LA GINESTRA
O IL FIORE DEL DESERTO
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
("Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι /μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς").
Giovanni, III, 19
Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d’or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Su l’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Giacomo Leopardi
Canti, XXXIV (1836)
Giacomo Leopardi (Recanati 1798 - Napoli 1837) "filologo ammirato fuori d’Italia / scrittore di filosofia e di poesie altissimo / da paragonare solamente coi greci": cosi’ nella lapide dettata da Pietro Giordani ("perfetta", amava dire il nostro amico Annibale Scarpante, "a cui solo aggiungeremmo: eroico combattente per la dignita’ umana, fedele al vero e al giusto, amico della nonviolenza").
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
Supplemento settimanale del martedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino", Numero 53 del 20 marzo 2007
Biografia di GIACOMO LEOPARDI (Emsf)
IL VATICANO STA “SEMPLICEMENTE” ABUSANDO DELLA "PAROLA"!!! UE!!! Basta!!!
Una nota
di Federico La Sala *
UE!!! Papa Ratzinger parla ai vescovi europei, in occasione dei cinquanta anni del Trattato di Roma, e dice parole durissime: "Ue rischia congedo dalla Storia. Il rifiuto dei valori cristiani è apostasia".
La mia opinione - da cittadino italiano ed eu-ropeo - è semplicemente questa:
IL VATICANO STA ABUSANDO DELLA "PAROLA" E NON SA PIU’ PARLAR CHIARO - SOPRATTUTTO CON SE STESSO!!!
"CATTOLICESIMO ROMANO" NON VUOL DIRE "CRISTIANESIMO" e il dio della "Deus caritas" non è il "Deus CHARITAS" dei nostri Padri e delle nostre Madri!!! Come tutti abbiamo letto il discorso di Ratisbona, che tutti (cattolici e non) leggano il discorso di Tubinga del Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano: “Una voce sola per l’Europa o siamo condannati al declino”(“la Repubblica” del 23.03.2007), riflettiamo di più, e dialoghiamo davvero!!!
Le radici dell’Eu-ropa (come della nostra Costituzione) sono radici eu-angeliche e cristiane, non sono né “cattoliche”, né romane-costantiniane, né “ratziste”!!! Cerchiamo di riprender - finalmente e insieme il cammino (come voleva Dante) da buoni-cristiani, da eu-ropei, e ... da “terroni” qual siamo - abitanti di “questo Granel di sabbia, il qual Terra ha nome” (Leopardi, “La Ginestra”, 1836). Uè!!! Basta!!!
Federico La Sala
* il dialogo, Sabato, 24 marzo 2007
PIANETA TERRA. ONU: Sevem Suzuki la ragazzina che zitti il mondo per 6 minuti (1992) (YouTube)
IL PIANETATERRA, UNA "SFERA SENZA ATLANTE": INVERTIRE IL PRESENTE E RIFARE LE CARTE, PER NON DISTRUGGERE LA "B-ARCA" E PER BEN #NAVIGARE NELL’#OCEANOCELESTE (#KEPLERO A #GALILEO #GALILEI, 1611).
FISICA E METAFISICA DI UNA "#FOTOGRAFIA": META’ DI UNA "#METASTORIA" E DI UN "META-CAMMINO"...
"#BUCHIBIANCHI" (#CARLOROVELLI)! SE E’ VERO, COME APPARE, CHE SIAMO DINANZI A "un Atlante-Sisifo, col capo chino", che "procede verso qualcosa o un altrove, che non è più il fine del suo mito" (Mauro Zanchi, cit.), VUOL DIRE CHE non c’è più un #ERCOLE a distribuire le carte sull’al di qua e sull’al di là delle #colonne: #Ulisse è riuscito a passare e, se pure ha fatto naufragio con i suoi compagni, ha passato il testimone di #Laerte e di #Giasone a #Dante che, con la "consulenza teologico-politica di "#Virgilio e #Beatrice" (come "Giuseppe e Maria"), si è portato oltre il #letargo (Par. XXXIII, 94), ha invertito il #presente, e, si è portato fuori dal "buco nero" platonico-paolino della #claustrofilia antropologica!
COSMOLOGIA, STORIA E LETTERATURA, (E DISAGIO DELLA) CIVILTA’: GIACOMO LEOPARDI, NELL’ORIZZONTE COPERNICANO DI KANT E DI FREUD. Una nota a sua memoria...
RICORDARE che Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798 - Napoli, 14 giugno 1837 ), a introduzione del testo della "Ginestra o il fiore del deserto" (1836), abbia premesso le parole riprese dall’evangelo di Giovanni (III,19) "Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι/ μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς ("E gli uomini amarono/ piuttosto le tenebre che la luce" (Giovanni III, 19), è una valutazione radicale di denuncia della scelta fatta.
Il "giudizio" della "lenta ginestra" sull’umanità che ha amato (v. "ἠγάπησαν") le tenebre e non la luce, dice di una #negazione dell’ ἀγάπη, dello stesso «amore» cristiano, che in qualche modo richiama le considerazioni fatte da Kant nella "Fine di tutte le cose" ) e, al contempo, anche le riflessioni di Freud sulla svolta data da Paolo di Tarso nella "gestione" del messagio evangelico: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori" (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929).
NOTE:
TEATRO (STORIA), #METATEATRO (#METASTORIA), #LETTERATURA, #COSMOGONIA E #SORGERE DELLA TERRA (#EARTHRISE).
USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA #CADUTA (E DALL’#INFERNO):
SHAKESPEARE in "gara" con #Omero #Ovidio #Virgilio e #Dante: alla ricerca delle #radici" della "#follia amorosa", dell’#amore #cosmogonico "che muove il #Sole e le altre #stelle".
NOTE:
POESIA, COSMOLOGIA, ED ESAME DI "STATO DI MINORITÀ" (KANT, KOENIGSBERG 1784-> KALININGRAD 2023).
"Cum grano salis",
chiarissimo Stefano Pignataro: condivido. Certamente, se non si sa nulla né della "Storia dell’Astronomia" dell’ "Infinito" di Giacomo Leopardi, è un paradosso, una "pura illusione" tentare di "decifrare anche Quasimodo" e il suo canto "Alla nuova Luna" (Maturità 2023).
***
COSMOLOGIA, E ANTROPOLOGIA (NON COSMOTEANDRIA): CON #SALVATOREQUASIMODO, GUARDARE "LA TERRA IMPAREGGIABILE" (1955-1958) DALLA #LUNA, DALLA "NUOVA LUNA": *
"Alla nuova luna
In principio Dio creò il cielo
e la terra, poi nel suo giorno
esatto mise i luminari in cielo
e al settimo giorno si riposò
Dopo miliardi di anni l’uomo,
fatto a sua immagine e somiglianza,
senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica,
senza timore, nel cielo sereno
d’una notte d’ottobre,
mise altri luminari uguali
a quelli che giravano
dalla creazione dle mondo. Amen.".
Giacomo Leopardi studioso di Dante Alighieri
Tra le pagine dello «Zibaldone» poesia filologica e fraterno incanto
di RITA ITALIANO (La Stampa, 22 Gennaio 2021
In occasione del suo celebrato anniversario si può anche cercare e trovare Dante in uno scrigno tra i più preziosi che il pensiero umano abbia mai offerto, lo «Zibaldone» di Giacomo Leopardi. Basta scorrere le occorrenze del nome di Dante Alighieri in quelle pagine accurate ed emozionanti, per schiudere le porte di un magico regno nel quale il rigore dell’analisi critica viaggia alle altitudini del genio. La lettura data da Giacomo Leopardi si fa poesia filologica, fraterno incanto.
Originalissimo esame che della produzione di Dante registra il carattere, lo stile, la lingua, l’interesse per la filosofia, giungendo sino a cogliere le qualità peculiari de «La Divina Commedia». Scegliendo di soffermarsi attento soprattutto sulla rivoluzione linguistica che in questa è evidente. E illustrando le motivazioni che animarono il suo autore: «ebbe intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si fa manifesto sì dal poema sacro, ch’egli considerava, non come trastullo, ma come impresa di gran momento».
Da tale svolta si avvia la possibilità di definire Dante «quasi il primo scrittore italiano». È infatti proprio il modo del tutto nuovo che egli ha dato al suo operare che ha avuto per conseguenza non dappoco d’essere «propriamente, com’è stato sempre considerato, e per intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana». Inoltre, la disamina di Leopardi giudica che nel lavoro di Dante anche lo stile sia assai meritevole di ammirazione. A questo nodo dedica uno spazio di rilievo.
Con righe illuminanti. Si chiede: «Perché lo stile di Dante è il più forte che mai si possa concepire, e per questa parte il più bello e dilettevole possibile?» La risposta spiega con semplicità: «perché ogni parola presso lui è un’immagine». A Ovidio «bisogna una pagina per farci veder quello che Dante ci fa vedere in una terzina». E se «Ovidio descrive» e «Virgilio dipinge», è solo Dante che «non solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di pennello; non solo dipinge senza descrivere [...] ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le proprie idee, concetti, immagini, sentimenti».
Leopardi si sente forse prossimo a Dante Alighieri, ch’era autore e uomo dal temperamento «grave, passionato, ordinariamente (ai nostri tempi) malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a soffrir grandemente della vita». Una sensibilità difficile e rara, in grado di infondere lo spirito della Storia nel mistero della dottrina. Infatti «il suo poema non è epico, ed è misto di narrativo e di dottrinale, morale». È sapere che diventa sapienza.
Leopardi annota: «Omero e Dante per l’età loro seppero moltissime cose, e più di quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d’oggidì». Ma non basta. È chiaro che per la propria espressione poetica, tessuta alle vette più alte dell’arte compositiva, occorrevano a Dante, combinate e inestricabili, la rivoluzione dello stile e quella della lingua. Di quest’ultima Leopardi attesta l’enorme valore. Perché «Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito nel quasi creare la nostra lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche l’ardire de’ composti» e aveva fatto «espressa professione di non voler restringere la lingua a veruna o città o provincia d’Italia, e per lingua cortigiana l’Alighieri, dichiarandosi di adottarla, intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e governi d’Italia in que’ tempi». La scrittura di Dante è ricca, screziata. La conoscenza che Leopardi ne ha, gli consente di parlarne senza esitazioni. «Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci tolte non solo dal latino, ma dall’altre lingue o dialetti ch’avevano una tal qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione».
Leopardi spazia e approfondisce. Riconosce a Dante meriti che vivono nella letteratura e ne superano i confini, entrando nella Storia. Ricorda «quanto debbano a Dante, non pur la lingua italiana, come si suol predicare, ma la nazione istessa, e l’Europa tutta e lo spirito umano». Da qui l’attribuzione che a Dante spetta del serto d’alloro di un vero primato: «ardì concepire e scrisse un’opera classica e di letteratura in lingua volgare e moderna». Impresa temeraria e suprema che eleva «una lingua moderna al grado di lingua illustre» a dispetto dell’opinione corrente che sino a quel momento aveva ritenuto la lingua latina «unica capace di tal grado».
Leopardi indaga la natura della «Commedia», vera pietra miliare della letteratura, e afferma che «non fu solo poetica, ma come i poemi d’Omero, abbracciò espressamente tutto il sapere di quella età, in teologia, filosofia, politica, storia, mitologia ecc». Classica da subito e per sempre: «non rispetto solamente a quel tempo, ma a tutti i tempi, e tra le primarie; né solo rispetto all’Italia ma a tutte le nazioni e letterature». Il passo di Dante in questo senso è stato dunque quello di un pioniere. La sua è stata la marcia risoluta di un apripista. In sostanza, «Dante diede l’esempio, aprì e spianò la strada, mostrò lo scopo, fece coraggio e col suo ardire e colla sua riuscita agl’italiani: l’Italia alle altre nazioni. Questo è incontrastabile».
Nel prosieguo, lo studio condotto da Leopardi giunge a rimarcare quanta applicazione e quanta ponderazione stessero dietro al rivolgimento dantesco, «né il fatto di Dante fu casuale e non derivato da ragione e riflessione, e profonda riflessione. Egli volle espressamente sostituire una lingua moderna illustre alla lingua latina». Sentiva che i tempi erano ormai maturi, e che anzi esigevano la radicalità di un cambiamento di questa portata. Perciò «volle espressamente bandita la lingua latina dall’uso de’ letterati, de’ dotti, de’ legislatori, notari, ecc., come non più convenevole ai tempi». Un atto di grande perspicacia e ponderazione dal quale venne lo splendido frutto che nelle sue terzine custodisce, tra l’altro, la prova d’eccellenza della risolutezza encomiabile con la quale il poeta Dante Alighieri derivò i propri principi di stile «da proposito e istituto, e mirò ad uno scopo; e il proposito, l’istituto e lo scopo» furono quelli di un «acutissimo, profondissimo e sapientissimo filosofo».
NOTA:
FILOLOGIA, #LETTERATURA E #STORIOGRAFIA. #OGGI (#11FEBBRAIO 2023),
EUROPA 2023. Nella ricorrenza della giornata della firma dei PATTI LATERANENSI (11 Febbraio 1929), brillante la ripresa da parte del Centro documentazione Piero Delfino Pesce di questo articolo di Luca Mazzocchetti, dedicato a "Quella volta che Leopardi decise di arrabbiarsi ..." ("Terza web", 24 Novembre 2016).
DANTE 2021 E LA #MONARCHIA DEI "DUE SOLI". Al di là della polemica "personale" e "momentanea", nell’epigramma contro Niccolò #Tommaseo dell’agosto del 1836, ("poi però non reso pubblico" e poco conosciuto), nel richiamo al dantesco "Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre...", emerge con forza tutta la tempra eroica di Giacomo Leopardi e la sua consonanza con lo #spirito di #DanteAlighieri critico del potere temporale dei Papi e, anche e ancora, la sua #indignazione contro tutta la sudditanza della intera cultura italiana alla lettura storiografica tradizionale.
Filologia Antropologia, e Cosmoteandria. Dalla Luna, ammirare il sorgere della Terra... *
Se ancora #oggi non è possibile nemmeno il #dialogo di sé con sé stesso, e #nessuno è capace di uscire dall’orizzonte narcisistico-tebano e comunicare abbracciando davvero l’altro, barricato com’è nella millenaria #caverna cosmoteandrica atea e devota (di costruzione platonico-hegeliana e cattolico-paolina), come è possibile entrare in #relazione con l’altro in sé e fuori di sé (es.: con "la gitana con sigaretta", non nel quadro di Edouard Manet, ma dinanzi a sé - nella realtà), se non si sa accogliere un filo del vento "che soffia dove vuole", di cui "puoi udire la #voce, ma non sai né da dove viene né dove va” (Gv. 3,8)? Non è meglio rimeditare l’aoristica lezione dell’Infinito di Giacomo Leopardi, uscire dall’#inferno terrestre (#Dante2021), e ammirare dalla #Luna il sorgere della Terra?
*
LINGUISTICA, ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, E APOCALISSE [1, 8]: "L’INFINITO", IL "CONOSCI TE STESSO", E IL TEMPO DELL’AORISTO.
Una domanda all’altezza dei tempi:*
Brillantissima, epocale domanda, questa di Salvo Micciché! Una sollecitazione straordinaria a svegliarsi da un letargo più che millenario e a prendere la parola: annuncia, forse, un grande Natale2022, un BuonAnno2023? Boh? Bah?!
Dalle profondità oceaniche, dalla fossa labirintica di ogni M-Arianna, intanto, egli ha riportato spiritosa-mente - alla luce di una generale coscienza caduta in un sonno dogmatico profondo - l’implicito e l’indeterminato tempo del γνῶϑι σεαυτόν "conosci te stesso", di ogni comunicazione di ogni essere umano: l’A e l’O... risto [Ap. 1, 8].
*
"Sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude./ Ma sedendo e mirando, interminati/ spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quïete/ io nel pensier mi fingo; ove per poco/ il cor non si spaura. E come il #vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa #voce / vo comparando: e mi sovvien l’#eterno, /e le morte stagioni, e la presente /e viva, e il suon di lei. Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio: /e il naufragar m’è dolce in questo mare" (Giacomo Leopardi, "L’Infinito").
Cosmologia, filologia, e antropologia culturale:
un buon messaggio di #auguri (ancora) di
#buonanno da ogni "#Recanati"
del #PianetaTerra (#Eleusis2023).
Chiarissimo prof Michele Feo ... grazie della condivisione di "Penso a Leopardi e all’Infinito del Monacello 95 - 2019".
#Europa2023. Questo canto del #Monacello (95 - 2019) *, mi sembra, ha saputo rendere, ri-guadagnare, e restituire lo #sguardo oltre la #siepe, al di là del #presepe, e, al con-tempo, riportarsi nella propria "reca-nati" felicemente. Come #GiacomoLeopardi ("Storia dell’astronomia", 1813), il Monacello, forse, ha capito che significa nascere e ri-nascere nell’#infinito "oceano celeste" (#Keplero, 1611) e ha dato la sua #buonanovella a tutta l’Italia, passata e presente. Bene! #Gloria al "Munaciello"! #BuonAnno2023
Inediti.
Spunta autografo di Leopardi su Giuliano l’Apostata
Viene presentato domani alla Biblioteca Nazionale di Napoli un libro che contiene il manoscritto, datato 1814, in cui il 16enne poeta recanatese dà prova di perizia filologica su un autore "scomodo"
Redazione Agorà (Avvenire, lunedì 2 maggio 2022)
Il Fondo leopardiano conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli non smette di offrire importanti sorprese: è tornato alla luce un suggestivo autografo del giovane Giacomo Leopardi, con ogni probabilità del 1814, in cui studia la figura di Flavio Claudio Giuliano, l’ultimo sovrano latino dichiaratamente pagano, soprannominato Giuliano l’Apostata.
Il manoscritto, finora inedito, è stato identificato dagli studiosi Marcello Andria e Paola Zito che ne hanno curato la pubblicazione per i tipi della casa editrice Le Monnier Università. Leopardi e Giuliano imperatore. Un appunto inedito dalle carte napoletane, questo il titolo del volume, sarà presentato domani alla Biblioteca nazionale di Napoli. Nel “quadernetto” Leopardi - appena sedicenne, ma già assiduo frequentatore della biblioteca del padre Monaldo nel palazzo di famiglia a Recanati - realizza un accurato spoglio dell’opera omnia dell’imperatore Giuliano, ricorrendo all’autorevole edizione di Ezechiel Spanheim, apparsa a Lipsia nel 1696.
L’autografo ci mostra come, benché giovanissimo, Leopardi sia già uno studioso provveduto e curioso e abbia già un accurato metodo di lavoro, caratteristica costante del suo percorso. Gli anni in cui il giovane Leopardi si accosta alla lettura di Giuliano rappresentano una tappa significativa nel percorso di rivalutazione della figura dell’Apostata, fino alla metà del XVI secolo offuscata dalla condanna pressoché unanime degli storici e riscoperta nel Settecento soprattutto dagli illuministi (Montesquieu, Diderot, Voltaire), ma accolta in Italia fra attestazioni di stima e dichiarata ostilità. Richiami all’opera dell’imperatore filosofo neoplatonico ricorreranno in seguito nell’opera leopardiana, in particolare nelle Operette morali (nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri) e nello Zibaldone, in alcune esercitazioni di carattere filologico.
* ANSA
La perdita dell’etica pubblica senza una fede laica nel bene comune
Sinistra. Scomparso l’antagonista storico del capitalismo, regrediti i ceti medi e la classe operaia avanzata, è emersa una nebulosa rancorosa, un magma sociale senza morale. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci». (Giacomo Leopardi)
di Piero Bevilacqua (il manifesto, 20.11.2021)
In un Paese nel quale due uomini come Silvio Berlusconi e Matteo Renzi son potuti assurgere al ruolo di presidenti del Consiglio, e il primo ambisce alla Presidenza della Repubblica, con ogni evidenza è accaduto qualcosa di grave nei fondamenti della sua vita civile. Quanto è avvenuto segnala un guasto profondo nell’etica pubblica, un decadimento di vasta portata della moralità collettiva.
Occorre ricordare che i processi di degrado dell’etica pubblica, in atto in Italia, ingigantiscono in virtù dei singolari caratteri originali del nostro Paese, un fenomeno di per sé universale: lo svuotamento ideale e il decadimento della politica quale arte moderna del governo delle società, pratica della sua trasformazione progressiva o rivoluzionaria. Si tratta di questioni note: il tracollo delle ideologie del ‘900, la dissoluzione dei partiti popolari e la loro riduzione a comitati elettorali, la corruzione dilagante, ecc. Questa analisi coglie però una parte della realtà.
La scomparsa dell’antagonista storico del capitalismo (comunismo e in parte socialdemocrazia) ha favorito, insieme ai processi materiali della globalizzazione, la marginalizzazione dei ceti medi e della classe operaia avanzata, che avevano costituito per decenni la base più estesa di consenso e partecipazione pubblica nelle società industriali. Erano questi ceti che garantivano la moralità progressista della politica. La loro regressione sociale, anche per effetto della riduzione del welfare, ha allontanato masse estese dalla militanza politica, dalla partecipazione elettorale, da ogni interesse per la cosa pubblica.
Al loro posto è emersa una nebulosa indistinta di gruppi e individui priva di connotazioni politiche coerenti, che sostituisce rivendicazioni e prospettive di riforma dell’esistente con espressioni rancorose di risentimento, confuse pretese risarcitorie, ostilità contro l’”altro”. Mancando la direzione dell’intelletuale collettivo che erano i partiti, la scena pubblica viene occupata così da un magma sociale a cui politologi e commentatori, in mancanza di meglio, hanno dato il nome di popolo. Un lemma vecchio per una realtà del tutto inedita.
Se un dato distingue le società industriali questa è la loro ricchissima stratificazione sociale. Il popolo è un concetto dell’800 per l’800. Ma l’analisi politologica non ha ancora colto l’essenziale. Dietro la decadenza della politica si erge gigantesco un fantasma che rimane nascosto agli sguardi superficiali: il nichilismo. Quanto profetizzato da Nietzsche, la morte di Dio e la perdita di fondamenti di ogni morale, è ormai senso comune e investe la politica alle radici. Col dissolvimento della religione, la scomparsa, per lo meno in Occidente, delle fedi delle varie confessioni, veicolo pur sempre di valori morali, anche la politica tracolla.
Se la scienza politica, a partire da Machiavelli, fa a meno della religione, la politica corrente muore se nessuna “religione” la sostiene, neppure la fede laica nel bene comune e nella possibilità di cambiare il mondo. E non è senza significato che ad anticipare questi anni sia stato il nostro Leopardi, il quale diversi decenni prima di Nietzsche aveva intravisto «questa universale dissoluzione dei principi sociali, questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in grande forse circa il futuro destino delle società civili». Si rilegge oggi con brividi di emozione e stupore il Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani (1824), per la potenza disvelatrice di uno sguardo che non lascia ombre alla situazione desolante del nostro tempo.
Dunque, il quadro generale è quello di una grave involuzione antropologica delle società umane, ma entro il quale, l’Italia è, per ragioni che Leopardi esamina in maniera impeccabile, il Paese in più gravi condizioni: «L’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun altra nazione europea e civile». Sembra scritto in questi giorni: «Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci». L’egoismo, il narcisismo, l’invidia, l’odio per l’altro erano allora la norma, prima che gli ideali del risorgimento investissero lo spirito pubblico.
Naturalmente all’analisi di Leopardi manca il ruolo dei media, i quali amplificano, rendono popolare, materia di spettacolo l’immoralità crescente del ceto politico e della cosiddetta società civile.
So per certo, per parafrasare Leopardi, che se le leggi l’avessero consentito, non pochi giornalisti avrebbero invitato Totò Riina ai loro programmi televisivi. Costoro sono incarnazioni perenni del tipo italiano dell’analisi leopardiana. Ebbene, è dalla profondità di tale catastrofe culturale e spirituale che la sinistra e le forze democratiche dovrebbero oggi prendere le mosse, perché la dissoluzione della società non abbia quale rimedio al caos un governo autoritario.
L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE
(#Dante).
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#Storia dell’#astronomia:
"La conoscenza degli effetti e la ignoranza delle cause produsse l’#astrologia"
(#Giacomo Leopardi).
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#SapereAude! (#Kant):
#Ingenuity
(Pianeta #Marte, 2021).
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"IAM REDIT ET #VIRGO"
(#Virgilio).
Nell’approssimarsi dell’#alba, un’ottima sollecitazione:
riascoltare la lezione di #Stazio su #come nascono i bambini (Purg. XXV, 34-78)
e
riprendere le ricerche dall’#
Anatomia
di #Giovanni Valverde.
IL "TESTAMENTO" DI GIACOMO LEOPARDI, LE "SIBILLE" DI ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS".... *
Idee.
