Global Ratzinger
Si intitola Caritas in veritate la nuova enciclica di papa Ratzinger, presentata proprio alla vigilia del G8 e tutta incentrata sui grandi temi posti dalla globalizzazione dell’economia e dei suoi effetti sulla vita delle persone. "L’espresso" ne pubblica qui il testo integrale.
LEGGI TUTTA L’ENCICLICA
(l’Espresso, 07 luglio 2009)
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
IL SIMBOLO DEL PESCE - IXTHUS(Wikipedia)
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
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(...) gli insegnamenti e gli esempi di san Giovanni Maria Vianney possono offrire a tutti un significativo punto di riferimento: il Curato d’Ars era umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente: “Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina”.(3)
Parlava del sacerdozio come se non riuscisse a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad una creatura umana: “Oh come il prete è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe... Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia...”.(4)
E spiegando ai suoi fedeli l’importanza dei sacramenti diceva: “Tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo”.(5)
Queste affermazioni, nate dal cuore sacerdotale del santo parroco, possono apparire eccessive. In esse, tuttavia, si rivela l’altissima considerazione in cui egli teneva il sacramento del sacerdozio. Sembrava sopraffatto da uno sconfinato senso di responsabilità: “Se comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo: non di spavento, ma di amore... Senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra... Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti: è lui che apre la porta; egli è l’economo del buon Dio; l’amministratore dei suoi beni... Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie... Il prete non è prete per sé, lo è per voi”.(...)
ECCLESIA DE EUCHARISTIA vivit (Giovanni Paolo II, 2003).
ANTROPOLOGIA E RINASCIMENTO, OGGI (26 FEBBRAIO 2023):
ESSERE, O NON ESSERE? LA DOMANDA DI AMLETO E "LA LEZIONE DI "ABO" (Achille Bonito Oliva).
Una nota a margine ... *
"L’ARTE DA SOLA NON ESISTE. Senza un sistema composto da media, collezionisti, mercato, musei, pubblico, le opere in sé non avrebbero valore". Con questo titolo, di forte tonalità hegeliana e marxista, Achille Bonito Oliva, sul "Robinson" ("la Repubblica" del 18 febbraio 2023), sollecita in qualche modo lodevolmente a ripensare "tutto".
SOCIALITÀ CRITICA. A onore di Bonito Oliva, per non lasciar cadere l’ago nel pagliaio e rischiare di non ritrovarlo, tenendo presente che né la "religione" né la "filosofia", come l’arte, esiste da sola, forse, è opportuno allargare l’area della coscienza del tempo presente e riprendere a cercare di capire meglio la situazione storica attuale, a tutti i livelli.
NAPOLI E "LA MADONNA DEL PESCE" DI RAFFAELLO. Considerato che «il Pesce puzza dalla testa» (soprattutto se si continua a confondere inconsapevolmente ICTUS con IXTHUS, "I.X.TH.U.S."), a mio parere, solleciterei una urgentissima riflessione antropologica sulla millenaria e moribonda tradizione del “Pensare l’artista come un demiurgo, produttore isolato d’immagini"!
COSMOTEANDRIA. Continuare così, come precisa Achille Bonito Oliva, "vuol dire non riuscire a comprendere l’esistenza di una condizione filosofica dell’arte e dell’artista" e, al di là delle allusioni e delle illusioni dello stesso "ABO" (relative alla "teoria della catastrofe" e allo "spostamento che raccoglie l’esigenza di una struttura edipica uccidendo il padre, ovvero il movimento precedente"), vuol dire interrogarsi radicalmente sulla figura dell’artista e sull’arte stessa, in quanto "produzione linguistica, e dunque, operatività e pratica culturale", al di fuori della logica cosmoteandrica del mondo attuale, che anche il sistema dell’arte ha contribuito a costruire.
NOTA: FILOLOGIA E ITTICA. "Ichthỳs. Antico simbolo cristiano di Cristo; le lettere greche (ΙΧΘΥΣ) che compongono la parola, formano l’acrostico ᾿Ιησοὸς Χριστὸς Θεοῦ υἱὸς Σωτήρ «Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore». (Treccani).
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Eleusis2023 #Roma2024
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CREATIVITÀ E CARITÀ ("CHARITAS"). ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO. Il cattolicismo "andropologico" romano è finito...*
Risorsa famiglia.
Così lo sguardo femminile può cambiare l’economia
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 23 agosto 2018)
Economia è una parola greca che rimanda direttamente alla casa ( oikos nomos, regole per gestire la casa), quindi alla famiglia. Eppure l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, si è pensata come un ambito retto da principi diversi, distinti e per molti versi opposti ai principi e ai valori che hanno sempre retto e continuano a reggere la famiglia. Un principio fondante la famiglia, forse il primo e quello sottostante gli altri, è quello di gratuità, che è quanto è di più distante dall’economia capitalistica, che conosce surrogati della gratuità (sconti, filantropia, saldi) che svolgono al funzione di immunizzare i mercati dalla gratuità vera.
La famiglia, infatti, è il principale luogo dove apprendiamo, per tutta la vita e in un modo tutto speciale da bambini, quella che Pavel Florensky chiamava ’l’arte della gratuità’. E lì che soprattutto da bambini impariamo anche a lavorare, perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità. La nostra cultura, però, associata la gratuità al gratis, al gadget, allo sconto, alla mezza ora in più al lavoro non remunerata, al prezzo zero (San Francesco ci ha invece detto che la gratuità è un prezzo infinito: non si può né comprare né vendere perché è impagabile).
In realtà la gratuità è qualcosa di molto serio, come ci ha spiegato con estrema chiarezza anche la Caritas in veritate, che rivendica alla gratuità anche lo statuto di principio economico. Gratuità è charis, grazia, ma è anche l’agape, come ben sapevano i primi cristiani, che traducevano la parola greca agape con l’espressione latina charitas (con l’h), proprio ad indicare che quella parola latina traduceva ad un tempo l’agape ma anche la charis, e per questo quell’amore diverso non era né solo eros né solo philia (amicizia). La gratuità, questa gratuità, allora, è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose non per usarli utilitaristicamente a proprio vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità e nel loro mistero, rispettarli e servirli.
Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione. La gratuità ci salva così dalla tendenza predatoria che c’è in ogni persona, ci impedisce di mangiare gli altri e noi stessi. E’ ciò che distingue la preghiera dalla magia, la fede dall’idolatria, che ci salva dal narcisismo, che è la grande malattia di massa del nostro tempo, per assenza di gratuità.
Se la famiglia vuole, e deve, coltivare l’arte della gratuità, deve fare molta attenzione a non importare dentro casa la logica dell’incentivo che oggi vige ovunque. Guai, ad esempio, ad usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi (ma con tutti), va usato molto poco, e se usato deve essere usato come un premio o riconoscimento dell’azione ben fatta per ragioni intrinseche, e mai usato come prezzo. Uno dei compiti tipici della famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto, un’etica che nasce proprio dal principio di gratuità. Se, invece, si inizia a praticare anche in famiglia la logica e la cultura dell’incentivo, e quindi il denaro diventa il ’perché’ si fanno e non si fanno compiti e lavoretti di casa, quei bambini da adulti difficilmente saranno dei buoni lavoratori, perché il lavoro ben fatto di domani poggia sempre su questa gratuità che si apprende soprattutto nei primi anni di vita, e soprattutto a casa.
L’assenza del principio di gratuità nell’economia dipende anche, e molto, dall’assenza dello sguardo femminile. La casa, l’oikos, è sempre stato il luogo abitato e governato dalle donne. Ma , paradossalmente, l’economia è stata, e continua ad essere, una faccenda tutta giocata sul registro maschile. Anche i maschi hanno sempre avuto a che fare con la casa, e molto. Il loro sguardo si è però concentrato sul provvedere i mezzi per il sostentamento, sul lavoro esterno, sui beni, sul denaro. E quando l’economia è uscita dalla vita domestica ed è diventata politica, sociale e civile, lo sguardo e il genio femminile è rimasto dentro casa, e quello maschile è rimasta la sola prospettiva della prassi e soprattutto della teoria economica e manageriale.
