La fatica della solitudine
di Barbara Spinelli (La Stampa, 11.02.2007)
Che l’essere umano possa sentirsi solo in un universo difficile, e abbandonato dai simili proprio quando è da questi più attorniato, la Chiesa dovrebbe saperlo, conoscerlo. Lo ha imparato dall’abbandono di Cristo, e dagli infelici che Cristo proteggeva. Lo ha sperimentato quando era minoranza perseguitata. Lo ha appreso quando contemplò l’estenuarsi del mondo pagano, sul finire della civiltà romana, e i cristiani assorbirono quell’ansia estenuata dando alla fede la straordinaria forza delle proprie forme, dei propri riti. Era il secondo e terzo secolo, e non c’era mai stata tanta miseria in Europa. La Chiesa comprese questa sofferenza e la portò sulle spalle.
Senza disperazione dell’uomo non ci sarebbe stato cristianesimo; se la disperazione venisse meno torneremmo al paganesimo, sostengono grandi studiosi dei primi cristiani come Eric Dodds o André-Jean Festugière.
Oggi vediamo apparire nel mondo lo stesso essere umano, derelitto come l’aveva descritto Epitteto in un terribile passaggio dei Discorsi: «Lo stato di disperazione solitaria è la condizione di chi è senza aiuto. Giacché (a Roma) non siamo derelitti solo se siamo soli, allo stesso modo in cui un uomo dentro la folla non smette necessariamente d’esser derelitto. Non è la vista di un essere umano in quanto tale che mette fine alla nostra condizione di derelizione, ma la vista di un essere umano fiducioso, modesto, desideroso d’aiutare» (Epitteto, Discorsi, III).
È questo che la Chiesa fatica a fare, a essere, davanti all’uomo che di nuovo si scopre solo, eremos. Eremos è colui cui manca qualcosa di fondamentale, e ne è devastato. La parola ha anche significato giuridico: un processo è eremos se non c’è il difensore. Proprio il cristiano che ha inventato il vivere eremitico può capire come due individui cerchino di vivere insieme la frammentazione della società, decidendo di dare stabilità ai propri rapporti di amore, amicizia o fratellanza.
Una parte del clero non riesce a essere quell’uomo fiducioso, riservato, desideroso d’aiutare, che il pagano Epitteto cercava e che la Chiesa diede all’Europa sofferente. C’è una singolare dimenticanza di tutto questo nell’offensiva delle gerarchie ecclesiastiche contro Pacs e Dico, ed è una dimenticanza che produce forme inconsapevoli di crudeltà: pur di difendere un dogma - l’unico amore benedetto è quello che si esprime nella forma, stabile e feconda, del matrimonio - si nega a tutti coloro che pensano in modo diverso l’amore o la fraternità di presentare la propria via come non meno impegnativa. Si nega lo smarrimento che caratterizza la nostra epoca, e il fatto che una legge sulle convivenze fronteggia tale smarrimento. Si nega lo scorrere della storia, cui il cristianesimo si è adattato mirabilmente nei secoli senza sottovalutare l’importanza del diritto positivo.
Ripercorrere l’era del primo cristianesimo è importante perché essa è così simile alla nostra: stessa sensazione di declino, stessa solitudine di individui privi di protezioni giuridiche, stesso sovvertimento del lavoro, dell’economia, stessa sete di riconoscimento da parte di chi è nell’abbandono. Oggi s’aggiunge la paura del clima che si degrada.
La famiglia ferita è anche frutto di queste circostanze, e da tempo ha cessato di essere l’istituto stabile e prolifico spesso celebrato. Non sta morendo un patto d’amore che è il solo a essere romanticamente eroico, nutrito da folli scommesse sull’eternità. Sta morendo un patto che si rivela fragile per antichi vizi e per le stesse virtù che nel frattempo ha acquisito: virtù dell’individualismo, di volontà soggettive che prevalgono sulla natura sociale dell’istituto.
La pietas, l’immedesimazione nella vita dell’altro dovrebbero aiutare a vedere questa realtà: è anche ai difetti dell’individualismo che i nuovi modi di convivenza rispondono, perché l’uomo non sia eremos involontario sulla terra. Che la convivenza riconosciuta sia una risposta al dilatarsi delle soggettività individuali lo dice un uomo della Chiesa, il cardinale Martini. Accennando al cristianesimo dei primordi, egli ricorda come la famiglia sia diventata centrale per la Chiesa molto tardi, alla fine dell’800. Non c’era bisogno di citarla continuamente, quando l’istituzione era davvero naturale e feconda.
