Marco 7,31-37:
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua;
guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano
e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
James Joyce, Finnegans Wake:
"He lifts the lifewand and the dumb speak
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq"
"Egli brandisce la bacchetta della vita e i muti parlano
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq" *
* Cfr.: James Joyce, Finnegans Wake, Libro Primo V-VIII, Oscar Mondadori, Milano 2001, pp. 195-195 bis.
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
Federico La Sala (03.03.2013)
“Ulisse di James Joyce. Guida alla lettura” di John McCourt*
Prof. John McCourt, Lei è autore del libro Ulisse di James Joyce. Guida alla lettura edito da Carocci: quale importanza riveste, nella storia della letteratura del XX secolo, l’opera di James Joyce?
È di un’importanza fondamentale per vari motivi. È il primo significativo romanzo irlandese ambientato proprio nella futura capitale. Esce nel 1922, l’anno in cui Dublino diventa la capitale dello Stato Libero d’Irlanda (the Free State o Eire).
L’Ulisse rende la città una capitale culturale da mettere vicino a quella politica e offre una visione della società ben più aperta di quella della realtà attuale a Dublino o di quella che sarebbe venuta nella Dublino ultra-cattolica e nazionalista nei decenni dopo l’indipendenza.
Contemporaneamente offre un ritratto di Dublino nel 1904 senza paragone, con una fedeltà estrema ai dettagli storici. Allo stesso tempo, si tratta di un romanzo europeo; la Dublino di Joyce diventa la città moderna emblematica, costruita su più strati, distratta nella sua quotidianità ma allo stesso tempo un labirinto in cui l’individuo si perde.
L’Ulisse rappresenta il culmine ma anche il superamento del romanzo realista - utilizzando tutti gli strumenti del genere per poi superarlo e sviluppare una forma ibrida degna dei tempi cambiati dopo la fine del secolo del progresso.
Quali difficoltà pone la sua lettura?
Non per niente, Joyce stesso disse a Max Eastman: “Ciò che chiedo al mio lettore è di dedicarsi per tutta la vita a leggere le mie opere”. L’autore stesso definì l’Ulisse come un “maledettissimo romanzaccione”.
Certo non va letto nel modo convenzionale. C’è sempre il rischio di perdersi nelle infinite allusioni, nelle parole complesse, negli eventi - per lo più insignificanti - narrati. C’è poca trama ma c’è il mondo intero concentrato in meno di 24 ore a Dublino.
Innanzitutto, il romanzo (o meglio, l’epopea per utilizzare il termine che Joyce preferì) inizia due volte (una prima volta con Dedalus e poi, col quarto episodio, con Leopold e Molly Bloom).
Finisce pure due volte: nel penultimo episodio - “Itaca” sembra di arrivare alla conclusione quando Leopold Bloom, dopo la sua lunga e intensa giornata, va a letto e si addormenta vicino a Molly “With? Sinbad the Sailor and Tinbad the Tailor and Jinbad the Jailer ...” (“Con? Sinbad il Marinaio e Tinbad il Tailleuraio e Cinbad il Carcerario ...”) e invece no.
Molly, e il romanzo con lei, si risveglia e offre la sua trionfante conclusione, il famoso monologo con il più elaborato uso del flusso di coscienza mai visto.
Le difficoltà stanno dovunque ma soprattutto nel fatto che ogni episodio ha uno stile proprio e il lettore rischia di trovarsi in uno stato di disorientamento (che dovrebbe assomigliare al senso di smarrimento dell’uomo moderno che conosciamo anche nelle opere di tutti gli altri modernisti).
In quale contesto storico e culturale si inserisce il romanzo?
Si inserisce in vari contesti ma vive anche sopra ogni contesto storico come ogni grande classico. Detto ciò, al nuovo lettore serve una conoscenza della storia irlandese (ed inglese) e della religione cattolica (ed ebraica) e almeno una sintesi dell’Odissea di Omero. Aver letto alcuni importanti romanzi europei del diciottesimo secolo non guasta, neppure aver letto Shakespeare e soprattutto Amleto.
Il lettore italiano (e non solo) farebbe bene a ricordarsi che l’Ulisse di Joyce venne costruito a Trieste, una città che divenne per l’autore una seconda, piccola Irlanda. Trieste, ai suoi tempi, era una città plurilinguistica e un “ponte” tra diverse culture, una città di tensioni, contraddizioni, una città multi-religiosa, ma anche, ad esempio, un centro avanzato per la psicoanalisi.
Joyce trovò a Trieste parecchi elementi - l’ebraismo di Bloom e Molly, l’italianità presente nel testo (nel linguaggio, nelle citazioni dantesche, nelle opere liriche citate), il senso di essere al centro dell’Europa in una fase di forti cambiamenti - che furono centrali per la costruzione del suo testo. Per il lettore italiano che si avvicina oggi ad Ulysses, questo accumulo di materiale può rappresentare un vantaggio e una possibile chiave d’accesso.
Quale chiave d’accesso al romanzo offre la sua guida?
La guida parte dall’idea che ognuno deve trovare la propria chiave d’accesso. Entrare nell’opera di Joyce è come visitare una grande città per la prima volta. Può vedere tante cose ma non potrà mai vedere tutto. Di conseguenza bisogna trovare una mappa per attraversare la città nel modo migliore senza perdersi troppe volte e senza perdere le cose più belle che ci sono da vedere. Il punto è che non è necessario (né possibile) cogliere o comprendere tutto.
Ogni lettore può e deve sfruttare le proprie conoscenze - linguistiche, musicali, religiose, culturali, storiche, e le proprie esperienze personali per trovare la chiave d’accesso personale. Una volta trovatosi un po’ più “a casa” nell’opera, il lettore si rende conto che non finirà mai di leggerla. Come il viaggiatore si rende conto di non poter mai apprezzare tutte le sfumature di una grande metropoli.
In che modo il racconto si richiama ai testi omerici?
In una lettera a sua zia, Mrs. Josephine Murray, Joyce tentò di indirizzarla nella lettura. Scrisse: “Se vuoi leggere Ulysses è meglio che prima ti procuri o prendi in prestito da una biblioteca una traduzione in prosa dell’Odissea di Omero”. Altrove, Joyce ha motivato come segue la sua scelta dell’Odissea come trama base, come modello, come struttura portante del suo Ulysses dicendo che ‘I tratti più belli e più umani sono contenuti nell’Odissea.’
Il consiglio di leggere l’Odissea è ancor oggi validissimo perché il romanzo di Joyce la prende come struttura di base (per poi stravolgerla).
La prima parte contiene tre episodi che corrispondono agli episodi omerici che riguardano Telemaco, Nestore e Proteo.
La seconda parte vede l’ingresso in scena di Leopold Bloom ed è composta da dodici episodi che corrispondono a quelli omerici di Calipso, Lotofagi, Ade, Eolo, Lestrigoni, Scilla e Cariddi, Rocce Erranti, Sirene, Ciclopi, Nausicaa, I buoi del sole, e Circe.
La terza parte è quella del Nostos (il ritorno a casa) ed è in linea con la prima parte, essendo una seconda triade (Eumeo, Itaca, Penelope).
Così come c’è corrispondenza fra i capitoli del libro, c’è anche tra i personaggi: Stephen Dedalus corrisponde alla figura di Telemaco, il figlio di Ulisse; Leopold Bloom, viene associato con Ulisse stesso, e Molly ci riporta alla figura di Penelope. Il lettore viene colpito particolarmente dalla figura di Leopold, che girovaga per la città di Dublino, proprio come il leggendario Ulisse vagava per il Mediterraneo.
Anche se dietro all’ombra di Bloom c’è l’eroe greco antico, lui è un eroe moderno, insicuro, gentile e generoso (anche troppo). È un ottimo esempio dell’homme moyen sensuel (il tipico uomo medio) ma anche della figura baudelairiana del flâneur - l’uomo artistico che cammina nella città cercando di dare senso alla propria vita.
Come vengono caratterizzati i personaggi?
Se pensa di trovare convenzionali descrizioni dei personaggi, il lettore rimarrà deluso. Veniamo a conoscere ogni personaggio pian piano tramite le sue azioni, tramite i dialoghi, ma ancora di più tramite le cose pensate ma non dette. Già nella prima parte del romanzo, viene messa fortemente in discussione la tradizionale figura del narratore onnisciente, ovvero l’affidabile mediatore tra i personaggi e il lettore, figura che fino ad allora era stata considerata necessaria per la comprensione del testo. Sempre di più nell’Ulisse il lettore si trova a contatto diretto con i principali personaggi e può seguire i loro pensieri appena formulati, fuggevoli, spesso caotici, che affiorano e scompaiono nel continuo fluire delle loro coscienze.
Quali caratteristiche presentano lo stile e la tecnica di scrittura del romanzo?
Dopo uno stile iniziale che è abbastanza abbordabile, nella seconda parte del libro, da “Rocce Erranti” in poi, le cose sono ancora più complicate: il romanzo cambia radicalmente, il cast dei personaggi cresce, e - stilisticamente - il lettore si trova ad affrontare una serie continua di bruschi cambiamenti. Ogni episodio è totalmente diverso dagli altri. La narrazione stessa diventa protagonista e a volte sembra che lavori contro gli stessi personaggi e contro l’ordinaria necessità di portare avanti una trama.
Spiega Joyce a proposito della seconda parte del libro e in particolare “Ciclope” e “Circe”: “mi è impossibile scrivere questi episodi rapidamente. Gli elementi necessari si fondono soltanto dopo una prolungata coesistenza. Riconosco che è un libro estremamente stancante ma è l’unico libro che sono in grado di scrivere attualmente. [...] Ciascun episodio successivo, trattando di un qualche campo della cultura artistica (retorica o musica o dialettica), si lascia dietro una terra bruciata.”
Joyce non intendeva raccontare una storia usando solo le tecniche comuni e consolidate. Al contrario voleva palesare i limiti di quelle tecniche, i limiti della letteratura convenzionale per ritrarre la vita attuale e il pensiero moderno. Per farlo ha dovuto inventare nuovi metodi, nuovi stili e nuove tecniche che stiamo ancor oggi imparando a leggere e capire.
John McCourt è l’autore di James Joyce. Gli anni di Bloom (Mondadori) che ha vinto il Premio Comisso nel 2005. È cofondatore della Trieste Joyce School dell’Università di Trieste, Presidente-eletto dell’International James Joyce Foundation e ordinario di Letteratura inglese all’Università di Macerata.
* Fonte: Letture.org
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DI "PERICLE IL POPULISTA" E DI PLATONE...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI "PERICLE", E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL PROGETTO POLITICO DI ATENE, forse, è opportuno - ricordando la messa al bando di Omero e dei "poeti" dalla "Repubblica" di Platone - riprendere e rivedere (non solo i lavori di Eric A. Havelock, ma anche) la brillante analisi del cosiddetto "Elogio di Atene" da parte di Umberto Eco nella sua nota sul "Pericle il populista" di ieri e di oggi (la Repubblica, 14 gennaio 2012):
e, al contempo, volendo, rimeditare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e riflettere sulla sua proposta di una "Scienza Nuova", al di là dell’imbalsamazione crociana.
Federico La Sala
Luoghi dell’Infinito.
Adamo dove sei? Tra la discarica e il Giardino
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo...
di Giovanni Gazzaneo (Avvenire, giovedì 14 gennaio 2021)
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo saputo generare nei millenni creando opere d’arte e meraviglie tecnologiche, modellando colline, facendo dei campi un tripudio di colori e di geometrie, progettando giardini e parchi che, consapevolmente o meno, sono la tangibile nostalgia del Paradiso perduto.
Scrive papa Francesco nella Laudato si’: «Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (215). Abuso che non conosce frontiere, dentro e fuori di noi: smog nei cieli e nei nostri polmoni, microplastiche nei ghiacciai e nelle profondità degli abissi marini, ma anche nel nostro sangue.
Abbiamo reso il mondo una discarica. Ma prima vittima della “cultura dello scarto”, come insegna papa Francesco, è proprio l’uomo: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (Laudato si’ 48).
La cultura meccanicistica e positivista - che si è accompagnata ai primi grandi successi tecnologici dell’epoca moderna e alla promessa dei paradisi in terra (comunisti o capitalisti in questo si equivalgono) - ha proposto una visione riduzionista dell’uomo e della natura. L’uomo è solo corpo, tassello intercambiabile nel mondo della produzione e contenitore di desideri (sempre indotti e mai appaganti) nel magico universo del mercato. La natura è solo materia da sfruttare per la produzione e, a partire dal dopoguerra, per le vacanze di massa.
Questo modo di vedere le cose e gli uomini si è evoluto, più nei linguaggi che nella sostanza. Come sostiene papa Benedetto nel 2012: «Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi». Continuiamo a preferire l’ideologia - oggi destrutturata ma onnipresente con i suoi falsi idoli - alla realtà.
È cresciuta la sensibilità ambientale, ma l’ecologia integrale, proposta da Benedetto XVI e da papa Francesco, non può prescindere da un umanesimo integrale, che riconosca la dignità di ogni persona e di tutti i popoli. Sono tante le persone di buona volontà e le associazioni che lottano perché la natura non sia violata, per le trentamila specie a rischio, perché la foresta amazzonica sia preservata, e anche i cani non siano abbandonati... Ma cala il silenzio, anzi scatta la censura, se lottiamo perché a non essere violata e manipolata sia la natura umana, perché gli embrioni non siano “prodotti” di fabbrica, perché l’utero non si trasformi in un parcheggio a pagamento, perché cinquantasei milioni di bambini non vengano ogni anno democraticamente uccisi nel seno delle loro madri. «I deserti esteriori - afferma papa Benedetto nel 2005 - si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» e continuano a crescere.
La natura è bellezza, ma bellezza sfigurata, fin dalla Genesi, fin dal peccato di Adamo. Ricomporre l’armonia perduta è possibile, come testimonia Francesco d’Assisi. Lui non si è convertito all’ecologismo. L’amore di Francesco per il Creato nasce dalla sua conversione a Cristo, da questa sua sequela che l’ha portato a vedere il mondo e i suoi abitanti con lo stesso sguardo del Figlio dell’uomo, a percepire la giusta e feconda relazione con gli elementi e le creature, ad amare la potenza e la bellezza della vita come riflesso di un atto creativo che non si ferma alla Genesi, ma che continua nello scorrere del tempo. Un sentimento, uno sguardo, un’invocazione che trasformano la vita nella poesia del Cantico delle creature, e poi, con Giotto, nei colori e nelle immagini della più straordinaria rivoluzione artistica. Francesco sapeva che il vertice della Creazione non è l’uomo, ma il Figlio dell’uomo, l’Increato che si fa creatura, l’Eterno che si fa storia, l’Infinito che abbraccia il limite.
La strada indicata da san Francesco è semplice e ardua: non può esserci autentica cura del Creato se dimentichiamo che il nostro abitare, nel segno della custodia e non del possesso e dello sfruttamento, nasce dal nostro essere voluti come figli da un Dio che ci è Padre. Siamo creature e non creatori (al massimo inventori e, con le arti, imitatori dell’atto creativo originario), ma siamo figli: siamo la Sua immagine, magari ferita, rugosa, infangata, perfino negata, combattuta. Eppure quell’immagine resta. È la parte di noi più vera, più gioiosa, più viva, più profonda. Da qui, da questa Presenza in noi, nasce l’amore per la terra, che è madre e sorella e figlia, per le sue creature, per gli uomini tutti. Francesco è stato il giullare del Gran Re, perché ha saputo vivere da figlio del Gran Re.
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
*
Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
LA FIGURA DI PILATO E IL "PELLEGRINAGGIO" CHE PORTA DANTE A DIVENTARE UN ALTRO CRISTO, A RINASCERE E A RITROVARE L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE... *
Il gran rifiuto (Inf. III 59-60)
di Romano Manescalchi (Independent Scholar),
Princeton.edu, 8 April 2014.
L’intervento di Lanza sul «gran rifiuto» riapre con grande determinazione la discussione riguardo il personaggio cui Dante si sarebbe riferito, discussione ultimamente sopita generalmente in favore di Celestino V.[1] In buona sostanza, ma in una sintesi necessariamente riduttiva, il Lanza evidenzia che l’atto di Celestino V non apparve riprovevole, se non a pochi estremisti, gli spirituali, che con Ubertino da Casale non ritennero valida l’abdicazione di Celestino, mentre generalmente apparve un atto di responsabilità, tanto che la Chiesa lo fece santo. Dante dagli spirituali rimarcò sempre le distanze;[2] ed aggiungerei che, per contro, Dante si trovò a lodare chi è capace di rinunciare ad un incarico per non sentirsi all’altezza, favorendo i meritevoli: «Molti rifiutan lo comune incarco» (Purg. vi 133); e a condannare quanti son sempre pronti a dire, irresponsabilmente, senza un minimo esame di coscienza «I’ mi sobarco» (ivi, 135).
Ma non intendo riassumere qui le sostanziose ragioni con le quali viene riproposta dal Lanza la candidatura di Ponzio Pilato e confutate le ragioni in favore di altri (Esaù, Celestino V soprattutto, Vieri de Cerchi, Giano della Bella, Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo ecc.), né ci sarebbe qui lo spazio per farlo. Qui vorrei solo aggiungere alcune mie considerazioni che vanno nella stessa direzione.
Innanzitutto una considerazione grammaticale e stilistica: «il gran rifiuto» può intendersi, su base grammaticale, in due modi: «quel gran rifiuto, che tutti conosciamo per averlo direttamente constatato», con «il» semplicemente indicativo; e la mente, in questo caso, va ad avvenimenti e personaggi recenti: Vieri di Cerchi, Giano della Bella, Celestino V ecc. Ma può intendersi anche «quel gran rifiuto di cui nessun altro è maggiore, il “gran rifiuto” per eccellenza, per definizione, per antonomasia»;[3] ed alla mente non può ricorrere se non Ponzio Pilato, con «il» che viene ad avere un valore superlativo, “antonomasico”. Ed ora il procedimento di Dante è questo: egli sostituisce i personaggi astratti del poema classico allegorico, semplici e unidimensionali personificazioni - vedi la Psicomachia di Prudenzio - con personaggi tratti dal mondo reale, indifferentemente della storia passata e del mito, o della cronaca dei suoi tempi. E la regola è questa: si sceglie il personaggio che meglio possa rappresentare quel peccato o vizio o virtù, che quel peccato o vizio o virtù lo rappresenti nel modo più eccellente, ne sia quasi la personificazione.
E da questo punto di vista Ponzio Pilato non ha rivali nell’indicare chi non si vuol compromettere, chi si ritira da un suo specifico dovere per viltà. Appartiene alle viscere del nostro linguaggio, da cui continuamente riemerge, il dire: «Ti comporti come Ponzio Pilato. Sei un Ponzio Pilato», come si dice «Sei un Giuda», frasi quasi altrettanto comuni come l’altra parallela del «lavarsene le mani», che comunque è ancor più ricorrente nel comune quotidiano parlare e rafforza in pari grado, o forse di più, le nostre argomentazioni. Dante avrebbe potuto trarre il personaggio esemplare dell’ignavo anche dalla cronaca quotidiana, come fa in tanti altri casi, riempiendo tra l’altro l’inferno con i suoi concittadini. Poteva quindi benissimo ricorrere a Celestino V, come a Vieri dei Cerchi o altri. Ma nessuno di questi personaggi può insidiare minimamente la candidatura di Ponzio Pilato, senz’altro il personaggio più rispondente, più adatto, ad incarnare il prototipo dell’ignavo, come gli riconosce senza obiezione alcuna tutta la nostra cultura, a cominciare, come detto, dal quotidiano parlare.
Vediamo ora il problema nell’economia della Commedia, nella cattedrale che anche è la Commedia, sintesi della storia universale dell’umanità in versione biblico-cristiana. Questa storia universale ha il suo punto centrale nella Redenzione della Croce, nella Crocifissione di Gesù. Non conosco racconto della storia della Crocifissione tante volte fatto dai pittori nelle cattedrali appunto, in cui manchino, accanto a Gesù, Pilato e Giuda. Ed ora Dante riconosce ed esalta i “meriti” di Giuda, dedicandogli a perpetua memoria - addirittura “eterna memoria” nel suo caso - un settore dell’inferno, la Giudecca, che appunto prende da lui il nome, dove anche grandeggia la sua statua vivente in una delle bocche di Lucifero (Inf. xxxiv vv. 61-63). Né è un settore qualunque quello a lui dedicato, bensì il più importante, dove è la reggia del sovrano infernale: diciamo che la Giudecca è la city della città infernale. Non penso proprio che Giuda si possa lamentare del trattamento che Dante gli ha riservato.
Ma lamentare si dovrebbe Pilato di cui non ci sarebbe nella Commedia, se gli togliamo di essere l’innominato di Inf. iii 59-60, niente altro che un fuggevole richiamo a Purg. xx 91 e solo per designare con il paragone con lui il sovrano di Francia Filippo IV. Davvero troppo poco. E se così fosse, dopo il tanto da lui fatto con il suo non far nulla, avrebbe ben motivo di rivoltarsi nella tomba contro un Dante tanto ingrato, dal momento che anche grazie a lui il poeta può fare questo pellegrinaggio[4] di redenzione che è la Commedia e guadagnarsi lui stesso il paradiso, grazie proprio a lui che in compenso del bene fatto (col non far nulla) come allo stesso poeta così a tutti i cristiani, dovrà subire pene eterne nell’inferno, pene che il poeta fiorentino non gli avrebbe nemmeno voluto determinare! E se non è troppo questo!
Dante darebbe a Pilato maggior rilievo a Mon. II xii 5-6: «Si ergo sub ordinario iudice Christus passus non fuisset, illa pena punitio non fuisset. Et iudex ordinarius esse non poterat nisi supra totum humanum genus iurisdictionem habens, cum totum humanum genus in carne illa Christi “portantis dolores nostros”, ut ait Propheta, puniretur. Et supra totum humanum genus Tiberius Cesar, cuius vicarius erat Pilatus, jurisdictionem non habuisset, nisi Romanum Imperium de iure fuisset. Hinc est quod Herodes, quamvis ignorans quid faceret, sicut et Cayphas cum verum dixit de celesti decreto, Christum Pilato remisit ad iudicandum... », dove il ruolo, comunque ragguardevole, avuto da Pilato è riconosciuto a chiare lettere, come anche a Mon. III xv 5 e ad Ep. V 28.
E dunque tanta importanza, quanto a mio avviso gli spetta, Dante dà a Pilato nella Monarchia, l’opera dantesca più vicina, per tematica e mole, alla Commedia, tanta in una lettera, comunque di molto peso come l’Ep. V indirizzata ai reggenti d’Italia, anche se di dimensioni indiscutibilmente minori; e non nominerebbe mai Pilato, direttamente, nella Commedia? A me pare molto, troppo, strano. Il personaggio è onnipresente nell’iconografia cristiana della Crocifissione e sarebbe assente nella Commedia, che è indiscutibilmente il massimo monumento laico della cristianità! È tanto inaccettabile quanto incomprensibile.
Da qualche parte Pilato deve essere anche nella Commedia e se non qui, a Inf. iii 59-60, dove? Nella storia universale della Chiesa (e dell’umanità) - da intendere in chiave biblico-cristiana - il personaggio di Pilato ha un grande rilievo come gli riconosce tutta l’iconografia e, come anche detto, il linguaggio spicciolo quotidiano. Celestino V e gli altri in questa prospettiva sono irrilevanti. Nel quadro specifico poi della Crocifissione, l’elemento centrale di quella storia universale in versione cristiana ed elemento centrale della Commedia che quella storia universale ha per suo sfondo e, direi, addirittura per suo oggetto, Pilato è un elemento addirittura indispensabile come lo è Giuda. Da qualche parte Dante deve averlo messo e il luogo più giusto è senz’altro tra gli ignavi. E se è tra gli ignavi nessuno gli può togliere - sarebbe una vera usurpazione - il diritto di rappresentare la categoria, che riconosce in lui, per il consenso di tutte le genti (cristiane), il suo massimo rappresentante.
Ci sarebbe anche un parallelismo: l’episodio della Crocifissione inizia con Pilato che, pur riconoscendo Cristo innocente, non fa il suo dovere, piegato dalla pressione della folla. E con Pilato posto nell’Antinferno comincerebbe la “crocifissione” di Dante, che ad una “crocifissione” del proprio ego lo porta il suo “pellegrinaggio” al santuario del Paradiso.[5]
Non mi sfugge che Inf. iii 59 - «vidi e conobbi» - crea delle difficoltà. Osserverei che si deve distinguere tra il “riconoscere” del v. 58, immediatamente precedente ed il “conoscere” del v. 59, volendo certo il poeta distinguere «quelli riconosciuti direttamente e quello che gli fu fatto conoscere da Virgilio» (Lanza, op. cit., p. 85) . Prosegue il Lanza: «Se si vuole un chiaro esempio di conobbi in questo senso, si veda il v. 122 del canto iv (ibidem), ovvero «tra quai conobbi Ettòr ed Enea». Vedi anche «sopra “riconosce”, qui “conosce”, vede in faccia» D. Mattalia, ad locum.
