abbia impedito di diventare un grande scienziato. Anzi, forse lo è diventato proprio per quello.
Che i racconti di storie fantastiche abbiano sviluppato l’immaginazione scientifica di molti bambini non è certo una novità. I costruttori dei razzi che hanno portato l’uomo nello spazio hanno spesso confessato di aver letto Dalla Terra alla Luna, il romanzo di Giulio Verne, in cui tre uomini volano verso il nostro satellite a bordo di un enorme proiettile sparato da un cannone.
Harry Potter e la maledizione dell’erede, uscito in lingua inglese alla fine di luglio e pubblicato in italiano circa due mesi dopo, racconta una storia (nella forma di sceneggiatura teatrale, non di romanzo) che si svolge diciannove anni dopo il settimo e ultimo capitolo della saga, Harry Potter e i doni della morte.
Questa volta, dunque, i protagonisti del racconto sono anche i figli di Harry e Ginny, di Ron e Hermione, di Draco Malfoy. Se vi rivelassi il nome della madre del figlio di Draco, Scorpius, farei un’anticipazione troppo grande per chi ancora non avesse letto il libro. Che spero possa continuare ad appassionare, come è accaduto in passato in molte famiglie, genitori e figli contemporaneamente, anche se la prima generazione di piccoli lettori dei libri di J. K. Rowling è ormai diventata grande, e forse qualcuno di quei ragazzi di una volta è già a sua volta genitore.
Certo è che il rapporto tra genitori e figli è uno dei temi centrali di questo nuovo capitolo dedicato al mago più famoso della scuola di magia e stregoneria di Hogwarts; un motivo in più per leggerlo insieme in famiglia e magari anche discuterne.
Anche perché viene affrontato il tema decisivo delle scelte che tutti noi, prima o poi, siamo costretti a compiere. Come dice Albus Silente in Harry Potter e la camera dei segreti «sono le scelte che facciamo che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità». Perciò non vi spaventate se Harry Potter è ambientato nel mondo dei maghi. La magia è solo un pretesto per parlare della nostra realtà, in un modo che però ci aiuta anche a sognare.
Harry Potter, inoltre, ci può insegnare molte cose sotto molteplici punti di vista, incluso quello storico. Un compito che, ad esempio, ha svolto in maniera egregia il nostro Topolino, sulle cui pagine numerose generazioni hanno appreso, forse ancor prima che a scuola, tantissime informazioni. Infatti, contrariamente a quello che si può pensare, gli scrittori di opere di fantasia (inclusi gli autori di fumetti) spesso si documentano molto attentamente prima di realizzare le loro storie.
Ecco dunque che, grazie alla lettura di Harry Potter e la pietra filosofale, il primo romanzo della serie, veniamo a scoprire che l’unico ad aver fabbricato la mitica pietra, la quale trasforma il piombo in oro e dona l’immortalità, è un certo Nicolas Flamel. Si tratta di un personaggio partorito dall’immaginazione di J. K. Rowling? Assolutamente no. Nicolas Flamel è un uomo realmente esistito, nato in Francia, a Pontoise, il 28 settembre 1330, e morto a Parigi il 22 marzo 1418. Con il suo lavoro di copista e libraio, Flamel accumulò grandi ricchezze e le incrementò con abili speculazioni immobiliari. Ricchezze che, probabilmente, alimentarono la leggenda che fosse riuscito a fabbricare la pietra filosofale, come si narra in un testo, a lui attribuito, pubblicato nel 1612. In realtà, si tratta di un falso ben costruito, che fu studiato anche da Isaac Newton, uno degli scienziati più importanti di tutti i tempi, molto interessato a questi argomenti. Insomma la lettura di Harry Potter può essere assai istruttiva, se si ha la pazienza di documentarsi sulle fonti di cui ha fatto uso l’autrice.
I libri di J. K. Rowling, tra l’altro, possono essere un ottimo strumento proprio per comprendere la differenza tra scienza e magia. Come i fans del maghetto sanno, infatti, non tutti possono frequentare Hogwarts, ma solo coloro che possiedono un particolare ’dono’, che è appunto quello della magia. I Babbani, cioè le persone prive di poteri magici, non possono in nessun modo salire sull’Espresso di Hogwarts dal binario 9 ¾ della stazione di King’s Cross a Londra.
La magia, dunque, è per pochi, La scienza, invece, è per tutti. Ognuno di noi, naturalmente purché abbia voglia di impegnarsi, può accedere allo studio dei segreti e delle meraviglie della natura, e condividere con tutti gli altri le proprie scoperte e le proprie conoscenze.
Non è una differenza da poco ed è questo il motivo per cui, una volta cresciuti, non dobbiamo più fare confusione tra scienza e magia, sempre ammesso che l’avessimo fatta da piccoli. Inoltre, scoprire che la magia non esiste non deve certo cancellare il nostro bisogno di immaginare, creare e sognare.
Non voglio fare troppi spoiler (come ormai si usa dire, anche se probabilmente i ragazzi conoscono oggi il termine molto più degli adulti), ma tutta la struttura di Harry Potter e la maledizione dell’erede è basata sulla possibilità dei viaggi nel tempo, grazie all’uso dei famosissimi “Giratempo” (confesso che ne abbiamo uno in famiglia), oggetti che hanno la forma di una collana con una clessidra come ciondolo. Si viene così proiettati nel fantastico mondo dei paradossi temporali, che molti di noi hanno probabilmente imparato a conoscere ed amare con la bellissima trilogia cinematografica di Ritorno al futuro.
Il tema dei viaggi nel tempo, tuttavia, ormai non interessa più solo gli autori di storie fantastiche o di fantascienza, ma viene affrontato con serietà anche dalla ricerca scientifica. Chissà, forse tra i giovani appassionati di Harry Potter ce ne sarà uno che riuscirà ad inventare la macchina del tempo. Anzi, non sorprendetevi troppo di vedere arrivare un giorno uno dei vostri figli dal futuro. Sicuramente avrà letto La maledizione dell’erede.
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J. K. Rowling, Harry Potter e la maledizione dell’erede, trad. di Luigi spagnol, Salani, Milano, pagg. 368, e. 19,80.
C’ERA UNA VOLTA...
Ma perché gli antichi inventarono i miti?
di Mario Ricciardi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23 ottobre 2016)
«Papà, devo fare una ricerca sul mito». Mio figlio più grande ha otto anni e frequenta la terza classe della scuola primaria, che nel secolo scorso chiamavamo elementare. Quest’anno i programmi prevedono l’introduzione di nuove materie, una novità di cui sembra entusiasta. Per esempio, qualche settimana fa mi ha annunciato che avevano fatto la prima lezione di storia. «Non si è ancora parlato degli Egiziani», mi ha detto con l’aria un po’ perplessa, ma poi mi ha spiegato che questa curiosa omissione era dovuta al fatto che c’erano altre cose di cui occuparsi prima di arrivare alle piramidi. Per esempio i miti. «Allora, vediamo, forse potremmo cominciare dal significato della parola “mito”, che viene dal greco mythos. In origine questa parola significava semplicemente “detto”. Poi, col tempo, ha assunto il significato di “storia”, “favola” o “racconto”.
Sin dai tempi più remoti i Greci, come altri popoli dell’antichità, hanno amato ascoltare poeti che recitavano versi in cui si narrava degli dei dell’Olimpo, delle loro avventure, e delle gesta degli eroi. Uno dei più famosi tra questi poeti era Omero, l’autore dell’Iliade e dell’Odissea. Due poemi in cui si racconta la storia della guerra tra i Greci e i Troiani e poi il lungo viaggio di ritorno a Itaca, l’isola di cui era re, dell’eroe greco Ulisse».
Sentendo questo nome gli occhi di mio figlio si illuminano. «Mi ricordo di Ulisse, è quello del cavallo di legno. Ci hai già letto la storia. Ma chi era invece Omero?». Rispondo che di Omero non sappiamo molto, si dice che fosse cieco. «Come cieco? E come faceva a scrivere?», mi interrompe in modo perentorio. «Sai, allora la scrittura non era molto diffusa e i poeti imparavano le storie a memoria. E addirittura prima che la scrittura fosse inventata i racconti esistevano già. Anche se a te può sembrare strano, allora non c’era la televisione. Quindi la sera ci si riuniva davanti al focolare per ascoltare episodi mitologici o fiabe come quelle composte da Esopo».
Mettiamo da parte l’autore di fiabe. Anche il suo non è un nome del tutto nuovo per mio figlio. Ne abbiamo lette alcune nel corso degli anni. «Papà, ma perché ai Greci piacevano i miti?». Rispondo che probabilmente si appassionavano ai racconti mitologici perché si tratta di storie avvincenti. Ancora oggi leggere le avventure di Achille o di Perseo lascia senza fiato. Ci sono pericoli da affrontare, mostri da sconfiggere, tesori da scoprire. «Come Scooby Doo» commenta mio figlio. «Sì» rispondo «o come Tin Tin. Anzi, a questo proposito, mi viene in mente che c’è un’altra spiegazione, oltre all’intrattenimento, della passione dei greci per i miti. Alcuni miti servivano verosimilmente per spiegare eventi che colpivano o spaventavano gli antenati dei Greci perché essi non riuscivano a comprenderne la natura. Così, ad esempio, se vedevano un fulmine che colpiva un albero incenerendolo, essi non riuscivano a trovare altra spiegazione di tale prodigio se non l’azione di qualche essere straordinario. Chi altri se non un dio potentissimo come Zeus potrebbe scatenare tanta energia riversandola sulla terra?».