Leopardi, Rosmini e la diversità del «nulla»
«Riconoscere intimamente il proprio nulla» è la quinta massima di perfezione cristiana secondo il filosofo. Un approccio all’idea di umiltà e di affidamento prolifico alla grazia di Dio creatore
di Antonio Staglianò (Avvenire, giovedì 29 aprile 2021)
La Quinta massima di perfezione cristiana del Rosmini invita il cristiano a «riconoscere intimamente il proprio nulla», penetrando sempre più e sempre meglio nella propria «infermità» e «nichilità». Lo deve fare, non in modo generico e sentimentale, ma con la massima lucidità e metodicità: «Il cristiano deve avere scritte nella mente le ragioni del suo nulla: prima quelle che provano il nulla di tutte le cose; poi quelle che umiliano specialmente l’uomo; in terzo luogo quelle che umiliano la sua persona». Un ’nulla’ affidato a Dio, un «nulla intimo», custodisce e diffonde la pace interiore. Costruisce anche l’umiltà che ci rende veri! Da qui nasce la fede testimoniale, quella che sa di vero abbandono e di compagnia a Dio il quale «resta in agonia (d’amore) fino alla fine dei tempi», come ha sostenuto B. Pascal. Famosa è la sua definizione dell’uomo quale «canna pensante ». Certo il pensiero renderebbe superiore l’uomo rispetto alla natura che lo sovrasta, eppure come ’canna’ è sbattuta dai venti e dalle intemperie e rischia di continuo di spezzarsi e sparire. La sproporzione dell’universo rispetto a questo piccolo anima-letto umano è grande. Tanto più oggi, nell’immagine scientifica della realtà guadagnata attraverso le scoperte di un universo in continua espansione, con milioni di soli e miliardi di stelle e altrettante galassie.
Sono «gli interminati spazi» che Leopardi non ha bisogno di fingersi (diversamente dai «sovrumani silenzi » e dalla «profondissima quiete» nella poesia Infinito, perché li conosce bene dopo la svolta copernicana e galileiana. Rosmini sostiene dell’uomo: «Siccome egli è un atomo in paragone dell’universo, così è un nulla in paragone di Dio». Sembra che, per adorare la grandezza di Dio, l’uomo debba di necessità giungere a riconoscere il proprio nulla: quanto più l’uomo è niente, nulla, tanto più è nella giusta disposizione per avere «un grandissimo zelo per la gloria di Dio, e del ben del prossimo, con un sentimento che gli dice di essere incapace di ogni bene, incapace di porre alcun rimedio ai mali del mondo». Si tratta di un duplice approfondimento d’essere una «nientità», un nulla: anzitutto quello del limite creaturale (cosa è davvero un atomo rispetto alla totalità?), ma, in particolare, quello della sua debole condizione esistenziale a causa del peccato originale, «quella colpa in cui è stato concepito, l’inclinazione al male che porta in sé». In paragone a Dio, essere perfettissimo, creatore del cielo e della terra, ogni creatura (anche l’uomo, che pure è creato a immagine e somiglianza di Dio) è nulla. Col linguaggio dei medievali, questo si spiega filosoficamente perché solo Dio ’è’ l’Essere, la creatura ’ha’ l’essere per partecipazione.
Emanuele Severino, denunciando la follia dell’Occidente, insiste su questa ovvietà del senso comune di tutti: le cose sono niente, perché vengono dal nulla e scadono nel nulla, perciò sono nulla. Egli vede, così, proprio in Leopardi, colui che ha portato alle estreme conseguenze la follia dell’Occidente, la fede nel divenire delle cose, che porta al tramonto di tutto, anche degli dei, di ogni divinità, anche del Dio cristiano. Tutto è nulla, niente è eterno, nemmeno Dio, e la religione è una dolce illusione che con le sue fantastiche dottrine sull’aldilà (il paradiso, la gioia in Dio, la grazia di Dio e il suo perdono) allevia la sofferenza angosciante dell’uomo posto dalla vita (anche dalla natura matrigna) di fronte al nulla, all’annientamento, attraverso la morte: «sola nel mondo eterna, in cui si volve ogni creata cosa, in te morte riposa nostra ignuda natura ». Così anche nello Zimbaldone giungeva alla stessa scoperta (proposta dal Rosmini nella sua quinta Massima): «E io percepiva e considerava intorno a me solo nulla e, io medesimo, solido nulla». Leopardi non soltanto sente («e io percepiva») ma riflette e conosce intellettualmente («e io considerava») il nulla di tutte le cose e anche di sé, di ogni uomo, di ogni vicenda umana, quasi ripetendo con le parole di Qoelet «vanità delle vanità, tutto è vanità». Le ’parole’ sono le stesse e anche i ’concetti’. Eppure si assiste a un miracolo di vita nel riconoscere rosminiano il proprio «intimo nulla».
In Leopardi, invece, c’è solo la coscienza infelice di una tristezza insuperabile e angosciante, da cui distrarsi con le dolci illusioni della religione (fantastica) per non disperare e morire di crepacuore. Da dove si origina questa differenza di decisione per la vita e per la morte? Per riconoscere il proprio nulla, bisogna prima (ma è un ’prima’ solo logico) conoscere «il proprio nulla», cioè «conoscersi allo specchio del nulla», giungere all’intimità più profonda di sé per accedere davvero alla propria «nichilità- nientità», e così sapere in verità cosa siamo stati dall’eterno in Dio - nell’atto del generarsi eterno di Dio in Dio, Figlio dal Padre - e cosa siamo adesso: nulla, cioè assoluta apertura a un richiamo di vita. È il «nulla eccitante » di cui parla Florenskij nella sua teologia ortodossa La colonna e il fondamento della verità. È il nulla da cui tutte le cose sono state create. ’Questo nulla’ ha un significato che l’avvicina più allo «zero dei matematici che contiene tutti i numeri in positivo e in negativo all’infinito» o al «vuoto degli astrofisici da cui l’universo in espansione con tutta la massa della sua materia si è originato per l’inflazione originaria » che non al «nulla dei filosofi greci e di Leopardi che ne condivide il linguaggio».
Il nulla che Rosmini chiede di riconoscere intimamente è il nulla grazie al quale si può ricevere tutto e da cui tutto si origina nella vita: non è il nulla davanti allo specchio del nulla, che si gode nel suo narcisismo inconsolabile; è, invece, il nulla davanti a Dio, allo specchio della fede cristiana.
È dunque un nulla sorgivo, promettente, come la verginità di Maria di Nazareth che rende possibile addirittura l’incarnazione del Figlio di Dio.
Chi riconosce intimamente questo proprio nulla consegue l’umiltà vera, non quella ’pelosa’ di certi spirituali che puntano a mortificare i doni di Dio e i carismi, orientando a far sotterrare i talenti. È piuttosto l’umiltà di chi si vede dotato per aver ricevuto tutto da Dio e loda il suo Signore pe la sua magnificenza.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
In questo Granel di sabbia, il qual terra ha nome
LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO. IL "TESTAMENTO" DI GIACOMO LEOPARDI
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. -- ANTONIO ROSMINI, LE SIBILLE, E LA "CHARITAS".
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
Federico La Sala
NATURA, TECNICA, CIVILTÀ: QUALE “SUGGERIMENTO E’ FECONDO”? La mossa di Kant spiazza tutti... *
A). NO GARDEN: “[...] per usare le parole di Donna Haraway, there is no garden and never has been. Il discorso sulla natura è un discorso avvelenato, e, per sua stessa “natura”, un nostro discorso. Invocare la natura, oltre che terribilmente insidioso, rischia di suonare ingenuo, quando non reazionario. Statuire delle nette dicotomie a partire da ciò che è “naturale” ancor peggio [...] Cultura e natura, soggetti e oggetti, persone e cose: noi immaginiamo un mondo di binarismi che non esistono. Ciò che rimane profondamente impensato è la relazione, l’ibrido, che il diritto non riesce a cogliere, fondato com’è sull’individuale. Su questo si sofferma Michele Spanò, curatore del testo e autore del prezioso saggio che tira le fila dei due che lo precedono, proponendo una innovativa terzietà: le azioni. Le procedure, le azioni collettive, sono il terreno di intersezione fra diritti e interessi, banco di prova per diritti soggettivi, del tutto inservibili alla causa della natura, e potenziale terreno fertile per assemblaggi di cose e persone, diretti destinatari entrambi dei danni ecologici. Il suggerimento è fecondo: al posto della vetusta soggettività, implicita nei “diritti della natura”, non dovremmo, forse, ripartire dalla tecnica?” ( cfr. Xenia Chiaramonte, “Fare la natura con le parole del diritto. Note su “L’istituzione della natura” di Y. Thomas e J. Chiffoleau” - Le parole e le cose, 1 Agosto 2020);
B). NO PARTY (“STERMINATOR VESEVO”): “[...] I più grandi pensatori pessimisti sono spesso portatori di una speranza utopica. È così per Leopardi (e per Machiavelli). Farla finita con la retorica dell’“usciremo migliori”, del “tutto andrà a finire bene” (che sembra presa di peso da un film americano di avventure), considerare che la tendenza all’egoismo e alla violenza fa parte della natura animale dell’uomo e nello stesso tempo impegnarsi perché quella alla solidarietà (insita, insieme alla spinta alla sopraffazione, in alcune specie animali, compresa quella umana) prevalga sulle pulsioni di morte, questo ci insegna Leopardi. Quando il fondamento della civiltà è in discussione, è il momento di tornare alle ragioni del patto sociale e al “pensiero” di cui La Ginestra ci parla ” (cfr. Romano Luperini, “Natura e civiltà: Leopardi e il corona virus “, La letteratura e noi, 27 luglio 2020);
C). “GENIO MALIGNO”, “RAGION PURA”, E “RIVOLUZIONE COPERNICANA”: “Con l’interpretazione de “i sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” (1766), Kant traccia le linee epistemologiche del suo programma di ricerca: egli ha trovato la sua “bilancia” e, come già il Galilei del “Saggiatore”, comincia a usarla ! Non a caso, l’atmosfera che traspare - nel breve testo (un vero e proprio ‘discorso sul metodo’ del lavoro critico da portare avanti) - è quello delle grandi occasioni storiche. Fin dall’inizio (“Parte prima dogmatica. Capitolo 1. Un intricato nodo metafisico che si può a piacere sciogliere o tagliare”), egli mostra di essere ben consapevole di quale sia la posta in gioco, a quali reazioni va incontro (considerate le idee dominanti dell’epoca - sul piano metafisico, teologico-politico, e scientifico), e di quanto dura e lunga sarà la lotta. L’attacco ai “grandi sapienti” è fortissimo e richiama la lezione di Galilei e del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” (quarta giornata) : “Le chiacchiere metodiche delle alte scuole sono spesso soltanto un accordo per sfuggire con parole ambigue ad una domanda difficile a risolversi, perché il comodo e il più delle volte ragionevole “non so” non si ode facilmente nelle accademie” (I. Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, p. 102). Quasi a dire, leggere bene - con attenzione : qui la questione non è più e solo astronomica, è metafisica in senso stretto e i due sistemi del mondo di cui si parla non sono più il “tolemaico” e il “copernicano”, ma il materialismo e il dogmatismo (l’idealismo e lo spiritualismo). La mossa di Kant spiazza tutti [...]” (cfr. Note per una rilettura di “I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica”).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr.: Federico La Sala, “Kant, Freud, e la banalità del male” (Academia-edu, 2010).
“Silvia è un anagramma”? Due note a margine di una discussione in corso:
A)
LA CRITICA, IL CRITICO, E IL FIORE DEL DESERTO... *
DETTO CHE “Silvia è un anagramma per tre ragioni”: A) "la prima meramente testuale" (“Silvia, rimembri ancora/Quel tempo della tua vita mortale,/Quando beltà splendea/Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,/E tu, lieta e pensosa, il limitare/Di gioventù salivi?”), “Perché il nome proprio con cui la prima strofa si apre non è che l’anagramma della voce verbale con cui la stessa strofa si chiude”; B) “La seconda anagrafica, perché la povera operaia tessile tisica, figlia del cocchiere di casa Leopardi, sulla quale si concentra la pietosa riflessione del contino-poeta, si chiamava in realtà Teresa”; C) “La terza perché, nell’ esclusione della giovane dalle gioie della vita, Leopardi vede riflessa la propria esclusione, ma non per il suo aspetto fisico - come il neutro accademico eterosessuale italiano ha sempre voluto credere e far credere - bensì per la sua natura di “recchió” in un contesto altamente omofobico” (cfr. Franco Buffoni, Silvia è un anagramma, Le parole e le cose, 29 Luglio 2020), E’ DA RICONOSCERE CHE L’ ACCENTO CADE TUTTO E SOLO SULL’ULTIMA DELLE “TRE RAGIONI”.
Che dire? Dov’è la critica, dove l’esame e il giudizio del critico, e dove la bilancia? Lo “Sterminator Vesevo” ha distrutto tutto, anche “La ginestra”?
B)
ECCE HOMO! Considerazioni inattuali sull’utilità e il danno della storia per la vita... *
QUALE LEZIONE "nel nostro caso"? Non solo "Silvia è un anagramma", ma anche la "Ginestra" lo è! E, allora, non è forse meglio portare la riflessione avanti e chiedersi se e "perché non possiamo non dirci buffoni" - tutti e tutte?!
L’urlo di Buffoni, a quanto sembra, rinvia a una antropologia zoppa e cieca (misogina e misandrica)?! Se è così benissimo! Si tratta, allora, di prendere atto della nostra storica cecità e zoppia edipica, uscire dalla caverna platonica e, finalmente, aprire gli occhi sulla terra di una antropologia che sia davvero una antropologia: "Ecce Homo"!
PONZIO PILATO«disse loro: "Ecco, ve lo conduco fuori, affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa". Uscì dunque Gesù, portando la corona di spine e il mantello di porpora. Pilato disse loro: "«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)". Vedendolo, i sommi sacerdoti e i loro inservienti gridarono: "Crocifiggi! Crocifiggi!" Disse loro Pilato: "Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui colpa". Gli risposero gli Ebrei : "Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto figlio di Dio"» (Gv. 19, 4-7).
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca) e ripetere ancora il "tradizionale" schema andrologico e ginecologico!?! Boh e bah!?!
FORSE, non è meglio riprendere il filo della critica dell’economia politica della "ragione pura" contro la "carità pomposa"?! O no?!
Il presente e noi
Natura e civiltà: Leopardi e il corona virus
di Romano Luperini ( "La letteratura e noi" - 11 Aprile 2020)
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L’errore di Marx, secondo Sebastiano Timpanaro, consisterebbe nel considerare solo due livelli: la struttura economica e sociale e la sovrastruttura ideologica (culturale, politica ecc.). Fra loro ci sarebbe un rapporto dialettico continuo ma in ultima istanza il primo condizionerebbe sempre il secondo. Per Timpanaro, marxista ma anche rivendicatore dell’importanza del pensiero filosofico di Leopardi, i livelli sarebbero tre: bisognerebbe aggiungere il condizionamento esercitato dalla natura, che influirebbe sia sulla struttura economica e sociale (per esempio, attraverso il clima), sia sulla produzione ideologica e artistica (per esempio, attraverso le sensazioni materiali e corporali prodotte dalle emozioni, dalle malattie, dalla paura della morte, dalla spinta all’eros ecc.). Vedo già alzarsi i sopraccigli arcigni dei pensatori postmoderni e ipermoderni, negatori della dialettica e sostenitori del pensiero rizomatico, di fronte a questa immagine di livelli diversi, di un condizionamento materiale e naturale, e già sento risuonare nell’aria l’accusa di veteropositivismo, veteromarxismo eccetera.
E allora, in questo tempo di Covid 19, torniamo a La ginestra di Leopardi. Come tutti sanno, si tratta di un testo che rivendica il valore del “pensiero” (testuale) come fondatore della civiltà. Va da sé che per lui il pensiero non è affatto l’anima dei cristiani o lo spirito degli idealisti, ma il prodotto materiale di un organo materiale, il cervello (e su questo punto alcuni filosofi contemporanei potrebbero addirittura esser d’accordo). E per questo Leopardi si schiera decisamente dalla parte di quello razionalistico, rinascimentale e illuministico, contro quello spiritualistico, romantico e cattolico.
Come è noto, La Ginestra chiama a testimonianza del potere della natura e della miserabile debolezza della condizione umana la storia del Vesuvio, la eruzione che distrusse Pompei ed Ercolano, la lava che ha reso infeconde le pendici del monte. E se di notte, seduti sulle rovine e sulle lande deserte del monte, guardiamo la volta stellata, appare chiara la piccolezza della creatura umana e della terra stessa: “questo oscuro/ granel di sabbia, il qual di terra ha nome” niente altro è che un minuscolo pulviscolo di una delle infinite galassie dell’universo, così piccolo e marginale che dalla sua prospettiva è assolutamente impossibile dare un qualche significato alla stessa vita umana. La quale, d’altra parte, sul pianeta terra, ha una analoga posizione di trascurabilità e marginalità: basta un maremoto, un terremoto, una eruzione vulcanica, una epidemia (“un fiato/d’aura maligna”) per rendersi conto che l’uomo può sì violentare e sfruttare la natura, ma a questa basta poco per prendersi irreparabili rivincite. D’altronde, si sa, la razza umana, come tutte le altre razze animali, è destinata all’estinzione.
Insomma l’uomo dipende dalla natura, ne è gravemente condizionato, e la sua stessa possibilità di libera scelta è molto limitata: non può decidere né il tempo né il luogo della nascita e della morte, non può evitare le malattie né controllare lo scorrere del tempo né vincere la vecchiaia e la morte né determinare sempre in modo razionale le proprie scelte spesso condizionate da motivi inconsci, da traumi connessi alla nascita e all’infanzia, ecc. Inoltre contribuisce alla propria rovina (come mostra oggi la questione climatica) alterando la natura stessa e favorendone la tendenza distruttiva. In questo caso lo stesso livello economico appare volto a trasformare la natura, alterandola in senso negativo (lo stesso virus che oggi ci sta attaccando è nato e si sviluppa soprattutto nelle zone, dalla Cina alla Lombardia agli Stati Uniti, dove l’inquinamento atmosferico ha già logorato l’apparato respiratorio).
Gli uomini hanno una sola arma a disposizione: la solidarietà, la fratellanza, una organizzazione sociale (una “social catena”) che li “confederi” e permetta loro di combattere uniti contro i limiti imposti dalla natura. E invece i vari popoli e gli stessi singoli individui non si aiutano fra loro e anzi rivolgono “odii” e”ire” (“ancor più gravi/ d’ogni altro danno”) gli uni contro gli altri.
I più grandi pensatori pessimisti sono spesso portatori di una speranza utopica. È così per Leopardi (e per Machiavelli). Farla finita con la retorica dell’“usciremo migliori”, del “tutto andrà a finire bene” (che sembra presa di peso da un film americano di avventure), considerare che la tendenza all’egoismo e alla violenza fa parte della natura animale dell’uomo e nello stesso tempo impegnarsi perché quella alla solidarietà (insita, insieme alla spinta alla sopraffazione, in alcune specie animali, compresa quella umana) prevalga sulle pulsioni di morte, questo ci insegna Leopardi. Quando il fondamento della civiltà è in discussione, è il momento di tornare alle ragioni del patto sociale e al “pensiero” di cui La Ginestra ci parla.
Recensioni
Giacomo Leopardi tra scienza e letteratura
È poco noto, ma prima del greco Giacomo Leopardi ha incontrato le scienze. Dell’amore per l’astronomia, delle letture di fisica e chimica racconta il nuovo libro di Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi, "L’infinita scienza di Giacomo Leopardi" (Scienza Express, 2019).
di Valentina Sordoni ("Scienza in rete", 23/11/2019)
Basta un titolo per immaginare orizzonti sconfinati. Soprattutto se echeggia il bicentenario della poesia tra le più famose nella storia della letteratura italiana, nell’annus mirabilis di anniversari, tra arti e scienza tout court. Dei cinquecento dalla morte di Leonardo da Vinci, dei cinquanta dall’allunaggio, e dei centocinquanta della tavola periodica di Dmitrij Ivanoviĉ Mendeleev.
Forse non è casuale. Sicuramente non è un azzardo, “L’infinita scienza di Leopardi”, pubblicato da Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi per i tipi di Scienza Express. È la constatazione, ormai indiscutibile, dell’influenza scientifica nell’opera di Giacomo Leopardi, l’enfant prodige cresciuto leggendo Omero, Orazio, Virgilio, ma anche Isaac Newton, Galileo Galilei e Antoine-Laurent de Lavoisier. Lo dimostrano le prime prove del fanciullo geniale, le “Dissertazioni filosofiche”, scritte tra il 1811 e il 1812 in preparazione del domestico saggio finale, dedicato nientemeno che alla chimica e la storia naturale, la fisica generale e particolare, comprensive della contemporanea astronomia, destinata a infervorare l’intrepida immaginazione del ragazzo.
Prima del greco, insomma, Giacomo incontra le scienze. Un appuntamento fedele alla “Ratio studiorum”, il testo fondante della pedagogia gesuitica rielaborato nell’Ottocento, la base educativa di ogni rampollo che si rispetti. Di questo giovanile rendez-vous ci parlano gli autori del libro, un fisico e un filosofo, proiettati nello stesso universo scientifico-letterario, illuminandone squarci differenti, competenze alla mano diverse, nella comune prospettiva di un dialogo possibile, anzi necessario, tra scienza e letteratura.
Ecco allora la passione di Giacomo per l’astronomia, «La più sublime, la più nobile tra le Fisiche Scienze». L’incontro con gli astri è un vis à vis, erudito e serrato, con gli astronomi di tutti i tempi, antichi e moderni. Compreso Copernico, un “personaggio concettuale”, per Mussardo e Polizzi. Ma anche Galileo Galilei, l’autore più citato, tra l’altro, nella “Crestomazia italiana della prosa”, la raccolta antologica compilata nel 1827. La prima antologia galileiana. Per mano di un poeta. Se Copernico svela a Leopardi una verità scomoda e dissacrante, l’insignificanza umana nella compagine universale, Galileo è «modello non soltanto di stile, ma di pensiero, uno “scetticismo ragionato e dimostrato” di matrice empirica e relativistica con qualche venatura materialistica» (p. 44).
Un materialismo, quello leopardiano, alimentato sì dal pensiero classico, ma corroborato da letture impensabili, fondamentali per l’interpretazione di una filosofia così articolata, un’operazione di costruzione e decostruzione, spesso contraddittoria. Letture scientifiche, come i “Fondamenti della Scienza chimico-fisica applicati alla formazione de’ corpi e ai fenomeni della natura”, di Vincenzo Dandolo, imprescindibili per trasmettere al giovane la nouvelle chimie lavoiseriana. Per suggerire la dinamicità di una materia produttrice e distruttrice, conservatrice di se stessa, espressa dalla legge ponderale di conservazione della massa, nota a tutti gli studenti di chimica. Leopardi la fa propria, e il “Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco”, redatto a Bologna nel 1825, è il manifesto incontestabile del fortunato sodalizio tra scienza e letteratura.
Un’osmosi fertile e incessante analizzata con piglio divulgativo, illuminando la poetica in rapporto alle fonti, con approfondimenti teorici e medaglioni biografici necessari per comprendere il contesto scientifico con cui Giacomo si confronta. La conclusione è una finestra spalancata sull’Infinito, il concetto del dolce naufragio, della grandezza incommensurabile della sinuosa lemniscata. Indagato con un piacevole linguaggio filosofico e matematico, da Aristotele a George Cantor, è l’esempio emblematico, il più suggestivo, per scorgere oltre la siepe il valore del dialogo tra le «due culture».
Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alle Celebrazioni in occasione del bicentenario della stesura de “L’Infinito” di Giacomo Leopardi
Recanati, 26/09/2019 *
Non era previsto il mio intervento e davvero non pensavo di prendere la parola. Ma non posso farne a meno e desidero farlo per ringraziare anzitutto per l’accoglienza, a partire da quella dei bambini, prima di entrare in questa sala.
Desidero poi rivolgere un saluto, attraverso il Sindaco, a tutti i suoi concittadini, alla Città di Recanati e attraverso il Presidente della Regione a tutti i marchigiani, particolarmente a quelli che ancora soffrono le conseguenze del terremoto.
Mi limito a questo saluto. Vorrei soltanto esporre le ragioni per cui sono presente qui oggi.
Naturalmente il primo motivo è un omaggio a Leopardi, alla cultura, alla nostra cultura e alla cultura in generale che, per la verità, non tollera confini.
Un ringraziamento al Centro di studi leopardiani per l’opera che svolge e per le tante iniziative.
Vorrei dire al presidente del Centro e alla vicepresidente, la contessa Leopardi, che l’omaggio a Leopardi è accompagnato da riconoscenza e affetto per quello che ha consegnato a ciascuno di noi.
Un altro motivo della mia presenza è per ringraziare il Fai per questa iniziativa di straordinario valore. Il Fai acquisisce un’altra tra le tante benemerenze e dimostra ancora una volta l’importanza delle realtà associative private che si prefiggono e coltivano interessi generali che rispondono non soltanto a un modello della nostra Costituzione, ma che nella realtà costituiscono parte importante e decisiva del tessuto del nostro Paese.