[1] Cfr. A. Lanza, Uno specchietto per allodole non previsto da Dante: Celestino V (Inf. iii 59-60, SD, lxxviii, 2013, pp. 45-100.
[2] Vd.: «ma non fia da Casal né d’Acquasparta» (Par. xii 124).
[3] L’espressione «per antonomasia» viene usata anche dal Lanza, op. cit. p. 93, ma riferita a Pilato e non all’espressione «gran rifiuto».
[4] Uso il termine “pellegrinaggio” soprattutto in onore di Vincenzo Barelli, il quale ha dato l’avvio alla interpretazione moderna delle tre fiere come «le tre disposizion che il ciel non vuole», ed è oggi totalmente dimenticato, indegnamente dimenticato visto che la sua scrittura è di alto spessore; vd. L’allegoria della Divina Commedia di Dante Alighieri / esposta da Vincenzo Barelli, Firenze, Galileiana, 1864, p. 64.
[5] Per questo concetto di “crocifissione” dantesca si tenga presente: «Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam» ( Matth. XVI 24); «Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixerunt, cum vitiis et concupiscentiis» (Ad Galatas v 24); «Ego enim per legem, legi mortuus sum, ut Deo vivam; Christo confixus sum cruci. Vivo autem jam non ego; vivit vero in me Christus» (Ibidem ii 19-20). È questo il traguardo che Dante deve raggiungere con la Commedia.
* Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura. della DIVINA COMMEDIA"
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Pasqua. Aramaico, ebraico, greco, latino... in che lingua Gesù parlò con Pilato?
Oltre l’aramaico, conosceva anche l’ebraico e il greco? E in che lingua avvenne il processo davanti a Pilato? Le ipotesi degli studiosi e l’importanza degli idiomi per l’evangelizzazione
di Mimmo Muolo (Avvenire, martedì 7 aprile 2020).
In che lingua parlava Gesù? E i protagonisti dei grandi eventi che portarono alla sua morte in croce? La questione, da tempo al centro del dibattito tra gli studiosi, può essere assunta proprio nei giorni della Settimana Santa, come filo rosso per comprendere alcune dinamiche fondamentali dell’annuncio della Buona Novella dall’inizio fino a noi.
Le quattro lingue della Palestina
Va detto innanzitutto che al tempo in cui si svolsero gli eventi descritti nei Vangeli quattro erano le lingue parlate in Palestina. Quella ufficiale (ma anche la meno diffusa: usata solo da un ristretto numero di funzionari pubblico) era il latino. Quella religiosa era l’ebraico, parlata nelle sinagoghe, dove si leggevano i testi della Torah, e dai farisei che erano gli ebrei più osservanti. Quella della vita quotidiana era invece l’aramaico, che il popolo aveva adottato dopo il ritorno dall’esilio babilonese (VI sec. a.C.). E infine il greco della koiné, che era un po’ come l’inglese di oggi, parlata ovunque. Ebraico e aramaico erano lingue semitiche, imparentate tra loro come ad esempio l’italiano e il napoletano, dato che l’aramaico (nell’VIII secolo a.C. lingua delle comunicazioni internazionali nella Mesopotamia) era diventata una sorta di dialetto.
Gesù parlava solo l’aramaico?
Tra queste quattro lingue è ormai certo che quella usata da Gesù per la predicazione e per i colloqui con i discepoli fosse l’aramaico. Come ricorda Rinaldo Fabris, nel suo “Gesù il Nazareno” (Cittadella Editrice), sono almeno una ventina i passi dei Vangeli canonici (scritti in greco) in cui vengono citate parole o espressioni aramaiche. Per limitarci a quelle che riguardano la Settimana Santa: “Abba” (Padre), usato da Gesù nel Getsemani; “Eloi Eloi lemà sabachtani” (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato) cioè le ultime parole di Cristo sulla croce secondo Marco e Matteo; il toponomastico Golgotha (“Luogo del cranio”) per indicare l’altura della crocifissione; e infine l’appellativo “rabbunì” (maestro mio) con cui Maria di Madgala chiama Gesù dopo la risurrezione. E a proposito di vittoria sulla morte, possiamo citare ancora il “talità qum”, (ragazza alzati) con cui Cristo riporta in vita la figlia di Giairo.
Del resto è naturale: cresciuto ed educato in una modesta famiglia della Galilea che abitava a Nazareth, villaggio di poche centinaia di abitanti, Egli certamente aveva come lingua materna l’aramaico occidentale che si parlava nella sua terra. Tra l’altro connotato da accento diverso da quello in uso a Gerusalemme, come attesta il “riconoscimento” di Pietro, nella notte dell’arresto di Gesù (Mt 26,73) proprio a motivo di come parlava.
L’aramaico, scelta di incarnazione
Questo fatto ci dice già una cosa importante. La concretezza dell’incarnazione vale per tutti gli aspetti della vita. Gesù si esprime in un idioma che tutti possono comprendere e poco importa se non è la lingua dei dotti. Anzi proprio questa vicinanza ai “piccoli”, al punto da parlare in “dialetto”, conferma se mai ce ne fosse bisogno la sua “rivoluzione” delle periferie, come direbbe papa Francesco. Il quale, parlando ai genitori dei bambini che stava battezzando nella Cappella Sistina il 7 gennaio 2018, raccomandò: “La trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. E non è un caso che un grande santo e teologo come Tommaso d’Aquino abbia predicato il quaresimale del 1273 in dialetto napoletano.
Le ipotesi sull’ebraico e il greco
Ciò che resta ancora incerto è se Gesù sapesse parlare nelle altre lingue. Almeno l’ebraico e il greco. Quanto all’ebraico, bisogna registrare un simpatico siparietto durante la visita di papa Francesco in Medio Oriente nel 2014. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante un incontro ufficiale, disse al Pontefice: «Gesù ha vissuto qui, parlava ebraico». «Aramaico», lo corresse Francesco. Al che Netanyahu, immediatamente, precisò: «Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico, perché leggeva le Scritture». Al di là dei cordiali sorrisi che chiusero l’episodio, viene da chiedersi: è proprio così?
Secondo Fabris, “sulla base delle scarne informazioni del Vangeli non si è in grado di dare una risposta categorica alla domanda se Gesù sapesse leggere e scrivere”. E anche l’episodio riferito da san Luca, in cui nella sinagoga di Nazareth Egli prende e legge il rotolo del profeta Isaia, “non può essere addotto come prova che egli è in grado di leggere il testo ebraico della Bibbia”. Probabilmente infatti, argomenta lo studioso, quel racconto è il frutto di una rielaborazione dell’evangelista al quale interessa dire che Gesù è il Messia.
Tuttavia questo punto non è pacifico fra gli esegeti. Stefano Tarocchi, biblista e preside emerito della Facoltà Teologica dell’Italia centrale, nota infatti che “diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la situazione lo richiedeva”. Soprattutto le conversazioni e discussioni con capi religiosi ebrei. “Questi dialoghi di solito avvenivano in ebraico anche tra chi aveva come prima lingua l’aramaico. Per essere credibile come interlocutore, con molta probabilità Gesù usava l’ebraico quando era impegnato in discorsi teologici con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei”.
Quanto al greco, alcuni esegeti hanno ipotizzato che Gesù potesse conoscerlo, dato che vicino a Nazaret c’erano Sepphoris, capitale della tetrarchia di Erode Antipa, e Tiberiade, centro commerciale di una certa importanza, dove i mercanti greci arrivavano facilmente. Ma Fabris esclude un’ipotesi del genere, così come la possibilità che egli abbia conversato o insegnato in greco.
In che lingua parlarono Pilato e Gesù durante il processo?
Più possibilista è invece Tarocchi, citando la conversazione con il centurione romano di Matteo 8,5-13. “Anche Pilato nel processo - afferma - avrebbe usato il greco, non il latino, come ha invece immaginato Mel Gibson in The Passion. Non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed usare l’aramaico”. Tuttavia il dialogo potrebbe essersi svolto con l’intermediazione di un interprete (anche se nei Vangeli non se ne fa menzione), perché quello a Gesù non era certamente l’unico processo che Pilato fece nella sua carriera e la registrazione di un particolare così scontato può essere stata considerata superflua.
L’importanza del greco per l’evangelizzazione
Il greco però sicuramente entra in scena - e pesantemente - dopo la risurrezione. Soprattutto grazie alle lettere di Paolo, che sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento, tutto scritto nell’”inglese” dell’epoca.
A questo punto il cambio di priorità, e dunque di paradigma anche linguistico, appare evidente. Alla logica dell’incarnazione si affianca quella dell’universalità del messaggio evangelico, che essendo destinato a tutti gli uomini, ha bisogno di un veicolo comunicativo il più possibile conosciuto. Il greco, appunto, che diviene così la lingua della “fase due” dell’evangelizzazione, dopo il primo annuncio del Nazareno. A quel punto l’idioma originale parlato da da Gesù diventa secondario, quasi ininfluente.
"Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio", esclameranno i presenti alla predicazione degli Apostoli, il giorno di Pentecoste. La voce di Cristo raggiunge ognuno nel suo linguaggio, secondo la doppia regola dell’incarnazione e dell’universalizzazione del messaggio della salvezza. E non è un caso che la Bibbia sia oggi il libro tradotto nel maggior numero di lingue al mondo.
James Joyce - Lettera al fratello Stanislaus
(25 settembre 1906. Da Lettere, a cura di G. Melchiori, Mondadori, 1974)
Caro Stannie, [...] ieri sono andato a vedere il Foro. Mi sono seduto su una panca di pietra con una veduta delle rovine. C’era il sole e faceva caldo. Carrozze cariche di turisti, venditori di cartoline, venditori di medagliette, venditori di fotografie. Ero così commosso che mi sono quasi addormentato e mi sono dovuto riscuotere bruscamente. Ho osservato con desiderio la panca di pietra ma era troppo dura e l’erbetta vicino al Colosseo era troppo lontana. Così me ne sono tornato tristemente a casa. Roma mi fa pensare a un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna. (da: "S.P.Q.R." di Luigi Di Cicco, "Nazione Indiana" , 05.04.2020).
CONVERSIONE ECOLOGICA (ED EGOLOGICA). SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
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UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! *Federico La Sala
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
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L’ “8 SETTEMBRE”, LA “CORONA-VIRUS”, E UNA “PACE PERPETUA”. Ora il “capro espiatorio” siamo noi, l’intero genere umano ...
ALLA LUCE DEL FATTO che i “vescovi fiorentini hanno vietato di scambiarsi il segno della pace durante il rito della messa”, che a “Lourdes hanno chiuso l’accesso alle acque miracolose”, “per CARITA’, UN LAICO ILLUMINISTA” (cfr. Mario Pezzella, “Sarà un 8 settembre?, "Le parole e le cose”, 11 marzo 2020) può pure compiacersi di “quanto la fede religiosa sia diventata un gadget turistico, che non regge di fronte a uno stato di necessità”, MA NON PUO’ CONTINUARE A “DORMIRE”, A PENSARE COME SE FOSSE TUTTO COME “PRIMA” E RIPROPORRE LA STESSA “MINESTRA”:
SE NON SAPPIAMO ANCORA che cosa significa “pensare dentro l’emergenza”, forse, è bene CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO”, E CERCARE DI CAPIRE COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA SUA LEZIONE.
A DISTANZA DI SECOLI, e dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Freud, e dopo Lacan e dopo Foucault (il Foucault di “Che cosa è l’Illuminismo?”, 1983/1984), continuiamo a non capire che il “capro espiatorio” non è un caprone (cfr. “La crisi dell’Europa. Note per una riflessione storiografica”), ma un montone, un ariete, venuto a portarci in salvo (cfr.: “Guarire la nostra Terra. Necessità di “pensare un altro Abramo”), non a “sacrificarsi” per noi!!! Al contrario, oggi, l’intero genere umano, “noi stessi” ci apprestiamo a fare da “capro espiatorio” - e, pronti per la “pace perpetua” (cfr. Fine della Storia o della “Preistoria”?), abbiamo già messo sulla “nostra” testa la “corona” del sacrificio! O no?!
Federico La Sala
Critica economica.
Il feticismo delle merci che promette l’immortalità
Un saggio rilegge le profetiche analisi economiche di Walter Benjamin e la sua denuncia del capitalismo come “frutto” dell’insinuazione del serpente: «Sarete come Dio»
di Luigino Bruni (Avvenire, venerdì 24 gennaio 2020)
Un classico è sempre attuale. Non perché ha bisogno di essere attualizzato da noi, ma perché costringe chi lo legge a farsi suo contemporaneo. Chi incontra un classico fa un viaggio nel tempo, lo raggiunge dentro il suo spazio e la sua vita, e poi scopre che è anche il suo proprio tempo, il suo spazio, la sua storia e la sua vita. Senza i grandi scrittori e i grandi artisti, il passato sarebbe semplicemente inaccessibile e incomprensibile. Che cosa fosse l’atmosfera del sabato pomeriggio di un villaggio marchigiano di inizio Ottocento, cosa fossero (non solo come si mostravano) i piedi dei popolani romani del Seicento, cosa fosse la miseria dei miserabili francesi. E invece grazie a Leopardi, Caravaggio e Hugo li conosciamo e li capiamo.
I classici affratellano lo spazio e il tempo, li mettono in comunione- comunicazione. È questo, forse, il loro dono più grande. Un classico, poi, è sempre radicale, sbilanciato, eccessivo. Non è ruffiano e quindi non dice le cose che dovrebbe dire per soddisfare i gusti dei consumatori. È partigiano, è parziale come la verità, mai politically correct. Dice qualcosa, non dice tutto, ma quel qualcosa limitato e relativo contiene una goccia capace di bucare il tempo. Non è più buono degli altri uomini e donne, né più vero né dotato di una moralità superiore. È semplicemente abitato da un daimon, sempre eccedente rispetto alla persona che lo ospita; e così una tipica penitenza di questi esseri geniali (genio = daimon) è l’esperienza della inadeguatezza, di non essere all’altezza etica e spirituale delle cose che capisce, scrive, traduce in opere.
Walter Benjamin è certamente un classico. È una delle figure più originali e geniali del pensiero europeo del Novecento. Meno noto era, fino a poco fa, il suo contributo nel dibattito sul capitalismo, sulla sua natura e sul suo destino. Da qualche anno, grazie soprattutto al lavoro di Giorgio Agamben, stiamo tutti riscoprendo le geniali e profetiche intuizioni del filosofo ebreo tedesco, morto suicida nel 1940 sui Pirenei, per sfuggire alla cattura dei nazisti.
Ora, il saggio di Vincenzo Di Marco e Biancamaria Di Domenico, Walter Benjamin. La religione del capitalismo (edizioni Pazzini, pagine 112, euro 12), continua a svelarci i tesori di ’teologica economica’ contenuti nel pensiero di Benjamin, e non solo nel frammento del 1921, Capitalismo come religione, ma anche in opere più classiche, come Angelus Novus e i Passages, dove, leggendo il libro di Di Marco e Di Domenico, scopriamo idee molto importanti sull’economia, sul capitalismo e la sua dimensione sacrale, che ci svelano anche alcune affermazioni misteriose e oscure contenute nel frammento del 1921.
Il saggio affronta molti dei temi che si situano all’incrocio delle idee di Benjamin sul capitalismo, sulla filosofia e sulla religione - dal messianismo, al feticismo delle merci e quindi all’idolatria, la metamorfosi del cristianesimo in un’altra religione: il capitalismo. E lo fa dialogando con i classici che hanno scritto su questo tema, cominciando da Marx e Weber, e finendo con Derrida e Agamben (meno utili sono i molti riferimenti a commentatori contemporanei, che raramente sono all’altezza dei classici, e finiscono spesso per appesantire e complicare la lettura).
Ma nel libro ci sono soprattutto molte parole di Walter Benjamin, alcune stupende e generative di nuove parole per il nostro tempo. Parlando, ad esempio, della natura idolatrica della prostituzione e del gioco d’azzardo, scriveva: «Solo gli idealisti sprovveduti possono credere che il piacere dei sensi, di qualsiasi natura esso sia, possa determinare il concetto teologico del peccato.
Alla base della vera lussuria non c’è altro che questa sottrazione del piacere del corso della vita con Dio, il cui legame con essa risiede nel nome. Il nome stesso è il grido del nudo piacere. Questa cosa sobria, in sé priva di destino il nome - non ha altro avversario che il destino, che prende il suo posto nella prostituzione e crea il suo arsenale nella superstizione» (I passages di Parigi). Non si comprende allora, anche alla luce del passaggio appena citato (per non parlare della tesi di Benjamin che il capitalismo è una religione «senza espiazione»), l’affermazione degli autori che leggiamo a pagina 98: «Nel pensiero di Benjamin manca la nozione di peccato che troviamo invece nel cristianesimo».
Molto spazio è consacrato nel saggio al discorso sul feticismo delle merci (dove ritroviamo e rileggiamo volentieri le splendide intuizioni di Marx), anche perché è un tema centrale nel capitalismo di Benjamin e nel nostro, profondamente legato a un altro tema cardine: l’idolatria.
Infine, gli autori colgono molto bene uno dei punti centrali in Benjamin (e in Adorno) e nella religione capitalistica: la promessa di immortalità. Ma come dice Benjamin, «la promessa di immortalità che le merci incarnano è connessa a un tempo che non vuol saperne della morte, una “età dell’inferno”». Non è l’età del paradiso ma, paradossalmente, quella dell’inferno. Perché un mondo di cose che non muoiono non è l’eden della Bibbia. Nell’eden, l’albero della vita consentiva una immortalità agli uomini, a condizione che non avessero preteso di essere i padroni (di mangiare i frutti) della conoscenza del bene e del male. L’eternità buona dell’uomo non è quella di Dio, perché la sua vita resta inscritta nel perimetro etico che non è generato e consumato dall’uomo stesso.
Il capitalismo, invece, la sua hybris ha immaginato una eternità come frutto dell’onnipotenza degli uomini a partire dalla definizione assoluta (slegata) di cosa sia il bene e di cosa sia il male. C’è anche questo dentro una naturale diffidenza del pensiero cattolico nei confronti delle filosofie del contratto sociale: il bene e il male non si definiscono per contratto, come l’ideologia neoliberale pensa e vuole prima di tutto, perché il bene e il male e i suoi confini non sono negozionabili: sono dono, sono eredità, sono testamento. La promessa di eternità del capitalismo oggi non è tanto l’allungamento della vita, la sostituzione degli organi, la chirurgia estetica, ma è l’antico promessa del serpente: «diventerete come Dio». Benjamin intuiva che il capitalismo sarà religione perfetta quando le imprese vendendoci la sua merce cercheranno di venderci un pezzo di paradiso. E noi ci crederemo.
MEMORIA E STORIA / STORIA E MEMORIA.... *
il santo del giorno
Conversione di san Paolo.
La luce improvvisa, la caduta, la voce di Cristo. La fede è apertura all’inaspettato infinito
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 25 gennaio 2020)
Il cambio di rotta, la strada nuova, la svolta imprevista: la fede è apertura all’inaspettato, alla novità che trasforma la vita, all’infinita luce che entra dentro il buio dei nostri errori. Ecco perché la Chiesa oggi celebra la Conversione di san Paolo, ricordando a tutti, così, che Dio ci chiama sempre, continuamente, che nessuno è "spacciato".
"All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo - si legge negli Atti degli Apostoli - e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?". Era l’inizio di una nuova esistenza per Paolo, che sarebbe diventato uno dei pilastri della comunità dei credenti, l’apostolo che fece del Vangelo un messaggio davvero "cattolico", cioè offerto a ogni popolo e a ogni nazione della Terra.
Dopo l’incontro con Cristo sulla via di Damasco, Paolo rimase accecato e dopo aver recuperato la vista fu battezzato: l’immersione nella vita di Dio è il dono di uno sguardo diverso sul mondo.
Altri santi. Sant’Anania di Damasco, martire (I sec.); beata Arcangela Girlani, vergine (1460-1494).
Letture. At 22,3-16; Sal 116; Mc 16,15-18.
Ambrosiano. At 9,1-18; Sal 116 (117); 1Tm 1,12-17; Mt 19,27-29.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
VERSO "BARI 2020", "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ... *
Spiritualità.
Radcliffe: «Credere significa porsi in dialogo»
Cosa significa credere al tempo dei fondamentalismi? In un libro le riflessioni del domenicano: «Ogni buona conversazione presuppone il piacere della differenza E prende direzioni inaspettate»
di Timothy Radcliffe (Avvenire, giovedì 26 settembre 2019)
Ascoltare la parola di Dio non significa assorbirla passivamente. Secondo la Dei Verbum, vuol dire impegnarsi nel dialogo di Dio con l’umanità. «Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (n. 2). Nella Verbum Domini, papa Benedetto ha scritto: «La novità della rivelazione biblica consiste nel fatto che Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi» (n. 6). La vita di Dio è un eterno dialogo tra il Padre e il Figlio nello Spirito. La Rivelazione è l’invito che Dio ci rivolge a sentirci sempre a casa, in quell’eterna e amorevole conversazione, non è ricevere messaggi dallo spazio con gli esegeti che disperatamente cercano di decifrare strani segnali come faceva il matematico Alan Turing a Bletchley Park. La Rivelazione comporta di essere assorbiti in quell’eterno dialogo che è la vita di Dio. È quindi estremamente calzante affermare che la parola di Dio si fa carne nel dialogo con l’uomo. Il Vangelo di Giovanni, per esempio, è un succedersi di conversazioni - dal dialogo di Giovanni Battista con i sacerdoti e i leviti, fino alla conversazione finale di Gesù con Pietro sulla riva del lago. La notte prima di morire, si tenne quello che siamo soliti chiamare il «discorso d’addio », ma in realtà è l’ultimo dialogo che Gesù ha con i suoi amici. È Pilato a chiudere la conversazione con un «che cos’è la verità? ». La Parola viene silenziata. Ma la conversazione riprende quando Maria di Magdala incontra Gesù nel giardino. Non è una coincidenza che i primi documenti cristiani non fossero libri o professioni di fede, ma le lettere di san Paolo: l’altra metà delle sue conversazioni con le persone.
Leggere Paolo è come ascoltare qualcuno che parla al telefono e cercare di immaginare che cosa l’interlocutore stia dicendo all’altro capo del filo.
Perciò la parola di Dio non si rivolge a noi con una purezza immacolata che precede le nostre interpretazioni. Non possiamo risalire agli autori biblici alla ricerca della cruda verità, di una parola nuda. I sostenitori della Riforma dicevano: «Lasciate perdere, abbandonate la tradizione che la corrotta Chiesa cattolica ha aggiunto, tornate alla pura parola della Bibbia!». Poi, nel XIX secolo gli studiosi iniziarono a dire: «Attenetevi alla Bibbia, al falegname di Galilea... Attenetevi a Paolo che ha inventato il cristianesimo ». State agli evangelisti: ognuno ha la propria agenda. Tornate al puro messaggio, prima che venga distorto dalle nostre risposte. Ma in questo modo ciascuno ha trovato il Gesù che amava trovare. Lo storico ebreo Geza Vermes ci ha fatto tornare a un Gesù che era un rabbino ebreo. Teologi militanti latinoamericani scoprirono che era stato un politico rivoluzionario. I professori di Oxford vi riconobbero un altro professore che, come loro, avrebbe sicuramente apprezzato un bicchiere di sherry prima dell’Ultima Cena. I californiani invece scoprirono un hippy gentile, carino con tutti, che probabilmente avrebbe preferito la marijuana allo sherry. C’è poi il Gesù gay, il Gesù infatuato della Maddalena, il Gesù simil-Gandhi nonviolento... qualsiasi Gesù ti garbi! In realtà, se ti metti a pelare i vari strati della cipolla via via fino al centro, troverai sicuramente un Gesù che assomiglia giusto a te! Allora, invece di sbucciare la cipolla, dialoghiamo. Entriamo in dialogo con la parola di Dio e lasciamocene sconvolgere. Dialoghiamo con la tradizione. Gli uni con gli altri. La conversazione porta alla conversione.
La chiave di tutto ciò che papa Francesco sta facendo è lo sforzo di riportare il dialogo nel cuore della chiesa. Ha nominato un consiglio dei cardinali, con i quali si incontra regolarmente per discutere delle questioni della chiesa. Sta cercando di trasformare il sinodo in una vera conversazione, invece di avere delle persone che s’incontrano semplicemente per leggere dei testi che avevano scritto prima di arrivare a Roma. Io sono stato a tre sinodi, e vi assicuro che possono essere lunghi momenti estremamente noiosi. Lui invece vuole che si instauri il dialogo nel cuore di ogni parrocchia, di ogni diocesi. Ma il fondamento di tutto è il nostro dialogo con Dio.