«Papà, ma i Greci non sapevano che anche Thor può lanciare i fulmini». Mio figlio è un fan degli Avengers e quindi per lui il dio del tuono per eccellenza è quello delle saghe nordiche. «Certo, hai ragione, anche Thor. In effetti, i miti scandinavi hanno diverse cose in comune con quelli greci. C’era un francese che si chiamava Dumézil che ha studiato queste somiglianze. Quando sarai più grande, se vuoi, potrai leggerlo».
Mio figlio è convinto che il lavoro di suo padre consista nel leggere libri, quindi non presta particolare attenzione a questo francese dal nome buffo. Più interessante gli sembra un’altra questione: «Papà, ma quindi, secondo i Greci, Zeus lanciava i fulmini quando era arrabbiato, come Thor?». Rispondo che il tuono era un modo per punire gli uomini che avevano fatto qualcosa di sbagliato, mancando di rispetto al dio. «Ho capito papà, ma tu mi hai già spiegato che i supereroi non esistono, quindi immagino che neanche Zeus esista. Ma come se ne sono accorti i Greci che i miti non erano veri?».
Siamo arrivati al punto più difficile: «Alcuni greci non erano soddisfatti delle spiegazioni mitologiche. Uno di loro, che si chiamava Aristotele, l’ha detto molto bene. Quando c’è qualcosa che ti stupisce, è naturale che tu ti chieda perché. Se non trovi una spiegazione soddisfacente, devi cercare ancora, tentando di individuare le cause di ciò che accade. Così, ad esempio, nel caso del fulmine, devi chiederti cos’è la scarica, da dove viene l’energia, come si accumula, cosa ne provoca il rilascio, perché colpisce la terra». Vorrei dire che inaugurando questa indagine sulle cause i greci hanno inventato la filosofia, ma mio figlio mi previene: «Ho capito papà, potevi dirmelo subito. C’era bisogno degli scienziati!».
Popsophia, da Pitagora a Guerre Stellari
di Adriano Ercolani *
Oggi inizia a Pesaro il festival filosofico Popsophia che ha come tema Il Ritorno della Forza, sulla scia del primo episodio della nuova trilogia di Star Wars. Non è, solo, una scelta per richiamare il grande pubblico, poiché l’opera di George Lucas è un giacimento di spunti filosofici molto interessanti. Star Wars è una grandiosa narrazione epica e archetipica, genialmente portata al livello della fruizione di massa.
Non è certo un mistero che George Lucas si sia ispirato a L’eroe dai mille volti (in Italia edito da Lindau) dell’allievo di Jung, Joseph Campbell, un saggio di mitologia comparata che indicava come in tutte le grandi storie sacre e mitiche ci fosse un evidente filo comune di tematiche ricorrenti. Lucas applicherà metodicamente i risultati degli studi di Campbell nella stesura della sceneggiatura di Star Wars: la saga è un sapiente incastro di motivi archetipici mutuati dalla letteratura di ogni tempo. Per questo, al di là del fascino guerriero delle spade laser, degli imponenti effetti speciali o della riuscita più o meno felice dei singoli episodi, la vicenda dello scontro fra Jedi e Sith conquista da quasi quarant’anni gli spettatori di tutto il mondo: poiché attinge a una sapienza narrativa millenaria, magistralmente tradotta in un linguaggio visivo contemporaneo.
Innumerevoli sono gli elementi culturali che Lucas ha intelligentemente, e consapevolmente, mescolato nella creazione della mitologia di Guerre Stellari, per motivi di spazio ne accenneremo solo alcuni: il viaggio iniziatico dell’eroe (l’intera vicenda di Luke Skywalker); il mito di Apollo e Artemide (il rapporto tra Luke e la Principessa Leia); il rapporto conflittuale (Edipo, fls) con la figura paterna tipico della tragedia greca (Luke Skywalker/Darth Vader); il concetto di Ombra junghiana (la scoperta di Luke durante il periodo di iniziazione Jedi che il nemico Darth Vader nella sua proiezione psichica ha il suo stesso volto); il viaggio di Giasone e degli Argonauti, quello di Ulisse nell’Odissea e le celebri fatiche di Ercole (le peripezie avventurose segnate da diverse tappe di conoscenza di Luke e Han Solo); il mito di Excalibur (la spada laser come appendice e manifestazione di un potere spirituale); la caduta dell’Eletto, da Lucifero nel Cristianesimo a Ravana nell’Induismo (Anakin che diventa Darth Vader); l’attaccamento come fondamento della hybris (la conversione al Male di Anakin nasce da una distorsione dell’amore per Padmé); la lotta tra Bene e Male come metafora del conflitto interiore, come nella Bhagavad Gita (l’intero scontro Jedi/Sith); la figura della Grande Madre identificata con la Natura (Padmé è uno degli appellativi della Dea Lakshmi); la presenza di un maestro che tramanda insegnamenti primordiali (Yoda, che in sanscrito significa guerriero); il ciclo di morte e resurrezione presente in tutte le culture iniziatiche, da Osiride/Horus a Dioniso a, ovviamente, il Cristo ((Obi-Wan e i maestri Jedi, ma anche Han Solo e in una certa misura Darth Vader); la necessità dell’equilibrio interiore come specchio di quello cosmologico tra Luce e Tenebra, come nel Tao e in Eraclito (rappresentato dalla Forza e dal Lato Oscuro).
Tutti questi riferimenti, ripetiamo, non sono nostri peregrini e arbitrari collegamenti, ma dichiarati e consapevoli ambiti di approfondimento dell’opera di Lucas, come da lui dichiarato: il testo di Campbell dopo il successo dei primi film verrà addirittura ristampato con Luke Skywalker in copertina, completamente identificato con l’archetipo dell’Eroe.
Questi aspetti, in particolar modo i legami con la cultura orientale, sono approfonditi nel libro molto interessante di Valentino Bellucci ‘Da Pitagora a Guerre Stellari’ (Editrice Petite Plaisance), ove leggiamo ad esempio: “Un altro aspetto profondo presente in Guerre Stellari è l’idea della Forza, intesa come energia cosciente che sostiene e manifesta ogni realtà; tale idea è simile a quella del Brahman della filosofia vedica, e secondo tale idea l’Assoluto è ogni cosa e ogni cosa è divina”. Un’intuizione presente in tutte le culture, con forme, nomi e sfumature diverse: parliamo di ciò che gli gnostici indicavano come Pneuma o che in alcune tradizioni yogiche viene chiamato Param Chaitanya.
Il grande pregio di Lucas è stato quello di riassumere questa millenaria tradizione sapienziale in un racconto avventuroso dal fascino universale, mostrando ancora una volta la perenne attualità di ciò che è eterno.
* Il FattoQuotidiano.it / BLOG / di Adriano Ercolani, 14.07.2016 (RIPRESA PARZIALE)
Quando sono nate davvero le fiabe?
di Redazione (Il Libraio, 24.04.2016)
Tutti siamo cresciuti con le storie raccontateci dai nostri genitori o dai nostri nonni. Per generazioni e generazioni personaggi come Cappuccetto rosso, Biancaneve, la Bella e la Bestia hanno popolato le fantasie dei bambini. Ma quanto sono antiche le fiabe?
Quando sono nate? Secondo un recente studio alcune fiabe famose come La Bella e la Bestia e Tremotino potrebbero risalire a migliaia di anni fa. Il professor Jaime Tehrani dell’Università di Durham, insieme alla studiosa di folclore Sara Graça da Silva dell’Università di Lisbona, ha preso in esame 275 fiabe indoeuropee con una tecnica comunemente usata dai biologici, l’analisi filogenetica. Esaminando i collegamenti in comune tra i racconti, i ricercatori hanno scoperto che alcuni hanno avuto origine ben prima che la lingua inglese, francese e italiana esistessero.
Il professor Tehrani dichiara: “È interessante che queste storie siano sopravvissute così a lungo pur non essendo state trascritte”. Come raccontano Electricliterature.com e Finzionimagazine.it, questa non è la prima volta che viene elaborata la teoria che le fiabe risalgano a molto tempo fa: Wilhelm Grimm, uno dei fratelli Grimm, era convinto che molte delle storie che la loro opera ha reso famose fossero in realtà nate contemporaneamente alle lingue indoeuropee. In seguito la sua teoria è stata contestata da alcuni studiosi che hanno sottolineato come alcune storie fossero più recenti e fossero entrate a far parte della tradizione orale solo dopo essere state trascritte nel sedicesimo e diciassettesimo secolo. Ma Da Silva ha confermato le idee di Wilhelm Grimm, affermando che alcune fiabe risalgono a prima dell’invenzione della scrittura e della mitologia greca (compaiono già nei testi latini e greci). Un’origine che si perde realmente nella notte dei tempi.