Nel Nuovo Testamento non appare un vocabolo che corrisponda al termine famiglia, anche se Gesù esalta l’unità indissolubile di quel che Dio unisce. La famiglia, la madre, il padre: Gesù ordina di trascenderli se si vuol avvicinare il regno di Dio. Il matrimonio è un’invenzione grandiosa ma la Chiesa «ha, magari inconsapevolmente, contribuito al suo sgretolamento. Troppo a lungo forse si è lasciata prevalere un’idea giuridica ed economica del rapporto di convivenza, destinato quasi solo alla procreazione della prole» (Carlo Maria Martini, discorso per la vigilia di S. Ambrogio, 2000).
Hanno contribuito i dogmi a indebolirlo, e le «predicazioni enfatiche», la «censura evangelica», il «panico di accerchiamento e le recriminazioni senza frutto» della Chiesa, le dottrine «vagamente umanistiche e rassicuranti» che lasciano «il singolo nella solitudine». Infine, ha contribuito il mondo affannoso, spesso feroce, in cui vive oggi un giovane che voglia edificare il futuro senza sentirsi, come l’uomo di Epitteto, privo d’aiuto giuridico.
C’è la difficoltà di trovar casa, dunque di separarsi dalle famiglie: il «ritorno dai genitori» è abnorme in Italia, spiega uno studio della Fondazione Agnelli (Generazioni, famiglie, migrazioni. Pensando all’Italia di domani). C’è il lavoro precario, che complica i progetti d’aver figli.
Il desiderio di costruire unioni alternative non ha niente a che vedere con l’effimero, l’occasionale. È un modo di difendere almeno i legami intimi dalla precarietà generalizzata, di reintrodurre l’idea del patto e del contratto in una vita economica che sempre più l’esclude.
Chi reclama il riconoscimento delle unioni, eterosessuali o omosessuali, sta costruendo una nuova obbedienza. In genere, aspira al diritto di avere dei doveri: dovere di stare accanto all’amato-amico nella sua agonia, dovere di pensare al suo futuro, dovere di dargli tempo, sicurezza, vicinanza.
L’adozione dei figli da parte degli omosessuali è scabrosa. Ma anche qui cosa è meglio: un bambino affidato a due omosessuali che si amano o un bambino che resta in impersonali orfanotrofi? Chi si scaglia contro Dico e Pacs ignora che i tratti oblativi dell’amore, citati dal cardinale Martini, stanno crescendo più nelle unioni di fatto che nei matrimoni. Cosa di più oblativo che prendersi cura di un neonato e farlo crescere?
I figli nascono molto più fuori dai matrimoni che dentro, anche questa realtà è indicata dalla Fondazione Agnelli: dal 2001, le nascite dentro il matrimonio sono diminuite mentre quelle fuori sono in deciso aumento. La coppia di fatto è frutto di un mal-vivere, che soprattutto in Italia spinge a restare in famiglia o a ritornarvi, con un senso crescente di scacco. È il tentativo sperimentale di ritrovare l’età d’oro perduta: per quel tanto, o poco (più probabilmente poco) che durano le cose mortali.
L’uso politico che si fa della sofferenza e dei suoi modi di superarla è l’aspetto triste delle vicende italiane, lo si è visto nel caso Welby. I cattolici conservatori del governo e la Chiesa hanno il diritto di dire a voce alta le loro convinzioni.
Per ribadire tale diritto, L’Avvenire ha evocato il non possumus, il 6 febbraio, riferendosi non solo a papi del passato ma alla parresia - al dovere di parlare liberamente - che Pietro e Giovanni difendono davanti al Sinedrio («Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato», Atti degli Apostoli, 4, 20).
Non possumus, scrive il giornale della Conferenza episcopale: ma lo dice politicamente, non profeticamente. Come ricorda Gustavo Zagrebelsky (Repubblica, 9 febbraio) la Cei non parla del proprio Stato, del proprio potere spirituale, quando indica «uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana». Parla del futuro della politica italiana e s’accinge a determinarlo come fosse un partito italiano.
Ignorare la Chiesa non si può, è parte della nostra cultura. Ma è parte della nostra cultura con tutto quello che alla sua storia è congiunto: il paganesimo, l’esaltazione ellenica della Ragione e anche i miti greci della resurrezione e della metamorfosi, della conversione, del sapere tragico e dell’estasi. Il verbo di Gesù è severità morale e anche rinascita del mito di Dioniso.