La Dei Verbum cita sant’Ambrogio (IV secolo): «Quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini». Ogni buona conversazione presuppone il piacere della differenza. Non ha senso avere un dialogo con chi la pensa esattamente come te. È così noioso! Una buona conversazione prende direzioni inaspettate. Non può essere controllata. E la Bibbia è piena di dialoghi. Nell’Antico Testamento ci sono conversazioni litigiose tra i profeti e i re; e c’è un dialogo tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il Nuovo Testamento abbraccia le differenze con un entusiasmo temerario. Al suo centro sta il dialogo tra i quattro Vangeli. Come ha scritto il teologo Francis Watson: «È emerso lentamente un consenso sul fatto che i quattro Vangeli debbano essere letti l’uno accanto all’altro e che a nessun altro Vangelo debba essere permesso di condividere la loro conversazione intratestuale». Quattro Vangeli che non vanno d’accordo tra loro. Nel II secolo, la chiesa si oppose fermamente a quei timorosi che volevano ridurli a una singola e coerente narrazione. La nostra interpretazione della morte di Gesù è un dialogo senza fine, da una parte con i racconti di Marco e Matteo che parlano di un uomo che grida che Dio l’ha abbandonato, e dall’altra con le narrazioni dei più sereni Luca e Giovanni, nelle quali egli confida e si abbandona allo Spirito. È una conversazione che continuerà fino a che non avremo scoperto la verità di Dio che resta al di là di ogni parola.
Ci poniamo in ascolto di questa conversazione e troviamo il coraggio di intervenire, come bambini che osano intromettersi nelle conversazioni degli adulti. E così, lentamente, essa ci trasforma. Smonta uno per uno i nostri pregiudizi, ci cura dalla violenza. Da una generazione all’altra, come il lievito nella chiesa. Ci sono voluti migliaia di anni prima che il Dio violento dei testi più antichi diventasse il Dio misericordioso, padre del figliol prodigo. Pensate solo alla schiavitù.
Paolo scriveva che in Cristo «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Ma nella sua Lettera a Filemone egli sembra tollerare la schiavitù. Considera Onesimo suo figlio, e vorrebbe che fosse trattato come un diletto fratello, ma non mette mai in discussione l’istituzione della schiavitù. Questa era universale all’epoca, non si sarebbe potuto immaginare una società senza di essa.
Solo con Bartolomé de Las Casas - come visto sopra - l’idea stessa di schiavitù iniziò ad essere ripudiata. I domenicani spagnoli riuscirono a persuadere il papa a denunciarla nell’enciclica Sublimis Deus del 1537. Spesso dimentichiamo che per secoli il papato ha denunciato qualsiasi forma di schiavitù. Ma abbiamo ancora molta strada da fare. Nel XIX secolo riconoscemmo la schiavitù dei lavoratori incatenati alle loro macchine. Oggi assistiamo alla riduzione in schiavitù delle donne dovuta alla tratta sessuale. Nonostante la Parola sia stata pronunciata da Gesù una volta per tutte e per sempre, la sua eco continua ad interrogarci, a sfidarci, a incalzarci ad andare oltre.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
LA PAROLA DI DIO, IL SINODO DEI VESCOVI, E UN OMAGGIO AI FRATELLI MAGGIORI E A SIGMUND FREUD. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, dopo due anni, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! E che confusione spirituale di lunga durata!!!
Federico La Sala
Giampiero Comolli
La malinconia meravigliosa
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 19 luglio 2019)
La malinconia di cui parla Giampiero Comolli - giornalista, scrittore, presidente del Centro Culturale Protestante di Milano - nel saggio La malinconia meravigliosa (ed. Claudiana) è quella che pervade i discepoli di Siddharta Gautama della nobile famiglia dei Sakya, il primo Buddha, e di Gesù di Nazareth al momento del loro commiato in prossimità della morte. L’autore ripercorre i loro ultimi discorsi per cogliere attraverso di essi, i punti in cui le vie indicate dai maestri paiono avvicinarsi e quelli in cui decisamente divergono e lo fa utilizzando Il grande discorso del nirvana definitivo, per quanto riguarda il Buddha (i testi più antichi su cui si fonda la tradizione buddista sono raccolti nel canone Pali scritto attorno al 1° sec. a.C., pubblicati in italiano col titolo La rivelazione del Buddha. I testi antichi, Mondadori 2001) e i capitoli dal 14 al 17 del Vangelo di Giovanni, la cui formulazione definitiva risale alla fine del 1° sec. d.C.
I primi capitoli sono dedicati dall’autore a una breve e necessaria sintesi della vita di Siddharta Gautama e del pensiero buddista - a chi volesse saperne di più suggerirei di leggere Il cuore dell’insegnamento del Buddha (ed. Neri Pozza) di Thich Nhat Hanh, monaco vietnamita di tradizione Zen Rinzai che ne offre una dissertazione approfondita e molto chiara - e poi prosegue con un’attenta disamina degli atteggiamenti dei due maestri e delle rispettive visioni della realtà che, non solo nelle parole, ma appunto anche negli atteggiamenti e nei gesti, si riveleranno radicalmente differenti.
Perché anche laddove sembra esserci una certa sintonia, tra le due vie in realtà c’è una strutturale inconciliabilità, chiaramente sottolineata dal Dalai Lama al quale fu chiesto, racconta Comolli, se in una stessa persona potrebbero convivere cristianesimo e buddismo visto che quest’ultimo è più propriamente una filosofia che una religione. Egli rispose che ciò sarebbe possibile, ma solo a un livello molto superficiale, perché nei loro elementi profondi e sostanziali si tratta di due visioni della realtà incompatibili. Cerchiamo di riassumerne le ragioni.
Per Buddha il risveglio inizia quando si comincia a comprendere che la vera natura del mondo sensibile è l’impermanenza. L’intero universo, materiale e immateriale è impermanente cioè, per così dire, fluido, mobile; le infinite forme assunte dalla materia - animali, vegetali, minerali - sono soltanto apparenza, perché la sostanza è una sola e sempre la stessa. Ciò che noi avvertiamo come cambiamento, compresa la morte, è semplicemente il passaggio da una forma a un’altra dell’unica sostanza. In questo processo continuo di trasformazione da uno stato a un altro, ciò che cambia non viene distrutto, ma appunto trasformato. In ogni elemento della realtà fisica è contenuto tutto ciò che esiste (nel fiore, ad esempio, è contenuta la terra da cui proviene, l’acqua e il sole che l’hanno nutrito, ciò che un animale ha mangiato e poi lasciato sul terreno sotto forma di concime e così via). Di conseguenza, la morte non è l’estinzione di una realtà, ma il suo passaggio da una condizione a un’altra. Da questa consapevolezza nasce il sentimento di equanimità, fondamento dell’etica buddista e da molti accostato, un po’ superficialmente, all’idea cristiana di compassione. L’equanimità informa l’atteggiamento pacifico e amorevole del monaco buddista verso ogni creatura. La via buddista stricto sensu è destinata ai monaci, ma è utile anche ai laici ai quali essi dimostrano, con il loro esempio, «che la via della libertà e della dolcezza esiste e può essere percorsa». Perciò tutti possono aspirare, di reincarnazione in reincarnazione, a percorrerla fino al compimento.
L’amore che il Buddha insegna è molto diverso da quello che vive e predica Gesù. Il cuore del monaco buddista è «amorevole verso tutti, ma vuoto perché mai "perdutamente innamorato" di qualcuno in particolare», sottolinea Comolli. E come potrebbe esserlo visto che, come ogni altra cosa, la persona stessa, l’io individuale è pura illusione? Il cuore è anatta, cioè vuoto, «privo di sostanza propria» «perché non esiste un nucleo, un’essenza stabile, un’identità precisa e definita di quel cuore stesso». Anche il cuore/l’io è maja, apparenza. Per Gesù, al contrario, nulla è più importante del cuore dell’uomo, nulla è più solido e vero dell’amore, e per il Dio in cui egli crede ogni essere è unico, irripetibile, speciale e merita che Dio diventi uomo e muoia proprio per lui. Dio non ama tutti, ama ciascuno, per questo per ogni singolo essere umano vale la pena di donare la vita. Come il Dio in cui credeva e che annunciava, Gesù non amava «in modo equanime e disinteressato, distaccato» ma «in modo appassionato, fino ai singhiozzi», e dall’amore «si lascia prendere fino alle viscere». Gesù piange, prega, si spaventa, si arrabbia. È tutt’altro che impassibile, è appassionato. Comolli sintetizza con una bella immagine la differenza tra i due maestri: «Se il discepolo del Buddha è riconoscibile grazie al suo passo delicato e lieve, capace di traversare un villaggio quasi fosse un’ape che passa di fiore in fiore, per converso, il discepolo di Gesù è riconoscibile grazie al suo passo amoroso e caldo, capace di rispondere con mansuetudine e premura anche a chi offende e maledice».
Se la fede in Dio, dal cristiano inteso come un essere vivente che si rapporta all’uomo come un padre e una madre si rapportano a un figlio, distingue nettamente buddismo e cristianesimo, ne consegue anche un modo del tutto diverso d’intendere e affrontare il dolore. Per Buddha l’individuo ha in se stesso la forza per liberarsene attraverso un costante esercizio di distacco da ogni passione e attaccamento. Per Gesù il liberatore è Dio; egli è sempre accanto all’uomo, soprattutto quando è misero e sofferente, e con la sua risurrezione testimonia che l’uomo non è destinato alla morte e all’estinzione, ma a una vita nuova nella dimensione di Dio. «La via del Buddha - sottolinea Comolli - fa a meno della fede; la via di Gesù, vive nella fede». Per questo egli che, a differenza del Buddha, morì ancora giovane di una morte orrenda e solitaria, accomiatandosi disse ai suoi amici: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1), e ancora: «Voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16, 22). L’esortazione di Buddha ai discepoli è molto diversa: «Prendete rifugio in voi stessi e non in altro», e le sue ultime parole furono: «Continuate ad esercitarvi, instancabilmente».
Riassumendo la diversità delle due concezioni spirituali, Giampiero Comolli le raccoglie in tre assunti. Alla base della ricerca del Buddha vi sono l’inconoscibilità di Dio, l’irrilevanza della questione per giungere alla liberazione dal dolore, la capacità dell’uomo di farlo con le proprie sole forze. Esattamente opposti sono i presupposti su cui si fonda il messaggio di Gesù, ovvero l’esistenza di Dio, l’importanza primaria e assoluta della questione, l’impossibilità per l’uomo di salvarsi da solo. Così si può anche dire che il cuore del buddismo è la pace che nasce dal sapersi liberare dal dolore, mentre al cuore del cristianesimo c’è una serenità diversa e, in un certo senso, più libera che sorge dalla fiducia nell’amore indefettibile di Dio. In un caso la pace è una conquista, nell’altro un dono. E la libertà in cui confida il seguace di Gesù non è nirvana, estinzione, uscita dal ciclo delle reincarnazioni, ma ingresso di ognuno con la sua propria personale storia e identità nella vita piena ed eterna di Dio. Cioè, risurrezione.
La malinconia meravigliosa si chiude su questo tema, che quando Paolo lo affrontò spinse i razionali ateniesi, fino a lì attenti e interessati alle sue parole, a ridergli in faccia e a dirgli che su quello lo avrebbero ascoltato un’altra volta. Anch’io ve ne parlerei volentieri, ma forse anche voi come gli ateniesi vi mettereste a ridere di me... O mi sbaglio?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
Federico La Sala
di Francesco Laurenti (Alfabeta-2, 09.06.2019)
«L’uom che parla, non fa che tradurre le proprie idee, non perché le parole abbiano il potere di trasportare le sue idee nella testa di chi lo ascolta, ma perché idee analoghe alle sue vi si risveglino al suon delle parole ch’egli usa». In questi termini, già agli inizi dell’Ottocento, Giovanni Carmignani nella Dissertazione critica sulle traduzioni (un contributo di stampo traduttologico tanto originale quanto a oggi in pratica dimenticato), avviava la propria riflessione teorica nel tentativo di definire l’atto del tradurre.
Nello stesso illuminante contributo, vincitore del concorso bandito dall’Accademia Napoleone di Lucca nel 1806 (per un’indagine sui «danni e vantaggi arrecati alla letteratura dalle traduzioni» e sulle potenzialità di queste di trasportare in una nuova lingua «le idee e gli affetti» contenuti nell’opera originale), Carmignani auspicava, tra l’altro, una maggiore sistematicità degli studi sulla traduzione, attraverso un dialogo tra studiosi che evitasse il perpetuarsi d’indagini fondate esclusivamente sulla sensibilità personale e non sulle conquiste di una condivisa «scienza dei segni».
Secondo Carmignani dunque, ogni parlante, nell’atto stesso del parlare, agirebbe alla stregua di un traduttore.
Raramente, però, vi è una comunicazione esterna che non prenda le mosse dalla comunicazione interna all’individuo.
In linea con quest’assunto, un fermo sostenitore del legame inscindibile tra il “linguaggio interno” e il “linguaggio esterno” all’essere umano, Lev Vygotskij (la cui opera Pensiero e Linguaggio cadde nelle strette maglie della censura stalinista poco dopo la pubblicazione), nel 1934 sovvertì la tradizionale concezione del processo traduttivo, fondata sulle nozioni di significato statico e di equivalenza tra i significanti, estendendola ad altri atti linguistici.
Secondo le intuizioni dello psicologo sovietico, il linguaggio della mente sarebbe, infatti, il risultato di un processo di traduzione delle parole in pensieri e, viceversa, il linguaggio verbale si configurerebbe come la traduzione dei pensieri in parole. Non solo il parlare, ma anche il leggere e lo scrivere rappresenterebbero allora dei modi di tradurre, diremmo oggi, in maniera intersemiotica.
Ogni lettore infatti, agendo similmente a un traduttore, attuerebbe così in primo luogo una traduzione della lingua del testo letto in materiale mentale. Al pari ma in maniera inversa, nell’atto della scrittura ogni individuo realizzerebbe una traduzione dal proprio linguaggio interno a quello verbale.
Ne deriverebbe come conseguenza che qualsiasi traduzione interlinguistica, dunque tra due lingue diverse, sarebbe allora una “doppia traduzione”, che passa prima per la “traduzione della lettura” e poi attraverso la “traduzione della scrittura”.
Linguaggio e pensiero, secondo le intuizioni di Vygotskij, sono ancora indipendenti nella prima infanzia dell’individuo per integrarsi in seguito fino a stabilire una relazione di reciproca e imprescindibile influenza. Proprio per questo il ricercatore sovietico dedicò molta attenzione, nell’arco della sua troppo breve esistenza terrena, allo studio del linguaggio dei bambini. -Anche Octavio Paz s’interessò al linguaggio dei bambini che, forse, osservò a lungo prima di giungere alla sua nota affermazione che potremmo tradurre così: «imparare a parlare è imparare a tradurre: quando il bambino chiede alla madre il significato di questa o di quella parola, ciò che sta effettivamente chiedendo è che gli venga tradotto nel suo linguaggio il termine a lui sconosciuto». Per il Nobel messicano, convinto che todo es traducción, il tradurre, allora, rappresenterebbe per un essere umano anche l’utile e imprescindibile processo per imparare una lingua, quella propria.
La “squadra” di chi ha inteso la traduzione come un principio allargato, un processo innato all’homo traducens e congenito alla condizione umana, è certamente più ampia. Potrebbe includere, tra gli altri, Martin Heidegger («ogni parlare e ogni dire sono in sé un tradurre») e Peeter Torop (con la sua “traduzione totale”), Franco Volpi («la traduzione è un qualcosa d’inevitabile che ci portiamo addosso, anche quando non siamo traduttori»), Cesare Garboli («che tutto sia tradurre, è una verità fisiologica») e anche, con la “maglia da titolare”, Enrico Terrinoni.
Le riflessioni di Terrinoni sul tradurre inteso come paradigma “all-inclusive” si spingono in qualche modo oltre, in spazi d’ombra sinora poco esplorati, fino a prendere la forma di un libro e permearne quasi ogni sua pagina. In Oltre abita il silenzio. Tradurre la letteratura, appena pubblicato da il Saggiatore nella storica collana La Cultura, l’idea che il genere umano sia «contraddistinto dal gene traduttivo» è fondante e genera un testo di oltre duecento pagine da leggere quasi tutte d’un fiato.
Oltre abita il silenzio è un’ininterrotta “selva” di riflessioni e rimandi teorici affrontati con una gioiosità verbale di matrice joyciana (sembra che Terrinoni, passato per l‘ardua impresa della traduzione dell’Ulisse e la titanica resa del Finnegans Wake in italiano, sia rimasto contagiato da una joycity che quasi non concede pause). Il lettore, dopo un possibile iniziale smarrimento, rimane conquistato dall’incedere rapido delle originali riflessioni traduttive ed è accompagnato attraverso una moltitudine di connessioni spesso inattese («veniamoci incontro, miei simili, ippocratici lettori»...«Ma andiamo per gradi e torniamo sui nostri passi»). E così il lettore viene “tradotto” da Terrinoni, ragionamento dopo ragionamento.
Oltre abita il silenzio è costellato da una miriade di punti interrogativi, da una fitta successione di domande-stimolo le cui risposte generano spesso altre domande e altri dubbi (d’altronde, il primo punto fermo del tradurre non è forse quello interrogativo?). Quella di Terrinoni è una teoria che si dilata e che, com’è stato detto, sembra premere contro le sbarre in cui il genere vorrebbe rinchiuderla. Una teoria rafforzata da una moltitudine di aforismi sul tradurre, di massime figlie dell’esperienza che potrebbero essere assunte come illuminanti norme generali del tradurre. «Non dovremmo fare al testo degli altri quello che non vorremmo fosse fatto al nostro»; «Quando traduciamo non stiamo facendo altro che tradurre l’eterna metafora del nostro essere» e così, passando per «Converto ergo sum», fino a «la traduzione è impossibile, sì, ma ha da farsi, perché il farsi è la sua essenza», e oltre.
«Siamo tutti dei translating beings», ne è sicuro Enrico Terrinoni e si convince di ciò anche il lettore che giunga alla conclusione del libro.
Le posizioni di Terrinoni fanno quasi immaginare una nuova potenziale fase degli studi traduttivi. Una fase che, dopo l’importante svolta che ha privilegiato negli ultimi decenni la riflessione sugli aspetti culturali connessi al tradurre, si apra anche alla dinamica traduttiva intesa come modo di vivere, un agire che permea le nostre esistenze di esseri traducenti, perché forse «la traduzione è tutto quello che facciamo, da quando veniamo al mondo a quando ci dileguiamo nell’ignoto».
“Un punto solo m’è maggior letargo/ che venticinquesecoli a la ‘mpresa,/ che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo [...] Omai sarà più corta mia favella,/ pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/che bagni ancor la lingua a la mammella” (Dante, Par. XXXIII).
Mi sembra che, partendo da Omero, Ulisse, Socrate, Platone, Giambattista Vico, Giordano Bruno, James Joyce, e Samuel Beckett, giungendo là dove “Oltre abita il silenzio”, ri-troviamo finalmente un Dante ri-nato (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908). O no?!
Domenica di Pentecoste, 9 giugno 2019
Federico La Sala
Il mio regno non è di qui
di Piero Stefani ("Il Regno", 22/11/2018)
«Universo» è parola sconosciuta alla Bibbia. Per dire «il tutto», il primo versetto della Scrittura impiega l’espressione «il cielo e la terra» (Gen 1,1; cf. Ef 1,10). Il posto privilegiato che questo modo di dire riserva a ciò che noi definiamo «nostro pianeta» indica una distanza incolmabile tra l’immagine biblica del cosmo e quella attuale. Non ha senso logico definire un campo come fosse costituito da 100 ettari di terreno e da un granello di polvere. I tentativi di intrecciare teologicamente tra loro la visione cosmica biblica con quella odierna non portano da nessuna parte.
Meglio domandarsi allora perché il Nuovo Testamento, e in particolare Giovanni, precludono l’eventualità di qualificare la solennità odierna ricorrendo all’espressione «re del mondo».
«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), risponde Gesù a Pilato. Subito dopo Gesù aggiunge: «Il mio regno non è di qui (enteuthen)» (Gv 18,36). Le due espressioni kosmos («mondo») ed enteuthen («qui») gravitano dalla stessa parte.
Kosmos è una parola frequente nel quarto Vangelo. Essa è contraddistinta da una forte ambiguità. Il mondo rappresenta la scena sulla quale si svolge il dramma della redenzione: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17; cf. Gv 10,36; 11,27). Il mondo è amato da Dio (cf. Gv 1,29; 4,42) eppure odia Gesù, «perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; cf. Gv 15,18-19; 17,14).
Il Vangelo di Giovanni è caratterizzato da un lessico fortemente duale (luce-tenebre; vita-morte; amore-odio; verità-menzogna...); tuttavia alcuni termini, come appunto «mondo», più che colti in contrapposizione al loro opposto, vanno intesi in relazione a una tensione che sussiste tra vari significati attribuiti alla stessa parola: il mondo è amato e salvato, eppure odia Gesù. «Il mio regno non è di questo mondo» ma io sono venuto a salvare il mondo.
La contraddizione sembra insuperabile. Per cercare di scioglierla è di qualche aiuto seguire l’altro, e assai meno importante, termine: «qui». In effetti esso ricorre poche volte in Giovanni e nella maggior parte dei casi ha un semplice valore spaziale, secondo il senso comune del termine (cf. Gv 2,16; 7,3; 14,31).
Nella risposta a Pilato le cose stanno diversamente. Non ha significato alcuno affermare che «il mio regno non è di qui» perché è «altrove», come se si estendesse su un altro territorio. Tuttavia, guardando all’ultima occasione nella quale Giovanni fa ricorso al termine, si apre all’improvviso uno squarcio. Ciò avviene se nella traduzione, a differenza del solito, si ricorre all’avverbio «qui»: «Lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra (enteuthen kai enteuthen, una specie di «uno di qui e uno di qua»), e Gesù in mezzo» (Gv 19,18).
È solo un cenno, non più di una spia; tuttavia appare calzante pensare a un richiamo tra le due scene; come se si volesse far dire a Gesù: il mio regno non è «qui», ma è sulla croce. Non ci si muove nella logica dei poteri mondani, il tal caso qualcuno avrebbe combattuto (cf. Gv 18,36); il regno si trova invece nella forza attrattiva e salvifica della croce: «“E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).
Gesù afferma che il suo regno non è di qui, egli però rivendica pienamente la propria condizione regale: «Tu lo dici, io sono re» (Gv 18,37). Si tratta di una regalità diversa da quella mondana. «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» sarebbe stata la frase scritta sulla croce in ebraico, latino e greco, e che Pilato non volle mutare. «Quel che ho scritto ho scritto» (Gv 19,22) è una specie di definitivo sigillo posto al «Tu lo dici» (Gv 18,37) rivolto da Gesù a Pilato. È sulla croce che si dispiega la regalità «altra» e salvifica di Gesù.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Nazismo.
Il no a Hitler che costò la vita a padre Reinisch
Prete cattolico, non giurò fedeltà al Führer e nel 1942 subì la condanna alla ghigliottina. Dal 2013 è in atto il processo di beatificazione, lo scrittore irlandese David Rice ne racconta la vita
di Riccardo Michelucci (Avvenire, mercoledì 21 novembre 2018)
«Prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né popolare; ma bisogna prenderla, perché è giusta». Molti anni prima che Martin Luther King pronunciasse una delle sue frasi più famose, padre Franz Reinisch trovò la forza di opporsi a Hitler sacrificandosi fino alle estreme conseguenze per non tradire la sua fede in Dio. Sarebbe passato alla storia come l’unico prete cattolico ghigliottinato ai tempi del Terzo Reich.
A lungo preso di mira dalla Gestapo per la sua aperta e radicale disapprovazione nei confronti del Führer, padre Reinisch subì prima il divieto di tenere conferenze e di predicare in tutto il territorio del Reich, poi ricevette la chiamata dalla Wehrmacht con il conseguente obbligo di prestare il giuramento fedeltà a Hitler.
«Sapeva bene che agli obiettori di coscienza erano riservate pene durissime e molti cercarono di fargli cambiare idea, ma lui fu sempre irremovibile nel suo rifiuto. Disse che sarebbe stato disposto a giurare fedeltà al popolo tedesco ma non al Führer», ci spiega lo scrittore irlandese David Rice, autore di I will not serve: The priest who said no to Hitler, un romanzo biografico appena uscito per i tipi di Mentor Books, che racconta la vita di questo martire cattolico.
Franz Reinisch era nato nel 1903 nella città austriaca di Feldkirch, e dopo studi in diritto e filosofia era entrato nel Seminario maggiore di Bressanone. Nel 1928 prese gli ordini ed entrò a far parte della comunità pallottina nel movimento di Schoenstatt, iniziando a prendere posizione pubblicamente contro il nazismo subito dopo l’ascesa al potere di Hitler, che lui definiva «la personificazione dell’Anticristo».
Quando nel 1942 ricevette l’ordine di entrare nelle forze armate - al pari di migliaia di altri esponenti del clero dell’epoca - era ancora all’oscuro dell’esistenza dei campi di sterminio, non poteva sapere che il regime stava attuando la Soluzione finale, ma aveva già visto gli ebrei perseguitati per le strade, intere famiglie strappate dalle loro case e sparite nel nulla. Aveva assistito con i propri occhi alle violenze contro i religiosi e alla repressione di qualsiasi forma di dissenso. Per questo si convinse che non avrebbe potuto prestare giuramento di fedeltà a Hitler senza tradire i principi nei quali credeva così fermamente.