Le prime tracce de La Bella e la Bestia e Tremotino le troviamo già 4.000 anni fa, mentre Jack e il fagiolo magico risale a prima della divisione delle lingue indoeuropee tra occidentali e orientali, più di 5.000 anni fa. Una favola meno conosciuta, The Smith and the Devil, sembra essere nata addirittura nell’età del bronzo, 6.000 anni fa. Nonostante il titolo della fiaba non sia molto familiare, la storia del fabbro che vende la propria anima al diavolo per ottenere poteri soprannaturali è ben presente nelle nostre memorie, a partire dal Faust di Goethe.
Da Silva ritiene che le storie durino nel tempo grazie alla potenza della narrazione e alla loro natura universale e atemporale, uniti ai temi morali, alla distinzione tra giusto e sbagliato, all’eterna lotta tra bene e male. E sottolinea che recentemente, nonostante le fiabe siano state spesso considerate letteratura di qualità inferiore, sono diventate casi di studio eccellenti per la comparazione tra culture diverse e per studiare i comportamenti umani.
Il bravo insegnante è un drammaturgo
Intervista a Daniel Pennac - Leggiamo perché fuori piove
di Luisa Gerini (L’Indice, 1 dicembre 2015) *
Una lezione di ignoranza si apre con il ricordo degli “indimenticati”, quei professori che hanno saputo fare la differenza nel suo travagliato percorso scolastico perché capaci di trasmettere curiosità e conoscenza. Perché i passeur sono così importanti nella trasmissione della cultura?
La nozione di passeur è intimamente connessa alla nozione di proprietà, di possesso della cultura. Esistono due modi distinti di relazionarsi con la cultura. Alcune persone, che chiameremo i “guardiani del tempio”, pensano che il proprio bagaglio culturale costituisca una proprietà privata, da condividere unicamente con una cerchia ristretta di persone e considerata sacra al punto da decidere di escludere chi non ne reputano degno. Altre, i passeur, si vedono invece come vettori di cultura. Non si tratta di un principio etico, ma piuttosto di una questione di mentalità, di atteggiamento. Personalmente non ho mai ritenuto di possedere quello che so, mi sento piuttosto simile a un fusibile dentro un circuito elettrico. Non essendoci l’idea di possesso, siamo oltre il principio della condivisione: tutto quello che imparo, tutto quello che scopro, se mi piace e mi dà emozioni, ecco che scelgo di fartelo conoscere perché possa incantare e arricchire anche te.
Come è possibile conciliare l’esperienza della lettura, che è intima e individuale, con lo stimolo a diventare a nostra volta un passeur?
Quando si parla di lettura, ognuno di noi ha il suo “giardino segreto”. Ci sono emozioni che ho provato leggendo un brano che non ho mai raccontato a nessuno, perché era qualcosa di troppo sottile, di troppo personale. Non un bene posseduto, ma un momento di intensa felicità, profondamente intimo. Ecco perché non sono un accanito sostenitore della trasmissione fine a se stessa: comprendo infatti perfettamente che si possa instaurare una certa intimità filosofica con determinati libri, e che si provi al tempo stesso il bisogno di tenere per sé alcune emozioni. Siamo i guardiani del nostro tempio. Il mio non è la cultura, ma certe briciole di sensazioni difficilmente descrivibili, appena percettibili, che posso anche scegliere di non raccontare. Anche se, in linea generale, tutto quello che mi tocca, che mi stimola culturalmente, lo trasmetto immediatamente.
Essere passeur: è un’attitudine innata o che si può acquisire? Quanto è importante che gli insegnanti sappiano svolgere questo ruolo?
È una questione complessa: essere passeur non è una vera e propria professione. In ambito culturale il vero passeur è la sfera affettiva. Il flusso della cultura scorre allora grazie al flusso della sfera affettiva: ti do da leggere quello che leggo io perché siamo amici. Per quanto riguarda gli insegnanti, molti di loro considerano la scuola non tanto come un luogo di trasmissione bensì come un luogo di valutazione. Sezionano un testo eseguendo una sorta di autopsia medico-legale, ma mai leggeranno in classe ad alta voce un brano che li ha colpiti dicendo “Ecco, ho letto questo ieri, ditemi cosa ne pensate”. La pedagogia francese, in modo particolare, ha plasmato gli insegnanti sul modello del “guardiano del tempio”: questo studente può entrare, quest’altro no.
Nelle prime pagine di Una lezione d’ignoranza lei afferma che i professori migliori sono quelli che sanno incarnare la materia che insegnano. Quali effetti ha sull’attenzione degli studenti la capacità di un professore di essere davvero presente in classe?
La pedagogia è una branca della drammaturgia: la materia insegnata deve essere incarnata, personificata. Se invece di fare una lezione ex cathedra, sicuramente molto interessante ma rivolta agli studenti migliori che non hanno certo bisogno che si catturi la loro attenzione perché dotati di una attitudine naturale all’astrazione, il professore sceglie di essere presente fisicamente in classe e guarda negli occhi lo studente a cui si rivolge, scherza con lui in virtù dell’intesa che si è creata, allora i concetti prenderanno corpo per effetto di questa teatralità. E sarà riuscito a coinvolgere tutta la classe, anche quegli studenti che hanno bisogno di passare attraverso una “fase di seduzione”. Su quanto questa fase debba essere di natura ludica, i pareri divergono. Alain (Émile-Auguste Chartier), grande filosofo e pedagogo dell’inizio del XX secolo, era assolutamente contrario, pur essendo lui stesso un personaggio singolare. Penso però anche a Vladimir Jankélévitch, un fiume in piena che trascinava con la sua corrente gli studenti. Poteva dire tutto e il contrario di tutto, le sue lezioni erano assolutamente travolgenti.
Quanto conta allora la capacità di seduzione di un professore? Si può parlare di un metodo Pennac?
È limitativo ridurre tutto alla capacità di seduzione. Nel corso degli anni, facendo tesoro anche dei miei errori, ho messo a punto delle tecniche che si possono replicare. Prendiamo l’appello, che per la maggior parte degli insegnanti non è che una formalità amministrativa eseguita senza neppure sollevare lo sguardo dal registro. Uno sguardo che invece può servire a creare una relazione personale con ogni studente, può essere il pretesto per un breve momento di complicità. Sembra una cosa da nulla, ma dà il tono a tutta la giornata, è il diapason che dà il la all’orchestra.
Cos’è per lei l’ignoranza? È l’espressione del malessere di uno studente che non corrisponde ai canoni richiesti dalla scuola o ha un significato più ampio?
L’espressione “lezione di ignoranza” è di un poeta, Georges Perros, diventato professore per sopravvivere perché come tutti i poeti moriva di fame. Arrivando in classe, era solito svuotare sulla cattedra la borsa piena di libri (Pascal, Cartesio, Rabelais, Montaigne) dicendo: “Ecco qui, una piccola lezione d’ignoranza”. Quindi cominciava a leggere ad alta voce e i suoi studenti non erano mai sazi di questa sorta di travaso in loro di tutto ciò che amava. Si tratta di un’ignoranza che vuole scoprire, che è alla ricerca. Che cos’è in realtà l’ignoranza? Semplicemente un altro tipo di conoscenza. Un giorno, all’inizio della mia carriera di insegnante, ho chiesto a un ragazzo di parlarmi della proposizione subordinata relativa. Mi ha risposto: “Questo non lo so, ma posso smontare e rimontare un motorino in meno di dieci minuti”. Ho poi scoperto che viveva così, rubando motorini. Allora abbiamo fatto un patto: la meccanica in cambio della grammatica. Perché se insegni a questo ragazzo che quella che chiamiamo grammatica è la strutturazione del suo pensiero, si appassiona immediatamente. Oppure prendiamo i modi del verbo. Nel film La classe (Palma d’oro a Cannes nel 2008) un professore dice del congiuntivo: “È così che si parlava un tempo”. Da fucilare immediatamente. Perché anche se pensano di vivere all’imperativo, anche se si esprimono solo all’imperativo, gli adolescenti sono paralizzati dal dubbio. Il congiuntivo è il modo verbale dell’adolescenza per eccellenza: è importante che sappiano che esiste un modo che sembra fatto apposta per loro, per esprimere l’indecisione, la crisi, il passaggio da uno stato all’altro.
Libri di carta e e-book: come cambierà la lettura?
Un giorno lo schermo prenderà il posto della carta e questo cambierà il modo di leggere, il modo di percepire il libro, perché ogni parola potrà essere contestualizzata. È il cinema in 3D rispetto al cinema tradizionale. La mia generazione ha una sorta di sensualità legata al libro, al suo odore (che non è quello dell’inchiostro come molti pensano, ma della colla). Si dimentica che i più giovani hanno già sviluppato un altro modo di rapportarsi all’oggetto tecnologico, desiderabile, le immagini brillanti, lo schermo su cui far scorrere il dito. Noi continuiamo a pensare che le librerie abbiano più fascino di quei piccoli rettangoli, ma in futuro sembrerà incredibile pensare alle nostre case piene di carta. Sono rimasto senza parole il giorno che ho letto uno studio sulle probabilità che ha un libro riposto su uno scaffale di essere ripreso in mano per essere riletto: molto vicine allo zero. Tenuto conto che generalmente presto sempre i libri che mi sono piaciuti e che raramente tornano indietro, so già che quelli rimasti non li guarderò più. A rifletterci bene è come se vivessi in un cimitero.