Le donne guardano alla casa e all’economia vedendo prima di tutto il nesso di rapporti umani che si svolge in esse. I primi beni che vedono sono quelli relazionali e i beni comuni, e dentro a questi vedono anche i beni economici. Non è certo un caso che l’Economia di comunione sia nata da uno sguardo di una donna (Chiara Lubich), né che la prima teorica dei beni comuni è stata Katherine Coman (nel 1911), e che Elinor Ostrom sia stata insignita (unica donna finora) del premio Nobel in economia proprio per il suo lavoro sui beni comuni. E ci sono due donne (Martha Nussbaum e Carol Uhlaner) all’origine della teoria dei beni relazionali. Quando manca lo sguardo femminile sull’economia, le sole relazioni viste sono quelle strumentali, dove non è la relazione ad essere il bene, ma dove i rapporti umani e con la natura sono mezzi usati per procurarsi i beni.
Se lo sguardo e il genio femminile della oikoscasa fossero stati presenti nella fondazione teorica dell’economia moderna, avremmo avuto una economia più attenta alle relazioni, alla redistribuzione del reddito, all’ambiente e forse alla comunione. È, infatti, la comunione una grande parola che dalla famiglia può passare all’economia di oggi. E qui si apre un discorso specifico per i cristiani.
La chiesa oggi è chiamata ad essere sempre più profezia, se vuole salvarsi e salvare. La profezia è anche una parola della famiglia. La maggior parte dei profeti biblici erano sposati, e molte parole e gesti profetici della bibbia sono parole di donne. Isaia chiamò suo figlio Seariasùb, che significa ’un resto tornerà’, che uno dei grandi messaggi della sua profezia.
Non trovò modo migliore per lanciare quel suo messaggio profetico di farlo diventare il nome del figlio. Ogni figlio è un messaggio profetico, perché dice con il solo suo esserci che la terra avrà ancora un futuro, e che potrà essere migliore del presente. La profezia della famiglia oggi, per essere credibile, deve prendere la forma dei figli e la forma dell’economia, e quindi della condivisione, dell’accoglienza e della comunione. Perché sia i figli che l’economia non sono altro che la vita ordinaria di tutti e di ciascuno, che è il solo luogo dove la profezia si nutre e cresce.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
STATALISTI CONTRO RATZINGER
di Stefano Ceccanti *
Tra gli esperti che nella Chiesa cattolica si occupano di dottrina sociale c’è Johan Verstraeten che insegna etica all’Università cattolica di Lovanio e che ha spiegato per filo e per segno le sue posizioni sul numero 5/2011 della prestigiosa rivista internazionale di teologia "Concilium".
Verstraeten attacca il magistero della Chiesa e, specificamente, il "Compendio della dottrina sociale della Chiesa" del 2006 e l’enciclica di Benedetto XVI "Caritas in veritate" del 2009 a motivo, spiega, del pieno appoggio che danno al capitalismo.
L’autore ritiene che il punto di caduta sia individuabile proprio nel "Compendio", e in particolare nei suoi capitoli 4 e 7, dove "l’approvazione del libero mercato e della concorrenza" sarebbe "fatta nei termini più espliciti fin qui usati nella storia del pensiero sociale cattolico".
Ciò fermo restando che anche in precedenza la posizione della Chiesa non soddisfaceva Verstraeten, dato che il magistero, pur criticando di più l’economia di mercato, era comunque a suo giudizio contraddistinto dal "tentare quasi convulsamente di evitare qualsiasi identificazione del pensiero sociale cattolico con la socialdemocrazia o con lo Stato che fornisce assistenza sociale".
Per Verstraeten già l’enciclica di Giovanni Paolo II "Centesimus annus" del 1991 concedeva troppo al capitalismo. Ma nel "Compendio" vi sarebbe ancor di più "un’interpretazione sorprendentemente positiva della concorrenza" e della "situazione ideale" del "vero mercato concorrenziale".
Il "Compendio" avrebbe la colpa di aver ripreso l’impostazione dell’istruzione "Libertatis conscientia" del 1986 sulla teologia della liberazione, dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, con la sua affermazione del primato della carità sulla giustizia, reinterpretata quest’ultima come "carità sociale e politica", cosa che appare a Verstraeten riduttiva.
Che cosa esprimerebbe infatti quell’impostazione? Una mentalità secondo la quale "l’etica sociale cattolica, per quanto riguarda le questioni economiche", è ridotta a "una materia di azioni individuali o intersoggettive", mentre la necessità del cambiamento delle "strutture ingiuste" sarebbe relegata ai margini.
In altri termini - usando il lessico dei dibattiti seguiti alla "Caritas in veritate", lessico che però Vestraten non usa esplicitamente - l’autore accusa Benedetto XVI di essere "poliarchico", di attribuire cioè solo un ruolo parziale alla politica, accanto ad altri poteri.
Dal "Compendio", Verstraten passa infatti a criticare l’enciclica di Benedetto XVI, la cui "preoccupazione suprema non è la giustizia, ma l’amore, non il cambiamento strutturale o istituzionale, ma una nuova prassi basata su valori quali la relazionalità, la gratuità e la fraternità". Ovvero non la politica come centro della società ma come sottosistema parziale.
Qua e là nella "Caritas in veritate" - concede Verstraeten - c’è qualche apertura maggiore alle "politiche sociali dello Stato", rispetto al "Compendio", ma nonostante ciò - accusa - l’enciclica "resta piuttosto critica per quanto riguarda lo Stato", puntando invece di più sul principio di sussidiarietà.
La strategia del filone critico impersonato da Verstraeten è sempre la stessa e opera in due momenti.
Il primo passo consiste nel prendere le distanze da una lettura dinamica del processo di differenziazione sociale in atto, che vede la politica come una tra le sfere sociali, senza primati e gerarchie, sullo stesso piano dell’economia.
Il secondo consiste nel prendere le distanze dall’evoluzione del magistero sociale della Chiesa, o nella forma della critica esplicita o in quella più sottile che consiste nell’ignorarne l’evidente sviluppo, magari fermandosi a una lettura schematica che unisce la "Quadragesimo anno" (1931) alla "Populorum progressio" (1967).
La conclusione logica di Verstraeten è che "sia il ’Compendio’ sia la ’Caritas in veritate’ hanno bisogno di essere riviste" ricentrando il tutto su "istituzioni giuste", perno di "un’economia basta sulla ’iustitia in veritate’".
Finché questa revisione non ci sarà - ammesso ma non concesso che ci sia - le posizioni di Verstraeten e altri come lui potranno e dovranno presentarsi onestamente come radicalmente critiche della dottrina sociale della Chiesa, a differenza di quanto fa in questi giorni, in Italia, un autorevole esponente della segreteria del Partito democratico, Stefano Fassina, che espone idee stataliste identiche a quelle di Verstraeten, ma pretende di attribuirle allo stesso Benedetto XVI e alla "Caritas in veritate".
Le idee di Fassina sono sostenute da vari interventi su "L’Unità", anche da parte di esponenti cattolici in sintonia col direttore Claudio Sardo che proviene dalle ACLI, come l’ex-Presidente delle stesse ACLI Domenico Rosati. Mentre viceversa l’altro quotidiano del PD, "Europa", ha dato maggiormente spazio alle opinioni anti-stataliste, in particolare con gli interventi di Flavio Felice, presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton e professore di dottrine economiche alla Pontificia Università Lateranense, e di Edoardo Patriarca, segretario del comitato delle settimane sociali della conferenza episcopale italiana.
A dir la verità, però, le posizioni di Verstraeten e altri come lui appaiono teologicamente segnate da un "conservatorismo di sinistra" che non ha ancora tenuto conto del crollo del Muro di Berlino e della sua lezione anti-monarchica, contro il prepotere dello Stato e della politica.
Queste correnti criticano il magistero proprio perché, invece, ha tenuto conto di quella lezione. Ma, facendo ciò, esse riproducono in campo sociale quello che è il rifiuto tradizionalista della libertà religiosa: rifiuto anch’esso rigorosamente statalista, motivato in difesa della "iustitia in veritate" contro la libera scelta della coscienza erronea in buona fede.
Insomma, Verstraeten e... Lefebvre hanno teologicamente più elementi in comune tra loro di quanto non si possa credere ragionando solo sull’asse politico destra-sinistra.
