LA DOMANDA DI UN ITALIANO:
E’ PREFERIBILE "RISURREZIONE" O "RESURREZIONE"?
RISPOSTA:
Vanno bene entrambi. Ma! Ma...
Ma siccome qui (in modo latente e sottile) è in gioco anche la Costituzione della Repubblica Italiana e lo stesso Messaggio Evangelico, e la nostra - di tutti e tutte sovranità (e sacerdotalità - con don Milani, ricordiamo anche Lutero e la Riforma: rimettiamo insieme i pezzi), per memoria sonora (di significante e di significato) - è da preferire (con il conforto di Michele Arcangelo e di Melchi-tzedech, come di Mosè, di Elia, e Gesù...) è preferibile
RE-surrezione!!!
Una ri-surrezione che è - più propriamente - una re-surrezione, la Resurrezione di Gesù, e la re-stituzione della Libertà a ogni essere umano, a ogni cristiano e a ogni cristiana - della libertà dalla schiavitù e dalla morte!!!
PASQUA: CHE COSA RICORDIAMO?
RICORDIAMO (e rin-grazia-mo) che L’AMORE è PIU’ FORTE DI MORTE (Cantico dei cantici: 8.6)!!!
Se no, che ricordiamo?! La nostra totale generale stupidità, ma non la nostra fondamentale sovranità e sacerdotalità?! Auguri all’Italia e a tutta la Terra - all’intera umanità.
(Federico La Sala, 07 aprile 2012)
FLS
CON LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DELLA #COMMEDIA, AL DI LA’ DELLA #TRAGEDIA:
CON DANTE, SHAKESPEARE, MARX ...
IN EUROPA, almeno a partire dal ""qualcosa di marcio nello stato di Danimarca" (Shakespeare, #Amleto, I. 4), "The time is out of Joint" (#Hamlet, I. 5). E, con #Dante Alighieri, Marx (da #Londra, 1859) già sollecitava fin dalla #Prefazione "Per la #Critica della #economiapolitica", ad uscire da un #letargo (Par. XXXIII, 94) di un tragico "#dissesto" di millenni:
Note:
IL SORGERE DELLA TERRA, DALLA LUNA. UN OMAGGIO ALLA #MEMORIA DI GALILEO GALILEI.
"LA DISCESA AGLI INFERI", #30MARZO: #SABATOSANTO" DELLA #PASQUA2024.
#DANTE2021 #DivinaCommedia, #oggi. Nel #Cielo di #Marte, #Dante in #Paradiso (Pd XIV-XV): problemi di #genealogia e di #rinascita - la visione della #croce (#albero di Jesse) e l’incontro con #Cacciaguida:
Albero di Jesse *
L’albero di Jesse (o Iesse) è un motivo frequente nell’arte cristiana tra l’XI e il XV secolo: rappresenta una schematizzazione dell’albero genealogico di Gesù a partire da Jesse, padre del re Davide, il quale è di particolare importanza nelle tre religioni abramitiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Origine
Il tema iconografico trae spunto da un famoso annuncio messianico contenuto nel capitolo 11 del libro del profeta Isaia (11,1.10) [1] da cui ha origine il suo nome greco [2]. Gli artisti combinarono la frase con la genealogia di Gesù come appare nel vangelo secondo Matteo [3] o secondo il Vangelo di Luca (3, 23-38)[4], genealogie che tuttavia presentano vistose differenze.
La più antica rappresentazione conosciuta dell’albero di Jesse è datata 1086, e compare nel Codice Vissegradesi, vangelo dell’incoronazione di Vratislao II di Boemia[5].
Iconografia
Jesse viene solitamente rappresentato coricato, semi-coricato o nell’iconografia meno antica seduto[6][7]. Nell’arte romanica, solitamente, egli è rappresentato coricato all’aperto mentre in quella gotica appare più spesso dentro ad un letto riccamente adornato, come nelle vetrate della chiesa di Saint-Étienne a Beauvais che datano al 1520.
Spesso Jesse appare addormentato, la testa appoggiata su una mano. Questa posizione è, a volte, associata ad un sogno profetico concernente la discendenza del dormiente. Dal suo fianco o dal suo ventre o anche dal dorso[7] o più raramente dalla sua bocca, s’innalza un albero i cui rami sorreggono gli antenati di Gesù, in particolare Davide riconoscibile per la sua arpa, fino a Maria. Le vetrate della cattedrale di Chartres rappresentano, dal basso in alto Davide, Salomone, Roboamo, Abias ed infine Maria. Ogni artista, a seconda del testo che ha utilizzato, del proprio gusto e dello spazio che ha a disposizione, aggiunge altri personaggi dell’Antico Testamento, spesso i profeti che gli esegeti del Medioevo pensavano avessero annunciato la venuta di Cristo (sono quattordici sulle vetrate di Chartres). Alla sommità si trova Gesù, a volte in croce, a volte bambino, sulle ginocchia della madre.
Nel XIII secolo, l’albero si sviluppa verticalmente, ed è solo nel XV che comincia a ramificarsi lateralmente[6]. Ancora presente nell’iconografia cristiana del XV sec., il motivo declina nel XVI per scomparire con la Controriforma[6].
Esistono naturalmente anche altre forme di rappresentazione della genealogia di Gesù, che non utilizzano l’albero di Jesse, il più famoso è quello dipinto nelle lunette della Cappella Sistina da Michelangelo tratto dal Vangelo secondo Matteo[8].
I supporti
L’albero di Jesse è stato un motivo popolare in tutte le arti: si trovano esempi nei manoscritti miniati, le stampe, le vetrate, la scultura monumentale, gli affreschi, le tappezzerie o nei ricami[6].
Manoscritti
Il motivo appare in parecchie bibbie romane, ad esempio nella Bibbia di Lambeth, sotto forma di una B maiuscola decorata all’inizio del Libro di Isaia o del vangelo di Matteo. La bibbia di San Benigno, del XII secolo, una delle più antiche che ci sono pervenute, mostra Jesse e le sette colombe rappresentanti i sette doni dello Spirito Santo[9]. La bibbia dei Cappuccini (ultimo quarto del XII sec.) conservata nella Bibliothèque nationale de France ne è un altro esempio, l’albero di Jessi decora la L maiuscula del Liber generationis nel vangelo di Matteo[10].
Poiché il re Davide era considerato l’autore dei Salmi, i salteri erano sovente illustrati con un albero di Jesse, soprattutto i manoscritti inglesi, dove l’albero di Jesse s’arrotola attorno alla B maiuscola del testo latino Beatus Vir all’inizio del primo salmo. Uno dei primi esempi è il salterio di Huntingfield, della fine del XII secolo. La British Library possiede un bellissimo salterio del XIV sec., detto di Gorleston. In questi due esemplari Jesse è allungato ai piedi della lettera B. Si potrebbero citare ancora il salterio di Macclesfield (Fitzmuseum, Cambridge) ed il Salterio e le Ore del duca di Bedford [11].
Alcuni manoscritti consacrano una pagina intera al motivo, aggiungendovi personaggi, per esempio la sacerdotessa di Apollo Sibilla Cumana del salterio d’Ingeburg (inizio del XII sec.). Presso Colonia, in un lezionario di prima del 1164 si descrive un Jesse insolito, morto in una tomba o bara, da cui l’albero cresce[12].
Una prestigiosa rappresentazione dell’Albero di Jesse si trova nella cappella Roano (voluta dall’Arcivescovo Giovanni Roano), detta cappella del Crocifisso, sita all’interno del Duomo di Monreale in Sicilia.
Evoluzione
L’albero di Jesse, contaminato dalla popolarità del tema della parentela santa si modifica fino a diventare, a partire dal X secolo, il modello da cui deriveranno le successive rappresentazioni degli alberi genealogici[13] e in particolare per sintetizzare figurativamente la genealogia delle famiglie reali[14].
Per Tilde Giani Gallino l’albero di Jesse dell’abbazia di Saint-Denis rappresenta, dissimulato, un fallo di dimensioni sproporzionate. Questa rappresentazione è risultato dell’inconscia compensazione del suo ideatore, l’abate Sugerio, che - sfavorito dalla natura, causa imbecille corpusculum - proiettò, tramite quello che per lui era simbolo di forza e autorità, la sua «volontà di potenza».[15][16]
L’immagine dell’albero che nasce direttamente dal fianco di Jesse, affermatasi nei secoli XI-XII, ha una sconcertante analogia con la scena in cui si vede Brahmā seduto su un loto che esce dal ventre di Viṣṇu, secondo i testi sacri Veda. Nell’arte romanica i personaggi sono collocati direttamente sui rami e non nei calici dei fiori come avverrà dopo un paio di secoli, analogamente a quanto rappresentato nelle sculture buddhiste in Birmania, Cambogia, Cina ed altre parti dell’Estremo Oriente. Queste immagini si ritrovano a Worms, Issoudun (cappella dell’Ospedale), Rouen (cattedrale), Sens (cattedrale).[17]
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale, senza immagini e senza note).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI"... DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura.
FLS
MEMORIA DI UNA TRASGRESSIONE FEMMINILE. Le resurrezioni di Agar, di Anna, di Sara, di Noemi.... *
La fedeltà e il riscatto.
Noemi la migrante si alzò
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 3 aprile 2021)
«Al tempo dei giudici ci fu nel paese una carestia...» (Rt 1,1). Nei pochi versi del Libro di Rut ogni nome è un messaggio. Come in una miniatura medioevale, il capolavoro nasce dalla cura dei dettagli. Al tempo dei giudici... Il libro dei Giudici descrive un tempo di violenza e di soprusi, e si chiude con il racconto - tra i più tremendi della Bibbia - dell’omicidio perpetrato da uomini di Gadaa nei confronti di una donna di Betlemme (Gdc 19,29).
Il Libro di Rut inizia con un’altra donna di Betlemme: Noemi (o Naomi). La Bibbia va letta tutta insieme, perché, come nella vita, il senso di una parola lo si trova anche in un’altra, anche lontana. Ci fu nel paese una carestia. Nella Bibbia le carestie non sono soltanto eventi climatici. Sono anche teofanie, parole di Dio. Una carestia condusse Abramo in Egitto, un’altra ci portò i figli di Giacobbe e lì avvenne la grande riconciliazione con il loro fratello Giuseppe. Spesso una carestia è dolore che prepara una resurrezione. È un dolore che ci costringe a uscire da una terra che senza quel dolore non avremmo mai lasciato. Nella Bibbia qualche volta le persone partono inseguendo una voce; altre volte partono inseguendo acqua a pane. Per poi scoprire, ma solo alla fine, che dentro quel dolore che li aveva fatti fuggire di casa c’era lo stesso amore. Ma per capirlo c’è voluto tutta la vita, a volte quella di molte generazioni.
«E un uomo con la moglie e i suoi due figli emigrò da Betlemme di Giuda». Una famiglia emigra. Ancora non sappiamo i loro nomi, ma subito sappiamo il nome della città colpita dalla carestia: Betlemme. Quel nome però non sta facilmente accanto alla parola carestia.
Betlemme, lo sappiamo, significa "casa del pane". Quella famiglia per una carestia lascia la casa del pane, va a cercare il pane lontano dalla sua casa. Eccoci dentro un primo paradosso. Erano già dentro la casa del pane e la lasciano per il pane. Ma quella famiglia, diversamente dalle altre grandi migrazioni bibliche, non va in Egitto, dove il ciclo delle acque del Nilo era più forte delle carestie.
Va in un luogo improbabile, un nome quasi impronunciabile per gli ebrei del tempo: «nei campi di Moab». Va dai moabiti, che insieme agli ammoniti erano tra gli storici nemici di Israele. Un popolo, poi, che portava iscritto nella sua storia proprio il segno del pane e dell’acqua: «L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore... Non vi entreranno mai, perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino, quando uscivate dall’Egitto» (Dt 23,4-5). Non vi vennero incontro con il pane: perché allora andare a cercare pane là dove il pane era stato negato? La tensione cresce...
«Quest’uomo si chiamava Elimélec, sua moglie Noemi e i suoi due figli Maclon e Chilion; erano Efratei, di Betlemme di Giuda. Giunti nei campi di Moab, vi si stabilirono" (Rt 1,2). Elimélec, cioè il mio Dio (Eli) è re (mélec). Anche qui un nome che parla: quell’uomo migrante porta con sé il legame con quel suo Dio diverso. I nomi dei suoi due figli maschi sono invece nefasti e cupi, traducibili come "malattia" e "tubercolosi" (o "esaurimento").
Nella Bibbia il numero due per i figli in genere non porta bene, a partire da Caino e Abele, passando per Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Rachele e Lia, fino al rapporto tra il figliol prodigo e suo fratello - tanto che André Gide ha voluto immaginare, nella parabola di Luca, un terzo figlio minore, e una madre ("Il ritorno del figliol prodigo"). Due è anche il numero dell’invidia, della rivalità, del conflitto per ottenere il riconoscimento, per l’eredità e la primogenitura. Nella Bibbia il due non è ancora il numero della buona fraternità - e nessun numero lo è se la fraternità non genera un legame più grande di quello del sangue.
E vi si stabilirono. Vissero a Moab da "migranti". Il verbo gûr (emigrare) e il sostantivo ger (migrante) sono parole di casa nella Bibbia o, meglio, "di tenda". Vivere in un paese straniero da ger è una buona condizione. In Israele, ad esempio, il ger osservava il Sabato e partecipava alle principali feste. Non sappiamo come fosse la condizione giuridica del ger presso i moabiti, ma non è da escludere una condizione analoga a quella in Israele ("Rut", Donatella Scaiola, Paoline). Una parola, ger, che al lettore biblico ricorda poi direttamente Abramo: «Io sono uno straniero (ger) residente ospite in mezzo a voi» (Gn 23,4). Abramo abitò la terra promessa da ger, a dirci che la condizione di migrante è la condizione umana, che nessuna terra promessa è per sempre.
Nella Bibbia ogni migrazione è continuazione di quella dell’arameo errante, che non ha mai smesso di errare, che ha sempre custodito una nostalgia spirituale profonda per quella casa nomade, libera e povera. Il libro di Rut è molte cose, ma è anche una grande riflessione sulla dimensione nomade della vita, che ci porta a cercar pane lontano dalla casa del pane, poi ci fa tornare, per ripartire ancora inseguendo, come la cerva, altre piste dell’unica vita, che è vera perché provvisoria.
«Poi Elimélec, marito di Noemi, morì ed essa rimase con i suoi due figli» (Rt 1,3). In quella nuova situazione di residenti-migranti a Moab accade un primo evento traumatico. Muore Elimélec. Nel morire viene definito "marito di Noemi". Prima era Noemi la "moglie di Elimélec", ora l’uomo è il marito di Noemi, un’espressione rarissima in quelle culture patriarcali, ma che sta bene in un libro al femminile. Il Midrash aggiunge una bella nota su questa definizione: «La morte di un uomo non è sentita da nessuno tranne che da sua moglie» (Midrash Rabbah del libro di Rut, Parashah Beth).
Non sappiamo come e perché morì il marito di Noemi. Ciò che è certo è che gli uomini iniziano, uno alla volta, a sparire. «I figli sposarono donne moabite: una si chiamava Orpa e l’altra Rut» (Rt 1,4). Sposare, per due ebrei, delle donne moabite non è un dettaglio secondario. La Legge di Mosè, lo abbiamo visto, non permetteva ai moabiti di diventare membri della comunità di Israele. Ancora il Midrash dà una sua lettura: «Moabita (maschile) ma non moabita (femminile)». Quel divieto allora non valeva per le donne?
Quel mondo patriarcale tutto incentrato sulla legge dei primogeniti maschi, aveva sviluppato delle norme che attenuavano e contrastavano questa legge ferrea. La storia della salvezza è infatti intersecata da primi figli non eletti (Caino, Esaù...) e da ultimi che vengono scelti (Giuseppe, Davide...). E ora vediamo donne che riescono a violare addirittura la Torah di Mosè.