Lei ha scritto che la lettura è un antidoto alla solitudine metafisica dell’uomo. Perché leggiamo?
Perché siamo animali mitologici. Perché non ci limitiamo ai saggi e invece scegliamo di leggere romanzi? Perché abbiamo bisogno di metafore, la razionalità da sola non basta. In Francia, un bel giorno, lo strutturalismo ha decretato la morte del romanzo, al punto che era malvisto sia scrivere che leggere romanzi. Uno snobismo culturale da cui erano esenti i romanzi stranieri e questo ha permesso di scoprire il realismo magico e tutta la letteratura sud-americana. O Il profumo di Patrick Süskind, tre milioni di copie vendute. O i polizieschi come la saga Malaussène, considerati come letteratura underground. Questo bisogno di romanzi, insomma, non è solo intrattenimento: traduce un bisogno metafisico, va a colmare un vuoto.
In realtà (sorride) leggiamo per un’infinità di motivi: per non lavorare, o perché fuori piove.
LA MEMORIA COME ATTO
di David Bidussa *
C’è una crisi dell’Europa.
Dubito che nei ventiquattro anni (era il 7 febbraio 1992, una data che non è entrata nel calendario europeo) che ci separano da Maastricht sia nata l’Europa. A dire la verità all’inizio abbiamo provato a misurarci con l’idea di fondare un’identità continentale e per dire che facevamo sul serio abbiamo persino provato a darci un calendario civile e a sceglierci una data che parlasse per noi al futuro.
Volevamo fortemente il futuro e soprattutto non volevamo che si ripetesse il passato. Per questo la prima e unica data che ci siamo dati è stato il 27 gennaio, il “giorno della memoria”, pensato all’inizio del 2000. Perché è stata scelta quella data? Perché non era una data nazionale, non ricordava nessuna vittoria. Ma funzionava come un canone: diceva che indietro non si tornava. Che il passato stava alle spalle. Era una data metafisica ed era una data che voleva parlare al futuro. Ma non è mai riuscita a parlare la lingua del futuro, perché si è proposta come sguardo al passato.
Molti pensano il 27 gennaio come una data riparatrice, o come una data “di penitenza”. Indubbiamente nell’evento ricordato c’è questo. La scelta di quella data voleva guadare al millennio che si apriva. Non a quello da cui stavamo per congedarci. Il Giorno della memoria - il 27 gennaio - non è il giorno dei morti. Per questa ricorrenza ogni paese ha una sua data nel proprio calendario pubblico (noi abbiamo il 2 novembre). Non c’è alcun bisogno di duplicarla. Il 27 gennaio è invece il giorno dei vivi. Della memoria per i vivi e non della commemorazione dei morti.
Più precisamente. La Shoah è un evento che ha voluto dire distruzione fisica di milioni di individui sulla base di una macchina persecutoria che colpiva gli inquilini della porta accanto. Per questo la memoria del loro sterminio riguarda tutti noi. Non è un evento privato. È l’evento strutturale in cui noi europei abbiamo conosciuto le nostre “potenzialità”.
Il 27 gennaio non è il giorno in cui gli ebrei ricordano la Shoah (quello è il 27 di Nissan la data nel lunario ebraico che segna l’inizio della rivolta del ghetto di Varsavia, che cade in una data variabile del nostro calendario tra la seconda metà di aprile e i primi di maggio) ma riguarda un pezzo della storia culturale dell’Europa con cui l’Europa ha iniziato a confrontarsi, in ritardo e spesso con disagio. Per questo proporla come data nel calendario civile europeo significava pensarla come un patto per il futuro.
E chiamare quella data “giorno della memoria” non voleva dire pensare in termini di passato, ma in termini di futuro. Può sembrare contraddittorio affermare che la memoria riguarda il futuro, ma è logico.
La memoria non è un fatto. È un atto. Un atto che si compie tra vivi, volto a legare tra loro individui in relazione alla costruzione di una coscienza pubblica. Per questo ha un valore pragmatico. Ossia serve per fare qualcosa (altrimenti è una commemorazione). E’ un atto che dice oggi che del passato si è trattenuto qualcosa, e che quel qualcosa ha arricchito la nostra capacità di agire oggi in relazione a un domani che si intende costruire. Non volere quel passato non significa riscriverlo, ma impegnarsi per un altro futuro.
È ancora così? Oppure come ieri a Varsavia, o a Budapest o a Sarajevo, o a Srebrenica e oggi a Kobane, il nostro sguardo racconta l’indifferenza?
David Bidussa
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Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (25/01/2016).
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA
INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?!
"Meditate che questo è stato" (Primo Levi)
SHOAH - STERMINIO DEL POPOLO EBRAICO. 27 GENNAIO: GIORNO DELLA MEMORIA - LEGGE 20 luglio 2000, n. 211, DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Se i bambini ricordano le fiabe sentite prima di nascere
Psicologia e neuroscienze lo confermano: raccontare le favole aiuta lo sviluppo
di Antonio Damasio (la Repubblica, 30.01.2016)
Per migliaia di anni, prima che fosse inventata la scrittura e resa possibile la lettura silenziosa, il racconto orale era il mezzo principale per trasmettere, ad altri, significati complessi. La tradizione orale probabilmente risale alla nascita dei fuochi di bivacco, quando i membri di una tribù potevano raccogliersi alla sera, in un cerchio magico, raccontare gli eventi della giornata e dare un senso alla loro esistenza.
Allora, come ora, i significati complessi non venivano trasmessi da parole isolate, ma piuttosto da frasi costruite in forma di narrazione. Raccontare oralmente era così naturale che questa tradizione non scomparve dopo l’invenzione della scrittura e dopo che la lettura silenziosa di materiale scritto divenne realtà. La tradizione è viva in ambiti diversi, in particolare nel teatro e nella declamazione poetica, due forme di comunicazione che sono state coltivate fino ai giorni nostri. Dato il vasto accesso alla lettura di testi scritti, stampati o elettronici, forse ci si dovrebbe interrogare sui meriti specifici della lettura a voce alta ai bambini. È davvero a loro vantaggio? Sono lieto di rispondere di sì e di riferire che i meriti sono molti.
Molto prima che i bambini possano realmente leggere un libro, il fatto che venga loro letto può compiere meraviglie. Aiuta i bambini a familiarizzare con un discorso ben articolato, con i suoni che formano le parole, e con il loro significato. I bambini riescono anche ad afferrare il significato di intere frasi, e, ultimo ma non meno importante, possono notare le intonazioni che il lettore dà a determinate parole e apprendere il significato di tali intonazioni. I bambini possono familiarizzare con la particolare musica che componiamo in modo naturale quando colleghiamo le frasi, con le loro ricche cadenze, nel corso di una storia. Questo rafforza la padronanza della prosodia del linguaggio - la prosodia è la forma tecnica della musica del nostro linguaggio, in qualsiasi lingua. Anche se dalla lettura a voce alta non dovesse scaturire nient’altro, questo particolare risultato varrebbe lo sforzo. Infatti, comprendere e produrre prosodia è un fattore chiave per un comportamento sociale efficace.
Naturalmente, si potrebbe dire che i bambini possono imparare ad avere la padronanza della prosodia, udita quanto prodotta, nei loro giochi quotidiani, o con le loro famiglie, o nelle scuole materne. Tuttavia, c’è qualcosa di speciale nella situazione di ascoltare una storia da qualcuno che la sta leggendo per noi. Obbliga a una particolare attenzione al testo. Introduce disciplina e una certa formalità. Infatti, introduce un certo rigore nell’altrimenti banale atto di parlare e ascoltare.
C’è anche motivo di credere che il fatto che gli si legga possa accelerare la maturazione dell’intelletto del bambino, e, in ultimissima analisi, facilitare l’eventuale introduzione del bambino alla lettura silenziosa e allo sviluppo del mondo del linguaggio.
Da notare, dai nostri studi sugli effetti dell’insegnamento della musica ai bambini, che ora sappiamo che l’ascolto e la pratica della musica accelerano la maturazione della corteccia uditiva del cervello. È interessante notare che il sistema uditivo diviene abbastanza sviluppato nel terzo trimestre di gravidanza.
I genitori che leggono ai loro figli prima della nascita possono essere sicuri che essi li sentano e colgano la qualità della voce e i ritmi del linguaggio. Eino Partaneu, all’Università di Helsinki, ha dimostrato in modo convincente che i bambini possono anche riconoscere, dopo la nascita, parole che erano state presentate loro prima della nascita. Infine, ma non meno importante, c’è un intrinseco arricchimento umano che viene dalla stretta relazione fra il bambino e il lettore, un ambiente sociale naturale e intimo che è completamente diverso dalla situazione di un lettore che legge da solo silenziosamente.
In un periodo in cui a tantissimi bambini si lascia apprendere il mondo e la loro stessa umanità da schermi elettronici spersonalizzati, è bene sapere che anche persone in carne e ossa possono leggere ai bambini, e che i bambini possono ricevere grandi benefici da un programma progettato per arricchirli, individualmente e socialmente.