Non mi sento di aggiungere altro dopo quanto ha detto il Ministro, dopo l’intervento del Presidente Carandini, del Presidente del Centro di studi leopardiani e dopo quello splendido testo di esperienza di insegnamento della professoressa Preti che il dottor Magnifico ha così efficacemente letto.
Soltanto un piccolo ricordo personale che riguarda Leopardi, in particolare di alcune sue parole. Ero agli inizi del mio impegno nella vita delle istituzioni quando ho riletto alcune cose scritte da Leopardi nello Zibaldone. Sappiamo tutti che lo Zibaldone contiene una quantità sterminata di pensieri, riflessioni, appunti; non avrebbe questo nome se non fosse così, mi pare che si tratti di oltre quattromila pagine.
Vi è un passo in cui Leopardi scrive che il fine della società è il bene comune e aggiunge che la società contiene un principio di unità. Queste parole così belle sono accompagnate da considerazioni di forte scetticismo sulla capacità di qualunque ordinamento di assicurare la felicità dei cittadini.
Però quei due concetti sono importanti perché sono attualissimi. Il fine della società è il bene comune; la società contiene, esprime - le mie parole sono imprecise naturalmente, non sono una citazione, vado a memoria - un principio di unità, cioè un principio che deve far sentire la società come una comunità di vita, come mi sembra sempre giusto ripetere.
Anche per questo la riconoscenza a Leopardi è molto grande. Non si limita alla suggestione e al coinvolgimento che ciascuno di noi avverte quando è catturato dalla lettura o dalla rilettura di una sua poesia, ma si riferisce anche a questi pensieri e a queste riflessioni.
Quindi il motivo per cui sono qui - ringrazio i presenti e tutti i protagonisti di questo incontro e di questa mattinata - è la riconoscenza del nostro Paese a Giacomo Leopardi.
* Fonte/Sito: Presidenza della Repubblica.
San Martino, al via la mostra "Vesuvio quotidiano_Vesuvio universale"
Cento opere, dal Cinquecento a oggi, per raccontare la paura ancestrale della presenza incombente del vulcano sul paesaggio e sulla città
di la Repubblica-Napoli (06 luglio 2019) *
Fino al 29 settembre 2019 alla certosa e museo di San Martino apre al pubblico la mostra "Vesuvio quotidiano_Vesuvio universale", curata dalla direttrice del Polo museal campano Anna Imponente, in collaborazione (per la parte storica) con la direttrice del sito Rita Pastorelli.
L’esposizione raccoglie alcune delle suggestioni suscitate nel corso del tempo dalla paura ancestrale della presenza incombente del vulcano sul paesaggio e sulla città, come espressione della potenza della natura e della fragilità umana. Secondo la curatrice Imponente: “Nell’immaginario artistico la bellezza conturbante del Vesuvio è considerata simbolo tragico della catastrofe, montagna di fuoco che distrugge, ma che diventa vitale e rigeneratore”. In rassegna, un centinaio di opere dal Cinquecento ad oggi, tra cui alcune delle più significative provenienti dalle raccolte del museo accanto ad altre di collezioni pubbliche e private.
“Assieme alle testimonianze delle eruzioni del 1631, del 1754 e del 1872 - continua Anna Imponente - le opere contemporanee reinterpretano piuttosto un’ansia creativa e rigeneratrice che attraverso il tempo si traduce in prorompente vitalità. Lo "sterminator Vesevo" leopardiano (La ginestra, 3 - 1836) può infondere all’arte un flusso incomparabile di nuova energia, così come succede in natura per la fertilità della terra, alimentate entrambe da una forza cosmica in equilibrio tra distruzione e rigenerazione. Il titolo trae spunto da quello di una mostra di Stefano Di Stasio, "Vesuvio quotidiano" (San Gemini, 2016) e dal titolo del recente ritratto raccontato nel libro di Maria Pace Ottieri "Vesuvio universale". I due termini contrapposti offrono l’idea dalla terribilità di una natura incombente e di una socialità che si sviluppa per esorcizzarne il pericolo”.
Si inizia con la cartografia cinquecentesca di interesse naturalistico, fra cui la preziosa stampa di Athanasius Kircher, tratta da Mundus supterraneus (Amsterdam, 1665), che presenta la fantasiosa immagine di un Vesuvio in sezione. Il percorso della mostra prosegue poi con una sezione dedicata ad alcune fasi della “carriera” del vulcano: le eruzioni del 1631, del 1754 e le altre che si susseguirono nel Settecento, del 1872. Attorno alle raccolte storiche, con opere emblematiche come "L’Eruzione del Vesuvio del 1631" di Domenico Gargiulo (detto Micco Spadaro) di recentissima acquisizione, e al tema della sacra protezione, invocata per la salvezza con il settecentesco busto reliquiario di Sant’Emidio, protettore dei terremoti e dei cataclismi (Cappella del Tesoro di San Gennaro), con la raffigurazione di Castel Sant’Elmo e della certosa di San Martino, si affiancano alcune opere contemporanee.
Dall’eruzione del 1872 trae spunto una serie di immagini del paesaggio vesuviano dal vero di Giuseppe de Nittis, collocate in una sala dedicata, provenienti dalla Pinacoteca civica Giuseppe De Nittis di Barletta e da una collezione privata napoletana, tra i brani più emozionati dell’esperienza giovanile del pittore. Una selezione di dipinti tra Settecento e Ottocento viene completata dalle testimonianze artistiche di Carlo Bonavia, Pietro Fabris, Pierre Jacques Volaire, operanti al tempo del Grand Tour, che documentano le vedute “pirotecniche” del Vesuvio. Accanto ad essi opere di Tommaso Ruiz, di Antonio Joli, e altri artisti che dipingevano “all’ombra del vulcano”.
In una sala a parte sarà esposta l’"Allegoria della prosperità e delle Arti nella città di Napoli" di Paolo de Matteis, del primo Settecento, insieme a una serie di "galanterie" e servizi in porcellana della fabbrica ferdinandea caratterizzate dal tema del Vesuvio in eruzione. Per la prima volta sarà anche integralmente esposta la preziosa serie di circa cento gouache, acquerelli e stampe, consacrate all’immagine del Vesuvio, donata nel 1956 da Aldo Caselli (mecenate e erudito e docente universitario), fra cui tre tavole tratte dal volume di William Hamilton, ambasciatore presso la corte di re Ferdinando IV di Borbone: i "Campi Phlegraei: observations on the volcanos of the Two Sicilies", Londra 1776-1779. Il volume, con tavole di Pietro Fabris, proveniente dalla Biblioteca Nazionale Vittorio Emauele III di Napoli, sarà anch’esso esposto in mostra.
In dialogo con le opere antiche saranno in mostra 50 opere moderne e contemporanee: le terrecotte smaltate di Leoncillo Leonardi, della fine degli anni Cinquanta, in cui il gesto artistico impresso alla materia argillosa acquista una scabra plasticità informale; la combustione di Alberto Burri "Tutto nero" (1956) che rimanda alle fratture e alle bruciature della terra; il ritratto "Vesuvius" (1985) di Andy Warhol che ritrae il vulcano “più grande del mito, una cosa terribilmente reale”; il "Senza titolo" (1996) di Jannis Kounellis in ci l’elemento del carbone concretizza la naturalità della materia povera; il dipinto Odi navali (1997) di Anselm Kiefer, contaminato da piombo agglomerato e bruciature, raffigurazione epica della sofferenza umana.
Nel cortile di ingresso fanno da introduzione alla mostra le due sculture di Bizhan Bassiri (2006) "Meteoriti" nel cortile, installazione completata da "Evaporazione rossa" (2013), una sorta di astro solenne che domina la navata della Chiesa monumentale. Le sculture di Anna Maria Maiolino artista italiana che lavora in Brasile, sono portatrici di un’energia esplosiva capace di modificare la materia del cemento e del raku. La mostra prosegue con le opere di Claudio Palmieri, le cui forme ceramiche contengono il flusso lavico che esplode invece sui dipinti; la scultura di Roberto Sironi fa parte della serie "Fuoco", composta da calchi in bronzo di tronchi o rami d’albero bruciati trovati in natura; nelle grandi carte Adele Lotito si serve della evanescenza e della trasparenza del fumo per misurare e disvelare presenza e assenza; in "Inferno" (2018) l’artista belga Caragh Thuring trae ispirazione dalle antiche gouache napoletane, traducendole in una pittura pastosa con le silhouette sulla cima del Vesuvio, eredi della poetica del sublime. I dipinti di Stefano Di Stasio rispecchiano il suo stile tra simboli e metafore, affiorante dal mondo dell’inconscio e dell’onirico; le tempere su tela del napoletano Oreste Zevola riprendono in forme archetipiche e primitive le figure di santi e di sirene, di teschi e di vulcani fluttuanti nello spazio, legate all’immaginario popolare; nelle Geografie Temporali (2019) di Sophie Ko, artista georgiana che lavora a Milano, il pigmento si mescola alla cenere creando paesaggi mutevoli.
L’esposizione è arricchita dalle foto di Antonio Biasiucci, maestro degli scatti sui vulcani attivi in Italia e del Vesuvio in particolare, di Giovanni De Angelis, che con "Volcano" rimanda al cratere come simbolo di improvvisi cambiamenti, di Maurizio Esposito, che documenta i roghi che nel 2017 hanno devastato il Parco nazionale del Vesuvio, e una “cartolina” di Riccarda Rodinò di Miglione, un gioco di riflessi nelle acque del Golfo e dalla installazione di art sound di Piero Mottola. Lungo il percorso della mostra, in un piccolo ambiente, sarà proiettato il cortometraggio di Maya Schweizer, “Insolite” (2019), realizzato con il sostegno del Goethe Institute: una suggestiva sequenza di immagini del Vesuvio attuali in dialogo con quelle dell’ultima eruzione avvenuta nel 1944, senza alcun nesso narrativo, ma immaginifica ed emozionante.
Per il finissage, venerdì 27 settembre, sarà presentato il catalogo della mostra, edito da Arte-m, con testi di Anna Imponente, Bruno Corà, Fernanda Capobianco, Ileana Creazzo, Luisa Martorelli, Rita Pastorelli, Annalisa Porzio e contributi di Maria Pace Ottieri e Silvio Perrella. Nella stessa occasione saranno riaperti al pubblico i Sotterranei gotici, misterioso ventre della Certosa, che racconta la storia della sua fondazione, simbolico “cratere” del complesso certosino, da cui affiorano i capolavori che questo conserva. A conclusione della presentazione del catalogo sarà proiettato “Sul vulcano”, il film documentario di Gianfranco Pannone.
La mostra è organizzata dal Polo museale della Campania con Scabec, col sostegno dell’Associazione Amici di Capodimonte e dell’Associazione Metamorfosi.
Orario d’ingresso, tutti i giorni (tranne il mercoledì) dalle 9.30 alle 17. Biglietto 6 euro.
Definire gli infiniti
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 29 Giugno 2019)
La siepe
Che cosa significa definire se non, letteralmente, tracciare un/una fine, un confine, delimitare, «come quando si recinta un terreno, in modo da non confonderlo con le terre confinanti appartenenti ad altri? Grazie alla definizione si rintracciano caratteristiche comuni all’insieme di cose che stanno dentro il confine, le quali permettono di non confondere la cosa definita con altre» (Giuseppe Cambiano, Sette ragioni per amare la filosofia, Bologna, il Mulino, 2019, p. 43). Benissimo. Ma come definire l’infinito, che non ha estremità - come già preconizzava Epicuro e prima di lui facevano tutta la cosmologia e la fisica presocratiche - e che sfugge a ogni limite, gioiosamente superandoli tutti nella sua smisurata immensità? Forse riusciremo a definirlo, ci perdonino fisici e matematici, grazie a... una siepe!?
Ecco apparirci davanti agli occhi la siepe del secondo verso dell’Infinito di Leopardi, presentata subito dopo l’ermo colle, entrambi al poeta cari. Quella siepe che ritorna nel quinto verso con un richiamo indiretto, di là di quella, per definire nuovamente l’interminato spazio che si stende quieto e silenzioso, ampio e materno come la chora platonica, oltre quel termine, oltre quel limite. In entrambi i casi la siepe si pone come paradossale confine dell’infinito, che costringe lo sguardo a cambiare direzione. Il limite e il confine che tracciano, nel percorso della mostra, i muretti del Paesaggio con muri bianchi di Damaso Bianchi (n. 15). Qui quei muretti, che nel colore richiamano il cognome del pittore, toccati ma non attraversati dalle ombre degli alberi, ci impediscono di percepire il paesaggio dietro di essi ma insieme stimolano e aguzzano la vista esterna e la contemplazione e l’introspezione dell’io, del pittore e nostre.
I muretti, la siepe, limitano, chiudono. Chiudono davanti, come spiega la parola presepe, dal latino prae-saepit, che chiude con una siepe (saepes). Un recinto è dunque la siepe del presepe, dove si trova il cibo per il bestiame che ne sta all’interno, e che crea protezione e sicurezza anche per il Bambin Gesù, lì posto insieme ai tradizionali animali dell’iconografia cristiana. La siepe cinge, limita e protegge mentre esclude dallo sguardo: lo fanno la siepe di Leopardi e la siepe del Tramonto in Liguria di Gaetano Previati (n. 9), posta dietro i rigogliosi alberi carichi di agrumi, dietro la quale il mare in parte si intravede in parte si immagina.
Verticale e orizzontale
Protetto dalla siepe che gli è cara siede il giovane Giacomo, da poco divenuto ventenne, sull’ermo colle che come quella gli è caro (aggettivo che tra poco reinterpreteremo in un senso tutto particolare). Dall’alto il poeta contempla il paesaggio fingendo - col plasmare l’argilla del pensiero, immaginando dunque - spazi senza termine distesi sotto di lui. Costruisce così una sorta di violenta verticalità che ha al vertice il colle e alla base il mare, ultima parola dell’ultima riga, che fino all’ultimo non ci è dato vedere. Dall’altezza del pensiero che finge immagini e idee, alla profondità del mare che cela pericolose passioni nelle quali il naufragio è dolce. L’altezza è qui sublime quanto la profondità, sublime questa come «una durata interminata», notava Kant nelle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime [1764], che si accompagnano «a sensazioni di spavento come di meraviglia». Una suggestiva verticalità che precipita dal colle al mare e con la quale si incrocia, letteralmente e figurativamente, formando i bracci di una croce, l’orizzontalità del tempo descritta nei versi da 11 a 13: l’eterno/le morte stagioni/la presente e viva. Eternità (tempo infinito), passato, presente.
Una verticalità che nei dipinti della mostra si manifesta grazie all’ascensionalità degli alberi in Tramonto di Previati ma anche nello slancio della figura femminile e del cespuglio di Il prato dello stesso Previati, o nella siepe di alberi di Sole e brina di Plinio Nomellini. A cui si contrappone l’orizzontalità delle visioni fluviali, con Sull’Ofanto e Lungo l’Ofanto di Giuseppe De Nittis e La fleuve, di Émile René Ménard. L’incrocio in potenza delle due dimensioni, dove l’orizzontale sfuma nel verticale lo si nota poi ne Il sole di Pelizza da Volpedo, dove il disco luminoso che brilla all’orizzonte è pronto a spiccare la sua trionfale ascesa. E infine in Mare in burrasca di De Nittis dove la mente si finge l’abisso della profondità marina. Là dove Giacomo Leopardi esperisce il suo dolce naufragare.
L’ossimoro del dolce naufragio
È quello evocato da Leopardi un naufragare fittizio nel pelago dei pensieri sull’essere e sull’infinità del tempo e dello spazio? O un naufragio reale, benché soltanto immaginato, un frangersi della nave prima di affondare nei flutti? È entrambe le cose, certo, ed è insieme un tema che ripropone una nuova configurazione a croce, orizzontale-verticale: essa comprende infatti in Leopardi sia il comandamento stoico-epicureo della contemplazione e del distacco atarassico dai turbamenti, che potremmo associare alla dimensione orizzontale nella sua calma e piatta estensione; sia la verticalità della sfida illuminista del mettere in gioco il contributo fondamentale delle passioni, il valore dell’entusiasmo e del rischio, la vivacità della lotta degli elementi, l’uno e l’altro apprezzati, riprenderemo questo punto, da Leopardi. Nell’ossimoro del dolce naufragio convive il piacere (orizzontale) della calma con la disperazione (verticale) ma anche la creatività del moto; convive l’innegabile gioia estetica della natura, con la sofferenza cui soggiace la stessa natura e che con e nella natura si impone.
Il dolce naufragio e Lucrezio
Ci dedicheremo ora al naufragio dolce di Leopardi, lasciandoci alle spalle i dolci paesaggi della mostra per immergerci negli infiniti leopardiani. Questa volta ci ispireremo a un altro dipinto, quasi contemporaneo alla composizione dell’idillio: Il viandante sul mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer) di Caspar David Friedrich, del 1817, conservato nella Kunsthalle di Amburgo. Lì l’osservatore impassibile-pensieroso contempla sopra l’ondeggiante mare di nebbie i naufragi altrui:
Bello, quando sul mare si scontrano i venti
e la cupa vastità delle acque si turba,
guardare da terra il naufragio lontano:
non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina
ma la distanza da una simile sorte.
(Lucrezio, De rerum natura, II, 1-4, trad. it.vdi E. Cetrangolo, Firenze 1969, p. 73).
Lucrezio! Sì, Lucrezio.
L’ispirazione, il riferimento classico, il sostegno letterario e filosofico dell’Infinito di Leopardi è Lucrezio. Anzi, sono i versi di apertura del secondo libro del De rerum natura; di quell’opera che la chiesa aveva cercato disperatamente di cancellare dalla memoria storica, e c’era riuscita per più di un millennio, fino all’avventurosa scoperta e divulgazione del poema grazie all’infaticabile ricerca condotta da Poggio Bracciolini.
Lucrezio! Sì, Lucrezio che imposta la configurazione tra il braccio verticale dello strepito della storia, e quello orizzontale del silenzio, della pacatezza e assenza di turbamento. Lucrezio. Tito Lucrezio Caro. In latino, Titus Lucretius Carus. Carus. Caro. Semper Carus. Sempre Caro. Sempre caro. SEMPRE CARO. Sempre Lucrezio. Sempre il pensiero del poeta filosofo romano mi accompagnerà, sembra dichiarare solennemente il giovane ventenne, enunciando in maniera ancora criptica il suo ateismo e la sua idea che la natura sia un «cieco e inconscio meccanismo di produzione-distruzione» (Sebastiano Timpanaro, Epicuro, Lucrezio e Leopardi, in «Critica storica», luglio-settembre 1988, 3, pp. 359-401, qui p. 397).
Non potendo, volendo, riuscendo a esclamare liberamente la propria convinzione, il giovane Leopardi lo fa - è la mia ipotesi e la mia proposta, frutto di intuizione più che di dimostrazione, ammetto - con un espediente quasi scherzoso, nascondendo la sua ammirazione e la sua fedeltà a Lucrezio proprio nelle prime due parole dell’idillio: sempre caro. E riprendendo nell’ultimo verso l’aggettivo dolce. Dolce, suave (neutro sing. di suavis), la prima parola del primo verso di quell’incipit lucreziano: Suave, mari magno turbantis aequora ventis..., aggettivo che più volte ritorna nei versi successivi.
Del resto il poeta di Recanati era stato un bambino e adolescente allegro e giocoso, addirittura scatenato e prepotente coi fratelli. Come non immaginarlo mentre con un sorriso sornione scrive quelle parole allusive, ancora pregno dell’entusiasmo infantile e adolescenziale?
La critica letteraria ha speso infinite pagine per mostrare e dimostrare se Leopardi conobbe Lucrezio, e se sì che cosa, e quali sono i riferimenti testuali e quali quelli contenutistici; se tematiche lucreziane siano presenti in Leopardi direttamente o provengano indirettamente dall’influenza di altri autori da lui conosciuti, Montaigne, Pascal, Goethe; se esistano e come si configurino affinità e differenze tra le concezioni pessimistiche di Leopardi e Lucrezio, quali siano le fonti latine alla radice dell’opera leopardiana e così via. Cito per tutti soltanto l’ampio studio di Sergio Sconocchia, Ancora su Leopardi e Lucrezio (in Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di A. Frattini, G. Galeazzi e S. Sconocchia, Roma, Edizioni Studium, 1990).
Nell’indagare i rapporti tra i due poeti-filosofi la critica talvolta sottolinea, talvolta minimizza l’influenza delle idee di Lucrezio sul pensiero di Leopardi, insistendo soprattutto sull’adesione all’epicureismo del primo, non confacentesi al secondo. Certo, guardare il naufragio e il turbamento altrui senza farsene coinvolgere è l’atteggiamento del saggio epicureo, capace di osservare imperturbabile il turbinio del mondo circostante. Eppure a quell’atteggiamento pure Lucrezio aderisce quasi pro forma per poi discostarsene, mostrando posizioni simili a quelle che saranno di Leopardi. Entrambi sono animi appassionati, e se per un momento si adagiano sul braccio orizzontale dell’imperturbabilità epicurea e dell’apatia stoica, non negano di certo, entrambi, quello verticale antitetico della curiosità, dell’irrequietezza, dell’angoscia. Anzi, commentava più di cent’anni fa un critico acutissimo, riferendosi proprio al libro II del De rerum natura e al paragone ivi istituito tra gli atomi travolti nello spazio infinito e le rovine del naufragio che il mare getta alla rinfusa sulla spiaggia, «come siamo lontani dalla meccanica ridda atomica e da Epicuro! Essi non han servito, si può dire, che a dare lo spunto alla fantasia di Lucrezio, la quale, spaziandosi e internandosi nel suo soggetto, determina a sua volta un movimento affettivo che prende un’espressione per nulla dissimile dalle leopardiane» notava Spartaco Borra (Spiriti e forme affini in Lucrezio e Leopardi, Bologna, Zanichelli, 1934, Ia ed. 1911, p. 61) e passim nella sua splendida interpretazione.
Entrambi i filosofi-poeti hanno interrogato il silenzio infinito del cielo, lo stupore e il terrore che esso suscita; entrambi hanno provato sia il godimento estetico sia l’angoscia esistenziale. Entrambi sentono e rendono il senso dell’infinito, ricevendo, dalla contemplazione del cielo e del mare, impressioni profonde, rasserenanti, dolorose.
Nel giovanile Infinito sprofondare in questa contemplazione, lasciare che la nave della mente si infranga contro i flutti e vi si immerga, è per Leopadi suave, dolce. In compagnia del caro Lucrezio Caro e come lui giocando con le parole e ripetendo quelle assonanze e allitterazioni e allusioni, nonché ripetizioni, raddoppi, e creazione di parole nuove (verba nova) che esercitavano un’attrazione irresistibile sul poeta latino. Il naufragio descritto da Lucrezio e osservato da riva, su cui medita il viandante di Friedrich, sarà sempre anche quello di Giacomo Leopardi: semper Carus, sempre caro.
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Questo testo è estratto dal catalogo, edito da Silvana Editoriale, che ringraziamo, della mostra La fuggevole bellezza. Da Giuseppe De Nittis a Pellizza da Volpedo, a cura di Emanuela Angiuli, e della mostra sul contemporaneo a cura di Marcello Smarrelli con Metrocubo d’infinito di Michelangelo Pistoletto e Invisibile di Giovanni Anselmo, a Recanati, Villa Colloredo Mels, dal 30 giugno al 3 novembre 2019,
L’ ’Infinito’ di Leopardi compie 200 anni
Olimpia Leopardi, vorrei che partecipassero deputati e senatori
di Federica Acqua (Ansa, 28 maggio 2019)
RECANATI (MACERATA). L’Infinito di Giacomo Leopardi superstar per tutto il 2019 e anche oltre a 200 anni dalla sua stesura. Per celebrare ’l’Idillio perfetto’, uno dei testi poetici più famosi e amati della lingua italiana, la contessa Olimpia Leopardi, discendente diretta del poeta, ha organizzato a Recanati, insieme al ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, un flash mob degli studenti di tutta Italia che hanno recitato in contemporanea la celebre poesia: sarà "#200infinito".
"Mi è sembrato giusto - dice la contessa all’ANSA - ambientare l’iniziativa nella piazzetta del Sabato del Villaggio" su cui affaccia Palazzo Leopardi, "collegandola simbolicamente a tutte le piazze italiane per trasformarle da luogo in cui la gente passa ignorandosi o addirittura urtandosi, in uno spazio di condivisione spirituale nel segno della bellezza per costruire insieme un futuro ’oltre la siepe’".
