Caro Benedetto XVI ...
Pirandello (1918) aspetta ancora una risposta!!!
DIO: GESU’ e MARIA ...... E GIUSEPPE, DOV’E’?!!
a c. di Federico La Sala
Un “goj”: la ‘risata’ di Pirandello contro la vecchia e zoppa "sacra" famiglia ’cattolica’!!!*
Il signor Daniele Catellani, mio amico, bella testa ricciuta e nasuta - capelli e naso di razza - ha un brutto vizio: ride nella gola in un certo modo così irritante, che a molti, tante volte, viene la tentazione di tirargli uno schiaffo.
Tanto più che, subito dopo, approva ciò che state a dirgli. Approva col capo; approva con precipitosi:
Già, già! già, già!
Come se poc’anzi non fossero state le vostre parole a provocargli quella dispettosissima risata.
Naturalmente voi restate irritati e sconcertati. Ma badate che è poi certo che il signor Daniele Catellani farà come voi dite. Non c’è caso che s’opponga a un giudizio, a una proposta, a una considerazione degli altri.
Ma prima ride.
Forse perché, preso alla sprovvista, là, in un suo mondo astratto, così diverso da quello a cui voi d’improvviso lo richiamate, prova quella certa impressione per cui alle volte un cavallo arriccia le froge e nitrisce. Della remissione del signor Daniele Catellani e della sua buona volontà d’accostarsi senz’urti al mondo altrui, ci sono del resto non poche prove, della cui sincerità sarebbe, io credo, indizio di soverchia diffidenza dubitare. Cominciamo che per non offendere col suo distintivo semitico, troppo apertamente palesato dal suo primo cognome (Levi), l’ha buttato via e ha invece assunto quello di Catellani.
Ma ha fatto anche di più. S’è imparentato con una famiglia cattolica, nera tra le più nere, contraendo un matrimonio cosiddetto misto, vale a dire a condizione che i figliuoli (e ne ha già cinque) fossero come la madre battezzati, e perciò perduti irremissibilmente per la sua fede. Dicono però che quella risata così irritante del mio amico signor Catellani ha la data appunto di questo suo matrimonio misto.
A quanto pare, non per colpa della moglie, però, bravissima signora, molto buona con lui, ma per colpa del suocero, che è il signor Pietro Ambrini, nipote del defunto cardinale Ambrini, e uomo d’intransigentissimi principii clericali. Come mai, voi dite, il signor Daniele Catellani andò a cacciarsi in una famiglia munita d’un futuro suocero di quella forza? Mah!
Si vede che, concepita l’idea di contrarre un matrimonio misto, volle attuarla senza mezzi termini; e chi sa poi, fors’anche con l’illusione che la scelta stessa della sposa d’una famiglia così notoriamente divota alla santa Chiesa cattolica, dimostrasse a tutti che egli reputava come un accidente involontario, da non doversi tenere in alcun conto, l’esser nato semita.
Lotte acerrime ebbe a sostenere per questo matrimonio. Ma è un fatto che i maggiori stenti che ci avvenga di soffrire nella vita sono sempre quelli che affrontiamo per fabbricarci con le nostre stesse mani la forca. Forse però - almeno a quanto si dice non sarebbe riuscito a impiccarsi il mio amico Catellani, senza l’aiuto non del tutto disinteressato del giovine Millino Ambrini, fratello della signora, fuggito due anni dopo in America per ragioni delicatissime, di cui è meglio non far parola.
Il fatto è che il suocero, cedendo obtorto collo alle nozze, impose alla figlia come condizione imprescindibile di non derogare d’un punto alla sua santa fede e di rispettare col massimo zelo tutti i precetti di essa, senza mai venir meno a nessuna delle pratiche religiose. Pretese inoltre che gli fosse riconosciuto come sacrosanto il diritto di sorvegliare perché precetti e pratiche fossero tutti a uno a uno osservati scrupolosamente, non solo dalla nuova signora Catellani, ma anche e più dai figliuoli che sarebbero nati da lei.
Ancora, dopo nove anni, non ostante la remissione di cui il genero gli ha dato e seguita a dargli le più lampanti prove, il signor Pietro Ambrini non disarma. Freddo, incadaverito e imbellettato, con gli abiti che da anni e anni gli restano sempre nuovi addosso e quel certo odore ambiguo della cipria, che le donne si dànno dopo il bagno, sotto le ascelle e altrove, ha il coraggio d’arricciare il naso, vedendolo passare, come se per le sue nari ultracattoliche il genero non si sia per anche mondato del suo pestilenzialissimo foetor judaicus. Lo so perché spesso ne abbiamo parlato insieme.
Il signor Daniele Catellani ride in quel suo modo nella gola, non tanto perché gli sembri buffa questa vana ostinazione del fiero suocero a vedere in lui per forza un nemico della sua fede, quanto per ciò che avverte in sé da un pezzo a questa parte.
Possibile, via, che in un tempo come il nostro, in un paese come il nostro, debba sul serio esser fatto segno a una persecuzione religiosa uno come lui, sciolto fin dall’infanzia da ogni fede positiva e disposto a rispettar quella degli altri, cinese, indiana, luterana, maomettana?
Eppure, è proprio così. C’è poco da dire: il suocero lo perseguita. Sarà ridicola, ridicolissima, ma una vera e propria persecuzione religiosa, in casa sua, esiste. Sarà da una parte sola e contro un povero inerme, anzi venuto apposta senz’armi per arrendersi; ma una vera e propria guerra religiosa quel benedett’uomo del suocero gliela viene a rinnovare in casa ogni giorno, a tutti i costi, e con animo inflessibilmente e acerrimamente nemico.
Ora, lasciamo andare che - batti oggi e batti domani - a causa della bile che già comincia a muoverglisi dentro, l’homo judaeus prende a poco a poco a rinascere e a ricostituirsi in lui, senza ch’egli per altro voglia riconoscerlo. Lasciamo andare. Ma lo scadere ch’egli fa di giorno in giorno nella considerazione e nel rispetto della gente per tutto quell’eccesso di pratiche religiose della sua famiglia, così deliberatamente ostentato dal suocero, non per sentimento sincero, ma per un dispetto a lui e con l’intenzione manifesta di recare a lui una gratuita offesa, non può non essere avvertito dal mio amico signor Daniele Catellani.
E c’è di più. I figliuoli, quei poveri bambini così vessati dal nonno, cominciano anch’essi ad avvertir confusamente che la cagione di quella vessazione continua che il nonno infligge loro, dov’essere in lui, nel loro papà. Non sanno quale, ma in lui dov’essere di certo. Il buon Dio, il buon Gesù - (ecco, il buon Gesù specialmente!) - ma anche i Santi, oggi questo e domani quel Santo, ch’essi vanno a pregare in chiesa col nonno ogni giorno, è chiaro ormai che hanno bisogno di tutte quelle loro preghiere, perché lui, il papà, deve aver fatto loro, di certo, chi sa che grosso male! Al buon Gesù, specialmente!
E prima d’andare in chiesa, tirati per mano, si voltano, poveri piccini, ad allungargli certi sguardi così densi di perplessa angoscia e di dogliosa rimprovero, che il mio amico signor Daniele Catellani si metterebbe a urlare chi sa quali imprecazioni, se invece... se invece non preferisse buttare indietro la testa ricciuta e nasuta e prorompere in quella sua solita risata nella gola.
Ma sì, via! Dovrebbe ammettere altrimenti sul serio d’aver commesso un’inutile vigliaccheria a voltar le spalle alla fede dei suoi padri, a rinnegare nei suoi figliuoli il suo popolo eletto: ’am olam, come dice il signor Rabbino. E dovrebbe sul serio sentirsi in mezzo alla sua famiglia un goj, uno straniero; e sul serio infine prendere per il petto questo suo signor suocero cristianissimo e imbecille, e costringerlo ad aprir bene gli occhi e a considerare che, via, non è lecito persistere a vedere nel suo genero un deicida, quando in nome di questo Dio ucciso duemil’anni fa dagli ebrei, i cristiani che dovrebbero sentirsi in Cristo tutti quanti fratelli, per cinque anni si sono scannati tra loro allegramente in una guerra che, senza pregiudizio di quelle che verranno, non aveva avuto finora l’eguale nella storia.
No, no, via! Ridere, ridere. Son cose da pensare e da dir sul serio al giorno d’oggi?
Il mio amico signor Daniele Catellani sa bene come va il mondo. Gesù, sissignori. Tutti fratelli. Per poi scannarsi tra loro. E naturale. E tutto a fil di logica, con la ragione che sta da ogni parte: per modo che a mettersi di qua non si può fare a meno d’approvare ciò che s’è negato stando di là.
Approvare, approvare, approvar sempre. Magari, sì, farci sì prima, colti alla sprovvista, una bella risata. Ma poi approvare, approvar sempre, approvar tutto. Anche la guerra, sissignori.
Però (Dio, che risata interminabile, quella volta!) però, ecco, il signor Daniele Catellani volle fare, l’ultimo anno della grande guerra europea, uno scherzo al suo signor suocero Pietro Ambrini, uno scherzo di quelli che non si dimenticano più.
Perché bisogna sapere che, nonostante gran carneficina, con una magnifica faccia tosta il signor Pietro Ambrini, quell’anno, aveva pensato di festeggiare, per i cari nipotini, la ricorrenza del Santo Natale più pomposamente che mai. E s’era fatti fabbricare tanti e tanti pastorelli di terracotta: i pastorelli che portano le loro umili offerte alla grotta di Bethlehem, al Bambinello Gesù appena nato: fiscelle di candida ricotta panieri d’uova e cacio raviggiolo, e anche tanti Franchetti di Soffici pecorelle e somarelli carichi anch’essi d’altre più ricche offerte, seguiti da vecchi massari e da campieri. E sui cammelli, ammantati, incoronati e solenni, i tre re Magi, che vengono col loro seguito da lontano lontano dietro alla stella cometa che s’è fermata su la grotta di sughero, dove su un po’ di paglia vera è il roseo Bambinello di cera tra Maria e San Giuseppe; e San Giuseppe ha in mano il bàcolo fiorito, e dietro sono il bue e l’asinello.
Aveva voluto che fosse ben grande il presepe quell’anno, il caro nonno, e tutto bello in rilievo, con poggi e dirupi, agavi e palme, e sentieri di campagna per cui si dovevano veder venire tutti quei pastorelli ch’eran perciò di varie dimensioni, coi loro branchetti di pecorelle e gli asinelli e i re Magi.
Ci aveva lavorato di nascosto per più d’un mese, con l’aiuto di due manovali che avevan levato il palco in una stanza per sostener la plastica. E aveva voluto che fosse illuminato da lampadine azzurre in ghirlanda; e che venissero dalla Sabina, la notte di Natale, due zampognari a sonar l’acciarino e le ciaramelle. I nipotini non ne dovevano saper nulla.
A Natale, rientrando tutti imbacuccati e infreddoliti dalla messa notturna, avrebbero trovato in casa quella gran sorpresa: il suono delle ciaramelle, l’odore dell’incenso e della mirra, e il presepe là, come un sogno, illuminato da tutte quelle lampadine azzurre in ghirlanda. E tutti i casigliani sarebbero venuti a vedere, insieme coi parenti e gli amici invitati al cenone, questa gran maraviglia ch’era costata a nonno Pietro tante cure e tanti quattrini. Il signor Daniele lo aveva veduto per casa tutto assorto in queste misteriose faccende, e aveva riso; aveva sentito le martellate dei due manovali che piantavano il palco di là, e aveva riso.
Il demonio, che gli s’è domiciliato da tanti anni nella gola, quell’anno, per Natale, non gli aveva voluto dar più requie: giù risate e risate senza fine. Invano, alzando le mani, gli aveva fatto cenno di calmarsi; invano lo avena ammonito di non esagerare, di non eccedere.
Non esagereremo, no! - gli aveva risposto dentro il demonio. - Sta’ pur sicuro che non eccederemo. Codesti pastorelli con le fiscelline di ricotta e i panierini d’uova e il cacio raviggiolo sono un caro scherzo, chi lo può negare? così in cammino tutti verso la grotta di Bethlehem! Ebbene, resteremo nello scherzo anche noi, non dubitare! Sarà uno scherzo anche il nostro, e non meno carino. Vedrai.
Così il signor Daniele s’era lasciato tentare dal suo demonio; vinto sopra tutto da questa capziosa considerazione: che cioè sarebbe restato nello scherzo anche lui.
Venuta la notte di Natale, appena il signor Pietro Ambrini con la figlia e i nipotini e tutta la servitù si recarono in chiesa per la messa di mezzanotte, il signor Daniele Catellani entrò tutto fremente d’una gioia quasi pazzesca nella stanza del presepe: tolse via in fretta e furia i re Magi e i cammelli, le pecorelle e i somarelli, i pastorelli del cacio raviggiolo e dei panieri d’uova e delle fiscelle di ricotta - personaggi e offerte al buon Gesù, che il suo demonio non aveva stimato convenienti al Natale d’un anno di guerra come quello - e al loro posto mise più propriamente, che cosa? niente, altri giocattoli: soldatini di stagno, ma tanti, ma tanti, eserciti di soldatini di stagno, d’ogni nazione, francesi e tedeschi, italiani e austriaci, russi e inglesi, serbi e rumeni, bulgari e turchi, belgi e americani e ungheresi e montenegrini, tutti coi fucili spianati contro la grotta di Bethlehem, e poi, e poi tanti cannoncini di piombo, intere batterie, d’ogni foggia, d’ogni dimensione, puntati anch’essi di sé, di giù, da ogni parte, tutti contro la grotta di Bethlehem, i quali avrebbero fatto veramente un nuovo e graziosissimo spettacolo.
Poi si nascose dietro il presepe.
Lascio immaginare a voi come rise là dietro, quando, alla fine della messa notturna, vennero incontro alla meravigliosa sorpresa il nonno Pietro coi nipotini e la figlia e tutta la folla degli invitati, mentre già l’incenso fumava e i zampognari davano fiato alle loro ciaramelle.(LUIGI PIRANDELLO, UN «GOJ», Novelle per un anno, Mondadori)
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www.ildialogo.org/filsofia, Venerdì, 01 luglio 2005
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EU-ANGELO E’ LA PAROLA DELLA PACE E PER LA PACE ... NON PER LA GUERRA E LE CROCIATE!!!
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE E MARIA: DIO E’ AMORE ("DEUS CHARITAS EST": 1 GV., 4.8): LA NUOVA ALLEANZA E LA NUOVA LEGGE. COME IN CIELO COSI’ IN TERRA: RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL PESCATORE - come già Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II - ... E L’ONORE E LA GLORIA DOVUTA. PACEM IN TERRIS ...
Federico La Sala
Natività della Vergine Maria.
Dalla nascita la nostra vita è un progetto di santità
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 8 settembre 2024).
Celebrare la nascita di Maria significa fondamentalmente ricordarci che la nostra vita nasce da un progetto e la cui meta è solo la santità. Realizzare ciò per cui siamo venuti al mondo, e quindi testimoniare la radice della nostra esistenza, significa diventare santi. È questa verità fondamentale che la devozione popolare ha sempre colto nella storia di Maria, il cui cammino è un itinerario di santità, di un’umanità realizzata. Questa ricorrenza, nata in Oriente e introdotta in Occidente nel VII secolo da papa Sergio I, è come l’aurora che preannuncia l’arrivo della luce solare: non a caso, infatti, solo di Maria e di san Giovanni Battista - oltre che di Gesù - si ricorda la nascita. -In una sorta di “pedagogia liturgica” radicata nel comune sentire della fede popolare, la festa di oggi ci ricorda che la nostra vita ha un inizio che ci è stato dato in dono e una fine, l’abbraccio nell’amore infinito di Dio, che dobbiamo “conquistare” ogni giorno con le nostre scelte ma soprattutto con il nostro “sì” a Dio sull’esempio di Maria.
Anche per questo motivo la ricorrenza odierna viene presa come portale d’introduzione all’anno pastorale: in questo modo si ricorda che l’attività della Chiesa altro non è che frutto dell’impegno a portare Cristo nel mondo ogni giorno.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853). Letture. Romano. Is 35,4-7; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37. Ambrosiano. Is 63,7-17; Sal 79 (80); Eb 3,1-6; Gv 5,37-47. Bizantino. Gal 6,11-18; Gv 3,13-17.
BIOETICA
Utero in affitto sia reato universale: il 19 giugno in aula la proposta di legge
di Marina Casini (AgenSir, 19 Giugno 2023)
Arriva in aula il 19 giugno la proposta di legge che definisce l’utero in affitto (maternità surrogata) reato universale e che prevede la perseguibilità del cittadino italiano che all’estero ricorre a questa pratica. Sebbene la legge 40 del 2004 sanzioni giustamente questa pratica, la proposta - in linea con quanto richiesto nella scorsa legislatura da settanta associazioni facenti capo al Network “Ditelo sui tetti” - si è resa tuttavia necessaria per disincentivare l’espatrio di chi vuole aggirare l’ostacolo salvo poi rimpatriare a cose fatte chiedendo di essere riconosciuto genitore del bambino così ottenuto.
Che l’affitto di utero sia una pratica che altera le relazioni riducendo a cose donne e bambini è matura acquisizione raggiunta da molti:
una pratica legata ad una distorsione organizzata e pianificata della maternità, della paternità, della filiazione, inserite in una logica produttivistica, in una catena di montaggio aperta allo scarto (aborto volontario previsto dal contratto) di bambini eventualmente non rispondenti alle aspettative di salute o di troppo in caso di gravidanze gemellari.