Nel 1937 papa Pio XI aveva denunciato il nazionalsocialismo con la sua enciclica Mit brennender Sorge, definendolo «l’apostasia orgogliosa da Gesù Cristo, la negazione della sua dottrina e della sua opera redentrice». Negli anni seguenti migliaia di persone vennero costrette con la violenza a rinunciare alla fede cristiana, e persino professarsi cattolici equivaleva ormai a opporsi al nazismo.
Il libro di Rice racconta in forma romanzata il percorso interiore che condusse padre Reinisch verso un coraggioso rifiuto che sbalordì persino i vertici della Wermacht. «Ci deve pur essere qualcuno che si oppone agli abusi di potere. Io, come cristiano, sento di essere chiamato a esprimere questa protesta», spiegò durante la consegna delle divise militari nella caserma di Bad Kissingen. Era il 15 aprile 1942. Il religioso 38enne fu immediatamente tradotto nel carcere di Berlino: poche settimane più tardi si aprì il processo contro di lui, che si sarebbe concluso ineluttabilmente con la sua condanna a morte.
«Si sentiva talmente legato alla fede da scegliere di sacrificare la sua vita per essa. Oltre al suo straordinario coraggio mi ha sempre sconvolto il fatto che sia stato decapitato con la ghigliottina», afferma David Rice, che per scrivere questo libro è rimasto a lungo tra i pallottini di Schoenstatt, vicino alla città tedesca di Coblenza, dove ha avuto accesso ai suoi documenti personali.
Uno dei momenti più drammatici ricostruiti nel libro è quello in cui padre Reinisch, dopo aver trascorso molte notti insonni, apprende che non sarà fucilato bensì ghigliottinato. «Il plotone di esecuzione è riservato ai soldati - gli spiegano - per i criminali comuni è prevista la decapitazione».
La sentenza di morte fu letta la sera del 21 agosto 1942 nella prigione di Brandenburgo-Görden. Reinisch ribadì di non essere un rivoluzionario, ma soltanto un prete cattolico armato della sua fede nello Spirito Santo. Trascorse l’ultima notte pregando, poi scrisse una lettera d’addio alla sua famiglia, alla quale lasciò i suoi paramenti liturgici, il suo crocifisso e il suo rosario, insieme ad alcuni libri.
Nelle prime ore del mattino seguente gli furono tolte le scarpe e legate le mani dietro la schiena, infine fu condotto nella stanza dell’esecuzione. Il boia indossava un abito da alta cerimonia: cappello a cilindro, pantaloni a righe, tight, panciotto e guanti bianchi, con i quali scoprì un vecchio esemplare della famigerata “Fallbeil”, la ghigliottina usata fin dall’Ottocento per decapitare i criminali comuni.
«Pronunci il suo nome», gli gridò. «Franz Reinisch, prete cattolico», rispose il condannato. Dopo una lunga pausa, il boia gli chiese per l’ultima volta se era disposto a sottoscrivere il giuramento di fedeltà e gli indicò un foglio appoggiato su un tavolo, ricordandogli che se l’avesse firmato avrebbe avuto salva la vita. «La ringrazio per la sua gentilezza - replicò Reinisch - ma non posso prendere parte a una guerra ingiusta e neppure giurare fedeltà a un regime antidemocratico. Muoio per Cristo re e per la madrepatria. Possa Dio benedirvi tutti».
Il suo martirio avrebbe risvegliato molte coscienze, ispirando altri prigionieri a compiere simili atti di resistenza nonviolenta a Hitler. Uno di questi fu il contadino austriaco Franz Jägerstätter, di profonda fede cattolica, che incontrò padre Reinisch nel carcere di Brandeburgo e trovò anche grazie a lui il coraggio dell’obiezione di coscienza. L’anno dopo si rifiutò anch’egli di entrare nelle file naziste, finendo sulla ghigliottina. Il 28 maggio 2013 il vescovo di Treviri, monsignor Stephan Ackermann, ha aperto ufficialmente il processo di beatificazione di Franz Reinisch.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA.
PIO XII, OGGI?! DOPO E CONTRO LA LEZIONE DI PAPA WOJTYLA, IL REVISIONISMO NOSTALGICO DI RATZINGER.
GESÙ E IL CATTOLICESIMO-ROMANO. UNA LEZIONE DI JOYCE (da "FINNEGANS WAKE").
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA ...
iL "PADRE NOSTRO"?! Alcune pagine dalla "Querela pacis" (1517)
di Erasmo *
Pochi anni fa, quando il mondo era travolto a prendere le armi da non so quale peste esiziale, alcuni araldi del Vangelo, frati Minori e Predicatori, dal sacro pulpito davano fiato ai corni di guerra e ancor piú infervoravano chi già propendeva per quella follia. In Inghilterra aizzavano contro i Francesi, in Francia animavano contro gli Inglesi, ovunque spronavano alla guerra. Alla pace non incitava nessuno tranne uno o due, a cui costò quasi la vita l’aver soltanto pronunciato il mio nome.
Prelati consacrati scorrazzavano un po’ dovunque dimentichi della loro dignità e dei loro voti, e inasprivano con la loro opera il morbo universale, istigando ora il pontefice romano Giulio, ora i monarchi ad affrettare la guerra, quasi che non fossero già abbastanza folli per conto loro. Eppure questa patente pazzia noi l’avvolgemmo in splendidi titoli.
A tal fine sono da noi distorte con somma impudenza - dovrei dire con sacrilegio - le leggi dei padri, gli scritti di uomini santi, le parole della Sacra Scrittura. Le cose sono giunte a tal punto che risulta sciocco e sacrilego pronunciarsi contro la guerra ed elogiare l’unica cosa elogiata dalla bocca di Cristo. Appare poco sollecito del bene del popolo e tiepido sostenitore del sovrano chi consiglia il massimo dei benefici e scoraggia dalla massima delle pestilenze.
Ormai i sacerdoti seguono perfino le armate, i vescovi le comandano, abbandonando le loro chiese per occuparsi degli affari di Bellona. Ormai la guerra produce addirittura sacerdoti, prelati, cardinali ai quali il titolo di legato al campo sembra onorifico e degno dei successori degli Apostoli. Per cui non fa meraviglia se hanno spirito marziale coloro che Marte ha generato. Per rendere poi il male insanabile, coprono un tale sacrilegio col sacro nome della religione. Sugli stendardi sventola la croce.
Armigeri spietati e ingaggiati per poche monete a compiere macelli spaventosi innalzano l’insegna della croce, e simboleggia la guerra il solo simbolo che dalla guerra poteva dissuadere.
Che hai a che fare con la croce, scellerato armigero? I tuoi sentimenti, i tuoi misfatti convenivano ai draghi, alle tigri, ai lupi. -Quel simbolo appartiene a Colui che non combattendo ma morendo colse la vittoria, salvò e non distrusse; da lí soprattutto potevi imparare quali sono i tuoi nemici, se appena sei cristiano, e con quale tattica devi vincere.
Tu innalzi l’insegna della salvezza mentre corri alla perdizione del fratello, e fai perire con la croce chi dalla croce fu salvato?
Ma che! Dai sacri e adorabili misteri trascinati anch’essi per gli accampamenti, da queste somme raffigurazioni della concordia cristiana si corre alla mischia, si avventa il ferro spietato nelle viscere del fratello e sotto gli occhi di Cristo si dà spettacolo della piú scellerata delle azioni, la piú gradita ai cuori empi: se pure Cristo si degni di essere là. Colmo poi dell’assurdo, in entrambe le armate, in entrambi gli schieramenti brilla il segno della croce, in entrambe si celebra il sacrificio. -Quale mostruosità è questa? La croce in conflitto con la croce, Cristo in guerra con Cristo. È un simbolo fatto per atterrire i nemici della cristianità: perché adesso combattono quello che adorano? Uomini degni non di quest’unica croce, ma della croce patibolare.
Ditemi, come il soldato può recitare il “Padre nostro” durante queste messe? Bocca insensibile, osi invocare il Padre mentre miri alla gola del tuo fratello? “Sia santificato il tuo nome”: come si potrebbe sfregiare il nome di Dio piú che con queste vostre risse? “Venga il tuo regno”: cosí preghi tu che su tanto sangue erigi la tua tirannide? “Sia fatta la tua volontà, come in cielo, cosí anche in terra”: Egli vuole la pace, tu prepari la guerra.
“Il pane quotidiano” chiedi al Padre comune mentre abbruci le messi del fratello e preferisci che vadano perse anche per te piuttosto che giovare a lui?
Infine come puoi pronunciare con la lingua le parole “e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” mentre ti lanci a un fratricidio? Scongiuri il rischio della tentazione mentre con tuo rischio getti nel rischio il fratello. “Dal male” chiedi di essere liberato mentre ti proponi di causare il massimo male al fratello?
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Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, Einaudi, Torino, 1990, pagg. 51-55.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NELL’ORIZZONTE DELL’IMMAGINARIO DI COSTANTINO (“IN HOC SIGNO VINCES”). Lorenzo Scupoli, Francesco di Sales, e Maria Gaetana Agnesi ....
PER COMPRENDERE come e perché il libro di Lorenzo Scupoli (nato intorno al 1530 a Otranto, l’antica Hydruntum, che cinquant’anni prima era stata teatro del tragico martirio di ottocento suoi concittadini, decapitati dai turchi sul colle della Minerva), sia diventato un “bestseller senza tempo” (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/01/lorenzo-scupoli-1530-1610-di-otranto-e-il-suo-best-seller-senza-tempo/), non è male RICORDARE CHE
A) [...] il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli va collocato all’interno di una ricca e articolata produzione centrata sulla nozione di ‘milizia cristiana’, che poteva esibire un precedente di assoluto rilievo come Le armi necessarie alla battaglia spirituale di Caterina da Bologna e visse la sua stagione più feconda nei convulsi anni del Concilio di Trento e nei decenni successivi [...]” (cfr.: http://www.ereticopedia.org/lorenzo-scupoli).
B) “Francesco di Sales considerava un bene prezioso il Combattimento spirituale, che portava sempre con sé da ben diciotto anni, come ricorda in una lettera del 1607”, E CHE “Discutendone con l’amico e corrispondente epistolare Jean-Pierre Camus, il Sales espresse l’opinione che il Combattimento dello Scupoli costituiva per i teatini, mutatis mutandis, ciò che gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio avevano rappresentato per i gesuiti” (op.cit.),
C) “[...] Il Combattimento spirituale fu una delle letture preferite di Maria Gaetana Agnesi, newtoniana e matematica di respiro europeo, il cui Cielo mistico - rimasto a lungo inedito - attinge soprattutto alla spiritualità teatina dei primordi, a sant’Andrea Avellino e a Lorenzo Scupoli, che con l’ascetica dell’imitatio Christi e la devozione della Croce offrivano immagini e suggestioni di straordinaria efficacia psicologica e visiva. Agnesi possedeva il Combattimento in un’edizione padovana del 1724 e di certo doveva ritrovarvi molte idee proprie, che sul piano spirituale riflettono una fede di matrice teatina, attenta alle deliberazioni del Tridentino ma sensibile alle istanze riformatrici di stampo muratoriano, in dialogo continuo con le esigenze della ragione e la sensibilità tipica dei Lumières. In tale contesto iniziò a diffondersi a metà Settecento il mito che Agnesi, da precoce adolescente qual era, aveva tradotto in greco il Combattimento spirituale di Scupoli [...] (op.cit.).
Federico La Sala
NOTA
SULL’immaginario del cattolicesimo romano e sull’ "istanze riformatrici di stampo muratoriano", nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
FLS
Testimoni.
Barth «politico». La rivoluzione è cristiana
Per la prima volta in volume la conferenza tenuta nel 1911 dal teologo protestante morto 50 anni fa e dedicata al rapporto tra cristianesimo e socialismo “politico”. La rivoluzione è cristiana
di Karl Barth (Avvenire, sabato 20 ottobre 2018)
Il socialismo è il movimento di coloro che non sono indipendenti sul piano economico, di coloro che in cambio di un salario lavorano per un altro, un estraneo; è il movimento del proletariato, come lo si chiama nei libri. Il proletario non è necessariamente povero, ma nella sua esistenza è necessariamente dipendente dalle possibilità economiche e dalla buona volontà di colui che gli dà il pane, il padrone della fabbrica. È qui che interviene il socialismo: esso è e vuole essere un movimento proletario. Esso vuole rendere indipendenti coloro che non lo sono, con tutte le conseguenze che ciò può comportare per la loro esistenza materiale, morale e spirituale.
Non possiamo sostenere che anche Gesù si sia impegnato precisamente su questo punto, già semplicemente per il fatto che duemila anni fa non esisteva ancora un proletariato nel senso moderno del termine, non essendovi ancora le fabbriche. Tuttavia, chiunque legga senza pregiudizi il Nuovo Testamento, dovrebbe restare colpito dal fatto che ciò che Gesù è stato, ha voluto, e ha ottenuto, considerato da un punto di vista umano, era esattamente un movimento dal basso. Egli stesso proveniva da uno dei ceti più umili del popolo ebraico di quel tempo.
Vi ricorderete certamente del racconto di Natale e della mangiatoia di Betlemme. Suo padre faceva il carpentiere in un angolo sperduto della Galilea, e lo stesso mestiere ha fatto anche Gesù stesso, tranne che nei suoi ultimi anni di vita. Gesù non era un pastore, non era un parroco, era un operaio. Giunto al trentesimo anno di età, ha appeso al chiodo i suoi arnesi, e ha cominciato a girovagare da una località all’altra perché aveva qualcosa da dire agli uomini. Ma anche allora la sua posizione è stata completamente diversa da quella di un pastore dei nostri giorni. Noi pastori dobbiamo essere a disposizione di tutti, di chi sta in alto e di chi sta in basso, dei ricchi e dei poveri, e la nostra personalità spesso soffre di questa duplice faccia della nostra professione. Gesù si sentiva inviato ai poveri, agli umili: questo è uno dei dati più indiscutibili che ricaviamo dalla storia del vangelo.
Il senso della sua attività si riassume in una frase, nella quale sentiamo ancora oggi ardere il fuoco di un’autentica sensibilità sociale: «Vedendo il popolo, si commosse, perché erano come pecore senza pastore» (Mc 6,34). Talvolta leggiamo anche che gli si sono accompagnati dei ricchi, ma se pure non si sono tirati indietro, dopo un breve momento di entusiasmo, come il giovane ricco (Mt 19,16-22) - e aveva le sue buone ragioni per farlo - costoro facevano parte della sua cerchia come ospiti, piuttosto che essere veramente legati a lui. Un esempio tipico in questo senso è offerto da quel Nicodemo (Gv 3,2-1), «un capo dei Giudei», che si recò da lui nottetempo.
Certo, nelle ultime settimane di vita egli si è rivolto con il suo messaggio anche ai ricchi, alle persone colte: si è spostato dalla Galilea a Gerusalemme - ma sapete bene che questo tentativo s’è concluso con la croce, sul Golgota. Quello di cui era portatore era un lieto annuncio ai poveri, al popolo dei dipendenti e degli incolti: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli» (Lc 6,20). «Il più piccolo fra tutti voi diventerà il più grande» (Lc 9,48). «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10). Queste affermazioni non possono essere interpretate come parole consolatorie pronunciate da un filantropo con tono di condiscendenza. Gesù ha affermato: «Vostro è il regno dei cieli», e con questo ha inteso dire: rallegratevi di rientrare nel novero della gente minuta: voi siete più vicini alla salvezza degli altolocati e dei ricchi.
«Ti ringrazio, Padre del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). Gesù stesso si è comportato in questo modo: egli ha scelto i suoi amici tra i pescatori del lago di Galilea, tra i pubblicani al servizio dei romani, sospettati da tutti, addirittura tra le prostitute delle città di mare. Nella scelta dei propri compagni non si può scendere verso il fondo della scala sociale più di quanto abbia fatto Gesù. Per lui, nessuno si trovava troppo in basso o contava troppo poco.
Lo ripeto: non si trattava di una sussiegosa compassione dall’alto al basso, ma nell’esplosione di un vulcano dal basso verso l’alto. Non sono i poveri ad aver bisogno di compassione, ma i ricchi, non i cosiddetti “senza Dio”, ma gli uomini pii. Queste inaudite parole: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31), e: ’Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione» (Lc 6,24), Gesù le ha pronunciate rivolgendosi verso l’alto, mentre rivolgendosi verso il basso ha detto: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Lo spirito che ha valore agli occhi di Dio è lo spirito sociale. E l’aiuto prestato sul piano sociale è la strada che conduce alla vita eterna.
Gesù non ha soltanto parlato, ma ha anche agito in questo modo. Se si legge il vangelo con attenzione, non si può non restare stupefatti di come sia stato possibile fare di Gesù un pastore o un maestro, il cui scopo sarebbe stato quello di insegnare agli uomini una fede e una vita corrette. «Da lui usciva una forza che sanava tutti» (Lc 6,19).
Questa era la sua attività essenziale. Sia che si interpretino queste guarigioni come eventi soprannaturali o naturali - resta il fatto che egli ha operato delle guarigioni e che questa sua capacità sta al centro della sua vita molto più di quanto abitualmente si pensi. «Egli passò beneficiando e risanando» (At 10,38). Troviamo molti altri episodi del genere.
Guardando a questi dati noti a chiunque abbia letto la Bibbia, credo che nessuno abbia il diritto di dire che la socialdemocrazia è non cristiana e materialista per il fatto d’essersi posta come obiettivo l’introduzione di un ordinamento sociale più favorevole agli interessi materiali del proletariato. Gesù si è opposto alla miseria sociale affermando, con le parole e con i fatti, che essa non deve esistere. Certamente, egli ha fatto ciò infondendo negli uomini lo spirito, che trasforma la materia. Al paralitico di Cafarnao ha detto per prima cosa: «Ti sono rimessi i tuoi peccati»; e, dopo: «Alzati, prendi il tuo letto e cammina». Egli ha operato dall’interno verso l’esterno. Ha creato uomini nuovi, per creare un mondo nuovo.
IL "DESIDERIO" E IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. "Sapere aude!" .... *
Resistere resistere resistere
"Alzati e cammina", una resurrezione laica
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 19.10.2018)
Come si può intendere laicamente il mistero cristiano della resurrezione? Il corpo di Cristo che risorge dopo aver conosciuto l’assoluto nascondimento della morte, della fine della vita, non è solo una immagine consolatrice che dovrebbe liberare l’uomo dal peso insopportabile della sua finitezza, ma può essere assunto come il simbolo di una resistenza altrettanto assoluta della vita contro la tentazione della morte.
Non è, in fondo, questo uno dei significati fondamentali della predicazione di Gesù? Non abbiate paura perché non tutto è morte, perché il cuore della vita è più grande dell’ombra della morte!
Non a caso è nella parola antica Kum che è contenuto il tema della possibilità che la vita rinnovi se stessa proprio laddove pare morta, finita, consegnata ad uno scacco fatale. Kum è la parola-imperativo che, per esempio, nel testo biblico, Dio rivolge a Giona. Essa scuote il profeta dal suo letargo per consegnargli una missione impossibile che lo costringe a mettersi in movimento. Ma è anche la parola-imperativo che Gesù rivolge a Lazzaro: Kum! Alzati!
Cammina! Rimettiti in moto! Kum è la parola che riabilita la vita alla vita, proprio nel punto dove la vita si perde e muore. Ecco la cifra laica della resurrezione. Dobbiamo provare a vedere in Kum la parola che ispira ogni autentica pratica umana di cura.
La posta in gioco è decisiva: è possibile rialzarsi, ricominciare, ritornare a vivere, anche quando l’esperienza della caduta, della malattia, del fallimento, della catastrofe appare senza rimedio alcuno? In gioco non è solo il destino individuale della vita, ma quella di una città, di un popolo, di un ideale, del nostro stesso pianeta.
Il Grande Cretto di Burri che commemora il terremoto di Gibellina o il One World Trade Center di Daniel Libeskid che evoca il trauma dell’abbattimento delle Torri gemelle, non guariscono la ferita (inguaribile) ma la sanno incorporare in una forma nuova che consente alla vita di ricominciare a vivere.
Il mistero della resurrezione, riletto laicamente, indica allora non solo e non tanto la possibilità eventuale che la vita possa esistere dopo la morte, tema caro a tutte le religioni, ma la possibilità di ridare vita ad una vita che sembrava perduta, di ricostruire una città distrutta, di ritrovare un popolo privato di ogni forma di identità, di restituire un volto umano alla vita dopo l’esperienza atroce dell’orrore.
La parola Kum!, Alzati!, è un appello che esige movimento, rilancio, responsabilità di un atto che sappia riaccendere la vita. In gioco è l’evento della sorpresa che sempre accompagna il "miracolo" dell’uscita della vita dalla zona sepolcrale della morte. Non è infatti proprio questa sorpresa al centro di ogni avventura di cura? Possiamo pensare esemplarmente ad alcuni casi clinici ritenuti senza speranza che, nel corso di una cura, risorgono contraddicendo i protocolli e le previsioni prognostiche più nefaste. Può accadere con bambini colpiti da malattie rare, con giovani afflitti da patologie mentali gravi, ma anche, in uno scenario meno drammatico, con studenti ritenuti dall’istituzione scuola senza speranza, cause perse, irrecuperabili. Può accadere con territori e città che hanno fatto esperienza - solo apparentemente irreversibile - della catastrofe. Ma più in generale ogni volta che incontriamo una resistenza insperata alla morte, ogni volta che incrociamo la sorpresa della vita che non cede alla morte e ricomincia a camminare, facciamo esperienza della resurrezione.
Come se la cifra ultima della resurrezione coincidesse con quella della insurrezione: non si tratta di respingere fobicamente la caduta o la malattia, il fallimento o la perdita inconsolabile, illudendosi che possa esistere una medicina capace di dissolverne la presenza scabrosa.
Piuttosto si tratta di non lasciare l’ultima parola alla morte. Per questo sappiamo che i momenti più fecondi per una vita sono quelli che implicano passaggi stretti, crisi, ferite. Tuttavia, affinché il "miracolo" della resurrezione si possa compiere è sempre necessario un atto di fede che non può essere confuso con una semplice credenza. Non si tratta tanto di avere fede in un salvatore, ma di avere fede nella forza stessa della fede.
Quando una volta a Lacan chiesero in che cosa consistesse l’esperienza dell’analisi, egli rispose, molto semplicemente, che essa consisteva nell’offrire ad una vita persa, l’opportunità per "ripartire". Ebbene, la fede nel proprio desiderio è la condizione di base per questa ripartenza.
Alzati! è la parola-imperativo che rimette in piedi e in movimento la potenza affermativa del desiderio contro la tentazione cupa, sempre presente negli umani, della morte. Perché, in fondo, se la resurrezione non può pretendere di curare la vita dal suo destino mortale - non può liberare la vita dalla morte - essa può invece liberare la vita dalla paura paralizzante della morte e dalla sua tentazione. Perché la paura della morte, umanissima quando riguarda la prossimità dell’evento della propria fine che ci priva della gioia infinita della vita, può nascondere talvolta la paura della vita. La tentazione della morte è, infatti, un modo per voler evadere dalla fatica che la vita impone. È questa la tentazione più grande.
Testimoniare che non tutto è morte, non tutto è devastazione, non tutto è destinato a finire, che risorgere è un compito della vita, è il segreto che la parola Kum! porta con sé nei secoli.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GESÙ E IL CATTOLICESIMO-ROMANO. UNA LEZIONE DI JOYCE (da "FINNEGANS WAKE").
"PERVERSIONI" di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
Ottobre.
Il Papa: preghiamo con il rosario per la Chiesa attaccata dal demonio
Papa Francesco chiede a tutti i fedeli di recitare quotidianamente il Rosario nel mese mariano di ottobre. E di concludere con due invocazioni
Il Papa con la corona del Rosario (Ansa)
Papa Francesco ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Madonna e a san Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi. Lo rende noto un comunicato della Santa Sede.
Nei giorni scorsi, prima della sua partenza per i Paesi Baltici - ricorda la Santa Sede - il Papa ha incontrato padre Fréderic Fornos, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera per il Papa, e gli ha chiesto di diffondere in tutto il mondo questo suo appello a tutti i fedeli, invitandoli a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione Sub Tuum Praesidium, e con la preghiera a san Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male (cfr. Apocalisse12, 7-12).
La preghiera, aveva osservato il Pontefice l’11 settembre in un’omelia a Santa Marta, citando il primo libro di Giobbe, è l’arma contro il Grande accusatore che «gira per il mondo cercando come accusare». Solo la preghiera lo può sconfiggere. I mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione recita così:
Sub tuum praesidium confugimus Sancta Dei Genitrix. Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo Gloriosa et Benedicta.
[Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta].
Con questa richiesta di intercessione il Papa chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Madonna ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga.
La preghiera a san Michele Arcangelo
Il Papa ha chiesto anche che la recita del Santo Rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII, che recita così:
Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen.
[San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen].