C’è una tipica trasgressione femminile. Accanto alle trasgressioni di tutti, maschi e femmine, c’è quella che si insinua nelle intercapedini delle leggi scritte da maschi, nei pertugi di regolamenti pensati e voluti da e per un mondo maschile. Le donne, quasi sempre ospiti di comunità non disegnate da loro, hanno dovuto imparare a sopravvivere infilandosi, spesso di nascosto, in quelle zone grigie e ambivalenti delle leggi, approfittando del non-detto e del non-esplicitato. E qualche volta togliendo quel sassolino dal muro per vedere oltre attraverso un foro, o gettando un seme tra le pietre di un muro a secco. Quel muro qualche volta poi crolla, magari senza averlo voluto - volevano solo vedere un altrove, solo piantare un fiore. C’è una sovversione discreta della legge, un "rovesciare i potenti dai troni" diverso, dove i potenti cadono quasi senza accorgersene.
«Abitarono in quel luogo per dieci anni. Poi morirono anche Maclon e Chilion, e la donna rimase senza i suoi due figli e senza il marito» (Rt 1,4-5). Rimase «come il resto dei resti dell’offerta del pasto» (Parashah Beth). Passano dieci anni (di matrimonio? o di residenza a Moab?), e poi muoiono anche i due figli di Noemi, per di più senza lasciarle nipoti - il testo non lo dice ma il contesto lo suggerisce, come suggerisce una sterilità delle due nuore: dieci anni fu il termine che portò Sara a far unire Abramo con la sua schiava Agar. La vita le lascia solo due vedove: Noemi ha una compagnia tutta femminile. L’economia del racconto ha eliminato i tre uomini dalla scena, e in un libro fatto quasi solo di dialoghi, quegli uomini sono entrati e usciti senza dire neanche una parola. Un campo sgombrato per far risaltare tre donne, tre vedove.
A questo punto, in questa condizione simile a un Giobbe femminile - ma cui restano accanto due vedove - Noemi riparte: «Allora lei si alzò con le sue nuore e fece ritorno dai campi di Moab» (Rt 1,6).
Noemi ritorna a casa, alla "casa del pane". Torna da sconfitta dalla vita. E noi non possiamo non pensare ai tanti emigrati che ripercorrono lo stesso cammino di Noemi, partiti per vivere, e tornati sconfitti da quella vita che li aveva fatti partire. Per le donne questo cammino a ritroso è ancora più triste e duro, prima durante e dopo.
Lei si alzò. Come Anna, la madre di Samuele, che dopo le umiliazioni e i pianti per la sua sterilità, «si alzò» (1 Sam 1,9). Come il figliol prodigo, che, un giorno, «si alzò» dal suo porcile, e quell’alzarsi fu il primo passo del ritorno a casa. Il libro non ci dice cosa accadde nell’anima di Noemi tra la morte dei figli e il suo alzarsi. Ma deve essere accaduto qualcosa di simile a quello che continuiamo a vedere in tanti uomini, e ancora più spesso in donne. Chissà quante parole le avranno detto Rut e Orpa - le donne sanno consolarsi solo con le parole, come Sharazad nelle "Mille e una notte" sconfiggono la morte parlando - quel logos che vince thànatos è donna.
«Si alzò» è la fine del lutto. Noemi non restò bloccata nel passato, fu capace di non morire anch’essa insieme ai suoi morti - il lutto è forse solo questo, ma lo abbiamo dimenticato. Si alzò, scelse di continuare a vivere. È la resurrezione di Noemi, la resurrezione di tante donne e uomini, ieri e oggi. Se quelle donne e poi gli uomini dell’antica Palestina furono capaci di riconoscere quella resurrezione diversa, è perché conoscevano le resurrezioni di Agar, di Anna, di Sara, di Noemi. Erano tutte lì, insieme, nel primo giorno tutto il sabato, a far festa per il Crocifisso che si era "rialzato". Buona Pasqua.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA
UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. MICHELANGELO E IL SOGNO DEI CARMELITANI SCALZI (Teresa d’Avila e Giovanni della Croce): A CONTURSI TERME, IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (1613) - RECUPERATO CON I LAVORI DI RESTAURO, DOPO IL TERREMOTO DEL 1980
FLS
#DANTE2021
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA:
LA PRIMA “CENA” DI “CAINO” (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE “ABELE”) E L’INIZIO DELLA “BUONA-CARESTIA”(“EU-CARESTIA”)!
NELL’OSSERVARE “L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie” (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE “è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia” (Riccardo Viganò, "Fondazione Terra d’Otranto"), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa “cena”(vedere la figura: “Portata centrale, saliere e frutti”) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della “COMMEDIA”, della “DIVINA COMMEDIA”, e della sua “MONARCHIA”!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso “sonno dogmatico”, mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, “Ubi maior minor cessat”(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Con Wojtyla (2000), oltre. Guarire la nostra Terra. Verità e riconciliazione
FLS
LA FIGURA DI PILATO E IL "PELLEGRINAGGIO" CHE PORTA DANTE A DIVENTARE UN ALTRO CRISTO, A RINASCERE E A RITROVARE L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE... *
Il gran rifiuto (Inf. III 59-60)
di Romano Manescalchi (Independent Scholar),
Princeton.edu, 8 April 2014.
L’intervento di Lanza sul «gran rifiuto» riapre con grande determinazione la discussione riguardo il personaggio cui Dante si sarebbe riferito, discussione ultimamente sopita generalmente in favore di Celestino V.[1] In buona sostanza, ma in una sintesi necessariamente riduttiva, il Lanza evidenzia che l’atto di Celestino V non apparve riprovevole, se non a pochi estremisti, gli spirituali, che con Ubertino da Casale non ritennero valida l’abdicazione di Celestino, mentre generalmente apparve un atto di responsabilità, tanto che la Chiesa lo fece santo. Dante dagli spirituali rimarcò sempre le distanze;[2] ed aggiungerei che, per contro, Dante si trovò a lodare chi è capace di rinunciare ad un incarico per non sentirsi all’altezza, favorendo i meritevoli: «Molti rifiutan lo comune incarco» (Purg. vi 133); e a condannare quanti son sempre pronti a dire, irresponsabilmente, senza un minimo esame di coscienza «I’ mi sobarco» (ivi, 135).
Ma non intendo riassumere qui le sostanziose ragioni con le quali viene riproposta dal Lanza la candidatura di Ponzio Pilato e confutate le ragioni in favore di altri (Esaù, Celestino V soprattutto, Vieri de Cerchi, Giano della Bella, Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo ecc.), né ci sarebbe qui lo spazio per farlo. Qui vorrei solo aggiungere alcune mie considerazioni che vanno nella stessa direzione.
Innanzitutto una considerazione grammaticale e stilistica: «il gran rifiuto» può intendersi, su base grammaticale, in due modi: «quel gran rifiuto, che tutti conosciamo per averlo direttamente constatato», con «il» semplicemente indicativo; e la mente, in questo caso, va ad avvenimenti e personaggi recenti: Vieri di Cerchi, Giano della Bella, Celestino V ecc. Ma può intendersi anche «quel gran rifiuto di cui nessun altro è maggiore, il “gran rifiuto” per eccellenza, per definizione, per antonomasia»;[3] ed alla mente non può ricorrere se non Ponzio Pilato, con «il» che viene ad avere un valore superlativo, “antonomasico”. Ed ora il procedimento di Dante è questo: egli sostituisce i personaggi astratti del poema classico allegorico, semplici e unidimensionali personificazioni - vedi la Psicomachia di Prudenzio - con personaggi tratti dal mondo reale, indifferentemente della storia passata e del mito, o della cronaca dei suoi tempi. E la regola è questa: si sceglie il personaggio che meglio possa rappresentare quel peccato o vizio o virtù, che quel peccato o vizio o virtù lo rappresenti nel modo più eccellente, ne sia quasi la personificazione.
E da questo punto di vista Ponzio Pilato non ha rivali nell’indicare chi non si vuol compromettere, chi si ritira da un suo specifico dovere per viltà. Appartiene alle viscere del nostro linguaggio, da cui continuamente riemerge, il dire: «Ti comporti come Ponzio Pilato. Sei un Ponzio Pilato», come si dice «Sei un Giuda», frasi quasi altrettanto comuni come l’altra parallela del «lavarsene le mani», che comunque è ancor più ricorrente nel comune quotidiano parlare e rafforza in pari grado, o forse di più, le nostre argomentazioni. Dante avrebbe potuto trarre il personaggio esemplare dell’ignavo anche dalla cronaca quotidiana, come fa in tanti altri casi, riempiendo tra l’altro l’inferno con i suoi concittadini. Poteva quindi benissimo ricorrere a Celestino V, come a Vieri dei Cerchi o altri. Ma nessuno di questi personaggi può insidiare minimamente la candidatura di Ponzio Pilato, senz’altro il personaggio più rispondente, più adatto, ad incarnare il prototipo dell’ignavo, come gli riconosce senza obiezione alcuna tutta la nostra cultura, a cominciare, come detto, dal quotidiano parlare.
Vediamo ora il problema nell’economia della Commedia, nella cattedrale che anche è la Commedia, sintesi della storia universale dell’umanità in versione biblico-cristiana. Questa storia universale ha il suo punto centrale nella Redenzione della Croce, nella Crocifissione di Gesù. Non conosco racconto della storia della Crocifissione tante volte fatto dai pittori nelle cattedrali appunto, in cui manchino, accanto a Gesù, Pilato e Giuda. Ed ora Dante riconosce ed esalta i “meriti” di Giuda, dedicandogli a perpetua memoria - addirittura “eterna memoria” nel suo caso - un settore dell’inferno, la Giudecca, che appunto prende da lui il nome, dove anche grandeggia la sua statua vivente in una delle bocche di Lucifero (Inf. xxxiv vv. 61-63). Né è un settore qualunque quello a lui dedicato, bensì il più importante, dove è la reggia del sovrano infernale: diciamo che la Giudecca è la city della città infernale. Non penso proprio che Giuda si possa lamentare del trattamento che Dante gli ha riservato.
Ma lamentare si dovrebbe Pilato di cui non ci sarebbe nella Commedia, se gli togliamo di essere l’innominato di Inf. iii 59-60, niente altro che un fuggevole richiamo a Purg. xx 91 e solo per designare con il paragone con lui il sovrano di Francia Filippo IV. Davvero troppo poco. E se così fosse, dopo il tanto da lui fatto con il suo non far nulla, avrebbe ben motivo di rivoltarsi nella tomba contro un Dante tanto ingrato, dal momento che anche grazie a lui il poeta può fare questo pellegrinaggio[4] di redenzione che è la Commedia e guadagnarsi lui stesso il paradiso, grazie proprio a lui che in compenso del bene fatto (col non far nulla) come allo stesso poeta così a tutti i cristiani, dovrà subire pene eterne nell’inferno, pene che il poeta fiorentino non gli avrebbe nemmeno voluto determinare! E se non è troppo questo!
Dante darebbe a Pilato maggior rilievo a Mon. II xii 5-6: «Si ergo sub ordinario iudice Christus passus non fuisset, illa pena punitio non fuisset. Et iudex ordinarius esse non poterat nisi supra totum humanum genus iurisdictionem habens, cum totum humanum genus in carne illa Christi “portantis dolores nostros”, ut ait Propheta, puniretur. Et supra totum humanum genus Tiberius Cesar, cuius vicarius erat Pilatus, jurisdictionem non habuisset, nisi Romanum Imperium de iure fuisset. Hinc est quod Herodes, quamvis ignorans quid faceret, sicut et Cayphas cum verum dixit de celesti decreto, Christum Pilato remisit ad iudicandum... », dove il ruolo, comunque ragguardevole, avuto da Pilato è riconosciuto a chiare lettere, come anche a Mon. III xv 5 e ad Ep. V 28.
E dunque tanta importanza, quanto a mio avviso gli spetta, Dante dà a Pilato nella Monarchia, l’opera dantesca più vicina, per tematica e mole, alla Commedia, tanta in una lettera, comunque di molto peso come l’Ep. V indirizzata ai reggenti d’Italia, anche se di dimensioni indiscutibilmente minori; e non nominerebbe mai Pilato, direttamente, nella Commedia? A me pare molto, troppo, strano. Il personaggio è onnipresente nell’iconografia cristiana della Crocifissione e sarebbe assente nella Commedia, che è indiscutibilmente il massimo monumento laico della cristianità! È tanto inaccettabile quanto incomprensibile.
Da qualche parte Pilato deve essere anche nella Commedia e se non qui, a Inf. iii 59-60, dove? Nella storia universale della Chiesa (e dell’umanità) - da intendere in chiave biblico-cristiana - il personaggio di Pilato ha un grande rilievo come gli riconosce tutta l’iconografia e, come anche detto, il linguaggio spicciolo quotidiano. Celestino V e gli altri in questa prospettiva sono irrilevanti. Nel quadro specifico poi della Crocifissione, l’elemento centrale di quella storia universale in versione cristiana ed elemento centrale della Commedia che quella storia universale ha per suo sfondo e, direi, addirittura per suo oggetto, Pilato è un elemento addirittura indispensabile come lo è Giuda. Da qualche parte Dante deve averlo messo e il luogo più giusto è senz’altro tra gli ignavi. E se è tra gli ignavi nessuno gli può togliere - sarebbe una vera usurpazione - il diritto di rappresentare la categoria, che riconosce in lui, per il consenso di tutte le genti (cristiane), il suo massimo rappresentante.
Ci sarebbe anche un parallelismo: l’episodio della Crocifissione inizia con Pilato che, pur riconoscendo Cristo innocente, non fa il suo dovere, piegato dalla pressione della folla. E con Pilato posto nell’Antinferno comincerebbe la “crocifissione” di Dante, che ad una “crocifissione” del proprio ego lo porta il suo “pellegrinaggio” al santuario del Paradiso.[5]
Non mi sfugge che Inf. iii 59 - «vidi e conobbi» - crea delle difficoltà. Osserverei che si deve distinguere tra il “riconoscere” del v. 58, immediatamente precedente ed il “conoscere” del v. 59, volendo certo il poeta distinguere «quelli riconosciuti direttamente e quello che gli fu fatto conoscere da Virgilio» (Lanza, op. cit., p. 85) . Prosegue il Lanza: «Se si vuole un chiaro esempio di conobbi in questo senso, si veda il v. 122 del canto iv (ibidem), ovvero «tra quai conobbi Ettòr ed Enea». Vedi anche «sopra “riconosce”, qui “conosce”, vede in faccia» D. Mattalia, ad locum.
[1] Cfr. A. Lanza, Uno specchietto per allodole non previsto da Dante: Celestino V (Inf. iii 59-60, SD, lxxviii, 2013, pp. 45-100.
[2] Vd.: «ma non fia da Casal né d’Acquasparta» (Par. xii 124).
[3] L’espressione «per antonomasia» viene usata anche dal Lanza, op. cit. p. 93, ma riferita a Pilato e non all’espressione «gran rifiuto».
[4] Uso il termine “pellegrinaggio” soprattutto in onore di Vincenzo Barelli, il quale ha dato l’avvio alla interpretazione moderna delle tre fiere come «le tre disposizion che il ciel non vuole», ed è oggi totalmente dimenticato, indegnamente dimenticato visto che la sua scrittura è di alto spessore; vd. L’allegoria della Divina Commedia di Dante Alighieri / esposta da Vincenzo Barelli, Firenze, Galileiana, 1864, p. 64.
[5] Per questo concetto di “crocifissione” dantesca si tenga presente: «Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam» ( Matth. XVI 24); «Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixerunt, cum vitiis et concupiscentiis» (Ad Galatas v 24); «Ego enim per legem, legi mortuus sum, ut Deo vivam; Christo confixus sum cruci. Vivo autem jam non ego; vivit vero in me Christus» (Ibidem ii 19-20). È questo il traguardo che Dante deve raggiungere con la Commedia.
* Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura. della DIVINA COMMEDIA"
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Santa Marta.
Il Papa: si trovino soluzioni a favore dei popoli, non del denaro
Francesco prega perché i governanti e gli scienziati trovino la strada giusta alla crisi causata dal Covid-19, soluzioni che siano a favore della gente
di Vatican News *
Nell’omelia, Francesco ha commentato il Vangelo odierno (Mt 28, 8-15) in cui Gesù risorto appare ad alcune donne esortandole a riferire ai suoi discepoli di andare in Galilea: là lo vedranno. Nel frattempo, annota l’evangelista, i sacerdoti corrompono i soldati posti a guardia del sepolcro, dicendo di riferire che i discepoli di Gesù erano giunti di notte rubando il corpo mentre loro dormivano. Il Vangelo - ha affermato il Papa - propone una scelta che vale anche per oggi: la speranza della resurrezione di Gesù e la nostalgia del sepolcro.