E’ una pratica di sfruttamento mercantile (dove chi trae maggior vantaggio economico sono le cliniche, gli intermediari, i consulenti legali), di pretesi diritti inesistenti che mutilano i veri diritti; una pratica che deturpa la dimensione del dono caricaturandola di dolciastro altruismo - “gestazione solidale”, “gestazione per altri”, “gestazione di sostegno”, “in quella torsione linguistica così cara a diversi attuali filoni di pensiero, mossi dalla ricerca di consensi pubblici, che ne amplifichino benevolmente la crudezza dei messaggi” (Paola Ricci Sindoni) - ,
e fa piacere che su un tema così antropologicamente forte si trovi sintonia anche con i più (apparentemente) lontani da una visione personalista ontologicamente fondata.
Vedremo come si svilupperà il dibattito parlamentare. La proposta è comunque supportata da autorevoli documenti giuridici. L’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, vieta di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro, la maternità surrogata è condannata dal Parlamento Europeo (risoluzione del 17 dicembre 2015) perché “compromette la dignità della donna, dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce”, e secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 272/2017, confermata dalla n. 33/2021) “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. La Convenzione sui diritti del bambino (ratificata dall’Italia) in base al “principio del prevalente interesse del minore” riconosce per ogni bambino, nella misura del possibile, il diritto a conoscere i propri genitori, ad essere da loro allevato, a preservare la propria identità comprensiva delle relazioni familiari.
Va da sé che l’auspicio sia che la proposta diventi legge a tutti gli effetti e dunque parte dell’ordinamento giuridico italiano.
La speranza, tuttavia, è che non sia un punto di arrivo, ma una tappa nel cammino di riflessione, che va portato a tutti i livelli, sul senso del figlio, tale dal concepimento, della maternità e della paternità.
Non basta dire “no” all’utero in affitto ̶ comunque lo si voglia diversamente definire, maternità surrogata o gestazione per altri o altro ancora ̶ bisogna dire “sì” all’uguale e inerente dignità di ogni essere umano, quindi sin dal momento in cui ogni essere umano inizia ad esistere in quel “big bang” chiamato concepimento. Solo questo mette al riparo da abusi, discriminazioni, sfruttamenti e prepotenze di ogni tipo, e solo da qui possiamo gettare solide basi per un più alto livello di civiltà e costruire sempre più pienamente e autenticamente la fraternità e la pace.
“Maria, il Roseto di Roma e la Menorah”
Un commento dei teologi Scarafoni e Rizzo
PAOLO SCARAFONI E FILOMENA RIZZO*
Maggio è il mese per eccellenza dedicato alla Madonna. La regina dei fiori è la rosa, il fiore più bello. Per questo motivo è stato associato a Maria, che è chiamata nelle litanie lauretane «rosa mistica». La preghiera devozionale e contemplativa dedicata a lei è il «rosario», che allude alla ghirlanda di rose che nel medioevo si poneva sul capo delle statue della Vergine. La recita delle «ave Maria» è una ghirlanda mistica offerta alla Madonna.
In Italia l’amore per le rose è testimoniato da tanti roseti incantevoli dal Nord al Sud dello Stivale. Basta consultare i vari siti dedicati ai roseti da visitare nel mese di maggio, periodo della fioritura. Ci sono gli «itinerari delle rose». Tanti i luoghi bellissimi indicati, come i Giardini Botanici di Villa Taranto a Pallanza, la Reggia della Venaria Reale a Torino, il roseto di Villa Durazzo a Santa Margherita Ligure, il Giardino de Boboli in Toscana, il “Roseto Vacunae Rosae” a Rieti, “Le stanze in fiore di Canalicchio” a Catania. Il Roseto comunale di Roma, che ospita una collezione di rose botaniche antiche e moderne, circa 1200 specie provenienti da tutto il mondo, si distingue per la sua bellezza e per la sua storia particolare, che si può leggere anche sul sito del Comune di Roma.
«Unico al mondo per la sua spettacolare posizione, si adagia sulle pendici dell’Aventino, di fronte ai resti del Palatino, appena sopra il Circo Massimo. Fin dal III secolo a.c. il luogo in cui sorge il roseto era dedicato ai fiori. Tacito, negli Annales, parla di un tempio dedicato alla dea Flora, i cui festeggiamenti “floralia” si svolgevano in primavera nel Circo Massimo. Ricoperto di orti e vigne fino a tutto il XVI secolo, nel 1645 divenne l’Orto degli Ebrei con annesso il piccolo cimitero della Comunità. Dal 1934, anno del trasferimento del cimitero ebraico al Verano, l’area, destinata dal Piano Regolatore Generale di Roma a Parco, rimase incolta fino al 1950, quando divenne sede del nuovo roseto comunale. Come ringraziamento alla comunità ebraica che aveva permesso di ricreare il roseto in un luogo sacro, venne posta all’ingresso del giardino una stele in ricordo della precedente destinazione e i vialetti che dividono le aiuole, assunsero la forma della menorah, il candelabro a sette bracci, simbolo dell’Ebraismo».
In questi giorni abbiamo passeggiato per il roseto. Abbiamo supposto che alcuni padri del Concilio Vaticano II nei momenti di pausa e di discernimento avranno anche loro camminato tra i sentieri di rose che tracciano i bracci della menorah, e avranno dato via libera alla loro immaginazione riflettendo sul documento che stavano preparando per il dialogo con gli ebrei e che sarebbe diventato la dichiarazione Nostra aetate.
L’immaginazione è il luogo dove entrano in gioco la libertà divina e la libertà umana. Per la relazione con Dio trova spazio in modo particolare in alcuni loci theologici: la liturgia, la Parola, il comportamento o vivere etico, la pietà popolare. Il giardino delle rose di Roma pur essendo un luogo laico è per molti una luce gentile della pietà popolare.
Sicuramente ai padri conciliari sarà venuta alla mente e al cuore Maria ebrea, che porta in sé la Sapienza divina. «Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo... “agli uomini di quella stirpe appartengono l’adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne” (Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine. Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo».
Già i Padri della Chiesa avevano attribuito a Maria le proprietà della Sapienza divina riassunte nel simbolo del fiore della rosa: «pianta di rose in Gerico» (Sir 24, 14); «pianta di rose su un torrente» (Sir 39, 13); «fiore di rose nella stagione di primavera» (Sir 50, 8).
Il legame di Maria con il popolo d’Israele indica l’unità della salvezza. Il «nesso dei misteri» è colto nella persona di Maria, la figlia di Sion, la madre di Gesù Cristo.
Non è raro scorgere chi come noi va a recitare il rosario, in maniera discreta, in quel luogo incantevole. Immaginare per immaginare, ci piacerebbe assistere ad un concerto mattutino nel roseto di Roma, per il giubileo del 2025, che celebri l’aurora della fraternità. È un luogo laico che si presta all’immaginazione che muove i cuori.
* Teologi
FONTE: LA STAMPA, 13 MAGGIO 2023
Il Titolo
Madre di Dio: da Efeso al Vaticano II analisi di una mariologa
Maria la Theotokos
di Cettina Militello (L’Osservatore Romano, 03 dicembre 2022)
Teologa, presidente della Società Italiana per la Ricerca Teologica (SIRT).
La sera dell’11 ottobre del 431 una folla festante con fiaccole accese accolse i padri che, riuniti in concilio ad Efeso, sia pure con modalità, per la nostra sensibilità, discutibili, avevano condannato il patriarca di Costantinopoli, l’antiocheno Nestorio, reo d’avere contestato l’attribuzione a Maria di Nazareth del titolo di theotokos (colei che genera Dio). Per Nestorio era preferibile chiamarla anthropotokos, ossia genitrice dell’uomo Gesù, non potendo una umana creatura generare Dio. La sua preoccupazione era quella di non farne una dea... Pur di dirimere la controversia, egli aveva anche proposto di dirla Christotokos (colei che genera Cristo). Ma anche questo era apparso insufficiente e inadeguato al fanatico e rissoso Cirillo, patriarca di Alessandria. Egli aveva pilotato il concilio e, con un colpo di mano, in assenza dei legati del patriarca d’Occidente, in ritardo a motivo di una tempesta, aveva ottenuto la scomunica di Nestorio. I legati, finalmente arrivati, ne avevano avallato le decisioni.
Oggi si propende a liberare Nestorio dalla cappa in cui lo aveva invischiato Cirillo. Probabilmente, in questo come in altri casi, la distanza più che teologica era nominale. Insomma, più che un problema dottrinale quello che li opponeva era un vizio di vocabolario. D’altra parte alla lettera theotokos, tradotto in latino con deipara, non significa “madre di Dio”. E a dirimere l’impossibilità per la creatura d’essere soggetto attivo stavano le teorie che consideravano la donna assolutamente passiva nel processo della generazione. Come avrebbe detto secoli dopo san Bernardo: Maria era un semplice “canale”, un puro e solo mezzo. Diciamo pure, una sorta di incubatrice che si era prestata al concepimento, alla crescita e alla nascita della umanità del Verbo.
Come ha brillantemente mostrato la teologa norvegese Kari Børresen in Maria nel Medio Evo, se il dogma mariano si è fatto attento a Maria dicendola “theotokos” e “sempre vergine” o, poi, nel secondo millennio, definendola “immacolata” e “assunta”, non è stato per celebrare lei, quanto il Figlio, per altro avvalendosi di teorie genetiche o di suggestioni antropologiche, oggi decisamente superate.
Due i problemi che ci si pongono. Il primo è legato ad Efeso, la città del concilio e al pathos con cui se ne seguirono le vicissitudini. L’altro, più importante ma correlato, riguarda il dogma cristologico, ossia la necessità per la comunità credente di confessare Gesù di Nazareth vero uomo e vero Dio.
Efeso
Qualche tempo fa mi ha inquietata un filmato volto a mostrare come Maria di Nazareth, dopo la risurrezione del Figlio, avesse seguito il discepolo Giovanni stabilendosi con lui ad Efeso. Una sorta di reportage dettagliato sui suoi viaggi veniva proposto a partire dalla Vita di Maria di Katharina Emmerick, una mistica tedesca vissuta nel secolo XIX .
Il gesuita e teologo tedesco Karl Rahner è intervenuto negli anni Settanta relativamente a profezie e visioni. Per certo, sincero e in buona fede che sia, il veggente dà corpo alla sua esperienza, rispettando i cliché culturali, la pietà e il sentire del suo tempo. Solo così si giustificherebbero talune affermazioni della Emmerick, relative a pratiche pie - via crucis, “viatico”, celebrazioni solenni presiedute dall’apostolo Pietro - in uso secoli dopo, non alla morte di Maria avvenuta, secondo la veggente, all’età di 62 anni... E in ogni caso, mai le visioni di chicchessia vengono assunte come prova in ordine ad eventi o ad asserti di fede.
Una gamma robusta di apocrifi, detti “assunzionisti”, nel darne conto, colloca la morte di Maria a Gerusalemme. Questa tradizione letteraria, divenuta patrimonio comune attorno al V secolo, oggi appare supportata anche da testimonianze archeologiche.
Ma perché mai ancor oggi si visita, ad Efeso, la cosiddetta “casa di Maria”? Forse occorre ricordare come proprio in quella città fosse stato eretto un tempio, veneratissimo, dedicato alla dea Artemide. Gli Atti degli Apostoli attestano come la nuova religione predicata da Paolo sia apparsa pericolosa a quanti vivevano del suo culto tanto da suscitare, al grido: «Grande è l’Artemide degli Efesini», quel tumulto che costrinse l’apostolo a lasciare frettolosamente la città. E poiché da sempre oggetto di venerazione è stato, ad Efeso, il trofeo dell’apostolo Giovanni, è sembrato ovvio associarne la tomba al luogo dove sarebbe vissuto con Maria e dove la stessa Maria sarebbe morta.
Efeso costituiva davvero uno dei siti in cui era più palpabile la suggestione del femminile “divino”, ossia una rappresentazione della divinità secondo simmetrie di genere, epigono malgrado tutto di quella matriarcale religione della dea così diffusa nel bacino del Mediterraneo.
Aggiungo che le religioni del Libro sono fortemente patriarcali. La loro figurazione di Dio lo fa univocamente maschio e, là dove qualcosa sfugge o rimane, ecco l’accanimento come nel caso del Corano a proposito dei cosiddetti “versetti satanici”, ombra remota di un culto al femminile.
Artemide, nel Pantheon greco-romano, è divinità lunare. Prossima alla Diana dei latini è solitaria e cacciatrice ardita, dea vergine indifferente alla seduzione.
Il simulacro della dea efesina a tutt’oggi non ha una certa interpretazione. È ricoperto sino alla vita di protuberanze tondeggianti, interpretate sia come seni che come testicoli di toro. Di certo evoca un femminile potente e sensuale.
È dunque in questa città che si sviluppa una particolare devozione a Maria. Probabilmente, quella che si visita e venera come la sua casa, era una chiesa a lei dedicata. Ben presto infatti, divenuto un culto riconosciuto e ammesso dall’impero, il cristianesimo dedicò luoghi di culto anche alla madre del Signore. Spesso i templi dedicati alle antiche dee hanno vissuto quella che in antropologia culturale si chiama “transculturazione”.
Detto altrimenti, escluse le donne dal divino, in qualche modo occorreva porvi rimedio. Chi meglio della madre di Gesù poteva sublimare questa istanza? Come non intrecciarla a quel sentire mediterraneo orfano ed epigono della Grande Madre? E come non acquisirla a questo scopo, potenziandola a dismisura? Non è forse la fanciulla di Nazareth a generare nella carne il Figlio di Dio? E non è la maternità a dare significanza alle donne? E chi più di lei può offrirne una rappresentazione potente? Non trapassano a lei gli epiteti di Cibele, antica dea anatolica della natura, e della divinità egizia Iside? Di certo nella festosità che, ad Efeso, acclama Maria come la theotokos va letto anche il protrarsi di quel filo rosso che chiede una dizione equilibrata nel dire Dio, anche in prospettiva di genere.
A questo punto sembrerebbe che il bisogno di un correttivo al patriarcato veda sinergici teologia e sentire popolare. In realtà non è così. La teologia interiorizza e sublima il patriarcato. Chiamare Maria theotokos non la dice nella sua potenza materna, piuttosto ne sancisce il rapporto funzionale al Figlio, del quale, come “nato da donna”, garantisce l’incarnazione. Se il Verbo non fosse stato generato nella carne, non potremmo parlare d’incarnazione e di redenzione.
La controversia cristologica
Ovviamente il discorso non è semplice. I Vangeli sinottici indicano Maria come la madre di Gesù. Locuzione che troviamo anche in Giovanni che, invece, non ce ne da il nome. Il Vangelo di Luca, soprattutto, la tratteggia secondo il canone più autentico del discepolato. Nel suo Vangelo dell’Infanzia si afferma che Maria custodiva gli eventi confrontandoli nel suo cuore. Pur tuttavia a correttivo dell’elogio a lei diretto da una donna innominata - Beato il seno che ti ha portato e le mammelle che ti hanno nutrito! - Gesù contrappone alla maternità fisica lì esaltata, i valori del discepolato: accogliere la parola di Dio e metterla in pratica. Sono proprio gli atteggiamenti che, secondo Luca, connotano Maria di Nazareth.
Come provano i Vangeli e gli Apocrifi dell’infanzia, l’attenzione alla madre di Gesù non è immediata. In un primo momento al centro c’è la buona novella di Gesù di Nazareth che ha annunciato il Regno di Dio. Lui crocifisso e risorto è ora al cuore dell’ Evangelo che ne raccoglie parole e gesti.
La comprensione di Lui, figlio di Dio, nato da donna, giustifica però l’attenzione a colei che lo ha generato e alle modalità che ne hanno caratterizzato la nascita. In verità, i Vangeli poco ci dicono di Maria. Attestano una sorta di rottura tra Gesù e la famiglia d’origine e ci offrono scarsissimi elementi volti a dirci chi sia questa famiglia, quasi a mostrare l’incongruenza tra quelli a cui appartiene, i gesti che compie e le parole che proferisce.
È, dunque, il dogma cristologico a mettere in campo Maria. Contro la gnosi e la sua disattenzione alla corporeità, occorre affermare che quella di Gesù è una vera nascita, iscritta nella potenza di Dio, senza concorso d’uomo. Da qui la sua lettura in chiave verginale, benché proprio in chiave antignostica, ancora nel III secolo, taluni Padri affermino verginale il concepimento di Gesù ma non la sua nascita.
Nella fatica di enucleare il nodo cristologico, l’epiteto theotokos fa fatica ad essere accolto. Basta costatarne l’assenza o la scarsa ricorrenza nei Padri. Come potrebbe la natura umana generare il divino? E d’altra parte affermare che Maria genera la sola umanità di Gesù rischia di contrapporre o giustapporre umanità e divinità. È il pericolo sotteso ai termini anthropotokos e christotokos, ciascuno nella sua unilateralità.
Non entro in dettaglio nel merito delle diverse posizioni. La controversia cristologica impegna le Chiese per tutto il III e IV secolo. È un fiorire di eresie volte a minimizzare la rilevanza dell’umanità a scapito della divinità ovvero della divinità a scapito dell’umanità. Per Cirillo d’Alessandria solo il termine theotokos garantisce la copresenza di umanità e divinità nell’unica persona del Verbo. Cirillo però cavalca il nervo scoperto di una devozione primitiva e incondizionata, di un’enfasi che già tocca la madre del Signore almeno nell’immaginario popolare.