La scuola è aperta (ma non troppo)
Settant’anni dopo, l’articolo 38 della Costituzione non ha esaurito la sua carica programmatica: molto resta da fare per garantire la piena inclusività
di Tullio De Mauro (La Stampa, 28.01.2016)
«La scuola è aperta a tutti»: così dice la Costituzione italiana al primo comma dell’articolo 38 e parla qui con tutta la sua caratteristica concisione e chiarezza. Negli anni in cui il testo fu concepito, questa norma non descriveva una realtà, ma fissava e stabiliva un programma. [...]
Nel 1948 la norma era assai lontana dal sancire una realtà effettiva. Dal fascismo e dallo Stato monarchico l’Italia democratica e repubblicana aveva ereditato una scuola in verità ben chiusa. Negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento il 60% di adulti e adulte era privo di ogni titolo di studio. Quelli in tale condizione o non erano nemmeno mai entrati in un’aula scolastica, come poteva accadere ai nati prima del periodo giolittiano (solo allora cessò il fenomeno dell’elusione completa della scolarità), oppure erano stati espulsi dalle aule prima di arrivare alla licenza elementare. Il traguardo di questa licenza, per quanto da decenni fissato in leggi, con il censimento del 1951 risultò che era stato raggiunto solo dal 40% di adulte e adulti. Il 30% era fermo a esso, mentre il 10% si era spinto oltre e l’1% aveva raggiunto la laurea.
Grandi passi avanti
Vale la pena di aprire una breve parentesi aritmetica. Sommando tutti gli anni di scuola fatti in una certa epoca dai singoli individui di un Paese e dividendo la somma per il numero degli individui si ottiene il numero di anni mediamente fatti dalle persone a una certa data, ossia si ottiene ciò che si chiama indice di scolarità di un Paese. Nel 1948 l’indice di scolarità italiano era di circa tre anni. Questo dato aiuta a capir meglio la realtà di fatto dell’epoca se lo si mette a confronto con i dati di altri Paesi. Allora, più esattamente nel 1950, l’indice di scolarità complessivo dei Paesi sviluppati era di circa sei, sette anni, mentre l’indice dei Paesi sottosviluppati era di due, massimo tre anni. L’Italia, perlomeno l’Italia scolastica, apparteneva dunque alla vasta schiera dei Paesi sottosviluppati. [...]
Sono passati ormai quasi settant’anni dalla redazione della Costituzione e si può e deve constatare che la popolazione e le scuole hanno camminato sulla via della realizzazione di ciò che v’era di programmatico nell’articolo 38. È stato un cammino faticoso, a strappi, poco o niente progettato dai gruppi dirigenti, ma piuttosto subìto se non osteggiato. Molto si deve alla spinta popolare per raggiungere livelli più alti di istruzione e all’impegno delle famiglie, in molte parti della società e del Paese un vero oneroso sacrificio.
I senza scuola, gli analfabeti confessi, i quasi due terzi di adulti e adulte senza licenza elementare e naturalmente anche gli altri scolasticamente più dotati hanno mandato a scuola i loro figli e finalmente anche le figlie. E figli e figlie di decennio in decennio hanno affollato le aule, hanno preso la licenza elementare, poi, con gli anni Ottanta del Novecento, hanno cominciato a prendere quasi tutti la licenza media. E con gli anni Duemila i e le nipoti dei senza scuola si sono spinti oltre, fino a conquistare il diploma mediosuperiore in percentuali cresciute ormai oltre il 75% delle classi anagrafiche.
Scolasticamente sviluppati
Il progresso della scolarizzazione tra le classi giovani ha mutato un po’ alla volta la fisionomia scolastica della intera società. I non scolarizzati sono ormai pochi punti percentuali. L’indice di scolarità è cresciuto in tutto il mondo. Rispetto al 1950 l’indice di scolarità dei Paesi sottosviluppati è salito da due o tre anni a sei anni, nei Paesi sviluppati è salito da sei o sette a dodici, tredici anni. In Italia nel primo decennio del nuovo millennio l’indice di scolarità ha raggiunto i 12 anni. L’Italia ha fatto dunque più di altri Paesi: è uscita dalla fascia dei Paesi sottosviluppati ed è saltata nel gruppo dei Paesi scolasticamente sviluppati.
La scuola ha saputo raccogliere la spinta popolare, ha saputo accogliere figli e nipoti dei senza scuola cercando di portarli alla conquista di saperi intellettualmente complessi. Insomma la scuola si è mossa secondo il dettato costituzionale. Possiamo dunque dire che ormai l’articolo 38 ha esaurito la sua carica programmatica e propositiva? Cerchiamo di capire se ci sono chiusure che occorre rimuovere perché la scuola, come la Costituzione chiede, sia davvero aperta a tutti e risulti quindi all’altezza dei compiti e delle richieste che promanano dalla vita e dai problemi della società di oggi.
Chiusure e disattenzioni
Non sono poche le strozzature e le gravi disattenzioni che impediscono alla scuola di essere pienamente, effettivamente aperta anzitutto a tutti i suoi principali destinatari tradizionali: bambini e bambine, adolescenti, giovani. Vediamo alcuni casi salienti.
(1) I disabili, nonostante l’impegno encomiabile che il Paese ha avuto rispetto ad altri europei, non hanno ancora i necessari supporti didattici e edilizi.
(2) Mancano i necessari supporti didattici anche agli alunni di aree di antica e misconosciuta alloglossia e
(3) mancano soprattutto ai figli di famiglie di origine straniera segnati anch’essi dall’alloglossia dell’ambiente.
(4) Difetta o manca del tutto il tempo pieno generalizzato che è una necessità sociale nella scuola di base per figli di famiglie monoparentali o con madri che lavorano ed è una impellente necessità anche culturale in tutte le aree e fasce sociali depresse per cattive condizioni economiche o bassi livelli di istruzione di famiglie e ambiente.
(5) Manca nella scuola media superiore, la secondaria di secondo grado, quel ripensamento radicale di metodi e programmi da gran tempo inutilmente richiesto: l’impianto, anche edilizio, ma soprattutto didattico e culturale resta quello della scuola riservata a percentuali minoritarie di un Paese contadino concepita a inizio Novecento dai progressisti di allora, avviata a realizzazione da Giovanni Gentile, variamente manomessa nel periodo fascista, ma mai riorganizzata per riuscire a salvare la qualità portando le intere coorti anagrafiche al diploma superiore.
È un obiettivo, quello della unione di massima inclusività degli allievi e massima qualità delle loro competenze, che altri Paesi raggiungono con successo, dal Giappone alla Corea e alla Finlandia: richiede solo investimenti e attenzione alla qualità degli insegnamenti. Purtroppo la scuola media superiore italiana soffre di un’ancora alta percentuale di abbandoni e di un livello penosamente basso delle competenze dei diplomati italiani messi a confronto con i coetanei degli altri Paesi e perfino con le competenze dei fratelli minori, i licenziati della media inferiore: i cinque anni di superiore girano a vuoto. Quella della media superiore per una gran parte dei giovani (si può stimare almeno la metà) è una falsa apertura. Occorre ripensarla radicalmente se si vuole rispettare nella sostanza la Costituzione.
Un sistema chiuso
A tutti i livelli scolastici, ma specialmente nelle superiori e nell’università, nei mediocri livelli di alunni che vengono da famiglie con bassi livelli di istruzione e di cultura si tocca con mano il prezzo che ha la mancanza di una seria organizzazione dell’istruzione degli adulti, che sottragga il più possibile la popolazione adulta a quella lontananza dal tenersi attivi intellettualmente registrata da indagini nazionali e da tre recenti indagini comparative internazionali. Sette adulti italiani su dieci sono sotto i livelli minimi di comprensione di testi scritti e di uso di nozioni matematiche e scientifiche elementari. Una iattura per la scuola e per l’intera vita sociale. Una iattura anche per l’efficienza della produzione e, quando ci sono, degli stessi investimenti produttivi, come qualche governante ha mostrato di ignorare e come invece diversi economisti hanno spiegato a partire dagli anni Novanta. [...]
L’istruzione degli adulti, se si svilupperà, potrà portare a vincere un’altra strozzatura, un’altra mancata apertura. A tutti i livelli, ma specie al livello mediosuperiore, la scuola, intesa anche come edificio scolastico, soffre di scarsi o assenti rapporti con il territorio circostante, il Paese, il quartiere, la loro gente. Esperienze internazionali nelle Americhe, da New York alla Colombia, e nei Paesi sottosviluppati, ma anche esperienze dei maestri di strada a Napoli, dicono quanto è importante per la scuola, per i risultati misurabili del suo impegno, che la scuola si apra e diventi un’accessibile, attraente e frequentata «fabbrica della cultura» per tutti, ragazze e ragazzi, le loro famiglie, la popolazione intorno. Non un corpo estraneo, ma una realtà propria, amica, aperta come ancora chiede la Costituzione.
di Marino Niola (la Repubblica, 22.06.16)
In principio era la fiaba. Lo diceva Paul Valéry condensando in un geniale lampo poetico, secoli di teoria sull’origine di questi racconti pieni d’incanto e di magia. Adesso anche la ricerca linguistica conferma che le fiabe sono antiche quanto il mondo. Perché, da quando hanno preso la parola, gli umani non hanno più smesso di raccontare storie di re e draghi, principesse e sortilegi, animali parlanti e piante pensanti. Lo dice la parola stessa, fabula, che deriva dal verbo latino fari, cioè parlare. E dunque quelle storie che abbiamo tanto amato da bambini - e che riassaporiamo con un pizzico di nostalgia grazie al cinema e alla letteratura - non sono invenzioni recenti. Quei personaggi fatati, le loro azioni e le loro funzioni non sono una cosa libresca.