E a proposito della siepe più celebre della letteratura italiana, ecco un momento del film Il giovane favoloso, in cui Elio Germano-Leopardi crea l’Infinito:
Migliaia di studenti, e non solo, hanno recitato l’Infinito di Leopardi, nella piazzetta del Sabato del Villaggio a Recanati, ma anche in piazze, scuole, biblioteche, carceri, navi in tutta Italia e anche all’estero nel flashmob #200infinito per celebrare il bicentenario di una delle poesie più note e amate. A Recanati, dove c’è stata anche una diretta di RaiCultura, c’erano il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti e la contessa Olimpia Leopardi, ideatrice dell’iniziativa. "Oggi è una festa dell’Italia realizzata dalle scuole, da voi ragazzi e dai docenti" ha detto il ministro, che ha sottolineato la contemporaneità di Leopardi: "l’Infinito è parte di noi, non in un senso astratto, ma perché ci parla del nostro modo di esistenza in quanto esseri umani". La contessa Leopardi ha sottolineato il "meraviglioso messaggio che Giacomo ci ha regalato. I limiti devono servire non per fermarci, ma per insegnarci a guardare oltre, a vedere le infinite possibilità che abbiamo dentro di noi".
Un percorso emozionante che svela il Leopardi privato nell’intimità della sua casa e ne ricostruisce le dinamiche familiari e l’evoluzione culturale mostrando la biblioteca in cui studiava col padre, i disegni che eseguiva coi fratelli e le ’sudate carte’. Fino al passaporto ottenuto di nascosto per fuggire da Recanati con tanto di orari delle diligenze che gli fu poi sequestrato dal padre Monaldo, e alla maschera funeraria insieme ai frammenti del suo cappotto e della sua bara. Un percorso che il video immersivo ’Io nel pensier mi fingo’, realizzato da Giancarlo Muselli, scenografo del film ’Il giovane favoloso’ di Mario Martone, e dalla leopardista Fabiana Cacciapuoti, in proiezione alle scuderie del Palazzo dal 15 aprile prossimo, riproduce in forma virtuale come un viaggio dell’anima del poeta, guidandoci attraverso le stanze e i panorami che l’ispirarono.
A Recanati ha totalizzato 26mila visitatori la mostra a Villa Colloredo Mels dell’autografo leopardiano dell’Infinito del 1825 assieme a molti suoi scritti, tra cui gli idilli, provenienti dalla ricca collezione del Comune di Visso lesionato dal sisma. E da quest’anno sono in mostra altri oggetti e cimeli del poeta e della sua famiglia di proprietà del Comune di Recanati. Il 29 giugno vi sarà poi il consueto appuntamento a Recanati per le Celebrazioni Leopardiane (in occasione del compleanno del poeta) con studiosi di tutto il mondo, mentre il 26 settembre aprirà al pubblico l’Orto delle Monache del Colle dell’Infinito, recuperato dal Fai, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E il 23 e 24 ottobre la città natale del poeta ospiterà il convegno internazionale ’Interminati spazi’, che analizzerà con scienziati, filologi, poeti, matematici, fisici e letterati il messaggio dell’Infinito nella società attuale.
Clima, Aldo Masullo: "L’onda verde dei giovani che sferza la politica"
L’analisi del grande filosofo dopo le recenti manifestazioni per l’ambiente, contro il riscaldamento globale del pianeta
di ALDO MASULLO (la Repubblica/Napoli, 22 marzo 2019)
Il mondo umano è divenuto, per dirla con Leopardi, "stretto", troppo stretto, strettissimo. Nelle catastrofi geologiche le placche continentali, premute l’una contro l’altra dai cedimenti tettonici, si accavallano deformandosi. Così il mondo che noi siamo, globalizzandosi, si è oggi compresso, schiacciato su se stesso, ha perso ogni porosità, è divenuto un blocco rigido. Tutti i suoi vuoti si sono riempiti. I buchi in cui si scaricavano i residui dei metabolismi, che toccava poi al tempo lungo distruggere, ora sono ostruiti, e il corpo del mondo, riempito dai suoi stessi escrementi, mostruosamente si gonfia. La sempre più capillare lotta tra le varie forze umane, che in se stesse senza sosta scomponendosi irresistibilmente accrescono gli scontri, non ha spazi per sia pur brevi pause. Le comunicazioni di massa e le affollate piazze elettroniche sempre più velocemente si rinviano segnali senza senso, cioè senz’altri significati che se stessi. Non c’è respiro.
In un mondo così ridotto una sola funzione lavora alla grande: la centrifugazione. L’enorme macchina mondo non fa altro che dall’immensa massa solida e opaca dei più separare la lucida liquidità dei pochissimi che hanno raggiunto il nuovo Olimpo, cioè la ricchezza e il potere, o almeno l’effimera celebrità. Le parti che la centrifugazione ha separate, restando chiuse entro la medesima strettezza, per l’inevitabile ruvidità dei loro contatti fanno attrito, e la tensione si accresce. Il bisogno senza soddisfazione possibile si fa brama rabbiosa.
Ad ogni individuo l’altro appare come una minaccia, contro cui non s’immagina difesa che non sia l’aggressione. Nessuno sopporta il suo prossimo. In tutti, anche nei mansueti, domina l’insofferenza, il cui aumento totale ancor più gonfia il mondo d’ira e di odio. Come sempre, non v’è vizio o disgrazia o pericolo, che non siano ottime occasioni per affaristi. Non mancano dunque persone e gruppi che profittano dell’ira e dell’odio per farsene supporto di potere politico. Così sulla febbre del mondo si getta acqua bollente.
Ma la febbre dipende essenzialmente dalla percezione del pericolo globalizzato. Non c’è luogo né tempo in cui poter immaginare di rifugiarsi. Crescono l’oscuro avvertimento del pericolo in agguato d’ogni parte e il presentimento di un futuro sempre peggiore. La sensazione di fondo, angosciosa, è che non c’è scampo. Peraltro, se si vuole, come si deve, ignorando le emozioni considerare lo stato delle cose con freddo giudizio, si è costretti a riconoscere che le emozioni non hanno torto.
Globale infatti è il dominio per cui si preparano a scontrarsi le massime potenze continentali; globale è il potere tecnologico a cui si mira; globale è la distruttività degli armamenti che non si cessa di accumulare; globale è lo sconvolgimento che lo sviluppo produttivo selvaggio opera nel delicato equilibrio dell’ecosistema. Sono tutti processi molto difficilmente reversibili, anzi oltre un certo limite, oltre un punto di non ritorno, irreversibili. E sono tutte minacce globali. Ma il dissesto dell’ecosistema è la minaccia che per gl’inauditi furori e i devastanti effetti del mutamento climatico è immediatamente percepibile. A questo stato d’insicurezza globale le generazioni che hanno finora gestito il mondo, sempre più impigliate negl’ingranaggi del loro sfrenato attivismo, ci hanno portati, e non sono capaci neppur di cominciare a porvi riparo.
L’allarme intanto risuona sempre più forte. Qualche giorno fa il Presidente della Repubblica ha con autorevole saggezza denunciato i rischi della "crisi climatica globale". Ma chi potrebbe fronteggiare la minaccia globale che, a partire dalla crisi climatica, incombe sul mondo, se non una forza globale, moralmente intatta, capace di ragionare in modo nuovo? In questi giorni la speranza si è accesa. "L’onda verde di una generazione può cambiare il mondo". Lo ha notato, tra gli altri, il sociologo Ilvo Diamanti a commento delle manifestazioni che venerdì scorso hanno accomunato un milione e mezzo di giovani in ogni praticabile piazza del mondo. Si tratta di una generazione "global" perché, "per quanto cresciuta in un contesto "no-global", di critica alla globalizzazione", essa di fatto si è "affermata oggi in prospettiva "globale"", "guardando "avanti", per necessità e per vocazione".
Soprattutto, nota il sociologo, i giovani nell’abbraccio di tutti con tutti hanno rotto la loro solitudine digitale, si sono sottratti alle "relazioni senza empatia", hanno rifiutato l’autosequestro nel bozzolo elettronico.
Sarà forse quest’immensa onda verde giovanile un’iridescente bolla di sapone destinata in breve a dissolversi contro il potere dell’ottusità globalizzata?
Eppure non si scherza! L’allarme degli scienziati è drastico: se le emissioni di CO2 continuano al ritmo attuale, nel 2030, cioè tra 11 anni!, si produrrà con l’aumento della temperatura una situazione globale di irreversibile disastrosità.
Dunque per i ragazzi di oggi ne va della maggior parte della vita che hanno da vivere. Ancor più ne va per la vita delle generazioni successive, per la sopravvivenza dell’umanità stessa. In effetti nella minaccia climatica si riassumono tutte le minacce globali.
Capire ciò, capirlo sul serio, cioè agendo, è porsi in una prospettiva globale del tutto nuova: significa nel proprio vivere levarsi all’altezza del come è necessario pensare, affinché la storia umana continui.
In ogni modo, il fatto che questa generazione di ragazzi si sia messa in movimento comporta da subito, nei giorni del nostro mondo tutto "stretto" nella sua globalità soffocante, la boccata d’aria frizzante di curiose inversioni generazionali: giovani che precedono lungimiranti gli adulti, insegnanti che imparano dagli allievi le buone pratiche, padri a cui i figli additano la via della salvezza. Un tal paradosso mette allegria prima ancora che speranza.
D’un tratto sembra possibile che la globalizzazione significhi un mondo non più "stretto" ma, ancor nel linguaggio leopardiano, più "largo": non bloccato in una soffocante pienezza, dove le varie moltitudini si riducono ad altrettante fobiche identità pressate l’una contro l’altra, bensì ricchezza di spazi aperti per incontri pacifici d’innumerevoli diversità, tutte libere, insomma un universo elastico di umanità in espansione.
Letteratura.
Quando il Novecento riscoprì la filosofia di Giacomo Leopardi
Due volumi ripropongono gli scritti sul pensiero di Leopardi di Rensi e Tilgher, per i quali lo scrittore anticipa un approccio scettico, antidogmatico e antisistematico proprio della modernità
di Alfonso Berardinelli (Avvenire, domenica 9 settembre 2018)
Che Giacomo Leopardi sia stato non solo un grande poeta ma anche un vero filosofo, uno dei maggiori filosofi italiani, è diventato ormai un luogo comune. Filosofo soprattutto coerentemente materialista secondo alcuni, empirista secondo altri, o infine nichilista, benché eroicamente e generosamente morale nella sua compassione per la sorte infelice del genere umano, compassione che ispira solidarietà.
Oggi Leopardi sembra interessare più per i suoi eccezionali scritti in prosa, lo Zibaldone e le Operette morali, che per le sue poesie, un po’ logorate dalla routine scolastica, o meglio dal modo scolastico di leggere poesia. Il pensiero di Leopardi (non va dimenticato) è il pensiero di un giovane: quasi tutte le sue opere maggiori sono state scritte prima o appena dopo i trent’anni. Resta tuttora il più amato dei nostri poeti classici. Nelle sue pagine i giovani incontrano ciò che più li occupa e li preoccupa: l’amore e la felicità, la solitudine e la sofferenza, il senso o non senso da dare alla vita, la ricerca del piacere, il giudizio sui legami e le convenzioni sociali, l’alternanza fra illusioni e realtà, sentimento e ragione.
A proposito del pensiero di Leopardi, l’editore Nino Aragno ha appena pubblicato due eccellenti, appassionanti e lucidissimi volumetti a cura di Raoul Bruni, docente di letteratura italiana all’Università Cardinale Stefan Wyszynski di Varsavia: gli autori sono entrambi filosofi italiani della prima metà del Novecento, Giuseppe Rensi (1871-1941) e Adriano Tilgher (18871941).
L’interesse di queste pubblicazioni è duplice. Riguarda Leopardi filosofo, del tutto sottovalutato e spesso frainteso da una cultura italiana allora filosoficamente dominata dal neoidealismo liberale di Benedetto Croce e da quello fascista di Giovanni Gentile; ma riguarda anche due filosofi italiani originali e antiaccademici come Rensi e Tilgher, le cui opere sono trascurate o dimenticate forse perché trovarono nel pensiero di Leopardi un precedente fondamentale e una guida.
Secondo Rensi, già in un articolo antireligioso e anticlericale del 1906, c’era perfino da deplorare «che Leopardi sia stato troppo letterato e abbia dato alla cultura e all’opera letteraria una soverchia importanza. Se Leopardi fosse stato unicamente filosofo e avesse dedicato la sua intelligenza all’elaborazione d’un sistema, il pensiero italiano avrebbe avuto, prima e meglio di quello germanico, Schopenhauer e Nietzsche armonizzati in una costruzione unica» (Su Leopardi, pagine 109, euro 13,00).
In quegli anni Rensi, ancora socialista e nemico di ogni metafisica, loda in Leopardi il coraggio (quasi buddhistico) di riconoscere la «verità dell’infinito Nulla». Lui stesso filosofo scettico, nel 1919 Rensi, il cui pensiero aveva avuto una svolta critica nei confronti del valore universale della ragione, difende Leopardi in quanto seppe fare un uso «relativista, scettico e asistematico» del proprio illuminismo.
E se i «dogmatici contemporanei» guidati da Croce non gli riconoscono la qualità di filosofo è perché non accettano la «stilistica» del suo modo di pensare. Dunque qui Rensi rovescia i suoi precedenti dubbi su Leopardi letterato, che sarebbe invece filosofo originale e privo di pregiudizi proprio perché non scrive nel linguaggio sistematico dei filosofi di professione, non usa le loro categorie astratte, ma pensa e si esprime da poeta e da scrittore, da psicologo e moralista. Diffida di una società invadente, oppressiva e costrittiva come quella moderna, in cui gli esseri umani sono ridotti a «massa» e a forza di pensare all’«utile» si rende inutile la loro vita.
Anche per Tilgher, amico e seguace di Rensi, il pensiero critico e «risolutamente empirico» di Leopardi fa di lui «il nostro maggiore filosofo». Nel saggio La filosofia di Leopardi pubblicato nel 1940 (ora riproposto da Raoul Bruni insieme ad altri scritti, pagine180, euro 15,00) Tilgher organizza per concetti il suo commento leopardiano: si va da Piacere, Amore, Compassione, Dovere, Noia fino a Teologia Negativa, Materialismo, Storia della civiltà, Antiprogressismo, Antistoricismo.
Divenuto indifferente al cristianesimo e incerto anche nei confronti di Platone, sempre più Leopardi vede nell’idea di un Progresso «perpetuo necessario illimitato» niente altro che un’ideologia demiurgica e consolatoria che teologizza la Storia. Dice Tilgher: «Il Cristianesimo professava il Dio-Uomo; la filosofia del Progresso l’Uomo-Dio». Così l’onnipotenza veniva trasferita dal cielo in terra e messa nelle mani degli uomini, o più precisamente degli economisti e degli scienziati.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
Federico La Sala
Scoperti 91 vulcani sotto i ghiacci dell’Antartide
di VITTORIO SABADIN (La Stampa, 13/08/2017)
Il ghiaccio dell’Antartide nasconde un centinaio di vulcani dei quali s’ignorava l’esistenza e il cui ritorno all’attività potrebbe avere conseguenze catastrofiche sull’intero pianeta. Una ricerca dell’Università di Edimburgo, condotta confrontando rilevazioni radar a terra con nuovi dati recentemente forniti dai satelliti, ha permesso di scoprire che i vulcani che si trovano nella costa ovest dell’Antartide non sono soltanto i 47 già scoperti nell’800: ce ne sono almeno altri 91, alcuni dei quali raggiungono l’altezza di 3850 metri.
“Se uno di questi vulcani tornasse in attività - ha detto all’Observer Robert Bingham, responsabile della ricerca - destabilizzerebbe la crosta di ghiaccio che ricopre il terreno, velocizzandone lo scioglimento in mare”. Il riscaldamento globale ha già ridotto lo strato di ghiaccio che ricopre il terreno, diminuendo la pressione sui coni dei vulcani, che ora possono diventatare una bomba a orologeria pronta a esplodere. “I maggiori fenomeni vulcanici in atto nel mondo - ha confermato Bingham - si verificano in zone come l’Alaska e l’Islanda che hanno perso la loro copertura di ghiaccio in un periodo abbastanza recente, l’ultima era glaciale. Le teorie suggeriscono che quando la pressione diminuisce i vulcani tornano a essere più attivi”.
Lo strato di ghiaccio che ricopre il continente raggiunge in alcuni punti il rassicurante spessore di cinque chilometri, ma è bastato che El Nino, il fenomeno che riscalda periodicamente l’acqua del Pacifico, fosse più intenso tra il 2015 e il 2016 per sciogliere una superficie di ghiaccio pari a due volte la California. Recentemente si è staccato dall’Antartide un iceberg di 6 mila chilometri quadrati, grande più della Liguria.
Gli scienziati cercheranno ora di valutare quanto i vulcani appena scoperti siano ancora attivi: se lo fossero, sarebbe inevitabile in futuro lo scioglimento di milioni di tonnellate di ghiaccio e un innalzamento del livello del mare che avrebbe conseguenze sul clima e in ogni zona costiera del globo. Ad aggravare la situazione c’è il sospetto che oltre ai vulcani finora censiti ce ne siano altri sui fondali marini, cosa che farebbe della costa ovest dell’Antartide la zona a maggiore densità vulcanica del mondo, superando la Rift Valley africana lungo la quale si trovano giganti come il Nyiragongo, il Kilimangiaro e il Longonot. Mentre gli stati ancora discutono se sia o meno opportuno partecipare alle conferenze sul riscaldamento globale, la velocità dei mutamenti climatici potrebbe accelerare oltre ogni più fosca previsione.
Nietzsche e Leopardi. «Il filosofo della conoscenza tragica»
di Gaspare Polizzi (Filosofia Italiana, 23 luglio 2017)
Il sottotitolo della mia ricerca riprende una frase che si presenta nell’incipit del frammento 35 del gruppo 19 dei Frammenti postumi di Friedrich Nietzsche, databile estate 1872 - inizio 1873. Si tratta di un frammento che, a mio avviso, può costituire un efficace abbrivio per stabilire una linea del confronto di Nietzsche con Giacomo Leopardi, senza pretendere una trattazione completa del rapporto, ampiamente studiato tra i due pensatori. La frase definisce il filosofo, nella sua eccellenza greca, ma anche nella sua atemporalità. Cercherò di dimostrare come questo frammento possa leggersi insieme come un’auto-definizione del filosofo in Nietzsche e come un indicatore della specificità filosofica dell’opera di Leopardi.
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LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”....*
Nel giorno in cui cadono le stelle /
Leopardi. Frammenti di una cosmologia poetica
di Antonio Prete *
Un’immagine, un’apparizione: nel fitto meditare del giovane Leopardi lungo i margini di una biblioteca affollata di voci. Voci di antichi e di moderni, parole dell’epos e della filosofia, convivio di idee convocato dall’Encyclopédie e dai nuovi saperi. Una casa pensile, che è sospesa nell’ aria, ed è legata con delle funi a una stella. Un’immagine che pare il resto figurabile di un sogno che subito è disperso con la prima luce del giorno. O il ricordo fulmineo di un disegno infantile: la stella in alto, e giù la casa, priva di terreno, sospesa nel bianco della pagina, ma qualcosa deve legare la casa alla stella, ecco allora le funi che impediscono che la casa precipiti, e la fanno oscillare nel vento, casa di carta e stella di carta, casa dipinta e stella infiammata. Non ha rapporto con la terra la casa: è sollevata, come se fosse portata via da una forza - da una carrucola - che ha in una lontanissima stella il suo sostegno. Non è trasportata, la casa. Non è la casa di Nazareth che gli angeli portano in volo, come racconta una popolare credenza, per deporla a Loreto, proprio nei pressi di Recanati. Non è stata neppure sradicata dalle fondamenta, questa casa, è lì, sospesa in aria, sospesa nell’immaginazione: è la pura sospensione del terrestre, del domestico, del quotidiano. Non sappiamo se è abitata, la casa pensile, ora appare nella sua fisica figurazione di casa sospesa nel vuoto e tuttavia sostenuta da un principio, non più attratta dalla terra ma appartenente ai simulacri che abitano l’aria e che di solito non vediamo.
Ma l’immagine è anche una lampeggiante abbreviazione, o persino un compendio metaforico, del pensiero leopardiano, o forse un presagio inconsapevole - disegnato nella “camera oscura” dell’immaginazione - di come quel pensiero si svolgerà, del cammino che avrà lungo diverse stagioni, ma anche di alcune esperienze poetiche fino a quel momento vissute. Una figura dei modi conoscitivi e insieme poetici che saranno trama e respiro di un pensiero. Ecco la leggerezza, e con essa il senso della elevazione - annuncio della élévation baudelairiana -, cioè sguardo che dall’alto si volge verso il linguaggio del mondo, ascolta il silenzio delle cose, ma osserva anche l’intorpidimento dei sensi fatti opachi dall’“incivilimento”, atrofizzati dalla progressiva “spiritualizzazione delle cose umane e dell’uomo” in cui consiste la pretesa perfezione della civiltà (l’operetta Elogio degli uccelli opporrà a questa atrofia dei sensi umani la libertà vigorosa delle creature alate, la loro armonia, il movimento e la vista dall’alto).
Una stella: figura della presenza cosmografica che è tessitura assidua del pensare leopardiano, ed è sorgente di interrogazione costante sul rapporto tra finitudine e infinito, percezione della sospesa condizione umana in un universo che è nascita e morte, costruzione e distruzione incessante, orizzonte sconfinato nel quale il fiore e il deserto, il fiore del deserto, sono emblemi dell’esistenza, e la terra non è che un “granello” perso negli spazi infiniti. La stella è anche principio che sostiene ciò che è più familiare, una casa: è una lontananza assoluta, intransitabile, e tuttavia luminosa, che sostiene quel che ci si presenta come proprio, prossimo, domestico. E c’è un legame tra quel che è sovranamente altro e quel che invece appartiene alla terra, c’è un legame tra l’oltretempo proprio dell’elemento stellare e l’esperienza della propria condizione.
Questo legame, gli scorci - di teoresi e di immaginazione - su questo legame, fanno della poesia di Leopardi la lingua di un’interrogazione aperta, ogni volta, a scrutare l’esistenza, il suo ritmo, sullo sfondo metafisico di un altro ritmo, quello che fa pulsare il cosmo, la sua energia, il suo consumarsi e il suo divenire.
Le considerazioni cosmologiche del Cantico mattutino del gallo silvestre, la rappresentazione della fisica - origine e fine dell’universo - come prende forma nella prosa del Frammento apocrifo di Stratone, le domande sul senso e sul vuoto di senso che il pastore errante rivolge alla luna, ai suoi silenzi, al suo enigmatico sapere dell’universo, l’azzardo della poesia di voler dire l’infinito nella impossibilità di dirlo e, nel naufragio del pensiero, e della poesia stessa, il soccorso all’io dato da quel “m’è dolce” che è nel cuore dell’ultimo verso -prossimità corporea e sensibile nell’impossibile esperienza dell’assoluta lontananza -, tutto questo ha qualcosa che è come compendiato e messo in figura in questa frase isolata che interrompe i pensieri dello Zibaldone: “Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella”. Quasi iconica impresa da porre sul frontespizio del Liber di una vita, e di una incessante ricerca, che è lo Zibaldone. Ho detto interrompe i pensieri: non è proprio così, l’interruzione è già avvenuta con l’immagine che precede nella stessa pagina del 1 ottobre 1820 e che qui di seguito riporto come secondo momento di questo margine.
*
Il frammento narrativo può a questo punto essere letto anche come orizzonte fantastico nel quale appare la casa pensile. Con la nuova cosmografica data dai singolari e sconfinati occhiali si può vedere anche la casa pensile, tra le innumerevoli altre presenze che trascorrono nel cielo, che abitano il cielo. Ma può anche darsi che le due proposizioni fantastiche abbiano tra di loro solo il legame invisibile, indescrivibile, dell’immaginazione, un legame insondabile, subito nascosto, per lasciare scoperto solo l’altro fisico legame, quello dell’appartenenza alla stessa pagina dello smisurato manoscritto che è lo Zibaldone. Una prossimità che ha solo la scansione di uno spazio tra un frammento e l’altro. E tuttavia, se la casa pensile si accampa nell’aria come un’apparizione - infatti ha dell’apparire l’elemento dell’inatteso e dell’inspiegabile - il paio di occhiali appartiene a un tempo narrativo, suppone infatti un personaggio, il cui volto e la cui identità - umana, sovrumana, animale, celeste, terrestre? - non è rivelata, è lasciata per dir così alla discrezione e all’energia dell’immaginazione di colui che legge, ma anche dello stesso che scrive, il quale non vuole configurare il personaggio, tanto meno nominarlo. Ma il lettore è autorizzato a chiedersi: chi può essere colui che “si mise” lo stravagante paio di occhiali?