* Avvenire, 29.09.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
“Siamo sotto attacco di Satana”
L’appello del Papa
di Andrea Tornielli (La Stampa, 30.09.2018)
Con un appello che non ha precedenti Papa Francesco chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare il rosario nel mese di ottobre per «proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi». Lo fa rimettendo in auge due antiche preghiere, una alla Madonna e una allo stesso San Michele.
È un’iniziativa che indica quanta sia la preoccupazione del Vescovo di Roma per la piaga degli abusi sui minori, ma anche per l’innalzarsi del livello degli attacchi contro lo stesso Papa e i vescovi, usando in modo strumentale lo scandalo pedofilia per combattere battaglie di potere nella Chiesa e mettere in stato d’accusa il Pontefice, come ha fatto un mese fa, con la sua clamorosa richiesta delle dimissioni papali, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti.
«Il Santo Padre - ha scritto la Sala Stampa vaticana in un comunicato diffuso a mezzogiorno di ieri - ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Santo Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre; e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi».
Papa Francesco invita tutti i fedeli «a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione “Sub Tuum Praesidium”, e con la preghiera a San Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male». La preghiera - aveva affermato Bergoglio lo scorso 11 settembre, in un’omelia a Santa Marta - «è l’arma contro il Grande accusatore che gira per il mondo cercando come accusare».
«Con questa richiesta di intercessione - spiega ancora la Sala Stampa - il Santo Padre chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Santa Madre di Dio, ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga». Il Papa ha chiesto anche che la recita del rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII: «San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio».
CREATIVITÀ E CARITÀ ("CHARITAS"). ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO....*
Risorsa famiglia.
Così lo sguardo femminile può cambiare l’economia
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 23 agosto 2018)
Economia è una parola greca che rimanda direttamente alla casa ( oikos nomos, regole per gestire la casa), quindi alla famiglia. Eppure l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, si è pensata come un ambito retto da principi diversi, distinti e per molti versi opposti ai principi e ai valori che hanno sempre retto e continuano a reggere la famiglia. Un principio fondante la famiglia, forse il primo e quello sottostante gli altri, è quello di gratuità, che è quanto è di più distante dall’economia capitalistica, che conosce surrogati della gratuità (sconti, filantropia, saldi) che svolgono al funzione di immunizzare i mercati dalla gratuità vera.
La famiglia, infatti, è il principale luogo dove apprendiamo, per tutta la vita e in un modo tutto speciale da bambini, quella che Pavel Florensky chiamava ’l’arte della gratuità’. E lì che soprattutto da bambini impariamo anche a lavorare, perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità. La nostra cultura, però, associata la gratuità al gratis, al gadget, allo sconto, alla mezza ora in più al lavoro non remunerata, al prezzo zero (San Francesco ci ha invece detto che la gratuità è un prezzo infinito: non si può né comprare né vendere perché è impagabile).
In realtà la gratuità è qualcosa di molto serio, come ci ha spiegato con estrema chiarezza anche la Caritas in veritate, che rivendica alla gratuità anche lo statuto di principio economico. Gratuità è charis, grazia, ma è anche l’agape, come ben sapevano i primi cristiani, che traducevano la parola greca agape con l’espressione latina charitas (con l’h), proprio ad indicare che quella parola latina traduceva ad un tempo l’agape ma anche la charis, e per questo quell’amore diverso non era né solo eros né solo philia (amicizia). La gratuità, questa gratuità, allora, è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose non per usarli utilitaristicamente a proprio vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità e nel loro mistero, rispettarli e servirli.
Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione. La gratuità ci salva così dalla tendenza predatoria che c’è in ogni persona, ci impedisce di mangiare gli altri e noi stessi. E’ ciò che distingue la preghiera dalla magia, la fede dall’idolatria, che ci salva dal narcisismo, che è la grande malattia di massa del nostro tempo, per assenza di gratuità.
Se la famiglia vuole, e deve, coltivare l’arte della gratuità, deve fare molta attenzione a non importare dentro casa la logica dell’incentivo che oggi vige ovunque. Guai, ad esempio, ad usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi (ma con tutti), va usato molto poco, e se usato deve essere usato come un premio o riconoscimento dell’azione ben fatta per ragioni intrinseche, e mai usato come prezzo. Uno dei compiti tipici della famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto, un’etica che nasce proprio dal principio di gratuità. Se, invece, si inizia a praticare anche in famiglia la logica e la cultura dell’incentivo, e quindi il denaro diventa il ’perché’ si fanno e non si fanno compiti e lavoretti di casa, quei bambini da adulti difficilmente saranno dei buoni lavoratori, perché il lavoro ben fatto di domani poggia sempre su questa gratuità che si apprende soprattutto nei primi anni di vita, e soprattutto a casa.
L’assenza del principio di gratuità nell’economia dipende anche, e molto, dall’assenza dello sguardo femminile. La casa, l’oikos, è sempre stato il luogo abitato e governato dalle donne. Ma , paradossalmente, l’economia è stata, e continua ad essere, una faccenda tutta giocata sul registro maschile. Anche i maschi hanno sempre avuto a che fare con la casa, e molto. Il loro sguardo si è però concentrato sul provvedere i mezzi per il sostentamento, sul lavoro esterno, sui beni, sul denaro. E quando l’economia è uscita dalla vita domestica ed è diventata politica, sociale e civile, lo sguardo e il genio femminile è rimasto dentro casa, e quello maschile è rimasta la sola prospettiva della prassi e soprattutto della teoria economica e manageriale.
Le donne guardano alla casa e all’economia vedendo prima di tutto il nesso di rapporti umani che si svolge in esse. I primi beni che vedono sono quelli relazionali e i beni comuni, e dentro a questi vedono anche i beni economici. Non è certo un caso che l’Economia di comunione sia nata da uno sguardo di una donna (Chiara Lubich), né che la prima teorica dei beni comuni è stata Katherine Coman (nel 1911), e che Elinor Ostrom sia stata insignita (unica donna finora) del premio Nobel in economia proprio per il suo lavoro sui beni comuni. E ci sono due donne (Martha Nussbaum e Carol Uhlaner) all’origine della teoria dei beni relazionali. Quando manca lo sguardo femminile sull’economia, le sole relazioni viste sono quelle strumentali, dove non è la relazione ad essere il bene, ma dove i rapporti umani e con la natura sono mezzi usati per procurarsi i beni.
Se lo sguardo e il genio femminile della oikoscasa fossero stati presenti nella fondazione teorica dell’economia moderna, avremmo avuto una economia più attenta alle relazioni, alla redistribuzione del reddito, all’ambiente e forse alla comunione. È, infatti, la comunione una grande parola che dalla famiglia può passare all’economia di oggi. E qui si apre un discorso specifico per i cristiani.
La chiesa oggi è chiamata ad essere sempre più profezia, se vuole salvarsi e salvare. La profezia è anche una parola della famiglia. La maggior parte dei profeti biblici erano sposati, e molte parole e gesti profetici della bibbia sono parole di donne. Isaia chiamò suo figlio Seariasùb, che significa ’un resto tornerà’, che uno dei grandi messaggi della sua profezia.
Non trovò modo migliore per lanciare quel suo messaggio profetico di farlo diventare il nome del figlio. Ogni figlio è un messaggio profetico, perché dice con il solo suo esserci che la terra avrà ancora un futuro, e che potrà essere migliore del presente. La profezia della famiglia oggi, per essere credibile, deve prendere la forma dei figli e la forma dell’economia, e quindi della condivisione, dell’accoglienza e della comunione. Perché sia i figli che l’economia non sono altro che la vita ordinaria di tutti e di ciascuno, che è il solo luogo dove la profezia si nutre e cresce.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
Pedofilia, tutta la Chiesa ha i problemi del Cile
Linea dura - Il Papa ha ammesso di aver sottovalutato il caso e ha fatto dimettere i vescovi. Ma le omertà in diocesi e nei seminari sono la norma
di Marco Marzano (Il Fatto, 20.05.2018)
La decisione dei vescovi cileni di rassegnare in blocco le dimissioni dai loro incarichi al papa è clamorosa. Segnala la consapevolezza di una responsabilità collettiva dell’episcopato cileno per i gravi crimini commessi da membri della Chiesa in quel Paese. Il gesto giunge dopo decenni di insabbiamenti ed è la conseguenza di un drastico cambiamento di linea di Francesco nel contrasto alla pedofilia clericale in Cile.
Sino al gennaio di quest’anno e cioè al suo viaggio nel Paese andino, Francesco non sembrava scontento di come andavano le cose nella chiesa cilena. Nel 2015, aveva promosso, nominandolo vescovo, Juan Barros, un “allievo” e amico del pedofilo abusatore Don Fernando Karadima. Quando Francesco lo ha nominato vescovo sul capo di Barros pendeva già l’accusa di aver assistito impassibile alle violenze che Karadima infliggeva ai minori.
Proprio durante quel viaggio, Francesco aveva reagito con fastidio alla domanda di chi gli aveva chiesto conto del suo sostegno a Barros rispondendo che della complicità di quel vescovo con i crimini di don Karadima non c’erano riscontri certi e quindi, fino a prova contraria, quelle contro di lui erano calunnie. Quelle parole parvero l’ennesima manifestazione della complicità vaticana con gli abusatori e suscitarono la reazione indignata di molta parte dell’opinione pubblica, non solo cilena.
È a quel punto che il papa fece mostra di esser pronto a cambiar linea, ammise di essersi sbagliato nel giudicare la situazione cilena, dichiarò di essere stato male informato e di voler andare finalmente a fondo della questione. Mandò un Cile un suo investigatore che acquisì nuove informazioni, poi convocò i dirigenti cileni a Roma e ottenne le loro dimissioni. Adesso gli toccherà procedere alle necessarie epurazioni, cioè al licenziamento di massa dei vescovi cileni. Se ciò non avvenisse, se il papa prendesse tempo e nel frattempo la vicenda venisse dimenticata dai media, ci troveremmo dinanzi a una sceneggiata sulla pelle delle vittime.
In una lettera indirizzata ai vescovi cileni che doveva rimanere riservata (e di cui alcuni giornali hanno pubblicato stralci) Francesco ammette che i problemi in Cile vanno ben al di là del caso Karadima-Barros, che nella chiesa cilena si sono verificati nel tempo abusi e mancanze di tutti i generi, che sono stati distrutti documenti che compromettevano alcuni preti, coperti e protetti o trasferiti precipitosamente da una parrocchia all’altra e subito incaricati di occuparsi di altri minori. Le accuse hanno riguardato anche le istituzioni formative, i seminari, colpevoli di non aver arrestato la carriera di preti che già da studenti mostravano chiari segni di un comportamento patologico nella sfera sessuale e affettiva. Il problema è “il sistema” ha concluso il papa.
Ed è verissimo. Il punto è: quale sistema? A meno di non voler credere che la chiesa cilena abbia sviluppato patologie tutte peculiari, che fosse una sorta di associazione a delinquere fuori controllo e a meno di negare che fenomeni identici a quelli descritti dal papa nella sua lettera si sono verificati ovunque nel mondo bisogna ammettere che il sistema è la chiesa stessa nella sua attuale forma organizzativa. Il problema è cioè un’organizzazione strutturata intorno alla supremazia di una casta clericale tutta maschile e celibe formata intorno ai valori della fedeltà assoluta e della disciplina di corpo all’interno di istituzioni totali e claustrofobiche come i seminari e poi investita del monopolio assoluto nella gestione del sacro, della competenza esclusiva di tutti gli aspetti cruciali della vita dell’istituzione.
Se il pontefice vuole davvero combattere fino in fondo il sistema e debellarlo, perché non prende tutti in contropiede e assume l’iniziativa di avviare una grande riflessione collettiva e pubblica, eventualmente attraverso un sinodo straordinario, sul tema della responsabilità dei funzionari e delle istituzioni cattoliche nei tantissimi casi di abusi sui minori commessi dai membri della Chiesa nella sua storia recente? E perché non invita a farne parte anche quegli studiosi che da anni sostengono che il problema degli abusi sessuali da parte del clero cattolico va affrontato mettendo in conto l’eventualità di dover smantellare la tradizionale strutturale clericale che da secoli, e senza alcuna discontinuità sino al presente, governa la Chiesa ai quattro angoli della terra? Questo sì che sarebbe l’inizio della rivoluzione.
IL DIO MAMMONA ("CARITAS"), IL DENARO, E "IL GATTO CON GLI STIVALI". LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ...
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. "Questo è il gatto con gli stivali" *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
*
Edoardo Sanguineti
La poesia è tratta dalla raccolta Triperuno, dalla sezione Purgatorio de l’Inferno, 1964.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KARL MARX E WALTER BENJAMIN: L’ "ODIO DI CLASSE" di EDOARDO SANGUINETI, oggi. "Ieri" a Roma la «Lectio Magistralis» dedicata a Pietro Ingrao
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte - Seconda parte - Terza parte (di Angelo Petrella, "Belfagor", 2005 - "Nazione Indiana", 2017).
Federico La Sala
L’ateismo di Joyce nel Finnegans Wake. Così ha smascherato il linguaggio “edificcante” dei preti
di FABIO PEDONE ED ENRICO TERRINONI *
In uno dei libri a più alto potenziale comico e dissacrante del Novecento, l’Ulisse di Joyce, il giovane protagonista, l’intellettuale frustrato e vagamente alcolizzato Stephen Dedalus, dichiara d’essere, proprio come Arlecchino, «il servitore di due padroni... uno inglese, e uno italiano». Quello inglese è «lo stato imperiale britannico», mentre l’italiano è la «Chiesa cattolica e apostolica romana». Alle imposizioni della sua epoca, della famiglia e delle istituzioni che rigetta, il giovane Stephen ha opposto lo stesso Non serviam (il rifiuto di inginocchiarsi) proferito dal Satana di John Milton.
Postura ribelle che ha radici remote nella biografia dell’autore: alla fine del 1904, esule volontario da poche settimane, scriveva da Pola al fratello Stannie: «La casa è poco salubre e sto cercando un nuovo alloggio. Nora ha concepito, credo, e voglio che viva nelle condizioni più igieniche possibili. Mio figlio, se l’avrò, non sarà naturalmente battezzato ma sarà registrato sotto il mio nome». E in una missiva seguente: «Sputo sul ritratto del Decimo Pio».
Ancora, da Trieste, nel maggio 1905: «Non posso dirti quanto mi faccia sentire strano a volte il mio tentativo di vivere una vita più civile dei miei contemporanei. Ma perché avrei dovuto condurre Nora di fronte a un prete o un avvocato per farle giurare di darmi la sua vita? E perché dovrei gravare mio figlio con lo scomodissimo fardello di fede con cui mio padre e mia madre hanno gravato me?».
Quando scrive l’Ulisse, Joyce ha già abbandonato il cattolicesimo da molti anni, ma non ha mai smesso di divertirsi a prenderne di mira i capisaldi, spesso in maniera ironica, più di rado rancorosa. Poi con il Finnegans Wake, che dell’Ulisse - libro del giorno - è la prosecuzione per così dire “notturna”, Joyce si vantò d’aver «messo a dormire il linguaggio». [...]
*
L’URLO ("HOWL") DI FINNEGANS: "WAKE", "SVEGLIARSI"!
DOMANDE, SAPERE, E POTERE (TEOLOGICO POLITICO PEDAGOGICO E SESSUALE): ...
“FAQ”, “FAKE”, “FUCK”: ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE ormai di uso comune. Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq!": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!).
Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo!
Federico La Sala
*
A) James Joyce, Finnegans Wake (Libro Primo V-VIII, Oscar Mondadori, Milano 2001, pp. 195-195 bis).:
"He lifts the lifewand and the dumb speak
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq"
"Egli brandisce la bacchetta della vita e i muti parlano
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq" *
Quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì...
Quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà...
B) Gesù - nel messaggio evangelico, cfr. Marco 7, 31-37:
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
C) KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
D) A SCUOLA CON JOYCE. LEGGERE E RILEGGERE FINNEGANS WAKE.
E) "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO.
Federico La Sala
ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA....
L’evoluzione di un mito che resiste fino al libro di Abécassis e Lacombe
Golem
I segreti del primo umanoide padre di replicanti e di robot
di Marino Niola (la Repubblica, 12.07.2017)
Il primo umanoide della storia è nato cinque secoli fa nel cuore della Praga magica, quando, nell’oscurità sapienziale della Sinagoga Vecchia-Nuova, un Golem prese vita tra le mani del Rabbino Judah Loew, grande cabalista, talmudista e matematico. Che riuscì ad animare quella creatura di fango intonando nenie magiche e incidendo sulla sua fronte le lettere del nome di Dio. Di fatto il sapiente conoscitore delle scritture aveva ricreato la creazione. Il suo colosso d’argilla era una sorta di Adamo senz’anima, asservito al suo creatore e del tutto privo di coscienza. Anche se a furia di perfezionamenti e apprendimenti, finisce per emanciparsi dal suo creatore.
Il mito del gigante dalla forza sovrumana, nato per difendere il popolo d’Israele dai suoi nemici, è arrivato fino a noi ed è diventato di fatto il padre di tutti gli automi che abitano il nostro immaginario. Come racconta la bellissima mostra del Mahj (Museo di Arte e Storia del Giudaismo) di Parigi. Titolo, Golem! Avatar d’une legende d’argile (fino al 16 luglio). I curatori, Paul Salmona e Ada Ackerman hanno messo insieme con scelte espositive di grande suggestione dei pezzi da urlo. Documenti preziosi, testi religiosi, immagini, film, affiches, opere di artisti contemporanei, fumetti, videogiochi e robot per mostrare vita, morte e miracoli di questo archetipo di tutti i mostri. Da Frankenstein alla Cosa, da Hulk a Terminator, dai replicanti ai Pokemon. Tutti figli della creatura leggendaria animata dal grande MaHaRaL di Praga, acronimo di Nostro Maestro Rabbino Loew. -Così i suoi concittadini avevano soprannominato Judah, circondato da un’aura di mistero che il tempo e gli uomini non hanno scalfito. La sua statua, che troneggia davanti al municipio praghese, ha resistito ai regimi, alle bombe, alle intemperie e ai graffitari. Perfino gli uccelli, si dice, evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL. Certo è che questo sapiente, amico di Tycho Brahe e Keplero, ha il merito di aver traghettato la figura del Golem dall’antica teologia alla moderna mitologia.
Non senza l’aiuto della letteratura e del cinema. Ad aprire la serie è lo scrittore esoterista austriaco Gustav Meyrink che con il suo romanzo Der Golem, uscito nel 1915, fa del gigante la matrice di tutte le nostre creature artificiali, reali e immaginarie. Con il contributo di un grande illustratore come Hugo Steiner-Prag, che dà al simulacro animato un volto destinato a entrare nell’immaginario globale.
Il resto lo fa il grande schermo che celebra il primo mostro di celluloide con la trilogia di Paul Wegener (1915-20), celebre esponente dell’espressionismo tedesco. Che nella trasposizione cinematografica della leggenda ci crede tanto da metterci la faccia. Sarà lui stesso, infatti, con la sua stazza imponente a vestire i panni dello spaesato Moloch. La meccanica rudimentale della sua camminata, il suo caschetto da sfinge faranno scuola, grazie anche alla fotografia di Karl Freund, collaboratore fisso di Fritz Lang e creatore di Maria, il robot di Metropolis.
Da allora l’androide di argilla diventa il simbolo della creatura che sfugge al controllo del creatore. Della ribellione delle macchine che disobbediscono all’uomo, esattamente come questo ha disobbedito a Dio. Non a caso la prima menzione del termine Golem si trova nel Salmo 139 della Bibbia ed esce dalla bocca di Adamo che si rivolge al Signore definendosi una massa informe. E di fatto si autoproclama primo golem di sempre. Era il parere di quei dottissimi rabbini che nel Medioevo e nel Rinascimento si interrogavano sulla natura e sul ruolo sociale di questi diversamente uomini. Che stando al Talmud era realmente possibile animare usando come tutorial il Sefer Yetsirah, il Libro della creazione, che fornisce istruzioni dettagliate sulle combinazioni alfanumeriche usate da Dio per mettere in moto la macchina del mondo. Una cosmogonia che si fonda sulla magia generativa dei numeri e delle lettere.
E infatti il Golem comincia a vivere grazie alla potenza del termine emet, in ebraico verità. E smette di vivere quando l’iniziale viene cancellata e restano i tre caratteri di met che significa morte. È un principio binario che cifra in un algoritmo il segreto della vita. Non a caso il primo computer prodotto da Israele nel 1965, fu battezzato Golem I e a scegliere il nome fu Gershom Scholem, il grande filosofo, teologo e cabalista amico di Walter Benjamin.
E proprio con la robotica e la cibernetica si conclude la mostra parigina. Corpi aumentati, ibridazioni genetiche, nanotecnologie, transazioni informatiche, avatar. Forme di golemizzazione della realtà. Nel senso che segnano il passaggio dal Golem originario, copia rudimentale e incompleta dell’uomo, a un Golem post-umano che è a tutti gli effetti un uomo ulteriorizzato.
Deve averlo pensato anche Bill Gates quando di recente ha proposto di tassare i robot come se fossero individui. Declinando al presente la domanda che ci pone da sempre il mostro di argilla. Cos’è che definisce la persona? La natura, la forma o la funzione? La stessa domanda che si pone e ci pone anche la carismatica e dilemmatica Lisa Simpson, in un episodio dove il Golem piomba nella famiglia di Homer e Marge.
La risposta è nessuna delle tre. Perché a rendere umani sono la coscienza e i sentimenti. Quelle lacrime nella pioggia che fanno brillare un lampo di umanità nel replicante di Blade Runner. O il balbettio del Golem Josef, protagonista della versione più recente della leggenda. Contenuta nel bellissimo libro L’ombra del Golem, di Éliette Abécassis, splendidamente illustrato da Benjamin Lacombe e appena tradotto in italiano da Camilla Diez (Gallucci, pagg. 184, euro 19,90).
Un avvincente racconto per ragazzi che riscrive la leggenda praghese dalla parte delle bambine. In questo caso, infatti, è Zelmira, la pupilla del MaHaRaL, a far breccia nel cuore del gigante che si è ribellato al suo costruttore e ad arrestare la sua furia distruttiva.
«Golem volere bene a Zelmira ». Sono le ultime parole del mostro prima che Judah lo disattivi chiudendo per sempre quegli occhi che Borges definiva «meno di uomo che di cane e ancor meno di cane che di cosa». Come dire che solo l’amore ha più potere del nome di Dio.
PER UN’ALTRA EUROPA E PER UN’ALTRA ITALIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica. Contro la cecità e la boria dei dotti e delle nazioni ...
JAMES JOYCE
VIAGGIO AL TERMINE del ’900
di Stefano Bartezzaghi ( "Il Venerdì di Repubblica", 13.01.2017)
Con l’Ulisse aveva sconvolto il romanzo, ma con Finnegans Wake andò oltre, inventando un poema dalla lingua babelica dove i miti si confondono con le canzoni da pub. L’ammiratore Umberto Eco lo definì «terrificante».
Tradurlo sembrava impossibile. Però due italiani ci sono riusciti. Qui spiegano come hanno affrontato un capolavoro venerato dalle avanguardie ma che oggi qualsiasi editore butterebbe nel cestino.
«Riverrun», «Meandertale», «Chaosmos» sono tre fra le parole-chiave (molte, e tutte assenti da ogni vocabolario) del romanzo di cui l’autore stesso pensava: «Forse è una follia. Si potrà giudicare solo fra un secolo». Oggi è ancora troppo presto, di anni ne sono passati meno di ottanta, e l’opera estrema di James Joyce può continuare a sembrare un libro immaginario, una congettura di Jorge Luis Borges.
Invece il Finnegans Wake non solo esiste davvero, ma viene persino tradotto in italiano. Di Joyce è opera estrema non solo perché ultima (è uscito nel 1939, diciassette anni dopo l’Ulysses, e due anni prima della morte dell’autore).
Lo spiegò Umberto Eco, nel 1962: «Pareva che Ulysses avesse sconvolto oltre ogni limite la tecnica del romanzo: Finnegans Wake supera questo limite oltre i confini del pensabile. Pareva che in Ulysses il linguaggio avesse dato prova di tutte le sue possibilità: Finnegans Wake porta il linguaggio oltre ogni confine di duttilità e di comunicabilità. Pareva che Ulysses rappresentasse il più ardito tentativo di dare una fisionomia al caos: Finnegans Wake costituisce il più terrificante documento di instabilità formale e ambiguità semantica di cui si sia mai avuta notizia».
Più di recente lo scrittore Martin Amis ha significativamente intitolato «La guerra contro i cliché» una prefazione all’ Ulysses, e vi ha così riassunto le quattro tappe fondamentali della produzione joyciana: «Gli accessibilissimi racconti di Gente di Dublino, il più o meno comprensibile Ritratto dell’artista dagiovane, poi l’ Ulisse, prima che Joyce si prepari per quell’immolazione di ostilità, di sterminio del lettore che è Finnegans Wake, dove ogni parola è un pun multilingue».