Così, nel trovare soluzioni a questa pandemia, la scelta sarà tra la vita, la resurrezione dei popoli, e il dio denaro. Se si sceglie il denaro, si sceglie la via della fame, della schiavitù, delle guerre, delle fabbriche delle armi, dei bambini senza educazione ... lì c’è il sepolcro. Il Signore, è la preghiera del Papa, ci aiuti a scegliere il bene della gente, senza mai cadere nel sepolcro del dio denaro.
Il Vangelo di oggi ci presenta un’opzione, un’opzione di tutti i giorni, un’opzione umana ma che regge da quel giorno: l’opzione tra la gioia, la speranza della resurrezione di Gesù, e la nostalgia del sepolcro.
Le donne vanno avanti a portare l’annuncio: sempre Dio incomincia con le donne, sempre. Aprono strade. Non dubitano: sanno; lo hanno visto, lo hanno toccato. Hanno anche visto il sepolcro vuoto. È vero che i discepoli non potevano crederlo e hanno detto: “Ma queste donne forse sono un po’ troppo fantasiose” ... non so, avevano i loro dubbi. Ma loro erano sicure e loro alla fine hanno portato avanti questa strada fino al giorno d’oggi: Gesù è risorto, è vivo tra noi. E poi c’è l’altro: è meglio non vivere, con il sepolcro vuoto. Tanti problemi ci porterà, questo sepolcro vuoto. E la decisione di nascondere il fatto. È come sempre: quando non serviamo Dio, il Signore, serviamo l’altro dio, il denaro. Ricordiamo quello che Gesù ha detto: sono due signori, il Signore Dio e il signore denaro. Non si può servire ambedue. E per uscire da questa evidenza, da questa realtà, i sacerdoti, i dottori della Legge hanno scelto l’altra strada, quella che offriva loro il dio denaro e hanno pagato: hanno pagato il silenzio. Il silenzio dei testimoni. Una delle guardie aveva confessato, appena morto Gesù: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. Questi poveretti non capiscono, hanno paura perché ne va della vita ... e sono andati dai sacerdoti, dai dottori della Legge. E loro hanno pagato: hanno pagato il silenzio, e questo, cari fratelli e sorelle, non è una tangente: questa è corruzione pura, corruzione allo stato puro. Se tu non confessi Gesù Cristo il Signore, pensa perché dove c’è il sigillo del tuo sepolcro, dove c’è la corruzione. È vero che tanta gente non confessa Gesù perché non lo conosce, perché noi non lo abbiamo annunciato con coerenza, e questo è colpa nostra. Ma quando davanti alle evidenze si prende questa strada, è la strada del diavolo, è la strada della corruzione. Si paga e stai zitto.
Anche oggi, davanti alla prossima - speriamo che sia presto - prossima fine di questa pandemia, c’è la stessa opzione: o la nostra scommessa sarà per la vita, per la resurrezione dei popoli o sarà per il dio denaro: tornare al sepolcro della fame, della schiavitù, delle guerre, delle fabbriche delle armi, dei bambini senza educazione ... lì c’è il sepolcro.
Il Signore, sia nella nostra vita personale sia nella nostra vita sociale, sempre ci aiuti a scegliere l’annuncio: l’annuncio che è orizzonte, è aperto, sempre; ci porti a scegliere il bene della gente. E mai cadere nel sepolcro del dio denaro.
Il Papa ha terminato la celebrazione con l’adorazione e la benedizione eucaristica, invitando a fare la Comunione spirituale. [...].
* Avvenire, lunedì 13 aprile 2020 (ripresa parziale).
DOPO I “VENTICINQUE SECOLI” DI DANTE, I "TREMILA ANNI" DI GOETHE, E I "MILLE ANNI DOPO DAVIDE E GIONATA" .. *
Idee.
Se gli amici fanno le ali della storia
La philia e l’eros dell’antica Grecia acquistano una diversa ricchezza di significato alla luce dell’agape evangelica. Il libro di Pietro Del Soldà
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 9 aprile 2020)
Uno degli effetti collaterali del covid19 è la ri-scoperta (o scoperta) della semantica dell’amicizia. Ci stiamo abituando a lezioni online, riunioni di lavoro via zoom, videochiamate, tesi di laurea online con il vestito buono e applauso dei genitori commossi e nascosti dietro la camera; ma ogni volta che terminiamo queste sessioni telematiche ci nasce, troppo spesso, una forte nostalgia per i nostri studenti, per i colleghi, per genitori e amici, per il bar dove andavamo per “consumare” prima la chiacchierata poi il caffé. Gli incontri che stanno continuando ad accadere in questa lunga quarantena non sono solo semplicemente incontri “virtuali” (parola che morirà con la fine della pandemia), sono comunque incontri ai quali mancano alcune dimensioni fondamentali, e tra queste il corpo. Ci sono voluti migliaia di anni per imparare a stare vicini a meno di un metro di distanza, a dare la mano allo sconosciuto per dirgli che su quella mano non c’era un pugnale, e poi ad abbracciare e baciare gli amici.
Ci sono voluti troppi millenni per apprendere l’arte delle distanze brevi per poter pensare di poterle dimenticare in pochi mesi. L’amicizia è l’arte delle distanze brevi. Distanze affettive, ma anche distanze fisiche, geografiche, spaziali. Perché se i verbi dell’amicizia sono quelli del tempo (fedeltà, durata, resilienza), anche i tempi dello spazio sono importanti: se non si va dall’amico o l’amicizia si è indebolita o c’è un ostacolo all’incontro o c’è solo un grande desiderio, come quello immenso che sta crescendo giorno dopo giorno. E mentre le distanze tra di noi sono cresciute, la lotta col virus si gioca sulla capacità di cura di medici e infermieri, che è anche talento delle mani, che devono toccare senza contaminare e contaminarsi.
L’ambivalenza della vita, la danza di communitas e immunitas, che ogni tanto diventa danza macabra. L’amore è uno, ma gli amori sono molti. Amiamo molte persone e molte cose, siamo amati da molti e in modi diversi. Amiamo i genitori, i figli, le fidanzate, le mogli e i mariti, fratelli e sorelle, maestre, colleghi, nonni e cugini, poeti e artisti. E amiamo, moltissimo, gli amici e le amiche.
Il mondo greco per dire amore aveva due parole principali, eros e philia, due parole che non esaurivano le molte forme dell’amore ma che offrivano un registro semantico più ricco del nostro per declinare questa parola fondamentale della vita. Un lessico che era capace di distinguere il «ti voglio bene» detto alla donna amata dal «ti voglio bene detto» detto a un amico, e allo stesso tempo riconoscere che erano anche uguali. Il cristianesimo, poi, ha aggiunto una terza parola greca per dire un’altra tonalità dello stesso amore, un tono già presente nella Bibbia ebraica e, soprattutto, già presente nella vita.
Questa terza, stupenda, parola è agape, l’amore che sa amare chi non è desiderabile e il non-amico. Il cristianesimo non ha inventato l’agape lo ha semplicemente visto ed esaltato. Tre dimensioni dell’amore che, spesso, si trovano insieme nei rapporti veri e importanti. Certamente sono tutti presenti nell’amicizia, che non è solo philia. Non dobbiamo, infatti, commettere l’errore di pensare che l’amicizia sia espressa dalla sola parola philia. No. Perché anche nel mondo greco la philia non è mai sola, è la philia la prima ad avere bisogno di amici.
La philia è sempre accompagnata dal desiderio-passione per l’amico ed è irrorata dall’agape che le consente di poter risorgere da fallimenti e fragilità. La philia poi lega l’eros e l’agape tra di loro e li affratella. In quelle pochissime amicizie che ci accompagnano per lunghi tratti di vita, a volte fino alla fine, la philia racchiude in sé anche i colori e i sapori dell’eros e dell’agape. Sono quegli amici che abbiamo abbracciato, baciato come e diversamente da altri abbracci e da altri baci. Pochi dolori sono più grandi di quello per la morte di un amico - in quel giorno, un pezzo di cuore smette di battere. Non c’è soltanto una lotta radicale tra eros e tanatos; ce n’è un’altra, simile e diversa, tra philia e tanatos.
Il bel libro di Pietro del Soldà, noto conduttore di Radio3 e filosofo, dal titolo suggestivo Sulle ali degli amici. Una filosofia dell’incontro (Marsilio, pagine 152, euro 16), ci offre una occasione propizia per riflettere, oggi, sull’amicizia. Del Soldà lo fa a partire dalla filosofia e dal mondo greco. Questa mia pagina lo fa prendendo le mosse dalla Bibbia, una seconda radice profonda dell’Umanesimo occidentale. La Bibbia non parla molto di amicizia. Ma ne parla, e in alcuni libri le ha dato un posto centrale.
A partire dall’Adam, l’essere umano, che è anche amico di Dio, prima di essere amico della donna e degli altri uomini. E non certamente a caso in uno degli ultimi episodi dell’ultimo vangelo, quello di Giovanni, troviamo un bellissimo dialogo sull’amicizia: «Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [philia]?» ( Vangelo di Giovanni 21,15-17). Un gioco di parole e di verbi che si perde nelle lingue moderne, ma chiarissimo nell’originale greco.
Il libro di Giobbe, ad esempio, è composto essenzialmente di dialoghi con i suoi amici: «Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Levarono la loro voce e si misero a piangere » (Giobbe 2,11-12).
Dal contesto si capisce che questi uomini che si recano presso il mucchio di letame di Giobbe siano amici veri: vengono a sapere della sua sventura, lo vanno a trovare, siedono e piangono con lui. Ma lo sviluppo dei dialoghi di Giobbe ci mostrerà che quei quattro uomini che lo vanno a trovare non sono, in realtà, amici di Giobbe ma difensori di astratte teologie che si riveleranno nemiche dell’uomo e di quel Dio che volevano difendere. Le grandi prove della vita sono anche test che distinguono il grano degli amici dalla zizzania dei finti amici. Ecco perché tra i canti più belli di Giobbe c’è una un’amara e stupenda riflessione sull’amicizia e sull’esistere: «I miei amici sono incostanti come un torrente, come l’alveo dei torrenti che scompaiono: sono torbidi per il disgelo, si gonfiano allo sciogliersi della neve, ma al tempo della siccità svaniscono e all’arsura scompaiono dai loro letti» (6,14-19).
Molti amici svaniscono nel tempo della sventura, e svanendo ci dicono che non erano amici. Ma è con Gionata, figlio di re Saul, che l’amicizia fa il suo grande ingresso nella Bibbia. Gionata è principe, è guerriero, ma è soprattutto l’amico. Questa amicizia prende le forme di un patto solenne, forse un “patto di sale”, dove la non corruzione del sale diceva simbolicamente il “per sempre”.
La Bibbia sa cos’è un patto- Alleanza, e se ricorre a questa parola per parlarci di un’amicizia, allora sta dicendo qualcosa di importante. Nell’Alleanza con Abramo, Dio passò in mezzo agli animali squarciati. Nei grandi patti d’amicizia, Dio passa “in mezzo” agli amici (Matteo 18,20). È quindi un patto che buca spazio e tempo. Coinvolge le nostre discendenze, i nostri figli che abbiamo e che avremo, genitori e nonni. I patti di amicizia, diversamente dai patti nuziali, non vengono in genere celebrati con la parola. Quasi sempre sono patti muti, non vengono pronunciati in pubblico. Qualche volta, però, in una amicizia che matura ci possono essere anche dei patti espliciti, celebrati anche con la parola. Sono, ad esempio, quei patti di amicizia alla base di nuove comunità e movimenti, civili o religiosi, generati da due o più amici che si dicono parole speciali in un momento speciale. Una grande amicizia biblica è quella tra Davide e Gionata, che prende la forma di un patto sacro, di un’alleanza solenne, di una vera e propria fraternità spirituale: la fraternità è una forma di amicizia. Un giorno Gionata, quando ormai infuriava la guerra civile tra suo padre Saul e Davide, aveva detto al suo amico Davide: «Andiamo ai campi» (20,11).
La Bibbia conosce molto bene questa frase. Era stata quella di Caino (4,8). L’amico è l’anti-Caino, qualcuno che ti invita ad andare nei campi non per ucciderci ma per salvarci. Sulla terra gli inviti di Caino, il fratricida, e quelli di Gionata, l’amico, coesistono, vivono l’uno accanto all’altro, si incrociano. Qualche volta scopriamo che l’altro non è Gionata ma Caino solo quando, arrivati nei campi, vediamo la sua mano diventare diversa. E sono i giorni più tristi. Altre volte scopriamo che chi pensavamo fosse Caino era in realtà Gionata. L’umanità continua la sua storia perché gli inviti di Gionata sono più numerosi degli inviti di Caino, perché le mani degli amici sono di più di quelle degli assassini.
Mille anni dopo Davide e Gionata, un altro amico dell’uomo, fondatore di una comunità di amici («non vi chiamo più servi ma amici»), fu messo su una croce da un’altra mano fratricida. Sotto la croce c’erano le donne, e un amico. Quella volta le donne e l’amico non riuscirono a salvarlo. Ma noi, suoi amici, continuiamo ad attenderlo, in compagnia di Abele e di tutte le vittime della storia. Lo aspettiamo perché ci ha promesso che tornerà, e perché la promessa dell’amico è vera.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO : IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
Le lacrime sono il vino del godimento
di Enrico Spadaro (Ondaiblea, 09 aprile 2020)
È con sensazioni di triste gioia che sembra avvicinarsi questa Pasqua, in cui quasi tutti i cristiani non possono fisicamente partecipare ai riti della Settimana Santa. Sembra quasi un paradosso, un ossimoro pronunciare queste parole, “triste gioia”: “gioia” nell’imminente resurrezione di Cristo, “triste” perché forse non totalmente vissuta.
Eppure esiste un termine greco, che racchiude un concetto forse maggiormente conosciuto nel mondo cristiano ortodosso, “charmolypi” (χαρμολύπη), che esprime al tempo stesso sentimenti di gioia (hara) e di tristezza (lypi). Si ritrova tale termine negli scritti di San Giovanni Climaco (525/575-603/650), monaco che visse quasi tutta la vita presso il monastero del Sinai. Nella sua dottrina, e in particolare nel suo scritto più celebre, La Scala della divina ascesa, vengono prevalentemente esaltati coloro che dopo aver peccato si pentono, poiché i dolori patiti permettono loro - attraverso il pentimento - di accedere alla vera “gioia” del Paradiso. Questi peccatori redenti sembrano aver provato la morte per poi essere risorti come Cristo, sono stati abbandonati e infine salvati dal Padre. Le lacrime che hanno versato sono così benedette: “Beati i sofferenti, perché essi saranno consolati”. (Matteo 5,4).
Il concetto espresso da San Giovanni Climaco potrebbe rinviare ad un elemento essenziale delle fiabe secondo lo scrittore britannico J.R.R. Tolkien (1892-1973), vale a dire la consolazione del lieto fine, per cui l’autore, nel suo saggio Sulle Fiabe (1939) conia il termine “eucatastrofe”, l’improvviso capovolgimento felice degli eventi, “ed è in quanto tale un evangelium, che fornisce una visione fuggevole della Gioia, quella Gioia oltre le muraglie del mondo, intensa come il dolore”.[1]
Con evangelium, Tolkien, fervente cattolico, non poteva che intendere il Vangelo, considerato come l’unica vera fiaba, e infatti continua il proprio saggio: “la Nascita di Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa storia comincia e finisce nella gioia.”
L’immensa opera letteraria di Tolkien e soprattutto i due romanzi principali, Lo Hobbit (1937) e Il Signore degli Anelli (1954-55), sono pieni di momenti in cui si verifica un’eucatastrofe, ma forse uno di quelli più evocativi è rappresentato dagli istanti immediatamente successivi la distruzione dell’Unico Anello tra le fiamme del Monte Fato. Frodo e Sam si credono spacciati e svengono, ma vengono salvati dalle grandi aquile e si risvegliano a Gondor con Gandalf al loro capezzale.