Certo, l’immensità dello strumento non può che far pensare a un personaggio immenso, o a un corpo celeste trasformato in figura gigantesca dalle fattezza umane - con occhi e mani, dunque - che compie il gesto di sollevare gli occhiali per porgerli a cavallo dell’incavo nasale o persino appoggia le stanghette sterminate (ma invisibili e innominate) nell’attaccatura delle orecchie. E quel passato remoto - “si mise” - a quale tempo si riferisce? Forse a un tempo senza tempo, un’era in cui la terra, non ancora abitata da animali e da uomini, ha già preso la sua forma e gravita nella sua orbita priva di presenze che non siano angeliche, ed è appunto una di queste presenze - emanazioni della divinità, declinazioni e manifestazioni dei suoi poteri - che fa dei due poli due cerchi tenuti insieme dalla metà di un meridiano (un meridiano celeste?) e guarda attraverso di essi l’opera della creazione, guarda i mondi che roteano seguendo le loro ellissi, oltre la via lattea, fino ad altre galassie in fuga nello spazio infinito. Per raccontare questo gesto non c’è che da ricorrere a un’immagine antropomorfica e a un gesto usuale per scorgere meglio i corpi celesti: guardare attraverso delle lenti speciali. Una sorta di cannocchiale che ha un’altra forma, una forma in cui le lenti - anche queste innominate e invisibili - hanno un potere ben superiore a quello delle lenti che Galileo mise nel suo formidabile strumento, raddoppiando e rovesciando le lenti usate dagli olandesi.
Oppure, semplicemente, questi occhiali sono solo una raffigurazione di quegli altri occhiali che ciascuno di noi possiede nel bagaglio delle sue facoltà, gli occhiali dell’immaginazione, quelli di cui Leopardi disporrà ogni volta che si volgerà a scorgere gli oggetti lontani - quella torre, quella campagna - con l’altra vista. Ecco, gli occhiali “fatti della metà del meridiano co’ due cerchi polari” sono lo strumento - l’interiore disposizione - che permette l’altra vista. E colui che se li mise, e continua a metterli, è proprio l’autore. O il lettore. E insomma quanti, dal limite corporeo e sensibile del loro terrestre stato, sentono la necessità di scrutare con un nuovo sguardo il mondo che è di là dall’orizzonte visibile, l’universo di stelle che nascono e deflagrano, di comete in fuga, di nebulose e galassie che corrono e si dilatano in uno spazio che non ha confini, in un tempo che non ha tempo. Perché scorgere il nesso tra il visibile e l’invisibile, tra il qui e l’altrove, tra il limite e lo sconfinato può essere la sfida estrema dei sensi, e della poesia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
KANT, NEWTON, E POPE. Note (di avvio) per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
Leopardi e il desiderio infinito
Ecco perché dobbiamo leggere Leopardi
di Gianni Celati (DoppioZero, 14 Marzo 2015)*
La prima cosa che vorrei cercare di fare è suggerire di ascoltare i frammenti dello Zibaldone di Leopardi sullo sfondo di tutte queste frasi fatte che ci inducono giorno per giorno a essere sempre più ottimisti verso l’avvenire, verso il progresso, quello che possono fare i politici per noi, ottimisti sulla scuola - tutto quell’ottimismo che quel tale lì per mezz’ora stilò come programma del suo partito. Questo è uno sfondo inevitabile.
Non credo che si possa leggere Leopardi al giorno d’oggi senza pensare a questo sfondo, cioè lo sfondo di parole che ci vengono addosso e che sono parole pubblicitarie. La pubblicità ormai non ha più limite, la pubblicità - come posso dire - ha sostituito l’animo umano. La gente al giorno d’oggi crede che la letteratura, parlare o fare letteratura sia fare pubblicità a qualcosa.
La letteratura è muta, non fa pubblicità a niente, non serve a niente, la letteratura ci riafferma questo niente che siamo. E solo perché siamo un niente noi abbiamo bisogno di stare assieme. Non c’è idea di comunità possibile se non a partire dal fatto che siamo un niente, ciascuno di noi è un niente. Ecco, tutto questo lo sfondo pubblicitario non solo lo cancella, deve cancellarlo subito - come un tabù assoluto -, ma estende anche un clima di terrore, un terrore totalitario: chi non è d’accordo con questo consenso degli uomini che vogliono essere qualcosa, qualcuno, sostanzialmente essere ricchi, avere del potere nelle mani, questa democratizzazione del potere tirannico nelle mani degli uomini - chi non è d’accordo con questo è eliminato, al giorno d’oggi non trova lavoro, non ha un luogo dove stare. Questo è lo sfondo concreto, che voi potete vedere tutti i giorni, il fatto che si debba diventare imprenditori di noi stessi per far pubblicità a noi stessi, tutti i momenti, altrimenti non c’è spazio per noi.
Tutto Leopardi va letto non contro, ma su questo sfondo, per dire questo: Leopardi è ancora un nostro compagno di strada perché è un alieno rispetto a questo tipo di sfondo in cui siamo immersi, rispetto a questa assegnazione totale dei luoghi. Tutto è assegnato oggi. Leopardi, invece, è il poeta che dice delle parole che non sono assegnate a nessun luogo, neanche a scuola - non si può insegnare Leopardi a scuola. Questa è la prima cosa da dire. (Non so se sia possibile, ma io non credo alla letteratura come tale, che ha un senso come lo hanno gli orologi. Se un orologio non mi dicesse che ore sono, le sue lancette sarebbero solo decorative. E lo stesso la letteratura. La letteratura vale perché c’è qualcos’altro, questo sfondo contro cui ci si trova).
Dice Leopardi:
Questo è il punto di partenza più rivoluzionario - se vogliamo usare questa parola - della filosofia leopardiana. Una cosa senza precedenti: il riconoscere questo fatto, ma non in maniera critica, non per condannare le illusioni. Tutti questi richiami alla «concretezza» da parte dei politici fanno veramente ridere.
Seconda cosa: la nostra nullità, il fatto che come individui siamo niente, siamo qui di passaggio, siamo qui che teniamo il posto del nulla:
Quello a cui Leopardi ci mette davanti continuamente è che tutta l’energia spirituale - o chiamatela come volete - dipende da un’istanza del desiderio, del desiderio di felicità, che non è la felicità dei consumi, la felicità dell’avere, il desiderio di felicità è lo stato di mancanza, della nostra mancanza, è questo che ci rende attivi, vigorosi, lanciati ancora verso la vita.
Quello che Leopardi ha capito è che questo mondo cancella continuamente il privilegio di essere in uno stato di mancanza: il desiderio carnale - chiamiamolo così - è un desiderio che deriva da uno stato di mancanza, ma questa è una mancanza che non si colmerà mai, ed è proprio per questo che è un desiderio infinito: il desiderio carnale come mancanza è in sostanza il senso che ci manca la vita, che la vita scappa via da tutte le parti, che la vita non è bloccabile.
Contro una società che cerca sempre di insegnarci che a questa mancanza si può dare un compenso in modo che l’uomo si riduca ad essere soddisfatto di se stesso, Leopardi ci riporta in un tipo di pensiero dove non c’è più nessuna valutazione positiva per l’uomo cosiddetto soddisfatto, ma dove il grande attizzatoio di tutto quello che possiamo fare è la nostra mancanza, voglio dire la nostra povertà, il nostro dolore. In questo senso, Leopardi è un pensatore che in questo momento è essenziale per andare avanti di giorno in giorno.
*
PLATONE, ARISTOFANE, E NOI, OGGI. LE "REGOLE DEL GIOCO DELL’OCCIDENTE" E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE: "L’indicazione
del
Commediografo
è
più
che
chiara
e
non
è
affatto
(non
fraintenderlo,
"non
volgerlo
al
comico",
egli
ripete
a
chi
ascolta
il
suo
discorso -
noi
abbiamo
sempre
sottovalutato
le
sue
Nuvole,
ma
egli
aveva
visto
molto
bene
che
cosa
Socrate
stava
preparando)
una
boutade.
Platone
non
comprende
nulla,
stravolge
e
continua,
con
il
suo
Eros
(avido,
cieco
e
saettante)
e
con
la
sua
filosofia,
sulla
strada
del padre.
Titanicamente come
Zeus,
spaccato
tutto
in
due,
tenterà
di
rimettere
insieme
i
cocci,
con
la
forza -
una
storia
di
steminata
e
"incurabile"
follia.
Aristofane
parla
della
noslra
mente,
della
nostra
anima
e
della
nostra
vita
e
Plalone
taglia
e
ricuce -
a
specchio,
"divinamente"... tutto all’incontrario! - fls! (F. La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp, 187-188)
Sentimenti
Il re degli dei divise i corpi degli androgini. Leopardi ci spiega che cosa vuol dire
Da Zeus la formula del desiderio: l’altra metà non ci apparterrà mai
di Ilaria Gaspari (Corriere della Sera, La Lettura, 28.08.2016)
Prendete un foglio di carta e una matita, e provate a disegnare un essere fatto così: un blocco di un pezzo unico, con dorso e fianchi disposti in tondo; quattro mani e quattro braccia, quattro gambe e quattro piedi. Un collo tondeggiante su cui stanno due facce identiche, ma una testa sola. Quattro orecchie, e genitali doppi.
Molto probabilmente concluderete di essere pessimi disegnatori. Eppure è così, secondo quel che Aristofane racconta nel Simposio di Platone, che apparivano gli androgini, le creature più compiute mai concepite. Questi esseri primordiali partecipavano di nome e di fatto della natura del maschio e di quella della femmina; e quando camminavano di fretta, come acrobati saltellavano su tutte le estremità a disposizione, per un totale di otto fra gambe e braccia. L’immaginazione è costretta ad arrancare, quando tentiamo di dare una forma plausibile alla buffa sagoma sferica dell’androgino.
Ma nella goffaggine di questi scarabocchi potrebbe essere nascosta una chiave per capire come funziona il desiderio. Zeus gli androgini li tagliò in due per punire la loro arroganza, come si tagliano le albicocche per fare le marmellate: voleva indebolirli. È in quella mutilazione che nasce il desiderio - nello struggimento di voler essere una cosa sola con chi si ama, e nel sapere che si tratta di una fantasia irrealizzabile. Proprio l’amputazione imposta agli androgini ci permette di immaginarli e capirli: sappiamo figurarci facilmente la camminata di esseri incompleti che cercano la propria metà su due gambe, mentre non sappiamo fare altrettanto con le strane parabole circolari descritte da quelle coppie di individui fusi insieme, che saltellavano su quattro.
Aveva per l’appunto solo due gambe, e due piedi - di cui uno sollevato quasi verticalmente a sfiorare il terreno nella grazia inconsapevole di un passo disegnato nella pietra - la Gradiva di cui si innamora Norbert Hanold, archeologo, in una celebre novella di Wilhelm Jensen scritta nei primi anni del Novecento, che appassionò Freud. Da una lontananza di secoli, l’incedere della ragazza, colto nel dettaglio di quel piede alzato, scatena in Hanold un desiderio prossimo all’ossessione. E non importa che la Gradiva fosse una figura scolpita in un bassorilievo pompeiano; la storia di questo amore impossibile, di questa fantasia dolorosa, ha molto da dire sugli amori fra esseri in carne e ossa.
Marcel Proust, grande mistagogo dei tormenti del desiderio, ha scritto che le attrattive di una qualsiasi passante sono in genere in rapporto diretto con la rapidità del passaggio, con l’intuizione di una vita che non ci appartiene, di cui cogliamo al massimo un bagliore. Perché nasca il desiderio basta un dettaglio insignificante, spesso spiato, se ci colpisce nell’istante che retrospettivamente sarà chiamato il momento giusto: in genere, quando non ci si sente preparati, quando non si sta attenti, quando non si aveva niente da fare.
Non aveva molto da fare, probabilmente, nella Parigi del Secondo Impero, un certo dandy di nome Swann il pomeriggio in cui - racconta Proust nel primo libro della Recherche - un po’ per curiosità e un po’ anche per noia, va a trovare una piccola cocotte con un nome da gran dama che suona falso come un gioiello d’ottone, Odette de Crécy; la vede piegarsi in un gesto noncurante e imbronciato. E mentre lei si china per guardare da vicino un’incisione, lui - che l’aveva già incontrata, e covava un sottile fastidio per le imperfezioni della sua pelle e la sua aria malaticcia - si sorprende a rivedere in lei una somiglianza con la ninfa Sefora in un affresco di Botticelli.
L’istante del colpo di fulmine rimane fissato come una cesura nella memoria di chi lo vive ed è destinato a essere costruito e ricostruito nel ricordo, con tutte le falsificazioni del caso.
Giacomo Leopardi nello Zibaldone lo associa allo spavento che nasce, nel primo concepimento del desiderio, dalla prefigurazione della sua insaziabilità: «E lo spavento viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare impossibile di possederlo com’ei vorrebbe; (...) perché neppure il possedimento carnale (...) gli parrebbe poter soddisfare e riempere il desiderio ch’egli concepisce di quel tale oggetto; col quale ei vorrebbe diventare una cosa stessa (...); ora ei non vede che questo possa mai essere». E non sarà per caso se nello stesso brano Leopardi riconosce quanto sia profonda la descrizione «scherzevole» che Aristofane fa degli androgini.
È un destino inevitabile, quello prefigurato nello Zibaldone: perché un desiderio completamente appagato non è già più un desiderio. Chi ha visto molte stelle cadenti e per ognuna ha espresso un desiderio sa bene che, quando questo si realizzerà, sarà già cambiato qualcosa in lui, o in lei, rispetto alla notte d’estate in cui ha visto la scia luminosa nel cielo.
Però, molto probabilmente, a ogni nuovo San Lorenzo se lo dimenticherà, e continuerà a esprimere desideri, e a concepirne molti di più di quelli che poi esprime. Il desiderio non conosce il principio dei vasi comunicanti o altri equilibri meccanici di riempimento e svuotamento; il solo fatto di desiderare cambia la persona che desidera e questo può generare grandi delusioni. Lo scrittore americano Truman Capote scelse di intitolare il suo libro di memorie Answered Prayers, da una frase di Teresa d’Avila: «Niente è più tremendo di una preghiera esaudita». Il libro è rimasto incompiuto.
È sempre con il senno di poi che riviviamo l’istante in cui il desiderio si è acceso, portando a conseguenze allora imprevedibili: per questo abbiamo la tentazione - e l’abitudine - di applicare a quello stesso istante un fatalismo che non gli appartiene, di rileggerlo in maniera quasi superstiziosa. Non c’è niente di fatale, invece: un colpo di fulmine non obbedisce a nessuna predestinazione.
È vero, spesso ci si innamora senza farci caso, in un attimo di disattenzione; questo non significa, però, che in quei momenti si sia meno presenti a se stessi. Lo si è, anzi, di più: Swann era più che mai se stesso quando, facendo visita a Odette con la mezza scusa di mostrarle un’incisione che sapeva non interessarla troppo, ritrovava in sé l’occhio del collezionista innamorato di arte rinascimentale. Quando non ci si sovraccarica di aspettative e non si rincorre niente - neppure l’immagine di sé che si vuole mostrare agli altri - è allora che si è più vicini alla propria essenza.
L’attimo in cui intravvediamo distrattamente una vita che non potrà mai appartenerci del tutto - perché non sarebbe più la vita di un altro ma una proiezione della nostra o, nel migliore (peggiore?) dei casi, un suo prolungamento - non è per forza un segno di vulnerabilità, anche se possiamo raccontarcelo così.
È il momento in cui smettiamo di fissare la ferita inferta dal coltello di Zeus e ci accorgiamo della presenza reale di un altro: e proprio lo slancio verso quell’altro ci fa muovere, sulle due gambe che ci restano.
Ecco perché dobbiamo leggere Leopardi
di Gianni Celati
La prima cosa che vorrei cercare di fare è suggerire di ascoltare i frammenti dello Zibaldone di Leopardi sullo sfondo di tutte queste frasi fatte che ci inducono giorno per giorno a essere sempre più ottimisti verso l’avvenire, verso il progresso, quello che possono fare i politici per noi, ottimisti sulla scuola - tutto quell’ottimismo che quel tale lì per mezz’ora stilò come programma del suo partito. Questo è uno sfondo inevitabile. Non credo che si possa leggere Leopardi al giorno d’oggi senza pensare a questo sfondo, cioè lo sfondo di parole che ci vengono addosso e che sono parole pubblicitarie.
La pubblicità ormai non ha più limite, la pubblicità - come posso dire - ha sostituito l’animo umano. La gente al giorno d’oggi crede che la letteratura, parlare o fare letteratura sia fare pubblicità a qualcosa.
La letteratura è muta, non fa pubblicità a niente, non serve a niente, la letteratura ci riafferma questo niente che siamo. E solo perché siamo un niente noi abbiamo bisogno di stare assieme. Non c’è idea di comunità possibile se non a partire dal fatto che siamo un niente, ciascuno di noi è un niente. Ecco, tutto questo lo sfondo pubblicitario non solo lo cancella, deve cancellarlo subito - come un tabù assoluto -, ma estende anche un clima di terrore, un terrore totalitario: chi non è d’accordo con questo consenso degli uomini che vogliono essere qualcosa, qualcuno, sostanzialmente essere ricchi, avere del potere nelle mani, questa democratizzazione del potere tirannico nelle mani degli uomini - chi non è d’accordo con questo è eliminato, al giorno d’oggi non trova lavoro, non ha un luogo dove stare. Questo è lo sfondo concreto, che voi potete vedere tutti i giorni, il fatto che si debba diventare imprenditori di noi stessi per far pubblicità a noi stessi, tutti i momenti, altrimenti non c’è spazio per noi.
Tutto Leopardi va letto non contro, ma su questo sfondo, per dire questo: Leopardi è ancora un nostro compagno di strada perché è un alieno rispetto a questo tipo di sfondo in cui siamo immersi, rispetto a questa assegnazione totale dei luoghi. Tutto è assegnato oggi. Leopardi, invece, è il poeta che dice delle parole che non sono assegnate a nessun luogo, neanche a scuola - non si può insegnare Leopardi a scuola. Questa è la prima cosa da dire. (Non so se sia possibile, ma io non credo alla letteratura come tale, che ha un senso come lo hanno gli orologi. Se un orologio non mi dicesse che ore sono, le sue lancette sarebbero solo decorative. E lo stesso la letteratura. La letteratura vale perché c’è qualcos’altro, questo sfondo contro cui ci si trova).
Dice Leopardi:
Questo è il punto di partenza più rivoluzionario - se vogliamo usare questa parola - della filosofia leopardiana. Una cosa senza precedenti: il riconoscere questo fatto, ma non in maniera critica, non per condannare le illusioni. Tutti questi richiami alla «concretezza» da parte dei politici fanno veramente ridere.
Seconda cosa: la nostra nullità, il fatto che come individui siamo niente, siamo qui di passaggio, siamo qui che teniamo il posto del nulla:
Quello a cui Leopardi ci mette davanti continuamente è che tutta l’energia spirituale - o chiamatela come volete - dipende da un’istanza del desiderio, del desiderio di felicità, che non è la felicità dei consumi, la felicità dell’avere, il desiderio di felicità è lo stato di mancanza, della nostra mancanza, è questo che ci rende attivi, vigorosi, lanciati ancora verso la vita.
Quello che Leopardi ha capito è che questo mondo cancella continuamente il privilegio di essere in uno stato di mancanza: il desiderio carnale - chiamiamolo così - è un desiderio che deriva da uno stato di mancanza, ma questa è una mancanza che non si colmerà mai, ed è proprio per questo che è un desiderio infinito: il desiderio carnale come mancanza è in sostanza il senso che ci manca la vita, che la vita scappa via da tutte le parti, che la vita non è bloccabile.
Contro una società che cerca sempre di insegnarci che a questa mancanza si può dare un compenso in modo che l’uomo si riduca ad essere soddisfatto di se stesso, Leopardi ci riporta in un tipo di pensiero dove non c’è più nessuna valutazione positiva per l’uomo cosiddetto soddisfatto, ma dove il grande attizzatoio di tutto quello che possiamo fare è la nostra mancanza, voglio dire la nostra povertà, il nostro dolore. In questo senso, Leopardi è un pensatore che in questo momento è essenziale per andare avanti di giorno in giorno.
* DOPPIO ZERO: Questo articolo è uscito su l’Unità, 28 marzo 2004
Università in festa: la Federico II compie 792 anni
di Mariagiovanna Capone *
Settecentonovantadue anni e non sentirli affatto. L’Università Federico II festeggia il suo genetliaco con modernità strizzando l’occhio al passato e puntando lo sguardo con ottimismo verso il futuro. Il 5 giugno 1224 fu fondato dall’Imperatore Federico II il più grande Ateneo del meridione e da allora i successi sono stati straordinari. Per il secondo anno, il rettore Gaetano Manfredi e il prorettore Arturo De Vivo hanno messo a punto un cartellone di eventi per dare il «Buon Compleanno Federico II» e aprendo gli spazi solitamente dedicati allo studio e alla ricerca, alla cittadinanza. Saranno aperti e accessibili gratuitamente (dalle 9 alle 13.30) l’Orto Botanico e il centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche (4 giugno), il real Museo Mineralogico (6 giugno), il Museo di Antropologia (7 giugno), il Museo Zoologico (8 giugno) e il Museo di Paleontologia (10 giugno).
I festeggiamenti principali per il 792esimo compleanno dell’Ateneo sono slittati al 10 giugno per via delle elezioni amministrative e si concentreranno tra l’Aula Pessina (ore 15) dove saranno premiati gli studenti meritevoli dell’anno accademico in corso, «un modo per regalargli la giusta gratificazione per l’impegno profuso, che sia anche di buon auspicio per il loro futuro professionale», spiega Manfredi. Con rettore e prorettore anche i presidenti dei vari istituti federiciani da cui provengono i vincitori: Luigi Califano della Scuola di Medicina e Chirurgia, Lucio De Giovanni della Scuola delle Scienze Umane e Sociali, Piero Salatino della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base, Matteo Lorito della Scuola di Agraria e Medicina Veterinaria.
Alle 16.30 ci si sposterà nell’Aula Magna Storica per premiare stavolta i laureati illustri, coloro che hanno contribuito con le loro capacità e talenti a migliorare il Paese. Il geniale e poliedrico Renzo Arbore laureato alla Federico II in Giurisprudenza, il talentuoso drammaturgo Enzo Moscato laureato in Filosofia, e poi la storica dell’arte Paola D’Agostino da circa un anno direttrice del Museo nazionale del Bargello di Firenze, Riccardo Monti attuale presidente dell’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane laureato in Economia e Commercio, il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli che sta provando a salvare la biblioteca dei Girolamini, e il Paolo Sassone Corsi che attualmente dirige il Centro per l’Epigenetica e il Metabolismo della University of California da dove sta contribuendo a studi sulla lotta al cancro.
Dopo la premiazione dei laureati illustri ci si sposterà sullo scalone della Minerva per un intervento musicale del Coro Polifonico Universitario Federico II e in piazza del Gesù per la festa vera e propria con cui l’Ateneo risentirà il calore e l’affetto della cittadinanza dopo il successo dello scorso anno. Ad aprire la serata sarà Mariano Rigillo cui è affidata la lettura di un monologo inedito di Maurizio De Giovanni sul fondatore dell’Università. In occasione dei 40 anni della Gatta Cenerentola, Peppe Barra si esibirà in concerto insieme alla sua band, anticipato dalla lettura di un messaggio del maestro Roberto De Simone. In chiusura di serata Francesco Di Bella in concerto.
Ricche proposte culturali e artistiche, a cominciare dal Fru16, decima edizione del Festival delle Radio Universitarie Italiane ospitato nel Complesso dei Santi Marcellino e Festo che farà da preludio dal 3 al 5 giugno alla giornata clou. Il Festival porterà a Napoli rappresentanti delle comunità studentesche di quasi tutti gli Atenei italiani che hanno una radio e sono previsti oltre 200 partecipanti di almeno 26 radio.
* Il Mattino, Mercoledì 1 Giugno 2016
La Federico II compie 792 anni: la storia della prima Università pubblica al mondo
di Luca Tesone *
Fondata il 5 giugno del 1224, l’Università Federico II si appresta a compiere ben 792 anni! Una vera e propria festa è stata organizzata dal rettore Gaetano Manfredi, e dal prorettore Arturo De Vivo. Per tutti i cittadini sarà possibile infatti visitare gratuitamente (dalle 9 alle 13.30) l’Orto Botanico e il centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche (4 giugno), il real Museo Mineralogico (6 giugno), il Museo di Antropologia (7 giugno), il Museo Zoologico (8 giugno) e il Museo di Paleontologia (10 giugno). Festeggiamenti che poi proseguiranno il 10 giugno, a causa delle imminenti elezioni comunali.
La storia di questa importantissima università ha inizio con quella del suo fondatore, Federico II appunto. L’imperatore che, nelle sue mani, deteneva i poteri del Regno di Sicilia e dell’Impero germanico. Una personalità spiccatamente mecenatesca come la sua non poteva che fondare la prima università laica e statale degli studi del mondo Occidentale. La scelta cadde su Napoli e non su Palermo (che era la capitale del regno) perché era più facile da raggiungere, sia via terra che via mare. Inoltre, essendo una delle città più ricche e grandi del regno, poteva più facilmente offrire alloggi agli studenti.