È il gioco di parole, quindi, la «terrificante» (Eco) arma con cui si compie lo «sterminio del lettore» (Amis).
Nel pun le parole possono incastrarsi l’una nell’altra, aprendo nuove dimensioni di significato: i gemelli «siamesi» sono «soamheis» (so-am-he-is, così come io sono, egli è); «Chaosmos» è il caos che non si oppone ma si interpone al cosmo; «riverrun» (prima e ultima parola del romanzo, scritta in minuscolo perché la fine si salda con l’inizio) è un’unione di «fiume» e «scorrimento» (ma può essere molte altre cose); «Meandertale» è una sorta di sciarada fra il «meandro» e il «racconto» (tale) che finisce per produrre un’entità vicina a «Neanderthal», quindi all’uomo primordiale e ai suoi istinti primari. Giochi, ma quanto divertenti? Il titolo Finnegans Wake è ricavato dalla canzonaccia irlandese da osteria La veglia di Finnegan, il cui ritornello dice: «Vedi che avevo ragione? / Alla veglia di Finnegan ci si diverte da matti!». Per Joyce agglomerare parole o, al contrario, disaggregarle in atomi entropici di significato era anche un divertimento personale: non a caso gli capitava di chiamarlo «joycity», gioiosità joyciana.
Al proprio «meandertale», oscuro labirinto e puzzle narrativo, Joyce augurava lettori poliglotti e idealmente insonni. Dei traduttori non ha parlato (per quanto lui stesso abbia partecipato alla traduzione italiana di una sezione), ma il testo li postula onniscienti e invulnerabili.
Dopo qualche saggio di traduzione italiana assai parziale da parte di scrittori intrepidi come Gianni Celati e Rodolfo Wilcock (oltre allo stesso Joyce), a decidere di affrontare non l’Ottomila di uno o due capitoli ma l’intero Himalaya del libro completo è stato un traduttore bolognese, Luigi Schenoni (1933-2008): nell’incredulità generale pubblicò il primo volume nel 1982, da Mondadori, e arrivò poi a tradurre i due terzi dell’opera.
Il suo testimone è stato raccolto da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone di cui ora esce la traduzione del penultimo tratto di Finnegans Wake (Libro Terzo, capitoli 1 e 2; Mondadori, pp. 420, euro 24), corredato da diversi apparati, oltre che dall’imprescindibile testo origi- nale a fronte.
Come dicono i nuovi traduttori, la difficoltà è che il romanzo «si traduce da solo», poiché è scritto in una lingua babelica, in cui l’inglese si confronta con apporti di ogni altra lingua conosciuta o raggiunta da Joyce (ivi compreso non solo l’italiano ma anche il dialetto triestino: chissà quanti non-italiani leggendo «riceypeasy» penseranno ai «risi e bisi» qui evocati consapevolmente da Joyce).
La storia di questo libro inimmaginabile era cominciata nel 1922, un anno dopo l’uscita di Ulysses. Fu allora che Joyce prese ad alludere a un nuovo progetto: per iscritto vi si riferiva con il disegno di un quadratino ; quando ne parlava, lo chiamava Work in progress, il lavoro in corso. Nel 1928 mise in palio mille franchi, per chi avesse indovinato il titolo definitivo (il premio fu aggiudicato dieci anni dopo, un anno prima dell’uscita del romanzo).
La canzone Finnegan’s Wake parla della veglia funebre per un ubriacone, durante la quale gli amici bevono e litigano, fanno cadere un goccio di whisky sul cadavere, che si ridesta («wake» come nome significa «veglia» ma come verbo sta per «svegliarsi»).
Joyce trasformò «Finnegan’s» in «Finnegans», e la veglia di Finnegan diventò «la veglia dei Finnegan» o «i Finnegans si svegliano». Né si può trascurare la circostanza per cui Finn è un gigante della mitologia irlandese, nel mito di fondazione della città di Dublino, e sempre per assonanza e pun «Finnegan» può diventare «Finn again»: ancora Finn, in riscossa dello spirito irlandese. Come se non bastasse, c’è il latino, dove «negans» è participio presente di negare e quindi «Fin negans wake» è una veglia, o un risveglio, che nega la fine.
Il fatto è che Joyce era rimasto impressionato, letterariamente se non filosoficamente, dalla Scienza Nuova di Giovan Battista Vico, con la dottrina dei corsi e ricorsi e la sequenza delle ere degli Dèi, degli Eroi e degli Uomini.
Volle narrare un ciclo vitale ricorsivo incarnandolo però nella forma stessa del suo romanzo; non una quadratura del cerchio, ma una circolazione del quadrato, diceva: il quadrato sta per il susseguirsi di nascita, crescita, morte, rinascita.
A capirlo prima di tutti fu il giovane Samuel Beckett, che di Joyce era stato anche collaboratore stretto, e quando del Work in Progress non si conoscevano che pochi tratti ne parlò così: «Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per esser letta, o almeno non solo per essere letta. Bisogna guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa».
Nel contenuto e nelle forme espressive della narrazione fra l’ Ulysses e Finnegans Wake avviene il passaggio dal giorno alla notte. Là c’era una giornata nella vita di un everyman, Leopold Bloom; qui è il sogno di un altro uomo, l’oste H. C. Earwicker.
Nelle forme di un’allegoria letteraria l’Ulisse-Bloom aveva il suo Telemaco-Dedalus e la sua Penelope-Molly, e incontrava sirene, ninfe e tempeste; invece nel sogno di Earwicker le figure dei diversi livelli (narrativo, storico, geografico, mitologico) non scorrono più parallele al testo ma si fondono fra loro secondo le condensazioni tipiche del lavoro onirico.
Le iniziali di Earwicker, H. C. E., stanno anche per Here Comes Everybody (Qui arriva ognuno) e per molte altre soluzioni dell’acronimo; la moglie Anna Livia Plurabelle nel nome incarna il fiume dublinese Liffey; corrispondenze numerologiche trasfigurano i dodici clienti dell’osteria di H. C. E. negli apostoli o nelle ore dell’orologio... In un mondo di trasmutazioni della materia e delle identità (i sogni, del resto, sono fatti così), la lingua medesima diventa un dispositivo di condensazione, in cui radici, etimi, somiglianze, accezioni alternative convivono nella stessa parola.
Se l’ Ulysses rompeva la sintassi dell’inglese e la ristrutturava, il Finnegans Wake non è più scritto in inglese, ma è un vortice, una tromba d’aria poliglotta che devasta un territorio inglese.
Umberto Eco si è potuto divertire a immaginare il consulente che scrive alla casa editrice: «Per piacere, dite alla redazione di stare più attenta quando manda i libri in lettura. Io sono un lettore d’inglese e mi avete mandato un libro scritto in qualche diavolo di altra lingua. Restituisco il volume in pacco a parte».
Lo scrittore Michel Butor ha detto: «Se noi vogliamo leggere una pagina di Finnegans Wake dobbiamo prendere molte parole in modo diverso da quello in cui sono scritte, abbandonare una parte delle loro lettere e dei loro significati possibili».
Ogni lettore fa scelte proprie e costruisce un proprio ritratto tramite il testo: «Finnegans Wake è così per ciascuno uno strumento di conoscenza intima». Here Comes Everybody, appunto. Forse è significativo che tra i primi joyciani a occuparsi a fondo di Finnegans Wake si siano annoverati Marshall McLuhan e Umberto Eco.
L’Everybody dublinese, dall’alto del suo estremo gioco letterario, affascina gli studiosi di mass-media. Nella sua osteria allora convergono la storia, l’ostilità, l’ospitalità, l’isteria di tutti. Se fra vent’anni decideremo che si trattò di follia, già oggi sappiamo che lì c’era del mitico.
Stefano Bartezzaghi
FU JOYCE A PROPORRE ALL’AMICO NINO FRANK DI TRADURRE IN ITALIANO L ’ ULTIMO CAPITOLO DEL FINNEGANS WAKE: «PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI », SPIEGÒ . « FINCHÉ CI SONO ANCORA I0 A CAPIRE COSA HO SCRITTO».
FRANK PROTESTAVA : L’ITALIANO NON È UNA LINGUA ADATTA Al GIOCHI DI PAROLE E QUEL CAPITOLO È INTRADUCIBILE . « NON ESISTE NULLA CHE NON POSSA ESSERE TRADOTTO», RIBATTEVA JOYCE . COSÌ I DUE PRESERO A INCONTRARSI DUE VOLTE A SETTIMANA PER TRE MESI. E, COME RACCONTA RICHARD ELLMANN , BIOGRAFO DELLO SCRITTORE, ERA LUI A SPIEGARE L’AMBIGUITÀ DELLE PROPRIE INVENZIONI , SOTTOLINEANDONE LA MUSICALITÀ . MENTRE IL SIGNIFICATO DEL TESTO GLI ERA PIUTTOSTO INDIFFERENTE.
NONOSTANTE QUESTO ESORDIO D’AUTORE - E BENCHÉ JOYCE ABBIA VISSUTO IN ITALIA PIÙ DI DIECI ANNI, PARLANDO LA NOSTRA LINGUA CON MOGLIE E FIGLI - NON ESISTE ANCORA UNA VERSIONE ITALIANA COMPLETA DEL ROMANZO, CHE PURE È STATO PUBBLICATO IN FRANCESE, TEDESCO , OLANDESE, PORTOGHESE , TURCO E PERFINO IN CINESE, GIAPPONE- SE E COREANO. MA LA LACUNA STA PER ESSERE COLMATA: ENRICO TERRINONI E FABIO PEDONE , CHE ORA ESCONO CON LA PENULTIMA TRANCHE DELL’OPERA ( PROSEGUENDO IL LAVORO DI CHI TRADUSSE I PRIMI DUE TERZI ), Si SONO IMPEGNATI ANCHE AD ARRIVARE ALLA FINE. ENTRO IL 4 MAGGIO 2019 , OTTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA PUBBLICAZIONE DEL ROMANZO , IL FINNEGANS WAKE SARÀ TUTTO IN ITALIANO. «CI SONO VOLUTI QUASI TRE ANNI, CINQUE ORE AL GIORNO , PER TRADURRE 70 PAGINE CHE, Si FOSSE TRATTATO DI UN TESTO QUALUNQUE , AVREBBERO RICHIESTO SETTE GIORNI DI LAVORO », SPIEGA TERRINONI, ORDINARIO DI LETTERATURA INGLESE ALL’UNIVERSITÀ PER STRANIERI DI PERUGIA.
«DOPO AVER AFFRONTATO SEPARATAMENTE OGNI BRANO ED ESSERCI POI REVISIONATI A VICENDA, ABBIAMO INIZIATO UN LUNGO PING-PONG DI IDEE, PROPOSTE, COMPROMESSI: LA VERSIONE FINALE HA CONTINUATO A CAMBIARE FINO ALL’ULTIMO . PERCHÉ TRADURRE VUOL DIRE PROVARE E FALLIRE, DICEVA BECKETT , RIPROVARE E FALLIRE SEMPRE MEGLIO . ED È IMPOSSIBILE METTERE LA PAROLA FINE A UN TESTO CHE IN OGNI PAROLA CONDENSA PIÙ SIGNIFICATI , IRRADIA ALLUSIONI SORPRENDENTI , REINVENTA LA LINGUA. UN TESTO CHE OFFRE UNA SCONFINATA LIBERTÀ INTERPRETATIVA.
PER MESI ABBIAMO TENUTO UNA RUBRICA SUL SETTIMANALE PAGINA 99, CHIEDENDO Al LETTORI DI PROPORRE LA LORO VERSIONE ITALIANA DI ALCUNE FRASI : SONO EMERSE SOLUZIONI INASPETTATE E SPESSO MOLTO VALIDE . NON SOLO , TRADUZIONI IN LINGUE DIFFERENTI ASSUMONO SIGNIFICATI DIVERSI TRA LORO : OGNI CULTURA COGLIE CIÒ CHE LE È AFFINE. ANCHE PERCHÉ JOYCE SCRIVE IL FINNEGANS WAKE IN UN IMPASTO DI ALMENO UNA CINQUANTINA DI LINGUE. E IL FATTO DI UTILIZZARE UN INGLESE COLONIZZATO DA TANTI ALTRI IDIOMI È LA SUA GENIALE VENDETTA CONTRO LA LINGUA IMPOSTA ALL’IRLANDA DAI COLONIZZATORI BRITANNICI».
UN IBRIDISMO CULTURALE CHE È ALLA BASE DI TANTI DOPPI SENSI, COME SPIEGA FABIO PEDONE , CRITICO LETTERARIO . SEE CAPEL AND THEN FLY, SCRIVE JOYCE . E SICCOME CAPEL STREET È UNA VIA DI DUBLINO, LA TRADUZIONE PIÙ OVVIA -V ISTO L’ABBANDONO DELL ’ IRLANDA DA PARTE DELLO SCRITTORE - SAREBBE " VEDI CAPEL E POI SCAPPA". MA LA FRASE RICHIAMA ANCHE L’ESPRESSIO- NE "VEDI NAPOLI E POI MUORI", CHE SOLO UN ITALIANO PUÒ COGLIERE . L’ABBIAMO QUINDI TRADOTTA " VEDI DÀBOLI E POI FUORI": SINTESI TRA DUBLINO E NAPOLI , TRA FUGGI E MUORI .
ESULE A TRIESTE, JOYCE ASSORBÌ IL PARLOTTIO DI QUELLA SOCIETÀ POLIGLOTTA CON L ’ INCERTEZZA ACUSTICA DI CHI È CONFUSO TRA LE VARIE LINGUE E LE ASCOLTA - E FRAINTENDE - COME FOSSE IN UN DORMIVEGLIA . PERCEZIONI APPROSSIMATIVE, AMBIGUE , DI CUI Si COGLIE SOPRATTUTTO LA SONORITÀ . LA PIÙ DIFFICILE DA RENDERE IN TRADUZIONE: IL LIBRO È SCRITTO COME UNA PARTITURA MUSICALE . E ANDREBBE LETTO A VOCE ALTA». « DUE RIGHE AL GIORNO», AGGIUNGE TERRINONI, «PER TUTTA LA VITA».
(ANTONELLA BARINA)
"Il Venerdì di Repubblica", 13.01.2017
JOYCE, la lingua del sogno
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 30 marzo 2016)
E’ quasi un atto dovuto: si comincia con Finnegans Wake, il “libro impossibile” che James Joyce concepisce nella primavera del 1923, e subito ci si ritrova a parlare di altri libri. Composto in una lingua che è la somma - o forse la differenza, il resto - di tutte le altre lingue, l’estremo capolavoro del grande irlandese ha fama di testo intraducibile, nonostante Joyce stesso ne abbia tempestivamente rielaborato in italiano alcuni brani. E italiana è la versione parziale realizzata da Luigi Schenoni per Mondadori tra il 1982 e il 2011, e che ora verrà completata da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone attraverso un progetto innovativo, nel quale saranno coinvolti anche gli utenti dei social network. Nel frattempo, a Macerata, la raffinatissima Giometti & Antonello ripropone i frammenti dello stesso Finnegans Wake volti in italiano da J. Rodolfo Wilcock nel lontano 1961 (pagine 142, euro 16).
Allestita dallo specialista Edoardo Camurri, la pubblicazione è completata da alcuni rari scritti joyciani dell’italo-argentino Wilcock e da un caposaldo della critica su Finnegans Wake, il saggio “Dante ... Bruno. Vico ... Joyce” nel quale, già nel 1929, Samuel Beckett metteva in guardia il lettore: «Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per essere letta, o almeno non solo per essere letta. Bisogna guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa».
Oscuro? Eppure, grazie alla scelta operata dall’italo-argentino Wilcock, l’impalcatura di quello che Joyce definiva work in progress, “lavoro in corso”, appare chiara, chiarissima. «La veglia di Finnegan è il sogno dell’umanità, presente e passata - spiega Wilcock -. Tutto ciò che in essa si legge è un sogno: i personaggi, i vocaboli, che somigliano a quelli del linguaggio corrente soltanto nel senso, e spesso sono parole deformate, di doppio o triplice significato».
Come quelle che una madre inventa per il suo bambino in fasce, insomma. E che la Mutter-Sprache, la “lingua della madre”, sia anzitutto lingua del sogno, dalla quale affiorano «le immagini riflesse di una spiritualità rivolta decisamente alla metafisica», è la conclusione consegnata dal grande linguista viennese Leo Spitzer al delizioso e profondissimo Piccolo Puxi, curato e tradotto da Anna Maria Babbi e Massimo Salgaro per il Saggiatore (pagine XVIII+96, euro 16).
Si tratta di un saggio apparso originariamente nel 1927, mentre Joyce è affaccendato nella sua Veglia. Studioso di Rabelais oltre che dell’italiano colloquiale, Spitzer (di cui lo stesso Saggiatore riporta ora in libreria il classico Lettere di prigionieri di guerra italiani. 1915-1918, a cura di Lorenzo Renzi, pagine 482, euro 30) riordina gli appunti presi a partire dalla nascita del figlio Wolfgang, al quale la madre e tutta la cerchia domestica attribuiscono presto l’appellativo di Puxi, a sua volta deformazione dello shakespeariano Puck. La ridda di invenzioni e variazioni di cui il volumetto dà conto non è diversa, in sostanza, da quella che si può riscontrare in ogni casa, solo che questa volta il pater familias ha le competenze giuste per rintracciare genealogie e prospettare ipotesi.
La principale delle quali è, appunto, quella per cui la lingua è un organismo vivo e affettivo, che non smette di svilupparsi e appassionarsi neppure nel sonno. E non è casuale che a Joyce e al suo maestro riconosciuto, il Dante della Commediae prima ancora del De vulgari eloquentia, faccia spesso riferimento Luca Salza nel suo Il vortice dei linguaggi (Mesogea, pagine 160, euro 12). Meticcia fin dalle premesse, condotta com’è da uno studioso italiano attivo in Francia, questa riflessione su “letteratura e migrazione infinita” ha, tra gli altri, il merito di far reagire l’opera di autori come Vico e Gadda con le istanze tipiche della nostra contemporaneità: la dimensione multiculturale, la necessità e i limiti dell’accoglienza, la ricomposizione di un “Tutto-Mondo” - è la felice espressione del franco-martinicano Édouard Glissant - comunque incommensurabile rispetto al mondo che abbiamo finora conosciuto.
Salza torna a ragionare di lingua materna e di lingua bambina, facendo propria l’affermazione per cui Finnegans Wake ha il potere di trasformare qualunque lettore in un “straniero”. Sarà per questo, osserva, che a Parigi il Jardin James Joyce sta a due passi dalla Biblioteca nazionale ed è molto frequentato dagli immigrati. Che è un modo elegante per ricordarci come, se si vogliono comprendere le avanguardie del Tutto-Mondo, occorra guardare alla letteratura d’avanguardia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
La sottile invidia di Lacan e Derrida
di NADIA FUSINI *
Joyce non è uno scrittore come gli altri. Tale lapalissiana verità appare manifesta in ogni sua opera. La questione è: in che differisce dagli altri scrittori? E in che senso la sua differenza lo mette au dehors de la littérature, quasi in conflitto con essa? O dovremmo riconoscere che tale differenza è un superamento rabelaisiano? Una pantagruelica risata che affonda nel mare del ridicolo l’ atto stesso dello scrivere? La differenza, sappiamo, non è questione di più o meno; né di essenza. Non è, voglio dire, che Joyce sia più o meno scrittore di un altro. Né che per essenza si distingua da chi, pur sempre scrittore, lo sia in modo più rispettoso delle regole e convenzioni.
No, con Joyce, è piuttosto una questione di qualità e di carattere - definire i quali non è affatto facile. In modo diverso ci provano - a definire l’ operazione di scrittura joyciana - due studiosi non di letteratura: un filosofo il primo, uno psicoanalista il secondo, che con l’ ombra di Joyce, dell’ Ulisse - e soprattutto del Finnegans Wake - si confrontano.
Mi riferisco a Jacques Lacan, il quale dedicò allo scrittore irlandese un corso di lezioni dal novembre 197 al maggio del 1976. L’ edizione italiana, per l’ impeccabile cura di Antonio di Ciaccia, esce ora presso Astrolabio col titolo Il seminario Libro XXIII, Il Sinthomo (pagg. 246, euro 21). Essa include le lezioni del seminario dell’ anno 1975-76; in appendice, la conferenza che Jacques Lacan tenne alla Sorbona il 16 giugno del 1975, in apertura del V Simposio internazionale dedicato a James Joyce, l’ intervento di Jacques Aubert al seminario di Lacan, più le sue Note di Lettura (sempre in veste di addetto ai lavori joyciani), e infine le Note passo passo di Jacques-Alain Miller, che interviene nella funzione di erede e solo "stabilizzatore" del testo del genero Lacan: insomma, nei panni di colui che dice l’ ultima parola, del testimone oculare, o piuttosto auricolare, che con fare proprietario ci assicura dell’ esistenza di Lacan in carne ed ossa... Del quale si definisce il "bastone", che sarebbe poi, edipicamente, la terza gamba... (L’ insieme di tali personali relazioni lui li chiama anche "effetti di vincolo": definizione quanto mai appropriata di un’ eredità tanto contestata!).
L’ altro appassionato lettore di Joyce è un altro Jacques di nome, di cognome Derrida. Siamo questa volta a Francoforte, sempre a un Simposio che nel fatidico mese di giugno viene dedicato a James Joyce - questa volta è l’ anno 1984. Ma già due anni prima, nel novembre 1982, a Parigi, questo Jacques si era lasciato andare a un breve e improvvisato discorso su Joyce, sollecitato sempre da quel Jacques (ancora!) Aubert già menzionato. (I due interventi: Ulisse grammofono, Due parole per Joyce, sono reperibili presso Il Melangolo, per la cura di Maurizio Ferraris, pagg. 143, euro 15.)
Se ve li segnalo, questi due Jacques (Derrida, Lacan), è perché nell’ appassionata e appassionante attrazione, che li avvince al primo e unico Jacques-James, e cioè Joyce, che si tratti di transfert, o di platonica seduzione, si dimostra la potenza speciale della parola joyciana. Per comprendere la quale entrambi arrischiano e impegnano la loro sofisticata attrezzatura intellettuale, sfoderano le proprie straordinarie capacità retoriche, per alla fine dichiarare comunque, che Joyce è il migliore in campo. è il solo scrittore. E se i due Jacques, il filosofo, e lo psicoanalista, lo sono un poco (scrittori) è perché lo "imitano".
L’ avvincente legame che il filosofo e lo psicoanalista dimostrano interesserà senz’altro i joyciani del mondo United (e sono tanti i suoi fan); e se tanto mi dà tanto, gli scrittori viventi, che se vigili e svegli non possono non rendersi conto che è un problema venire dopo di James Joyce. E più in generale interesserà i lettori tutti, sia quelli che abbiano superato le difficoltà di leggerlo, e soddisfatti siano giunti in vetta; sia quelli che frustrati abbiano abbandonato l’ impervia scalata.
Colpisce come i nostri due Jacques (Lacan, Derrida) si apprestino alla conquista della vetta Joyce per una spinta, direi, di invidia; intanto, constatano una maitrise, una superiorità magistrale dello scrittore irlandese, che consiste nella sprezzante sicurezza con cui fin dall’ inizio Joyce si pone e si impone come autore e autorità insieme.
Non è solo per scherzo, ma seriamente, che fin dall’ inizio Joyce rivendica per sé una immortalità sostanzialmente legata all’ ottusità dell’ accademia; a quello che Lacan altrove chiama il disperante, ottuso sapere universitario. E non c’ è dubbio, constata Lacan, che ci riesca. Joyce ha reso schiava l’ accademia, e si è assicurato così più o meno l’ eternità. Verrà letto, verrà commentato, verrà spiegato, nei secoli dei secoli.
In questo senso, rincara Derrida, lo scrittore Joyce non è affatto un sognatore né un idealista; è un produttore. Un calcolatore. Se è vero come è vero (e Joyce lo capisce presto) che lo scrittore nasce dopo l’opera, e dunque non è il libro che ha bisogno di lui, ma il contrario; se è vero come è vero che è a partire dal libro che esiste lo scrittore che lo ha scritto, Joyce farà in modo che il libro che scriverà sia "indecifrabile", così piegando nei secoli a venire i professori universitari a chiosare quella immensa costruzione linguistica che ha il suo nome. Al servizio del suo nome, questi illustri signori porteranno non soltanto acqua al mulino del suo immenso, ultramondano egotismo, ma riveriranno nel libro che distrugge la lingua stessa in cui si scrive la più grande sfida che uno scrittore abbia lanciato contro di sé. Contro la significazione tutta.
Per questo, mentre tra sé e sé e di fronte ai proprii allievi si trastulla con Joyce, Lacan ha ragione a chiedersi: a partire da quando si è pazzi? è una domanda impegnativa, che insorge evidentemente nelle vicinanze di qualcuno che ha sfiorato tale condizione. Ma l’ha schivata; perché a partire da quando qualcuno ha preso a leggerlo, Joyce non è stato più pazzo. Anche se scrivendo, e rappresentandosi nella propria opera come il figlio, da un certo punto in poi si è creduto il Padre, e cioè Dio stesso.