Nello sfondo - lo ripeto - stanno il culto di Iside e di Cibele. Ci piaccia o no, sono questi elementi culturali ad animare una querelle, teologica delicatissima, che, d’altra parte non si scioglie nel concilio di Efeso ma in quello di Calcedonia (451). Qui, infatti, pur nella distinzione delle due nature si ritiene legittimo attribuire alla umanità ciò che connota la divinità e viceversa. Per questa ragione Maria di Nazareth, la madre di Gesù, può essere detta theotokos. Titolo che per la prima volta viene solennemente recepito in una definizione conciliare. Vi si insegna che il Figlio perfetto nella umanità e perfetto nella divinità, vero uomo e vero Dio, della stessa sostanza del Padre secondo la divinità e della nostra sostanza secondo l’umanità ... per noi uomini e per la nostra salvezza è stato generato da Maria vergine, genitrice di Dio (theotokos).
Da questo momento in poi Maria sarà venerata e cantata come la theotokos, spingendo tuttavia l’espressione oltre la lettera nel dirla meter theou, “madre di Dio”. Ma in ciò si è coerenti al dettato di Calcedonia, alla possibilità cioè di usare indifferentemente espressioni e attributi, non per confondere umanità e divinità, ma per affermarne la copresenza nell’unica persona del Verbo.
Che il torrente in piena della devozione vada poi sino a certe enfatiche derive è discorso altro. La fanciulla di Nazareth offre comunque un misericordioso correttivo a una religione che rischia di rimuovere il femminile.
Ci sorregge il Vaticano II , la costituzione Lumen gentium e il suo VIII capitolo, che ha per titolo “La Beata Maria Vergine Madre di Dio nel mistero di Cristo e della Chiesa”. Troviamo in essa una visione equilibrata di Maria, mai dea o creatura a mezzo tra l’umano e il divino, ma sorella nostra nella fatica quotidiana del credere, a noi compagna nella “peregrinazione della fede”, beata perché ha creduto “nell’adempimento delle parole del Signore”.
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Efeso
La Casa di Maria (in turco Meryem Ana Evi) a Efeso, è un luogo sacro di cristiani e musulmani, ubicato sul monte Solmisso nell’attuale Turchia occidentale. È considerata l’abitazione dove visse fino alla fine dei suoi giorni terreni, attorno al 48 dopo Cristo, affidata dal Gesù all’apostolo Giovanni, che con Maria si trovava ai piedi della Croce.
Le fondamenta del piccolo edificio sono state scoperte il 18 ottobre 1881 dal padre e abate parigino Julien Gouyet sulla base delle indicazioni contenute nei diari delle visioni della mistica e beata Anna Katharina Emmerick, trascritti da Clemens Brentano, poeta e novellista del periodo romantico.
Nel v secolo fu edificata la prima basilica della storia umana consacrata a Maria. Sulla cima del monte Solmisso sussisterebbe una piccola grotta angusta, nella quale gli apostoli posero il corpo della Vergine Immacolata che di lì a poco fu assunta in cielo.
Loreto
Uno dei principali luoghi di venerazione di Maria è la basilica santuario della Santa Casa a Loreto. All’intero i resti di quella che secondo la tradizione è la Santa Casa di Nazareth, il luogo dell’Annunciazione.
Secondo la tradizione, agli inizi di maggio del 1291, con Nazareth e tutta la Palestina sotto il dominio dei Mamelucchi d’Egitto, alcuni angeli prelevarono la Santa Casa e la portarono via in volo nei territori dell’antica Illiria. Successivamente, nel 1294, gli angeli portarono la preziosa reliquia a Loreto. È una piccola costruzione di metri 9,50 x 4. Nel suo nucleo originario è costituita da sole tre pareti alte circa 3 metri, e si ritiene che fosse costituita di una parte scavata nella roccia, cioè la grotta che è ancor oggi alla basilica dell’Annunciazione di Nazareth, e di una parte in muratura. Le dimensioni dell’abitazione coincidono con quelle del “buco” rimasto dove prima si trovava.
Cei. Bassetti: «Fermare l’inutile strage del nostro tempo»
L’appello del presidente della Cei, aprendo il consiglio permanente, per l’accoglienza dei profughi ucraini: l’Ue li redistribuisca. Sguardo all’Italia: preoccupano calo delle nascite e caro bollette
di Mimmo Muolo (Avvenire, lunedì 21 marzo 2022)
Il Consiglio permanente della Cei è tornato a riunirsi oggi a Roma “mentre alle porte dell’Europa una guerra devastante sta seminando terrore, morte e distruzione”. E il cardinale presidente, Gualtiero Bassetti non ha peso l’occasione di lanciare fin dalle prime parole della sua introduzione ai lavori un appello per la pace. “Il nostro pensiero va alle vittime, ai loro cari e a quanti sono costretti a lasciare le proprie case per cercare un luogo sicuro: uniamo la nostra voce a quella del Santo Padre - ha detto -, affinché ‘in nome di Dio, si ascolti il grido di chi soffre e si ponga fine ai bombardamenti e agli attacchi’. La nostra voce sale a Dio perché questa inutile strage del nostro tempo sia fermata”.
Per questo il cardinale ha anche rivolto un grazie a quanti di prodigano per l’accoglienza dei tre milioni di profughi - l’80 per cento dei quali sono in Polonia, ha sottolineato - e assicurato che anche la Chiesa italiana, soprattutto attraverso le Caritas è in prima linea.
Anche altri tempi hanno trovato posto nell’Introduzione, da uno sguardo alla situazione del Paese, alla denatalità, all’assegno unico, fino alla protezione dei minori e ai problemi connessi con il fine vita.
La guerra in Ucraina. “La grave crisi internazionale che stiamo vivendo - ha ricordato Bassetti - evoca per l’Europa il fantasma di un passato che si riteneva ormai definitivamente archiviato”. Morti e distruzioni, oltre ai profughi, non possono lasciarci indifferenti. Di qui l’appello del cardinale: “L’auspicio è che la mobilitazione della comunità politica internazionale possa trovare una soluzione al conflitto, intensificando gli sforzi diplomatici per arrivare alla cessazione delle ostilità e dell’indiscriminata violenza, che rappresentano sempre un passo indietro nel cammino dell’umanità”. Il presidente della Cei ha citato anche il recente incontro di Firenze, rivendicando la “bontà dell’iniziativa” e “l’orizzonte che si è aperto con questo nostro con-venire e con la firma della “Carta di Firenze”. Noi vogliamo costruire la pace - ha aggiunto -: vogliamo farlo per le nostre città, per le nostre comunità religiose, per le nostre famiglie, per i nostri figli. La pace è un valore che non si può barattare con nulla. Perché la vita umana non si compra e non si uccide! Sogniamo e vogliamo la pace tra tutti i popoli”.
Per questo, ha annunciato, “venerdì 25 marzo, Festa dell’Annunciazione, ci uniremo con i Vescovi e i presbiteri di tutto il mondo a Papa Francesco che consacrerà la Russia e l’Ucraina al Cuore Immacolato di Maria: è un ulteriore segno della misericordia di Dio che, al contempo, esprime tutta la preoccupazione del Santo Padre per questa situazione estremamente pericolosa per l’umanità intera”. Le Chiese infatti hanno “un ruolo insostituibile per l’edificazione di una vera pace, che ponga al centro dell’attenzione la dignità umana, il rispetto dei diritti, delle libertà di ogni persona e della vita, la costruzione di comunità solidali e aperte”.
Quanto all’accoglienza, "non si può pensare - ha rilevato Bassetti - che i Paesi di confine possano sostenere da soli questo impegno umanitario: occorrerà che l’Unione Europea decida di attuare un vero e proprio piano di ridistribuzione dei cittadini ucraini nei vari Stati membri. Stiamo, peraltro, assistendo all’arrivo di profughi anche nel nostro Paese. Nelle prossime ore, alcuni voli umanitari, da Varsavia, giungeranno in Italia, permettendo a centinaia di cittadini ucraini di essere accolti da circa 20 Caritas diocesane del nostro Paese. Sono numeri che cresceranno e che richiederanno un’accoglienza di non breve periodo". "Le nostre Chiese - ha aggiunto il porporato - stanno facendo e faranno la loro parte nell’accoglienza e nell’apertura di corridoi per favorire l’arrivo in sicurezza delle persone che sono bloccate nei Paesi di transito, che non riescono più a proseguire il loro viaggio o sono troppo vulnerabili per farlo. Anche questo è un contributo prezioso alla pace".
Lo sguardo alla situazione italiana. Ciò che preoccupa maggiormente i vescovi è che "L’orrore del conflitto" sta causando "un rovinoso effetto domino sull’andamento globale". E dunque "l’impatto sconvolgente della guerra ha colpito la società italiana in un momento in cui sembrava potersi concretizzare il desiderio collettivo di una stagione di ritrovata serenità, avvalorata dai numeri di una ripresa economica eccezionalmente intensa e dal progressivo superamento delle misure anti-Covid". La crisi energetica e l’aumento generalizzato dei prezzi, ha fatto notare il presidente della Cei, stanno invece pesando in misura considerevole sull’andamento dell’economia e sulla vita concreta delle famiglie, già duramente provate dalle conseguenze della pandemia. Del resto, l’esperienza ci dice che la crescita economica è certamente una leva di fondamentale importanza per la ripresa complessiva del Paese, un presupposto ineliminabile, ma le sue ripercussioni sulla società non sono automaticamente virtuose. Un sintomo rilevante è rappresentato dal fatto che nel 2021, a fronte di un’avanzata impetuosa del Prodotto Interno Lordo, il numero delle persone in povertà assoluta sia rimasto sostanzialmente stabile e su livelli allarmanti.
Il calo delle nascite. Anche sul versante demografico, ha ricordato il cardinale Bassetti, "i dati sono ancora una volta negativi, per l’effetto combinato delle morti per Covid - una tragedia che sarebbe intollerabile archiviare con superficialità e non solo perché il virus non è affatto domato - e dell’ennesimo minimo storico delle nascite che per la prima volta si sono fermate sotto la soglia emblematica delle 400mila unità. È confortante la notizia delle prime erogazioni dell’assegno unico per i figli, un provvedimento lungamente atteso che in prospettiva potrebbe contribuire in modo significativo ad arginare questa deriva e che andrebbe integrato con altre misure non solo economiche. Occorre tuttavia essere consapevoli che un’inversione di tendenza non sarà possibile senza un salto di qualità sul piano culturale". In sostanza "bisogna rifuggire la tentazione di strumentalizzare il disagio per interessi ideologici e occorre invece adoperarsi per ricucire e pacificare il tessuto delle relazioni umane e civili, con un’attenzione speciale per i più piccoli e i più fragili".
Lotta agli abusi e protezione dei minori. La Chiesa che è in Italia continua a procedere con passi decisi nella lotta agli abusi. "Un fenomeno - ha sottolineato Bassetti - che interpella nel profondo ciascuno e che non permette di abbassare la guardia. Ma, a tre anni dall’emanazione delle rinnovate linee guida, incentrate sulla garanzia per le vittime, e dalla costituzione del Servizio nazionale, è possibile dire che la rotta è tracciata e ben salda. Non solo vi è una rete di Servizi che tocca ogni Diocesi italiana, ma con l’istituzione capillare di Centri di ascolto, diocesani e interdiocesani, sono stati resi disponibili luoghi dove - con persone formate e competenti in grado di accogliere, comprendere e confortare - viene esercitata l’accoglienza autentica delle vittime. Grazie a una formazione sempre più diffusa, inoltre, è possibile parlare oggi di un aumento globale della consapevolezza in ogni membro della comunità ecclesiale, di una cultura rivolta sempre più alla riparazione che al nascondimento, di una tensione alla verità e alla giustizia che non lascia indietro nessuno. In tal senso prosegue il cammino di discernimento e impegno per comprendere cosa è accaduto e perché, così da implementare ogni possibile attività di prevenzione e di tutela dei minori e delle persone vulnerabili all’interno della Chiesa".
Il fronte del fine vita. Il cardinale rileva che "sono da accogliere con sollievo la sentenza e le motivazioni con cui la Corte Costituzionale ha respinto il quesito referendario sull’omicidio del consenziente, mentre c’è da sperare che nel corso dell’iter parlamentare la proposta di legge sul fine vita riconosca nel massimo grado possibile il principio di ’tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili’. La Chiesa, fa notare il presidente della Cei, "conferma e rilancia l’impegno di prossimità e di accompagnamento nei confronti di tutti i malati, invocando maggiore attenzione verso coloro che, in condizioni di fragilità o vulnerabilità, chiedono di essere trattati con dignità e accompagnati con rispetto e amore. Ed insieme auspica un “nuovo metodo di partecipazione” rispetto a queste tematiche: il dialogo e il confronto sono le strade maestre per evitare derive ideologiche con cui si smarriscono il valore e la dignità della persona".
Cammino sinodale. Secondo Bassetti, il "percorso su cui si sono incamminate tutte le nostre Chiese sta registrando una partecipazione ampia e coinvolgente. Lo Spirito soffia sui nostri territori, muovendo fantasia e creatività, segno di un rinnovato entusiasmo". E questo perché, "il popolo di Dio ha nel cuore il desiderio di incontrare gli altri, senza preferenza di persona, ed essere riflesso di comunione in ogni luogo, perché fratello o sorella di tutti e, insieme, figli dell’unico Padre". Nella vita personale, dunque, "l’uomo e la donna di fede si mettono in ascolto di ogni persona che incontrano, in atteggiamento di accoglienza incondizionata dell’altro, soprattutto dei più fragili. Scelgono, con la postura del pellegrino, di essere in comunione, operando con delicatezza e umiltà con le Chiese sorelle e le altre religioni, e anche con coloro che, pur professandosi lontani dalla fede, vivono valori profondamente umani".
Come San Giuseppe /1.
«Abbiamo avuto quasi 80 figli. La paternità? Dare un legame»
L’incontro con figure di padri putativi, esempi di accoglienza e responsabilità
di Lucia Bellaspiga (Avvenire, sabato 31 luglio 2021)
La paternità ha un preciso inizio, che non corrisponde con la nascita di un figlio. «La paternità comincia nel momento stesso in cui abbiamo scelto di essere marito e moglie. Da credenti, quello che abbiamo chiesto nel giorno in cui ci siamo sposati è di avere la grazia di vivere una paternità, e quindi anche una maternità, aperta alle persone che una famiglia non ce l’hanno». Così nella casa di Giancarlo Violetto, 57 anni, marito di Marina, di "persone" ne sono passate quasi 80 dal 1992, l’anno in cui «davanti al prete il sì non lo abbiamo detto uno all’altra, ma a una terza persona che si chiama Cristo. Questa è stata la scelta che abbiamo fatto insieme. Da cui poi sono venute tutte le altre».
Si respira aria di grande normalità in casa Violetto, campagna veneta a due passi da Cittadella, una delle case-famiglia della "Comunità Papa Giovanni XXIII" fondata da don Oreste Benzi. Si studia e si lavora, si ride e si fatica, si fanno torte e si litiga esattamente come in ogni famiglia. Solo che le stanze sono tante e nel via vai di figli è sempre difficile, per chi viene da fuori, capire quale è "di pancia" e quale "di cuore", che nell’alfabeto familiare significa nato da loro o arrivato in affido. Così nel 1993, a un anno dal matrimonio, è nato Flavio, il loro primogenito, ma subito dopo «hanno cominciato ad arrivare gli altri figli», racconta Giancarlo, di professione giardiniere. Già la tempistica non è scontata, «ma da subito avevamo impostato la nostra famiglia in tal senso: "prima ci sono le persone, poi tutto il resto". Questo si traduce in scelte concrete, Marina è rimasta a casa dal lavoro, poi invece l’ho fatto io quando sono arrivati figli che richiedevano assistenza 24 ore e la notte la reggevo meglio io».
Soprattutto è arrivata Mariangela, 14 anni fa, una bimba abortita al quinto mese di gravidanza ma poi sopravvissuta all’aborto e nuovamente rifiutata dai genitori biologici («non se la sentivano di accoglierla», detto nella lingua mai giudicante dei Violetto). È stata lei a chiedere un passo in più alla paternità di Giancarlo: «Mariangela è stata il nostro lockdown», sorride il padre, «non si va in cima agli alberi con la motosega dopo notti insonni, così sono rimasto a casa. Altra scelta non scontata, certo, ma che ha seguìto la scelta di fondo detta sopra: la paternità responsabile pretende che tu metta prima le persone e poi tutto il resto». Un lockdown duro, quello imposto da Mariangela, perché «ti costringe a fermarti, stando di fronte a te stesso. L’essere umano corre, corre per non pensare alla vita e alle paure apparentemente insormontabili, ma i figli come Mariangela ti bloccano al loro capezzale e allora devi fare verità dentro di te. Questi piccoli non ti danno soluzioni, pur senza parlare ti pongono le giuste domande, funziona come con la fede, che non dà soluzione altrimenti non sarebbe fede».