In oltre 700 anni di storia, la Federico II ha avuto molti alti e bassi. In particolare, nel Seicento si registra il periodo di maggior decadenza dell’istituto. Solo a partite dal secolo successivo, con l’intervento delle dinastie degli Asburgo prima, e dei Borbone poi, l’ateneo riuscì a riprendersi: creazione nel 1735 della prima cattedra in Astronomia in Italia e nel 1754 della prima cattedra di Economia. Senza dimenticare la presenza di personalità che hanno fatto la storia, e che hanno insegnato proprio alla Federico II, come il filosofo Giambattista Vico.
In seguito al ventennio fascista, la Federico II divenne il secondo ateneo più importante d’Italia per numero di iscritti, dopo la Sapienza di Roma. In questi anni, vissuti anch’essi tra alti e bassi, non sono mancati importanti riconoscimenti. La facoltà di Ingegneria, ad esempio, è stata riconosciuta come la migliore d’Italia. Importanti traguardi raggiunti anche nell’ambito della ricerca scientifica, come la cura per la schizofrenia. Più recente, invece, la costruzione della prima trave al mondo attraverso l’uso della stampante 3D. Un traguardo raggiunto anche grazie al lavoro dei ricercatori del Dipartimento di Strutture per l’Ingegneria e l’Architettura della Federico II.
Insomma, una storia densissima di traguardi e primati, che rendono la Federico II la più importante università d’Italia ed una delle più importanti al mondo. Non resta quindi che augurarle, anche noi, buon compleanno!
* Vesuvio-on-line, 01 giugno 2016 (ripresa parziale).
Georg Büchner e Giacomo Leopardi: Morte di Danton è del 1835, La ginestra fu scritta un anno dopo. Appartengono entrambe al loro tempo ma ci parlano anche di oggi:
Nel suo allestimento del dramma di Büchner, Martone mette in scena il fallimento della Rivoluzione e della grande scommessa di creare l’uomo nuovo: un testo del 1835, ma parla anche del Secolo breve
di Giovanni De Luna (La Stampa, 05.02.2016)
È un processo quello che va in scena con Morte di Danton di Georg Büchner. Sotto accusa c’è la Politica e con la Politica la Rivoluzione, il suo atto fondativo. Sul palcoscenico si impongono Robespierre da un lato, Danton dall’altro. Il primo rivendica tutta la grandezza della Politica e della Rivoluzione; nella loro azione implacabile è la Virtù che agisce, chi vi si oppone è solo un misero schiavo del Vizio, «il Vizio è il segno di Caino dei regimi aristocratici». La Virtù deve dominare anche attraverso il Terrore, perché «la Rivoluzione è come le figlie di Pelia: fa a pezzi l’umanità per ringiovanirla».
Il bene contro il male: quelli che tradiscono la Rivoluzione lo fanno perché cadono nel Vizio, è «gente che in genere viveva nelle soffitte e adesso viaggia in carrozze e fa sconcezze con ex marchese e baronesse». Nel disegno grandioso dell’Incorruttibile, l‘uomo può sottrarsi alla schiavitù delle passioni, alla sua fragilità naturale, per costruire la propria grandezza, e riplasmare la sua essenza, in una visione in cui una rigida pedagogia autoritaria si intreccia con un disperato slancio di speranza.
Contro Robespierre si erge Danton che sprezzantemente lo chiama «poliziotto del cielo». «Non siamo noi che abbiamo fatto la rivoluzione, è la rivoluzione che ci ha fatti», gli dice. La rivoluzione non appartiene agli uomini che l’hanno avviata. È come una cieca forza della natura che li ha ghermiti e scrollati per poi lasciarli andare attoniti, sgomenti. Così come si è scatenata, è destinata a placarsi. E tutto sarà come prima: «Domani sarà come oggi, e dopodomani e via di seguito tutto come al solito». No, nessun delirio di grandezza è permesso agli uomini: «Siamo marionette, i cui fili sono tirati da forze sconosciute; quanto a noi, niente, non siamo niente! Solo spade con le quali combattono gli spiriti...».
Cambiare gli uomini, cambiare la Natura, o accettarli così come sono. Tra queste due opzioni, Il Novecento ha scelto la prima. E, con Mario Martone che propone il testo di Büchner, è proprio il Novecento a finire sul banco degli imputati assieme a Robespierre. Proprio il «secolo dei totalitarismi» con la sua ambizione prometeica, con la sua grande scommessa di creare «l’uomo nuovo», di violentare a modificare le coordinate naturali o divine in cui da sempre sembrava essere stato inscritto il destino dell’umanità. La Politica, il Lavoro, lo Stato, il Partito, tutte queste maiuscole hanno definito l’universo granitico del Novecento. E non soltanto nel campo dell’agire politico e dell’ideologia. Il «secolo del fordismo» è stato anche quello della generalizzazione alla totalità delle relazioni umane dei metodi e dei valori della produzione industriale, diventati il centro motore della vita sociale.
Tutto questo si è sbriciolato sotto le macerie del muro di Berlino. Mario Martone sembra avere intessuto il suo rapporto con la storia all’insegna di questa consapevolezza. È stato il fallimento delle «magnifiche sorti e progressive» ad avvicinarlo a Leopardi. È stato il naufragio dell’«artificialismo politico» a fargli riscoprire ora l’Ottocento di Büchner. Morte di Danton è del 1835, La ginestra fu scritta un anno dopo. Appartengono entrambe al loro tempo ma ci parlano anche di oggi.
Allora il lucido pessimismo di Leopardi sceglieva come bersagli le utopie rassicuranti del suo secolo, la meschinità di un progresso adorato, invocato, accettato acriticamente con tutto il suo carico di illusioni e menzogne. E Martone ce lo ha riproposto con un film bello e coraggioso come Il giovane favoloso e con la messa in scena, ancora più coraggiosa, delle Operette morali. Ma era stato già così con l’altro suo film risorgimentale, Noi credevamo: per elaborare il lutto di antiche sconfitte non serve rimpiangere il passato, il nostro passato, quello del Novecento. Meglio scavare alla ricerca di quali avrebbero potuto essere le possibili alternative a quel passato e custodire gelosamente l’invito leopardiano a distinguere, oggi, quella che è la realtà da quella che è la rappresentazione della realtà.
Leopardi era un «gufo». Era cioè un rapace dall’occhio lungo, in grado di squarciare la fuliggine delle nostre chimere. Del resto anche Isaiah Berlin, un liberal-democratico interamente calato nel Novecento, venerava la lucidità dei pensatori antimoderni e «against the current» *
Mario Andrea Rigoni
Il Leopardi antiprogressivo
di Raffaele Liucci (Il Sole-24 Ore, Domenica, 31.01.16)
Per noi leopardisti amatoriali, il libro di Mario Andrea Rigoni è una doccia ghiacciata. Reputavamo il poeta di Recanati quasi un Odifreddi ante litteram, capace di sbarazzarsi delle superstizioni paterne (quel gran reazionario di Monaldo) per abbracciare un sano materialismo, progressista e politicamente corretto. Invece Rigoni demolisce queste reminiscenze più o meno scolastiche, svelandoci un Leopardi «negativo» e antimoderno, e a tratti persino tenebroso nelle sue consonanze con il «divin marchese» de Sade.
Di primo acchito, potremmo pensare che il professore padovano si sia lasciato irretire dal suo carissimo amico E.M. Cioran, non certo un apostolo del Sole dell’Avvenire. Ma questo volume, che raccoglie in un’edizione definitiva gli studi di una vita, è talmente ricco di riscontri e suggestioni da suffragare quanto lo stesso Cioran puntualizzava in una lettera a Rigoni, lamentando lo snaturamento di Leopardi perpetrato dai critici italiani: «È a malapena concepibile che se ne sia potuto fare un “progressista”. È un’onta e una provocazione». Tanto più che, aggiunge Rigoni, nell’intero corpus del recanatese «non vi è una sola citazione da un pensatore illuminista che non abbia un significato negativo».
Leopardi rimarrà infatti un ateo impolitico, refrattario alle sirene della Ragione e della Storia, nostalgico di un’età dell’oro esistita solo nella sua mente. Forse anche per questo Mazzini lo snobbò, confinando i Canti tra gli «sforzi di un periodo di transizione che il futuro cancellerà». Mazzini - chioserà Aleksandr Herzen - non sopportava Leopardi «perché non poteva utilizzarlo per la propaganda». Anche lo storico delle idee Antonello Gerbi, nel suo classico libro sulla Disputa del Nuovo Mondo (uscito per la prima volta nel 1955 e tuttora nel catalogo Adelphi), ricorderà i «tanti scritti leopardiani, tutti concordi nel sostener la degenerazione della specie umana e nell’irrider al Progresso». Per non parlare, riguardo ai «selvaggi» amerindi, della sintonia tra il poeta e il conte Joseph de Maistre. Il lungimirante Gerbi scherniva l’interpretazione di Cesare Luporini, autore di un saggio, Leopardi progressivo, che tanta influenza ha esercitato sulla cultura nostrana.
Cosa resta, allora, del Leopardi ’ideologo’ messo a nudo da Rigoni? Resta la «potenza dello sguardo filosofico». Perché dal «caos scritto» delle sue opere emerge la figura di un sommo pensatore. Un pensatore che, lottando contro le evidenze del proprio secolo, ne coglie impietosamente contraddizioni e tare storiche. Per questo le sue incursioni sono ancor oggi «indispensabili più di ogni Censis per capire l’Italia e gli italiani».
Leopardi era un «gufo», diremmo oggi, ma nel senso opposto a quello inteso da Renzi. Era cioè un rapace dall’occhio lungo, in grado di squarciare la fuliggine delle nostre chimere. Del resto anche Isaiah Berlin, un liberal-democratico interamente calato nel Novecento, venerava la lucidità dei pensatori antimoderni e «against the current».
*
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ---- IL NOSTRO SECOLO SENZA LUMI (rec. del libro di I. Berlin, "controcorrente" - di Eugenio Scalfari).
Antonio Giuliano
Ricordi di un archeologo
“Per tutta la vita ho studiato il passato mi sento un esodato dalla tecnologia”
colloquio con Antonio Gnoli (la Repubblica, 24.01.2016 - ripresa parziale))
[...] Le competenze, intendo le sue, sono state ampie. Le ha vissute con più noia o curiosità?
«Forse entrambe. È vero mi sono occupato di tante cose: del collezionismo federiciano e della Restaurazione in Francia e in Italia nella fase post-napoleonica. Ho studiato attentamente due figure in particolare: Stendhal e Leopardi. Di Leopardi, pochi lo sanno, si occupò il cancelliere Metternich».
È strano questo interessamento.
«Curioso. Metternich era un lettore di Heine. In privato faceva il sovversivo; in pubblico domava le rivoluzioni. Si rivolse al ministro di polizia chiedendogli informazioni su Leopardi, il quale era in mezzo a contrasti ecclesiastici e considerato un pericoloso giacobino. L’informativa giunse tre anni dopo. Nel frattempo Leopardi era morto. Metternich poté leggere in quella nota la prima biografia compiuta del nostro grande poeta. In fondo non tutti i mali vengono per nuocere».
La Chiesa lo aveva messo all’indice?
«Vietò la lettura delle Operette morali. Fu Monsignor Tizzani - lo stesso a cui il Belli affidò i suoi Sonetti perché li bruciasse e per fortuna non lo fece - il più oltranzista e reazionario. Ricordo che quando chiesi di consultare i documenti in Vaticano, Ratzinger si oppose. Fu grazie al Cardinal Martini che potei aggirare il divieto».
Cosa è stata la Restaurazione in Italia?
«Qualcosa che si è incistata a livello quotidiano. La Restaurazione non fu imposta dall’esterno, è nel bagaglio degli italiani: soprattutto per eredità della Chiesa. Siamo un paese piccolo borghese a vocazione cattolica che ogni tanto ha qualche alzata di capo. Insomma vecchio. Di più: senile». [...]
*
Giuliano si iscrive alla facoltà di Lettere a Roma negli anni Quaranta. Tra i suoi docenti ci sono Mario Praz ( foto sotto) e Ranuccio Bianchi Bandinelli di cui, da allievo, diventa stretto collaboratore.
Perfeziona la formazione in Germania e Grecia
Dal 1967 insegna all’Università, prima a Genova e poi a Roma.
È stato redattore dell’Enciclopedia dell’Arte Antica e ha diretto l’Enciclopedia Archeologica.
Dal 2001 è membro dell’Accademia dei Lincei
Ha studiato la cultura del mondo antico fino al periodo normanno e federiciano. Tra gli oggetti dei suoi studi, anche l’opera e la figura di Giacomo Leopardi, Stendhal e il periodo storico della Restaurazione in Italia
Tra i saggi pubblicati,
Arte greca ( 1986-87); Storia dell’arte greca (1989, 1998); Studi normanni e federiciani (con altri, 2003); Giacomo Leopardi e la Restaurazione: nuovi documenti (1998)
Leopardi: natura non solo matrigna
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.01.2016)
Se la vulgata sulla concezione della natura in Giacomo Leopardi si riducesse al suo essere “matrigna“ (come ahinoi avviene in quasi tutte le scuole) avremmo un’immagine assai misera del pensiero del poeta. Il quale a tutti gli effetti, invece, ci appare grandissimo anche come filosofo proprio se consideriamo la profondità e la continuità con cui si è occupato delle varie scienze, dalle prime opere giovanili (la Storia dell’astronomia, scritta a soli 13 anni) fino alla fine dei suoi giorni.
Gaspare Polizzi ha scritto un bellissimo libro intitolato Io sono quella che tu fuggi (Edizioni di Storia e Letteratura, pagg. 136, € 17) in cui mostra «la ricchezza della concezione leopardiana della natura e la presenza in essa di una trama di conoscenze scientifiche, significativa rispetto al sapere del tempo e talmente efficace da indirizzare non solo tante riflessioni sulla natura disseminate nello Zibaldone, ma anche la filosofia della natura che emerge dalle Operette morali, opera “filosofica, benché scritta con leggerezza apparente” (Lettera ad Antonio Fortunato Stella, Recanati 6 dicembre 1826), e che traspare, se pure nello stile “vago” e indefinito scelto dall’autore, nei Canti e negli altri componimenti poetici».
Polizzi considera giustamente Leopardi un ”filosofo naturale” nell’accezione che rinvia al philosophe illuminista e mette in evidenza le competenze scientifiche che contribuiscono all’originalità della sua filosofia: astronomia, cosmologia, matematica, chimica, biologia, storia naturale, fisica, tecnologia, storia della scienza, antropologia. La natura matrigna, rappresentata da una «forma smisurata di donna» (la si vede personificata anche nel film di Martone) è quella che, secondo la vulgata, ha fatto tanto soffrire il poeta. Sottolineando questo aspetto, non si capisce però quanta gioia ha dato a Leopardi lo studio delle scienze, veicolo di un atteggiamento scevro da ogni forma di autoinganno che pervade tutta la sua riflessione.
Polizzi cita nella prefazione un articolo del fisico Carlo Rovelli uscito su Domenica il 17 dicembre 2014 intitolato «Non possiamo non dirci naturalisti» dove il naturalismo è definito come «l’atteggiamento filosofico di chi ritiene che tutti i fatti che esistono possano essere indagati dalle scienze naturali, e noi stessi siamo parte della natura. Non è naturalista chi assume realtà trascendenti che possiamo conoscere solo attraverso forme non indagabili dal pensiero scientifico». Una definizione che si attaglia perfettamente al pensiero leopardiano.
Le scienze predilette da Leopardi erano l’astronomia, la chimica e la biologia. L’astronomia, più di ogni altra scienza moderna, ha mostrato lo scarto tra gli errori che commette il senso comune e le verità che la scienza può disvelare: «Ci fa “vedere” un mondo che contraddice le nostre più elementari esperienze sensibili e mette di conseguenza in discussione le certezze più consolidate, tra le quali quella, fondamentale, del primato dell’uomo nel cosmo. Il punto di vista dell’astronomia moderna permette così a Leopardi di sviluppare fino alle più estreme conseguenze la potenza della ragione critica».
Nello Zibaldone (2/12 agosto 1823) si trova una chiara indicazione del rilievo filosofico della “rivoluzione copernicana” nel rapporto tra uomo e natura, che riconosce insieme la piccolezza umana e il carattere “periferico” del nostro sparuto pianeta. L’astronomia, ma anche la biologia (vi sono pagine che mostrano la conoscenza di dispute che portano diritte al contesto da cui scaturì l’idea darwiniana della vita) e la chimica (con Lavoisier come protagonista) continuano a interessare Leopardi per tutta la vita. Attraverso di esse prosegue la sua riflessione sul ruolo dell’errore (e del suo superamento) nella crescita della conoscenza che iniziò giovanissimo con il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi.
Non deve stupire se la moderna ragione scientifica e filosofica viene posta in contrasto con la sapienza degli antichi, che peraltro furono anch’essi campioni di naturalismo. È che la distruzione sistematica degli “errori” - nota Leopardi - finisce per distruggere anche le “illusioni” necessarie per vivere. Ma questa consapevolezza, da cui deriva una riflessione assai matura sulla filosofia morale degli antichi e di come possa essere utile ai moderni, non si trasforma mai in Leopardi in critica all’unica fonte attendibile della nostra conoscenza, che possiamo trovare solo nelle sue amate scienze.
Lo «Zibaldone» al tempo dell’Isis
La pietà laica che salva l’umanità
La lezione di Leopardi: l’odio è il sentimento naturale per l’uomo
Placarlo, accettando l’altro, è la vera conquista. Oggi più che mai
di Marco Balzano (Corriere della Sera - La Lettura, 29.11.2015)
Per Sciascia la lettura mai abbandonata, portata avanti a ciclo continuo per tutta la vita, era «l’adorabile Stendhal». Io, mutatis mutandis, ho lo stesso rapporto con Leopardi. Non tanto il poeta, ma quello più riservato dello Zibaldone . Qui Leopardi si rivela un travagliatissimo scrittore di diario, autore di un immenso scartafaccio che è un documento unico nella nostra letteratura. Il fascino sta forse nel fatto che nel diario scrittore e lettore coincidono e quindi i filtri allargano le loro maglie fino a lasciar passare anche le contraddizioni, che spesso sono il sale per la costruzione di un pensiero.
Ho ripercorso il diario soffermandomi sulle note più strettamente politiche e con lo stesso spirito utilitaristico con cui Leopardi usava i suoi classici mi sono ritrovato quasi senza accorgermene a pensare più intensamente ai fatti di questi giorni.
Leopardi si è da subito posto il problema dell’altro, della sua accettazione e del suo ruolo per l’edificazione di una società solida. Ne ha discusso incentrando la questione sull’«amor proprio», un concetto che in fretta arriva a coincidere con l’egoismo e con l’idea che non possiamo preferire gli altri a noi stessi: siamo obbligati a fare i conti con un desiderio di prevaricazione che non ci abbandonerà mai. E siccome le società e le nazioni non sono altro che macro individui, l’esigenza di capire cos’è l’amor proprio diventa di giorno in giorno più urgente.
Le note, in un breve giro d’anni, diventano saggi, l’insistenza sul tema aumenta vertiginosamente e seguire questa pista tra le pagine fitte del diario si fa tanto più appassionante quanto la speculazione diventa problematica. Se le nazioni, infatti, sono animate dalla stessa insopprimibile prevaricazione verso l’altro che pulsa in ognuno di noi, il discorso deve includere necessariamente due elementi: l’odio e la guerra.
La visione di Leopardi così si incupisce e si dirige sempre più verso una considerazione subalterna e sprezzante dello straniero che non ci si aspetterebbe di trovare in un suo testo. Così, del resto, dimostra la historia magistra vitae : i greci e i romani, quando non hanno più avuto i persiani e i cartaginesi contro cui guerreggiare, sono caduti nella spirale delle guerre civili, aprendo le porte alle invasioni barbariche. È l’odio dunque che compatta? È la visione dell’altro come nemico e rivale che cementifica un gruppo e che tiene insieme una nazione? Inizialmente pare proprio di sì.
Sono pagine che ci dicono chiaramente che da sempre guardare all’altro è complicato e che il rischio di scatenare le nostre paure più ancestrali e le nostre pulsioni nefande non è prerogativa né della nostra né di nessun’altra epoca in particolare. La violenza appartiene a tutta la storia. La situazione non migliora con la presenza della religione. Il cristianesimo, infatti, con la sua filantropia non ha fatto che peggiorare le cose, sostiene Leopardi. Avallando l’idea di un amore universale ha debellato l’odio del nemico per sostituirlo non con la pace perpetua ma con l’odio del fratello. E questo sempre per quell’inestinguibile amor proprio che non smette di accompagnarci e che certifica solo l’imperfezione della nostra essenza.
Eppure il pensiero non è pago di se stesso. Fermarsi al riconoscimento della nostra paura che si converte in aggressività a Leopardi non basta. La soluzione alla lunga non convince, a meno di non voler pensare a una guerra perenne.
Plutarco, Machiavelli, i philosophes e tutti coloro che hanno declinato in varie forme l’antica teoria del nemico necessario non bastano a chiudere la questione, a far concludere che odio e guerra ci salverebbero. L’errore, insomma, non sembra più il frutto di cattiva condotta o di una degenerazione di valori come l’amor patrio. Nella seconda parte dello Zibaldone inizia a serpeggiare in maniera sempre più evidente la convinzione che l’odio del nemico, senza la civiltà, non preserva dall’odio dell’amico, che la religione se non si ferma a una pratica sorvegliata rischia sempre di spingere al fanatismo o ad atteggiamenti socialmente impraticabili (non una religione: ma la religione monoteista in genere).
Di questo parla La Scommessa di Prometeo, la geniale operetta morale del 1824 in cui questo eroe amico del genere umano visita vari luoghi della Terra. Prometeo nel mondo dei selvaggi americani, dove si vive in stato di guerra continua, non troverà una maggiore felicità: scoprirà piuttosto in ogni dove barbarie orribili, che vanno dall’antropofagia di un indios all’omicidio-suicidio di un lord inglese. Il pensiero allora pare essersi intrappolato in un vicolo cieco. L’odio non ha più bersagli precisi, ma si rivela una pratica esercitata contro chiunque, diventa la prova di una confusione orribile. E allora, siccome il lettore dello Zibaldone, dicevamo, coincide con lo scrittore, questa tesi è silenziosamente superata e il pensiero veleggia altrove. La questione dal piano socio-politico si sposta su quello esistenziale. Leopardi ritorna a parlare dell’individuo perché la società non è la somma di uomini fatti con lo stampino.
Dal 1824 si fa spazio una laica e nuovissima contemplazione dell’amore che nell’immenso diario non aveva trovato spazio e che occupa invece un posto importante nelle prose e in alcune poesie più tarde. Un amore non sentimentale, ma inteso in senso antropologico, da leggere sul piano individuale come eccezione all’infelicità e sul piano sociale e politico come consapevolezza delle nostre tendenze violente, della nostra paura ancestrale dell’altro nonché del nostro desiderio di prevaricarlo.
L’amore, sorprendentemente, è per Leopardi il sentimento meno naturale di tutti (naturale è l’odio!), sboccia solo nell’animo di chi è consapevole della propria fragilità e delle proprie pulsioni distruttive e che, da questa presa di coscienza, parte per sublimare la propria condizione originale in una concezione altruistica e rispettosa dell’altro. Non temere lo straniero, conoscere l’ignoto, rispettare il diverso: queste sono le conquiste più raffinate della civiltà.
Da questa consapevolezza, che coraggiosamente non ha niente di spiritualistico, nasce l’idea di Leopardi di tratteggiare la figura di un uomo magnanimo, incarnata da vari protagonisti delle Operette morali e condensata nella metafora della ginestra, il fiore del deserto che non sdegna i luoghi incolti e inariditi dalla violenza della Natura.
Questa pietà laica, che vaglia alla luce della ragione la nostra miserabile essenza, si rivela ben più efficace della filantropia di stampo religioso. L’amore si fa così caratteristica fondamentale di quel «verace sapere» che permette la vita della polis , il rispetto di ogni forma di esistenza e la pratica dell’«amicizia», sentimento che Voltaire definiva «un tempio ormai poco frequentato».
Leopardi
Il più grande pensatore (e non solo) dell’800
Era uno di noi? No
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera - La Lettura, 25.01.2015)
Senza mezzi termini, Nietzsche definì Leopardi «il più grande prosatore del XIX secolo». Credo che non si trattasse di una provocazione. Riconosceva in Leopardi qualcosa che gli assomigliava in maniera profonda e vincolante. Una prodigiosa capacità di sovvertire i luoghi comuni e le abitudini del pensiero in entrambi si era sviluppata nella più severa e conservatrice delle palestre mentali: la filologia classica. Un’indefessa attenzione al significato delle parole li aveva trasformati in eretici e in fin dei conti in emarginati. Furono talmente soli che la loro solitudine risalta più sul metro delle amicizie che delle inimicizie, perché anche coloro che li compresero e li ammirarono rimasero molto al di sotto delle vette che avevano raggiunto.