* Fonte: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350187
Governo & Lega. Incontro segreto tra Tremonti e Ratzinger
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 20 aprile 2010)
Il Papa ha «riservatamente ricevuto» Giulio Tremonti prima delle elezioni regionali. Secondo quanto si apprende in Curia, l’incontro tra Joseph Ratzinger e il ministro dell’Economia è stato organizzato al Palazzo Apostolico dal presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, ascoltato consigliere economico di entrambi. Il «faccia a faccia» ha avuto luogo a fine marzo, in piena campagna elettorale e, com’è consuetudine in questo tipo di colloqui privati con esponenti di governi nazionali, è stato finora coperto da totale riserbo per evitare strumentalizzazioni o ombre di coinvolgimento del Papa in contingenze politiche. Tra i principali «sponsor» di Tremonti figurano il cardinale ciellino Scola (dal quale, subito dopo la vittoria elettorale di Zaia in Veneto, Tremonti ha portato in udienza Bossi) e il banchiere del Papa, Gotti Tedeschi.
Sono stati loro a intercedere per Tremonti il cui approdo nell’appartamento pontificio è anche il segno che il segretario di Stato, Bertone, individua nel Carroccio (con cui Tremonti ha saldi legami) una promettente sponda per la Santa Sede. Bertone ha pubblicamente riconosciuto ai leghisti un presidio di territorio paragonabile a quello della Chiesa negli Anni Cinquanta e il ministro vaticano della Bioetica, Fisichella, ha elogiato il «cattolico Cota» per le critiche alla pillola abortiva Ru486. Il colloquio «non politico» tra Benedetto XVI e Tremonti rientra comunque nell’apertura di credito della Santa Sede verso un crescente ruolo della Lega nella maggioranza.
Al consueto ponte tra le sponde del Tevere assicurato dal gentiluomo di Sua Santità, Letta, si affianca, quindi, un nuovo «ambasciatore» del governo nei Sacri Palazzi. Uomo-cerniera tra Pdl e Lega e possibile leader. A fare da «trait d’union» è stata la comune riflessione sulla globalizzazione che ha portato Benedetto XVI a scrivere l’enciclica sociale «Caritas in veritate» e Tremonti «La paura e la speranza».
Per quanto Oltretevere si enfatizzi il «carattere non politico» dell’incontro, l’udienza riservata costituisce un importante riconoscimento del ruolo di «interlocutore privilegiato» che il Pontefice riconosce al ministro dell’Economia. Joseph Ratzinger ci teneva ad approfondire la conoscenza intrecciata due anni fa a Bressanone durante le vacanze estive.
In quell’occasione il Papa accademico rimase ben impressionato dal «collega» economista le cui entrature nelle sacre stanze sono da allora costantemente aumentate. Al team di teologi coinvolti nella redazione dell’enciclica sociale i testi di Tremonti erano stati segnalati dal Papa in persona.
Quattro ONG cattoliche si impegnano sull’enciclica “Caritas in veritate”
di Isabelle de Gaulmyn
in “La Croix” dell’11 febbraio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
L’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI è un testo difficile. Ma anche un testo molto atteso, perché si inscrive in una globalizzazione segnata da crisi finanziarie, economiche, se non anche spirituali. Per evitare che “la parola del papa cada così sulla testa dei cattolici, senza seguito né spiegazione, dobbiamo favorirne l’interpretazione”, afferma Guy Aurenche, presidente del CCFD (Comité catholique contre la faim et pour le développement). Sulla base di questa constatazione, quattro grandi servizi ecclesiali, il Secours catholique, il CCFD, la DCC (Délégation catholique pour la coopération), et Giustizia e Pace, hanno deciso di intraprendere insieme un lavoro pedagogico su questo testo, per proporne un documento accessibile a tutti. Ha la forma di un fascicoletto, facilmente leggibile e illustrato, tipo “depliant turistico”, che invita ad approfondire cinque punti dell’enciclica: il Vangelo nel mondo, lo sviluppo, il locale e il globale, il dono e la gratuità, la Verità.
Questo modo di procedere di laici impegnati, poco abituale a questo livello, è senz’altro in relazione con le difficoltà di comunicazione in cui si è trovata la Chiesa in questi ultimi mesi. “La Chiesa non può presentarsi per parlare al mondo così come capita. In quanto laici, siamo corresponsabili della diffusione di quella parola”, prosegeue Guy Aurenche. Di fatto, nella Chiesa si esprimono correnti diverse rispetto al modo di far sentire la parola cristiana nella società. Ora, i movimenti all’origine di questa iniziativa hanno tutti in comune un’esperienza al servizio dei più poveri, che dà loro una legittimità per analizzare un testo come Caritas in veritate.
Per la DCC, ad esempio, l’accento messo da Benedetto XVI sulla gratuità si ritrova nell’esperienza dei giovani volontari, che partono in cooperazione in un movimento di gratuità. Allo stesso modo, il Secours catholique, spiega François Soulage, suo presidente, conosce anch’esso la tensione, esplicitata dall’enciclica, tra carità e giustizia.
“La Populorum progressio, l’enciclica di Paolo VI (1967) oggi conta nella Chiesa meno per il testo in sé, anche quello non sempre accessibile, quanto per tutto quello che ha provocato come prese di posizione e impegno”, sottolinea ancora padre André Talbot, teologo di Giustizia e Pace. Sarà certamente lo stesso per Caritas in veritate, il primo testo del magistero a prendere in considerazione la globalizzazione e le sue conseguenze. I quattro servizi ecclesiali quindi, dopo questo primo lavoro di pedagogia, hanno intenzione di continuare il loro impegno in questo senso.
È senza dubbio anche un primo passo verso una più ampia riflessione sul servizio (la diaconia) e sull’attenzione ai più poveri nella Chiesa. In progetto c’è un grande incontro sulla diaconia previsto per il 2013, un incontro che, un po’ come il Katholikentag tedesco, possa riunire tutta la galassia dei movimenti e delle associazioni ecclesiali impegnati a servizio del prossimo.
Confronto senza estremi
Bosetti: «Cari laici, i campanili arricchiscono la società d’oggi»
DI LORENZO F AZZINI (Avvenire, 29.01.2010)
La comunicazione tra credenti e laici è molto « disturbata » dalle strumentalizzazioni politiche della religione. Ne son responsabili quei laicisti incapaci di cogliere gli elementi socialmente arricchenti nelle tradizioni di fede, ad esempio la Chiesa in Italia. Giancarlo Bosetti, direttore della rivista Reset, radiografa così lo stato dell’arte nel Belpaese. E prende la Caritas in veritate come modello per il « cortile dei gentili » evocato da Benedetto XVI.
Il suo libro « Il fallimento dei laici furiosi » ( Rizzoli) ha rimproverato tale categoria perché «intolleranti ». Perché ripartire nel confronto?
«Perché questo dialogo è in pessime condizioni: siamo in una situazione di conflittualità esasperata per cui ogni divergenza ’bioetica’ si sviluppa in maniera incontrollata. E la politica accentua tale conflitto. Assistiamo al fenomeno inverso del 1984, quando sulla revisione del Concordato si ebbe una bella pagina dello Stato italiano con un voto favorevole a larghissima maggioranza »
Dove stanno i motivi della crisi?
« Da tutte e due le parti. Io mi sono occupato degli eccessi dei laici, così come Enzo Bianchi si è interessato degli eccessi opposti. Bianchi cristianamente scrive che l’anticlericalismo è spesso colpa del clericalismo: è un giudizio generoso verso i non credenti, io, dal mio osservatorio sui laici, vedo che la questione riguarda di più questi ultimi » .
Lo scontro, a suo giudizio, imprigiona le migliori risorse del Paese.
« Non credo si possano eliminare i contrasti sulle questioni bioetiche. Queste divergenze non devono diventare un conflitto ultimativo. Le ’liti’ tra laici e cattolici avvengono perché surrogano vuoti ideologici. Io considero il forte contributo dei cattolici alla coesione sociale; invece molti laici parlano dell’elemento cattolico solo in termini negativi. Perché bisogna pensare ai preti unicamente in questo modo? I non credenti spesso vedono solo ingerenze della Chiesa e non ne considerano il ruolo sociale: come si fa a giudicare invadenti gli oratori quando si tratta di un elemento positivo per i giovani? Magari crescesse qualcosa di simile in ambito ebraico o centri di cultura cristiana ortodossa: sarebbero aggregazioni positive! Del resto il liberalismo va verso il pluralismo religioso, che è una visione per cui la presenza religiosa è da garantire nella sua espansione in quanto non considerata come qualcosa di stantio. La cultura laica italiana rimane ferma in un laicismo ottuso che considera il credere una superstizione tradizionalistica » .