Tolkien descrive il momento attraverso le sensazioni di Sam:
E qualche pagina dopo:
Gioia e dolore sembrano fondersi e le lacrime sono la via che porta alla gioia, secondo la teorizzazione tolkieniana dell’eucatastrofe, ma anche secondo il concetto di “charmolypi” di San Giovanni Climaco. Inoltre, occorre sottolineare la data della distruzione dell’Anello, il 25 marzo, che è sì il giorno dell’Annunciazione a Maria, ma nella tradizione medievale era anche il giorno della crocifissione, il Venerdì Santo, un giorno di dolore che anticipava la gioia della Pasqua.
I momenti d’eucatastrofe in Tolkien non saranno forse l’espressione totale di beautitudine, ma potrebbero essere una rappresentazione di gioia e dolore, che preannuncia la “Gioia” finale del Paradiso.
Enrico Spadaro
Note
[1] Tolkien. Il medioevo e il fantastico. Milano, Bompiani, p. 225.
[2] Tolkien. Il Signore degli Anelli. Milano, Bombiani, p. 1136.
[3] Ibid., p. 1139.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PASQUA: BUONA PASQUA DI RESURREZIONE E DI RISURREZIONE.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Pasqua. Aramaico, ebraico, greco, latino... in che lingua Gesù parlò con Pilato?
Oltre l’aramaico, conosceva anche l’ebraico e il greco? E in che lingua avvenne il processo davanti a Pilato? Le ipotesi degli studiosi e l’importanza degli idiomi per l’evangelizzazione
di Mimmo Muolo (Avvenire, martedì 7 aprile 2020).
In che lingua parlava Gesù? E i protagonisti dei grandi eventi che portarono alla sua morte in croce? La questione, da tempo al centro del dibattito tra gli studiosi, può essere assunta proprio nei giorni della Settimana Santa, come filo rosso per comprendere alcune dinamiche fondamentali dell’annuncio della Buona Novella dall’inizio fino a noi.
Le quattro lingue della Palestina
Va detto innanzitutto che al tempo in cui si svolsero gli eventi descritti nei Vangeli quattro erano le lingue parlate in Palestina. Quella ufficiale (ma anche la meno diffusa: usata solo da un ristretto numero di funzionari pubblico) era il latino. Quella religiosa era l’ebraico, parlata nelle sinagoghe, dove si leggevano i testi della Torah, e dai farisei che erano gli ebrei più osservanti. Quella della vita quotidiana era invece l’aramaico, che il popolo aveva adottato dopo il ritorno dall’esilio babilonese (VI sec. a.C.). E infine il greco della koiné, che era un po’ come l’inglese di oggi, parlata ovunque. Ebraico e aramaico erano lingue semitiche, imparentate tra loro come ad esempio l’italiano e il napoletano, dato che l’aramaico (nell’VIII secolo a.C. lingua delle comunicazioni internazionali nella Mesopotamia) era diventata una sorta di dialetto.
Gesù parlava solo l’aramaico?
Tra queste quattro lingue è ormai certo che quella usata da Gesù per la predicazione e per i colloqui con i discepoli fosse l’aramaico. Come ricorda Rinaldo Fabris, nel suo “Gesù il Nazareno” (Cittadella Editrice), sono almeno una ventina i passi dei Vangeli canonici (scritti in greco) in cui vengono citate parole o espressioni aramaiche. Per limitarci a quelle che riguardano la Settimana Santa: “Abba” (Padre), usato da Gesù nel Getsemani; “Eloi Eloi lemà sabachtani” (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato) cioè le ultime parole di Cristo sulla croce secondo Marco e Matteo; il toponomastico Golgotha (“Luogo del cranio”) per indicare l’altura della crocifissione; e infine l’appellativo “rabbunì” (maestro mio) con cui Maria di Madgala chiama Gesù dopo la risurrezione. E a proposito di vittoria sulla morte, possiamo citare ancora il “talità qum”, (ragazza alzati) con cui Cristo riporta in vita la figlia di Giairo.
Del resto è naturale: cresciuto ed educato in una modesta famiglia della Galilea che abitava a Nazareth, villaggio di poche centinaia di abitanti, Egli certamente aveva come lingua materna l’aramaico occidentale che si parlava nella sua terra. Tra l’altro connotato da accento diverso da quello in uso a Gerusalemme, come attesta il “riconoscimento” di Pietro, nella notte dell’arresto di Gesù (Mt 26,73) proprio a motivo di come parlava.
L’aramaico, scelta di incarnazione
Questo fatto ci dice già una cosa importante. La concretezza dell’incarnazione vale per tutti gli aspetti della vita. Gesù si esprime in un idioma che tutti possono comprendere e poco importa se non è la lingua dei dotti. Anzi proprio questa vicinanza ai “piccoli”, al punto da parlare in “dialetto”, conferma se mai ce ne fosse bisogno la sua “rivoluzione” delle periferie, come direbbe papa Francesco. Il quale, parlando ai genitori dei bambini che stava battezzando nella Cappella Sistina il 7 gennaio 2018, raccomandò: “La trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. E non è un caso che un grande santo e teologo come Tommaso d’Aquino abbia predicato il quaresimale del 1273 in dialetto napoletano.
Le ipotesi sull’ebraico e il greco
Ciò che resta ancora incerto è se Gesù sapesse parlare nelle altre lingue. Almeno l’ebraico e il greco. Quanto all’ebraico, bisogna registrare un simpatico siparietto durante la visita di papa Francesco in Medio Oriente nel 2014. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante un incontro ufficiale, disse al Pontefice: «Gesù ha vissuto qui, parlava ebraico». «Aramaico», lo corresse Francesco. Al che Netanyahu, immediatamente, precisò: «Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico, perché leggeva le Scritture». Al di là dei cordiali sorrisi che chiusero l’episodio, viene da chiedersi: è proprio così?
Secondo Fabris, “sulla base delle scarne informazioni del Vangeli non si è in grado di dare una risposta categorica alla domanda se Gesù sapesse leggere e scrivere”. E anche l’episodio riferito da san Luca, in cui nella sinagoga di Nazareth Egli prende e legge il rotolo del profeta Isaia, “non può essere addotto come prova che egli è in grado di leggere il testo ebraico della Bibbia”. Probabilmente infatti, argomenta lo studioso, quel racconto è il frutto di una rielaborazione dell’evangelista al quale interessa dire che Gesù è il Messia.
Tuttavia questo punto non è pacifico fra gli esegeti. Stefano Tarocchi, biblista e preside emerito della Facoltà Teologica dell’Italia centrale, nota infatti che “diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la situazione lo richiedeva”. Soprattutto le conversazioni e discussioni con capi religiosi ebrei. “Questi dialoghi di solito avvenivano in ebraico anche tra chi aveva come prima lingua l’aramaico. Per essere credibile come interlocutore, con molta probabilità Gesù usava l’ebraico quando era impegnato in discorsi teologici con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei”.
Quanto al greco, alcuni esegeti hanno ipotizzato che Gesù potesse conoscerlo, dato che vicino a Nazaret c’erano Sepphoris, capitale della tetrarchia di Erode Antipa, e Tiberiade, centro commerciale di una certa importanza, dove i mercanti greci arrivavano facilmente. Ma Fabris esclude un’ipotesi del genere, così come la possibilità che egli abbia conversato o insegnato in greco.
In che lingua parlarono Pilato e Gesù durante il processo?
Più possibilista è invece Tarocchi, citando la conversazione con il centurione romano di Matteo 8,5-13. “Anche Pilato nel processo - afferma - avrebbe usato il greco, non il latino, come ha invece immaginato Mel Gibson in The Passion. Non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed usare l’aramaico”. Tuttavia il dialogo potrebbe essersi svolto con l’intermediazione di un interprete (anche se nei Vangeli non se ne fa menzione), perché quello a Gesù non era certamente l’unico processo che Pilato fece nella sua carriera e la registrazione di un particolare così scontato può essere stata considerata superflua.
L’importanza del greco per l’evangelizzazione
Il greco però sicuramente entra in scena - e pesantemente - dopo la risurrezione. Soprattutto grazie alle lettere di Paolo, che sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento, tutto scritto nell’”inglese” dell’epoca.
A questo punto il cambio di priorità, e dunque di paradigma anche linguistico, appare evidente. Alla logica dell’incarnazione si affianca quella dell’universalità del messaggio evangelico, che essendo destinato a tutti gli uomini, ha bisogno di un veicolo comunicativo il più possibile conosciuto. Il greco, appunto, che diviene così la lingua della “fase due” dell’evangelizzazione, dopo il primo annuncio del Nazareno. A quel punto l’idioma originale parlato da da Gesù diventa secondario, quasi ininfluente.
"Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio", esclameranno i presenti alla predicazione degli Apostoli, il giorno di Pentecoste. La voce di Cristo raggiunge ognuno nel suo linguaggio, secondo la doppia regola dell’incarnazione e dell’universalizzazione del messaggio della salvezza. E non è un caso che la Bibbia sia oggi il libro tradotto nel maggior numero di lingue al mondo.
Le note spirituali della Civiltà Cattolica
“L’amore delle donne accompagna la passione di Gesù”.
di p. Giancarlo Pani S.I., vicedirettore de "La Civiltà Cattolica" *
Il Vangelo di Matteo presenta il racconto della passione di Gesù incorniciato tra due episodi che hanno come protagoniste alcune donne. La prima è una donna di Betania, che unge il capo di Gesù con un prezioso olio di nardo (Mt 26,6-13), le altre sono Maria di Magdala e le donne sul Calvario quando Gesù muore (27,55s) e, dopo il sabato, si recano al sepolcro alla prima luce dell’alba (28,1). Sono figure che illuminano il mistero.
Mancavano due giorni alla Pasqua. «Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola» (Mt 26,6s). È un momento di convivialità con la presenza del Signore.
Ad un certo punto compare una donna: chi sia, non si sa, non ha nome e non dice nemmeno una parola. Compie solo un gesto. Nella sala si spande la fragranza del profumo che suscita sdegno e proteste. Perché questo spreco? Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!
La donna tace, e Gesù afferma: «Perché infastidite questa donna? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura» (vv.10-13). La donna - rivela Gesù - ha preparato il suo corpo per la morte.
Quello che gli apostoli non riescono a comprendere e che Gesù aveva detto più volte, lo ha compreso una donna: i capi dei sacerdoti e gli scribi volevano ucciderlo. In ogni caso, lei è l’unica ad aver capito che la vita di Gesù ha un esito preciso, la morte, e la morte viene perché Gesù ha donato la vita, perché si è fatto tutto a tutti. La donna lo ha veduto, lo ha ascoltato, custodisce le sue parole nel cuore, lo ha amato; e ora vuole essergli vicino con gratitudine. Risponde con amore all’amore di Gesù. Quel profumo è il suo dono, è tutto quello che ha, è tutta la sua vita. Perciò glielo versa fino in fondo, fino all’eccesso, che è la misura dell’amore che si dona senza misura.
La donna ha fatto un’azione buona, dice Gesù; in greco, alla lettera, «un’opera bella». È la bellezza di chi ama e che non bada a nulla per la persona amata. Lei ha compreso che la morte a cui Gesù va incontro è il frutto di un’intera vita donata ai fratelli. E lei, nella sua piccolezza, nella sua povertà, ha voluto esprimerlo con il suo gesto di amore. E Gesù lo accoglie, perché sa accogliere l’amore che gli diamo, che sia poco o tanto. Per lui non conta quello che si dona, ma il cuore con cui lo si dona.
Qui è una donna che dona e la donna sa bene che cosa comporta dare al mondo una vita; lei sa che dando la vita rischia di perdere la propria. Ma è il dono di un amore totale, che non teme il dolore, la sofferenza, la morte. È la profezia di quanto Gesù sta per vivere fino alla croce. La fragranza di quel profumo accompagnerà il Signore nella passione, nella morte, nella resurrezione. È un annuncio di vita e di gioia: è il profumo di Dio, il profumo del Vangelo. «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che lei ha fatto» (v. 13).
***
Sul Calvario, quando Gesù muore, ci sono le donne che lo accompagnano. Sono lì, nel dolore e nel pianto per il Signore che le ha amate e che loro hanno amato. Una presenza e un amore che sono un segno anche per noi. Quando la vita spesa per gli altri ci porta al calvario e alla croce, spesso la luce della risurrezione è talmente lontana da perdere ogni forza confortatrice. La sofferenza può essere così amara e così totalizzante da spingerci in una situazione di disperata solitudine, di fallimento senza rimedio: la forza del Vangelo per il quale abbiamo tentato di vivere ci si vanifica in mano.
Ai piedi della croce - nel Vangelo di Matteo - i discepoli non ci sono. Ai loro occhi Gesù che muore è il segno della fine di tutto, di una speranza delusa, di un drammatico fallimento. Singolare è allora la figura delle donne sotto la croce. Non è pensabile che ai loro occhi potessero esserci prospettive diverse. Anche per loro Gesù muore, anche per loro il domani è nelle tenebre. Ma c’è un amore più forte che, nel buio, le tiene ai piedi della croce: ed è a questo amore semplice ma pieno, piccolo ma autentico, che per primo si rivela la resurrezione di Gesù.
L’amore delle donne è una strada anche per noi: tante volte ci troviamo nel buio, nello sradicamento totale, nell’assurdo, nel silenzio di Dio. Ma come le donne sono rimaste ai piedi di Gesù che muore, così la nostra preghiera insistente e il nostro silenzio fedele di fronte a un Dio che sembra non rispondere, ha in sé il germe di una speranza: anche a noi, come alle donne, si manifesterà la gloria del Signore che risorge.
* La Civiltà Cattolica,·Domenica 5 aprile 2020]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI : STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI.
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI : LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FLS
Giampiero Comolli
La malinconia meravigliosa
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 19 luglio 2019)
La malinconia di cui parla Giampiero Comolli - giornalista, scrittore, presidente del Centro Culturale Protestante di Milano - nel saggio La malinconia meravigliosa (ed. Claudiana) è quella che pervade i discepoli di Siddharta Gautama della nobile famiglia dei Sakya, il primo Buddha, e di Gesù di Nazareth al momento del loro commiato in prossimità della morte. L’autore ripercorre i loro ultimi discorsi per cogliere attraverso di essi, i punti in cui le vie indicate dai maestri paiono avvicinarsi e quelli in cui decisamente divergono e lo fa utilizzando Il grande discorso del nirvana definitivo, per quanto riguarda il Buddha (i testi più antichi su cui si fonda la tradizione buddista sono raccolti nel canone Pali scritto attorno al 1° sec. a.C., pubblicati in italiano col titolo La rivelazione del Buddha. I testi antichi, Mondadori 2001) e i capitoli dal 14 al 17 del Vangelo di Giovanni, la cui formulazione definitiva risale alla fine del 1° sec. d.C.
I primi capitoli sono dedicati dall’autore a una breve e necessaria sintesi della vita di Siddharta Gautama e del pensiero buddista - a chi volesse saperne di più suggerirei di leggere Il cuore dell’insegnamento del Buddha (ed. Neri Pozza) di Thich Nhat Hanh, monaco vietnamita di tradizione Zen Rinzai che ne offre una dissertazione approfondita e molto chiara - e poi prosegue con un’attenta disamina degli atteggiamenti dei due maestri e delle rispettive visioni della realtà che, non solo nelle parole, ma appunto anche negli atteggiamenti e nei gesti, si riveleranno radicalmente differenti.
Perché anche laddove sembra esserci una certa sintonia, tra le due vie in realtà c’è una strutturale inconciliabilità, chiaramente sottolineata dal Dalai Lama al quale fu chiesto, racconta Comolli, se in una stessa persona potrebbero convivere cristianesimo e buddismo visto che quest’ultimo è più propriamente una filosofia che una religione. Egli rispose che ciò sarebbe possibile, ma solo a un livello molto superficiale, perché nei loro elementi profondi e sostanziali si tratta di due visioni della realtà incompatibili. Cerchiamo di riassumerne le ragioni.