Che sia un’accoglienza "estrema" come quella di Mariangela (morta nel 2011 dopo 5 anni di zero parole e grandi sorrisi) o di Maria (salita al Cielo cinque mesi fa dopo 7 anni anche lei di silenzi e abbracci), o che invece sia un affido più "leggero", la paternità aperta all’accoglienza richiede una decisione complicata, essere disposto a cambiare. «Ogni persona che arriva in famiglia ti richiede un cambiamento, anche quando sono figli tuoi», precisa Giancarlo, «e questo cambiamento sta alla base di qualcosa che si chiama conversione. Non è un moto che parte da noi, altrimenti non riusciremmo a scalzare le sicurezze che ci siamo costruiti attorno, il cambiamento arriva da loro. Per me è stata una grazia essere padre di tante persone, proprio a cominciare da quelle che il mondo ritiene scarti, che sono lì e non ti parlano, ma ti costringono a starci e a meditare sul senso della vita». Anche socialmente non è semplice, specie nel mondo attuale, «c’è la reputazione», sorride ancora Violetto, e allora «quando la maestra a scuola ha chiesto a Matteo che mestiere faccio e lui ha risposto "il padre di casa-famiglia", era un po’ come dire disoccupato, di fronte al mondo non è un lavoro. Così ora sui social mi diverto e scrivo casalingo».
Un ulteriore passaggio arduo nella "paternità responsabile", anche perché - e rispetto al resto è un dettaglio - «noi della Comunità non siamo retribuiti, non mettiamo via i contributi e non ci sarà garantita una pensione. Non reggerebbe il bilancio della Papa Giovanni se i fondi andassero a noi anziché a migliaia di persone che accogliamo». E allora? «E allora esiste una cosa che chiamiamo Provvidenza e alla quale pensiamo di affidarci, oltre al fatto che se siamo Comunità non saremo mai soli». Già, ma come la vivono i suoi figli naturali (dopo Flavio sono nati Sofia e Matteo) una paternità così diversa? È questo il modello che propone loro? «Certo, altrimenti resta solo il famoso esempio che un padre deve dare. L’esempio non basta, molto prima occorre dare una motivazione per la quale valga la pena vivere da onesti, poi la scelta sarà loro». L’esempio del tipo «guarda tuo padre com’è bravo, devi fare come lui» non rende se dietro non c’è molto di più, perché - analizza realisticamente Giancarlo - il mondo dimostra che il giusto resta ai margini e il furbo ha successo. «Se non do a mio figlio niente cui aggrapparsi e dire "sì, nonostante tutto vale la pena", non funziona. Credo che il ruolo paterno vada proprio in questa direzione».
In casa-famiglia sono arrivati neonati e anziani, si chiama accoglienza di multiutenza. La persona più piccola è arrivata direttamente dalle braccia della madre che l’aveva appena partorita, la più anziana aveva 96 anni ed è stata la nonna di famiglia. Orfani o abbandonati, sfruttati o scartati, ragazzine madri in fuga con il loro bambino, «ciò che chiedono è sempre accudimento. Questo ti dicono, anche senza parlare: io sto male perché non appartengo a nessuno». Paternità, dunque, è anche attribuire un’appartenenza, un legame senza il quale nessun adolescente fa lo scatto per realizzare la propria persona. È proprio questo che distingue l’istituto dalla casa-famiglia, «la differenza tra addestramento e attaccamento, che è relazione profonda». Tra mille fallimenti, difetti e difficoltà, sia chiaro: qui non ci sono santi ma persone che faticano. «Questi figli di solito appena arrivano sono bravissimi, splendidi - precisa - ma stanno recitando. Dopo un mese le dinamiche familiari tirano giù tutte le maschere ed è allora che ti mettono alla prova, e questo è un loro diritto: vuoi farmi da padre?, allora vediamo se sei in grado».
Ma in questa lunga esperienza, i ruoli paterno e materno sono interscambiabili o hanno una loro specificità? «La paternità e la maternità esistono in entrambe le figure», ovvero una madre porta in sé anche una parte di paternità e idem fa un padre, «detto questo, però, c’è una diversità che è palese e una complementarietà che è necessaria». L’equivoco corrente è che la paternità sia una maternità col pugno di ferro, «niente di più sbagliato - commenta - semmai la maternità (non solo della madre) sviluppa protezione, la paternità (non solo del padre) tende alla crescita... che poi è il dilemma dell’assenza del padre nella società di oggi». Automatico chiedersi se la sua paternità sia diversa tra i tre figli naturali e quelli accolti. «Io posso dire che tutti quelli passati di qua li ho sentiti miei figli esattamente come gli altri tre, ma questo non è automatico, è frutto di un duro lavoro. Quando arrivano non sai chi sono, non li conosci... come del resto avviene con quelli che ti nascono: quante volte ci vogliono anni per capirsi?». Il caso più duro è stato quello di un ragazzino arrivato a 10 anni e con una grave patologia psichiatrica, «ci ha messi molto alla prova e io credo di averlo sentito figlio una decina di anni dopo: eravamo a Messa e al segno della pace mi ha guardato negli occhi, per uno come lui non è un gesto da poco. Essere padre significa precisamente entrare in relazione, che siano tuoi o no».
Pare un paradosso feroce, ma con tanti figli accolti malati gravi, il loro primogenito Flavio, bello e sano, tre anni fa è morto a causa di un drammatico incidente volando in parapendio. Ha vacillato la sua paternità quel giorno? Ha urlato contro il cielo? «Anzi, si è rafforzata - risponde Giancarlo accanto a Marina - sono i momenti in cui davanti agli altri figli se sei padre devi farti avanti, e allora fai appello a qualcosa che va oltre l’umano, quel qualcosa cui ti sei sempre aggrappato per dire ne vale la pena... Cercare la comunione con l’altro Padre è stato inevitabile».
(1-continua)
IL "TESTAMENTO" DI GIACOMO LEOPARDI, LE "SIBILLE" DI ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS".... *
Idee.
Leopardi, Rosmini e la diversità del «nulla»
«Riconoscere intimamente il proprio nulla» è la quinta massima di perfezione cristiana secondo il filosofo. Un approccio all’idea di umiltà e di affidamento prolifico alla grazia di Dio creatore
di Antonio Staglianò (Avvenire, giovedì 29 aprile 2021)
La Quinta massima di perfezione cristiana del Rosmini invita il cristiano a «riconoscere intimamente il proprio nulla», penetrando sempre più e sempre meglio nella propria «infermità» e «nichilità». Lo deve fare, non in modo generico e sentimentale, ma con la massima lucidità e metodicità: «Il cristiano deve avere scritte nella mente le ragioni del suo nulla: prima quelle che provano il nulla di tutte le cose; poi quelle che umiliano specialmente l’uomo; in terzo luogo quelle che umiliano la sua persona». Un ’nulla’ affidato a Dio, un «nulla intimo», custodisce e diffonde la pace interiore. Costruisce anche l’umiltà che ci rende veri! Da qui nasce la fede testimoniale, quella che sa di vero abbandono e di compagnia a Dio il quale «resta in agonia (d’amore) fino alla fine dei tempi», come ha sostenuto B. Pascal. Famosa è la sua definizione dell’uomo quale «canna pensante ». Certo il pensiero renderebbe superiore l’uomo rispetto alla natura che lo sovrasta, eppure come ’canna’ è sbattuta dai venti e dalle intemperie e rischia di continuo di spezzarsi e sparire. La sproporzione dell’universo rispetto a questo piccolo anima-letto umano è grande. Tanto più oggi, nell’immagine scientifica della realtà guadagnata attraverso le scoperte di un universo in continua espansione, con milioni di soli e miliardi di stelle e altrettante galassie.
Sono «gli interminati spazi» che Leopardi non ha bisogno di fingersi (diversamente dai «sovrumani silenzi » e dalla «profondissima quiete» nella poesia Infinito, perché li conosce bene dopo la svolta copernicana e galileiana. Rosmini sostiene dell’uomo: «Siccome egli è un atomo in paragone dell’universo, così è un nulla in paragone di Dio». Sembra che, per adorare la grandezza di Dio, l’uomo debba di necessità giungere a riconoscere il proprio nulla: quanto più l’uomo è niente, nulla, tanto più è nella giusta disposizione per avere «un grandissimo zelo per la gloria di Dio, e del ben del prossimo, con un sentimento che gli dice di essere incapace di ogni bene, incapace di porre alcun rimedio ai mali del mondo». Si tratta di un duplice approfondimento d’essere una «nientità», un nulla: anzitutto quello del limite creaturale (cosa è davvero un atomo rispetto alla totalità?), ma, in particolare, quello della sua debole condizione esistenziale a causa del peccato originale, «quella colpa in cui è stato concepito, l’inclinazione al male che porta in sé». In paragone a Dio, essere perfettissimo, creatore del cielo e della terra, ogni creatura (anche l’uomo, che pure è creato a immagine e somiglianza di Dio) è nulla. Col linguaggio dei medievali, questo si spiega filosoficamente perché solo Dio ’è’ l’Essere, la creatura ’ha’ l’essere per partecipazione.
Emanuele Severino, denunciando la follia dell’Occidente, insiste su questa ovvietà del senso comune di tutti: le cose sono niente, perché vengono dal nulla e scadono nel nulla, perciò sono nulla. Egli vede, così, proprio in Leopardi, colui che ha portato alle estreme conseguenze la follia dell’Occidente, la fede nel divenire delle cose, che porta al tramonto di tutto, anche degli dei, di ogni divinità, anche del Dio cristiano. Tutto è nulla, niente è eterno, nemmeno Dio, e la religione è una dolce illusione che con le sue fantastiche dottrine sull’aldilà (il paradiso, la gioia in Dio, la grazia di Dio e il suo perdono) allevia la sofferenza angosciante dell’uomo posto dalla vita (anche dalla natura matrigna) di fronte al nulla, all’annientamento, attraverso la morte: «sola nel mondo eterna, in cui si volve ogni creata cosa, in te morte riposa nostra ignuda natura ». Così anche nello Zimbaldone giungeva alla stessa scoperta (proposta dal Rosmini nella sua quinta Massima): «E io percepiva e considerava intorno a me solo nulla e, io medesimo, solido nulla». Leopardi non soltanto sente («e io percepiva») ma riflette e conosce intellettualmente («e io considerava») il nulla di tutte le cose e anche di sé, di ogni uomo, di ogni vicenda umana, quasi ripetendo con le parole di Qoelet «vanità delle vanità, tutto è vanità». Le ’parole’ sono le stesse e anche i ’concetti’. Eppure si assiste a un miracolo di vita nel riconoscere rosminiano il proprio «intimo nulla».
In Leopardi, invece, c’è solo la coscienza infelice di una tristezza insuperabile e angosciante, da cui distrarsi con le dolci illusioni della religione (fantastica) per non disperare e morire di crepacuore. Da dove si origina questa differenza di decisione per la vita e per la morte? Per riconoscere il proprio nulla, bisogna prima (ma è un ’prima’ solo logico) conoscere «il proprio nulla», cioè «conoscersi allo specchio del nulla», giungere all’intimità più profonda di sé per accedere davvero alla propria «nichilità- nientità», e così sapere in verità cosa siamo stati dall’eterno in Dio - nell’atto del generarsi eterno di Dio in Dio, Figlio dal Padre - e cosa siamo adesso: nulla, cioè assoluta apertura a un richiamo di vita. È il «nulla eccitante » di cui parla Florenskij nella sua teologia ortodossa La colonna e il fondamento della verità. È il nulla da cui tutte le cose sono state create. ’Questo nulla’ ha un significato che l’avvicina più allo «zero dei matematici che contiene tutti i numeri in positivo e in negativo all’infinito» o al «vuoto degli astrofisici da cui l’universo in espansione con tutta la massa della sua materia si è originato per l’inflazione originaria » che non al «nulla dei filosofi greci e di Leopardi che ne condivide il linguaggio».
Il nulla che Rosmini chiede di riconoscere intimamente è il nulla grazie al quale si può ricevere tutto e da cui tutto si origina nella vita: non è il nulla davanti allo specchio del nulla, che si gode nel suo narcisismo inconsolabile; è, invece, il nulla davanti a Dio, allo specchio della fede cristiana.
È dunque un nulla sorgivo, promettente, come la verginità di Maria di Nazareth che rende possibile addirittura l’incarnazione del Figlio di Dio.
Chi riconosce intimamente questo proprio nulla consegue l’umiltà vera, non quella ’pelosa’ di certi spirituali che puntano a mortificare i doni di Dio e i carismi, orientando a far sotterrare i talenti. È piuttosto l’umiltà di chi si vede dotato per aver ricevuto tutto da Dio e loda il suo Signore pe la sua magnificenza.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
In questo Granel di sabbia, il qual terra ha nome
LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO. IL "TESTAMENTO" DI GIACOMO LEOPARDI
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. -- ANTONIO ROSMINI, LE SIBILLE, E LA "CHARITAS".
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
Federico La Sala
Santo del giorno.
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Nome: Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Titolo: Esempio santissimo
Ricorrenza: 27 dicembre
Tipologia: Commemorazione
La festa della Sacra Famiglia fu introdotta nella liturgia cattolica solo localmente nel XVII secolo. Nel 1895 la data fissata per tale festa fu la terza domenica dopo l’Epifania, fu soltanto nel 1921 che grazie a papa Benedetto XV la celebrazione fu estesa a tutta la Chiesa.
Giovanni XXIII modificò ulteriormente la data spostandola alla prima domenica dopo l’epifania.
La riforma liturgica del Concilio Vaticano II infine la festa la Sacra Famiglia la prima domenica dopo Natale e quando il Natale cade di domenica, viene spostata al 30 dicembre.
Il suo significato è molto importante in quanto dopo aver visto la Sacra Famiglia dare alla luce e accudire il neonato Gesù a Nazareth, in questa festività la si può ammirare e ricordare nella vita di tutti i giorni, mentre vede crescere il Cristo.
L’eccezionalità di tale famiglia risiede soprattutto nel fatto che i gesti quotidiani che in qualsiasi focolare domestico erano e sono ancora oggi svolti, coincidono allo stesso tempo con il pregare, amare, adorare il proprio Dio, comunicando con suo figlio incarnato in terra.
Accudendo Gesù, lavandolo e giocando insieme a lui la Madonna e San Giuseppe mettevano in pratica i dovuti atti di culto, rappresentando il punto d’inizio per ogni famiglia cristiana, del tempo e odierna, che viveva ogni istante della giornata come un sacramento.
La festa ha come obiettivo quello di conferire un esempio a tutte le famiglie cristiane, che avrebbero potuto guardare con orgoglio al nucleo familiare che fu di Cristo il quale, nonostante le particolari condizioni note, era caratterizzato da tutte le normali problematiche che chiunque si trova ad affrontare.
Maria seguì lo sposalizio con Giuseppe, seguendo la legge ebraica, ma soprattutto il grande piano del suo Dio, conservando però la propria verginità. In seguito alla Visitazione a Sant’Elisabetta iniziò a sentire i chiari segni di una gravidanza, giungendo infine a dare alla luce il Figlio del Signore.
Prima dell’età adulta raggiunta da Gesù, la Madonna viene citata in alcuni Vangeli per un episodio accaduto durante l’adolescenza di Cristo (al tempo dodicenne), che si intrattenne al tempio con i dottori, mentre i suoi genitori penavano ormai da tre giorni nel cercarlo senza sosta.
MARTIROLOGIO ROMANO. Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, esempio santissimo per le famiglie cristiane che ne invocano il necessario aiuto.
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Fonte: Santo del giorno
Questa crisi e l’appello papale del 1920.
Ecco il mondo che c’è da rifare
di Fulvio De Giorgi (Avvenire, sabato 23 maggio 2020)
Un secolo fa, il 23 maggio 1920, il papa Benedetto XV pubblicò la grande enciclica Pacem Dei munus: il contesto era quello della penosa situazione economico-sociale causata dalla Prima guerra mondiale, peraltro aggravata dalla pandemia della “spagnola” che, tra il 1918 e il 1920, causò decine di milioni di morti nel mondo (solo in Italia 600mila). Il Papa osservava: «Ci si parano innanzi immense regioni desolate e squallide, moltitudini ridotte a tale estremo da mancare di pane, di indumenti e di letto; [...] infine un’ingente schiera di esseri debilitati». Affermava pertanto: «Mai però vi fu tempo in cui si dovessero più dilatare i confini della carità quanto in questi giorni di universale angustia e dolore; né mai forse come ora ebbe bisogno l’umanità di quella comune beneficenza che fiorisce dal sincero amore per il prossimo». E proprio mentre, tra difficoltà, stava nascendo la Società delle Nazioni, il Papa auspicava un «legame universale di popoli» e dichiarava desiderabile che, adempiuti i doveri di giustizia e di carità, tutti gli Stati «si riunissero in una sola società o meglio famiglia dei popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare l’ordine del civile consorzio». E a questo fine proponeva «di ridurre, se non è dato di abolire, le enormi spese militari».
Dopo quell’enciclica del Papa si ebbero due grandi e tragici momenti di crisi mondiale: la Grande Depressione, avviatasi nel 1929, e la Seconda guerra mondiale (1939-45). Da tali due crisi si uscì in modo sensibilmente diverso.
I devastanti effetti della crisi finanziaria ed economica, partita con il crollo della Borsa di Wall Street, portarono a uno choc psicologico ed etico-politico che provocò una grande paura e la vittoria di soluzioni “sovranistiche” cioè nazionalistico-imperialistiche: in Germania si ebbe l’avvento al potere di Hiltler e il sorgere del totalitarismo nazionalsocialista, le altre potenze europee (Gran Bretagna e Francia) cercarono di superare i problemi scaricandoli sulle colonie, anche l’Italia fascista e soprattutto il Giappone svilupparono un imperialismo espansionista; una crescita delle industrie delle armi accompagnò tali processi.Tuttavia questa soluzione sovranistica - l’opposto di quello che aveva auspicato il Papa - si rivelò tragicamente contraddittoria e negativa, indebolendo progressivamente la già fragile Società delle Nazioni e sfociando, infine, nel secondo conflitto mondiale, che rappresentò - ovviamente - una catastrofe umanitaria di eccezionali proporzioni. Da questa seconda crisi mondiale, tuttavia, grazie alla sconfitta delle potenze dell’Asse, si uscì in modo totalmente diverso. Oggi si parla molto di Piano Marshall e si invoca qualcosa di simile per il mondo del dopo-coronavirus. Ma quel Piano (che riguardava l’Europa) avvenne in un contesto complessivo molto preciso: ed è proprio questo l’aspetto storico più rilevante e anche quello più istruttivo per l’oggi e più attuale.