«Ripartire dalla Caritas in veritate» . Perché questa sua attenzione all’enciclica del Papa?
«La Caritas in veritate è stata un contributo prezioso ma in Italia non a tutti il suo messaggio - la persona prima dell’economia - è arrivato. Non siamo capaci di inserire nell’agenda politica italiana il contributo sociale della Chiesa, che vien preso in considerazione solo se torna comodo a destra o a sinistra. Da noi espressioni come laicità ’ positiva’ e ’dialogante’ sono rare. In passato non era così: da Berlinguer a Moro ai socialisti c’è stata un prolungato confronto tra credenti e non credenti » .
Quale contributo vorrebbe di più dalla Chiesa?
« Il mondo cattolico fa passi in avanti verso le altre culture e religioni: vorrei che tutto ciò fosse più deciso. Mi piacerebbe che non ci fossero dei ’ stop and go’ nel dialogo ecumenico e con i non credenti. Perché avvengono così tante fermate nel percorso con i musulmani? Sbaglia però chi definisce Ratzinger nemico dell’islam: basti ricordare la sua visita, nei primi tempi del suo pontificato, alla Moschea blu di Istanbul » .
"Caritas in veritate"
L’enciclica della fraternità universale
di Rosino Gibellini *
La Caritas in veritate si potrebbe definire l’enciclica della fraternità universale perché questa è la categoria teologica centrale nel discorso complesso di Benedetto XVI sulla realtà sociale del nostro mondo in via di globalizzazione. Il Papa si inserisce nella dottrina sociale della Chiesa con una modalità particolare, espressa, appunto, dalla categoria della fraternità universale. È stato osservato che Giovanni Paolo II parlava spesso di socialità, un tema che Benedetto XVI riconduce alla sua fonte teologica, e cioè la fraternità. Il terzo capitolo dell’enciclica (n. 34-42) s’intitola Fraternità, sviluppo economico e società civile e si può considerare il centro teologico del testo papale.
Il concetto di fraternità è caro alla teologia di Joseph Ratzinger, che vi aveva dedicato il corso viennese del 1958, quando il giovane teologo era agli inizi della sua docenza nel seminario filosofico-teologico di Frisinga. Il corso sarà poi pubblicato nel 1960 (quando Ratzinger era già arrivato all’università di Bonn), con il titolo Die christliche Brüderlichkeit (München, 1960; nuova edizione, München, Kösel-Verlag, 2006; traduzione italiana, Roma, 1962; nuova traduzione, Brescia, Queriniana, 2005). La fraternità cristiana - si spiega in quel testo - è quella interna alla Chiesa: è "la reciproca fraternità dei cristiani" che invocano Dio, confidenzialmente, come Abba ("Padre nostro"), come Gesù ci ha insegnato. Ed è una fraternità aperta, perché la Chiesa è sempre - citando von Balthasar - "uno spazio aperto e un concetto dinamico"; essa "è infatti il movimento di penetrazione del regno di Dio nel mondo, nel senso di una totalità escatologica" (La fraternità cristiana, p. 100).
La fraternità cristiana traccia anche dei confini, pone una dualità tra Chiesa e non chiesa. Ma "la comunità cristiana fraterna non è contro, bensì a favore del tutto" ed "è chiaro che l’opera di Gesù non mira propriamente alla parte, bensì al tutto, all’unità dell’umanità" (ivi, p. 94). La fraternità cristiana non è riducibile a filantropia, non è assimilabile al cosmopolitismo stoico o illuminista, ma è espressione di "vero universalismo", perché è posta "al servizio del tutto", tramite agàpe ("amore") e diakonìa ("servizio").
Nel testo richiamato è bene evidenziata la differenza tra fraternità universale nell’illuminismo e nel cristianesimo. È vero che l’illuminismo ha ampliato il concetto di fratello, parlando di fraternità universale sulla base della comune natura umana. Ma una fraternità così estesa può diventare irrealistica e vaga espressione di umanitarismo, come evidenziano le parole del pur grande inno alla gioia di Schiller: "Abbracciatevi, moltitudini". La fraternità cristiana, invece, si apre all’altro, e si fa fraternità universale appunto nell’agàpe e nella diakonìa, abbattendo così, nella concretezza della vita, ogni barriera. È il tema ripreso nell’enciclica.
Nella Caritas in veritate si afferma infatti che la vera fraternità, operante oltre ogni barriera e confine, nasce dal dono, la cui logica è introdotta nel tessuto economico, sociale e politico: "La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l’unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-amore. Nell’affrontare questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone a essa in un secondo momento e dall’esterno e, dall’altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio gratuità come espressione di fraternità" (n. 34).
Secondo il Papa, nel tempo della globalizzazione in cui ormai l’umanità è entrata, e in cui essa diventa "sempre più interconnessa" (n. 42), gli esseri umani hanno bisogno come singoli e come comunità di un criterio etico fondamentale. Questo criterio è una categoria teologica, quella della fraternità universale, che ci fa considerare membri della stessa "famiglia umana". Se si volesse citare una sola affermazione dell’enciclica, per andare al centro della visione che essa propone, si potrebbe scegliere questa: "La globalizzazione è fenomeno multidimensionale o polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell’unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere e orientare la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione" (n. 42).
È questa la parte più strettamente teologica, sul cui registro sono da leggere le indicazioni concrete di etica sociale ed economica contenute nell’enciclica, che insieme propone come chiave di lettura la visione della "fraternità universale" e la logica conseguente della "relazionalità" e della "condivisione" come criterio fondamentale e come orientamento "teologico". Per essere "capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie al servizio di un vero umanesimo integrale" (n. 78).
* ©L’Osservatore Romano - 1 novembre 2009
A Genova un convegno sull’enciclica «Caritas in veritate»
Il primo e principale fattore di sviluppo
La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico
Pubblichiamo integralmente il testo della lectio magistralis che il cardinale arcivescovo di Genova, che è presidente della Conferenza episcopale italiana, ha tenuto sabato 19 settembre nel Palazzo della Borsa Valori di Genova in occasione del convegno "Caritas in veritate. Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI". All’incontro, introdotto da Davide Viziano, presidente dell’Unione cristiana imprenditori dirigenti, e da Paolo Odone, presidente della Camera di Commercio di Genova, sono intervenuti anche Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, e l’economista Ettore Gotti Tedeschi.
di Angelo Bagnasco *
La terza enciclica di Benedetto XVI si snoda con coerente linearità rispetto alle due precedenti (Deus caritas est e Spe salvi) e porta alla luce una connessione che è presente già nello stesso titolo e cioè che "solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta" (n. 3). Come è noto, il Papa parte da questa persuasione per rileggere in modo critico la res sociale di oggi, che va sotto il nome di globalizzazione e che pone una sfida inedita. Infatti "il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze" (n. 9). Per questo si richiede non solo una volontà determinata, ma ancor prima un pensiero lucido che sappia proporre "una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali" (n. 31) dello sviluppo. Insomma si richiede "l’allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa", secondo il pressante appello che muove - sin dal suo inizio - il magistero di Benedetto XVI (cfr. Discorso di Ratisbona).
Il richiamo esplicito a Paolo vi e alla Populorum Progressio (19 67), così come quello indiretto alla Sollicitudo rei socialis (1987) di Giovanni Paolo ii, diventa nella riflessione di Benedetto XVI lo spunto per una importante affermazione di carattere generale e cioè la riaffermazione della Dottrina sociale come un "corpus dottrinale" (n. 12), che affonda le sue radici nella fede apostolica e si colloca a pieno titolo nell’alveo della Tradizione, secondo un processo di rigorosa continuità. Così facendo il Santo Padre intende chiarire il suo punto di vista, che non è ispirato da alcuna situazione sociologicamente intesa, ma rispecchia una precisa prospettiva teologica e cioè che "l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo" (n. 8).
La percezione della sfida e l’esigenza di un nuovo pensiero (non solo economico-sociale) in grado di dire al meglio la novità dei fatti che sono sotto gli occhi di tutti e che proprio la recente crisi finanziaria ha ancor più aggravato, spinge a riconsiderare luoghi comuni e pregiudizi inveterati per addentrarci dentro una interpretazione originale del fatto umano della globalizzazione. Guidano la riflessione della Caritas in veritate due presupposti, da cui scaturisce una prospettiva di grande respiro per la vita della società e della Chiesa.
