Eremos e parresia

DICO, PACS, FAMIGLIE, POSSUMUS, NON POSSUMUS... EPITTETO, DIONISO, E IL CROCIFISSO. UN "CANTO" DI FIDUCIA E DI SPERANZA: UNA SPLENDIDA "ANALISI" DI BARBARA SPINELLI - a cura di pfls.

domenica 11 febbraio 2007.
 

La fatica della solitudine

di Barbara Spinelli (La Stampa, 11.02.2007)

Che l’essere umano possa sentirsi solo in un universo difficile, e abbandonato dai simili proprio quando è da questi più attorniato, la Chiesa dovrebbe saperlo, conoscerlo. Lo ha imparato dall’abbandono di Cristo, e dagli infelici che Cristo proteggeva. Lo ha sperimentato quando era minoranza perseguitata. Lo ha appreso quando contemplò l’estenuarsi del mondo pagano, sul finire della civiltà romana, e i cristiani assorbirono quell’ansia estenuata dando alla fede la straordinaria forza delle proprie forme, dei propri riti. Era il secondo e terzo secolo, e non c’era mai stata tanta miseria in Europa. La Chiesa comprese questa sofferenza e la portò sulle spalle.

Senza disperazione dell’uomo non ci sarebbe stato cristianesimo; se la disperazione venisse meno torneremmo al paganesimo, sostengono grandi studiosi dei primi cristiani come Eric Dodds o André-Jean Festugière.

Oggi vediamo apparire nel mondo lo stesso essere umano, derelitto come l’aveva descritto Epitteto in un terribile passaggio dei Discorsi: «Lo stato di disperazione solitaria è la condizione di chi è senza aiuto. Giacché (a Roma) non siamo derelitti solo se siamo soli, allo stesso modo in cui un uomo dentro la folla non smette necessariamente d’esser derelitto. Non è la vista di un essere umano in quanto tale che mette fine alla nostra condizione di derelizione, ma la vista di un essere umano fiducioso, modesto, desideroso d’aiutare» (Epitteto, Discorsi, III).

È questo che la Chiesa fatica a fare, a essere, davanti all’uomo che di nuovo si scopre solo, eremos. Eremos è colui cui manca qualcosa di fondamentale, e ne è devastato. La parola ha anche significato giuridico: un processo è eremos se non c’è il difensore. Proprio il cristiano che ha inventato il vivere eremitico può capire come due individui cerchino di vivere insieme la frammentazione della società, decidendo di dare stabilità ai propri rapporti di amore, amicizia o fratellanza.

Una parte del clero non riesce a essere quell’uomo fiducioso, riservato, desideroso d’aiutare, che il pagano Epitteto cercava e che la Chiesa diede all’Europa sofferente. C’è una singolare dimenticanza di tutto questo nell’offensiva delle gerarchie ecclesiastiche contro Pacs e Dico, ed è una dimenticanza che produce forme inconsapevoli di crudeltà: pur di difendere un dogma - l’unico amore benedetto è quello che si esprime nella forma, stabile e feconda, del matrimonio - si nega a tutti coloro che pensano in modo diverso l’amore o la fraternità di presentare la propria via come non meno impegnativa. Si nega lo smarrimento che caratterizza la nostra epoca, e il fatto che una legge sulle convivenze fronteggia tale smarrimento. Si nega lo scorrere della storia, cui il cristianesimo si è adattato mirabilmente nei secoli senza sottovalutare l’importanza del diritto positivo.

Ripercorrere l’era del primo cristianesimo è importante perché essa è così simile alla nostra: stessa sensazione di declino, stessa solitudine di individui privi di protezioni giuridiche, stesso sovvertimento del lavoro, dell’economia, stessa sete di riconoscimento da parte di chi è nell’abbandono. Oggi s’aggiunge la paura del clima che si degrada.

La famiglia ferita è anche frutto di queste circostanze, e da tempo ha cessato di essere l’istituto stabile e prolifico spesso celebrato. Non sta morendo un patto d’amore che è il solo a essere romanticamente eroico, nutrito da folli scommesse sull’eternità. Sta morendo un patto che si rivela fragile per antichi vizi e per le stesse virtù che nel frattempo ha acquisito: virtù dell’individualismo, di volontà soggettive che prevalgono sulla natura sociale dell’istituto.

La pietas, l’immedesimazione nella vita dell’altro dovrebbero aiutare a vedere questa realtà: è anche ai difetti dell’individualismo che i nuovi modi di convivenza rispondono, perché l’uomo non sia eremos involontario sulla terra. Che la convivenza riconosciuta sia una risposta al dilatarsi delle soggettività individuali lo dice un uomo della Chiesa, il cardinale Martini. Accennando al cristianesimo dei primordi, egli ricorda come la famiglia sia diventata centrale per la Chiesa molto tardi, alla fine dell’800. Non c’era bisogno di citarla continuamente, quando l’istituzione era davvero naturale e feconda.