Per Buddha il risveglio inizia quando si comincia a comprendere che la vera natura del mondo sensibile è l’impermanenza. L’intero universo, materiale e immateriale è impermanente cioè, per così dire, fluido, mobile; le infinite forme assunte dalla materia - animali, vegetali, minerali - sono soltanto apparenza, perché la sostanza è una sola e sempre la stessa. Ciò che noi avvertiamo come cambiamento, compresa la morte, è semplicemente il passaggio da una forma a un’altra dell’unica sostanza. In questo processo continuo di trasformazione da uno stato a un altro, ciò che cambia non viene distrutto, ma appunto trasformato. In ogni elemento della realtà fisica è contenuto tutto ciò che esiste (nel fiore, ad esempio, è contenuta la terra da cui proviene, l’acqua e il sole che l’hanno nutrito, ciò che un animale ha mangiato e poi lasciato sul terreno sotto forma di concime e così via). Di conseguenza, la morte non è l’estinzione di una realtà, ma il suo passaggio da una condizione a un’altra. Da questa consapevolezza nasce il sentimento di equanimità, fondamento dell’etica buddista e da molti accostato, un po’ superficialmente, all’idea cristiana di compassione. L’equanimità informa l’atteggiamento pacifico e amorevole del monaco buddista verso ogni creatura. La via buddista stricto sensu è destinata ai monaci, ma è utile anche ai laici ai quali essi dimostrano, con il loro esempio, «che la via della libertà e della dolcezza esiste e può essere percorsa». Perciò tutti possono aspirare, di reincarnazione in reincarnazione, a percorrerla fino al compimento.
L’amore che il Buddha insegna è molto diverso da quello che vive e predica Gesù. Il cuore del monaco buddista è «amorevole verso tutti, ma vuoto perché mai "perdutamente innamorato" di qualcuno in particolare», sottolinea Comolli. E come potrebbe esserlo visto che, come ogni altra cosa, la persona stessa, l’io individuale è pura illusione? Il cuore è anatta, cioè vuoto, «privo di sostanza propria» «perché non esiste un nucleo, un’essenza stabile, un’identità precisa e definita di quel cuore stesso». Anche il cuore/l’io è maja, apparenza. Per Gesù, al contrario, nulla è più importante del cuore dell’uomo, nulla è più solido e vero dell’amore, e per il Dio in cui egli crede ogni essere è unico, irripetibile, speciale e merita che Dio diventi uomo e muoia proprio per lui. Dio non ama tutti, ama ciascuno, per questo per ogni singolo essere umano vale la pena di donare la vita. Come il Dio in cui credeva e che annunciava, Gesù non amava «in modo equanime e disinteressato, distaccato» ma «in modo appassionato, fino ai singhiozzi», e dall’amore «si lascia prendere fino alle viscere». Gesù piange, prega, si spaventa, si arrabbia. È tutt’altro che impassibile, è appassionato. Comolli sintetizza con una bella immagine la differenza tra i due maestri: «Se il discepolo del Buddha è riconoscibile grazie al suo passo delicato e lieve, capace di traversare un villaggio quasi fosse un’ape che passa di fiore in fiore, per converso, il discepolo di Gesù è riconoscibile grazie al suo passo amoroso e caldo, capace di rispondere con mansuetudine e premura anche a chi offende e maledice».
Se la fede in Dio, dal cristiano inteso come un essere vivente che si rapporta all’uomo come un padre e una madre si rapportano a un figlio, distingue nettamente buddismo e cristianesimo, ne consegue anche un modo del tutto diverso d’intendere e affrontare il dolore. Per Buddha l’individuo ha in se stesso la forza per liberarsene attraverso un costante esercizio di distacco da ogni passione e attaccamento. Per Gesù il liberatore è Dio; egli è sempre accanto all’uomo, soprattutto quando è misero e sofferente, e con la sua risurrezione testimonia che l’uomo non è destinato alla morte e all’estinzione, ma a una vita nuova nella dimensione di Dio. «La via del Buddha - sottolinea Comolli - fa a meno della fede; la via di Gesù, vive nella fede». Per questo egli che, a differenza del Buddha, morì ancora giovane di una morte orrenda e solitaria, accomiatandosi disse ai suoi amici: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1), e ancora: «Voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16, 22). L’esortazione di Buddha ai discepoli è molto diversa: «Prendete rifugio in voi stessi e non in altro», e le sue ultime parole furono: «Continuate ad esercitarvi, instancabilmente».
Riassumendo la diversità delle due concezioni spirituali, Giampiero Comolli le raccoglie in tre assunti. Alla base della ricerca del Buddha vi sono l’inconoscibilità di Dio, l’irrilevanza della questione per giungere alla liberazione dal dolore, la capacità dell’uomo di farlo con le proprie sole forze. Esattamente opposti sono i presupposti su cui si fonda il messaggio di Gesù, ovvero l’esistenza di Dio, l’importanza primaria e assoluta della questione, l’impossibilità per l’uomo di salvarsi da solo. Così si può anche dire che il cuore del buddismo è la pace che nasce dal sapersi liberare dal dolore, mentre al cuore del cristianesimo c’è una serenità diversa e, in un certo senso, più libera che sorge dalla fiducia nell’amore indefettibile di Dio. In un caso la pace è una conquista, nell’altro un dono. E la libertà in cui confida il seguace di Gesù non è nirvana, estinzione, uscita dal ciclo delle reincarnazioni, ma ingresso di ognuno con la sua propria personale storia e identità nella vita piena ed eterna di Dio. Cioè, risurrezione.
La malinconia meravigliosa si chiude su questo tema, che quando Paolo lo affrontò spinse i razionali ateniesi, fino a lì attenti e interessati alle sue parole, a ridergli in faccia e a dirgli che su quello lo avrebbero ascoltato un’altra volta. Anch’io ve ne parlerei volentieri, ma forse anche voi come gli ateniesi vi mettereste a ridere di me... O mi sbaglio?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
Federico La Sala
NICODEMO 0 DELLA NASCITA: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3). *
Luca, l’evangelista delle donne (blog di Gianfranco Ravasi, Cardinale arcivescovo e biblista)
Il caso della donna dai sette mariti
di Gianfranco Ravasi (Famiglia Cristiana, 16 maggio 2019)
Siamo in pieno periodo pasquale ed è quindi significativo affrontare un tema connesso con la risurrezione, un argomento che già ai tempi di Gesù era oggetto di dispute con posizioni antitetiche. Noi consideriamo il soggetto secondo un curioso profilo femminile. Si tratta di un caso estremo ipotetico che gli avversari propongono a Gesù per metterlo in difficoltà (l’episodio, citato anche da Matteo e Marco, è da leggere in Luca 20,27-40). Nell’Antico Testamento era codificata una prassi secondo la quale, se un uomo sposato decedeva senza figli, l’eventuale fratello ne doveva sposare la vedova, così da assicurare una discendenza e una memoria al defunto.
Si trattava del cosiddetto “levirato” (dal latino levir, “cognato”), come facilmente si può comprendere da chi era coinvolto in questa normativa (Deuteronomio 25,5-10). Il nostro compito ora è spiegare il caso limite addotto dagli avversari di Gesù appartenenti alla corrente aristocratico-conservatrice dei sadducei a prevalenza sacerdotale. Essi negavano la risurrezione perché tale dottrina, pur presente nella Bibbia (si veda Ezechiele 37), era assente nella Torah (la Legge), ossia nei primi cinque libri della Sacra Scrittura.
Essi puntano a mettere in imbarazzo il rabbì di Nazaret prospettandogli una catena di “levirati” che hanno per protagonista una sola donna: ben sette fratelli subentrano in matrimoni successivi, morendo però tutti prima di aver assicurato una discendenza alla vedova e, quindi, al loro primo fratello defunto. Il paradosso fittizio è introdotto per costringere Gesù a schierarsi con loro contro i farisei - l’altra corrente giudaica avversaria - negando la risurrezione che questi ultimi sostenevano come dottrina di fede. Infatti, sogghignando, alla fine gli domandano: «Alla risurrezione, di quale dei sette la donna sarà moglie?».
Cristo, nella sua risposta, non cade nel tranello e replica volando alto: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio» (Luca 20,34-36). Egli nega, così, una lettura “materialistica” della risurrezione. E aggiunge una motivazione teologica ulteriore, citando un passo dell’incontro di Mosè con il Signore al roveto ardente del Sinai: «Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (Luca 20,37-38; cf. Esodo 3,6).
Dio non si lega a cadaveri, ma a esseri viventi ai quali apre un orizzonte di vita oltre la morte secondo categorie differenti rispetto a quelle meramente “carnali”, basate sulla nostra storia che si muove sulla base delle coordinate spazio-temporali. Si tratta di un nuovo ordine di rapporti, di una nuova creazione, di un orizzonte nel quale i vincoli parentali e sociali sono trasfigurati. Queste parole di Gesù avevano conquistato quel grande filosofo e scienziato credente che fu Blaise Pascal. A partire dal 1654 fino alla morte (1662) egli le portò sempre con sé, scritte su un foglio, cucito nella fodera del farsetto, intitolato “Fuoco”, e scoperto alla morte del pensatore da un domestico.
Eccone il testo modulato sulle parole di Gesù, commentate liberamente da Pascal: «Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza, certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo. Dio mio e Dio vostro. Il tuo Dio sarà il mio Dio. Oblio del mondo e di tutto fuorché di Dio. Egli non si trova se non per le vie indicate dal Vangelo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Come nascono i bambini... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
Resurrezione: mito o mistero?
Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 28.05.2018)
Nel dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio Salita al Calvario del 1564, si scorge a fatica, al centro di una scena super affollata, Gesù salire al Calvario nell’indifferenza generale. Si fatica a vedere la sua piccola figura e la grande croce che trascina con sé. Tutt’intorno a lui brulica una folla indifferente, affaccendata nelle proprie attività. Il clima è festoso, non sembra profilarsi alcuna tragedia all’orizzonte. In primo piano, tre donne piangono, consolate da un giovane che sappiamo essere Giovanni, l’apostolo. Ma le quattro figure sembrano fuori posto, quasi fossero dovute perché non si dà la Passione senza le donne piangenti e Giovanni.
Inizia da qui l’itinerario che Gabriella Caramore e Maurizio Ciampa percorrono nel loro ultimo libro, Croce e Resurrezione (il Mulino), pubblicato nella collana ’Icone. Pensare per immagini’ diretta da Massimo Cacciari. Come suggerisce il titolo, il libro è diviso in due parti. Nella prima, dedicata alla passione e crocefissione di Cristo, Maurizio Ciampa commenta la Salita al Calvario accostandola anche a diverse altre raffigurazioni dello stesso soggetto: da Hieronymus Bosch, col suo Cristo portacroce del 1515 - in cui il volto di Gesù sembra l’unico umano, schiacciato e soffocato da facce grottesche e demoniache -, a James Ensor, con L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, in cui la parodia dell’ingresso a Gerusalemme alla vigilia della Pasqua, è un carnevale. Da Matthias Grunewald con il crocifisso dell’Altare di Isenheim, quasi inguardabile nell’atrocità del suo dolore, a I disastri della guerra, di Francisco Goya, 1808-1810, e altri ancora.
La seconda parte del libro è dedicata alla risurrezione di Cristo, evento inimmaginabile accaduto senza testimoni. Com’è possibile, allora, rappresentarlo? In che modo dipingere un uomo che abbia attraversato il confine della morte e abbia trovato, al di là, vita nuova? Di quale strana materia dovrebbe essere fatto, per rimanere attingibile ai sensi?
Gabriella Caramore sceglie di parlarne commentando La cena di Emmaus dipinta da Rembrandt nel 1629, in cui il risorto è un profilo d’ombra che risalta sulla luce proiettata sul muro alle sue spalle, che il suo stesso corpo emana. Ed è una buona scelta, perché non esiste in tutta la storia dell’arte un volto di Cristo risorto all’altezza dell’evento, neppure quello che forse è il più bello di tutti, ritratto da Piero della Francesca nel dipinto Resurrezione del 1460.
È un libro bello e intenso, traboccante di domande che tutti si fanno davanti ai due pilastri della fede cristiana, la morte in croce di Gesù e il suo ingresso in una nuova vita. Due sono le più dure e drammatiche: interessano ancora a qualcuno la sua storia e la sua tragica fine? Com’è possibile oggi credere alla resurrezione? La risposta, più lasciata intuire che detta esplicitamente, sembra essere ’no’. Forse, suggeriscono gli autori, dovremmo leggere tutta la vicenda in un modo diverso che, allontanandola dalla “leggenda”, ci permettesse di trovarne un senso accettabile oggi per noi.
Nella Salita al Calvario, osserva Ciampa, per la prima volta la passione di Cristo è trasformata in spettacolo, infatti la sua figura quasi scompare tra le tante che affollano la scena, per lo più allegre e ridanciane, prese dai loro vari commerci. Il luogo in cui il condannato sarà crocifisso è lontano e marginale. Come lo sono anche Giovanni e le donne, raffigurati in primo piano sul lato destro del dipinto, e sembrano del tutto estranei rispetto alla folla. Non sono vicini né a Gesù né al luogo del patibolo.
Maurizio Ciampa si chiede se ce la farà ad arrivare al Golgota questo povero Cristo “trafitto dall’indifferenza” e acutamente osserva: “Possiamo leggere la Salita al Calvario come un triste presentimento di ciò che accadrà, una sorta di presagio della Storia che verrà, una sua sintesi anticipata. La croce nascosta, il Cristo accantonato, la Passione alterata in ‘festa’”.
Una festa paesana che James Ensor porterà a termine, trasformandola in carnevale, dopo che Cristo avrà attraversato il male raffigurato nei volti ghignanti di Hieronymus Bosch, quasi a suggerire che egli non può - non ha potuto né potrà - vincere il male sulla Terra. “In Bruegel resiste ancora, nascosto, un residuo di croce” - afferma Ciampa - “in Bosch la croce sembra soccombere, Cristo resta comunque l’ultima traccia dell’umano; in Ensor, gli "uomini vuoti", distratti, confusi, sembrano non averne più memoria.” La passione diventata intrattenimento e un Cristo fragile e svuotato sembrano dichiarare che la sofferenza dell’uomo non troverà mai senso e che il “simbolo cristiano” ha perso efficacia per l’uomo di oggi. Il mondo ha messo Cristo da parte, la sua storia non interessa più, non è più ispiratrice né può dirsi in alcun modo diversa da quella dei tanti uomini e donne buoni e di valore che la Storia ha fatto a pezzi. Non c’è più altro da dire.
A questo punto, però, nella visione cristiana fondata sulla testimonianza della gente del tempo, entra in scena la libertà di Dio. Perché è questo il significato della resurrezione di Gesù: nella loro libertà i potenti nemici di Gesù ne hanno decretata la morte; nella sua libertà, Gesù non vi si è sottratto; ma nella sua libertà, Dio è intervenuto quando la sua azione non avrebbe più forzato e ridotto la libertà degli altri attori in gioco. Con la resurrezione di Gesù ha dichiarato, davanti agli uomini e alla Storia, che quell’uomo diceva la verità, su di loro e su Dio stesso. È possibile crederlo?
Gli autori sembrano, di nuovo, propendere per una risposta negativa quando si domandano: “Quale narrazione di quell’evento può aiutarci a darne una lettura che non strida con l’esigenza contemporanea di uscire dal linguaggio del mito?”. E più avanti, verso la conclusione del libro, Gabriella Caramore, invitando a non smettere di cercare “per capire se sia possibile estrarne una umile, esile forza su cui far leva per potere stare al mondo”, si chiede se non sia “proprio in questa eclissi di una trascendenza mitologica (corsivo mio) che può condensarsi il senso della ’resurrezione’: qualcosa è stato e ha lasciato un segno sulla terra ... rimane, per chi resta, la possibilità di ridestarsi alla luce, di rialzarsi alla vita. Non è, questo, un segno molto più potente che non attendere il ritorno nella carne, nella materia, o nella leggenda (corsivo mio) di chi ha lasciato quell’incolmabile vuoto?” E riferendosi all’evangelista Luca e alla sua insistenza a dichiarare Gesù il vivente anche dopo la morte, afferma: “In fondo quell’insistenza ... appare come un invito ad allontanarsi dalla visione di un cadavere che torna a rivisitare i vivi, per spalancare invece la possibilità di trovare forza e consolazione in ciò che rimane di una vita trascorsa”.