Basta leggere le Dionisiache del cristiano Nonno di Panopoli, scritte nel V secolo, per vedere come intenso sia il legame tra i due miti, il cristiano e il dionisiaco: il vino, l’alleviamento del dolore, l’amore del prossimo, la luce della parola. Gesù è apparso sulla terra per alleviare il dolore e proporre una via ardua, ma trasfigurata dal vino. Ha incensato l’unione indissolubile di quel che Dio unisce e al tempo stesso ha detto che bisognava trascendere la famiglia. Ha rifatto nuovo il mondo, perché il mondo era malato. Forse bisogna rifarlo nuovo anche adesso.
Sul tema - e per il richiamo al "discorso per la vigilia di S. Ambrogio" (2000) di Carlo Maria Martini, nel sito, si cfr.:
A "Israele"! RIPENSARE L’ "AMERICA", e il sogno del "nuovo mondo". La lezione di FRANZ KAFKA
Politica - PACS...DICO e la CEI
Un appello di Giuseppe Alberigo *
La chiesa italiana, malgrado sia ricca di tante energie e fermenti, sta subendo un’immeritata involuzione.
L’annunciato intervento della Presidenza della Conferenza Episcopale, che imporrebbe ai parlamentari cattolici di rifiutare il progetto di legge sui "diritti delle convivenze" é di inaudita gravità.
Con un atto di questa natura l’Italia ricadrebbe nella deprecata condizione di conflitto tra la condizione di credente e quella di cittadino. Condizione insorta dopo l’unificazione del Paese e il "non expedit" della S.Sede e superata definitivamente solo con gli accordi concordatari. Denunciamo con dolore, ma con fermezza, questo rischio e supplichiamo i Pastori di prenderne coscienza e di evitare tanta sciagura, che porterebbe la nostra Chiesa e il nostro Paese fuori dalla storia.
Si può pensare che il progetto di legge in discussione non sia ottimale, ma è anche indispensabile distinguere tra ciò che per i credenti é obbligo, non solo di coscienza ma anche canonico, e quanto deve essere regolato dallo stato laico per tutti i cittadini. Invitiamo la Conferenza Episcopale a equilibrare le sue prese di posizione e i parlamentari cattolici a restare fedeli al loro obbligo costituzionale di legislatori per tutti.
Giuseppe Alberigo, Bologna
Se sei d’accordo scrivi qui la tua adesione
* www.ildialogo.org, Mercoledì, 14 febbraio 2007
Se la Chiesa sfida la Costituzione
di Stefano Rodotà (“la Repubblica”, 14 febbraio 2007)
È ormai evidente che le gerarchie ecclesiastiche hanno deciso di collocare i loro interventi e le loro iniziative in una dimensione che va ben al di là del legittimo esercizio della libertà d’espressione e dell’altrettanto legittimo esercizio del loro magistero. Giudicano i nostri tempi con una drammaticità che fa loro concludere che solo una presenza diretta, non tanto nella società, ma nella sfera propriamente politica, può rendere possibile il raggiungimento dei loro obiettivi. E cosi espongono anche i loro comportamenti ad un giudizio analogo a quello che dev’essere pronunciato sull’azione di qualsiasi soggetto politico.
Benedetto XVI ha affermato in modo perentorio che «nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto con il diritto naturale». Ed ha aggiunto che non si possono ignorare «norme inderogabili e cogenti che non dipendono dalla volontà del legislatore o dal consenso degli Stati, ma precedono la legge umana e per questo non ammettono deroghe daparte di nessuno». Di rincalzo, il Presidente della Commissione Episcopale Italiana, il cardinale Camillo Ruini, da almeno dieci anni protagonista indiscusso del corso politico della Chiesa, ha annunciato una nota ufficiale con la quale verrà indicato il modo in cui i cattolici, e i parlamentari in primo luogo, dovranno comportarsi di fronte al disegno di legge sui "diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi", i cosiddetti "Dico". Così, in un colpo solo, viene aperto un conflitto con il Governo, affermata la sovranità limitata del Parlamento, azzerata la Costituzione.
Le parole sono chiare. Se nessuna legge può sovvertire la norma indicata dal Creatore per la famiglia, la legittima approvazione del disegno di legge sui Dico diviene un atto "sovversivo" del Governo. Se i parlamentari cattolici devono votare secondo le indicazioni della Chiesa, viene cancellata la norma costituzionale che prevede la loro libertà da ogni "vincolo di mandato" e l’autonomia e la sovranità del Parlamento devono cedere di fronte ad istruzioni provenienti da autorità esterne. Se non sono ammesse leggi che non corrispondono al diritto naturale, la tavola dei valori non è più quella che si ritrova nella Costituzione, ma quella indicata da una legge naturale i cui contenuti sono definiti esclusivamente dalla Chiesa.