La soluzione alla grave crisi umanitaria, provocata dalla Seconda Guerra Mondiale, fu quella delle “Nazioni Unite”: la nascita dell’Onu, come primo embrione di un sistema istituzionale di governo mondiale. Si ebbe così la Dichiarazione universale dei Diritti umani. Insomma non una soluzione sovranistica, ma una soluzione solidaristico-fraterna: fondata sulla fratellanza universale del genere umano, giunto sulla soglia del possibile suicidio atomico. È questo il «grande crinale della storia» di cui parlò Giorgio La Pira.
Le grandi scelte, che, nei decenni seguenti, furono compiute, si maturarono all’interno di quella generale visione di fondo: il compromesso tra capitalismo e democrazia, con una regolamentazione sociale dell’economia e il progressivo sviluppo del Welfare State, l’avviarsi del processo di unità europea, la decolonizzazione. Anche la guerra fredda rimase appunto “fredda” perché frenata e, in qualche modo, interdetta da quel paradigma generale.
La globalizzazione neoliberale, che ha dominato la fine del XX secolo e l’avvio del XXI, fino a oggi, ha fortemente destrutturato e delegittimato quella soluzione solidaristico-fraterna: non ha potuto cancellarla del tutto, ma la ha indebolita fortemente. Così che, di fronte alla crisi finanziario-economica avviatasi nel 2007-2008, la soluzione solidaristico- fraterna, che pure sarebbe stata la più opportuna, non è riuscita a imporsi. E sono sorte, invece, aggressive e impetuose posizioni neo-sovraniste che hanno ancor più minato (e perfino deriso) gli ideali stessi della fraternità umana e della solidarietà universale: basti considerare l’atteggiamento di molti Paesi del Nord del mondo verso gli esodi di migranti poveri e perseguitati dal Sud del mondo.
Oggi la catastrofe sanitario-umanitaria mondiale provocata dalla pandemia di Covid-19 ci riporta al «grande crinale della storia». Solo una soluzione solidaristico- fraterna universale, che ponga all’ordine del giorno una forma di governo mondiale, potrà salvarci. È ancora un pontefice, papa Francesco, a indicare con tenacia e argomenti forti la strada e al suo fianco - pur nella seria difficoltà di questa grande istituzione sovranazionale e multilaterale - stavolta c’è il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. I perduranti dogmi neoliberisti e le ricorrenti pseudo-soluzioni sovranistiche (con l’implicita idea neo-imperialistica di scaricare i problemi sui più poveri del mondo) sarebbero un errore tragico e fatale, che l’umanità non può permettersi.
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO (il maggiorasco), REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI"). Una pagina di Kant e una nota (federico la sala)
Francesco, pericoloso «femminista»
Vaticano. Bergoglio, un uomo del nostro tempo
di Bia Sarasini (il manifesto, 18.09.2015)
Ieri per definirsi papa Francesco ha usato una parola proibita e quasi temuta, in ambito ecclesiale: «Perdonatemi se sono un po’ femminista». Parlava a braccio a un’udienza ai giovani consacrati, e voleva ringraziare «la testimonianza delle donne consacrate». Due giorni fa invece, nel concludere una settimana dedicata alla famiglia, ha demolito un mito tenace, Eva e il suo serpente che corrompono Adamo, l’uomo: «Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice» ha detto nell’omelia.
In passato aveva già parlato della «brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: ’Ma perché hai mangiato il frutto dell’albero?’ E lui: ’La donna me l’ha dato’». Ma c’è un orientamento, una direzione, o meglio un’intenzione in tutte le parole che dall’inizio del suo pontificato papa Bergoglio ha dedicato alle donne?
In verità non è facile orientarsi, e questo è sorprendente, in un pontefice che mostra una straordinaria chiarezza di predicazione, di pastorale e di politica.
Nell’omelia di due giorni fa la riflessione in realtà non era colloquiale, come altre sue battute. «Invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio». Un passaggio significativo, anche se non si può dimenticare che da anni tante teologhe lavorano in questa direzione, con risultati di altissima qualità.
Come importante è stata una considerazione di qualche tempo fa, quando ha detto che nulla può giustificare la disparità di retribuzione tra uomo e donna. «Perché si dà per scontato che le donne debbano guadagnare di meno degli uomini? Si tratta di maschilismo», ha commentato senza tanti di giri di parole, applaudito dalla folla di San Pietro.
Non c’è materiale sufficiente per delineare una “dottrina” del papa sulle donne, forse, ma abbastanza per accorgersi di un cambiamento profondo, che più che sui principi, si muove sui comportamenti, sul senso comune, sulla pratica quotidiana.
Certo, bisogna essere cattolici, praticanti o perlomeno formati in quel contesto, per “sentire” quanto queste parole siano forti, incongrue, fuori da qualunque tradizione precedente. Papa Francesco non è magniloquente, non proclama l’elogio del «genio femminile» come fece Woityla, ma ha deciso che con il Giubileo si «perdoni» il peccato di aborto. Anche questa decisione ha fatto molto discutere. A molte - e anche molti laici - è sembrata un’ insopportabile offesa, la riaffermazione di un principio. È comprensibile, ma è evidente che si tratta del contrario. Si tratta della derubricazione della colpa assoluta, demonizzata, e imperdonabile che ha agitato non solo lo stretto ambito del mondo cattolico in questi ultimi anni. Si potrebbe dire che a poco a poco, discorso dopo discorso, omelia dopo omelia, vengono ridotti - decostruiti per essere precisa - tutti gli elementi che fanno della donna un essere speciale e pericoloso. In una visione non solo cattolica, non solo teologica, e non solo mitica, su un terreno in cui ha senso richiamarsi alle radici cristiane dell’Europa e del mondo occidentale, perché è questa visione che ancora ne nutre l’immaginario.
Anche nella relazione con le donne papa Francesco ha portato la forza di una linguaggio quotidiano, semplice, diretto. È un uomo del nostro tempo e risulta evidente, da quello che dice e che fa, che conosce la vita, il mondo. Conosce gli uomini e le donne. È sufficiente a sciogliere la diffidenza, se non l’ostilità delle donne nei suoi confronti? Anzi, meglio sarebbe dire la delusione, impossibile comprendere il giudizio durissimo da lui espresso sulle «teorie del gender», che ha definito «espressione di una frustrazione», una forma di «colonizzazione ideologica».
Il 4 ottobre comincia il Sinodo ordinario, quello che dovrà operare le scelte pastorali sulla famiglia. Divorziati, omosessuali sono i principali temi sul tappeto. Nulla che riguardi le donne, neppure la contraccezione è stata discussa, l’anno scorso.
Papa Francesco è un uomo coraggioso. Abbiamo ammirato tutti la forza con cui propone alla sua Chiesa una pratica che corrisponda agli insegnamenti del Vangelo. L’accoglienza, mettere a disposizione ciò che si possiede, il rispetto delle leggi. Appena eletto, disse « mi chiamano comunista». Viene da pensare che dichiararsi «un po’ femminista» in un’istituzione che da due millenni è fatta da soli uomini, sia perfino più pericoloso.
DECRETO
San Giuseppe, un modello sempre attuale
Il suo nome nelle Preghiere eucaristiche
di Matteo Liut (Avvenire, 19 giugno 2013)
È san Giuseppe, umile custode di un tesoro prezioso, il modello da incarnare con sempre maggiore efficacia nel mondo di oggi. Questo mandato alla Chiesa universale è alla base della decisione di inserire il nome dello sposo della Vergine Madre di Dio nella seconda, nella terza e nella quarta Preghiera eucaristica, estendendo così anche a questi testi più moderni quanto avviene già per la prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano. Così dopo le parole «con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio» d’ora in poi bisognerà sempre aggiungere anche «con san Giuseppe, suo sposo». La decisione è stata annunciata ieri dalla Sala stampa vaticana, che ha pubblicato in diverse lingue un decreto emesso dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti.
Un documento che riporta la data dello scorso 1° maggio e le firme del cardinale Antonio Cañizares Llovera e dell’arcivescovo Arthur Roche, rispettivamente prefetto e segretario del Dicastero vaticano. L’indicazione non è frutto di una decisione dell’ultimo minuto, ma, secondo quanto riporta lo stesso decreto, è stata voluta da Benedetto XVI e ora realizzata da papa Francesco. «Nella Chiesa cattolica i fedeli hanno sempre manifestato ininterrotta devozione per san Giuseppe - si legge nel documento - e ne hanno onorato solennemente e costantemente la memoria di sposo castissimo della Madre di Dio e patrono celeste di tutta la Chiesa, al punto che già il beato Giovanni XXIII, durante il Sacrosanto Concilio ecumenico vaticano II, decretò che ne fosse aggiunto il nome nell’antichissimo Canone Romano».
Benedetto XVI, spiega ancora il decreto, «ha voluto accogliere e benevolmente approvare i devotissimi auspici giunti per iscritto da molteplici luoghi, che ora il sommo pontefice Francesco ha confermato, considerando la pienezza della comunione dei santi che, un tempo pellegrini insieme a noi nel mondo, ci conducono a Cristo e a lui ci uniscono». Un gesto, quindi, che rende ancora più forte la continuità tra i pontificati di Joseph Ratzinger e di Jorge Mario Bergoglio: il primo, infatti, ha più volte ricordato la sua profonda devozione al «proprio santo», il secondo porta nel proprio stemma (da vescovo, cardinale e pontefice) il nardo, simbolo dello sposo di Maria. Inoltre il pontificato del Papa argentino è stato ufficialmente inaugurato con la Messa d’inizio del ministero petrino proprio il 19 marzo, giorno in cui la Chiesa festeggia san Giuseppe. In lui, ha detto Francesco nell’omelia quel giorno, «vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!».
Parole cui fa eco in parte anche la spiegazione contenuta nel decreto diffuso ieri: san Giuseppe - vi si legge - «aderendo pienamente agli inizi dei misteri dell’umana salvezza, è divenuto modello esemplare di quella generosa umiltà che il cristianesimo solleva a grandi destini e testimone di quelle virtù comuni, umane e semplici, necessarie perché gli uomini siano onesti e autentici seguaci di Cristo. Per mezzo di esse quel Giusto, che si è preso amorevole cura della Madre di Dio e si è dedicato con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, è divenuto il custode dei più preziosi tesori di Dio Padre» ed è stato venerato nei secoli «quale sostegno di quel corpo mistico che è la Chiesa». Una Chiesa che oggi vuole ripartire proprio dal suo esempio.
Matteo Liut
STORIA. La politica di Benedetto XV al tempo della Grande Guerra ha segnato il percorso della Santa Sede lungo tutto il Novecento
E la Chiesa cercò la pace globale
La Chiesa cattolica non si identificava con nessuna parte in lotta, perché era - in un certo senso - un’internazionale
di ANDREA RICCARDI (Avvenire, 06.02.2010) *
La guerra tra europei era divenuta mondiale. Le nazioni in lotta, attraverso i combattimenti e la propaganda di guerra, allargavano sempre più il fossato che le separava. Era un fatto incontestabile, rilevabile nel panorama internazionale e nelle varie opinioni pubbliche. Di questa lacerazione risentiva la Chiesa stessa nel suo intimo. La guerra mondiale è un terreno invivibile per la Chiesa cattolica, diffusa in tante e diverse nazioni: conduce lo stesso cattolicesimo a una lacerazione interna. Infatti, quella Chiesa cattolica, che Benedetto XV guidava da Roma (dietro le mura vaticane, protetto dalla fragile legge delle Guarentigie, non accettata dalla Santa Sede), soffriva proprio la divisione tra i diversi cattolicesimi nazionali coinvolti nel conflitto, l’uno contro l’altro.
La Chiesa cattolica non si identificava con nessuna parte in lotta, perché era - in un certo senso - un’internazionale, una realtà globale. Si vede come questa Chiesa «cattolica» si confronti con la fervida adesione dei cattolici alla guerra, con il nazionalismo cattolico dei vari Paesi, con la demonizzazione del nemico, operata anche da cattolici di livello. Il predicatore domenicano padre Sertillanges, nel 1917, dichiarava, in presenza dell’arcivescovo di Parigi, dopo la Nota di papa Benedetto, di non volerne sapere della «sua pace». Infatti, la pace di Benedetto, quella da lui ricercata, non era la vittoria di una parte sull’altra, ma la fondazione di un ordine internazionale giusto e stabile, operata anche attraverso il riconoscimento dei diritti e dell’identità delle nazioni, che fino allora erano state conculcate. È una pace perseguita non attraverso le armi, ma con il negoziato e il dialogo.
I nazionalismi lacerano la Chiesa stessa, che è per sua natura soprannazionale. I nazionalismi isolano la Santa Sede dalle nazioni e talvolta dagli stessi cattolici. Ma l’isolamento non spinge il Papa al silenzio e a una prudente inazione. La lacerazione dell’«internazionale cattolica» si sente particolarmente tra le mura vaticane, dove il Papa, ospite di una capitale in guerra dal 1915, non accetta mai di essere appiattito sulle ragioni di una parte. Non si tratta di tatticismo, ma di una posizione coerente con la missione della Chiesa e del suo stesso ministero, che vuole ricordare alle nazioni in lotta che c’è qualcosa al di là del conflitto. C’è la comune appartenenza alla famiglia dei popoli.
Nel vuoto di una famiglia ormai lacerata, il Papa parla e agisce ricordando che i popoli sono fratelli, che debbono agire come se lo fossero, anche se non si riconoscono come tali. È una posizione impossibile nella logica stringente della politica e della propaganda di guerra. Ma Benedetto XV non abdica a questa visione «imparziale», che gli appare dettata non solo dalla «carità» della Chiesa cattolica, ma dalla natura stessa dell’umanità.
La posizione elaborata da Benedetto XV, nei quattro anni di guerra, rappresenta la «filosofia» a cui si rifà l’azione della Santa Sede durante tutto il Novecento per quel che riguarda la pace e la guerra.
Pio XII, che era stato stretto collaboratore di papa Della Chiesa in posizioni di grande responsabilità, ha sotto gli occhi la vicenda della Chiesa nella prima guerra mondiale, quando fa le sue scelte tra il 1939 e il 1945. Ma la filosofia dell’imparzialità, accompagnata dalla ricerca del dialogo e del negoziato come via d’uscita dalla logica delle armi, unita all’impegno umanitario, restano un riferimento decisivo per l’orientamento del cattolicesimo lungo tutto il Novecento. La «dottrina» di Benedetto XV è un punto di partenza decisivo, tra guerra e pace, anche per la Chiesa di Paolo VI, di Giovanni Paolo II, di papa Ratzinger, che ha voluto prendere il nome di Benedetto, anche per l’azione di pace condotta dal suo predecessore. Si vede chiaramente l’importanza di questo pontificato come laboratorio di scelte destinate a influenzare la vita della Chiesa per un intero secolo.
Chi conosce sommariamente la figura di papa Della Chiesa potrebbe pensare a una figura «profetica» nel senso di un uomo irruento, interventista, implicato in denunce e condanne. Questa è un’idea di profezia invalsa in un periodo della nostra storia, quello dopo il Vaticano II, ma non è l’unica accezione d’essa. Giacomo Della Chiesa è tutt’altro che un irruento interventista. Ha la formazione e l’esperienza del diplomatico: è un realista, come si vede dalla gestione dei suoi rapporti con l’Italia. Il carattere dell’uomo è quello di un tessitore diplomatico di iniziative: possibili.
È un papa che affascinava il giovane Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Il realismo di papa Benedetto non significa, però, l’accettazione della realtà della guerra o l’andare passivamente a rimorchio dietro alle infiammate opinioni pubbliche nazionaliste. C’è nel Papa una indomita passione per la pace che si esprime anche nella capacità di agire contro corrente, rischiando critiche e isolamento. La sua passione si nutre di una partecipazione davvero profonda al dolore degli uomini e delle donne del suo tempo.
* IL LIBRO
Contro l’inutile strage
Esce in questi giorni in libreria il volume di Antonio Scottà «Papa Benedetto XV. La Chiesa, la Grande Guerra, la pace» (Edizioni di Storia e letteratura, pagine 442, euro 45), che ripercorre in particolare la vicenda del Pontefice e il suo impegno per la pace in occasione del primo conflitto mondiale. Dal volume qui anticipiamo ampi stralci della prefazione dello storico Andrea Riccardi.
Ebrei e cristiani, una disputa (e un mistero) in famiglia
di Vittorio Messori (Corriere della Sera, 19 gennaio 2010)
In questi giorni, torrenti di parole per la visita di Benedetto XVI alla Sinagoga romana, eretta là dove sorgeva il ghetto e orientata in modo da fronteggiare, quasi a sfida, la basilica, la più grande del mondo, che copre il sepolcro di un tal Simone. Un pio giudeo, costui, un oscuro pescatore sul lago di Tiberiade, rinominato Kefas, Pietro, da un certo Gesù, colui che, storicamente, altro non è se non un predicatore ambulante ebraico dell’epoca del Secondo Tempio, uno dei tanti che si dissero il Messia atteso da Israele.