Sono figlie della tradizione orale. Volano di bocca in bocca da millenni, molto prima che gli scrittori antichi e medievali, e più tardi Charles Perrault, Giovan Battista Basile, i fratelli Grimm, Alexander Afanasiev, Vladimir Propp, Italo Calvino mettessero nero su bianco e le fissassero per sempre.
I primi ad esserne convinti erano proprio Wilhelm e Jacob Grimm, certi che molti di questi fortunati plot narrativi precedessero l’invenzione della scrittura. In fondo il nostro immaginario è stato formattato ab origine, in un tempo così remoto in cui gli uomini si facevano domande su se stessi, sulla natura, sul destino usando la lingua alata della fantasia. Vista così la Bella e la bestia diventa una parabola proto animalista per raccontare il rapporto di attrazione-repulsione tra le specie. E la Sirenetta? È stata scritta nell’Ottocento, è vero. Ma non è tutta farina del sacco del danese Hans Christian Andersen. Perché in realtà sciami di donne pesce, seduttive e trasgressive, surfeggiano da sempre sui mari dell’immaginazione. Stesso discorso per i prìncipi che diventano rospi, o per le zucche trasformate in carrozza. Metamorfosi che esprimono un’idea di mondo che va al di là del principio di realtà: nulla è veramente impossibile, ma tutto è immaginabile. E alla fine la fortuna premia chi spera l’insperabile. Che sia Cenerentola o che sia Pretty woman. E questa è la morale della favola.
Aladino e Cenerentola risalgono all’età del bronzo
Uno studio della Royal Society
C’era una volta nella preistoria... Quanto antiche sono le favole
di Elena Dusi (la Repubblica, 22.01.2016)
La principessa prigioniera nel castello è arrivata dopo. Le fiabe affondano le loro radici in epoche molto più remote rispetto al medioevo di re, streghe e cavalieri. Storie come il Fabbro e il diavolo o la Bella e la bestia, secondo due antropologi delle università di Durham e di Lisbona, venivano già raccontate rispettivamente 6mila e 4mila anni fa, in quell’età del bronzo in cui la vita dell’uomo era ancora prevalentemente nomade e le favole erano trasmesse per via orale, raccontate intorno al fuoco in una lingua antenata degli idiomi indoeuropei e oggi sostanzialmente estinta.
Sulla rivista “Royal Society Open Science”, Sara Graça da Silva dell’università di Lisbona e Jamshid Tehrani dell’università di Durham elencano una cinquantina di favole in cui il “c’era una volta” rimanda alla preistoria. Al nostro patrimonio più antico risalgono il Fabbro e il diavolo e la Bella e la bestia, ma anche Tremotino, Giacomino e il fagiolo magico, il Genio nella bottiglia, Cenerentola, Pelle d’asino, la Pappa dolce, il Giovane gigante, le Tre piume, le Tre filatrici.
Quasi tutte queste fiabe sono finite millenni più tardi nella raccolta dei fratelli Grimm. E proprio Wilhelm e Jacob, a metà Ottocento, furono i primi a suggerire che i racconti di sapore germanico e medievale da loro messi insieme fossero il frutto di una tradizione più vasta e antica. «Credo che le storie tedesche - scriveva Wilhelm - non appartengano solo alla nostra madrepatria ma siano comuni a olandesi, inglesi, scandinavi».
Applicando le stesse tecniche con cui la genetica ha ricostruito l’albero genealogico delle popolazioni antiche, da Silva e Tehrani hanno tracciato le ricorrenze delle favole nelle varie lingue indoeuropee. Il corpus cui hanno fatto riferimento è l’immenso Aarne Thompson Uther Index, un catalogo di duemila trame di racconti fiabeschi di oltre 200 società di tutto il mondo.
«Abbiamo cercato - scrivono gli studiosi le trame delle favole di magia nelle 50 lingue indoeuropee». Una similitudine fra le storie germaniche e quelle indo-iraniane, ad esempio, indica che quel particolare esisteva nel momento in cui i due popoli erano uniti. Poiché questa data è nota grazie agli studi sulle migrazioni antiche, i ricercatori sono risaliti all’antenato comune più antico di ogni fiaba. In molti casi lo hanno trovato più in là di quanto non pensassero, e in un’area molto più estesa di quanto credessero i fratelli Grimm.
«Nel caso della Bella e la bestia e di Tremotino - spiegano ancora i due - alcuni esperti avevano suggerito un’origine mitologica greca o romana. Ma noi abbiamo ritrovato queste storie nel più antico fra gli antenati comuni dei linguaggi indoeuropei». E non è certo un caso, in una fase della storia in cui la metallurgia dava il nome alle epoche, che un elemento ricorrente fosse il fabbro che stringe un patto con il diavolo. «La struttura di questa storia - scrivono i due ricercatori - si ripete in maniera fissa in tutto il mondo indoeuropeo, dall’India alla Scandinavia».
«Sono millenni che ci raccontiamo sempre le stesse favole» conferma Antonio Faeti, primo titolare della cattedra di letteratura per l’infanzia all’università di Bologna. «Il marinaio che non torna, la fanciulla che scappa dall’orco, il mercante che ne sa una più del diavolo sono elementi ricorrenti nelle fiabe di tutto il mondo. Perfino gli indigeni d’America hanno racconti comuni ai nostri. E quando il tedesco Wilhelm Hauff scrisse la Storia del califfo cicogna, nessuno si accorse che l’autore fosse un tedesco anziché un arabo».
Se i due ricercatori di oggi sono riusciti ad assegnare una data alle nostre favole più antiche, lo stesso Italo Calvino nella sua raccolta di saggi Sulla fiaba citava gli studi di Vladimir Propp e si diceva sicuro che le storie di magia risalissero alla preistoria. «Anzi, le fiabe, analizzate e spogliate di tutti gli elementi posteriori, sono il principale e quasi l’unico documento che ci resta di quelle lontanissime età». «Le leggi cambiano, le favole no» riassume Faeti. «Sono il riconoscimento della nostra anima perpetua e hanno la caratteristica di non mentire mai».
La storia della Bella e la bestia deriva da Amore e psiche di Apuleio, fa notare Bianca Lazzaro, che dirige la collana fiabe e storie dell’editore Donzelli e sta riproponendo le raccolte della tradizione dialettale italiana. «Si tratta di un “meme”: l’unità minima di trasmissione culturale delle fiabe di tutto il mondo. Le prove per recuperare l’amato o l’amata e l’odio della matrigna per la figliastra ne sono un esempio». Tutte le favole scritte oggi, secondo lo scrittore Guido Conti, sono in fondo la rielaborazione in chiave attuale di un archetipo ripescato dalla tradizione. «La mia cicogna Nilou si inserisce nella scia dei personaggi che volano. Ma offre elementi moderni, come la solidarietà e l’aiuto offerto a chi fugge da una guerra».
"QUI, QUA, Quo!": "LA FIABA E’ LA FIABA, LA FAVOLA E’ LA FAVOLA, IL ROMANZO DI FORMAZIONE E’ IL ROMANZO DI FORMAZIONE. Note su "Quo vado? (il film diretto da Gennaro Nunziante, interpretato da Checco Zalone)->":
La commedia del comico pugliese supera i 52 milioni di euro di incassi. Ripercorriamo alcuni momenti del film
di Simona Santoni *
Checco Zalone supera Checco Zalone. Ad oggi e in soli 12 giorni Quo vado?, di cui il comico pugliese è sceneggiatore e pieno mattatore, diretto da Gennaro Nunziante, ha superato i 52 milioni di euro di incassi, soglia che era stata sfiorata dal suo precedente Sole a catinelle (fino a ieri il secondo maggior incasso italiano di sempre dopo i 67,7 milioni di Avatar).
I motivi del successo di Quo vado? abbiamo cercato di analizzarli qui. Tanto va alla simpatia di Zalone e alla sua cinica capacità (più o meno scontata) di ritrarre i difetti degli italiani. Ai numeri record avranno però contribuito anche l’invasione delle sale cinematografiche (il film è stato distribuito in oltre mille copie, affollando anche i cinema più piccoli di solito riservati a film d’essai) e l’immotivata maggiorazione dei prezzi del biglietto (un esempio? 9 euro anziché 8,20 nella sala Uci Cinema di Jesi).
Ma... "ce ne fossero tanti che incassano come Zalone!", come ha detto Giuseppe Tornatore presentando il suo nuovo film La corrispondenza.
Ripercorrendo Quo vado?, ecco le 10 battute che ci hanno fatto ridere o sorridere di più (con ovvio rischio di spoiler):
1) Checco (ovvero Luca Medici in arte Checco Zalone), di fronte alla riforma della pubblica amministrazione che decreta il taglio delle province e mina il suo fantomatico posto fisso, si reca a Roma al Ministero per ridefinire la sua posizione. Entra in un ufficio dove ci sono due scrivanie, una occupata da un signore, l’altra da una signora, e si avvicina a quella con l’uomo.