Nel Nuovo Testamento non appare un vocabolo che corrisponda al termine famiglia, anche se Gesù esalta l’unità indissolubile di quel che Dio unisce. La famiglia, la madre, il padre: Gesù ordina di trascenderli se si vuol avvicinare il regno di Dio. Il matrimonio è un’invenzione grandiosa ma la Chiesa «ha, magari inconsapevolmente, contribuito al suo sgretolamento. Troppo a lungo forse si è lasciata prevalere un’idea giuridica ed economica del rapporto di convivenza, destinato quasi solo alla procreazione della prole» (Carlo Maria Martini, discorso per la vigilia di S. Ambrogio, 2000).

Hanno contribuito i dogmi a indebolirlo, e le «predicazioni enfatiche», la «censura evangelica», il «panico di accerchiamento e le recriminazioni senza frutto» della Chiesa, le dottrine «vagamente umanistiche e rassicuranti» che lasciano «il singolo nella solitudine». Infine, ha contribuito il mondo affannoso, spesso feroce, in cui vive oggi un giovane che voglia edificare il futuro senza sentirsi, come l’uomo di Epitteto, privo d’aiuto giuridico.

C’è la difficoltà di trovar casa, dunque di separarsi dalle famiglie: il «ritorno dai genitori» è abnorme in Italia, spiega uno studio della Fondazione Agnelli (Generazioni, famiglie, migrazioni. Pensando all’Italia di domani). C’è il lavoro precario, che complica i progetti d’aver figli.

Il desiderio di costruire unioni alternative non ha niente a che vedere con l’effimero, l’occasionale. È un modo di difendere almeno i legami intimi dalla precarietà generalizzata, di reintrodurre l’idea del patto e del contratto in una vita economica che sempre più l’esclude.

Chi reclama il riconoscimento delle unioni, eterosessuali o omosessuali, sta costruendo una nuova obbedienza. In genere, aspira al diritto di avere dei doveri: dovere di stare accanto all’amato-amico nella sua agonia, dovere di pensare al suo futuro, dovere di dargli tempo, sicurezza, vicinanza.

L’adozione dei figli da parte degli omosessuali è scabrosa. Ma anche qui cosa è meglio: un bambino affidato a due omosessuali che si amano o un bambino che resta in impersonali orfanotrofi? Chi si scaglia contro Dico e Pacs ignora che i tratti oblativi dell’amore, citati dal cardinale Martini, stanno crescendo più nelle unioni di fatto che nei matrimoni. Cosa di più oblativo che prendersi cura di un neonato e farlo crescere?

I figli nascono molto più fuori dai matrimoni che dentro, anche questa realtà è indicata dalla Fondazione Agnelli: dal 2001, le nascite dentro il matrimonio sono diminuite mentre quelle fuori sono in deciso aumento. La coppia di fatto è frutto di un mal-vivere, che soprattutto in Italia spinge a restare in famiglia o a ritornarvi, con un senso crescente di scacco. È il tentativo sperimentale di ritrovare l’età d’oro perduta: per quel tanto, o poco (più probabilmente poco) che durano le cose mortali.

L’uso politico che si fa della sofferenza e dei suoi modi di superarla è l’aspetto triste delle vicende italiane, lo si è visto nel caso Welby. I cattolici conservatori del governo e la Chiesa hanno il diritto di dire a voce alta le loro convinzioni.

Per ribadire tale diritto, L’Avvenire ha evocato il non possumus, il 6 febbraio, riferendosi non solo a papi del passato ma alla parresia - al dovere di parlare liberamente - che Pietro e Giovanni difendono davanti al Sinedrio («Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato», Atti degli Apostoli, 4, 20).

Non possumus, scrive il giornale della Conferenza episcopale: ma lo dice politicamente, non profeticamente. Come ricorda Gustavo Zagrebelsky (Repubblica, 9 febbraio) la Cei non parla del proprio Stato, del proprio potere spirituale, quando indica «uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana». Parla del futuro della politica italiana e s’accinge a determinarlo come fosse un partito italiano.

Ignorare la Chiesa non si può, è parte della nostra cultura. Ma è parte della nostra cultura con tutto quello che alla sua storia è congiunto: il paganesimo, l’esaltazione ellenica della Ragione e anche i miti greci della resurrezione e della metamorfosi, della conversione, del sapere tragico e dell’estasi. Il verbo di Gesù è severità morale e anche rinascita del mito di Dioniso.

Basta leggere le Dionisiache del cristiano Nonno di Panopoli, scritte nel V secolo, per vedere come intenso sia il legame tra i due miti, il cristiano e il dionisiaco: il vino, l’alleviamento del dolore, l’amore del prossimo, la luce della parola. Gesù è apparso sulla terra per alleviare il dolore e proporre una via ardua, ma trasfigurata dal vino. Ha incensato l’unione indissolubile di quel che Dio unisce e al tempo stesso ha detto che bisognava trascendere la famiglia. Ha rifatto nuovo il mondo, perché il mondo era malato. Forse bisogna rifarlo nuovo anche adesso.



Sul tema - e per il richiamo al "discorso per la vigilia di S. Ambrogio" (2000) di Carlo Maria Martini, nel sito, si cfr.:

-  A "Israele"! RIPENSARE L’ "AMERICA", e il sogno del "nuovo mondo". La lezione di FRANZ KAFKA


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