L’ impegnativa liturgia che viene riservata al corpus joyciano riguarda, ripeto, non soltanto professori universitari, e difatti qui vi parlo di Derrida e di Lacan. E in un certo senso, del loro rispettivo "complesso di Joyce". Derrida confessa di provare un sentimento per Joyce che è piuttosto un "risentimento". Un’ ammirazione, che non è amore. Non è sicuro di amare Joyce, afferma. Né di amarlo sempre. Ma come dimenticarsi di lui? Di quell’ atto babelico con cui ha dichiarato guerra a noi poveri lettori? Perché come altro definire la veglia di Finnegan? Se non come una guerra? O come una risata? Come si fa a non sentire la sua (di Joyce) risata, la sua vendetta contro il dio di Babele? E che vuol dire leggere Joyce?
Non ha ancora cominciato a leggere Joyce, riconosce Derrida, pur scrivendone. E rivela: «Ogni volta che scrivo, un fantasma di Joyce è all’ arrembaggio». è la potente macchina di lettura, con tanto di firma e controfirma al servizio del suo nome, che grazie alla propria opera Joyce ha costruito; è quel brevetto, che fa impressione a Derrida. Lo riconosce: c’ è invidia. Invidia per una capacità di programmazione e di realizzazione di un potente progetto di mondializzazione della propria opera, che forse, al livello della filosofia universitaria, Derrida stesso ha tentato. E specialmente in America, ha portato a buon fine, pare.
Mentre nel caso di Lacan, a che gli serve Joyce? Perché legge Joyce? Perché a Lacan, come del resto a Freud, piacciono gli scrittori. E gli piacciono, perché possono chiarire, esemplificare quello strano funzionamento del pensiero che, già Freud l’ aveva detto, e Lacan lo ripete e sintetizza così: «L’ inconscio è strutturato come un linguaggio». Quanto a giochi linguistici, doppi sensi, battute di spirito, e così via, sappiamo bene quanto Joyce ci si diverta. E quanto Lacan ne sia appassionato, e non per capriccio; ma perché è a quel modo che qualcosa parla, che altrimenti non può, non sa parlare. Non è il percorso lineare, grammaticale, sintattico che può intonarci a quel che non fa che smarrirsi, perdere la strada, ingarbugliarsi, a quel che si lega e si scioglie e insieme si sfalda, si sfilaccia. è un esercizio del pensiero, quello che richiede Lacan, che non tutti sopportano, poiché mette in crisi prese troppo nette, fa saltare i ponti, e su un terreno minato non tutti amano passeggiare.
Naturalmente con Joyce, quanto a giochi linguistici, Lacan va a nozze. Ma non si ferma qui. Lui si chiede perché Joyce scriva. è chiaro a Lacan che scrivere è nel caso di Joyce un sintomo. Solo che con la parola "sintomo" ora Lacan non intende più, con Freud, quell’ azione che nella radice greca del termine indicava una caduta, un inciampo. E riprende piuttosto la parola secondo l’ antica grafia francese e la scrive così: sinthome, perché nel pronunciarlo in francese sfumi in saint’ homme, evocando nel suono la parola "sant’ uomo". Che potrebbe essere quel sant’ uomo, o povero cristo del padre; o perfino S. Tommaso d’ Aquino. Lacan parla addirittura di sinthome madaquin, in cui dovrebbe risuonare per l’ appunto Saint Thomas d’ Aquin.
Del resto, sappiamo tutti quanto Joyce avesse sbavato su quel sant’ uomo. Se è un sant’ uomo che col sinthomo viene alla mente di Lacan, è perché in tutta l’ opera di Joyce lui vede lo sforzo di liberarsi della carenza del padre, e farsene un altro grazie al proprio nome, alla propria firma, alla propria opera. Lacan ci fa scoprire, in altre parole, una verità che noi joyciani patiti avevamo colto nell’ opera a livello tematico: non avevamo dubbi che l’ Ulisse testimoniasse del fatto che Joyce si fa carico del problema del padre, e in quel rapporto resta preso, pur rinnegandolo. E avevamo letto questo come il suo sintomo. Non avevamo però fatto il passo ulteriore, che Lacan ci fa fare: e cioè, che se Joyce si salva, è perché Joyce fa di sé un libro.
Le sfide del cristianesimo, la minaccia dell’Is, il ruolo femminile e il pontificato di Francesco.
Intervista al priore di Bose che da oggi ospita il Convegno Ecumenico di spiritualità ortodossa dedicato a "Misericordia e perdono"
La Chiesa del futuro
Enzo Bianchi: "Critichiamo l’Islam, ma poi emarginiamo le donne".
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 9 settembre 2015)
«Il papa ha lanciato l’allarme già due anni fa, dopo la visita a Lampedusa. È rimasto inascoltato e credo che anche questo suo nuovo appello lo sarà. Il fastidio di un certo clero verrà magari dissimulato dall’ipocrisia religiosa, che è la più bieca e spaventosa di tutte». Siamo a Bose, alla vigilia dell’apertura dell’annuale convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, e il priore Enzo Bianchi commenta l’esortazione di Bergoglio ad accogliere nelle parrocchie i rifugiati del grande movimento di popoli di cui quest’estate, con i suoi avvenimenti sconvolgenti, sembra avere cambiato la percezione generale. «Un mese fa il vescovo di Crema ha chiesto di ospitare i rifugiati in locali adiacenti a una scuola cattolica, è stato contestato dalle famiglie. La situazione italiana è una vergogna, soprattutto nelle regioni tradizionalmente più cattoliche, il Veneto e la Lombardia».
Il rifiuto è più sociale o più confessionale?
«Quello confessionale l’hanno gridato a suo tempo il cardinal Biffi e il vescovo Maggiolini, secondo cui bisognava eventualmente accogliere solo i cristiani. Ma il problema è la vera e propria fabbrica di paura dei barbari, edificata da forze politiche attente solo all’interesse locale, forze che prima di Francesco la chiesa italiana ha assecondato, anche se all’inizio sembravano assumere riti pagani, precristiani, quelli sì barbarici. Ora si proclamano cattolici ma io li chiamo cristiani del campanile. Il grande silenzio di una chiesa complice li ha aiutati a iniettare nel tessuto sociale del territorio il veleno della xenofobia».
Guardiamo gli eventi nella misura dei millenni di storia anche ecclesiastica, parliamo del V secolo, quando alle cosiddette invasioni barbariche si è affiancata l’assunzione del cristianesimo a religione di stato.
«Quando con Teodosio il cristianesimo è diventato religione dello stato imperiale la furia dei monaci - lo dico con dolore, mi strappa il cuore - ha distrutto i templi pagani, fatto uno scempio di opere d’arte non diverso da quello dell’Is, ma ben più vasto. È il motivo per cui san Basilio non ha mai usato nei suoi scritti la parola "monaco": designava integralisti violenti, i talebani del momento. Guardando i secoli mi permetto di dire, pur con tutte le differenze: vediamo che altri rifanno a noi quello che abbiamo fatto».
Come ad Alessandria d’Egitto, quando fu distrutto il Serapeo e i parabalani del vescovo Cirillo assassinarono Ipazia. Nel "Libro dei testimoni", lo straordinario martirologio ecumenico di Bose, questa martire pagana potrebbe trovare posto?
«Sì, come tutti coloro che - da Buddha a Savonarola, da Rumi a Gandhi - in qualunque religione o anche all’esterno hanno perseverato in una posizione di umanità e di tolleranza. La dottrina cattolica del Vaticano II ribadisce con chiarezza che la coscienza prevale su qualsiasi autorità, anche su quella papale».
Torniamo ai movimenti di popoli della cosiddetta fine dell’antichità.
«Con saggezza papa Gregorio Magno chiese accoglienza per i barbari in arrivo dando un’unica dignità a stranieri e latini, che si espresse nel monachesimo benedettino e fece fiorire il cristianesimo, allora esangue soprattutto in occidente. La storia serve da un lato a non stupirci dell’intolleranza, dall’altro a spegnerla richiamandoci alla razionalità, che oggi significa mostrare ai popoli dell’oriente postcoloniale che gli riconosciamo soggettività, dignità, diritto di sedere alla tavola delle genti, anziché continuare a sfruttarli economicamente».
La memoria storica ecclesiastica, la conoscenza delle ere passate di cui si nutre, non ha anche il dovere di ricordare a tutti l’onda lunga della tolleranza islamica?
«Al tempo della conquista musulmana i cristiani del Medio Oriente hanno aperto le porte delle loro città agli arabi che portavano libertà di culto e affrancavano dalle angherie economiche del governo imperiale cristiano. La convivenza di cristiani, ebrei e musulmani nel corso del medioevo islamico ha fatto fiorire momenti di cultura straordinari, come nel mondo sufita, che conosco bene. L’islam è una religione di pace e mitezza con una mistica di forza pari a quella cristiana. Se nel Corano ci sono testi di violenza, non sono molto diversi da quelli che troviamo nella Bibbia e che ci fanno inorridire. La lettura integralista della Bibbia può rendere integralisti quanto quella del Corano. L’esegesi storico-critica delle scritture, cui il cristianesimo è approdato con fatica e subendo terribili condanne dell’autorità ecclesiastica, è il primo passo di un lungo cammino che aspetta anche i musulmani. Nel frattempo servono ascolto, dialogo, seri studi universitari per dissipare la propaganda ideologica che attecchisce sull’ignoranza: non è vero che l’islam è una religione della violenza e della jihad, affermarlo serve solo a giustificare la nostra nei suoi confronti».
Dai Buddha di Bamyan al tempio di Bel a Palmira, il nostro secolo assiste ad atti islamisti di cancellazione del passato dal contenuto altamente simbolico. Ma non è chiaro quanta parte effettiva vi abbia la religione o la religiosità.
«Una parte minima. Il problema non è religioso, è sociale ed economico. Gli integralisti islamici, anche abbattendo una chiesa, non mirano tanto a offendere la fede cristiana quanto a colpire l’occidente. Un pacifico abitante di Palmira mi ha detto: "Voi occidentali, piangendo la distruzione di templi etichettati dall’Unesco, date l’idea di averli più cari della nostra popolazione. Cosi li fate diventare una protesi dell’occidente nella nostra terra". Mostrando di tenere così tanto a un pezzo di colonna - giustamente, perché è segno di un cammino di umanizzazione - ma facendo saltare in aria le persone nelle guerre da noi scatenate in Iraq, in Siria, in Libia, finiamo per apparire mostruosi. Certo le distruzioni dell’Is sono crimini contro l’umanità oltre che contro la cultura e la dignità dei monumenti va difesa, ma abbiamo la stessa forza nel difendere le popolazioni perché non soccombano alle nostre armi o non trovino vie di morte nella migrazione?».
I popoli sono in marcia e un’ibridazione, che la si voglia o no, dovrà avvenire, perché questa è la storia. Il che pone anche specifici problemi sociali come quello del ruolo della donna: l’islam impone il velo, ma non trovi che anche nella chiesa cristiana ci sia un ritardo?
«Si dice sbrigativamente che certi musulmani siano ancora nel medioevo. Ma il velo completo per le suore di clausura è stato abolito solo nel 1982. È molto recente la presa di coscienza della pari dignità della donna e dell’uomo nel cristianesimo, che non ha ancora nemmeno il linguaggio per esprimerla. La soggezione delle donne agli uomini è un retaggio scritturale nell’islam, ma è presente anche nelle nostre scritture: san Paolo afferma che le donne non devono assolutamente parlare nell’assemblea della chiesa e devono stare a capo coperto. Di nuovo, serve una rilettura storico-critica di tutti i libri sacri, per scorgerne l’intenzione e non le forme. Nella chiesa c’è buona volontà ma poi della donna si hanno immagini irreali: il modello di Maria, vergine e madre, che non può essere il riferimento per una promozione della donna nella chiesa; l’idea, insinuata per moda, che la Madonna sia più importante di San Pietro, idea insipiente come dire che la ruota in un carro è più importante del volano... Non siamo ancora capaci di prendere sul serio l’uguaglianza indubbia tra uomini e donne. Il cammino per la chiesa è ancora lunghissimo perché ovunque ci sia un esercizio di comando restano gli uomini, mentre le donne sono confinate al servizio umile».
Il convegno che si apre oggi è dedicato a "Misericordia e perdono": sono istanze che, dall’ambito ecclesiale cui appartengono, possono suggerire prassi anche giuridiche e sociali?
«Declinare la giustizia con il perdono, anche a livello politico, è un’esigenza che già Giovanni Paolo II aveva evocato con forza in un suo messaggio per la Giornata della pace. L’insistenza di papa Francesco sulla pratica della misericordia, vissuta nei secoli da tanti cristiani d’oriente e d’occidente anche in controtendenza rispetto alla mentalità dominante, dischiude percorsi fecondi nella faticosa purificazione della memoria cui non ci possiamo più sottrarre, pena l’abbrutimento di ogni nostra relazione».
Ultima inchiesta su Gesù
Tra fiction e saggio, Augias racconta la fine di Cristo
Si susseguono personaggi storici e da romanzo molto vicini alla realtà
È un uomo contro le istituzioni religiose che assegna il primato alla spiritualità
di Vito Mancuso (la Repubblica, 07.09.2015)
L’anno cruciale per la storiografia su Gesù fu il 1906, quando il sogno di scriverne la biografia perfetta cadde in frantumi a seguito dell’opera di Albert Schweitzer intitolata “Storia della ricerca sulla vita” di Gesù. Schweitzer vi mostrava come la ricerca storica su Gesù, iniziata con gli scritti di Reimarus pubblicati da Lessing nel 1778, si dovesse ritenere conclusa con un sostanziale fallimento in quanto i singoli autori avevano interpretato Gesù ognuno secondo i propri ideali giungendo a un inaccettabile soggettivismo.
Conclusione inevitabile a causa della natura delle fonti neotestamentarie, orientate a presentare il messaggio salvifico di Gesù e ben poco la sua storia reale. Da allora gli studi sul Gesù storico non si sono certo interrotti, anzi fioriscono con un ritmo tale che rende quasi impossibile seguirli. La sostanza però non muta: Meier, Sanders, Vermes, Neusner, Fabris, Barbaglio, Pesce, Ratzinger e moltissimi altri presentano ognuno un Gesù diverso, sicché leggendo le loro opere si incontra Gesù filtrato dalla loro teologia. La situazione non è quindi molto diversa da come la descriveva Rudolf Bultmann nel 1926: «Ciò che è stato scritto da circa un secolo e mezzo sulla vita di Gesù, sulla sua personalità e sulla sua evoluzione interiore ecc., è frutto di fantasia e materiale da romanzo ».
Consapevole di questo status quaestionis , Corrado Augias propone nel suo nuovo libro sulle ultime ore di Gesù in uscita da Einaudi un lavoro che per buona parte è esattamente “frutto di fantasia e materiale da romanzo”. La differenza è che lo è in modo esplicito e tecnicamente avvertito perché dichiara che «qualunque storia è almeno in parte una bugia - o un sogno».
Tale dosaggio di saggistica e di narrativa consente all’autore di presentare i personaggi storici arricchiti di personalità e al contempo di creare personaggi da romanzo molti vicini alla realtà. Sfilano così Myriam la madre e Joseph il padre di Gesù, anzi una delle trovate più interessanti riguarda proprio quest’ultimo, riscattato dalla figura piuttosto grigia di “san Giuseppe” e presentato come un single che ha lasciato la moglie e i figli, sempre inquieto per le origini non chiare di quel suo primo figlio da lui tanto amato, e che ora vive solo sulle alture di Gerusalemme: anche lui entrerà in scena nelle ultime ore del figlio. Miryam dal canto suo confessa di non riuscire a pensare a suo marito “senza rimorso”: «se solo avessimo trovato il modo, il coraggio, di parlarci davvero». Riguardo invece alle voci sulla risurrezione del figlio: «Non so se devo crederlo vivo, io non l’ho visto, se fosse vero e non è venuto a vedermi, sapendo quanto dolore ho ingoiato, vuol dire che ha cose più importanti da fare»; tuttavia non perde che la fiducia che “un giorno verrà”.
Ma chi sono per Augias i responsabili della morte di Gesù giocatasi in quel pugno di ore? Non il potere romano in quanto tale, perché Ponzio Pilato non fu all’origine della sua cattura e tutto sommato avrebbe voluto salvarlo. Neppure lo è il popolo ebraico in quanto tale, perché la frase del Vangelo di Matteo che parla di “tutto il popolo” (e che è all’origine dello stereotipo del popolo deicida) è giustamente mostrata da Augias nella sua falsità. I responsabili per Augias sono piuttosto i capi religiosi ebrei, Caifa e Anna, esponenti dell’aristocrazia religiosa ed economica, profondamente seccati dalla predicazione rivoluzionaria di Gesù: «un mestatore uscito dalla feccia del popolo che sobilla schiavi e prostitute». Augias inventa anche un intrigo di corte dovuto a un consigliere di Pilato legato da un rapporto masochista con una prostituta, Fillide.
Nella storiografia su Gesù, nelle bugie e nei sogni che ogni interprete vi proietta, appare l’anima occidentale alle prese con gli eterni problemi dell’origine e del senso, del dolore e del morire, della vita presente e della vita futura.
Chi è dunque Gesù per Augias? Non è certo il Figlio di Dio redentore dell’uomo, piuttosto «un uomo pio, di forte fede, tendenzialmente mite anche se, in alcune occasioni, ha ceduto a scatti d’ira o gridato frasi minacciose», quindi anche “aspro, difficile”, e tale da essere classificato come “un agitatore”. Nel colloquio con Lucilio, lo scrittore alter ego di Augias, Gesù spiega la sua missione in termini di “alternativa possibile”, di «vita libera dagli istinti, dal desiderio di possesso», e dice di rifiutare «una fede chiusa nell’ambito di una famiglia», «che si limiti ai riti della sinagoga, alla ripetizione meccanica dei versetti, all’obbedienza formale della Legge con il cuore vuoto ».
Insomma un Gesù in linea con la profezia biblica e la migliore filosofia morale, capace di analizzare con lucidità le contraddizioni della religione: «Le strutture religiose diventano spesso uguali alle istituzioni politiche, creano gerarchie, poteri, interessi, circola denaro, si mercanteggiano favori, si parla e si scrive troppo». Un Gesù che, contro l’obbedienza all’istituzione, assegna il primato alla spiritualità. «Dice di aver voluto rendere gli uomini liberi, dai riti dalle forme, dai sacerdoti; libero ognuno con la sua coscienza davanti a Dio».
Poco coerente però con questa intenzione di fondo è l’interpretazione di Giuda Iscariota fornita da Augias che, ispirandosi al Vangelo di Giuda, testo gnostico recentemente scoperto, lo presenta come il discepolo prediletto che consegna Gesù perché è il maestro stesso a chiederlo: ma così si pone la coscienza di Giuda libera davanti a Dio? Gesù al contrario la inchioderebbe alla più terribile tragedia. Altri particolari del lavoro di Augias non convincono, come la presentazione della spiritualità essena come mite e pacifica mentre gli esseni avevano una regola della guerra e mostravano aspra intolleranza verso le posizioni altrui.
Ma, come ho detto, raccontare Gesù significa esporre la propria visione del mondo: quindi attraverso il suo nuovo libro si incontra la grande simpatia di Augias per il mondo classico; la sua simpatia per la figura storica dell’ebreo Gesù; la sua tendenziale distanza dall’ebraismo istituzionale, e soprattutto la sua inequivocabile antipatia per il cristianesimo nato dalla predicazione di san Paolo. Non penso sia un caso che Augias lasci l’ultima parola alle sprezzanti osservazioni di Tacito sui cristiani.
Quanto alla figura di Gesù, rimangono valide le parole di Schweitzer a conclusione del suo capolavoro: «Egli viene verso di noi come uno sconosciuto senza nome... Si rivelerà a coloro che gli obbediscono, si rivelerà nella pace, nell’azione, nelle lotte e nelle sofferenze che costoro vivranno in comunione con lui. Ed essi sperimenteranno chi egli è, come si conosce un segreto ineffabile».
*
IL LIBRO E I FESTIVAL
Le ultime diciotto ore di Gesù (Einaudi, pagg. 252, euro 20)
Corrado Augias lo presenterà venerdì 11 alle 21.15 al Festival di Mantova; il 12 a Camogli (ore 18.30)e il 16 a Pordenonelegge (ore 21)
FA UDIRE I SORDI E FA PARLARE I MUTI
di don Aldo Antonelli *
Il vangelo di domani narra di Gesù che restituisce la parola ad un balbuziente e gli ridona l’udito.
Il “miracolo”, come spesso avviene, potrebbe oscurare il significato profondo del messaggio.
Il miracolo, nella sua portentosità, affascina e imprigiona, trascina folle e le schiavizza, accende la fantasia e accieca l’intelletto.
Il miracolo può inquinare la fede dell’adulto.
In occasione della beatificazione di Padre Pio, il santo dei miracoli a buon mercato, Umberto Galimberti si chiedeva: «E’ questa la buona novella del Xmo o è il suo più radicale fraintendimento?».
Gesù stesso, come dicono molte volte i Vangeli, sembrava molto infastidito dai suoi miracoli, al punto da non sopportare più che glieli chiedessero. Parecchie volte, si capisce che vi vede una deriva pericolosa, e precisa che la fede deve precedere il miracolo, non succedergli.
I miracoli non valgono in quanto fatti straordinari, ma in quanto segni della misericordia di Dio! Quella misericordia cui spesso papa Francesco fa riferimento e che nel brano di questa domenica mette in evidenza come Gesù sia preoccupato di questo sordo balbuziente perché nella sua condizione non è più capace di comunicazione: è un essere “out”, un “fuori”, uno “scarto”.
Ecco quindi che gli ridà la capacità di ascoltare e di parlare; lo rimette in comunicazione con il mondo degli uomini e delle donne.
E’ quello che dovremmo fare noi come chiesa!
Padre Josè Maria Castillo, commentando questo brano del vangelo conclude così:
«L’attualità di questo vangelo è appassionante. Viviamo nella società delle tecnologie dell’informazione. Le tecnologie che ci riempiono di notizie, ma ci nascondono le verità. E soprattutto ci allontanano dalle persone, dai problemi delle persone, dal dolore e dalla gioia che vivono gli esseri umani. Sappiamo molto degli altri, ma non li conosciamo, i loro veri problemi non ci interessano, non ci importano, non li sentiamo come nostri. E così capita che ogni giorno siamo più soli. E finiamo con l’essere più egoisti. Oggi abbiamo un’eccellente “teoria di azione comunicativa” (J. Habermas). Ma di fatto l’informazione (manipolata) sta facendo ogni giorno più complicata la vera comunicazione che ci rende più trasparenti verso le persone. »
Anche Anzo Bianchi si domanda:«Ma cosa sarebbe una chiesa che sa dare l’ascolto a quelli che ne sono privi, che sa parlare a coloro ai quali nessuno parla? Cosa sarebbe una chiesa che sa dare la parola, che autorizza a prendere la parola il semplice fedele, a volte non istruito e incapace di prendere la parola in assemblea? Perché noi cristiani non diventiamo capaci di “logoterapia”, della quale vi è tanto bisogno nelle nostre comunità sovente mute, incapaci di esprimere un’opinione pubblica e, ancor più, incapaci di dare eloquenza alla loro fede, di annunciare la buona notizia che è nel cuore dei credenti? Sono troppi oggi i sordi balbuzienti che non sanno ascoltare gli altri e parlare loro, comunicando e instaurando una relazione. Nella comunità cristiana occorrerebbe pensare a questo elementare servizio di carità, prima di inventarsene altri...».
Buon fine settimana!
Aldo
* Testo inviato via mail
Lo Spirito del mondo
di Vito Mancuso (la Repubblica, 25.05.2015)
VIENE da lontano l’esito del referendum irlandese con cui oltre il 62 per cento dei votanti ha detto sì alle nozze gay. Viene dalla lotta a favore dei diritti umani.
UNA lotta iniziata più di due secoli fa nel nome dell’uguaglianza e che ha portato a una serie di conquiste sociali tra cui il suffragio universale, la libertà di stampa, la libertà religiosa, l’istruzione per tutti, la parità uomo-donna nel diritto di famiglia, il superamento legale di ogni discriminazione razziale e altri traguardi di questo genere, tutti riconducibili al valore dell’uguaglianza di ogni essere umano. Sabato l’ha ribadito la maggioranza degli irlandesi: “Yes Equality”.
In queste trasformazioni dei costumi e del diritto si manifesta l’evoluzione della cultura e del pensiero prodotta da ciò che Hegel denominava “Spirito del mondo”, nel senso che noi non siamo i padroni delle nostre idee, ma sono le idee a entrare in noi.
C’è però una differenza rispetto al filosofo tedesco, e cioè che ora il primato non è più dello “Spirito oggettivo” rispetto allo “Spirito soggettivo”, ma al contrario. Assistiamo a una radicale riscrittura dei rapporti tra singolo e società: il primato non è più della società e delle sue istituzioni a cui il singolo si deve uniformare come nei secoli passati, ma è piuttosto del singolo a cui la società deve sapersi adattare servendone la felicità e la realizzazione. Prima erano i singoli a piegarsi alle istituzioni, ora sono le istituzioni a piegarsi ai singoli, modificando persino la Costituzione, come in Irlanda.