Il crescendo dei toni e delle iniziative, nell’ultimo periodo soprattutto, rendevano prevedibile questa conclusione, peraltro annunciata dal "Non possumus" proclamato qualche giorno fa. Viene così clamorosamente confermata l’analisi che aveva colto nella linea della Chiesa l’intento di realizzare molto di più di un provvisorio allineamento della politica su una particolare posizione definita dalle gerarchie ecclesiastiche, di cui i parlamentari cattolici divenivano il braccio secolare. L’obiettivo era ed è assai più ambizioso: una vera "revisione costituzionale", volta a sostituire il patto tra i cittadini fondato sulla Costituzione repubblicana con unvincolo derivante dalla gerarchia di valori fissata una volta per tutte dalla Chiesa attraverso una sua versione autoritaria del diritto naturale (non dimentichiamo, infatti, che il diritto naturale conosce anche molte altre versioni, comprese quelle che non prevedono proprio la famiglia tra le istituzioni discendenti da tale diritto). Viene così travolto anche l’articolo 7 della Costituzione che, disciplinando i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, stabilisce che questi due enti sono, "ciascuno nel proprio ordine", "indipendenti e sovrani". Nel momento in cui la Chiesa proclama chevisono "norme inderogabili e cogenti" che non possono essere affidate alla volontà del legislatore, nega in queste materie l’autonomia e l’indipendenza dello Stato e sostituisce la propria sovranità a quella delle istituzioni pubbliche. Il patto costituzionale tra Chiesa e Stato viene infranto, quasi denunciato unilateralmente.
Questo è il quadro istituzionale e politico disegnato con assoluta nettezza dai molti interventi vaticani. Un quadro di rotture e di conflitti, davvero sovversivo delle regole costituzionali, con una delegittimazione a tutto campo delle iniziative di Governo e Parlamento che trasgrediscano ciò che la Chiesa, unilateralmente, stabilisce come "inderogabile e cogente". Sapranno le istituzioni dello Stato rendersi conto di quel che sta accadendo? Non devono ritrovare solo l’orgoglio della propria funzione, ma il senso profondo della loro missione, la stessa loro ragion d’essere, che ne fa il luogo di tutti i cittadini, credenti e non credenti, comunque liberi e degni d’essere rispettati in ogni loro convinzione, e in ogni caso fedeli, come devono essere, alla Costituzione e ai suoi valori.
I Dico dell’anno 400
di Gian Carlo Caselli *
Scherza coi fanti e lascia stare i santi. So bene che queste parole sono un condensato di prudenza e saggezza. So anche che in un clima di forte tensione su «Pacs», «Dico» e «unioni di fatto» (caratterizzato da ferme prese di posizione d’Oltretevere e preoccupate reazioni dei difensori della laicità dello Stato) affrontare temi così arroventati con propositi di leggerezza e distacco - senza indossare questa o quell’altra armatura - può essere rischioso per le tante suscettibilità in agguato. Tutto vero. Per cui fin da subito mi pento e mi dolgo se mi permetto di dire che non so se esista davvero una lobby contro la famiglia nel riconoscere le coppie di fatto.
Ma se mai esistesse, la si potrebbe ricollegare ad un autorevole precedente storico.
Un singolare precedente: quasi un cavallo di Troia in terra... fidelium. Perché si tratta del canone di un Concilio. Per la precisione il canone 17 del primo Concilio di Toledo (anno 400 d.C.) Dunque, un precedente da sgranare tanto d’occhi, da non crederci: perché sono stati addirittura dei Vescovi in Concilio a stabilirlo.
Nel canone 17 del primo Concilio di Toledo si legge: «Si quis habens uxorem fidelis concubinam habeat, non communicet: ceterum is qui non habet uxorem et pro uxore concubinam habeat, a communione non repellatur, tantum ut unius mulieris, aut uxoris aut concubinae, ut ei placuerit, sit conjunctione contentus; alias vero vivens abijciatur donec desinat et per poenitentiam revertatur». È un latino facile. In sostanza dice che la convivenza sessuale è lecita soltanto quando sia con una sola donna. Ma precisa che la convivenza sessuale con una sola donna è consentita (e perciò non comporta scomunica) non solo quando si tratta di «moglie», ma anche quando si tratta di «concubina tenuta come fosse moglie». In altre parole, per la Chiesa del 400 c’erano alcune unioni di fatto, non costituenti matrimonio, considerate legittime perché sostanzialmente assimilabili al matrimonio.