Se la resurrezione è un mito, non credo ci possa dare alcuna forza, né esile e umile, né d’altro genere; non consola nessuno né cambia alcunché della nostra personale sofferenza. Se non è un mito, è uno sconvolgimento, una forza potente, una rivoluzione dell’interpretazione che ognuno può dare alla propria vita, una direzione totalmente nuova verso cui sentirsi tutti in cammino. La resurrezione di Gesù non è il ritorno a questa vita di un cadavere, ma la rivelazione di un destino sorprendente, di uno stadio successivo alla vita che aspetta ogni essere umano (e non soltanto). È la possibilità di sperare con intelligenza, e non sulla base di favole e miti rassicuranti, che la morte non sia la fine del viaggio. E questa fiducia non si basa su un’adesione emotiva, non è stata conservata nei secoli da cuori fragili incapaci di accettare la morte, ma da spiriti forti e intelligenze acute che vi hanno riflettuto con tutte le proprie forze. È impossibile riassumere qua questo lungo cammino, mai concluso, ma chi volesse può ascoltare, per farsi un’idea della questione, una conferenza molto chiara e interessante dell’astrofisico e teologo Giuseppe Tanzella-Nitti, dal titolo: La visione del cristianesimo tra vita biologica ed immortalità, reperibile su youtube.
L’evento della resurrezione non ha avuto testimoni, per questo non si può definirlo storicamente certo (se lo fosse, probabilmente saremmo tutti cristiani). I fatti storicamente accertati riguardano, invece, quello che i discepoli fecero dopo gli incontri con Gesù successivi alla sua morte, e l’improvviso cambiamento avvenuto nella loro attitudine, nel loro stesso carattere.
La resurrezione è, ad ogni modo, un mistero che non si può liquidare facilmente né alla leggera, perché la fede cristiana non si fonda sul messaggio di Gesù allo stesso modo in cui, per esempio, il buddismo si fonda sull’insegnamento straordinario del Buddha, ma sulla sua persona e sul mistero che egli rappresenta per l’umanità tutta. A quel mistero appartiene, come elemento non secondario ma fondamentale, che sia risuscitato dalla morte rivelando qualcosa di sostanziale in merito al destino di tutti gli esseri umani.
Credere nella resurrezione di Gesù e in una vita piena dell’intera persona umana, al di là di come questo sia possibile e di quale materia sarà il nostro corpo, fa la differenza tra il cristianesimo e le altre concezioni. È ancora vero quello che ha detto san Paolo: “...se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede ... se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.” (1Cor 15)
Cristiani o no, siate giusti e sarete salvi
Il senso vero della Pasqua è che la redenzione riguarda tutti gli esseri umani ed è legata al bene e all’amore
È estranea alle parole di Gesù l’idea che solo chi crede possa rialzarsi dalla caduta
di Vito Mancuso (la Repubblica, 26.03.2016)
«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni», dichiarò il cardinal Martini nell’ultima intervista, ma io penso che tale ritardo ecclesiastico sia l’espressione di un più preoccupante ritardo del cristianesimo in quanto tale, sempre più incapace di sostenere il suo annuncio fondamentale. Fa problema il centro stesso della fede cristiana, cioè la salvezza. Come pensarla? Qual è la sua specificità? Roger Haight, gesuita americano, descrive così la situazione: «Il significato della salvezza rimane elusivo; ogni cristiano impegnato sa che cos’è la salvezza finché non gli si chiede di spiegarla ». Non c’è religione senza salvezza, ci sono religioni senza Dio, nessuna senza salvezza.
Per il cristianesimo la salvezza scaturisce dalla Pasqua di Cristo, al cui riguardo si legge nel Catechismo cattolico: «Vi è un duplice aspetto nel Mistero pasquale: con la sua morte Cristo ci libera dal peccato, con la sua Risurrezione ci dà accesso ad una nuova vita» (art. 654). Questo è il centro del messaggio: la salvezza come redenzione operata da Cristo.
Il concetto di redenzione è sconosciuto alle altre religioni: Mosè, Buddha, Confucio, Maometto sono legislatori, maestri, profeti, saggi, non redentori, non sono cioè essi a dare la salvezza, che è invece ottenuta dai fedeli seguendo i loro insegnamenti. Il cristianesimo si distingue perché ritiene l’umanità corrotta dal peccato originale e incapace di meriti spirituali, e quindi annuncia la salvezza come operata gratuitamente da Dio mediante la redenzione ottenuta da Cristo.
Ogni anno la Pasqua è la solenne celebrazione di questo evento. Esaminando la storia di tale dottrina si vede che il primo a formularla fu San Paolo. Egli scrive: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue» ( Romani 3, 23-25). Paolo afferma che la morte di Cristo è stata voluta direttamente da Dio e altrove aggiunge: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore» ( 2 Corinzi 5,21).
Leggendo i suoi scritti in ordine cronologico si scopre però che non sempre San Paolo la pensava così. Nella sua lettera più antica infatti egli non parla della morte-risurrezione di Cristo come di un atto redentivo, né dell’evento salvifico come già avvenuto. Al contrario per lui la salvezza deve ancora attuarsi. Ecco come: «Il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi per andare incontro al Signore» ( 1Tessalonicesi 4,16-17).
Paolo scrive che Cristo è morto «per noi», ma non fa dipendere la salvezza da quella morte, prova ne sia che non ritiene quest’ultima voluta da Dio (come invece sosterrà in seguito) ma dagli ebrei, come appare da queste parole destinate nei secoli ad alimentare l’antisemitismo: «I giudei hanno persino messo a morte il Signore Gesù e i profeti, e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini » (2,15-16). Qui non c’è un piano di Dio che manda il Figlio a morire, c’è piuttosto l’inimicizia degli ebrei che hanno ucciso Gesù, il quale però è stato risuscitato da Dio a chiara dimostrazione della mutazione della storia che si realizzerà con il suo imminente ritorno. La stessa impostazione si ritrova in 1 Corinzi.
San Paolo cambia presto prospettiva ed è facile capire il perché: la mancata venuta di Cristo lo induce a porre il centro focale non più nel futuro ma nel passato, Cristo è il salvatore non perché tornerà vittorioso ma perché è morto offrendosi al Padre e riconciliandoci a lui con il suo sangue. Cristo diviene così il redentore crocifisso. È in questa luce che vent’anni dopo vengono composti i Vangeli. Essi però, riportando anche il pensiero di Gesù, permettono di sollevare la questione decisiva: Gesù pensava la salvezza come redenzione oppure, da ebreo osservante, la legava al responsabile esercizio della libertà?
Vi sono testi evangelici in linea con la teologia della redenzione, per esempio quando Gesù dice di essere venuto per «dare la propria vita in riscatto per molti» ( Marco 10,45) o quando nell’ultima cena pronuncia le note parole: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati » ( Matteo 26,28).
Nei Vangeli però vi sono molti altri testi che presentano la salvezza legata non a un evento esterno ma alle azioni liberamente poste, secondo la tradizionale concezione ebraica della salvezza come esito della fedeltà all’alleanza, cioè come giustizia.
Io penso anzi che a Gesù la dottrina della redenzione non sarebbe piaciuta per nulla, c’è tutto il Discorso della montagna a dimostrarlo, a partire dalle parole del Padre Nostro sul ruolo attivo della libertà: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Gesù prosegue: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdone- rà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» ( Matteo 6,12-15). La mossa decisiva spetta alla libertà umana, la quale per Gesù è in grado di operare anche il bene perché non è irrimediabilmente corrotta, come invece dirà San Paolo e più radicalmente Sant’Agostino.
L’idea di una libertà efficace in ordine alla salvezza si ritrova in molti altri passi evangelici tra cui: «Col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» ( Matteo 7,2). Il principio salvifico è quindi legato alla prassi responsabile: «Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» ( Matteo 7,21). Il Discorso della montagna, cuore del messaggio di Gesù, è un appello alla libertà quale via efficace per il conseguimento della salvezza.
A questo punto appare evidente la problematicità della successiva costruzione teologica cristiana basata sulla redenzione, da cui la difficoltà nel rispondere alle seguenti questioni:
1) In cosa consiste propriamente la redenzione operata da Cristo?
2) L’atto redentivo vero e proprio è la morte di croce o è la risurrezione?
3) Qual è la sorte di chi non vi partecipa?
4) Da cosa si viene redenti: dalla morte, dal Diavolo, dall’egoismo, dal mondo, dal castigo di Dio, dalla Legge, dal peccato, o da tutto questo messo insieme?
La radice dell’aporia risiede a mio avviso nell’idea di una specificità cristiana della salvezza in quanto legata a un determinato evento storico, cioè nell’impostazione data al cristianesimo da san Paolo ed estranea a Gesù. In realtà occorre pensare che la salvezza è sempre stata disponibile agli esseri umani, a qualunque religione o non-religione appartengano, perché è legata al bene e alla giustizia.
È il Vangelo ad affermarlo: «Venite, benedetti dal Padre mio, riceverete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito» ( Matteo 25,34-36).
Nel Libro dei Morti dell’antico Egitto vi sono parole analoghe: «Ho soddisfatto Dio con ciò che ama: ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vestiti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva» (cap. 125). Il testo risale a 1500 anni prima di Cristo e dicendo le stesse cose mostra il vero senso della salvezza, che mai mancò al genere umano, ben prima del cristianesimo storico: la liberazione dall’ego e l’apertura al bene, all’amore, alla giustizia. Io ritengo non implausibile pensare che, in chi pratica questo stile di vita, possa generarsi una peculiare disposizione della sua energia costitutiva (ciò che tradizionalmente si chiama anima) in grado di vincere la curvatura dello spazio-tempo.
La fede senza consolazione del buon cristiano Quinzio
di Gianni Vattimo (La Stampa, 22.03.2016)
Possiamo considerare provvidenziale il fatto che ci tocchi celebrare il ventennale della morte di Sergio Quinzio (scomparso il 22 marzo 1996) proprio all’inizio della Settimana Santa? Il fatto è che il centro di tutta la meditazione di Quinzio, fin da quando cominciava a pubblicare i suoi scritti mentre era ancora ufficiale della Guardia di Finanza, è stato il mistero della resurrezione. Quella di Cristo, anzitutto, narrata nei Vangeli, così intensamente commentati nelle sue opere; e poi quella promessa agli uomini dopo il giudizio finale.
Né l’una né l’altra di queste resurrezioni, quella accaduta a Gerusalemme e quella promessa a tutti noi per il futuro, sono mai state per lui oggetto di una meditazione consolatoria e «edificante» nel senso più comune. Come il mistero della Croce, la resurrezione è un punto inquietante, di frizione, nella fede di Quinzio, e più in generale nella sua visione della Chiesa. I titoli delle sue opere più note, da La fede sepolta (1978) a La Croce e il nulla (1984) a Mysterium iniquitatis (1995), alludono a una concezione del cristianesimo improntata alla coscienza acuta di un fallimento, insomma il contrario di ogni trionfalismo e di ogni senso di positività esistenziale e storica.
Paradossalmente, è proprio con la resurrezione che ha a che fare questo complessivo angosciante senso di fallimento. Se anche gli apostoli hanno visto Gesù risorto (ma anche: «beati quelli che hanno creduto senza vedere») la trasformazione del mondo, la parusia, ossia il ritorno del Messia nella sua gloria che essi credevano imminente, non si è verificato. Il primo fallimento del Cristianesimo è stato questo, i nuovi cieli e la nuova terra che Gesù aveva promesso, credendo anche lui nella loro imminente realizzazione, non sono venuti, e anche dopo la sua risurrezione i suoi discepoli hanno dovuto fare i conti con questo inspiegabile ritardo. Che ha segnato in modo indelebile lo sviluppo della dottrina e della spiritualità cristiana.
Perfino il modo cristiano di considerare e vivere la sessualità ha le sue remote radici qui: il ritardo della parusia è il primo responsabile della progressiva tendenza spiritualizzante che si impose nella interpretazione del messaggio di Gesù, insieme allo scandalo che suscitava nel mondo greco l’idea che i morti potessero risorgere. La vita eterna venne sempre più considerata come riservata all’anima, che del resto la filosofia greca aveva già ritenuto immortale, mentre il corpo era destinato a perire: anche una volta risuscitati nell’ultimo giorno i fedeli salvati non avrebbero più goduto delle felicità terrene, «neque nubent neque nubentur» (Matt. 22, 30), cioè non avrebbero più avuto rapporti carnali e tutta la felicità del Paradiso si sarebbe risolta nella contemplazione di Dio. Non era però la nostalgia per i piaceri della carne che muoveva Quinzio, ma l’idea che la verità più caratteristicamente cristiana, la fede nella risurrezione, si era consumata fino a sparire sempre più dall’orizzonte della Chiesa in un processo di secolarizzazione.
È eloquente, in questo senso, soprattutto l’ultimo libro di Quinzio, Mysterium iniquitatis, in cui egli immagina di scrivere le due encicliche dell’ultimo Papa, che secondo una famosa profezia medievale sarebbe stato eletto alla fine del secondo milllennio. Anche questa profezia, fortunatamente o no, non si è realizzata, per ora. Tuttavia il tempo che viviamo, pensa Quinzio, è quello del trionfo dell’anticristo di cui parla l’Apocalisse, lo scatenarsi del male assoluto (Auschwitz e oltre!) a cui seguirà finalmente la parusia, il ritorno glorioso del Cristo giudice che farà nuove tutte le creature, asciugherà tutte le lacrime e raddrizzerà tutte le ingiustizie della storia.
È questo il cristianesimo capace di salvarci, anche se non è tenero e consolante come vorremmo che fosse? Non sarà esso stesso troppo «spirituale», troppo monastico e pessimista sulla possibilità di opporre qualche sia pur debole resistenza al dilagare del male che moltiplica le vittime nell’apparente silenzio di Dio, e spesso anche dei suoi ministri? E poi: potrebbe essere stata segnata da uno spirito «quinziano» la decisione di Benedetto XVI, di dimettersi dalla sua carica? O addirittura, come pensano probabilmente molti integralisti, non sarà proprio Francesco, con le sue riforme e la sua dissoluzione di tante tradizioni consolidate, l’ultimo papa della storia? Domande che ci portano pericolosamente vicino a Dan Brown e ai suoi gialli religiosi, che certo Quinzio non amava. Ciò che rimane di lui è forse descrivibile come la testimonianza di un Giobbe che non si lascia tanto facilmente convincere di avere torto, e prende in parola le promesse divine con una ostinazione di cui la fede non può fare a meno.
“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Luca 24,5)
Il giorno di Pasqua, che Giovanni fa coincidere con la Pentecoste, si scioglie il dilemma della chiesa tra chiusura e ripiegamento da una parte, e fermento di sempre nuova generazione dall’’altra.
La chiesa non è il museo delle cere di personaggi incatramati dal ricordo e resi sterili dal tempo, ma grembo gravido di nuove, disturbanti presenze.
La chiesa non è un bunker per i strenui difensori della propria identità, ma campo aperto per i seminatori dell’’altrui dignità.
La chiesa non è un covo di nostalgici queruli che guardano all’’indietro, ma torre di guardia di sentinelle che scrutano l’’orizzonte, con lo sguardo in avanti.
Auguri a tutti noi, allora, perché le nostre esistenze non siano tombe vuote ma sorgenti di vita.
Sorgenti di speranza per distribuire futuro.
Sorgenti di coscienza per diffondere responsabilità.
Sorgenti di riconoscenza e gratitudine per seminare gioia e generosità.
Sorgenti di semplicità per liberare schiettezza e autenticità.
AUGURI!
Aldo Antonelli
Avezzano 20 Aprile 2014 ore 4,57
"La Pasqua prosciughi,
fino all’ultima goccia,
i ristagni di disperazione
che ci si sono sedimentati nel cuore.
E, insieme al coraggio di esistere,
ci ridia la voglia di camminare" (don Tonino Bello) *
* Un augurio fatto proprio e ’segnalato’ da don Aldo Antonelli
UOMINI E DONNE: ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA FILOSOFICA: "DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE"
LA RINASCENZA DEL SOGGETTO. SULLE TRACCE DI BENJAMIN, AL DI LA’ DELL’EDIPO. Una nota di Nicola Fanizza sul libro di Federico La Sala
(...) a più di cinquecento anni di distanza, va riconosciuto il valore profetico della cultura del Rinascimento: è un’onda lunga che mantiene intatta la sua pregnanza di significato e il suo vigore!
di Safran Foer (la Repubblica, 7 aprile 2012)
Ho trascorso buona parte degli ultimi anni a riscrivere l’Haggadah - la guida per le preghiere, i riti e i salmi del Seder (incontri che si celebrano in una delle due sere della Pasqua ebraica, NdT) - e di frequente mi chiedono per quale motivo ho voluto sottrarre tempo alla scrittura per investirlo in un simile progetto.