Si può immaginare che Nietzsche, quando parla del «prosatore» Leopardi, non lo voglia contrapporre all’amato Stendhal, incapace di scrivere versi, né voglia dichiarare una preferenza per le Operette morali a scapito dei Canti. Il «prosatore», in qualunque maniera si esprima, è colui che antepone la verità dei fatti della vita a ogni forma di consolazione. Questo amore della verità gli impedisce ogni forma di compromesso con il mondo, nel quale non ha chiesto di nascere e che di sicuro non è stato creato per lui. Ma soprattutto, l’esistenza, se considerata con occhi spogli da illusioni e ottimistiche chimere, non prevede nessun tipo di progresso.
La vita naturale è cieca ripetizione, così come tutte le ideologie politiche che aspirano a una felicità collettiva poggiano su una premessa illogica. Come si può immaginare una «massa» di uomini felici, scrive Leopardi in una famosa lettera, se quella «massa» è composta da singoli individui, che non possono che essere infelici?
Il 5 dicembre 1831, quando scrive queste parole a Fanny Targioni Tozzetti, Leopardi ha raggiunto il vertice della sua consapevolezza umana e filosofica. È davvero il più grande «prosatore», e pensatore, del suo tempo: un uomo che punta i piedi, che sa che il male è il male e che mai si potrà mischiare al bene in un’improbabile sintesi, religiosa o politica che sia. Che cosa resta da fare? Le soluzioni non possono che variare a seconda dei singoli caratteri.
Quanto a lui, ha deciso di imitare «i Turchi» con la loro sana abitudine «di sedere sulle loro gambe tutto il giorno, e guardare stupidamente in viso questa ridicola esistenza». Bisogna sempre stare attenti all’italiano di Leopardi, così vicino alle più pure sorgenti dei significati delle parole. Così, quando in una poesia definisce la vita «stupenda», significa che la vita suscita stupore. E il contemplare «stupidamente» il ridicolo dell’esistenza sarà tutt’altro che un atteggiamento stupido.
Ma come poteva essere tollerato, questo impareggiabile «Turco», finito come un grano di pepe nella marmellata ottimista del suo tempo? E non si tratta solo dell’ingenuo e fervido Ottocento. La realtà è che ancora oggi quell’uomo spietato non lo possiamo tollerare.
Continuiamo a interpretarlo tirandolo per la giacca. La gran parte della critica leopardiana è un immane tentativo di razionalizzazione e addomesticamento. In tutte le salse: incredibilmente, non sono mancate la socialista e addirittura la cattolica. Ma non è vero niente: lui non era dei nostri, non era come noi. Non ci teneva minimamente.
Il sex appeal degli scrittori: Giacomo Leopardi (e Carver)
di Francesco Forlani (Nazione Indiana, 25 ottobre 2014)
«Così ho pensato di andare verso la grotta,
in fondo alla quale, in un paese di luce,
dorme, da cento anni, il giovane favoloso»
Anna Maria Ortese
C’è un sito in Italia, in cui è possibile sapere quale anniversario, di nascita o di morte, cadrà nell’anno in corso e in quello a venire degli uomini illustri. Si può chiedere di ogni anno, come se al venditore di almanacchi si potesse domandare ogni volta cosa fosse mai stato il passato ; e allora registi, scrittori, artisti ci propongono a seconda del peso dei defunti il loro personale memoriale nel nome della gloria di uno di essi o di un evento quando degno di essere ricordato. Così l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia tre anni fa vide un vero e proprio florilegio di opere sul Risorgimento e l’anno in corso lo stesso per Enrico Berlinguer. Il conte Giacomo Leopardi, invece no, nato a Recanati, il 29 giugno 1798 e morto a Napoli il 14 giugno 1837, non incorreva in quello strano guasto della memoria e dunque, sdoganata l’opera dall’ingombrante idea dell’attavolino, possiamo almeno questo film, il giovane favoloso di Mario Martone, coglierlo in questa sua gratuità come un atto libero e consapevole del regista.
Quando più di un anno fa ho letto delle riprese del film la prima cosa che ho pensato è stata quanto potesse essere difficile per un regista confrontarsi con la vita, e presumibilmente le opere, di uno scrittore. Non si prenda in considerazione il lavoro di adattamento di un romanzo, la sua trasposizione cinematografica, complessa e a giudicare dai risultati, spesso riuscita al punto che certi film sono di gran lunga più belli dei romanzi a cui s’erano ispirati ; in questo caso si parla invece proprio degli scrittori ed è per questo che ho immediatamente pensato a Raymond Carver. Come molti sanno allo scrittore americano Michael Cimino aveva all’inizio degli anni ottanta affidato la sceneggiatura della vita di uno degli scrittori-icona più grandi : Фёдор Михайлович Достоевский.
“Cimino disse che voleva fare un film su di un grande scrittore. Secondo lui, questo non era mai stato fatto. Citò Il dottor Zivago come esempio di quello che non voleva fare. Mentre parlavamo di quel film, mi ricordai che solo una volta Zivago, medico-scrittore, viene visto nell’atto di scrivere qualcosa.” Così scrive Carver nell’introduzione alla sceneggiatura, va detto assai scadente, scritta a quattro mani con Tess Callagher. Lo scambio di battute tra i due è quasi comico come quando ci racconta Carver: “Certo, la creazione di poesia o narrativa non è di per sé roba da sfondare lo schermo. Cimino voleva mantenere da cima a fondo visibile il Dostoevskij romanziere. La sua idea era che le circostanze drammatiche, spesso melodrammatiche, della vita di Dostoevskij, messe in rapporto con la composizione ossessiva dei romanzi, avrebbero offerto una meravigliosa occasione cinematografica.”
Il comico diventa grottesco poi, quando sappiamo che ad aver scritto una prima stesura sia stato un russo e che in seguito due sceneggiatori italiani l’avevano tradotta in inglese tentando “di metterci un po’ di pepe”. Quando grazie a un amico sceneggiatore, Salvatore De Mola, ho cercato di saperne di più, sono venuto a sapere che il russo in questione era niente poco di meno che Алекса́ндр Иса́евич Солжени́цын, insignito dieci anni prima di quell’incontro, del premio Nobel. Allora ho sentito un altro amico del mondo del cinema, Gino Ventriglia, per cercare di sapere anche da lui se esistesse un modo di sapere il nome dei due sceneggiatori italiani, ma soprattutto per verificare quanto detto da Cimino sul fatto che non vi fossero stati nella storia grandi film su grandi scrittori. Certo non erano mancate ambizioni in quel senso, come quella di Visconti e del suo film su Proust. Progetto che non vide mai la sua realizzazione. Sappiamo però che quando si era sul punto di farlo il regista aveva immaginato un casting davvero recherché : Silvana Mangano per la duchesse de Guermantes, Marlon Brando nel ruolo di Charlus, Helmut Berger in quello di Morel, Alain Delon Marcel e Simone Signoret come interprete di Françoise. I produttori avrebbero parlato anche di Dustin Hoffmann, Brigitte Bardot, Charlotte Rampling e addirittura di Greta Garbo per una breve comparsa come Regina di Napoli.
Eccoli i giganti, Leopardi, Dostoevskij, Proust, Victor Hugo di cui va ricordato lo straordinario Adele H di François Truffaut e in cui il gigante delle lettere brilla per la sua quasi totale assenza ; grandi scrittori europei, ovvero appartenenti a una tradizione che non si limita alla letteratura nazionale ma che la sovrasta, la travalica come in passato era stato il caso per Dante e Boccaccio o ancor prima con Virgilio. Non so per esempio quanti siano al corrente del fatto che diverse sue opere furono pubblicate in Francia ancora inedite in Italia e che il poeta avesse negli anni ’30 manifestato il proprio desiderio di andarsene nella capitale francese. « Io per molte e fortissime ragioni sono desideroso di venire a terminare i miei giorni a Parigi »( lettre de Leopardi à De Sinner du 20 mars 1834.) Queste due premesse, una sulla complessità della vita degli scrittori come materia cinematografica e la dimensione europea della figura di Leopardi sono necessarie per capire come a mio avviso Mario Martone, il suo cineteatro, sia riuscito con questa sua opera a rendere verosimile il suo, nostro racconto della vita del poeta di Recanati. Cominciamo dalla luce.
Come tutti sanno il cinema è luce. Un buon direttore della fotografia è colui che riesce ad ammaestrare la luce, a comporre con essa il quadro-inquadratura dell’azione scenica. Per questo suo film Mario Martone ha affidato la camera a Renato Berta ; non vorrei apparire wikipedante ma è uno, per capirci, che ha lavorato con Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, Patrice Chéreau (L’homme blessé, 1983), Éric Rohmer (Le notti della luna piena, 1984), Jacques Rivette (Hurlevent, 1985) e André Téchiné (Rendez-vous, 1985). Louis Malle, Arrivederci ragazzi (1987) con il portoghese Manoel de Oliveira e con l’israeliano Amos Gitai. Insomma per capirci ci capisce. Se provaste mentalmente a crearvi un blob di sequenze di tutti questi film citati ritrovereste assai facilmente un uso della luce che nel film di Martone si deterritorializza e si detemporalizza costantemente. Sia che si tratti delle rimembranze del poeta o dello sguardo sulle cose, ora la montagna incantata del Vesuvio ora i rituali gesti dei giocatori nel pallone, il flusso di immagini e di coscienza del protagonista ne determina il pensiero, la forza delle idee quasi in sinergia con i momenti di massima fragilità come quando la luce irrompe nella camera buia del poeta quasi accecato dalla fatica. Una luce che quasi si modula sui diversi registri linguistici, sia che si tratti delle lingue regionali che dei passaggi dallo scritto al parlato.
Questo tema della luce e della cecità ci riporta ad Anna Maria Ortese, il cui racconto, Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi (nel libro edito da Adelphi, da Moby Dick all’Orsa Bianca) non si limita a suggerire il titolo del film, come è stato ricordato dal regista ma ne orienta quasi tutta la visione, del poeta e dello spettatore, al punto che mi è sembrato perfino magica, nel senso di magicamente evocativa, la scena del canto, a Napoli, di uno dei suoi attendenti della settecentesca ‘O Cardillo. Non si tratta più della malattia, allora ma del dolore da capire in tutta la sua capacità fondativa della verità. La verità dice male all’uomo non perché in un particolare destino, una malattia individuale ne determini la tragicità ma proprio perché grazie a quel preciso e concreto male è come se il corpo si affrancasse dall’illusione dell’anima e ne cogliesse tutta l’universalità. Per capire questa esperienza quasi orientale della verità del giovane favoloso basterebbe rileggere uno dei più potenti ed insieme chiarificatori passaggi di un altro gigante europeo, Friedrich Nietzsche, che fu tra l’altro tra i primi a cogliere la grandezza di Leopardi.
Scrive il filosofo: “La salute dello spirito si misura da quanto esso è in grado di sopportare e superare e cioè risanare. La malattia è un sintomo della grande salute”. In tal guisa va a parer mio interpretato il processo di annientamento fisico così finemente raccontato da Martone con la progressiva conquista di una verità laica, rivoluzionaria per i suoi tempi nel non volere assecondare le due cecità della religione e del progresso. Leopardi, le grand malade, compie attraverso sé stesso una trasfigurazione del tempo, rimembra e si smembra in virtù di una profonda conoscenza delle cose.
Nel suo racconto Anna Maria Ortese scrive : “Il sentimento della vita sì bella e fugace lo dominava come un prodigio. [...] Da quella coscienza, l’uomo saliva. [...] Il suo dolore, come un fuoco, distrusse, come una luce ricreò tutto”.
Così mi ritorna in mente il finale della canzone ‘o cardillo:
T’accarezza te vasa ah... viato
chiu’ de me tu si certo cardi’
Si cu’ tico cagnarme m’è dato
doppo voglio davvero muri’.
e la necessaria metamorfosi, che la vita procura a se stessa attraverso la vita, sia che si tratti della natura in cui il poeta si perde, si rotola, si arrampica, cade che dell’aristocratico amore via via crescente verso il popolo umile come nella sequenza in cui il giovane e deforme conte è accolto da giovani e vecchi al tavolaccio lungo di una bettola di quartiere. L’interpretazione di Elio Germano è talmente connaturata al personaggio che la vita dell’uno si troverà a coincidere nel finale con quella dell’altro: Elio Germano ha 34 anni, Leopardi muore a trentanove. Altra interpretazione degna di nota quella di Raffaella Giordano, nota coreografa e danzatrice che nel ruolo della madre è totalmente ripiegata su se stessa, matrigna ancor più che madre, tumultuosa nella sua immobilità.
La lenta ginestra che sul finale rappresenta meglio di qualsiasi altra natura la conversione di Leopardi all’eterno ritorno delle cose, al vivere e morire incessantemente, si compie ancora una volta attraverso la caduta del cielo in mille frammenti. La voce di Elio Germano porta naturalmente ognuno di quei versi alla ragionevole mutezza, a quella che Walter Binni, il primo ad avere tentato di liberare Leopardi dalla sfiga del personaggio e dall’erronea attribuzione alla sua poetica di una autofondazione idillica, definiva una “musica senza canto”. Aggiungendo: “Ed ogni lettore che abbia storicamente e correttamente compresa la direzione delle posizioni leopardiane (anche se personalmente non le condivida interamente) non può comunque uscire dalla lettura di questo capolavoro filosofico ed etico, inscindibilmente poetico, senza esserne coinvolto in tutto il proprio essere, senza (per usare parole leopardiane) “un impeto, una tempesta, un quasi gorgogliamento di passioni” (e non con l’animo “in calma e in riposo”) che è appunto per Leopardi il vero effetto della grande poesia.”
Giacomo Leopardi che gran pensatore In uscita due libri che ci parlano di religione e di desiderio Da sempre c’è chi vede lo scrittore credente e cristiano e chi invece ne fa un ateo
di Gaspare Polizzi (l’Unità, 14.07.2014)
LEOPARDI È TRA I POCHI GRANDI DELLA CULTURA A NON AVER BISOGNO DI SCADENZE CELEBRATIVE. Escono ora due libri che gettano nuova luce sul suo pensiero - L’ordine dei fati e altri argomenti della «religione» di Leopardi di Rolando Damiani (Longo, Ravenna) e Desiderio e assuefazione. Studio sul pensiero di Leopardi di Alessandra Aloisi (ETS, Pisa) -, riaffermando ciò che i suoi amici, a partire da Pietro Giordani, ben sapevano: Leopardi fu un grande pensatore.
A mio avviso è il maggiore pensatore italiano dell’800 e tra i maggiori in Italia. Lo testimonia ora anche il suo inserimento canonico nel primo volume dell’Ottava appendice dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Il contributo italiano alla storia del pensiero, dedicato alla filosofia e curato da Michele Ciliberto. Damiani, ordinario di Letteratura Italiana a Ca’ Foscari di Venezia, è un leopardista tra i maggiori: ha curato, tra l’altro, le Prose, lo Zibaldone e le Lettere per i Meridiani Mondadori, un Album Leopardi e la biografia All’apparir del vero, tradotta nel 2012 in Francia da Allia.
In questo volume si cimenta su un tema squisitamente filosofico, e teologico, molto controverso: la riflessione leopardiana sulla religione. Ben nota la divaricazione delle interpretazioni: da chi vede Leopardi sempre, anche se tormentatamente, credente e cristiano, a chi ne fa un ateo esplicito e conseguente. Ogni polarizzazione porta con sé una semplificazione, pericolosa per intendere un pensatore «in movimento» quale fu sempre Leopardi, e spesso non in movimento lineare e “progressivo”.
È indiscutibile la profondità e l’ampiezza degli studi teologici del giovane Leopardi, destinato a una carriera ecclesiastica. Studi che una mente così ampia non poté e non volle dimenticare: «Leopardi - ben sottolinea Damiani - non disperde nulla della propria storia conoscitiva e sentimentale e anche religiosa, ma piuttosto la trasvaluta». Lungo i sei capitoli della sua finissima esegesi Damiani segue l’impronta filosofica e teologica di un inesaurito confronto con il Cristianesimo, nel segno di un’espressione raccolta nella Storia del genere umano, Operetta preliminare che tocca da vicino la questione dell’«enigma della forza ordinatrice del cosmo»: «“l’ordine dei fati” è locuzione allusiva dell’aldilà del nome e del logos, dell’antecedente all’arché precluso agli uomini e al quale gli stessi Dei sono subordinati ».
A ragione Damiani riconosce in tale questione un assillo che trapassa in tante pagine dello Zibaldone, si esprime in noti esercizi poetici come Ad Arimane, e diviene tema filosofico soprattutto nelle Operette: nella citata Storia e in altre due tra le più dense, quali il Cantico del gallo silvestre e il Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco. L’ordine dei fati trascende il volere degli Dei e appare inesorabile per lo stesso Giove. Si tratta di quel Dio del male che Leopardi disvela, seguendo Teofrasto e poi Stratone, identificando il male con l’ordine delle cose, mistero «mirabile e spaventoso », esprimibile in una teologia apofatica, che procede alla conoscenza di Dio per via di negazioni, ovvero a quella antiteodicea descritta da Patrizia Girolami (L’antiteodicea. Dio, dei, religione nello «Zibaldone» di Giacomo Leopardi, Olschki, Firenze 1995). Nella complessità della riflessione leopardiana sul divino l’antiteodicea non smentisce tuttavia, a mio avviso, la profondità conseguente dell’approdo materialistico e ateistico della sua riflessione.
Alessandra Aloisi raccoglie nel suo primo libro leopardiano i risultati di un dottorato di ricerca in Filosofia all’Università di Pisa e di una frequentazione con Leopardi che si è avvalsa della collaborazione con un altro grande leopardista, Antonio Prete. Aloisi ha pubblicato con Prete l’antologia Il gallo silvestre e altri animali (Manni, Lecce 2010), innovativa per il focus sull’animalismo leopardiano, presente in forme interessanti anche in questo volume.
Il libro rivendica una sistematicità del pensiero leopardiano, che ruoterebbe intorno ai due concetti “metafisici” di desiderio e di assuefazione, «gli unici due a partire dai quali fosse lecito tentare una ricostruzione quanto più possibile complessiva del pensiero filosofico leopardiano».
Affermazione impegnativa, ampiamente sostanziata nei cinque capitoli del volume in un largo ventaglio di aspetti psicologici, sociologici, ontologici ed estetici. Aloisi vede la sistematicità leopardiana in forma aperta e problematica, più nelle domande filosofiche che ritornano che non nella chiusura teoretica di un sistema di risposte. Ricordo che sulla sistematicità del pensiero leopardiano, fortemente contestata nella tradizione neo-idealistica italiana (in particolare da Benedetto Croce), si è misurato di recente, con una visione viceversa “forte” e unitaria di stampo dialettico, Fabio Vander in Il sistema-Leopardi. Teoria e critica della modernità (Mimesis, Milano-Udine 2012).
Aloisi intreccia la sua ricostruzione di «una vera e propria teoria del desiderio e del suo rapporto con la realtà e l’immaginazione» con la tradizione filosofica moderna del 600 e del 700, da Spinoza a Pietro Verri, da Pascal a Condillac, da Locke a D’Holbach, da Montaigne a Rousseau.
Un rilievo significativo acquista l’uso di categorie filosofiche del 900, desunte da Bergson e soprattutto da Gilles Deleuze, che permettono ad Aloisi, in un esercizio difficile, di confrontarsi con un’elevata varietà di interpretazioni e di applicare la teoria dell’arte di Deleuze, producendo una lettura originale del pensiero leopardiano, in efficace interazione con lo spinozismo.
A mio avviso, la limitazione della trattazione ai concetti di desiderio e assuefazione è sì funzionale alla ricostruzione di una filosofia morale e di un’estetica, in altri termini della ricognizione leopardiana sulla natura umana, ma non tiene in adeguato conto il nesso che Leopardi stabilisce, fin dai suoi studi giovanili, tra la visione della natura, cosmica, chimica, biologica, e l’indagine sul problema del desiderio e sull’esistenza o meno di una felicità per gli uomini e per gli animali.
I due libri vanno accolti come due contributi significativi a quella rivalutazione della filosofia leopardiana che è ancora lontana dall’essere univocamente riconosciuta.
Il fascino infinito della luna gigante
Leopardi studiò astronomia e se ne innamorò
di Armando Torno (Corriere della Sera, 14.07.2014)
La luna attira. Non fece in tempo ad accorgersene Beethoven perché il nome della composizione per pianoforte numero 14 in Do diesis minore, da lui chiamata Sonata. Quasi una fantasia , diventò Al chiaro di luna dopo la sua morte. Fu Ludwig Rellstab negli anni ’30 dell’Ottocento a denominarla in tal modo, scorgendo nell’Adagio sostenuto di apertura un idilliaco panorama notturno addolcito da luce lunare.
D’altra parte, Giacomo Leopardi in quegli anni si innamorò dell’astro. Nel Canto notturno le pone domande: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,/ Silenziosa luna?»; nei versi ad essa titolati la chiama in causa quale testimone esistenziale: «O graziosa luna, io mi rammento/ Che, or volge l’anno, sovra questo colle/ Io venia pien d’angoscia a rimirarti:/ E tu pendevi allor su quella selva/ Siccome or fai, che tutta la rischiari». Ne La sera del dì di festa la descrive, anzi la dipinge: «Dolce e chiara è la notte e senza vento,/ E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti/ Posa la luna, e di lontan rivela/ Serena ogni montagna».
Leopardi era arrivato ad amarla dopo averne studiato interpretazioni e calcoli, esaminato Galileo e le teorie delle maree in un’opera giovanile: la Storia della astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII (ora ripubblicata da La Vita Felice, ché Mondadori l’ha esclusa dai «Meridiani» con poesie e prose). Impossibile riprendere tutte le sue citazioni ma, come dirà Thomas Mann in Nobiltà dello spirito , la luna è emblema dell’arte: entrambe consentono un abbraccio tra mondo materiale e spirituale; rivolgere lo sguardo alla luna significa elevarsi nel cosmo senza dimenticare la terra.
D’altra parte, nel 1657 Cyrano de Bergerac aveva pubblicato un ardito romanzo dal titolo L’altro mondo o Gli Stati e gli Imperi della Luna , nel quale espose teorie filosofiche e scientifiche allora non gradite ai benpensanti, quali l’eternità e infinità dei mondi, la costituzione atomica dei corpi et similia .
Il francese era già stato anticipato da Ariosto. «Tutta la sfera varcano del fuoco,/ et indi vanno al regno della luna»: con questi versi inizia il canto XXXIV dell’Orlando Furioso , in cui il paladino Astolfo è condotto sulla luna da Giovanni evangelista per recuperare il senno di Orlando, smarritosi per amore.
D’Annunzio nell’Alcyone scioglierà un’immagine alla «Nascente luna, in cielo esigua come/ il sopracciglio della giovinetta», mentre Samuel Beckett in Molloy perderà la pazienza: «Com’è difficile parlare della luna con discrezione! È così scema, la luna. Dev’essere proprio il culo quello che ci fa sempre vedere». Supererà il suo romanticismo Alfred de Musset, nella Ballata alla luna : «C’était dans la nuit brune,/ sur le clocher jauni,/ la lune/ comme un point sur un i» («Era nella notte bruna/ sul campanile ingiallito/ la luna/ come un punto su una i». Un’altra immagine giunge da Sergej Esenin che troverà anche il tempo di innamorarsi di Isadora Duncan, ma ne L’acero antico non si scorderà di lasciare un simbolo: «La luna, rana d’oro del cielo».
Tra i malati guariti da Gesù presso il lago di Tiberiade c’erano dei lunatici (Matteo 4,24): così allora erano detti i colpiti da epilessia, attribuita a influssi lunari. Presso i babilonesi l’astro prendeva la forma di uomo ed era il dio Sin (qualcuno lo vedrà nell’etimo del Sinai); maschile resterà anche in Egitto, dove sarà il dio Thout, detto anche Chonsu: a lui verrà attribuita l’arte della scrittura e la sapienza, per questo i Greci lo identificheranno con Ermete. Già, i Greci: finalmente la luna diventa donna. È Selene.
Il tempo in etterno (leopardian reggae)
di Gian Paolo Bulla *
Di più s’inoscura la notte
e disgombra fra le studiate carte:
il pensier tuo spoglio contemplo
che da malinconia lezione crebbe
e opportuna speme.
Violento, sdegnoso affanno non mi lascerà,
il fiume è limaccioso e spezza
gli argini del buon senso;
la strada è deserta
e la polvere copre le orme.
La tua signora è cosi volubile!
Vento è ancora nella nostra vita
che turbina mentre invochiam sentenza.
Tu, insondata passione, non avrai riguardo
per la mente che vacilla,
tu non cedi a scaltri né a deboli,
ma spiri dell’universal possa che rimena ogni cosa.