I due presupposti di fondo sono da un lato la convinzione che lo sviluppo non è solo una questione quantitativa, ma risponde piuttosto a una vocazione e dall’altra il fatto che la giustizia, pure necessaria, non è autosufficiente perché esige la carità, così come la ragione ha bisogno della fede. La prospettiva che emerge è dunque "una visione articolata dello sviluppo" (n. 21), che porta a ritenere come la questione sociale sia oggi inscindibilmente legata alla questione antropologica. Vorrei ora, sia pure brevemente, sviluppare questi tre aspetti per giungere a una osservazione di fondo conclusiva.
Affermare che "il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità: l’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale" (n. 25) significa sottrarre a un cieco determinismo la lettura della globalizzazione e ribadire che anche questo complesso fenomeno è legato alla variabile umana. Non si dà cioè la fatalità di attenersi solo a dati ritenuti oggettivi e scientifici dimenticando quanto la componente umana giochi un ruolo decisivo nelle scelte che di volta in volta vengono prese.
Ciò fa comprendere che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, ma è determinato dalla qualità umana degli attori chiamati in causa. Per questo Benedetto XVI invita a una interpretazione che non si accontenta della semplice analisi delle strutture umane, ma rimanda a un livello più profondo. "In realtà - egli scrive - le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti. Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell’uomo, che cade nella presunzione dell’autosalvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato" (n. 11).
Ciò richiede un preciso esame di coscienza, cui l’enciclica non si sottrae, facendo riferimento ai progressi effettivamente fatti o non fatti nella direzione auspicata dalla Populorum Progressio. Certamente molti risultati sono stati raggiunti, ma la Fao - ancora lo scorso 19 giugno - ha comunicato le sue nuove stime: la fame nel mondo raggiungerà un livello storico nel 2009 con 1,02 miliardi di persone in stato di sotto nutrizione.
La pericolosa combinazione della recessione economica mondiale e dei persistenti alti prezzi dei beni alimentari in molti Paesi ha portato circa 100 milioni di persone in più rispetto all’anno scorso oltre la soglia della denutrizione e delle povertà croniche. L’enciclica rende avvertiti che "gli attori e le cause sia del sottosviluppo sia dello sviluppo sono molteplici, le colpe e i meriti sono differenziati". Per poi aggiungere: "Questo dato dovrebbe spingersi a liberarsi dalle ideologie, che semplificano in modo spesso artificioso la realtà, e indurre a esaminare con obiettività lo spessore umano dei problemi" (n. 21). Infatti "i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani" (n. 32).
Non si fatica d’altra parte a capire che "l’aumento massiccio della povertà... non solo tende a erodere la coesione sociale, e per questa via mette in crisi la democrazia, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del "capitale sociale", ossia quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile" (ibidem). Solo se lo sviluppo è una vocazione e non un destino si può sperare di avere ancora margini di cambiamento e soprattutto di trasformazione. Infatti "nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, "la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno". Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità" (n. 42).
Ma come aiutare la ragione a non cedere a una lettura rassegnata della realtà e soprattutto come aiutarla a far emergere le potenzialità che sono dentro la risorsa che è l’uomo? Una risposta sta certamente nel fatto che già nella Deus caritas est (n. 28), la Dottrina sociale della Chiesa venga presentata come il luogo in cui la carità purifica la giustizia. Questa purificazione, peraltro, non è altro che un momento di quella più ampia purificazione che la fede è chiamata a esercitare nei riguardi della ragione.
Il concetto di "purificazione" è tutt’altro che negativo, come potrebbe sembrare a prima vista ed è agli antipodi della semplice negazione o della pura condanna. Ciò vuol dire che la giustizia è assunta ma allo stesso tempo potenziata dalla carità. Tra queste due realtà c’è insomma una relazione che va in entrambe le direzioni: per un verso non c’è carità senza giustizia perché si tratterebbe di semplice assistenzialismo, per altro verso non si dà giustizia senza carità perché si finirebbe nelle secche di un arido legalismo.
Arrivare a intuire l’eccedenza e ancor prima la necessità della carità, vista l’insufficienza della giustizia, è però il frutto di una intuizione che va ben oltre la semplice ragione. Si richiede il recupero di una categoria, quella della fraternità, che, non a caso, Benedetto XVI pone in testa alla relazione tra sviluppo economico e società civile al capitolo terzo della Veritas in caritate. La grande sfida che abbiamo davanti "è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma che anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità devono trovare posto entro la normale attività economica" (n. 36).
Nasce da qui una interessante serie di riflessioni che spaziano dentro il ruolo del non profit e alludono all’ibridazione dei comportamenti economici e delle imprese, aprendo ad approcci inabituali nell’interpretazione dei rapporti internazionali. Per arrivare a un’affermazione forte: "Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia" (n. 53). Questa chiara affermazione che dal Vaticano ii (Gaudium et spes, n. 77) è un punto fermo richiede in realtà "un nuovo slancio del pensiero" e obbliga "a un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo" (n. 53). In tal modo il Papa si fa carico, ancora una volta, di restituire dignità alla domanda su Dio e di riaprire all’interno del dibattito pubblico la questione della fede (cfr. n. 56), che è chiamata a purificare la ragione, così come la carità orienta e finalizza la giustizia, se il mondo non vuole soccombere alle sue logiche disumanizzanti.
Si comprende allora perché il Vangelo si riveli il maggior fattore di sviluppo e, di conseguenza, perché la Chiesa dia il proprio apporto allo sviluppo anzitutto quando annuncia, celebra e testimonia Cristo, quando, cioè, adempie alla propria missione di evangelizzazione.
Il punto di approdo di quanto detto sul rapporto tra giustizia e carità e la prospettiva più originale del testo pontificio è ricondurre la questione sociale alla questione antropologica, marcando la necessaria correlazione che esiste tra queste due dimensioni che stanno o cadono insieme. Per questo Benedetto XVI propone con forza il collegamento tra etica della vita ed etica sociale, dal momento che non può "avere solide basi una società che - mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace - si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata" (n. 15). In concreto, questo vuol dire che lo sviluppo vero non può tenere separati i temi della giustizia sociale da quelli del rispetto della vita e della famiglia e che sbagliano quanti in questi anni, anche nel nostro Paese, si sono contrapposti tra difensori dell’etica individuale e propugnatori dell’etica sociale. In realtà le due cose stanno insieme.
Un esempio eloquente è dato dalla crescente consapevolezza che la questione demografica, che attiene certamente alla dinamica affettiva e familiare, rappresenti pure uno snodo decisivo delle politiche economiche e perfino del Welfare. Aver sottovalutato l’impatto della famiglia sul piano sociale ed economico riconducendola a una questione privata, quando non addirittura ad un retaggio culturale del passato, è stata una miopia di cui oggi pagano le conseguenze soprattutto le generazioni più giovani, sempre meno numerose e sempre meno importanti. La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico anche in altri ambiti sensibili e porta a convincersi ad esempio che l’eugenetica è molto più preoccupante della perdita della biodiversità nell’ecosistema o che l’aborto e l’eutanasia corrodono il senso della legge e impediscono all’origine l’accoglienza dei più deboli, rappresentando una ferita alla comunità umana dalle enormi conseguenze di degrado. Come sottolinea con vigore il Papa: "Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono" (n. 28).
Ancora una volta l’enciclica aiuta a far emergere un più profondo senso dello sviluppo che sa porre in relazione i diritti individuali con un quadro di doveri più ampio, aiutando così ad intendere correttamente la libertà individuale che deve sempre fare i conti anche con la responsabilità sociale. Taluni fenomeni di degrado politico cui assistiamo oggi e che rivelano mancanza di progettualità e resa ad interessi di corto respiro, così come recenti episodi di abbruttimento finanziario che hanno portato al collasso del sistema economico, colpendo le fasce più deboli dei risparmiatori, confermano che l’etica sociale si regge soltanto sulla base della qualità delle singole persone. Lo dice espressamente il Papa: "Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle coscienze l’appello del bene comune" (n. 71).