Per tutta la mia vita i miei genitori hanno ospitato il Seder della prima notte della Pasqua ebraica. A mano a mano che la nostra famiglia si allargava - e con essa di pari passo anche la nostra definizione di famiglia - per la cena rituale ci siamo spostati dalla sala da pranzo al nostro scantinato, più spazioso, che puzzava di muffa. Da un tavolo siamo passati a più superfici goffamente accostate le une alle altre per formarne uno più grande. La richiesta di mio padre di togliere la rete dal tavolo da ping-pong mi ha sempre reso consapevole dell’approssimarsi della Pasqua. Poi, tutti i tavoli erano ricoperti da grandi tovaglie sbiadite e assortite.
Ogni volta c’era un’Haggadah che i miei genitori avevano messo insieme fotocopiando i brani preferiti presi da altre Haggadah, e quando finalmente i Foer ottennero la connessione a Internet la prepararono stampando ciò che trovavano online. Perché la sera di Pasqua è diversa da qualsiasi altra? Perché quella sera non si applica il copyright.
In mancanza di una terra loro e stabile, gli ebrei misero su casa nei loro libri e l’Haggadah - il cui nucleo centrale è il racconto dell’Esodo dall’Egitto - è stata tradotta innumerevoli volte, più di qualsiasi altro libro ebraico, ed è stata rivista più frequentemente di qualsiasi altro libro ebraico. Ovunque si siano recati gli ebrei ci sono sempre state Haggadah: dall’Haggadah di Sarajevo risalente al XIV secolo (che si dice sia sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale sotto le assi del pavimento di una moschea, e all’assedio di Sarajevo nel caveau di una banca) a quelle preparate dagli ebrei etiopi e fatte pervenire per via aerea in Israele durante l’Operazione Mosé.
Tuttavia, delle settemila versioni note - per non parlare delle incalcolabili edizioni fatte in casa - una sola è usata più di tutte le altre messe insieme: dal 1932 l’Haggadah della Maxwell House predomina nei rituali degli ebrei americani. Sì, proprio quella della marca di caffè Maxwell House. Avendo assodato negli anni Venti che il chicco di caffè non è un legume bensì una bacca, e di conseguenza è kosher per Pasqua, la Maxwell House diede all’agenzia pubblicitaria Joseph Jacobs l’incarico di fare del caffè e non del tè la bevanda eletta da bere dopo i Seder. Se tutto ciò vi sembra folle, tenete presente che il caffè Maxwell House è sempre stato particolarmente popolare nelle case ebraiche.
L’Haggadah che ne nacque costituisce una delle promozioni-vendita speciale che dura da più tempo in assoluto nella storia della pubblicità. Nei supermercati ne sono state distribuite gratuitamente almeno 50 milioni di copie, ispiranti quanto si può immaginare che siano i gadget di una marca di caffè. Nondimeno, molte persone provano un senso di attaccamento nei confronti dell’Haggadah della Maxwell House, per la gioiosa rassicurazione che essa evoca. Ci piace come ci piacciono le battute sugli ebrei. La versione della Maxwell House è di per sé una sorta di battuta ebraica - per averne la conferma provate un po’ a farne parola a un gruppo di ebrei senza provocare risate. Oltretutto, è gratis e - al pari della bevanda a base di caffeina e senza tanti fronzoli che reclamizza - appaga un bisogno molto primario.
Il più leggendario Seder di tutti - che, per un caso postmoderno, è raccontato nell’Haggadah stessa - si svolse intorno all’inizio del secondo secolo a Bene Beraq tra gli studiosi più importanti dell’antichità ebraica. Si concluse anticipatamente, quando gli studenti irruppero per annunciare cheera giunta l’ora della preghiera del mattino. Anche se lessero l’Haggadah dall’inizio alla fine, espletando ogni rito e cantando ogni verso di ogni singolo salmo, probabilmente trascorsero la maggior parte del loro tempo a fare altro. A estrapolare, sviscerare, discutere.
La storia dell’Esodo, infatti, non deve essere soltanto recitata, ma affrontata. Se l’Haggadah della Maxwell House non è mai riuscita a soddisfare appieno le esigenze intellettuali e spirituali, in ogni caso è servita in modo egregio e appropriato agli ebrei esperti conoscitori dei riti di una o due generazioni fa.
Gli attori però non conoscono più il copione. Gli ebrei americani, con una sorta di esodo ulteriore, sono passati dalla povertà all’agiatezza, dalla tradizione alla modernità, dalla familiarità nei confronti di una storia comune alla perdita della memoria collettiva. I nostri nonni erano immigrati in America, ma erano originari dell’ebraismo. Noi siamo l’esatto contrario: sappiamo tutto di American Idol, ma non conosciamo i grandi protagonisti dell’ebraismo. Di conseguenza, nei confronti dell’ebraismo ci comportiamo come immigrati: ci andiamo cauti, lo respingiamo, ne diventiamo consapevoli, e fingiamo (o raggiungiamo) indifferenza. In quel paese straniero che è la nostra fede, abbiamo urgentemente bisogno di una buona guida.
Anche se significa "il racconto", l’Haggadah non racconta semplicemente una storia: è il libro della nostra memoria vivente. Non basta ri-raccontare la storia: dobbiamo spiccare un salto più estremo ed empatico ed entrare dentro di esso. «A ogni generazione ogni individuo è tenuto a considerarsi come se fosse colui che andò via dall’Egitto» ci dice l’Haggadah. Questo salto è sempre stato una sfida in grado di intimorire, seppur carico di significato per la mia generazione in modo diverso rispetto ai disperati delle prime generazioni che si volevano assimilare - perché adesso, oltre alla mancanza di cultura e di conoscenza del sapere ebraico, c’è anche il vizio strutturale di un compiacimento collettivo.
L’integrazione degli ebrei e delle tematiche ebraiche nella nostra cultura pop è così preponderante che ormai siamo intossicati dalle immagini surrogate di noi stessi. Anche io adoro Seinfeld (sit-com americana, NdT), ma non credete che ci sia un problema nel momento in cui questa trasmissione è indicata quale riferimento dell’identità ebraica del singolo? Per molti di noi, essere ebrei è diventato, più di ogni altra cosa, strano. Tutto ciò che resta, nel vuoto della scioltezza e della profondità, sono le risate.
Circa cinque anni fa ho avvertito in me una certa malinconia. Forse era dovuta al fatto di essere diventato padre, o semplicemente al fatto di invecchiare. Malgrado io sia cresciuto in una famiglia ebraica intellettuale e consapevole, non sapevo pressoché nulla di ciò che si suppone che sia il mio sistema di pensiero. C’era anche di peggio: mi sentivo soddisfatto del poco che sapevo. Talvolta pensavo al mio modo di essere in termini di rifiuto, ma è impossibile respingere ciò che non si comprende e che non è mai stato davvero tuo. Talvolta ritenevo fosse un successo, ma non c’è successo alcuno nella perdita passiva.
Perché ho sottratto tempo alla mia attività di scrittore per pubblicare una nuova Haggadah? Perché volevo fare un passo avanti in direzione di quella conversazione che potevo udire soltanto a stento attraverso le porte chiuse della mia ignoranza; un passo avanti in direzione di un ebraismo fatto di punti di domanda, più che di citazioni; verso la storia del mio popolo, della mia famiglia e di me stesso.
Come ogni bambino, anche mio figlio di sei anni adora ascoltare storie - miti e saghe nordiche, Roald Dahl, racconti della mia infanzia - ma più di ogni altra cosa gli piacciono le storie della Bibbia. Così, tra quando ha terminato di fare il bagno e il momento in cui va a letto, mia moglie ed io gli leggiamo spesso alcune versioni per bambini delle storie del Vecchio Testamento. Lui adora ascoltarle, perché sono le storie più belle mai raccontate. E noi adoriamo raccontargliele per un motivo diverso. Lo abbiamo aiutato a imparare a dormire tutta la notte, a servirsi della forchetta, a leggere, ad andare in bicicletta, a salutarci. Ma non esiste insegnamento più importante di quello che non si apprende mai ma si studia sempre, il progetto collettivo più nobile di tutti, preso in prestito da una generazione e tramandato alla successiva: come trovare sé stessi.
Alcune sere, fa, dopo aver sentito raccontare la morte di Mosé per l’ennesima volta - e come esalò l’ultimo respiro avvistando una terra promessa nella quale non avrebbe mai messo piede - mio figlio ha appoggiato la testa dai capelli ancora umidi sulla mia spalla.
«C’è qualcosa che non va?» gli ho chiesto, chiudendo il libro.
Lui ha scosso la testa.
«Sei sicuro?».
Senza alzare il viso, ha domandato se Mosé è esistito davvero.
«Non lo so» gli ho risposto, « ma siamo imparentati con lui».
(Traduzione di Anna Bissanti)
Jonathan Safran Foer ha appena pubblicato la "New American Haggadah"
(Il Cantico dei Cantici 8:5-14) “Chi è questa donna che sale dal deserto, appoggiandosi al suo caro?”, chiedono i fratelli della Sulamita quando la vedono tornare a casa. Qualche tempo prima uno di loro aveva detto: “Se fosse un muro, edificheremmo su di lei un parapetto d’argento; ma se fosse una porta, la rafforzeremmo con una tavola di cedro”. Ora che la tenacia del suo amore è stata provata e dimostrata, la Sulamita dice: “Io sono un muro, e le mie mammelle sono come torri. In questo caso son divenuta ai suoi occhi come colei che trova pace”. - Il Cantico dei Cantici 8:5, 9, 10. Il vero amore è “la fiamma di Iah”. Perché? Perché tale amore ha origine da Geova, Colui che ci ha reso capaci di amare. È un fuoco le cui fiamme sono inestinguibili. Il Cantico dei Cantici illustra in modo straordinario che l’amore fra un uomo e una donna può essere “forte come la morte”. - Il Cantico dei Cantici 8:6. Il cantico superlativo di Salomone fa luce anche sul vincolo che c’è fra Gesù Cristo e i componenti della sua “sposa” celeste. (Rivelazione [Apocal.] 21:2, 9) L’amore che Gesù prova per i cristiani unti è al di sopra di qualsiasi amore esista fra un uomo e una donna. La devozione dei componenti della classe della sposa è incrollabile. Gesù diede amorevolmente la vita anche per le “altre pecore”. (Giov. 10:16) Quindi tutti i veri adoratori possono imitare l’esempio di amore e devozione incrollabile della Sulamita.
Non c’e’ dubbio che i fratelli della bella Sulamita...volevano proteggerla nel cadere nell’immoralita’ sessuale! Ora invece e’ tutto al contrario L’immoralita’ e’ una piaga devastatrice; riferendosi al peccato di avere relazioni prima d’essere sposati legalmente. E’ anche chiaro che l’amore e’ piu’ forte della morte; Certo la morte nel prossimo futuro morira’ anche essa ma! l’amore restera’ per sempre. Insistere nell’eslusiva Devozione; certo che bisogna insistere se! siamo Cristiani..."Genuini" discepoli del nostro Signore Cristo Gesu’. Lui ci ha’ lasciato il modello morale per come camminare...come anche le sue impronte dei suoi piedi...come possiamo sbagliarci se! facciamo scrupolosamente questo? al contrario oggi la stragante maggioranza chi segue! nessuno da quando Gesu’ era sulla terra ci ha’ lasciato un’altro modello migliore del suo!
Gli unti sono coloro che appartengono ad un gruppo di numero stabilito gia dal primo secolo dopo la morte di Gesu’ e a Giovanni tramite ispirazione gli fu detto "SCRIVI". Questo gruppo gode di un amore immenso da parte del re del Regno avvenire qui sulla terra. Quindi il gruppo (a suo tempo) insieme al re regnerano (dal cielo) sui superstiti della grande guerra di Armaghedon.... i superstiti qui sulla tella delle altre pecore che appartengono allo stesso gregge; (Degli Unti) riceveranno varie benedizioni e la possibilita’ di vivere sulla terra per sempre. Nel versetto 8:6 viene anche menzionato lo SCEOL il posto dove si va dopo la morte; Sotto terra, Inferi, Inferno, Tomba, Sepolcro, incluso nel’acqua e nel fuoco o altro!"tecnonogie" Nello Sceol non c’e’ vita...se e’ morte e’ morte. Non si e’ consci ma! inconsci....Meglio fare quello che devi fare ora che sei in vita! (Un cane vivo fa piu’ paura di un leone morto) Eccles. 9:4-6
Insomma amici c’e’ tanto da sapere e studiare; povero ragazzo; erede di un padre di origine Giudaico che! non sa come rispondere al figlio se Mose’ e’ esistito o no! La logica stessa se siamo "Imparentati" e’ esistito MOSE’. Povero ragazzo io dico e’ poveri sarete anche voi amici cari se non comprendete e non cercate l’accurata conoscenza basata sulla verita’ che a suo tempo avra’ l’approvazione di Dio e di Gesu’ a suo tempo con una Resurrezione se moriamo prima di Armaghedon o restiamo in vita come superstiti a questa grande e finale guerra di Dio per il nostro benessere eterno. Rivel. 21: 3-5......
Con (Tutto il bene e rispetto del mondo; con simpatia ed empatia)
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6)
COME TROVARE SE STESSI: «A ogni generazione ogni individuo è tenuto a considerarsi come se fosse colui che andò via dall’Egitto».
pur ringranziandoti per l’attenzione agli articoli postati, e tenendo ben ferma la differenza tra la tua persona e il testo qui sopra da te inviato a risposta del tema, devo dirti in tutta franchezza che la tua "predicozza" nel nome di Geova è profondamente inquinata da superficialità e gravissima intolleranza.
Le "sacre" interpretazioni a cui tu dai fiducia cieca, tanto da leggere male e offendere altre persone come te e - per di più - del popolo e della tradizione da cui tu hai appreso ciò che pretendi di insegnare,
ti accecano, ti fanno leggere male ciò che leggi, e ti impediscono di capire, che non solo gli altri ma anche noi tutti (tu - compreso!) dobbiamo ancora capire che "c’è tanto da sapere e studiare" soprattutto relativamente a noi stessi - a se stessi e agli altri e alle altre.
Con "tutto il bene e rispetto del mondo, con simpatia ed empatia"
In spirito di carità ("charitas"), un’ulteriore sollecitazione a leggere meglio e a studiare di più e
un cordiale augurio di resurrezione e di risurrezione,
Federico La Sala
Federico, l’eccessiva tolleranza porta a non un liete fine! Certo che per quelli che la praticano...prendendo tutto alla leggera si fanno una religione su misura...godono di tanta liberta’ d’agire e dire quello che vogliono ma alla fine e’ l’Oste che fara’ o dara’ il conto giusto "Giudizio". ( Fiducia cieca) Non noi Federico Noi siamo noti di fare ricerche "accurate prima che adottiamo qualche riforma" e di riforme ne abbiamo fatte tante....contrario a chi non ha’ il coraggio di non farne mai...concedendo cosi’ piu’ tolleranza! GRADITA da coloro che hanno e sono incalliti a praticare il male, nella Morale, nella Politica, nel non pagare le tasse, nella Religione, nelle Famiglie, nella Comunita’ (di tutto il mondo)
"c’è tanto da sapere e studiare" Conoscendocci meglio gli uni gli altri...Certo e quando inizieremo Federico? Preferiamo forse dalla culla alla tomba lasciare stare le cose come sono e come vanno e muoriamo in pace! Ricordo quello che diceva Biagio Allevato di te Federico; Un amante delle religioni tribali dell’africa...credo che voleva dire: Uno che ne canta ne vuole portare la croce. Se vuoi dimmi a cosa credi e vedremo se e’ scritturale o no.
In spirito di carità ("charitas"), Federico sei attaccato a questa parola con tutta l’anima e core. Fai bene ma! e troppo poco.Credi proprio che una persona puo’ fare e dire quello che vuole e poi sperare che sia Dio che il Suo Figlio Cristo Gesu’ gli mostrino tolleranza concedendogli la GRAZIA...l’essere salvato senza fare niente!