Il solito esaltato, all’apparenza (e tale apparve a un burocrate di Benevento, della famiglia dei Ponzi, chiamato controvoglia a giudicarlo), un visionario. Punita con la più vergognosa delle morti, quella riservata agli schiavi. Un illuso di cui si sarebbe perso il ricordo se i suoi discepoli- tutti circoncisi e fedeli alla Torah- non avessero cominciato a proclamare, con una testardaggine intrepida, che quel rabbì finito in malo modo era risorto ed era davvero l’Unto annunciato dai profeti.
Quel gruppetto di ebrei riuscì a convincere altri ebrei, prima a Gerusalemme e poi nelle sinagoghe dell’emigrazione, dove si recarono ad annunciare che l’attesa millenaria di Israele aveva avuto compimento. La messe maggiore tra i correligionari la fece un credente entusiasta, un altro figlio di Abramo, un Saulo detto Paolo che, perché le cose fossero chiare, precisava subito ai correligionari di essere «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo, figlio di ebrei». Anch’egli, come Pietro, finì ucciso dai pagani a Roma e anche sul suo sepolcro fu costruita una gigantesca basilica. Se da tutta l’Europa, per tutto il Medio Evo, folle di pellegrini convennero salmodianti e penitenti sul Tevere, è proprio per venerare la sepoltura di quelle due «colonne della fede»: entrambe, costituite da giudei sino al midollo.
A lungo, i pagani non si preoccuparono di distinguere, dividendo sbrigativamente gli ebrei in due gruppi, quelli che alla loro fede aggiungevano questo esotico Cristo e quelli che lo rifiutavano: noiose dispute, querelles teologiche viste tante volte all’interno di ogni religione.
Benedetto XVI, leggo in una cronaca, aveva con sé una piccola Bibbia che ha posato sul sedile dell’auto, scendendo davanti alla sinagoga. Ebbene, tra i 73 libri che compongono quel Testo su cui si fonda la fede della Chiesa solo Luca e, forse, Marco non sono figli di Israele. Tanto che si preferisce oggi sostituire l’indicazione di «Antico» e «Nuovo» Testamento con quella di «Primo» e «Secondo» Testamento, per sottolineare la continuità e l’omogeneità del messaggio. Perché ricordiamo tutto questo, e molto altro ancora che potremmo allegare? Ma perché numerosi commentatori, anche in questi giorni, sembrano dimenticare che, qui, vi è una storia in famiglia e, al contempo, un mistero religioso.
È una storia di fede, e di fede soltanto: il «laico» può soltanto intravederne, e spesso in modo fuorviante, i contorni esterni. È un confronto tra figli di Abramo, sia per nascita che per adozione. E anche questo aspetto familiare ne spiega le asprezze, non unicamente da una parte: gli Atti degli Apostoli e le lettere di Paolo mostrano quanto dura sia stata la reazione del giudaismo ufficiale nei confronti degli «eretici». Ma chi ignora che i contrasti più aspri sono proprio quelli tra parenti stretti, che le guerre più temibili sono quelle civili? Fratelli, coltelli. Il cristianesimo è da duemila anni la fede in un Messia di Israele annunciato e atteso nei duemila anni precedenti da quello stesso Israele che poi in parte- ma solo in parte- non lo ha riconosciuto.
Per l’ennesima volta, molte delle analisi e opinioni di questi giorni non sembrano consapevoli che qui siamo al di là delle categorie della storia, della politica, della cultura. I rapporti interni al giudeo-cristianesimo non sono un «problema» affrontabile con le consuete categorie: sono, lo dicevamo, un Mistero. Parola di Saulo-Paolo, e proprio ai Romani: «Non voglio, infatti, che ignoriate questo Mistero, perché non siate presuntuosi: l’indurimento di una parte d’Israele è in atto fino a quando saranno entrate tutte le genti. Allora, tutto Israele sarà salvato, come sta scritto». In ogni caso, anche gli «induriti», sono «amati a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili».
Del tutto insufficienti, qui, le sapienze di politologi e intellettuali che non siano consapevoli che il confronto tra ebrei e cristiani appartiene non alla storia, ma alla teologia della storia. Solvitur in Excelsis: qui vi è un enigma, troppo spesso doloroso, che trova spiegazione solo nei Cieli, per dirla con quel grande filosofo e insieme grande cristiano che fu Jean Guitton.
l’intervento
Il patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, rilancia il dialogo: «Oggi è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti»
Terra Santa, la pace è possibile
«Palestinesi e israeliani sono chiamati a questa responsabilità davanti a Dio: devono sforzarsi di trovare uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni»
DI MICHEL SABBAH (Avvenire, 13.02.2008) *
Ci domandiamo oggi se la pace è possibile in Terra Santa. In concreto ci sono segni di speranza, ma soprattutto sembrano prevalere paure, esitazioni, oppressioni e instabilità. E le sofferenze continuano. Costruire la pace in Terra Santa, come ovunque, è impresa sempre più difficile.
Numerosi sono i conflitti nel mondo in cui la violenza, il disprezzo della persona umana e dell’immagine di Dio nell’uomo sono praticati non solo da individui, ma da gruppi e a volte da governi responsabili. La pace in Medio Oriente sarà certamente frutto di accordi tra capi di governo e responsabili politici; ma prima di tutto coinvolgerà nel profondo i rapporti tra le comunità e tra i singoli. Ogni palestinese e ogni israeliano dovranno vedere nell’altro non più un nemico da odiare e da combattere, ma un fratello e un amico con cui costruire finalmente le nuove società palestinese e israeliana. La pace in Medio Oriente comincia a Gerusalemme.
Qui si manifesta il più profondo mistero di Dio per la storia dell’umanità: ha scelto questa città per raggiungere, attraverso il popolo eletto, tutti i popoli della terra. Gerusalemme: città in cui la fede in Dio unisce popoli e nazioni e città in cui i credenti, in nome di Dio, lungo i secoli e fino a oggi, si sono posti in conflitto. Città della riconciliazione, sorgente di pace per i pellegrini che la raggiungono, ma deserto di divisione per i suoi abitanti. La città dove tutti dicono «io qui sono nato» e che non è rimasta, nello scorrere dei secoli, esclusiva di una sola religione. Ebraismo, cristianesimo e islam oggi vi coesistono: sono tutti radicati in lei. La città di Dio è come Dio: per tutti. Nessuno può avere Dio in esclusiva, nessuno può avere la città di Dio in esclusiva e privarne l’altro. Gerusalemme è la dimora di Dio, aperta a tutti; è la dimora dello Spirito, sorgente di santità e di dignità per ogni persona.
Gerusalemme era ed è ancora il centro dell’ebraismo: era ed è il centro del cristianesimo. Dal sesto secolo fu per l’islam la «santa» città, il «santuario di Dio». Oggi, come nel passato, ci sono credenti, ebrei, musulmani e cristiani, amati da Dio di un amore speciale, che in questa terra, al di là delle divisioni e dei conflitti quotidiani, sono uniti nell’intimità della preghiera. Per loro intercessione Dio non permette che maggiori mali cadano su Gerusalemme. Altri credenti, e sono sfortunatamente la maggioranza, danno rilievo all’espressione esterna della loro fede, accentuando le differenze religiose che sono conseguentemente sfruttate da ambizioni e interessi umani.
Ogni giorno viviamo nei nostri cuori e nei nostri corpi la tragedia della divisione, dell’odio e della morte. La città della riconciliazione, la città di Dio, appare tragicamente lontana da Dio. Gerusalemme ha bisogno di pace e di riconciliazione, come d’altronde tutta le regione. Oggi Gerusalemme è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti. La Gerusalemme palestinese deve essere realmente palestinese, e l’israeliana israeliana. È una grande responsabilità amministrare la città di Dio rispettandone il Suo disegno, cioè con lo stesso amore e la stessa giustizia per tutti i suoi figli. Perciò palestinesi e israeliani, oggi chiamati a questa responsabilità davanti a Dio, devono sforzarsi di trovarle uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni presenti.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione e ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti, può portare solo a una tregua, ma non a una pace definitiva. Una soluzione ingiusta o imposta rimarrà una minaccia permanente alla pace.
Soltanto la via della giustizia può condurre alla pace. Con la violenza si può vincere una guerra o una battaglia. Uno Stato può essere creato con la forza, ma la pace no. La realtà che stiamo vivendo in Terra Santa lo prova: con la forza Israele ha vinto battaglie e guerre ed ha creato uno Stato. Ma la ricerca della pace con i palestinesi non è ancora finita. Il dialogo tra le parti coinvolte è l’unica via, purché gli accordi non rimangano mere firme sulla carta.
Vedremo la vera vittoria solo quando avremo giustizia per tutti. Io, vescovo in questa Terra Santa e martoriata, chiedo una pace che garantisca tutti i diritti a tutte le parti in conflitto.
Desidero una pace che sia in grado di garantire la sicurezza ai palestinesi, agli israeliani e a tutti i popoli della regione; una pace che rispetti la dignità, la libertà, la sovranità e i diritti di ogni persona e di ogni popolo.
Bisogna riconoscere che la religione, in questa parte del mondo, ha una grande responsabilità nella ricerca della giustizia e della pace: è anzitutto la fede nell’unico Dio creatore e nell’amore per tutte le sue creature. Evidentemente questo amore deve conciliarsi con il diritto di difendersi e di difendere la dignità di ogni persona, nonché con il rifiuto di ogni forma di oppressione e di ingiustizia. In Oriente la religione compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche. Tutto viene posto sotto il nome di Dio.
Tutto incomincia e finisce nel suo nome: la guerra, come la pace.
Perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso come nell’altro: possono incitare alla guerra e alla violenza o esortare alla pace. Purtroppo, in nome di Dio, gli uomini hanno causato nel corso della storia molte guerre e conflitti. Oggi, in nome di una fede meglio compresa e meglio vissuta, i leader religiosi hanno la responsabilità di cambiare il comportamento dei fedeli, di aprire una nuova via che conduca il mondo verso la pace, per testimoniare l’appello di Dio all’umanità: Dio è creatore di tutti e vuole il bene di tutti.
*
L’ANTICIPAZIONE
Nato a Nazaret nel 1933, Michel Sabbah (nella foto) è il primo palestinese a essere nominato, nel 1987, patriarca latino di Gerusalemme. Ordinato sacerdote nel 1955 e conseguita la laurea in Filologia della lingua araba a Beirut, ha ottenuto il dottorato in Filosofia alla Sorbona di Parigi ed è stato preside dell’Università di Betlemme.
Presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dal 1999 al 2007 è stato anche presidente di Pax Christi International. Deciso fautore del dialogo fra le religioni, è una figura di spicco nelle relazioni interreligiose con gli ebrei e i musulmani della Terra Serra. Un impegno ribadito nel volume «Voce che grida dal deserto», del quale anticipiamo qui uno stralcio, curato da Nandino Capovilla e presentato dal cardinale Carlo Maria Martini (Paoline, pagine 138, euro 11,00).
Dal Cadore il pontefice rinnova l’appello per la convivenza e contro la corsa agli armamenti
"Se gli uomini vivessero in pace con Dio e tra di loro, la Terra somiglierebbe a un paradiso"
Lorenzago, il papa prega per la pace
"La guerra è l’inferno nel mondo"
LORENZAGO - "Una speciale preghiera per la pace nel mondo" è stata rivolta questa mattina dal papa Ratzinger nella piazza centrale di Lorenzago sul Cadore, gremita da migliaia di fedeli. "In questi giorni di riposo che, grazie a Dio, sto trascorrendo qui in Cadore, sento ancor più intensamente - ha confidato il pontefice - l’impatto doloroso delle notizie che mi pervengono circa gli scontri sanguinosi e gli episodi di violenza che si verificano in tante parti del mondo. Questo mi induce a riflettere ancora una volta sul dramma della libertà umana nel mondo".
"Da questo luogo di pace, in cui anche più vivamente si avvertono come inaccettabili gli orrori delle ’inutili stragi’, rinnovo l’appello - ha scandito il Pontefice - a perseguire con tenacia la via del diritto, a rifiutare con determinazione la corsa agli armamenti, a respingere più in generale la tentazione di affrontare nuove situazioni con vecchi sistemi".
Secondo Benedetto XVI per colpa della guerra, "in questo stupendo ’giardino’ che è il mondo, si aprono spazi di ’inferno’". "Se gli uomini vivessero in pace con Dio e tra di loro - ha detto - la Terra assomiglierebbe veramente a un ’paradiso’. Il peccato purtroppo ha rovinato questo progetto divino, generando divisioni e facendo entrare nel mondo la morte".
"Proprio queste terre in cui ci troviamo, che di per se stesse parlano di pace e di armonia, sono state - ha ricordato il pontefice - teatro della Prima guerra mondiale, come ancora rievocano tante testimonianze ed alcuni commoventi canti degli Alpini. Sono vicende da non dimenticare: bisogna fare tesoro delle esperienze negative che purtroppo i nostri padri hanno sofferto, per non ripeterle".
* la Repubblica, 22 luglio 2007
IL VIAGGIO DEL PAPA *
Vivere da convertiti segno che parla a tutti
L’omelia alla Messa davanti al Sacro Convento «Il peccato impediva a Francesco di vedere nei lebbrosi i propri fratelli: l’incontro con Cristo lo aprì a una misericordia più grande della filantropia»
Benedetto Xvi
Pubblichiamo ampi stralci dell’omelia tenuta dal Papa domenica ad Assisi.
Cari fratelli e sorelle,
che cosa ci dice oggi il Signore, mentre celebriamo l’Eucaristia nel suggestivo scenario di questa piazza? Oggi tutto qui parla di conversione, come ci ha ricordato monsignor Domenico Sorrentino (...). La Parola di Dio appena proclamata ci illumina, mettendoci davanti agli occhi tre figure di convertiti. La prima è quella di Davide. Il brano che lo riguarda, tratto dal secondo libro di Samuele, ci presenta uno dei colloqui più drammatici dell’Antico Testamento. Al centro di questo dialogo c’è un verdetto bruciante, con cui la Parola di Dio, proferita dal profeta Natan, mette a nudo un re giunto all’apice della sua fortuna politica, ma caduto pure al livello più basso della sua vita morale. (...) L’uomo è davvero grandezza e miseria (...). «Tu sei quell’uomo»: è parola che inchioda Davide alle sue responsabilità. Profondamente colpito da questa parola, il re sviluppa un pentimento sincero e si apre all’offerta della misericordia. Ecco il cammino della conversione.
Ad invitarci a questo cammino, accanto a Davide, si pone oggi Francesco. Lui stesso (...) guarda ai suoi primi venticinque anni come ad un tempo in cui «era nei peccati» (cfr 2 Test 1: FF 110). Al di là delle singole manifestazioni, peccato era il suo concepire e organizzarsi una vita tutta centrata su di sé, inseguendo vani sogni di gloria terrena.(...) Gli sembrava amaro vedere i lebbrosi. Il peccato gli impediva di dominare la ripugnanza fisica per riconoscere in loro altrettanti fratelli da amare. La conversione lo portò ad esercitare misericordia e gli ottenne insieme misericordia. Servire i lebbrosi, fino a baciarli, non fu solo un gesto di filantropia, una conversione, per così dire, «sociale», ma una vera esperienza religiosa, comandata dall’iniziativa della grazia e dall’amore di Dio (...).
Nel brano della Lettera ai Galati, emerge un altro aspetto del cammino di conversione. A spiegarcelo è un altro grande convertito, l’apostolo Paolo. (...) «D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (6,17). (...) Nella disputa sul modo retto di vedere e di vivere il Vangelo, alla fine, non decidono gli argomenti del nostro pensiero; decide la realtà della vita, la comunione vissuta e sofferta con Gesù, non solo nelle idee o nelle parole, ma fin nel profondo dell’esistenza, coinvolgendo anche il corpo, la carne. (...) Francesco di Assisi ci riconsegna oggi tutte queste parole di Paolo, con la forza della sua testimonianza. (...) Egli si innamorò di Cristo. Le piaghe del Crocifisso ferirono il suo cuore, prima di segnare il suo corpo sulla Verna. Egli poteva veramente dire con Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me».
E veniamo al cuore evangelico dell’odierna Parola di Dio. Gesù stesso, nel brano appena letto del Vangelo di Luca, ci spiega il dinamismo dell’autentica conversione, additandoci come modello la donna peccatrice riscattata dall’amore. (...) A scanso di equivoci, è da notare che la misericordia di Gesù non si esprime mettendo tra parentesi la legge morale. Per Gesù, il bene è bene, il male è male. La misericordia non cambia i connotati del peccato, ma lo brucia in un fuoco di amore. Questo effetto purificante e sanante si realizza se c’è nell’uomo una corrispondenza di amore, che implica il riconoscimento della legge di Dio, il pentimento sincero, il proposito di una vita nuova. (....) Che cosa è stata la vita di Francesco convertito se non un grande atto d’amore? Lo rivelano le sue preghiere infuocate, ricche di contemplazione e di lode, il suo tenero abbraccio del Bimbo divino a Greccio, la sua contemplazione della passione alla Verna, il suo «vivere secondo la forma del santo Vangelo» (2 Test 14: FF 116), la sua scelta della povertà e il suo cercare Cristo nel volto dei poveri. È questa sua conversione a Cristo, fino al desiderio di «trasformarsi» in Lui, diventandone un’immagine compiuta, che spiega quel suo tipico vissuto, in virtù del quale egli ci appare così attuale anche rispetto a grandi temi del nostro tempo, quali la ricerca della pace, la salvaguardia della natura, la promozione del dialogo tra tutti gli uomini. Francesco è un vero maestro in queste cose. Ma lo è a partire da Cristo. È Cristo, infatti, «la nostra pace» (cfr Ef 2,14). (...)