Concludo, facendo riferimento a un tema che ha colpito la pubblica opinione e che può rappresentare una sorta di controprova sperimentale della validità della lettura dello "sviluppo integrale", che Benedetto XVI propone a tutti gli uomini di buona volontà, sulla scia della grande intuizione della Populorum progressio di Paolo vi. Mi riferisco al tema dell’ambiente, cui è espressamente dedicata una parte significativa del capitolo IV (nn. 48-52) e che rileva una ricorrente preoccupazione nel magistero dell’attuale Pontefice. Scrive Benedetto XVI: "La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un’ecologia dell’uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’ecologia umana è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio" (n. 51).
La crisi ecologica dunque non può essere interpretata come un fatto esclusivamente tecnico, ma rimanda ad una crisi più profonda perché ai "deserti esteriori" corrispondono "i deserti interiori" (cfr. Benedetto XVI, Omelia per l’inizio del Ministero petrino, 24 aprile 2005), così come alla morte dei boschi "attorno a noi" fanno da pendant le nevrosi psichiche e spirituali "dentro di noi", all’inquinamento delle acque corrisponde l’atteggiamento nichilistico nei confronti della vita. Quando infatti l’uomo non viene considerato nell’integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera "ecologia umana" si scatenano le dinamiche perverse delle povertà, compromettendo fatalmente anche l’equilibrio della Terra. Una prova ulteriore, se ce ne fosse ancora bisogno, che "il problema decisivo dello sviluppo è la complessiva tenuta morale della società" (n. 51).
La crisi in atto mette in evidenza dunque la necessità di ripensare il modello economico cosiddetto "occidentale", come, del resto, già auspicato nella Centesimus annus (1991). Ma lo sguardo dell’enciclica è tutt’altro che pessimista o fatalista. Al contrario con realismo apre al futuro con il seguente invito che intendo fare mio: "La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente" (n. 21).
* ©L’Osservatore Romano - 20 settembre 2009
Chiesa, tra moniti e placet
Ma è pronta allo «scambio»
di Fabio Luppino (l’Unità, 13 luglio 2009)
La legge sul testamento biologico verrà usata da Berlusconi e i suoi profeti per l’Assoluzione definitiva, l’indulgenza plenaria. Come un confessionale: da cui non si esce con dieci avemaria e 20 padre nostro. No, si esce con l’affossamento della laicità dello Stato nel fare le sue leggi. Uno scambio indecente. Una accelerazione improvvisa giunta quando tutto sembrava perduto, anche la sponda ecclesiastica. Va riletta attentamente la dichiarazione del ministro Sacconi del 23 giugno, come replica allo sconcerto di Famiglia cristiana riguardo alle vicende «private» del premier. Dall’ex socialista, neo convertito (Dio ci guardi), è partita una rancorosa rampogna per il direttore del settimanale: «La Chiesa più di DonSciortino appare molto interessata all’etica pubblica - ha detto il ministro - che deve caratterizzare i decisori tanto dal punto di vista della loro affidabilità quando promettono, quanto sotto il profilo dell’applicazione laica dei principi cristiani negli atti di governo, a partire da quelli inerenti il valore della vita». Un’affermazione che col tema non c’entrava nulla. Una zeppa, un segnale, una garanzia.
Sacconi, neocrociato, aveva già dato ampie prove di sé negli ultimi giorni di Eluana Englaro. Trombettiere del decreto con il quale si voleva fermare la battaglia del padre per la morte dignitosa della figlia, in coma da 17 anni. Senza indugiare sulle frasi (basta e avanza quella del premier che addirittura ipotizzava per Eluana l’eventualità di dare al mondo un bambino), Sacconi fece fino in fondo la battaglia parlamentare a sostegno di una legge ad personam (le precedenti erano state fatte tutte per «tutelare» Silvio Berlusconi) contra personam. La Chiesa apprezzò. E molto criticò, al contrario, la fermezza di Napolitano. Tre giorni prima della morte di Eluana, il 6 febbraio scorso, il presidente del pontificio consiglio della Salute, il cardinale Javier Lozano Barragan: «Il decreto era giusto». «Eluana è viva, ha il diritto di vivere e la comunità politica deve sostenere la sua vita con i mezzi che ci sono », si associò il presidente emerito della pontificia accademia per la Vita, monsignor Elio Sgreccia.
Il grumo inossidabile. La leva che ha portato alla legge votata dal Senato sul testamento biologico. La logica dello scambio è ben viva nel Pdl. Sempre a Famiglia cristiana rispondeva Bondi il 28 giugno: «Ha fatto più Berlusconi per la Chiesa di qualsiasi politico democristiano». Il Vaticano ci sta. E osserva da lontanol’emergere del puttanaio di circostanze che riguardano la vita privata di Silvio Berlusconi. Settimane di silenzio, interrotto solo qualche giorno fa con la misura finalmente colma e il sillabo di monsignor Crociata contro lo «sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile» non più rubricabile come semplice affare privato.
Il potere temporale ecclesiastico non chiede coerenza ai politici. Guarda ai suoi obiettivi. Non ha avuto nulla da ridire sulla sfilata di separati al Family day. Anche cerchiobottista, se serve. E così con il ddl sicurezza stanno insieme le dure critiche di monsignor Agostino Marchetto, segretario del pontificio consiglio dei migranti, e la distanza di padre Federico Lombardi, portavoce della Santa sede: «Il Vaticano come tale non ha detto niente sul decreto sicurezza». I parocchiani sono un po’ schifati dai racconti sulle tempeste ormonali di Berlusconi.
Civiltà cattolica di questi giorni, in un saggio su «La coscienza morale e il governo di sé», richiama il monito che Santa Caterina da Siena rivolse ai politici del suo tempo: «Non si può essere buoni politici se prima non si signoreggia se stessi, coloro che non si governano non possono governare la città». La Chiesa millenaria si pone altri traguardi e va oltre. Manda segnali, indubbiamente. Fa sapere che l’udienza con il Papa, affannosamente richiesta da Letta e sherpa di governo, per ora non si mette in agenda; sulle badanti solleva problemi concreti e, in questo clima, riesce ad attenuare anche i furori iconoclasti leghisti. Si tiene, quindi, anche Bondi quando di Berlusconi dice che «sì, è un peccatore come tutti, naturalmente non più di altri, ma sinceramente e profondamente credente», che «non ostenta la sua fede cristiana, non indulge in sterili moralismi da bacchettone, ma va dritto alla sostanza dello spirito».
Il problema, in fondo, non è il Vaticano, anche in questo momento. È il venir meno dell’adagio liberale, libera Chiesa in libero Stato. Non resta che vedere come andrà a finire in una lotta affidata ai freni e contrappesi di maggioranza. Se vincerà Voldemort-Sacconi o Harry Potter-Fini, che sul testamento biologico ha opinioni non integraliste. La posta: lo Stato laico o l’indulgenza per il peccatore-premier.
Ansa» 2009-07-13 11:08
PAPA: VACANZE IN VAL D’AOSTA, IMPONENTI MISURE SICUREZZA
INTROD (VAL D’AOSTA) - Sono circa 300 gli ’angeli custodi’ che vigileranno sulla sicurezza del papa durante le sue vacanze montane a Les Combes, frazione del comune valdostano di Introd. La questura di Aosta ha predisposto un servizio di sorveglianza, 24 ore su 24, in cui saranno impiegati 200 uomini - tra polizia, carabinieri, guardia di finanza, corpo forestale e polizia locale. A questi vanno aggiunti gli agenti dell’ispettorato che seguono da Roma il papa, la vigilanza vaticana, la polizia stradale e - durante gli eventi pubblici - la protezione civile.
Un piccolo esercito per misure che si preannunciano imponenti, considerato il fatto che Benedetto XVI trascorrerà gran parte delle sue giornate nello chalet di Les Combes e nei sentieri vicini. A Introd ci saranno anche i reparti specializzati: artificieri, tiratori scelti e unità cinofile, oltre agli uomini dell’ispettorato generale della polizia presso il Vaticano e quelli della sicurezza vaticana. I boschi e le zone limitrofe saranno continuamente tenuti sotto controllo da personale qualificato. Sono previsti anche servizi di filtraggio sulla strada di accesso alla casa di vacanza e sono stati intensificati i controlli alle stazioni, ai trafori e alle uscite dell’autostrada Aosta-Torino. A coordinare la macchina della sicurezza sarà il questore di Aosta. Da oggi e per tutto il soggiorno del papa, per un raggio di 6 miglia il cielo di Les Combes sarà inibito a qualsiasi oggetto in grado di volare, parapendio compreso.