Fra i cattolici si racconta questa barzelletta...Pietro era di buona vena e disse a un mal-fattore: cerca di ricordarti almeno una cosa che hai fatto di bene sulla terra e ti faro’ entrare nel paradiso. L’uomo si grattava la testa e in effetti continuava a dire che : Non credeva che aveva mai fatto una cosa buona e Pietro intanto lo incoraggiava a ricordarsi e concedergli piu’ tempo a farlo. Poi disse: " Ecco ricordo che una volta ho’ dato 25 soldi a un mendicante" Pietro mette la mano nella tasca e tira fuori 50 centesimi gliele mette nella mano e gli dice: ecco i 25 soldi che hai dato al mendicante e piu’ gli interessi e vai all’inferno.
Comunque Federico non prendertela a male non e’ proprio che mi riferisca e te personalmente ma certe cose si dicono in un modo generale. ( Tu mi hai fatto studiare di piu’ in questi ultimi anni) (Non credo che sia meglio non dire niente; "L’essere passivo non fa per me ne per un buon cristiano.... comunque il rispetto e’ essenziale...poi lasciamo che Dio giudichi e non noi. Volevo e credevo che qualche scrittura Biblica ti sarebbe piaciuta! questa volta mi astengo.
Grazie dell’augurio Federico Io dico che se lo meritiamo , allora la resurrezione varra’ molto sia per me che per te se! l’apprezziamo dovutamente.
MEMORIA DELLA LIBERAZIONE: COME TROVARE SE STESSI E SE STESSE
E NON MORIRE NELLE BRACCIA DI MAMMONA
O DEL "SANTO PADRE" O DELL’ "ANZIANO" DI TURNO.
In spirito di carità ("charitas") ... Non vuol affatto dire quello che tu pensi, leggendo prevenuto e accecato dall’alto delle tue "sacre" interpretazioni (" Credi proprio che una persona puo’ fare e dire quello che vuole e poi sperare che sia Dio che il Suo Figlio Cristo Gesu’ gli mostrino tolleranza concedendogli la GRAZIA...l’essere salvato senza fare niente!"),
IN SPIRITO DI CARITA’ .... non significa parlare con se stesso o con se stessa nel sonno e nel sogno e pensare di parlare con un altro o con un’altra!!! Ma significa che una persona (un sole) cerca di parlare con un’altra persona (un sole), alla luce del Sole - da essere umano a essere umano, in condizione di veglia! Per ben comunicare (anche solo con se stessi o con stesse), come insegna Dante, ci vogliono TRE SOLI (la cosiddetta impropriamente teoria dei "due soli"!)
IN SPIRITO DI CARITA’ ("CHARITAS").
CHARITAS è la parola chiave del messaggio evangelico ed è il Nome stesso del Dio-Padre di Gesù: "Deus charitas est"! E se traduciamo con "amore", meglio con "amore pieno di grazia", cominciamo a capire un pochino di più!!! Poi se comprediamo che Maria e Giuseppe sono colmi di "charitas", andiamo ancora di più in profondo, e cominciamo a capire di Chi è Figlio Gesù, e di Chi siamo Figli e Figlie, noi esseri umani..... Non certo di un Geova con la barba bianca e di Belzebù con le corna e la coda!!!
Che cosa vuol dire che «A ogni generazione ogni individuo è tenuto a considerarsi come se fosse colui che andò via dall’Egitto»? Significa uscire dallo stato di minorità, e diventare maggiore maggiorenni, prendere la propria "croce" (se stessi), e decidersi se seguire la via del Padre Nostro e di Gesù ( Dio-Charitas) o la via del proprio egoisismo e dei propri affari (Mammona-Caritas).
Cerca di capire e di leggere bene: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE", ed è scritto nel Cantico dei cantici (8.6)!!!
QUESTA E’ - A MIO PARERE - LA CHIAVE STESSA DEL MESSAGGIO DI MOSE’, DELL’ARCA DELL’ALLEANZA, DI ELIA... E DI GESU’. (Vedere la foto, vicina al titolo)
QUESTO NON HA A CHE FARE NULLA CON NESSUN SUPER-ESSERE, NESSUN UOMO-DIO o DIO-UOMO, O - CHE E’ LO STESSO - CON NESSUNA DONNA-DIO o DIO-DONNA,
MA HA A CHE FARE SOLO CON L’AMORE ("Charitas") CHE RENDE POSSIBILE IL FIGLIO, GESU’... COME ELIA E LO STESSO MOSE’ (il "Logos", in carne e ossa) E RI-COMPRENDERE E PERFEZIONARE LA STESSA LEGGE MOSAICA E L’INTERO MESSAGGIO BIBLICO.
Che cosa vuol dire che «A ogni generazione ogni individuo è tenuto a considerarsi come se fosse colui che andò via dall’Egitto»?
Vuol dire che, se ogni essere umano vuole vivere e non morire, deve uscire dallo stato di minorità, diventare maggiorenne, prendere la propria "croce" (se stessi), e decidersi se seguire la via del Padre Nostro e di Gesù ( Dio-Charitas) o la via del proprio egoismo e dei propri affari (Mammona-Caritas).
Allora, se vogliamo vivere e non morire, cominciamo a parlare in prima persona e a portare se-stessi e se-stesse re-sponsa-bilmente sulla strada della carità ("charitas").... che è la strada stessa della resurrezione e della risurrezione di noi stessi e dell’Amore che muove il Sole e le altre stelle.
Dante l’aveva capito e l’ha detto non solo nella "Commedia", ma soprattutto nella "Monarchia" ove chiairsce che cosa significa camminare sulla strada della giustizia e del retto amore ("charitas") e propone la metafora dei TRE SOLI: i DUE SOLI sulla Terra, e il TERZO - IL PRIMO - Sole ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8) in Cielo.
Federico La Sala
Federico; Mio zio, che ora non c’e’ piu’ sapeva fare davvero un bel minestrone...sono sincero in questo parlo di un minestrone con tutti gli incredienti necessari e anche qualche cosa in piu’, come le bucce del formagio parmigiano che rimanevano o un’osso di carne di maiale con un po di carne attorno. Ogni tanto lo facciamo e ci saziamo e ci scialiamo l’anima. Tu Federico lo dico per il tuo bene poiche’ io ti rispetto e ti ammiro....hai fatto un buon minestrone, come lo faceva mio zio o ancora meglio. Una sola cosa ci manca...non e’ stato acceso il fornello o fuoco per farlo cuocere.
La pronuncia corretta del nome divino. “Geova” è la più nota forma italiana del nome divino, anche se in prevalenza gli ebraicisti preferiscono la forma “Yahweh”. Nei manoscritti ebraici più antichi compare il nome scritto con quattro consonanti, comunemente chiamato il Tetragramma (dal gr. tètra, “quattro”, e gràmma, “lettera”). Queste quattro lettere (scritte da destra a sinistra) sono ( יהוה ) e si possono traslitterare con le lettere YHWH (o JHVH). Il codice di Leningrado B 19A, dell’XI secolo E.V., vocalizza il Tetragramma in modo da leggere Yehwàh, Yehwìh e Yehowàh. L’edizione di Ginsburg del testo masoretico vocalizza il nome divino in modo da leggere Yehowàh. (Ge 3:14, nt.) Gli ebraicisti in genere preferiscono “Yahweh” ritenendola la pronuncia più probabile. Fanno rilevare che la forma abbreviata del nome è Yah (Iah nella forma italianizzata), che ricorre nel Salmo 89:8 e nell’espressione Halelu-Yàh (Lodate Iah!).
1Re 18:18-29. “O Baal, rispondici!” Ma non c’era voce, e non c’era chi rispondesse. E zoppicavano intorno all’altare che avevano fatto. 27 E avvenne verso mezzogiorno che Elia si prendeva gioco di loro e diceva: “Chiamate con quanto fiato avete, poiché egli è un dio; poiché dev’essere occupato in una faccenda, e ha escrementi e deve andare al gabinetto. O forse dorme e si deve svegliare!” 28 E invocavano con quanto fiato avevano e si facevano incisioni secondo la loro abitudine con daghe e lance, finché si fecero scorrere il sangue addosso.
SI! e’ vero 1Giov. 4:8 Dio e’ AMORE....Che’ dire di (Giov. 3:16)-(Giov. 17:3) Capire questi due soli versetti aiuterebbero sia a te che a me meglio a (Come praticare L’AMORE di Dio) La fede seza le opere e’ morta.
Federico...Dante non aveva altro da fare! ...Prende la moglie e la fa diventare Beatrice, Prende un suo vicino di casa mezzo scemo e lo chiama Vergilio anche il cane usa in qualche modo e altri parenti...per cosa! Una Commedia e lo era davvero ma poi a diventare Divina questa commedia e’ il colmo Federico.
Scheckspier...Scusa a come lo scrivo...non e’ mai stato in Italia altro che Romeo e Giulietta!
Galileo era convinto che la terra girasse!
Francesco disse: Se! noi che siamo i Ledear Non sfamiamo i poveri! Che’ razza di Ledear siamo?
Giordano e’ morto con la Bibbia al collo.
Berlusconi e Bossi non ci sono piu’!
Federico e’ meglio che questo minestrone non si cucini....credimi e’ meglio.
Duistinti saluti con un piccolo inchino alla giapponese! con la giusta reverenza....altrimenti se e’ un po’ di piu’ povero me!
IN PRINCIPIO ERA IL MINESTRONE .....
E DIO DISSE: " O TI MANGI IL MINESTRONE O TI BUTTI DAL FINESTRONE"!!!
Federico e’ meglio che questo minestrone non si cucini....credimi e’ meglio.
Federico Io ci credo al minestrone! me lo mangio con molto gusto e apprezzamento; lo facciamo ogni tanto con buoni ingredienti freschi naturali e scelti come quello dello zio dell’america che non c’e’ piu’.
Il tuo Minestrone Federico per farla corta....SI ci sono gli ingredienti e sono giusti quelli stabiliti e meglio per l’occasione MA! Non sono freschi.
Dio e’ AMORE....Certo senza ombra del dubbio. Dio il padre di Gesu’ VERO?
Quando Davide disse: Tu sei il mio pastore; si riferiva a Dio il padre di Gesu’
Anche in Giov. 3:16 se dice che Dio ha’ tanto amato il mondo si riferisce al padre di Gesu’
Difatti a causa di questo grande Amore.....hA’ MANDATO! RIPETO ha mandato CHI MANDA E DIO
Giov. 17:3 la prima cosa da fare e’ quella di riconoscere chi e’ il vero Dio e poi accettare il suo figlio Gesu’
CARO JOHN
PERMETTIMELO, IN SPIRITO DI AMICIZIA E CARITA!,
BASTA CON IL MINESTRONE DELLO "ZIO PAPARONE": "e’ meglio che questo minestrone non si cucini" MAI PIU’!!!
E’ IL FIGLIO - GESU’ - CHE CHIARISCE (A "MARIA E GIUSEPPE") CHI E’ IL VERO PADRE NOSTRO - NON VICEVERSA.
TIENI PRESENTE CHE SIAMO TUTTI FIGLI E FIGLIE DI CAINO ....
CERCHIAMO DI NON CONTINUARE AD UCCIDERE IL PADRE DI GESU’ E IL PADRE NOSTRO:
L’AMORE ("CHARITAS" CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE - CHE RENDE SOLARI I DUE CHERUBINI SULL’ARCA DELL’ALLEANZA DOVE E’ CUSTODITA LA LEGGE - IL PADRE NOSTRO, LO STESSO GESU’ NELLA VISONE DI FRANCESCO DI ASSISI E DI PAOLA E NELA VISIONE DEL CARRO DI GIOACCHINO DA FIORE !!!
AL MANGIARE IL MINESTRONE E AL BUTTARSI DAL FINESTRONE, C’E’ UNA TERZA VIA - QUELLA DEI "TRE SOLI"!!!
PENSACI UN POCO .... E RIPENSA CON AMORE A TE STESSO E AL TUO PAESE: A SAN GIOVANNI IN FIORE!!!
SICURAMENTE, TUTTO RIFIORIRA’ - GIOVANNI BATTISTA NON SI SBAGLIAVA E NON SI E’ SBAGLIATO:
IL 24 GIUGNO E’ GIA’ OLTRE LA PIENA PRIMAVERA... E COMINCIA L’E-STAT-E:
IL SOLE BRILLA ("STAT") NEL PIU’ ALTO DEI CIELI
MOLTI SALUTI E ANCORA AUGURI,
Federico La Sala
Per i passati due giorni mi sono goduto questo tuo commento, in particolare la prima (Qualita’) In Spirito...o con uno Spirito d’apprezzameto e di augurio e di Speranza. Per come hai usato la parola Spirito ( per la composizione di una frase, pensiero e augurio...Federico te ne sono molto grato.) Hai usato anche la parola amicizia e di questo te ne sono anche grato. Per terminare hai usato Carita ed immensamete e sinceramente ti ringrazio. PERMETTIMELO, IN SPIRITO DI AMICIZIA E CARITA!,
Federico, quando una volta Gesu’ rimase indietro per ritornare a casa; dopo una importante celabrazione...Maria e Giuseppe si sono preoccupati...poiche’ veramente non era nella folla . Tornando indietro al tempio di Gerusalemme Gesu’ quasi rimprovero’ i suoi genitori adottivi...dicendogli: Dovevate sapere che se non ero con voi ...l’unica altra possibilita’ era quella di essere o di trovarmi qui nel tempio nella casa del Padre mio.
L’essere figli di caino; non l’ho’ mai sentito....sarebbe meglio dire che siamo figli discendenti di Adamo ed Eva...Certo poi Adamo ed Eva hanno avuto figli e figlie. Il fatto che siamo imperfetti e’ che se per esempio una fornaia fa il pane in una forma ammaccata da un lato...Tutti i pani vengono con l’imperfezione dell’ammaccatura della forma.
Federico (Il Padre nostro, Il Creatore di tutto e di tutti....facciamo il nostro meglio di non ucciderlo...tradendolo come ha’ fatto Giuda con Gesu’. Ma! Il Padre nostro come preghiera la stragante maggioranza dei cristiani "nel recitarlo lo uccidono ogni qualvota che lo ripetono ....Poiche’ non ne seguono ne si preoccupano di fare le cose che dicono"
La luce sui Cherubini era "SCECCHINA’ che veniva da Dio Stesso. Gesu’ era ancora nei cieli dei cieli aspettando d;essere mandato sulla terra per provvedere il riscatto propizziatorio.
Tre soli...Tre Ere, tre regni. CHI! sono? 1 il sole, 2 la luna, 3 ! chi? Gesu? Federico se Dio (il Padre di Gesu’ e’ il Creotore responsabile con l’aiuto di Gesu’....allora Federico Dio ha’ creato il sole, la luna e Gesu’ stesso...anzi lo creo’ per primo, (La prima creazione) Il primo Genito), (Il primo frutto) San Givanni in Fiore non mi espira quello che tu pensi che dofrebbe farmi pensare....Poiche la logica stessa ci dice che Dio ha’ creato tutto e tutti.
Il discepolo Giovanni Battista il Battezzatore sara’ rissuscitato qui sulla terra....Non voleva battezzarlo dicendo: Non sono neanche degnodi allacciarti i sandali...poi lo fece per la ragione che Gesu’ gli disse: lascia stare per questa volta sola battezzami per dare un buon esempio che anche io mi sottomento a Dio mio Padre.
Federico di nuovo Grazie per quel tuo augurio ed io lo dublico anche te e grazie dell’amicizia e della carita l’amore agape per tutti in generale.
CARO JOHN
La cosa più semplice a farsi è la più difficile: risalire la corrente come un SALoMONE e giungere alla Sorgente: l’Amore che muove il sole e le altre stelle!!!
Detto diversamnte, e più chiaramente: andare oltre "Maria e Giuseppe", "Adamo ed Eva", e scoprire che al di là di tutto non c’è Geova (un dio-zio "Paparone", con il suo minestrone), ma solo l’Amore ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8), l’Amore più forte di Morte!!!
M. saluti e buona notte nella tua casetta in Canada
Federico La Sala