Impossibile, ovviamente, trarne insegnamenti vincolanti o anche solo utili per la stagione che stiamo oggi vivendo in Italia. Dopo milleseicento e passa anni tutto cambia. Uomini, leggi, canoni, principi, rapporti fra Stato e Chiesa, dottrine e prassi. La «flessibilità» di una quindicina di secoli fa potrebbe oggi apparire semplicemente anacronistica. Ma ricordarla si può. E chissà che non possa contribuire - anche solo per un attimo - a svelenire il dibattito, preferendo ai toni da guerra di religione quelli di un più pacato confronto. Magari ironizzando sul fatto che in Spagna un po’ di «zapaterismo» - si direbbe - sembra aleggiare già nell’anno 400. Addirittura in un Concilio.
* l’Unità, Pubblicato il: 24.02.07, Modificato il: 24.02.07 alle ore 10.09
DICO: ROMA SUONA LA ’SVEGLIA’ DEI DIRITTI *
ROMA - Il conto alla rovescia e’ stato scandito da tutte le personalità presenti sul palcoscenico della manifestazione per i Dico a piazza Farnese e alle sei suona ’la sveglia’ dei diritti. Alle 18, infatti, tutta la piazza ha fatto scattare sveglie, fatto suonare fischietti e cellulari, e applaudito per chiedere una sveglia sui diritti civili.
CECCHI PAONE LASCIA PER PROTESTA LA MANIFESTAZIONE
Il conduttore televisivo Alessandro Cecchi Paone ha rinunciato a condurre la manifestazione a sostegno di una legge di riconoscimento delle unioni civili e per protesta contro gli organizzatori ha lasciato Piazza Farnese. Pierluigi Diaco, l’altro conduttore della kermesse, ha provato a richiamarlo dal palco, ma il presentatore non si è fatto vedere. Prima di salire sul palco e cominciare ad attendere silenziosamente il suo turno, dopo Diaco, Cecchi Paone aveva avuto un pesante battibecco con uno degli organizzatori dell’ evento: "Ma siete matti, mi hanno chiamato cento volte per dirmi di non parlare contro la Chiesa e di non dire una parola contro il Vaticano. Ma dico, stiamo scherzando?". Poi si era allontanato per prendere posto accanto agli ospiti della manifestazione. Quando ormai Diaco stava per dargli la parola, Cecchi Paone ha preferito andarsene.
ORGANIZZATORI, SIAMO DIVENTATI 80 MILA IN PIAZZA
"Siamo diventati 80 mila". Lo ha appena annunciato dal palco la conduttrice Delia Vaccarelli. La folla ha applaudito a lungo la notizia.
PRODI, PERPLESSO SULLA PRESENZA DEI MINISTRI
"Non ho mai nascosto la mia perplessità riguardo la partecipazione dei ministri a queste manifestazioni, che possono poi ricoprire significati diversi da quello da cui partono". Così il premier Romano Prodi ha risposto a Bologna ai giornalisti che gli hanno chiesto se sia un problema la partecipazione di alcuni ministri alla manifestazione romana sui Dico. "Però - ha aggiunto Prodi - speriamo che tutto vada tranquillo".
FASSINO, MANIFESTAZIONE DI ROMA E’ GIUSTA
La manifestazione di Roma sui Dico é "giusta". Non essendoci andato perché impegnato in iniziative per il Partito Democratico in Emilia-Romagna, il segretario dei Ds Piero Fassino ha comunque sottolineato la validità delle motivazioni della manifestazione. "Penso - ha spiegato Fassino a Bologna - che ogni manifestazione vada rispettata, sempre. Io non ho condiviso la manifestazione che fece in novembre la Casa delle libertà contro la Finanziaria a Roma, però ho ascoltato quello che diceva quella piazza e ho cercato di capire perché la gente era lì. Poi ci sono manifestazioni che condivido o meno. Credo che quella di oggi a Roma sia una manifestazione giusta, perché con essa si vuole rendere evidente la irrinunciabilità dei diritti individuali delle persone, la necessità di riconoscere i diritti di ogni persona, quali che siano le sue scelte di vita, l’orientamento sessuale, il modo in cui organizza la propria vita, affettività e relazioni interpersonali". "Naturalmente - ha detto ancora Fassino - bisogna farlo in modo equilibrato e giusto. La legge sui Dico è equilibrata e giusta, perché riconosce diritti a coloro che hanno scelto una convivenza di fatto, omosessuale o eterosessuale, senza peraltro mettere in discussione l’articolo 29 della Costituzione che riconosce la famiglia fondata sul matrimonio". Fassino ha risposto con "parliamo di cose serie" alla domanda sulla posizione di Vladimir Luxuria che, per i contrasti sui Dico, ha chiesto che Paola Binetti, della Margherita, sia espulsa come è successo nel Prc a Franco Turigliatto per il suo no per la presenza militare italiana in Afghanistan.