Il cattolico adulto che il Papa non vuole
di Vito Mancuso
in "la Repubblica" del 6 luglio 2009 *
Nell’omelia di chiusura dell’Anno paolino Benedetto XVI ha dedicato la sua attenzione al concetto di "fede adulta". Si tratta di un’espressione con esplicite radici bibliche, cara a un filone importante della teologia del ’900 (così il teologo martire antinazista Dietrich Bonhoeffer: «Il mondo adulto è senza Dio più del mondo non adulto, e proprio perciò forse più vicino a lui»), divenuta famosa nella vita politica italiana per l’uso che ne fece l’allora premier Romano Prodi rifiutando l’allineamento sull’astensione voluto dalla Conferenza episcopale in ordine al referendum sulle tematiche bioetiche.
Il ragionamento di Benedetto XVI si può riassumere così: 1) È necessaria una fede adulta: «Con Cristo dobbiamo raggiungere l’età adulta, un’umanità matura. Paolo desidera che i cristiani abbiano una fede matura, una fede adulta». 2) La fede adulta passa per il rinnovamento del pensiero: «La nostra ragione deve diventare nuova. Il nostro modo di vedere il mondo, di comprendere la realtà - tutto il nostro pensare deve mutarsi a partire dal suo fondamento». 3) C’è un modo giusto e un modo sbagliato di rinnovare il pensiero in vista di una fede adulta, e il modo sbagliato è il seguente: «Fede adulta negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere - una fede fai da te, quindi» (corsivi di Benedetto XVI).
Come una pubblicità di qualche anno addietro ironizzava sui turisti fai da te che finivano inevitabilmente nei guai, così il papa descrive quei credenti che per la loro visione del mondo scelgono di vagliare autonomamente quanto ospitare, o non ospitare, nella mente. La critica papale diviene a sua volta ironica ("battuta impagabile", commenta un editoriale di Avvenire) col dire che tale discernimento autonomo «lo si presenta come coraggio di esprimersi contro il Magistero della Chiesa, mentre in realtà non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso» (corsivo di Benedetto XVI).
Qual è invece per il papa il modo giusto di vivere una fede adulta? Lo si ricava facilmente volgendo al contrario le sue critiche: non scegliere autonomamente quanto ospitare nella propria mente, ma ascoltare la Chiesa e i suoi Pastori, laddove il verbo ascoltare va inteso nel senso forte di obbedire. La maturità della fede si misura quindi sul livello di obbedienza alla gerarchia ecclesiastica. Il che vale anche per il coraggio, per nulla necessario quando si tratta di criticare la Chiesa (perché anzi si ricevono gli applausi del mondo) ma indispensabile nel caso contrario: «Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo schema del mondo contemporaneo». In sintesi il perfetto cattolico per Benedetto XVI è chi vive la fede come obbedienza a quanto stabilito dalla gerarchia ecclesiastica, senza temere di contrastare il mondo e i suoi falsi applausi.
Ma perché il papa insiste così tanto sull’obbedienza alla Chiesa? Non certo perché vuole trasformare i cattolici in un esercito di soldatini senza razionalità, ma perché è convinto che solo aderendo in toto alla dottrina della Chiesa si aderisce alla pienezza della verità e della razionalità. La ragione infatti gioca da sempre un ruolo essenziale nella teologia di Ratzinger: «La fede cristiana è oggi come ieri l’opzione per la priorità della ragione e del razionale», scriveva da cardinale, aggiungendo che «con la sua opzione a favore del primato della ragione, il cristianesimo resta ancora oggi razionalità».
Nel celebre discorso di Ratisbona del settembre 2006 il termine ragione coi suoi derivati ricorre per ben 43 volte. A questo punto appaiono chiari i due pilastri su cui si regge l’impostazione papale: da un lato l’autorità della Chiesa, dall’altro l’autorità della ragione. Lo specifico dell’architettura ratzingeriana sta nel mostrare che in realtà i due pilastri sono uno solo, perché tra la dottrina della Chiesa e la razionalità c’è, per il papa, perfetta identità. Per questo egli sostiene che il cristiano veramente adulto è colui che obbedisce alla Chiesa e ai suoi Pastori senza vagliare autonomamente i contenuti da credere, e con questa obbedienza compie perfettamente l’esigenza di razionalità intrinseca in ogni uomo giungendo alla pienezza della verità. L’equazione è cristallina: «Dottrina ecclesiastica = razionalità = verità».
Ma è proprio così? Io temo di no. Senza entrare in complesse argomentazioni teoretiche che ci condurrebbero alla teologia apofatica, è sufficiente un’occhiata alla storia per rendersi conto che non è sempre così e che qualche volta la Chiesa con la sua dottrina stava da una parte e la verità e la razionalità dall’altra. Tralascio lo scontato riferimento alle verità scientifiche e faccio riferimento alla libertà religiosa, oggi tanto spesso difesa dal papa ma fino al Vaticano II osteggiata dal magistero cattolico. Benedetto XVI sa benissimo che se oggi lui sostiene la libertà religiosa in tutte le sedi istituzionali del pianeta lo deve anche a un cattolico adulto quale Felicité de Lamennais che la promosse senza temere di contraddire il magistero della Chiesa del tempo. E quindi chi era più vicino alla verità, Lamennais, cattolico dalla fede adulta non sempre allineato alla Chiesa e ai suoi Pastori, oppure papa Gregorio XVI che per la difesa della libertà religiosa lo scomunicò?
Lo stesso vale per una materia ancora più importante per il cristianesimo, cioè la Bibbia. Benedetto XVI sa benissimo che se oggi la Chiesa cattolica promuove intensamente la lettura della Bibbia lo deve prima ai protestanti e poi ai quei cattolici adulti non sempre allineati (un esempio tra tutti, Pasquier Quesnel) che nel passato lottarono contro il magistero che ai laici ne proibiva la lettura. E quindi, chi era più vicino alla verità, Quesnel, cattolico dalla fede adulta non sempre allineato alla Chiesa e ai suoi Pastori, oppure papa Clemente XI che per la promozione della lettura della Bibbia lo condannò?
È impossibile negare che oggi di fatto la Chiesa insegna alcune idee promosse da cattolici adulti del passato, oggetto, quando le manifestarono, di esplicite condanne ecclesiastiche. Una significativa controprova è rappresentata dai lefebvriani, perfetta fotografia di come sarebbe oggi la Chiesa cattolica se non avesse dato ascolto a quei cattolici dalla fede adulta grazie ai quali si è attuato il rinnovamento conciliare. Nella ricerca della verità e della giustizia non bisogna mai interrompere l’ascolto di ciò che lo Spirito dice alla Chiesa, senza cercare l’applauso del mondo, ma neppure senza temere le condanne della gerarchia.
Caritas in veritate
Consiglio a sinistra, leggetevi il Papa
di Ritanna Armeni (il Riformista, 08.07.2009)
Un consiglio a sinistra: leggere e sottolineare l’enciclica di Benedetto XVI "Caritas in veritate". Poi fermarsi a riflettere su se stessi, su quello che i partiti di sinistra, di centrosinistra, laici e cattolici hanno detto e fatto negli ultimi anni sul lavoro e sui lavoratori. E, quindi, trarne le conclusioni. Io l’ho fatto. La conclusione che ne ho tratto è molto semplice. Caritas in veritate contiene molte idee e valori storicamente definiti di sinistra. E sui quali la sinistra farebbe bene a tornare. E molte, molte idee che negli ultimi anni ha messo in soffitta, se non addirittura rinnegato.
Lo so bene. Le encicliche sociali sono sempre state attente ai mutamenti del mondo del lavoro e hanno espresso l’anima profondamente solidale di una istituzione antica e complessa come la Chiesa. Alla fine dell’800 ha fatto scandalo quella "Rerum novarum" che chiedeva un salario giusto che permettesse il sostentamento dignitoso del lavoratore e della sua famiglia. Già nella "Quadragesimo anno" di Pio XI si descriveva un’economia «orribilmente dura, inesorabile, crudele». E in "Mater et Magistra" Giovanni XXIII definisce senza mezzi termini «ingiusto» un sistema economico che comprometta o sia di impedimento alla dignità umana. Anche nel caso - aggiungeva - che «la ricchezza in esso prodotta attinga quote elevate e venga distribuita secondo criteri di giustizia e di equità».