L’uomo alla scrivania: "Deve conferire con la dottoressa".
Checco: "Ho visto che era femmina, ho detto ’è la segretaria’".
Dottoressa Sironi: "E invece sono la dirigente".
Checco: "E tu segretario? ’Do caz’ siamo arrivati!".
2) La dottoressa Sironi (Sonia Bergamesco) spedisce Checco a lavorare nei posti più impensati d’Italia, per indurlo a dimettersi, ma lui ha un estremo spirito di adattamento. Dalla Sardegna chiama Fanelli, il suo ex superiore, per raccontargli del nuovo lavoro.
Checco: "Fanelli, sto da Dio! Praticamente i colleghi mi hanno organizzato questo trattamento che se c’è da fare una cosa, anche una fotocopia, ti dicono ’no, tu non sei capace, lo deve fare il tuo collega’. Come si chiama?".
Fanelli: "Il mobbing...".
Checco: "Il mobbing! Fanelli, come mi rilassa".
3) Trasferito al Polo Nord, accanto alla ricercatrice Valeria (Eleonora Giovanardi), Checco viene aggiornato sullo stato di salute dell’orso polare. Il krill, una delle più grandi fonti alimentari dell’oceano, purtroppo è sempre più inquinato e Valeria e il suo socio Massimo sono preoccupati. Checco non capisce.
Massimo: "Di krill chi si nutre?" (e intanto Valeria indica a Checco sul muro la foto di una foca).
Checco: "Le foche".
Massimo: "E di foche chi si nutre?" (e intanto Valeria indica a Checco sul muro la foto di un orso polare, sotto cui è affissa la foto del presidente della Repubblica).
Checco: "Mattarella?".
4) Checco è innamorato di Valeria, che lo invita nella sua abitazione norvegese per il weekend. Qui Checco scopre che Valeria è una donna molto aperta. Gli fa vedere un album fotografico: in ogni missione in giro per il mondo ha stretto relazioni con ragazzi autoctoni e da ognuno ha avuto un bambino (ha un figlio di colore, una di origini filippine, uno biondissimo norvegese). Sfogliando l’album gli mostra anche una sua precedente fidanzata. Checco rimane basito e continua a sfogliare da solo l’album, finendo tra tante immagini di cavalli. Valeria intanto da un’altra stanza lo chiama.
Checco: "Sì, finisco il periodo equino e vengo".
5) Prima di mettersi a tavola, a casa di Valeria, è di rito la preghiera. Ogni figlio di origini etniche diverse intona a turno una sua preghiera. Quando tocca al più piccolo, il biondissmo norvegese:
Checco: "Tu?".
Il bambino: "Io sono ateo".
Checco: "Ringraziamo a Cristo!".
6) Checco prepara per la famigliola di Valeria ghiotte specialità culinarie del sud italiano. Le porta a tavola ma i bambini stanno per intonare le loro preghiere.
Checco: "No no, questi vanno mangiati caldi. Ve li ho già pregati io".
7) Con alle spalle anni di servizio all’Ufficio Caccia e Pesca in Italia, Checco è un mago nell’aggiustare il distributore automatico del caffè.
Checco: "15 anni di impiego pubblico. Sono le basi. Poi vi spiego come fare a prendere le merendine senza pagare".
8) Checco ha imparato ad ammirare il civilissimo stile di vita norvegese. Ma dopo sei mesi di solo giorno, si succedono sei mesi di sola notte che minano l’umore degli abitanti. In un ufficio pubblico (dove un funzionario si è appena suicidato buttandosi dalla finestra), una signora dagli occhi lucidi e sconsolata dà appuntamento a Checco per l’indomani.
Checco: "Una domanda, signora, lei a che piano abita?", "Primo piano", risponde lei. "Allora vengo domani", conclude Checco.
9) In Africa, lontana da Checco, Valeria dà una grande notizia al suo uomo.
Valeria: "Sono incinta".
Checco: "Sai già l’etnia?".
10) La neonata di casa Zalone si chiama Ines.
Valeria: "Bello, significa purezza".
Checco: "Anche Istituto Nazionale Ente Statale".
Checco Zalone, dagli sms con Matteo Renzi al pranzo con Silvio Berlusconi: "Zalone starebbe sulle palle anche a me"
di Redazione (L’Huffington Post, 15/01/2016 - ripresa parziale)
Un successo trasversale, senza colori politici. Lo dimostrano gli sms con il premier Renzi e il pranzo a casa Berlusconi.
Forse, come racconta lui stesso in un’intervista a "Sette", Checco Zalone ha un solo difetto, un’eccessiva indulgenza verso gli italiani e i loro vizi. "È vero - dice a Vittorio Zincone - Di questo schifo che siamo noi italiani, penso che qualcosa vada salvato. È il motivo per cui ho successo. Non mi piace puntare il ditino dall’alto di un piedistallo".
Eppure, ormai, Zalone con Quo Vado?, è entrato prepotentemente nell’Olimpo del cinema italiano, quantomeno per i numeri strabilianti registrati ai botteghini, numeri che fanno da cassa di risonanza a un talento ormai appurato, attirando anche l’interesse del premier, che non nasconde di essere un suo fan.
Ma nella vita di Zalone non ci sono solo sms da Palazzo Chigi, ma anche un pranzo ad Arcore.
Poi il racconto della sua "storia" con Gennaro Nunziante, il regista con cui hai realizzato i suoi film.
Inevitabile un rapido passaggio sugli incassi delle pellicole: 14 milioni con Cado dalle nubi, 43 con Che bella giornata, 52 con Sole a catinelle, con Quo vado? più di 60.
Infine i complimenti da parte del ministro della Cultura Dario Franceschini e del regista Gabriele Muccino, entrambi concordi sul fatto che Zalone serviva al cinema italiano perché i soldi degli incassi possono essere spesi per finanziare film belli. Il pugliese si diverte.
Spiace che neanche la sinistra misuri la democrazia con la libertà delle donne
di Susanna Camusso (The Huffington Post, 12/01/2016)
Ho una convinzione irremovibile: la libertà delle donne è metro di misura della democrazia. Non da oggi, non dalla notte di Capodanno, ma da quando ho preso coscienza penso che la libertà non sia uguale a quella degli uomini se le donne sono considerate un corpo di proprietà altrui, sganciato dalla loro testa che... Non esiste.
Convinzione che si rafforza quando nei conflitti, anche in quelli più recenti, ho visto, sentito, capito che si ripetevano azioni di guerra condotte sui corpi delle donne; quando ho seguito con ammirazione le donne di Kobane; quando mi sono indignata perché siamo pronti a onorare le vittime del terrorismo in tutto il mondo, ma poi dimentichiamo le ragazze rapite, convertite a forza, stuprate e uccise da Boko Haram, come fossero altro, diverse dagli altri morti.
La libertà delle donne è metro di misura della democrazia, ha la stessa forza degli altri fondamenti democratici? No, né per la destra, né, spiace dirlo, per la sinistra. Ricordo ancora il dibattito sulla rivoluzione iraniana, quando il ritorno al velo, i limiti all’istruzione, i guardiani o la Shari’a erano considerati conseguenze secondarie ed ininfluenti. Sbagliavamo. Per questo "Colonia", al di là delle ricostruzioni, mi chiama in causa perché di aggressione alla libertà delle donne si tratta. La sostanza non cambia se si è trattato di aggressione organizzata, collettiva, preparata o meno. L’aggressione alle donne è aggressione alla libertà delle donne.
Certo si sprecano in queste ore le classificazioni, atto di guerra, scontro di civiltà, terrorismo e per ognuna possiamo trovare motivazioni per negarle prima di tutto perché ciascuna di quelle pone la l’interpretazione e la giustificazione fuori di noi, della cultura europea. Sottintende che solo ad "altri", di una differente cultura o ancor di più di religione diversa, la libertà delle donne fa orrore e mette paura. Come dire che in Europa le donne sono considerate sempre inviolabili. Purtroppo, milioni di statistiche, fatti, evidenze, racconti, spiegano l’opposto.
Per questo è odioso, strumentale e anche insopportabile che si leghi quanto avvenuto a Colonia direttamente all’immigrazione o ai rifugiati. È salvifico per gli uomini, per l’intera cultura europea, per la finzione di non sapere cosa succede, con infinita frequenza, tra le mura delle nostre case. Anche non ritrovandomi in quelle definizioni penso comunque che sia indispensabile approfondire la riflessione. Lo scopo evidente è la proprietà e la trasformazione in oggetti dei corpi delle donne diffondendo paura. La paura è lo scopo precipuo del terrorismo. Cambia i comportamenti, genera richiesta di sicurezza, protezione e favorisce l’idea che per difendersi si possa limitare la libertà. Paura e modifica dei comportamenti mettono in forse la civiltà, come noi la intendiamo, fondata sulla libertà, esercitabile perché sancita dai principi democratici.