Non posso dimenticare, nell’odierno contesto, l’iniziativa del mio predecessore di santa memoria, Giovanni Paolo II, il quale volle riunire qui, nel 1986, i rappresentanti delle confessioni cristiane e delle diverse religioni del mondo, per un incontro di preghiera per la pace. Fu un’intuizione profetica e un momento di grazia, come ho ribadito alcuni mesi or sono nella mia lettera al vescovo di questa città in occasione del ventesimo anniversario di quell’evento. La scelta di celebrare quell’incontro ad Assisi era suggerita proprio dalla testimonianza di Francesco come uomo di pace, al quale tanti guardano con simpatia anche da altre posizioni culturali e religiose. Al tempo stesso, la luce del Poverello su quell’iniziativa era una garanzia di autenticità cristiana, giacché la sua vita e il suo messaggio poggiano così visibilmente sulla scelta di Cristo, da respingere a priori qualunque tentazione di indifferentismo religioso, che nulla avrebbe a che vedere con l’autentico dialogo interreligioso.
Lo «spirito di Assisi», che da quell’evento continua a diffondersi nel mondo, si oppone allo spirito di violenza, all’abuso della religione come pretesto per la violenza. Assisi ci dice che la fedeltà alla propria convinzione religiosa, la fedeltà soprattutto a Cristo crocifisso e risorto non si esprime in violenza e intolleranza, ma nel sincero rispetto dell’altro, nel dialogo, in un annuncio che fa appello alla libertà e alla ragione, nell’impegno per la pace e per la riconciliazione. Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del Santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo (cfr Gv 14,6), unico Salvatore del mondo. (...)
Ai giovani: «Come il Poverello, cercate la vera felicità»
Il discorso tenuto a Santa Maria degli Angeli: «Siamo qui per imparare a incontrare Cristo. Anche noi siamo chiamati a riparare la Chiesa» «Centrare la vita su se stessi è una trappola mortale: possiamo essere noi stessi solo se ci apriamo, nell’amore, a Dio e ai fratelli»
Benedetto Xvi
Pubblichiamo ampi stralci delle parole rivolte da Benedetto XVI ai giovani sul piazzale della basilica di Santa Maria degli Angeli.
Carissimi giovani, grazie per la vostra accoglienza, così calorosa, sento in voi la fede, sento la gioia di essere cristiani cattolici. Grazie per le parole affettuose e per le importanti domande che i vostri due rappresentanti mi hanno rivolto. (...)
Questo momento del mio pellegrinaggio ha un significato particolare. San Francesco parla a tutti, ma so che ha proprio per voi giovani un’attrazione speciale. (...) La sua conversione avvenne quando era nel pieno della sua vitalità, delle sue esperienze, dei suoi sogni. Aveva trascorso venticinque anni senza venire a capo del senso della vita. Pochi mesi prima di morire, ricorderà quel periodo come il tempo in cui «era nei peccati» (cfr. 2 Test 1: FF 110).
A che cosa pensava, Francesco, parlando di peccati? Stando alle biografie, ciascuna delle quali ha un suo taglio, non è facile determinarlo. Un efficace ritratto del suo modo di vivere si trova nella Leggenda dei tre compagni, dove si legge: «Francesco era tanto più allegro e generoso, dedito ai giochi e ai canti, girovagava per la città di Assisi giorno e notte con amici del suo stampo, tanto generoso nello spendere da dissipare in pranzi e altre cose tutto quello che poteva avere o guadagnare» (3 Comp 1,2: FF 1396). Di quanti ragazzi anche ai nostri giorni non si potrebbe dire qualcosa di simile? Oggi poi c’è la possibilità di andare a divertirsi ben oltre la propria città. (...) Si può «girovagare» anche virtualmente «navigando» in internet. Purtroppo non mancano - ed anzi sono tanti, troppi! - i giovani che cercano paesaggi mentali tanto fatui quanto distruttivi nei paradisi artificiali della droga. Come negare che sono molti i ragazzi, e non ragazzi, tentati di seguire da vicino la vita del giovane Francesco, prima della sua conversione? Sotto quel modo di vivere c’era il desiderio di felicità che abita ogni cuore umano. Ma poteva quella vita dare la gioia vera? Francesco certo non la trovò. (...) La verità è che le cose finite possono dare barlumi di gioia, ma solo l’Infinito può riempire il cuore. Lo ha detto un altro grande convertito, Sant’Agostino: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confess. 1,1).
Sempre lo stesso testo biografico ci riferisce che Francesco era piuttosto vanitoso. (...) Nella vanità, nella ricerca dell’originalità, c’è qualcosa da cui tutti siamo in qualche modo toccati. Oggi si suol parlare di «cura dell’immagine», o di «ricerca dell’immagine». (...) In certa misura, questo può esprimere un innocente desiderio di essere ben accolti. Ma spesso vi si insinua l’orgoglio, la ricerca smodata di noi stessi, l’egoismo e la voglia di sopraffazione. In realtà, centrare la vita su se stessi è una trappola mortale: noi possiamo essere noi stessi solo se ci apriamo nell’amore, amando Dio e i nostri fratelli.
Un aspetto che impressionava i contemporanei di Francesco era anche la sua ambizione, la sua sete di gloria e di avventura. (...) La stessa sete di gloria lo avrebbe portato nelle Puglie, in una nuova spedizione militare, ma proprio in questa circostanza, a Spoleto, il Signore si fece presente al suo cuore, lo indusse a tornare sui suoi passi, e a mettersi seriamente in ascolto della sua Parola. È interessante annotare come il Signore abbia preso Francesco per il suo verso, quello della voglia di affermarsi, per additargli la strada di un’ambizione santa, proiettata sull’infinito (...).
Cari giovani, mi avete ricordato alcuni problemi della condizione giovanile, della vostra difficoltà a costruirvi un futuro, e soprattutto della fatica a discernere la verità. Nel racconto della passione di Cristo troviamo la domanda di Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38). (...) Anche oggi, tanti dicono: «ma che cosa è la verità? Possiamo trovarne frammenti, ma la verità come potremmo trovarla?» È realmente arduo credere che questa sia la verità: Gesù Cristo, la Vera Vita, la bussola della nostra vita. E tuttavia, se cominciamo, come è una grande tentazione, a vivere solo secondo le possibilità del momento, senza verità, veramente perdiamo il criterio e perdiamo anche il fondamento della pace comune che può essere solo la verità. E questa verità è Cristo. La verità di Cristo si è verificata nella vita dei santi di tutti i secoli. I santi sono la grande traccia di luce nella storia che attesta: questa è la vita, questo è il cammino, questa è la verità. (...).
Sostando questa mattina a San Damiano, e poi nella Basilica di Santa Chiara, dove si conserva il Crocifisso originale che parlò a Francesco, ho fissato anch’io i miei occhi in quegli occhi di Cristo. È l’immagine del Cristo Crocifisso-Risorto, vita della Chiesa, che parla anche in noi se siamo attenti, come duemila anni fa parlò ai suoi apostoli e ottocento anni fa parlò a Francesco. La Chiesa vive continuamente di questo incontro.
Sì, cari giovani: lasciamoci incontrare da Cristo! Fidiamoci di Lui, ascoltiamo la sua Parola. (...) Ad Assisi si viene per apprendere da san Francesco il segreto per riconoscere Gesù Cristo e fare esperienza di Lui. (...)
Proprio perché di Cristo, Francesco è anche uomo della Chiesa. Dal Crocifisso di San Damiano aveva avuto l’indicazione di riparare la casa di Cristo, che è appunto la Chiesa. (...) Noi tutti siamo chiamati a riparare in ogni generazione di nuovo la casa di Cristo, la Chiesa. (...) E come sappiamo, ci sono tanti modi di riparare, di edificare, di costruire la casa di Dio, la Chiesa. Si edifica poi attraverso le più diverse vocazioni, da quella laicale e familiare, alla vita di speciale consacrazione, alla vocazione sacerdotale. (...) Se il Signore dovesse chiamare qualcuno di voi a questo grande ministero, come anche a qualche forma di vita consacrata, non esitate a dire il vostro sì. Sì non è facile, ma è bello essere ministri del Signore, è bello spendere la vita per Lui! (...)
Sono felice, carissimi giovani, di essere qui, sulla scia dei miei predecessori, e in particolare dell’amico, dell’amato Papa Giovanni Paolo II. (...)
Se oggi il dialogo interreligioso, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, è diventato patrimonio comune e irrinunciabile della sensibilità cristiana, Francesco può aiutarci a dialogare autenticamente, senza cadere in un atteggiamento di indifferenza nei confronti della verità o nell’attenuazione del nostro annuncio cristiano. Il suo essere uomo di pace, di tolleranza, di dialogo, nasce sempre dall’esperienza di Dio-Amore. (...)
Cari giovani, è tempo di giovani che, come Francesco, facciano sul serio e sappiano entrare in un rapporto personale con Gesù. È tempo di guardare alla storia di questo terzo millennio da poco iniziato come a una storia che ha più che mai bisogno di essere lievitata dal Vangelo. Faccio ancora una volta mio l’invito che il mio amato Predecessore, Giovanni Paolo II, amava sempre rivolgere, specialmente ai giovani: "Aprite le porte a Cristo". Apritele come fece Francesco, senza paura, senza calcoli, senza misura. Siate, cari giovani, la mia gioia, come lo siete stati di Giovanni Paolo II. Da questa Basilica dedicata a Santa Maria degli Angeli vi do appuntamento alla Santa Casa di Loreto, ai primi di settembre, per l’Agorà dei giovani italiani.
* Avvenire, 19.06.2007
DIRITTO
Se a Roma il «pater familias» era sovrano assoluto e i cristiani introdussero l’idea dei «doveri» del genitore, dal Medioevo in poi l’autorità sui figli è entrata in crisi. Un saggio di Marco Cavina spiega perché
Paternità, un declino durato mille anni
di Giulia Galeotti (Avvenire, 02.06.2007)
Che l’autorità paterna sia un concetto giuridico ormai superato è noto. Meno note sono però le profonde variazioni che essa ha vissuto nei secoli, variazioni oggetto del recente volume di Marco Cavina, Il padre spodestato. Se l’autorità paterna era assoluta per i potenti padri biblici e romani, una novità l’ha proposta il cristianesimo, introducendo due principi rivoluzionari: la rottura dei vincoli familiari in nome di valori più alti e, soprattutto, l’affiancare al concetto di potere quello di dovere del padre. Altri snodi cruciali saranno poi due momenti piuttosto vicini tra loro, la Rivoluzione francese e gli anni Sessanta del Novecento: dopo una longevità millenaria, infatti, in soli due secoli si è realizzato il definitivo affossamento dell’autorità paterna. Il volume, ricco d’informazioni (specie fino a tutta l’età moderna), mostra che il quadro è più complesso di quanto ci si aspetterebbe. Una riprova sono gli oltre venti punti in cui i trattatisti del tardo Medioevo individuavano le articolazioni dell’autorità paterna. Molti i diritti, come la vendita dei figli per necessità di fame, il diritto del padre di uccidere la figlia colta in adulterio, l’obbligo del figlio di seguire la religione paterna (salvo che per i figli di ebrei), il potere di far incarcerare o castigare dal giudice il figlio. Non mancavano però i doveri, come la perdita della patria potestà per induzione della figlia alla prostituzione o l’obbligo di riscattare il figlio prigioniero. Al godimento di vantaggi e privilegi pubblici per meriti paterni, corrispondeva specularmente l’imposizione di svantaggi per peccati o delitti del medesimo.
Secondo Cavina, docente di Storia del diritto medievale e moderno, il progressivo annientamento del potere paterno ha dei precisi responsabili: l’individualismo borghese, l’industrializzazione, lo statalismo, la trasformazione del mercato del lavoro e l’emancipazione femminile. Come per il giusnaturalismo lo Stato non è più un’autorità per diritto divino, ma per libero contratto tra gli individui, così la famiglia è fondata non più su un padre investito di potere naturale, ma su una pattuizione. Si parlava dunque di legittimazione gerarchica sulla base dell’atto di generazione; di legittimazione contrattualista in nome del tacito consenso dei figli; soprattutto, però, era seguita la spiegazione funzionale-utilitaria: il potere del padre sul figlio era dovuto all’incapacità di quest’ultimo di gestirsi autonomamente (da cui il venir meno della perpetuità della patria potestà del modello romano). La motivazione per sottrarre all’autorità paterna buona parte delle sue articolazioni sarebbe stata l’interesse del figlio: è in nome di costui che lo Stato entra nella famiglia. «Un puerocentrismo promosso dallo Stato divenne la parola d’ordine delle democrazie liberali», scrive Cavina. Tra l’altro, ciò è l’ennesima riprova dell’infondatezza dello stereotipo che vuole i totalitarismi particolarmente invasivi nelle relazioni domestiche, mentre si tratta di un’"invasione" condivisa in toto dalle politiche democratiche.
Cavina coglie due "capitolazioni" emblematiche per l’autorità paterna in età contemporanea. Il primo durissimo colpo le viene inferto nell’Ottocento quando istituti come la diseredazione o la libertà testamentaria vengono fortemente ridotti: riformare il sistema successorio in senso egualitario significa, infatti, sottrarre al padre qualsiasi possibilità di investire patrimonialmente il proprio successore. L’altro attacco, molto più recente, è quello al cognome paterno, simbolo della supremazia del padre e strumento per garantire l’unità domestica. Via via che nei vari Paesi si è diffusa la possibilità di scegliere il cognome per i figli, infatti, «il cuore stesso del patrimonio simbolico trasmesso dal padre è stato annientato, o quasi». Con quali conseguenze, è da vedere. Questo però il diritto non lo dice, potendo solo registrare i cambiamenti in atto.
Marco Cavina
Il padre spodestato
L’autorità paterna dall’antichità a oggi
Laterza. Pagine 360. Euro 20,00
All’indomani dell’editoriale di Galli della Loggia
Disconosciuti i padri? È la famiglia svuotata
di Eugenia Roccella (Avvenire, 04.04.2007)
L’ennesimo video registrato in una qualunque scuola italiana con il cellulare, e diffuso da You Tube: l’editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di lunedì parte da qui, riportando fedelmente alcune sconvolgenti battute del dialogo tra un alunno e una professoressa. Il ragazzino gioca consapevolmente a sorpassare ogni limite, sicuro della propria impunità, mentre la docente è schiacciata dall’impotenza e dall’imbarazzo. Questo episodio, come altri, testimonia l’avvenuta dissoluzione di qualunque forma di rispetto nei confronti degli insegnanti, la fine di ogni autorevolezza pedagogica, ma giustamente Galli va oltre, e l’articolo si intitola "Addio ai padri".
La soggettività giovanile si forma ormai al di fuori dei canali tradizionali, e il mondo adulto non è più né un modello né un esempio. I ragazzi si fanno da soli i propri canoni di riferimento, attraverso il gruppo di coetanei e le reti di comunicazione (Internet in primo luogo), che costituiscono una sorta di mondo a parte, autonomo e autoreferenziale. Non siamo più in grado di educare, perché non crediamo nemmeno noi al valore di quello che vorremmo trasmettere, e neppure al nostro ruolo di educatori; siamo incerti e intimiditi, sempre pronti a rifugiarci nei mito del dialogo, dell’ascolto e della tolleranza, che da tempo sono sfociati in una slabbrata permissività.
Galli parla di padri metaforici, cioè delle responsabilità di un’intera generazione di adulti, incapace di indicare la strada e di proporre con forza la distinzione tra bene e male, desiderio e limite, insegnando ai ragazzi che la vita non si riduce alla ricerca di un’immediata felicità personale, ma è costruzione della coscienza. Potremmo discutere, però, anche di figure più concrete, di modelli maschili, dell’evanescenza sempre più accentuata del ruolo paterno nella vita quotidiana. I temi si intrecciano: è la scuola ad essere arrivata al capolinea, dopo decenni di politiche dissennate, ma è anche la famiglia che è stata presa in contropiede dalla grande mutazione antropologica che è in corso, e in cui ci stiamo infilando con serena incoscienza.
L’idea che gli individui siano totalmente arbitri della propria esistenza, dimenticando che nascono e muoiono dentro un tessuto di relazioni di cui si è per sempre responsabili, per esempio, rende il rapporto con i genitori più fragile e meno necessario; il fatto che i figli siano pochi e spesso unici, che ormai la solidarietà generazionale sia a rischio, che abbiamo coniato un nuovo termine, "child-free", per connotare positivamente l’essere privi di figli, certo incide negativamente. Pesa la svalutazione della famiglia, la distruzione dei significati della maternità e della paternità, la cultura del disimpegno affettivo e dell’equivalenza tra desiderio e diritto.
Tutto questo, e molto altro, si sa. Viene detto nel privato, nelle preoccupate confidenze tra mamme, nelle conversazioni tra amici, ma difficilmente entra nel dibattito pubblico. La politica fa fatica a rendersi conto che la formazione delle giovani generazioni è un compito fondamentale, e che su questo, prima di tutto, dovrebbe misurare le proprie scelte. Alle famiglie, a cui questo compito tocca prima che a chiunque altro, serve aiuto: un sostegno economico, certamente (per esempio la realizzazione del famoso quoziente familiare), ma soprattutto un sostegno immateriale, che aiuti i genitori a non sentirsi sovrastati da una cultura ostile, vissuta spesso come un vero e proprio assedio.