Ma proprio qui è il punto. Ancora una volta la dottrina sociale della Chiesa attraverso Benedetto XVI sceglie la radicalità della sua verità e non si fa incantare dalle sirene del pensiero dominante. Dalle sirene della globalizzazione, in questo caso, che con i loro canti hanno affascinato e incantato anche la sinistra.
Nessuna confusione offusca il messaggio sociale della Chiesa che rimane fermo "in veritate", vede la situazione per quello che è e chiede che in essa sia immessa, cresca e si sviluppi la caritas, cioè l’amore, la solidarietà, il rispetto per l’uomo e per la donna. E allora è vero - è, appunto, in veritate - che nel mondo globalizzato «la mobilità lavorativa, associata a una deregolamentazione generalizzata, è stata un fenomeno importante, non privo di aspetti positivi» ma la caritas, cioè l’attenzione agli uomini e alle donne fa vedere quanto «l’incertezza circa la condizioni di lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione» abbia portato a «forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell’esistenza, compreso quello verso il matrimonio. Conseguenza di ciò - dice l’enciclica - è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale».
Leggere, sottolineare e riflettere. Altro che precarietà buona e precarietà cattiva, altro che gli innumerevoli dibattiti sulla necessità che il mercato sia libero da lacci e laccioli e che i lavoratori rinuncino al mondo del lavoro fisso e siano felici nella nuove flessibilità . La caritas fa vedere il degrado, l’infelicità, lo spreco di energie, la mancanza di senso del lavoro nella globalizzazione. Sbaglio o a sinistra di questo si è parlato poco o niente? Sbaglio o ci si è arresi alle regole del mercato ritenute inviolabili e necessarie anche quando toccavano pesantemente la vita delle persone? Sbaglio o ci si è limitati a proporre o a sostenere leggi che ordinavano l’esistente senza mai proporsi un cambiamento del degrado?
Per molti anni si è rinunciato alla caritas, non si è guardata alla verità con gli occhi dell’amore e della solidarietà. E questo ha impedito, ahimé, anche di guardare davvero la realtà. Quella dell’impresa, ad esempio, che oggi appare dominata «da una classe cosmopolita di manager che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi...». O al ruolo della Stato di cui «ragioni di saggezza e di prudenza - dice l’enciclica - suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine» - anzi, si aggiunge - «in relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere...».
Leggere e sottolineare. L’invito è anche per i sindacati. La luce della caritas, renderebbe chiaro che non minore, ma maggiore deve essere il ruolo delle organizzazioni sindacali che oggi appaiono chiuse nella difesa dei propri iscritti e invece dovrebbero volgere «lo sguardo anche verso i non iscritti, e, in particolare, verso i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso violati». E sottolineare anche la parte sull’immigrazione. Per chiedersi a sinistra quanto si sia effettivamente combattuta la battaglia perché gli immigrati «non siano considerati una merce o una mera forza lavoro» e «non siano trattati come qualsiasi altro fattore di produzione».
Quando la battaglia contro il decreto sicurezza si fa, come ha fatto gran parte della sinistra, non in nome della solidarietà, dell’amore e dell’accoglienza, ma in nome dell’efficacia di norme sulla sicurezza proposte dal governo è inevitabile la rinuncia alla caritas.
E soprattutto a sinistra si rifletta su quella parte dell’enciclica che propone «l’esperienza stupefacente del dono» perché il dono è il superamento se non il contrario del merito, parola tanto incantatrice quanto illusoria che usata per giustificare l’assenza in tante sue proposte della caritas. Il dono è l’eccedenza, il gratuito, il di più, quello che non è contemplato nelle regole del mercato, che supera anche la giustizia.
Il dono non è uno smottamento sentimentale, ma una scelta razionale. Questo dice Benedetto XVI. E senza citarla rimanda alla bellissima parabola della vigna. Il padrone della vigna dà un denaro come pattuito a chi aveva lavorato tutta la giornata, ma anche a chi aveva lavorato solo poche ore. I primi - racconta Matteo - nel ritirarlo, mormoravano contro il padrone dicendo: questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi». Ancora: leggere, sottolineare e riflettere.
Lettera aperta al papa Benedetto XVI perché non riceva Berlusconi in udienza né pubblica né privata dopo il g8 dell’Aquila
di Paolo Farinella, prete
RACCOLTA DI FIRME
Firmate su MicroMega l’appello al papa perché non riceva Berlusconi a questo indirizzo:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/
Con sgomento apprendiamo dalla stampa l’eventualità che lei possa concedere udienza privata all’attuale presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi. Egli per parare il diluvio di indignazione e disprezzo che gli si è scatenato contro a livello mondiale per i suoi comportamenti indecenti che vanno anche contro la morale cattolica che tanto sbandiera nei suoi deliranti proclami, ha fatto capire che dopo il g8 cercherà di strappare alla Santa Sede un incontro con il Pontefice a conclusione del summit dell’Aquila. L’unico modo, a suo giudizio, per «troncare le polemiche».
Mons. Mariano Crociata, segretario della Cei, senza fare riferimenti personali, ha detto parole gravi che avremmo voluto ascoltare già da tempo, ma non è mai troppo tardi. Il segretario della Cei afferma che stiamo assistendo «ad un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile». Non si deve quindi pensare che «non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati, soprattutto quando sono implicati minori» (Omelia in memoria di Santa Maria Goretti, a Latina 5 luglio 2009).
Sì, perché tra le varie sconcezze del presidente del consiglio (compagnia con donne a pagamento), vi sono riferimenti precisi di rapporti con minorenni (testimonianza della moglie) e di cui il presidente ha dato diverse differenti letture, nonostante abbia spergiurato sulla testa dei figli.
Le parole del segretario della Cei hanno toccato nel segno la depravazione in cui è caduta la presidenza del consiglio italiana, disperatamente alla ricerca di un salvagente per salvare la faccia e offendere il mondo civile e cattolico con lo show dell’udienza. A Silvio Berlusconi nulla importa del papa e della Chiesa cattolica e della sua morale come della dottrina sociale, a lui interessa di farsi vedere «urbi et orbi» insieme al papa e così cercare di parare le richieste pressanti che da tutto il mondo arrivano perché esca di scena dignitosamente, se ne capace.
La supplichiamo, per amore della sua e nostra Chiesa, che è ancora inorridita e scossa, non lo riceva pubblicamente né privatamente perché lei darebbe un colpo mortale alla credibilità della gerarchia della Chiesa che ha preso posizione solo dopo la mobilitazione del mondo cattolico e del mondo civile che in internet ha raggiunto livelli di esasperazione molto elevati. Se lo riceve, la visita sarà usata strumentalmente per dire che il papa è con Berlusconi e quindi tutte le sue ignominie, depravazioni e corruttele troverebbero facile copertura morale.
La morale che lei dovrebbe rappresentare diventerebbe una farsa di copertura dell’immoralità di un uomo presuntuoso e malato che ancora non si è degnato di rispondere pubblicamente del suo operato come ha chiesto la libera stampa, mentre è andato in tv dove senza contraddittorio, ha esaltato le sue gesta di corrotto corruttore, aggiungendo sprezzante a sua giustificazione che «la gente mi vuole così».
Inevitabilmente lei diventerebbe complice agli occhi dei fedeli semplici e dei non credenti ancora attenti alla Chiesa. In nome di Dio e della dignità del nostro popolo e della serietà dell’etica non lo riceva, perché se lo riceve, lei perderà moltissimi fedeli che già sono sulla soglia.
In fede
Genova, 8 luglio 2009
Paolo Farinella, prete
(seguono firme)
FIRMATE
di don Aldo Antonelli
Scusate il mio silenzio, che non è un silenzio omertoso o di connivenza.
Sono stato fuori sede ed ora mi ritrovo a dover fare una cernita di tutti i messaggi che mi ritrovo.
Ho, comunque , firmato l’appello dell’amico Paolo Farinella al Papa perché non riceva
Berlusconi e, nel firmare, ho aggiunto questo commento:
Si abbia il coraggio di dire dei NO!
No ai dittatori
No ai ghigliottinai
No ai sanguisuga
No agli sfruttatori
No ai libertini e agli sciupafemmine
No a colui che assomma in se tutte queste categorie di immoralità politica, sociale e di costume: Silvio Berlusconi.
Diversamente il Vaticano diventerà sempre più luogo di riciclaggio di personaggi sporchi, così come le banche lo sono per i soldi.
Aldo Antonelli