Fu faticoso alzare la voce sugli stupri di piazza Tahrir. Fu difficile perché per molti, troppi, veniva prima l’importanza di una lotta per la democrazia che la libertà e la sicurezza delle donne, senza neppure domandarsi che democrazia possa essere quella che può fare a meno della libertà di metà del mondo Molte domande suscita "Colonia" e molto ancora c’è da riflettere, non nel silenzio ma provando ad aprire un dibattito pubblico sul che fare, su cosa chiediamo a noi stesse e a noi stessi per affermare la piena libertà delle donne e, certo, anche sull’integrazione e sui modelli di accoglienza, su ciò che chiediamo a chi arriva per avere asilo e futuro. Dobbiamo riflettere su come rendere esplicita e inviolabile la libertà delle donne, senza dare per scontato, perché non lo è, che il nostro modo di essere sia rispettoso della loro libertà, della loro autodeterminazione, della loro libertà di scelta. Poi, dobbiamo porci la domanda, non ultima, se la religione, sfera privata per eccellenza, sia parte di questo ragionamento.
Penso che per troppo tempo abbiamo finto che non lo sia, che non ci sia relazione tra laicità dello Stato e libertà delle persone. L’Islam che si fa Stato, che applica la Shari’a (e non mi riferisco solo a Daesh), che vuole determinare la proprietà e la sottomissione delle donne a un uomo, non può più essere un problema di altre, delle donne musulmane prime vittime di questa radicale confessionalizzazione della politica e del governare. Mondi paralleli non esistono, nonostante le politiche d’integrazione siano state spesso questo. È una condizione che riguarda tutti e tutte perché se condividi spazio e tempo non possono esistere isole separate e intangibili.
La lunga strada della laicizzazione e della della secolarizzazione dello Stato e dei governi è un patrimonio - ancora incompiuto - della cultura europea e non solo. Che sia Colonia, Delhi o Raqqa è al centro di un conflitto e di uno scontro che è tuttora in corso e che coinvolge il mondo intero.
Visioni
C’era una volta un re, una pulce e la regina
Cinema. In concorso al prossimo Festival di Cannes, «Il racconto dei racconti», il nuovo film di Matteo Garrone, si ispira a «Lo cunto de li cunti» di Giambattista Basile. Cast internazionale, da Salma Hayek a Toby Jones, è una magnifica riflessione sul potere dello sguardo
di Cristina Piccino (il manifesto, 09.05.2015)
C’era una volta un re. E una regina. Nel loro castello però non arrivava la principessina, quella a cui le favole spesso riservano un destino crudele e che alla fine viene sempre salvata dal cavaliere azzurro bello e senza paura ... Per avere un figlio la Regina (Salma Hayek) e il Re (John C.Reilly) sono disposti a tutto ma un desiderio così violento li avverte un diabolico Calibano (Franco Pistoni) potrebbe avere conseguenze terribili.
C’è poi una principessa (Bebe Cave) che sogna il grande amore, e il matrimonio con l’abito più bello fantasticando sulle avventure di Lancillotto. Il padre re (Toby Jones) è troppo preso da una pulce per preoccuparsi di lei, e a causa di questa insana attrazione la ragazza conoscerà un tragico destino.
Ci sono due sorelle anziane che tingono stoffe, una di loro ha la voce di fanciulla, e il re (Vincent Cassel) se ne invaghisce un’alba dopo i suoi festini lui che è divorato dalle ragazze in fiore. La donna si nega e accende ancora di più il suo desiderio ma quando scoprirà, dopo una notte di sesso, che è una vecchia la farà gettare disgustato dalla finestra.
Lo Cunto de li Cunti scritto da Giambattista Basile nel Seicento (in napoletano) raccoglie cinquanta fiabe, le più antiche d’Europa, fonte di ispirazione per Grimm e Andersen, e di queste Matteo Garrone ne ha scelte tre, La vecchia scorticata, La pulce e La cerva fatata che scivolano l’una dentro l’altra, come vuole la narrazione orale nel suo nuovo film, Il racconto dei racconti, Tale of Tales, in concorso al prossimo Festival di Cannes, e in sala il 14 maggio.
Una fiaba paurosa come sono tutte le fiabe, e come con accenti diversi tutti i suoi «fiabeschi» film visto che è il sentimento umano nel profondo di pulsioni archetipe e immutabili, paure e desideri, fragilità e violenze che il regista esplora, qui spogliato dalla temporalità e dalla contigenza, immerso nel paesaggio del Mito. In cui si mescolano horror e fantasy, che della fiaba sono le declinazioni intime, la bellezza potente di una pittura preraffaellita, eccentrica intuizione della metamorfosi barocca (ovidiana) che attraversa l’universo delle storie: umani e «mostri» si scambiano le fattezze, pulci giganti e cuori di drago danno forma a egoismi e indifferenza, piaceri proibiti e riti di passaggio, sussulti di follia e romanzi crudeli di formazione.
Lui, Garrone, si muove tra le sue visioni come un acrobata sul filo teso alla perfezione, saldo, senza cedimenti, col respiro potente e sensuale delle sue immagini. Siamo fuori del tempo, in castelli stagliati contro un cielo blu che possono essere oggi o un passato remoto, geometrici labirinti di un sentimento che ripete sé stesso all’infinito nei nostri incubi e nelle nostre ossessioni. Intorno boschi pànici dove strane creature, divinità ma non dei si divertono a ingarbugliare il corso delle cose, e a stuzzicare gli umani nelle debolezze.
Garrone «degenera» i generi, spiazza lo sguardo e il cuore conducendoci lentamente nell’Edipo della nostra umanità. La sua «traduzione» del Racconto dei racconti - nella sceneggiatura scritta insieme a Massimo Gaudioso, Edoardo Albinati, Ugo Chiti - è una favola sul potere dell’immaginario che produce regole, gender, modelli, desideri, e che solo dal «di dentro» può essere spiazzato, reinventato con una ribellione del corpo e dell’anima. L’esaltazione fanatica della bellezza giovane e perfetta, perché solo questo vale, non una semplice voce, non una storia ma essere come lo sguardo del Re desidera dopo avere provato a ingannarlo. Lui che in fondo è già vecchio e come certi sovrani dei nostri giorni si circonda di ragazze e orge. Ma quale beffa è il tempo che nessuna magia può fermare, quello biologico almeno, eppure per essere giovani le due sorelle sono disposte a sacrificare anche chi amano, a incollarsi il corpo (prototipo della chirurgia plastica), a farsi scarnificare.
Ed è un romanzo di formazione, quella necessità violenta di uccidere i genitori, seppure in modo inconsapevole (inconscio), la madre che sovrasta e considera un pezzo di sé il figlio principe albino e che al tempo stesso è pronta a farsi uccidere per lui. Si può essere liberi in altro modo?
Ma soprattutto Il racconto dei racconti - dedicato a Nico (Garrone) papà del regista, coltissimo critico e uomo di teatro, e a Marco (Onorato) il suo padre cinematografico - è un film commuovente sul femminile che questo Potere dell’uomo e della tradizione (e dell’inconscio) cercano di conformare ai propri voleri, specchio di un desiderio, ciò che le donne devono essere, vergine, sposa, giovane e bella, madre fino alla follia e alla morte, figlia devota pronta a sacrificarsi per il protocollo del regno, il volere di un padre il cui sguardo è più attratto da un insetto. Sono le donne in diverse età, forse persino una donna sola, le protagoniste di queste storie e del film, i personaggi su cui si concentra il regista, le sole che possono destabilizzare lo sguardo e gli immaginari producendo mutazioni imprevedibili.
Il limite è sempre lo scontro con quel potere (sguardo), quando sottrarsi e come ribaltarlo. A uccidere l’orco non arriva nessun principe azzurro, l’orco si uccide da sola sia esso un padre orrendo nella sua indifferenza, che stupra il sentimento, o un uomo violento che la giovane principessa, novella Salomè dopo essersi ribellata al suo destino potrà essere regale.
Non c’è a ben vedere tanta distanza tra questo film ed altri di Garrone, penso a L’imbalsamatore, Gomorra o il precedente Reality. Anche lì nonostante la «cronaca»e i riferimenti alla realtà la macchina da presa del regista spostava il suo punto di vista addentrandosi nell’immaginario, nella rappresentazione di sé conforme ai «modelli» - i ragazzini scorsesiani di Gomorra - nelle proiezioni su qualcuno o su qualcosa di un desiderio originario e collettivo, fosse pure rinchiudersi nella Casa del Grande Fratello.
Cià che cambia è la forza delle sue immagini, a ogni film sempre più sorprendenti, talento di un regista unico in Italia a avventurarsi in un terreno aperto e così sontuoso. E non è questione di effetti speciali ma di dosaggi tra emozionalità e luce (a cui il geniale Peter Suschitzky trova perfetta corrispondenza), ritmo (il montaggio di Marco Spoletini), piacere discreto di un festo d’amore. Con «trucchi» quasi artigianali (e ovviamente raffinatissimi), omaggio al cinema di Bava, dice Garrone, ma anche a quello dei baracconi e dei circhi, alle fantasie lunari di Mèliés coi suoi draghi e i suoi viaggiatori spaziali.
Il Racconto dei racconti è un film magnifico, un’esperienza dei sensi dentro a quel cinema «grande» senza la retorica pretenziosa di dichiararsi tale, con la bellezza pura di una sfida.