DILIBERTO, INSOPPORTABILE INTOLLERANZA VATICANO
"Regolamentare i diritti delle coppie di fatto è una scelta di buonsenso. Trovo insopportabile l’intolleranza delle gerarchie vaticane". Oliviero Diliberto, impegnato nella riunione del comitato centrale del Pdci, ha tenuto un incontro con i giornalisti nel quale ha appoggiato tra l’altro la legge sui Dico. "Il governo - ha sottolineato il segretario del Pdci - ha fatto la sua parte, consegnando la sua proposta al Parlamento. E’ evidente che si tratta di un tema eticamente sensibile e politicamente rilevante. Anche per questo mi sembra opportuno attenersi a quanto c’é scritto nel programma dell’ Unione. Noi del resto non chiediamo né di più né di meno".
CAPEZZONE, CDL ILLIBERALE MA GOVERNO HA CREATO IL CAOS
Parte della Cdl ha un comportamento illiberale ma è proprio il governo che ha creato il caos sui Dico e ha fatto "partire la macchina senza benzina". Lo afferma Daniele Capezzone (Rnp), presidente della commissione Attività produttive della Camera. "Non c’é dubbio. Purtroppo - dice Capezzone - un pezzo di Cdl sta tenendo un comportamento illiberale in materia di unioni civili: e a mio avviso, questo atteggiamento chiuso non corrisponde ai sentimenti di quella parte dell’elettorato. Comportamento negativo (e situazione per certi versi anche più grave) pure dall’altra parte. Nonostante l’orientamento di gran parte dell’elettorato di centrosinistra, è proprio il Governo che ha creato il caos, e che ha le maggiori responsabilità". Infatti, c’erano proposte di iniziativa parlamentare che sono state fermate - spiega - in attesa della proposta del Governo. Era chiaro che sarebbe stato un testo al ribasso, e infatti è stato così. Poi, non pago di questo, il Governo ha messo la questione sul binario morto del Senato, ha espunto il tema dalle dodici priorità di Prodi, il quale si è ulteriormente smarcato in un suo recente intervento parlamentare. Insomma, prima si sono sgonfiate le ruote alla macchina, e poi la si è fatta partire senza benzina". "Questo non cancella né copre anche le responsabilità della minoranza - conclude - ma, lo ripeto, sono Governo e maggioranza a doversi assumere il carico delle scelte compiute. Una sequenza di autogol".
OCCHETTO, IN PIAZZA PER DIFENDERE LAICITA’ STATO
"Sono qui in piazza per difendere la laicità dello Stato. Perché la Chiesa non può impedire allo Stato di legiferare, né può imporre in questo modo le sue convinzioni". Lo ha detto Achille Occhetto, intervenendo alla manifestazione in sostegno di una legge sulle unioni civili a Piazza Farnese. "Non sono affatto soddisfatto di questa sinistra - ha aggiunto - perché non è laica. Stiamo tornando indietro di anni. Siamo riusciti persino a retrocedere rispetto alle posizioni sostenute da Alcide De Gasperi. Spero che si possa arrivare ad una buona legge in difesa delle coppie di fatto".
RIZZO, GRANDE GIORNATA PER DIRITTI
"Una giornata importante per i diritti e per le persone e per dire che la Chiesa non può avere una ingerenza tale nella politica italiana". E’ il commento di Marco Rizzo (Pdci) alla manifestazione sui Dico a piazza Farnese a Roma. Alla domanda se il Governo è diviso sul ddl, visto che Mastella parteciperà ad un’ altra manifestazione, Rizzo ha risposto: "E’ un progetto di legge del Governo".