Il valore in gioco era il diritto di ogni essere umano all’amore integrale. Fino a poco tempo fa nei Paesi più avanzati del mondo (ma in Italia ancora oggi) se una persona nasceva con un orientamento sessuale di tipo omosessuale si vedeva negato il diritto all’amore integrale, che non si accontenta di esprimersi solo come passione privata ma desidera uno statuto pubblico, nel senso che esso entra a definire l’identità sociale di una persona, non più singolo, ma legato a un’altra persona in permanente comunità di vita. È questo desiderio dell’amore di acquisire una dimensione pubblica che porta le persone a sposarsi, e non semplicemente a convivere.
Chi desidera sposarsi non riesce più a pensare se stesso a prescindere dall’altro e chiede alla società di riconoscere pubblicamente il suo nuovo statuto, mutando per così dire la sua carta d’identità sociale e dicendo al mondo: “non sono più solo io, io sono unito con l’altro”. Questo è ciò che io chiamo “amore integrale” e che ritengo essere un diritto costitutivo di ogni essere umano. L’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto inalienabile che ogni essere umano acquisisce alla nascita, un diritto nativo, radicale, di cui nessuno può essere privato.
Ormai il tempo è compiuto anche da noi per sostenere nel modo più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale, senza distinzione. Il ritardo italiano non va colmato procedendo solo al riconoscimento delle unioni civili senza parlare di matrimonio, ma occorre procedere al matrimonio anche per le coppie gay, perché sono in gioco l’uguaglianza e il diritto nativo all’amore integrale.
Il senso complessivo di questo movimento è altamente evangelico, perché sempre, quando trionfa la singolarità della persona rispetto alla logica di Stato delle istituzioni e delle tradizioni, si afferma il punto di vista di Gesù, il quale sosteneva che il sabato era per l’uomo e non l’uomo per il sabato, e che per questo venne eliminato dal potere istituzionale.
La Chiesa gerarchica però non l’ha ancora capito. Non l’ha capito nel 1789 quando il movimento è iniziato, e non l’ha capito in questi giorni in Irlanda con i vescovi che hanno lanciato un appello per il «rispetto dei valori della famiglia tradizionale ». I singoli credenti invece sì. A meno infatti di non ritenere che essi in una nazione tra le più cattoliche al mondo siano solo il 37,9%, occorre riconoscere che per la maggioranza dei fedeli le posizioni della gerarchia cattolica non hanno rilevanza quando sono in gioco questioni etiche e diritti umani.
L’arcivescovo di Dublino ha detto che «la Chiesa ora deve fare i conti con la realtà». È vero, e spero che qualcosa avverrà. Ma ancora più importante è che i conti con la realtà li faccia la politica italiana, dando al nostro Paese una legge che consenta a ogni cittadino di vivere, nella pienezza del matrimonio, il diritto nativo all’amore integrale.
La Chiesa irlandese dopo il referendum «Dobbiamo fare i conti con la realtà»
Nozze gay, l’arcivescovo di Dublino Martin: prendere atto di questa «rivoluzione sociale»
di Paola De Carolis (Corriere della Sera, 25.05.2015)
LONDRA Il primo Paese al mondo a cambiare la costituzione a favore delle nozze gay con un referendum: quando l’arcivescovo di Dublino, Diarmuid Martin, parla di «rivoluzione sociale» non esagera. L’esito irlandese - i sì hanno vinto con il 62% dei voti - conferma che il Paese è proiettato verso la modernità e che il rapporto con la Chiesa cattolica è cambiato radicalmente.
Sembra quasi impossibile, oggi, credere che l’omosessualità sia stata illegale, sulla cosiddetta isola verde, sino al 1993, o che nel referendum sul divorzio, nel 1987, la maggioranza della popolazione abbia votato no (il divorzio venne approvato nel 1995). Quanta strada in poco tempo.
Per la Chiesa, secondo Martin, è arrivato il momento di riflettere. «Dobbiamo renderci conto di quale sia la realtà e smettere di negare l’evidenza», ha sottolineato l’arcivescovo. «Capisco perfettamente come possono sentirsi oggi uomini e donne gay o lesbiche. Noi della Chiesa dobbiamo prendere atto del fatto che la maggior parte di coloro che hanno votato sì ha trascorso 12 anni nelle nostre scuole cattoliche. La sfida adesso è capire come comunicare il nostro messaggio alla popolazione».
Una sfida particolarmente difficile sullo sfondo del calo delle presenze in chiesa. Se negli Anni 70 il 90% della popolazione si recava a messa la domenica, il totale oggi è sceso al 32%. Secondo l’arcivescovo, a Dublino è ancora inferiore: 18%. La relazione tra popolazione e Chiesa ha sofferto sicuramente a causa degli scandali sulla pedofilia nonché i casi di violenza psicologica e fisica di preti e suore nelle scuole, nelle case di cura, negli ospedali, ma il cambiamento è anche frutto di una modernizzazione che ha portato l’Irlanda negli anni del «miracolo della tigre celtica» a livelli di agiatezza economica mai visti e che ha aperto il Paese ad altre influenze.
L’Irlanda di oggi è più liberale, aperta verso altre culture e altri modi di pensare. Sono soprattutto i giovani ad aver votato sì in un referendum che ha portato alle urne più persone di quello per approvare l’accordo di pace del Venerdì Santo. Per Tom Curran, segretario generale del partito di governo Fine Gael, «è un giorno meraviglioso». E’ fedele, ha un figlio gay. «Siamo tornati ai valori di decenza, onestà e uguaglianza», ha detto. «Tutti i miei figli adesso hanno gli stessi diritti».
Il referendum non va necessariamente letto come un no alla Chiesa: pur essendo contraria a una ridefinizione del matrimonio, la Chiesa, ha sottolineato l’arcivescovo, «non è chiusa per nessuno». Lui ha votato no, ma mesi fa, quando si è trattato di organizzare la campagna per il referendum, rinunciò al ruolo di coordinatore. «Non ho nessuna voglia di far ingurgitare le mie vedute agli altri», spiegò con semplicità. «Chi non mostra amore e comprensione verso gay e lesbiche insulta Dio. Dio ama tutti».
In sordina, insomma, anche la Chiesa cambia. A gennaio, padre Martin Dolan, parroco della chiesa di St Nicholas, a Dublino, dichiarò durante la predica non solo di essere a favore della nozze gay, ma anche di essere omosessuale. Dieci anni fa non sarebbe stato possibile. Nella Dublino del 2015 i fedeli si sono alzati in piedi e gli hanno battuto le mani.
di Giannino Piana (Rocca, 15 marzo 2014)
Sono molti gli interventi di papa Francesco che riguardano l’etica; e questo non solo nei documenti uf ficiali - si pensi in particolare alla Evangelii gaudium - ma anche (e soprattutto) nelle udienze pubbliche del mercoledì e nelle omelie quotidia ne di Santa Marta.
Un cumulo di riflessio ni che, a distanza di non ancora un anno dall’inizio del suo pontificato, delineano un quadro piuttosto preciso del pensiero del papa attorno ad alcune tematiche mo rali e, più in generale, circa gli indirizzi di fondo dell’etica cristiana.
Non è certo possibile condensare, nel breve spazio di un articolo, l’insieme variegato di proposte che papa Francesco ha offerto (e continua ad offrire), ma non è difficile in travedere dietro all’insieme dei suoi interven ti un disegno innovativo dai contorni ben definiti, che manifesta la volontà di far usci re l’etica cristiana dalla visione angusta che l’ha per troppo tempo contrassegnata e di restituirle un autentico respiro evangelico.
il rifiuto di un’etica ossessiva e ideologica
A sorprendere, accostando i testi papali, è anzitutto l’insistenza con cui viene ribadita la necessità di andare oltre una precettistica dilatata ed ossessiva, relativa soprattutto ad alcuni ambiti della vita morale - quello del la sessualità in primis - per fare spazio alla radicalità e alla bellezza del messaggio mo rale cristiano.
Si tratta, in altri termini, di abbandonare una prospettiva negativa e le galistica, che riduce l’etica a una serie infi nita di divieti o a una lunga lista di peccati, per dare corso a una prospettiva positiva, che coincide con l’annuncio di ciò che con corre alla vera realizzazione umana e mette l’uomo nella condizione di attingere la feli cità. O, ancor più, si tratta di concepire l’eti ca cristiana come risposta alla chiamata del l’amore infinito di Dio, che chiede di essere ricambiato mediante il dono di se stessi nel servizio ai fratelli.
«Quando la predicazione è fedele al Vange lo - scrive al riguardo papa Francesco - si manifesta con chiarezza la centralità di alcune verità e risulta chiaro che la predica zione morale cristiana non è un’etica stoica, è più che un’ascesi, non è una mera filosofia pratica né un catalogo di precetti e di errori. Il Vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e ci salva, riconoscendolo negli altri e uscendo da se stessi per cercare il bene di tutti... Se tale invito non risplende con forza e attrattiva, l’edificio morale della Chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro peggior pericolo. Poiché allora non sarà propriamen te il Vangelo ciò che si annuncia, ma alcuni accenti dottrinali e morali che procedono da determinate opzioni ideologiche. Il messaggio correrà il rischio di perdere la sua freschezza e di non avere più ’il profumo del Vangelo’» (Evangelii gaudium, n. 39).
Ma c’è di più: papa Francesco non si accon tenta di segnalare un orientamento fonda mentale; si spinge anche ad indicare la via da percorrere per dare ad esso attuazione.
Egli non nega l’esigenza di un’etica norma tiva, incentrata sulla formulazione cioè di alcuni precetti, i quali - come affermava Tommaso d’Aquino - hanno il compito di aiutare il credente a dare concreta incarna zione alle istanze scaturenti dalla legge in teriore dello Spirito e di verificare la confor mità ad esse dell’agire, ma rileva con forza la necessità di un loro uso parsimonioso per evitare di incorrere in una schiavitù, che contrasta con l’annuncio della libertà evan gelica. «Ci sono norme e precetti ecclesiali - sono ancora parole del papa - che possono essere stati molto efficaci in altre epoche, ma che non hanno più la stessa forza edu cativa come canali di vita.
S. Tommaso d’Aquino sottolineava che i precetti dati da Cristo e dagli Apostoli al popolo di Dio ’sono pochissimi’. Citando Sant’Agostino, notava che i precetti aggiunti dalla Chiesa posterior mente si devono esigere con moderazione `per non appesantire la vita dei fedeli’ e tra sformare la nostra religione in una schiavi tù, quando ’la misericordia di Dio ha voluto che fosse libera’.
Questo avvertimento, fatto diversi secoli fa, ha una tremenda attualità. Dovrebbe essere uno dei criteri da conside rare al momento di pensare una riforma della Chiesa e della sua predicazione che permetta realmente di giungere a tutti» (Evangelii gaudium, n. 43).
ideale di perfezione e misericordia
La proposta morale di papa Francesco non è tuttavia indulgente o permissiva; egli non esita a richiamare l’attenzione sull’ideale di perfezione evangelico, che esige l’adozione di stili di vita rigorosi ispirati alla logica delle beatitudini e dei «ma io vi dico» del discorso della montagna. Il richiamo ai te sti di Matteo e di Luca che espongono tale programma è assai frequente nella sua pre dicazione.
Alla sublimità della chiamata ricevuta dall’alto deve corrispondere una risposta generosa e radicale. La povertà, la mitezza, l’umiltà, la gratuità, la tenerezza, il servizio, la magnanimità e il perdono dei nemici sono altrettanti atteggiamenti sui quali il papa ritorna spesso nelle omelie quotidiane (un magistero semplice e feriale, ma largamente incisivo), non solo per ché devono connotare il modo di essere del cristiano, ma anche perché rispondono ad istanze di liberazione umana che vanno offerte a tutti.
Per questo egli stigmatizza una serie di comportamenti che alterano i rapporti umani, creando situazioni di conflitto: dal la ricchezza e dalla cupidigia del danaro alla ricerca smodata del benessere materiale; dall’ipocrisia alla gelosia e all’invidia; dalle chiacchiere malevole alla calunnia fino alla collera e all’insulto; e la rassegna potrebbe continuare.
Ma soprattutto non manca di denunciare le radici profonde di tali com portamenti, che hanno la loro sede ultima nella superbia e nell’adesione allo spirito mondano - significativa è in proposito la formula ricorrente di «mondanità spiritua le» - nonché nella corsa al consumismo e alle mode, che alimentano sentimenti di rivalità e generano condizioni di oppressio ne per molti.
Il cuore attorno a cui ruota in positivo l’in tero edificio della morale cristiana è dun que per papa Francesco il comandamento nuovo, la carità, che ha il suo fondamento nella essenza stessa del mistero di Dio - il Dio Trinità che, secondo la definizione di Giovanni, non ha l’amore ma è Amore - e il suo paradigma comportamentale nella per sona di Gesù di Nazaret, il quale è venuto al mondo per servire e dare la vita.
L’insi stenza con cui ritorna nella riflessione del pontefice il riferimento a questo motivo ispiratore, che non ha il carattere di un sem plice precetto ma costituisce la chiave in terpretativa dell’intera condotta cristiana, sta a significare come ciò che conta nella valutazione del comportamento morale è la capacità del soggetto di uscire dalle stret toie dell’egoismo e dell’autoreferenzialità per fare di sé e della propria vita dono ai fratelli: «Chi cerca la propria vita, la perde rà; chi perde la propria vita, la troverà».
L’etica di papa Francesco è allora un’etica delle intenzioni profonde, del cuore o dello spirito, dell’opzione fondamentale; un’eti ca che, lungi dal rinunciare al radicalismo evangelico, lo propone con forza, senza al cuna esitazione, confidando nella capacità trasformativa della grazia e nell’opera rin novatrice del perdono.
Non è certo assente dalla lettura che il pontefice fa della realtà - anzi è da lui costantemente richiamata - la consapevolezza della debolezza e della precarietà della condizione umana: non solo per il limite connaturale allo stato di creaturalità, ma anche per la presenza del peccato, che esercita un forte condiziona mento sulle decisioni dell’uomo.
Di qui l’attenzione a non misurare soltanto i risultati conseguiti, ma a premiare lo sfor zo di chi si impegna a vincere il male e la sollecitazione ad andare costantemente avanti, facendo della propria esistenza un cammino di conversione permanente.
Di qui soprattutto l’annuncio, ripetuto con insistenza, di affidamento alla misericor dia di Dio, la cui porta è sempre aperta al l’accoglienza di chi riconosce la propria povertà e non esita ad abbandonarsi al l’azione dello Spirito. Affidamento reso possibile dall’incontro con una chiesa, che rinuncia all’esercizio del solo giudizio e si fa portatrice soprattutto dell’amore mise ricordioso del Padre.
«La Chiesa - scrive papa Francesco - deve essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incorag giati a vivere secondo la vita buona del Van gelo... Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassio ne, ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristia na» (Evangelii gaudium, n. 184).
il primato dell’etica sociale
Se infine dal piano del metodo e dell’impo
stazione di fondo si passa a quello dei contenuti ciò che risulta
immediatamente evi
dente è il primato che papa Francesco as
segna alle questioni dell’etica sociale e
po
litica, lasciando in secondo piano temati
che più strettamente connesse con l’etica della persona e delle
relazioni intersogget
tive - dalla sessualità alla famiglia alla vita
che hanno occupato uno spazio assai
con
sistente negli interventi dei pontefici pre
cedenti. Vi è, anzi, talvolta persino la ten
denza negli interventi
del papa attuale a
stemperarne l’importanza, rilevando la pre
senza di un’ossessività patologica laddove
si
ritorna con troppa frequenza a parlarne.
La ragione di questa scelta va anzitutto addebitata alla provenienza geografica del Pontefice: l’appartenenza al continente la tino-americano, cioè ad un’area del mon do caratterizzata dalla presenza di gravi for me di povertà e di pesanti disuguaglianze sociali, ha senz’altro esercitato (ed eserci ta) un peso determinante sui suoi orienta menti etici.
Ma, al di là delle motivazioni sociologiche, la ragione più importante (e più profonda) di tale scelta è di natura teo logica o meglio ecclesiologica: fin dagli inizi del suo ministero papa Francesco ha voluto dare alla sua azione una chiara impronta riformatrice, contrassegnata dalla pro posta di «una chiesa povera per i poveri», riprendendo in questo un filone significa tivo di riflessione che, in occasione del Concilio, un gruppo consistente (sebbene minoritario) di Padri aveva sviluppato, ma che aveva trovato scarso sbocco nei testi ufficiali. L’adesione a questo modello di chiesa, sul quale il papa torna con insisten za, spiega il taglio non ideologico ma pie namente evangelico, e per questo radicale (è sintomatico che vi sia stato negli Usa chi è giunto impropriamente ad accusarlo di marxismo), delle prese di posizione in cam po sociale.
Molte sono le questioni esaminate, a tale proposito, da papa Francesco; esse spazia no dal piano delle opzioni individuali a quello degli interventi di carattere struttu rale.
Non manca infatti la denuncia esplicita di comportamenti soggettivi devianti, frequenti peraltro nel nostro paese, come il clientelismo, l’evasione fiscale (e l’elusio ne), l’omertà nei confronti delle varie for me di mafia, e molto altro.
Ma il pontefice prende soprattutto in considerazione alcu ne tematiche di ordine strutturale nelle quali le ingiustizie e le sperequazioni sono particolarmente evidenti: dalla situazione del mercato del lavoro, dove si va dalla drammatica riduzione dei posti - si pensi al livello allarmante raggiunto dalla disoc cupazione in Italia (e, più in generale, in Europa) - e dalla persistenza di quello che il papa definisce come «lavoro schiavo», cioè con salario indecoroso e con l’assenza della salvaguardia dei diritti fondamentali del lavoratore - alla denuncia della crisi ambientale, dove accanto alle responsabi lità strutturali, legate al modello di svilup po tuttora dominante, esistono le respon sabilità dei singoli dovute al consumo in controllato delle risorse; fino alla esplicita condanna dei focolai di guerra e alla pro clamazione del bene della pace.
alcune condizioni
Le condizioni, che il papa spesso richia ma come necessarie, sono, da un lato, la produzione di una cultura dell’incontro e del dialogo, che favorisca lo sviluppo di relazioni improntate alla reciproca cono scenza e al rispetto delle differenze, non ché volte alla ricerca della giustizia e del l’equità e, dall’altro, l’acquisizione di stili di vita, ispirati a valori come l’austerità, la sobrietà, la riduzione dei bisogni, l’uso parsimonioso delle risorse e l’attenzione agli sprechi come via per restituire valore ai beni relazionali e migliorare la qualità della vita.
Si tratta, secondo papa Bergo glio, di avere il coraggio di andare contro corrente, di non avere paura di affrontare situazioni nuove con spirito nuovo, uscen do dalle postazioni consolidate, dalle ap parenti sicurezze acquisite e ricercando ciò che davvero conta per il bene di tutti.
L’etica che il papa privilegia è, in definitiva, un’etica della missione, impegnata a dilatare creativamente gli spazi della libertà e del la solidarietà umana e finalizzata ad offrire a coloro che vivono in situazioni difficili, sia di ordine materiale che spirituale, un vero sostegno fraterno.
Di qui l’invito a uscire allo scoperto, accettando anche il rischio di sba gliare, per porsi incondizionatamente al ser vizio di quanti attendono dai credenti e dal la chiesa un segno di speranza per il futuro «Più della paura di sbagliare - afferma papa Francesco - spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasfor mano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripe te senza sosta: Voi stessi date loro da man giare’ (Mc 6, 37)» (Evangelii Gaudium, n. 49).
La prima Giornata dei giusti che ricorda tutti i genocidi
di Gabriele Nissim (Corriere della Sera, 4 marzo 2013)
Le celebrazioni per la Giornata dei giusti in Europa hanno un risultato sorprendente: per la prima volta si è aperto un processo di condivisione delle memorie. Da Milano, a Praga, a Varsavia, a Bruxelles, a Sarajevo si ricorderanno gli uomini che si sono assunti una responsabilità personale di fronte ai genocidi e ai totalitarismi.
Finora era impensabile che in un’unica giornata gli armeni ricordassero la Shoah assieme alla tragedia che ha colpito il loro popolo, che gli ebrei ricordassero assieme al più terribile genocidio della Storia le vittime di altri massacri in Ruanda o in Cambogia, che nei Paesi dell’Est assieme ai perseguitati del comunismo si ripensasse alla sorte degli ebrei durante il nazismo, dopo tanti anni di rimozione storica.
Questa difficoltà di condivisione non era campata in aria ma aveva ragioni molto serie. Il mondo ebraico, con in testa il memoriale di Yad Vashem, aveva giustamente timore che un processo di comparazione potesse annacquare le responsabilità del mondo nei confronti dello sterminio ebraico.
Ci sono voluti anni perché la riflessione sulla Shoah diventasse patrimonio di tutta la comunità europea e solo in questi ultimi anni in Francia, in Polonia, in Ungheria, in Ucraina si è aperto un dibattito sulle complicità dei loro Paesi e delle loro popolazioni durante lo sterminio nazista.
D’altronde gli armeni consideravano del tutto secondario occuparsi dei genocidi degli altri, quando il loro genocidio continuava a essere rimosso e dimenticato e la Turchia minacciava tutti coloro che se ne interessavano. E oggi le organizzazioni che si battono in Russia per la memoria dei gulag, come Memorial e Nomi restituiti, si trovano in grande difficoltà per il vento nazionalista di Putin che è riuscito a creare una cortina fumogena nei confronti del passato totalitario in nome della difesa della purezza della nazione.
Così per tanti anni il mancato riconoscimento delle responsabilità ha non solo impedito un dialogo fecondo tra le memorie, ma ha rallentato un processo di condivisione di un destino comune, pur all’interno di situazioni differenti.
Ognuno ha pensato esclusivamente alla propria storia e così spesso in Europa si è assistito a una sorta di concorrenza sul valore delle rispettive memorie, come se si dovesse stilare una gerarchia delle sofferenze e ci fossero vittime più significative delle altre.
Il risultato è dunque che un giovane, che vive a Praga, a Varsavia o a Bucarest, non ha la stessa percezione del passato di un giovane italiano, inglese o francese, quando invece una memoria condivisa dovrebbe unire tutti i cittadini europei. A Budapest si è arrivati al paradosso che per ricordare le vittime del comunismo si coprivano le responsabilità di quanti, come l’ammiraglio Horty, sono stati responsabili delle leggi antisemite.
Con la valorizzazione della memoria dei Giusti, ottenuta dall’approvazione della dichiarazione del Parlamento europeo del 10 maggio del 2012, si sono finalmente incrinati degli steccati che sembravano difficilmente ricomponibili.
Il motivo di questo inizio di metamorfosi è di tipo etico. Il richiamo al tema della responsabilità personale, incarnato da tutti gli uomini, che pur con tutte le loro imperfezioni si sono battuti per la dignità dell’altro uomo, permette di creare un inaspettato movimento di empatia.
L’uomo giusto è infatti colui che è stato capace di mettersi nei panni degli altri e di ergersi come un piccolo argine nei confronti del male. Questo tipo di esperienza, da parte di chi ha rischiato la propria vita per gli altri, è stata per certi versi simile nella Shoah, come in Ruanda o nel genocidio armeno.
Quando si riconosce questa similitudine nei comportamenti umani, da parte di chi ha avuto il coraggio di assumersi una responsabilità, diventa più facile comprendere come, al di là di tutte le differenze che hanno segnato i diversi totalitarismi, diventi fondamentale intraprendere un percorso comune e condiviso di tutte le memorie del male. È infatti l’universalizzazione della Shoah, come quella degli altri genocidi, che rende più forte le loro memorie e non la loro contrapposizione.
In tutte queste circostanze gli uomini sono stati chiamati a fare delle scelte sul valore della sacralità della vita e purtroppo solo pochi ne sono stati capaci. È attorno a questo enigma, che - come ha osservato Jan Karski - ha portato alla degenerazione morale di società intere, che diventa importante riflettere sulle storie degli uomini giusti.
Essi insegnano agli europei che la sfida in ogni tempo è sempre la stessa: ogni uomo ha sempre la possibilità di salvare il mondo nel suo piccolo, non aspettandosi che altri lo possano fare per lui.
Emmanuel Lévinas, come ricorda il filosofo Bernhard Casper, che con lui aveva avuto modo di discutere sulla sua esperienza durante la sua prigionia nello Stalag 1492, un campo per prigionieri vicino ad Hannover, gli aveva confidato come di fronte a una violenza gratuita priva di senso che sfuggiva a ogni comprensione, l’unica cosa che gli aveva permesso di resistere era quella voce interiore che gli diceva: «Tu, però, ama. Tu non uccidere e non lasciare l’Altro nel suo essere mortale». Ecco il segreto dei giusti: la responsabilità come l’ultimo baluardo della propria dignità quando l’umanità ha perso la bussola e ogni riferimento morale.