Senza i crociati a quest’ora sottostavi alla Sharia..Rileggiti e ripensa la storia, insieme al tuo amico/compagno La Sala, caro Gughi !Altro che Pacs e libertà d’espressione !
Saluti a te e all’amico ranger Smith. Biasi
Caro Biasi ...RILEGGENDO LA NOVELLA DI PIRANDELLO .... E RIPENSANDO ALLA STORIA, RIAFFORANO ALL’ARIA TUTTI I BIMILLENARI MIASMI DI UN CATTOLICESIMO PER IL POPOLO..... se ancora non ne senti il gran fetore, non dire poi che io non ti ho avvisato!!! Dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Pirandello e Freud - per te che hai ancora tanta entusiastico ardore di sentire il fedeoso ’profumo’ del mith-o cattolico-romano, ti allego una ’bottiglia’ dell’ultima produzione di profumo, quello di Valencia 2006. M. cordiali saluti. Dr. S-Mith
Dio a scudo dell’uomo
di Antonio Staglianò (Avvenire, 13.07.2006)
La visita di Benedetto XVI in Spagna è stato contrassegnata da alcuni fatti "inauditi" che riempiono il cuore del cristiano di amarezza, ma anche di un po’ di sana consolazione. Chi "non aspetta" il Papa e non lo accoglie, manifesta così il suo disprezzo delle verità che egli annuncia: in "questo disprezzo", però, splende la bellezza della verità cristiana sulla famiglia, sulla relazione affettiva, sull’amore, sulla società e sulla politica. Questa verità è destinata a salvare l’umano dell’uomo, perché ne custodisce la sua realtà di persona. La proclamazione - ad alta voce, su tutti i tetti - dei «valori non negoziabili» diventa un banco di prova della profezia del cristianesimo. La profezia cristiana è oggi più chiara (splendente nella sua bellezza) quanto più è contraddetta da politiche alla Zapatero, individualiste e libertarie, causa di tante forme di alienazione dell’uomo. Aveva ragione Giovanni Paolo II nell’affermare che proprio sulla "questione dell’uomo" (questione antropologica) risiede la radice ultima di ogni questione sociale e nel fare della cultura il "luogo e il tempo" dell’impegno pastorale più grande per l’evangelizzazione. La cultura è infatti «ciò per cui l’uomo diventa più uomo», ma è in essa che l’uomo si perde ed entra in crisi: là dove la vita è distrutta e non rispettata; là dove l’amore partecipativo tra le persone è vinto dall’egoismo degli individui e dei gruppi sociali; là dove la verità dell’azione è compromessa dall’utilitarismo e dal pragmatismo che puntano al successo immediato, senza alcun senso di responsabilità per gli altri. Benedetto XVI ripropone - sulla scia di Wojtyla - una strenua difesa della persona umana: da qui tutte le critiche non solo sulle questioni della famiglia, ma anche sui tanti problemi relativi ai singoli, agli individui, alle coscienze. Come "Vescovo di Roma", ogni Papa sa di parlare a nome della Chiesa universale e del Vangelo. Sa, però, che il Vangelo, annunciato in forme e linguaggi sempre nuovi - attesi i grandi trapassi culturali nelle singole epoche storiche -,custodisce l’umano, spesso offeso proprio dall’uomo. Il cristianesimo è religione dell’evento di un Dio fattosi carne. È al servizio della salvezza integrale dell’uomo, che Cristo mostra: Ecce Homo. L’uomo è persona, creato da Dio, secondo la sua immagine e somiglianza, con diritti inalienabili: alla vita, alla crescita armonica in una famiglia unita e in un ambiente morale che aiutino lo sviluppo della sua personalità. L’uomo è persona e lo è nel dono di sé, fondamento di una convivenza solidale e pacifica tra persone e tra i popoli. Dio è principio della salvaguardia della persona nell’uomo, che ne impedisce la manipolazione, lo sfruttamento, la mercificazione, la riduzione a un «semplice essere vitale» tra i tanti esseri esistenti. E’ questa la "bellezza difficile" del cristianesimo, ma è la bellezza che salva il mondo. Essa splende sempre. Anche in "certo disprezzo" che può diventare oggi l’occasione propizia, il "tempo favorevole", per mostrare al mondo l’Ecce Homo.
Veramente io il "fetore" lo vivo leggendo e costatando alcune cose. Rimpiango, io anticomunista, esaltato dalla perestroika, in lacrime di felicità per la caduta del muro di Berlino (come non ricordarsi il motto:"Budapest, Praga, Berlino - comunismo assassino!" ??) quei comunisti dell’ex Unione Sovietica, così grigi, lenti, feroci. Oggi, dopo un periodo di rilassamento, cosa ci ritroviamo ? Dei comunisti modificati geneticamente. Li avevamo lasciati in Piazza Rossa, tutti medaglie e orgoglio proletario, coi bei faccioni di Marx , Lenin & Compagnia bella e oggi come te li ritrovi ? In autoreggenti, minigonne in pelle, truccati e profumati (non al "profumo di Valencia", naturalmente). I vari Vladimir son diventati Luxuria. Le varie Helena si sono trasformate in Helena/velena, trans di ultima generazione con tanto di frustino sadomaso. Direte che sarà stato l’effetto Cernobyl ? Però, che mutazioni !!A volte è vero, la realtà supera la fantasia..Anche l’anziano Pajetta, scandalizzato, pare avesse gridato a un giovane Grillini che gli "saltava" sempre addosso per sensibilizzarlo sul tema dei gay: "Anche i finocchi! Ma che ca... sta diventando ’sto partito!".
Babilonia è diventata la nuova Mosca. La lobby omosessuale è ramificata oramai dovunque e, come possiamo constatare, potentissima. All’orizzonte se ne avvista una ancora più devastante: quella pedofila (vedi Olanda)!!I bambini, ci siamo dimenticati dei bambini ?? Anche quest’ultimi hanno i loro diritti !! Perchè proibire la propria sessualità a un bambino ?
È questa la nuova "rivoluzione" : il comunismo libertario. Ne è un esempio un ex maestro elementare (ahime !!),militante iscritto a Rifondazione Comunista, fondatore dei primi due locali transgender d’Europa, frequentati da intellettuali e magistrati, attori e onorevoli , attirati da quel "essere liberi" di parlare e di far sesso..
Questa auspicata liberazione sessuale è concepita non più fra uomo e donna ma tra essere e essere, quindi coinvolge tutti: adulti, maschi, femmine, bambini, animali..l’età e la specie non contano. I promotori di questa nuova "rivoluzione" rappresentano la nuova frontiera, pronta a diventare la nuova classe dirigente, la nuova intellighenzia. Nel frattempo il tessuto sociale si sta dissolvendo, i rapporti fra i sessi sempre più problematici e le famiglie a pezzi. A costoro importa forse qualcosa ? Figuriamoci...
Caro Biasi ... vedo che ti riconosci ’bene’ nelle forme (al di là delle differenze di contenuti - pure importanti) del totalitarismo del Cattolicesimo-romano e del Comunismo-sovietico (come del fascismo e del nazismo) - STATI di coscienza alterati, portatori dello stesso sogno - quello di un PLATONISMO PER IL POPOLO.... eterno bambino rimbambito. Il mio punto di vista è quella del PATTO e dell’ALLEANZA e della LEGGE, quello della COSTITUZIONE dei nostri ’Padri’ (’Giuseppe’) e delle nostre ’MAdri’ (’Maria’), il resto è semplicemente PRE-ISTORIA (come aveva capito già Marx, e non i marxisti)!!!
Saluti, Federico La Sala
Caro Federico, mi hai già fatto presente che non sei un teologo (non lo sono neanch’io!), quindi ti pregherei, per la tua stessa reputazione e credibilità , di non continuare con questo "tuo enigma" sulla paternità di Gesù e le tue speculazioni sulla figura di Giuseppe. Chiediamoci pure del silenzio inspiegabile dei vangeli sull’infanzia di Cristo (tranne l’episodio di quella fuga, ancora dodicenne, dai genitori), della mancanza di qualsiasi spiegazione tecnica sul "modo" della concezione verginale e della differenza fondamentale tra i racconti evangelici e tutte le leggende pagane che certamente conoscerai; chiediamoci del ruolo di Giuseppe nel disegno divino che non implica una "svalutazione" della sessualità umana (ma forse un discreto ridimensionamento dell’orgoglio maschile). Se, come ben dici, è l’Amore che conta, l’Amore fra una Madre e un Padre, fra Due IO, allora possiamo affermare, senza ombra di dubbio, che Gesù ha beneficiato dell’Amore paterno di Giuseppe, e per mezzo di lui ha potuto farsi un’idea dell’Amore del Padre nei cieli. Non si insisterà mai abbastanza sul ruolo avuto da Giuseppe in questa umanizzazione del Figlio di Dio. Minimizzare questo ruolo equivalerebbe a pensare che un uomo che adotta un bambino non è in grado di amarlo di un vero amore paterno, come se fosse frutto della sua carne...
Saluti. Biasi
L’ASSUNZIONE DI MARIA, L’ASSUNZIONE DI GIUSEPPE .... E LA BUONA-PAROLA, IL BUON-MESSAGGIO, LA BUONA-NOTIZIA.... L’ EU-LOGOS !!!
Caro Biasi
e che vuol dire che non siamo teologi?! La gente umile e comune (non parliamo poi di quella di San Giovanni in Fiore, e di coloro che sanno dei Larici Pisani ... conoscono nientemeno che MELCHISEDECH) ne sa molto più di noi - e di loro, i teologi!!! La BUONA-NOTIZIA, LA BUONA-NOVELLA, il BUON-MESSAGGIO (EU-ANGéLO) dà dignità regale e sacerdotale a tutti gli esseri umani - come la sana e robusta COSTITUZIONE dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ (ART. 3)!!! E, per quanto riguarda GIUSEPPE, sappi che la sua (come quella di ELIA) ASSUNZIONE in cielo è avvenuta prima di quella di MARIA !!! Tieni presente la preghiera del "Padre Nostro", è capisci quanto sia importante ri-equi-librare il rapporto natura e cultura, terra e cielo ... e padre e madre (dentro di noi, e fuori di noi), riattingere alla fonte viva dello Spirito d’ Amore (Francesco, Chiara, Goacchino, Dante...) !!! Che Benedetto XVI si muova ... se vuole che altre mille e mille inutili stragi non si ripetano (e la piramide non crolli addosso a lui - e anche a noi, tutti e tutte del pianeta Terra!). E la finisca ... di perseguitare se stesso - si voglia BENE!!! In principio era la BUONA-NOVELLA....- e, come è detto e come sai, per i teologi non c’è più nulla da fare, se non ritirarsi in pensione! Così sta scritto, e così è: "deposuit potentes de sede et exaltavit humiles".
M. saluti, Federico La Sala
Caro Federico, dove l’hai scovata quest’altra battuta (Assunzione in cielo di Giuseppe ed Elia )??
Comunque rassegnati, Papa Bene-detto seguirà le orme del suo precedessore e dovrai quindi sopportarlo, tuo malgrado, ancora per lunghi anni (almeno spero!).
Che Dio ti benedica. Biasi
15 agosto 2006 d. C. : FESTA dell’ ASSUNZIONE di MARIA VERGINE ... e di GIUSEPPE VERGINE !!!
Caro Biasi .... vedo che hai perso ogni memoria... lontano da San Giovanni in Fiore: "Regardez Elie, vous verrez Marie" - e viceversa !!! Domani, il 16 luglio 2006 d. C. è la Festa di N. S. del CARMELO (Elia-Giuseppe ... e Maria) ! Sei molto all’oscuro di trope ’cose’ ... e non ti biasi-mo, ma il W O ITALY era carmelitano, come Dante era francescano!!! W O ITALY - VIVA L’ITALIA .... e non dimenticare VIVA VIVA L’ALLEANZA - LA COSTITUZIONE - DEI NOSTRI ’PADRI’ (’GIUSEPPE’) E DELLE NOSTRE ’MADRI’ (’MARIA’).
Che l’Amore dei nostri Padri e delle nostre Madri ti illumini ... e illumini anche il tuo Benedetto XVI, al più presto!!!
M. saluti, Federico La Sala
Caro GUGHI .... a meglio riflettere sulla portata e sulle implicazioni dela nov ella di Pirandello - e sui tempi che viviamo, ti ripropongo una ’lettera’ del 2005 (www.ildialogo.org/filosofia, Sabato, 30 aprile 2005)
La crisi del cattolicesimo-romano e della democrazia-americana non si risolve ... rilanciando una politica occidentale da sacro-romano impero !!! di Federico La Sala
Caro Direttore
Concordo pienamente con il suo Editoriale (Alla fine conteranno i fatti e non le parole, del 29.04.2005). Stiamo per cadere definitivamente nella palude più nera che più nera non si può - a tutti i livelli. A prendere dal lato culturale la ‘cosa’, io direi che anche l’intera classe intellettuale (e non solo politica ed economica) ci è caduta e ci sta cadendo definitivamente (basta ri-vedere e ri-considerare l’atteggiamento nei confronti del “berlusconismo” - al di là di poche luminose eccezioni, e della grande determinazione di Furio Colombo, per capire ... il nostro futuro più prossimo). A mio parere, la ragione sta proprio nello scegliere e nel permanere in un’ottica (per dirlo, con un termine unico - con e contro Salvatore Natoli) neo-pagana e di un punto di vista di un individuo chiuso e “finito”... senza porte e senza finestre! Il neo-paganesimo italiano si colloca all’interno di un orizzonte già tramontato, che non riesce a vedere (proprio per la mancanza .. di porte e finestre aperte, all’altro dentro di sé e all’altro fuori di sé) - NON la natura antropo-‘teo’ logica del messaggio ebraico- cristiano e islamico, e della religione in generale; NON la natura edipica dell’ideologia della setta cattolico-romana (questa appare essere la Chiesa cattolico-romana, oggi, ferme restando le posizioni della Dominus Jesus del “pastore tedesco”, e al di là dell’apparenza imposta dalla palude mediatica italiana); - NON il presente “puttanegiare” (Dante) del ‘cattolicesimo’ della Chiesa romana con la democrazia (sempre più da scrivere con virgolette) statunitense, che sta portando tutti noi e la stessa Europa politicamente a saldarsi (a questo si è già preparata con l’intera gerarchia ... fino a piegare il proprio centro-sinistra interno, nella figura del suo ammalato e vecchio Martini.... e con lui trascinare anche il centro-sinistra esterno, con Prodi) con la linea-dottrina del ‘ri.nato’ Bush - anch’essa in crisi di egemonia (interna ed esterna - a tutti i livelli) e a riprendere e a rilanciare un programma disperato (e fuori da ogni possibilità di sviluppi positivi per tutta l’Umanità) di Conquista e ri-Conquista planetaria (rileggere la prima Omelia di Papa Benedetto XVI del 24.04.2005 - nelle sue monche e cieche ‘radici’ simboliche, a partire da e fin dal IV sec.!!!). Questa, se si vuole, è (per usare l’espressione del filosofo neo-pagano Severino) la FOLLIA dell’OCCIDE(re)NTE o, meglio con il teologo protestante e resistente (proprio contro il fondamentalismo bio-teo-con nazista!) Dietrich Bonhoffer (Resistenza e resa), la STUPIDITA’, la stupidità dell’OCCIDE(re)NTE !!! Persa la grande occasione della rilettura di Nietzsche (dal capolavoro dell’edizione Colli-Montinari), al di là delle mode marxiste e heideggeriane (in qualche modo, insieme e nello stesso tempo, nichilistiche e relativistiche e platoniche) non hanno saputo né interpretare (salvo un lodevolissimo tentativo inziale di Vattimo,) né voluto capire (come ha ben detto Luce Irigaray, nel suo intervento nel “Diario” sul “Relativismo” (“la Repubblica” del 26.04.2005), intitotolato “Come accogliere le differenze” (p. 43) che la direzione di ricerca e la “volontà” di Nietzsche non era quella di restare nella gabbia o nella caverna platonica dello “spirito di risentimento e di vendetta”, ma era di “riaprire l’orizzonte della nostra tradizione per accogliere la vita in tutte le sue manifestazioni, per assentire a tutto ciò che vive”, di “andare oltre la nostra concezione ristretta dell’umanità, della nostra interpretazione troppo moralistica della vita del Cristo, del nostro fermarci alla ripetizione del passato senza costruire un futuro dove la nostra umanità sia più compiuta”. E, soprattutto, non avendo capito e non avendo nemmeno gli strumenti per capire la caduta del Muro di Berlino, non hanno saputo che imitare gli imitatori e seguire la corrente ... per finire, tutti come pecore, a belare prima dietro il pastore polacco e ora dietro il pastore tedesco (e dietro il pastore...italiano - sul tema, tutti gli onori a Franco Cordero!!!). Meno male che il discepolo di Guido Calogero, il nostro Presdiente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha tenuto alta la bandiera della nostra dignità di uomini e donne, di cittadini e cittadine, altrimenti.... Che dire?! Che il “dio” dei cittadini-sovrani e delle cittadine sovrane, dei nostri padri e delle nostre madri, ci aiuti a proseguire sulla strada della Liberazione e della Costituzione - non solo in Italia, e in Europa, ma anche negli Stati Uniti, e su tutta la Terra. Che l’O.N.U diventi veramente un U.N.O... e smettiamola di programmare “una inutile strage” e l’intera distruzione del pianeta e della nostra stessa intera Umanità!!! Federico La Sala (Sabato, 30 aprile 2005).