* ANSA » 2007-03-10 19:16
L’inganno dei valori
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 1/4/2007)
La nota pastorale dei vescovi sulla famiglia e sul pericolo rappresentato da leggi che regolino diritti e doveri di altre forme di convivenza ha fatto molta impressione, fuori Italia, ma per motivi diversi da quelli che immaginiamo. Non hanno colpito i toni della Chiesa, meno duri a ben vedere di quelli usati dall’ex presidente della Conferenza episcopale Ruini. Hanno colpito il timore che questi toni hanno suscitato in Italia, lo smarrimento diffusosi nella classe politica, il successo ottenuto in fin dei conti dall’intimidazione. Nel testo di Bagnasco non ci sono né anatemi, né la denuncia di comportamenti sessuali che la Chiesa continua a considerare anomali, devianti. In realtà quest’ultima non ha più bisogno della durezza per imporsi: i politici e la laicità si lasciano intimidire anche con poco, per poi farsi magari sorprendere quando lo stesso Bagnasco dice che da cosa nasce cosa, paragonando l’omosessualità a incesto e pedofilia (salvo in un secondo momento precisare di essere stato male interpretato). A tal punto sono oggi deboli politica e Stato laico, incapaci di difendersi, prede d’ogni sorta di gruppo di pressione. Affermatasi lungo i secoli, l’autonomia della politica da cultura e religione vacilla.
Quest’infermità della politica e delle leggi non è un fenomeno solo italiano. Valori e religione, cultura e morale privata occupano in gran parte dell’Occidente uno spazio centrale, privatizzando e abbassando la politica. Si vincono le elezioni su questi temi, si misura la popolarità dei politici su passioni sino a ieri intime come la paura, l’amore. Assistiamo alla restaurazione di grandi colpe, grandi peccati, e alla sete di punizione che la restaurazione promette.
Colpe sessuali soprattutto, visto che politici stampa e la stessa gerarchia ecclesiastica son divenuti indifferenti a mali ben più cruciali come l’illegalità, la mafia, il rubare, il guerreggiare senza casus belli. Vengono fabbricati anche capri espiatori per questa politica intimista: lo straniero, l’omosessuale, perfino il malato. Il benefico tabù che dai tempi di Auschwitz protegge l’ebreo non vale, singolarmente, per le altre vittime dei Lager: omosessuali, zingari, malati psichici. Per quanto concerne l’Italia non è nuovo. Negli anni 60-70 fu Pasolini, il diverso da abbattere mettendo la giustizia a servizio di quello che venne definito, da un pubblico ministero nel ’63, il comune sentire della «stragrande maggioranza degli italiani che non trova voce per esprimere le proprie idee». In uno splendido saggio su quei processi, Stefano Rodotà scrive nel ’77 che Pasolini è «la somma di tutti i vizi, e incarna il sogno di chi vorrebbe il Male con una sola testa per decapitarlo con un colpo solo».
Evocare oggi quei processi aiuta a ricordare due cose. Primo, l’aureola di normalità che non da oggi circonda la famiglia. Secondo: le forze che l’hanno aureolata, complici fascisti, democristiani e comunisti. È una verità che la sinistra dimentica, quando oggi ripesca nelle proprie tradizioni la famiglia col tempo abbandonata. La cultura familistica e puritana era potentissima, in Urss come in Europa, e in Italia sfociò nell’esecrazione di Pasolini come di Aldo Braibanti, il filosofo omosessuale condannato per plagio nel ’69. Quando Pasolini fu espulso dal Pci per «indegnità morale», nel ’49, sull’Unità apparve un commento di Ferdinando Mautino, della Federazione di Udine, in cui si denunciavano «le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre, di altrettanti decadenti poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese». Se in Italia si infranse il mito del collettivo puro e incontaminato - collettivo della famiglia o del partito, le due purezze erano congiunte - lo si deve ai radicali, non alla sinistra classica. La sinistra che oggi disseppellisce famiglia e comunitarismo non disseppellisce il meglio di sé ma il più asfissiante. Riscopre il Noi che sostituisce l’Io, il collettivo contro l’individualismo borghese. Non siamo i soli in Europa, abbiamo visto. Un analogo frantumarsi della politica avviene nella sinistra francese, oggi impersonata da quella donna fervente e ammaliata da Giovanna d’Arco che è Ségolène Royal. Anch’essa riscopre i valori della famiglia, convinta com’è che la politica sia impopolare non perché impotente, ma perché neutrale su questioni di morale privata. Nelle scorse settimane ha ascoltato Sarkozy appassionarsi per l’identità nazionale e s’è messa a rincorrerlo. Ogni famiglia, ha annunciato, dovrebbe avere in casa il tricolore, e come ai vecchi tempi appenderlo alle finestre alle feste nazionali.
La politica dei valori è un termine che rispetta poco il principio di non contraddizione - per definizione la politica governa valori discordanti - e s’è insediata in Occidente dopo l’esperienza Thatcher. Cominciò a propagandarla John Major, per fronteggiare il declino dei conservatori, quando parlò di «basic values»: una bandiera ripresa dal nuovo laburismo. L’ammirazione per Blair, a sinistra come a destra, non è casuale in Europa. Senza temere di contraddirsi, le sinistre stanno appropriandosi di slogan che in Francia appartennero alle destre di Pétain: travail-famille-patrie (lavoro-famiglia-patria) sembra quasi soppiantare fraternità libertà e uguaglianza. Il politico che propone questi valori può vincere un’elezione, ma alla lunga può perdere. Così come è perdente l’opposizione che ogni sera invita il governo a dimettersi. Quel che si ottiene è una politica che fa harakiri, incapace di legiferare con spirito laico. Di laicità si discute molto, e spesso a sproposito: viene descritta come un’ideologia dello scetticismo, del relativismo. Il cardinale Scola, a Rai 1, l’ha definita così: «Somiglia a una notte in cui le vacche son tutte nere». Questa tendenza a identificare lo Stato laico con una filosofia serve lobby e disegni di potere coltivati in nome di culture religiose. Se la laicità è una filosofia come le altre, allora tutte le filosofie, religiose o no, possono governare la città, imponendo o impedendo leggi. In Germania, nei giorni scorsi, si è giunti a una vera perversione. Un giudice ha negato il divorzio rapido a una giovane marocchina picchiata dal marito musulmano, perché sposandolo doveva sapere che il Corano concede il «diritto alla punizione corporale». Le gerarchie cattoliche rischiano derive non diverse, quando chiedono che una legge sia fatta o non fatta su indicazione della Cei.
La laicità non è un’ideologia. È un metodo che consente a individui di diversa cultura, a credenti e non credenti, di convivere senza distruggersi. È lo strumento che permette di separare la politica da fede e cultura, e di evitare che la sovranità sia spartita tra i due poteri, temporale e spirituale. La diatriba è antica. Nei primi del ’600, frate Paolo Sarpi considerava tale spartizione fonte di temibili turbolenze. Difendendo la Repubblica veneziana dalle pressioni del Vaticano scriveva che non era possibile l’esistenza di due poteri eguali e indipendenti, e che per la conservazione della «quiete» - oltre che per rispettare la parola di Cristo: «Il mio regno non è di questo mondo» - occorreva che leggi e politica spettassero solo al Principe. Era colpa della politica, aver delegato alla Chiesa sovranità che non le spettavano. Era una forma di superstizione, e la Chiesa che ne profittava era accusata di petulanza.
Questa tradizione non è mai venuta meno nel cristianesimo. Jacques Maritain parlava di «principi immutabili» e della superiorità spirituale della Chiesa sul Principe, ma sosteneva che la realizzazione dei valori doveva tener conto delle circostanze e dell’autonomia acquistata dalla società politica, attenendosi al principio pluralistico e a quello del minor male. Antonio Rosmini affermava che i privilegi erano una piaga cristiana, e che una Chiesa con meno privilegi era una Chiesa più libera dallo Stato. La sinistra riscopre la famiglia, Ségolène e Sarkozy rispolverano l’identità nazionale. In realtà non s’appropriano di valori trascurati o rubati. Si adeguano a quel che immaginano essere una volontà generale, presupponendo che essa sia bene interpretata da Le Pen, di cui tutti i candidati sono mimetici figli: Ségolène quando esalta il tricolore; Sarkozy quando elogia l’identità nazionale, il centrista Bayrou quando fa sapere che la virilità è quel che sua moglie ammira in lui.
I valori diventano così qualcosa di astratto: si fanno perfino guerre, in nome di nobili invenzioni. Maritain, ancora, diceva che soggetti di diritto dovrebbero essere non entità astratte come «verità» o «errore» ma le persone umane, prese individualmente e collettivamente. Altrimenti la realtà evapora, la persona concreta si fa invisibile. Sono invisibili le unioni alternative, in aumento ovunque perché la famiglia è in frantumi. È invisibile l’Europa, quest’insieme di persone che cercano di recuperare la sovranità perduta dalle patrie. Da queste cecità scaturisce la strategia dei Valori. L’astratto furore si presenta come nobile, ma abbassando il Principe corrompe sia la politica sia i valori.