Anche se ci pare illegittima,
in qualche rimota parte
essa ha il suo sortilegio, la ragione
di tanta dolorosa bellezza.
In quell’estremo margine sfuma
Filli anche il tuo sembiante,
nell’eterno aspetto cui amore dassi
e celia dolcemente, sanguinando.
Se mai di noi qualche forma vaga
nell’infinito spazio, oltre la terra
chiusa da prossima guerra
e dall’egoismo che ci fa vivere;
se mai tutto non sarà dimenticato
ma avrà ricetto il tuo pensiero
che non decade;
e io potrò, qual ora si nega,
essere del tuo, il tempo in etterno;
non sarà privato il gesto cui anelo
ma inavvertito e pieno
un senso della vita che rimane
da un astro a un altro
nell’energia che è un tutto
e il tutto non è in crisi.
Di tal maniera ancora in te agogno.
*
1983-1984
CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL’ ASIA
di Giacomo Leopardi (I Canti, XXIII)
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E’ la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E’ lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E’ funesto a chi nasce il dì natale.
La grande lezione di Leopardi dominare la natura è un’illusione
L’idea di poter controllare tutto non funziona ma non si può nemmeno demonizzare la tecnica Cerchiamo un’etica globale che associ la cura dell’uomo a quella degli altri organismi viventi
di Roberto Esposito (la Repubblica, 17.09.2011)
Dalla metà del secolo scorso si può dire che la riflessione filosofica oscilli tra due poli opposti, senza riuscire a trovare un baricentro unitario. Il primo è quello che Ernst Bloch definì ‘principio-speranza’. Pur lontano e critico verso le filosofie del progresso, egli teneva vivo il riferimento alla freccia del futuro. La verità più profonda dell’uomo è incapsulata nel momento del ‘non-ancora’, in quella dimensione a venire destinata a proiettare il presente sempre al di là di se stesso. Benché piantato nel mondo della natura, l’essere umano è capace di trascenderlo, balzando sul carro in corsa della storia. La speranza che dà senso alla nostra vita, strappandola ai suoi limiti costitutivi, non è un’esperienza soltanto soggettiva, ma una potenza reale che piega l’essere in direzione del divenire.
Il polo contrario che, ad ondate successive, torna ad attrarre il pensiero contemporaneo è il ‘principio-disperazione’ - spinto all’estremo da Günther Anders nel suo libro sull’uomo ‘antiquato’, perché sorpassato dalla sua medesima potenza distruttiva. Preda di un ‘dislivello prometeico’ tra la misura finita della sua immaginazione e la capacità illimitata del suo potere produttivo, l’uomo si scopre esposto alla possibilità senza ritorno della propria autodistruzione. Scritto negli anni della guerra fredda, il libro di Anders si riferisce principalmente al rischio della bomba atomica, ma la sua diagnosi coinvolge l’intera esperienza dell’homo technologicus. Portando al culmine la critica del progresso elaborata dai vari Mann e Spengler, Nietzsche e Heidegger, egli individua la nostra malattia nell’inarrestabile sconfinamento della tecnica nell’orizzonte, sempre più devastato, della natura.
Come sostiene nella sua relazione Bauman, la natura non soltanto ha perso la propria aurea magica, l’antico statuto di creazione divina che ne assicurava l’intangibilità da parte dell’uomo, ma è interamente affidata al suo controllo e al suo sfruttamento intensivo. Ormai siamo al di là anche delle pretese prometeiche dell’homo faber - teorizzate da Bacone o Voltaire. Oggi la tecnica non si limita ad occupare lo spazio della natura, ma arriva al punto di volerla sostituire riproducendo in modo artificiale i suoi prodotti - compresa la stessa natura umana. Questo progetto, tuttavia, non ha fatto tutti conti con la resistenza del proprio oggetto di dominio. Non è anzi escluso che finisca per rimbalzare su di esso rovesciandosi rovinosamente su colui che l’ha messo in opera.
Rispetto a tale analisi, tutt’altro che infondata, va tuttavia osservato che la natura non è poi così fragile e indifesa. A questo proposito già James Lovelock aveva sostenuto, in quella che si è chiamata ‘ipotesi Gaia’ (dal nome della divinità greca), che la terra costituisce un sistema vivente autoregolato capace di mantenere le sue caratteristiche chimico-fisiche proprio grazie ai comportamenti degli organismi viventi che lo abitano. Ciò accadrebbe per una sorta di effetto retroattivo che ristabilisce di continuo l’equilibrio tra ciò che vive e le condizioni entro cui si sviluppa la vita. Così si spiega il fatto che il livello di ossidazione o il grado di salinità del nostro ambiente naturale restino più o meno costanti anche in presenza di mutamenti strutturali. E’ perciò che, dopo l’era glaciale, la temperatura della terra non ha subito grandi variazioni benché, nel corso del tempo, il calore del sole sia notevolmente aumentato. E’ vero che, secondo la stessa teoria, l’attività umana ha prodotto danni considerevoli a Gaia - già a partire dallo sviluppo dell’agricoltura che, sostituendo gli ecosistemi naturali delle foreste con i campi di coltivazione e l’allevamento di animali, ha modificato il metabolismo terrestre. Ma non è detto che l’equilibrio del sistema non possa essere salvato dagli stessi errori degli uomini. Al punto da ipotizzare che una successiva glaciazione potrebbe essere in qualche modo compensata dall’effetto serra che abbiamo noi stessi determinato.
Naturalmente ci muoviamo in un campo di ipotesi tutt’altro che certe - e anzi contestate da altri studiosi. Resta il fatto che la partita tra uomo e natura appare tutt’altro che chiusa. Una linea di pensiero, che ha in Giacomo Leopardi la propria punta più acuta, ha ottimi motivi per credere che il rapporto di forza tra noi e la natura rimanga largamente sbilanciato a suo vantaggio. Come ci ricordano anche recenti terremoti e tsunami, nonostante tutti i sogni faustiani, di fronte alla potenza dirompente della natura, i nostri sforzi di dominarla appaiono a volte persino patetici. E non è la morte stessa un fenomeno naturale che segna la nostra esistenza in una forma che siamo ben lontani dal poter padroneggiare?
Ciò che possiamo fare - sospesi come siamo tra il ‘principio-speranza’ e il ‘principio-disperazione’ - è attivare quell’atteggiamento che Hans Jonas ha chiamato ‘principio-responsabilità’, sforzandoci di passare da un’etica antropocentrica ad un’etica globale che associ la cura dell’uomo a quella degli altri organismi viventi e dello stesso mondo naturale. Tra la fede visionaria nella tecnica e la sua demonizzazione passa la sobria consapevolezza che la scienza può essere insieme causa e risoluzione dei nostri problemi.
Un’etica della responsabilità ambientale per tutta la terra
di Enzo Bianchi (“Jesus”, n. 10 dell’ottobre 2011)
Dopo secoli in cui la natura era più forte dell’umanità e l’uomo doveva difendersi da essa, oggi è proprio l’ambiente che è diventato fragile, sovente vittima dell’uomo, al punto che l’uomo ormai con la sua potenza nucleare è in grado di distruggere la terra. Così siamo diventati al massimo grado responsabili della terra e della nostra potenza: in quest’ottica ciò che è più difficile è non cedere all’eccesso e alla dismisura. La sfida etica ci chiede di acquisire la padronanza del nostro potere tecnico-scientifico, ponendo un limite alle nostre azioni e ai nostri progetti e riconoscendo che esistono diritti della natura, dell’ambiente, di tutti i nostri co-inquilini sul pianeta. Occorre fare questo passo a livello di coscienza sociale, fino a esprimere questi diritti mediante istituti e legislazioni giuridiche. E se l’ambiente è titolare di diritti, noi umani abbiamo dei doveri, una precisa responsabilità che, se non assunta o violata, ci rende trasgressori della legge necessaria all’abitare la terra, al costruire un mondo più sinfonico e più bello.
È quindi necessaria un’etica della responsabilità che si preoccupi dell’avvenire della specie umana e della terra. Hans Jonas l’ha così formulata: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra».
Se un tempo la responsabilità significava rispondere dei propri atti passati e presenti, ora essa è tale anche verso l’avvenire del pianeta e dell’universo. È il futuro in cui gli abitanti della terra saranno le nuove generazioni, i nostri figli, i nostri nipoti, che richiede la mia responsabilità oggi, perché oggi l’uomo può distruggere la terra: da questo potere nascono obblighi e doveri.
Come siamo giunti a elaborare un «contratto sociale», così oggi dobbiamo andare al di là del sociale e del politico per elaborare un «contratto naturale», un contratto con l’ambiente! Questo senza mai dimenticare che questione ecologica e questione sociale sono due aspetti del medesimo disordine da noi provocato, due frutti della medesima volontà di potenza, del medesimo sfruttamento che non conosce doveri né limiti, del medesimo edonismo che pensa solo a se stessi, senza gli altri e contro gli altri. Quando si giunge a trattare le persone solo in funzione della loro capacità di produrre e di possedere, si finisce anche per trattare la natura e gli esseri viventi solo in funzione di un loro possibile sfruttamento, del loro valore di mercato...
Ma accanto alla responsabilità vi è un’altra necessità per un’etica rispettosa della terra: la sobrietà. Parola detestata questa, spesso anche derisa, eppure oggi siamo più consapevoli che mai del fatto che le risorse della terra non sono infinite, lo sviluppo non è in costante crescita, la produzione non è illimitata, i consumi non possono più essere sfrenati.
Per questo bisogna ritornare a quella parola attestata con grande frequenza nella Regola di Benedetto: mensura, misura. Misura del cibo, dei consumi, del tempo libero, del lavoro... Misura, cioè sobrietà, moderazione, attitudini attraverso le quali noi umani riconosciamo il nostro limite di terrestri. Misura, in senso ecologico, significa lasciar cadere le pretese non attinenti ai bisogni fondamentali ma indotte o addirittura imposte come esigenze alienanti dalla società dei consumi. Occorre che ci liberiamo dei desideri superflui per acquisire anche una capacità critica, una libertà, e non essere piegati alle richieste prepotenti del mercato. Talvolta occorre anche una rinuncia o, per usare un altro termine bandito dal nostro linguaggio, un sacrificio, cioè la disponibilità a privarci di qualcosa, nel caso che la nostra soddisfazione passeggera provochi danno all’ambiente e alle creature di cui siamo co-inquilini, ad altre genti o ad altri popoli.
Integrare la nostra situazione nel mondo è decisivo per conoscere la nostra identità terrestre e saper vivere il nostro rapporto con la terra, questo «terzo satellite di un sole detronizzato dal suo seggio centrale, divenuto astro pigmeo errante tra miliardi di stelle in una galassia periferica di un universo in espansione» (Edgar Morin).
La terra è l’unico pianeta sul quale, almeno per oggi, sappiamo esistere questa specie di animali biologici ma anche esseri culturali, gli animali umani: umani nel senso che l’uomo non è compiuto pienamente se non dalla cultura e nella cultura; umani nel senso che sanno sentirsi responsabili degli altri co-inquilini animali, vegetali e minerali, responsabili per tutti; umani perché capaci di com-passione, di soffrire con questa terra, capaci di sim-patia con tutte le creature; umani perché atti ad abitare la terra, ricercando e perseguendo la pace: una pace non solo tra gli uomini ma cosmica, cioè lo shalom, la vita piena per tutta la terra.
Il sovvertimento del Natale
di Bernard Ginisty
in “www.garriguesetsentiers.org” del 21 dicembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Una delle tentazioni più forti della mente umana consiste nel fare di tutto perché l’irrompere del nuovo si riduca alla ripetizione del vecchio. La volontà di controllo dell’esistenza cerca di colonizzare il tempo che viene, a rischio di impedirsi la sorpresa dell’imprevisto. Tendiamo a banalizzare l’evento quando sconvolge le nostre tranquillità intellettuali e sociali.
Il senso profondo della liturgia che ci invita ogni anno a rivivere il Natale sta nell’accogliere la rottura provocata da un avvenimento di grande portata qual è una nascita. Una breccia viene aperta dall’irruzione del Verbo fatto carne nella storia degli uomini. La festa che, secondo la liturgia del giorno di Natale, annuncia: “Oggi la luce è discesa sulla terra. Popoli dell’universo, entrate nella luce di Dio” è talmente sconvolgente, che abbiamo tentato di neutralizzarla per farne un grazioso scenario per la celebrazione del consumismo, diventato la pratica “religiosa” indispensabile ad un mondo gestito dall’idolo della finanza.
Questi tentativi di neutralizzazione sono cominciati molto presto. Appena conosciuto l’avvenimento della nascita di Gesù, i poteri, attraverso la figura di Erode, si sono sforzati di uccidere l’avvenimento e di massacrare l’innocenza. Questo scontro tra l’infanzia di Dio e il potere dei Cesari che fa di noi degli schiavi della violenza, del denaro, della produttività e delle immagini sociali, costituisce una linea di continuità nella storia.
L’avvenimento del Natale, quello in cui la Parola si fa carne, introduce un virus radicale nei programmi di coloro che pretendono di avere il potere di controllare l’esistenza umana. L’infanzia degli inizi diventa il luogo fondamentale dell’umano. È la sorgente in cui ciascuno, quale che sia la sua tragedia, può ritrovare una dignità e una speranza. Ecco perché, grazie al Natale, sono i più deboli, gli esclusi, che aprono la via verso il futuro. Non in nome di chissà quale lacrimevole umanitarismo, ma perché coloro che possiedono meno ci invitano a rimanere negli inizi dell’umano. È il senso del versetto evangelico: “la pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo”.
È a tempi di rinascita che ci invita tutti la festa del Natale. Non in un domani incantato, ma nel concreto dell’oggi. Lo stupore del Natale ha la forza delle origini. Ormai, “il Verbo che viene nel mondo illumina ogni uomo”, e nessun potere può più nascondere questa luce. A Natale, cantiamo l’invito ad inventare ogni giorno la fraternità umana, l’unica che può, da quel momento, dare senso alla storia.
Da Leopardi a Cordero
«Gli italiani? Schiavi dell’oggi e del futile divertimento»
Individualisti, dediti solo a svaghi e chiesa, senza sentimento del futuro: così nel suo celebre «Discorso» Leopardi dipingeva gli italiani quasi due secoli fa. Franco Cordero riprende il testo e lo legge alla luce dell’oggi
di Gaspare Polizzi (l’Unità, 27.04.2011)
Ci si interroga sull’assenza, in Italia, di indignazione contro il malcostume e l’illegalità diffusi. Certo, come gli altri Paesi dell’Occidente anche la nazione italiana è priva «d’ogni fondamento di morale, e d’ogni vero vincolo e principio conservatore della società», Nel processo di annientamento di fedi e valori della modernità gli Italiani sono però arrivati al capolinea, dissolvendo ogni principio morale e vincolo sociale in un distruttivo individualismo di massa, nel quale vige l’unico principio che suona «ciascuno fa come meglio crede».
MESSE E DIVERTIMENTI
Nella società italiana le uniche forme di aggregazione sono «il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese»: «Essi (gli Italiani) dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia». Così scriveva Giacomo Leopardi tra la primavera e l’estate del 1824 nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, negli stessi giorni in cui componeva il «terribile» Dialogo della Natura e di un Islandese. Se intendiamo il passeggio alla maniera delle distrazioni turistiche e dei viaggi, traduciamo gli spettacoli e i divertimenti nei format televisivi con giochi e veline, lasciando al suo posto secolare la Chiesa, apriamo uno sguardo impietoso sul nostro presente.
Non soltanto manca in Italia l’opinione pubblica, «regolarmente incerta e senza regola; incostante», «varia e mutabile ogni giorno», «le più volte ingiusta, favorevole al male e a’ mali», ma manca anche «ogni sorta di attività» che comporti la ricerca di un obiettivo e la «speranza nell’avvenire»; priva di illusioni e di aspettative, «or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente».
Ora Franco Cordero, in un libro prezioso (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani seguito dai pensieri d’un italiano d’oggi, Bollati Boringhieri 2011) propone una ristampa molto opportuna del Discorso, integrata da un ampio e coraggioso saggio di ricognizione su Gli ultimi due secoli della malata. Niente di più sensato del riconoscimento che il quadro antropologico descritto da Leopardi non è mutato e del fatto che, se di unità e identità d’Italia si deve tornare oggi a parlare sfruttando al meglio e per il futuro l’occasione del 150 ̊, riformulare la diagnosi di questa «malata» cronica non può che aiutare per una possibile, e sperabile, prognosi.
CINQUE CAPITOLI
Cordero ci offre in cinque ampi capitoli una rassegna ragionata di vicende che - dall’unità d’Italia a oggi - confermano e arricchiscono il quadro delle miserie italiane fornito da Leopardi, tracciano un vademecum che orienta nella società italiana, tramite cronache politiche, sociali e culturali che mettono in scena i miti d’Italia, da Carducci a D’Annunzio, da Giolitti a Prezzolini e a Papini, da Martinetti a Salvemini, e poi il Carnevale nero di Mussolini e del fascismo, per finire con i Tristia, che conducono alla resistibile (ci si augura) ascesa di un «giovane businessman d’anima concupiscente avvolta in sette pelli» che diventa «monarca assoluto della televisione commerciale», di «un pirata, nel cui lessico ‘politica’ significa dominio, lucri, impunità», che «invecchiando perde ogni cautela, torvo e violento».
Ecco il malcostume degli Italiani denunciato da Leopardi: un consenso che poggia su «spettacoli e divertimenti » («tra i suoi elettori meno d’uno su tre sfoglia qualche giornale; in compenso ingoiano almeno tre ore d’ipnosi televisiva quotidiana»). Ma si tratta del radicamento progressivo di una malattia che attecchisce perché «l’organismo italiano, malato, non sviluppa anticorpi».
Ci voleva un giurista dalla penna fine e graffiante per renderci, con contenuti rinnovati, la medesima disincantata diagnosi leopardiana, che rischia di spingere alla solitudine del metafisico, piuttosto che all’impegno del «filosofo di società». E tuttavia, «Il disincanto stimola meccanismi volitivi: non foss’altro, è questione estetica; abitiamo un mondo sordido, ritocchiamolo in meglio».
Sui costumi degli italiani. Attualità di un libro
di Nicola Tranfaglia (il manifesto, 01.04.2011)
Rileggere dopo molti anni il Discorso sopra il costume presente degli italiani di Giacomo Leopardi che è del 1824, quando massima era la depressione nella penisola ed era difficile parlare, con qualche attendibilità, di un processo risorgimentale per l’unità nazionale che doveva ancora affiorare nella coscienza nazionale, mi ricorda un seminario che tenni negli anni Ottanta nella mia università di allora, quella di Torino, cercando di far capire ai miei studenti una lingua che era già difficile per quelle generazioni ma suscitando un notevole interesse in loro e molte discussioni dopo che leggemmo insieme il saggio leopardiano e ci trovammo a far confronti e comparazioni con i tempi che vivevamo allora.
Ma fare questi confronti oggi, che l’editore Bollati Boringhieri ripropone il libro aggiungendovi un lunghissimo saggio storico-letterario di Franco Cordero, che per l’editore riproduce I pensieri di un italiano d’oggi (Torino, 2011, pp.278, 15 euro) è per molti aspetti ancora più eloquente e significativo.
Leopardi, nel suo saggio del 1824, aveva detto alcune cose che mi sembra difficile contestare o mettere in discussione, perché risaltano con grande chiarezza dalla nostra storia e che quindi vale la pena di ricordare prima di parlare più a lungo di quelli che, secondo Cordero, sono - per usare un eufemismo - «gli ultimi due secoli della malata».
«Gli italiani - scrive Leopardi - ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza, che non fa niun’altra nazione.... Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci».
E ancora aggiunge che «egli è certo che dopo la distruzione o indebolimento dei principii morali fondati sulla persuasione, distruzione causata dal progresso e diffusione dei lumi, si verifica una cosa che spesso affermata, è stata forse falsa in ogni altro tempo; che cioè nel mondo civile le nazioni, le principali città, le classi, gli individui più colti, più politi, sociali, esperimentati nel mondo, istruiti e insomma più civili, sono eziandio i meno scostumati e immorali nella condotta, e in parte ancora nei principii, cioè in quei principi di morale che si fondano sopra discorsi e ragioni al tutto umane. Tutto ciò è esattamente nell’Italia in generale, non solamente quanto alle città e alla provincie,ma eziandio quanto agl’individui e quanto alle classi, almeno a quelle non laboriose, paragonate tra loro. E forse in alcuni luoghi le classi civili si troveranno più morali, per esempio, di più buona fede, anche a quelle non laboriose, paragonate fra loro; tanto è la diffusione dei principi distruttivi della morale in Italia come altrove».
Le conseguenze di questo stato per Leopardi sono inevitabili: «Non ci meraviglieremo punto che gli italiani, la più vivace delle nazioni colte e la più sensibile e calda per natura, sia ora per assuefazione e per carattere acquisito la più morta, la più fredda, la più filosofa in pratica, la più circospetta, indifferente, insensibile, la più difficile ad essere mossa da cose illusorie, e molto meno governata dall’immaginazione neanche per un momento, la più ragionatrice nell’operare e nella condotta, la più priva affatto di immaginazione, di opere sentimentali e di romanzi e la più insensibile all’effetto di questi tali opere e generi (o proprie o straniere)».
Le conclusioni che Leopardi trae dall’esame dei costumi degli italiani sono chiare. Indica il cinismo e l’ipocrisia delle classi colte, come del popolo, i caratteri costitutivi di quella nazione e attribuisce alla mancanza di una «società stretta» la ragione di un simile stato, la condizione che genera nella nostra nazione un comportamento di cui parlerà successivamente nel suo Zibaldone come dei costumi prevalente nella nostra popolazione.
Peccato che, come osserva Cordero, nel suo lungo saggio che forma la seconda assai più lunga parte del libro, simili caratteri nei due secoli successivi non si sono modificati, anzi per molti aspetti si sono ulteriormente aggravati. Cordero rievoca nelle sue pagine, ricche di riferimenti alle vicende che hanno caratterizzato la storia dei due secoli che conducono fino ai giorni nostri, le ragioni della precisazione che ne segue.
L’autore è convinto che le classi dirigenti italiane abbiano combattuto molto poco quei caratteri costitutivi dei nostri costumi che già indicava il grande poeta di Recanati e che cinismo, furberia, ipocrisia, assenza di una coscienza civile abbiano attraversato il periodo liberale, quello fascista e tutto quello repubblicano senza sostanziali progressi. Di qui la situazione attuale che vede il nostro paese precipitato nel baratro dei populismi imperanti e diffusi non soltanto nella religione ufficiale del berlusconismo al potere ma in parte anche nella parte del paese che combatte l’attuale governo e vorrebbe un nuovo e diverso governo. Gli esempi che fa Cordero sono numerosi ed eloquenti e spaziano dalle vicende note ai retroscena che hanno caratterizzato gli esperimenti di potere dell’intero periodo repubblicano.
C’è da chiedersi fino a che punto si tratti di una diagnosi incontestabile e quali siano i fondamenti per superare la crisi attuale. Ma il libro si ferma prima, a illuminare e precisare la crisi più che a indicare rimedi possibili.
Sviluppo e ricchezza.
Scudo che limita i danni
Nel 1923 un sisma meno potente uccise 140mila persone a Kanto.
Rispetto ad allora il Giappone è cresciuto e ha investito enormemente in sicurezza
The Independent (l’Unità, 13.03.2011)
Il capolavoro di Hokusai, “La grande onda di Kanagawa”, è con ogni probabilità l’immagine più famosa donata dal Giappone al mondo. Ma l’altro ieri un tremendo tsunami ha trasformato l’immagine dell’onda da orgoglio nazionale in incubo nazionale. Il terremoto più devastante che abbia colpito il Giappone da quando si effettuano le misurazioni della magnitudo dei fenomeni sismici, ha fatto tremare l’arcipelago. La scossa sismica è stata terribile e ha prodotto come conseguenza un colossale tsunami. In queste circostanze l’uomo è istintivamente portato a cercare una spiegazione, qualcosa che possa dare ad un disastro naturale un significato comprensibile all’uomo. Ma è una ricerca vana. L’etica non ha nulla a che vedere con la tettonica a placche. Puramente e semplicemente, alcune zone del pianeta hanno maggiori probabilità di essere colpite da disastri naturali. Ma non tutte le nazioni delle aree a rischio del pianeta sono uguali. Il Giappone è uno dei Paesi più ricchi del mondo.
STORIE TERRIBILI
Nella provincia di Miyagi è stata inghiottita dalle acque una nave con a bordo operai dei cantieri navali e nella stessa provincia è “sparito” un treno pieno di passeggeri. Ma il numero delle vittime non si avvicina nemmeno lontanamente a quello di un ipotetico Paese povero colpito nella zona costiera da un terremoto di magnitudo 8,9. A seguito del terremoto di Haiti del 2010, i quartieri poveri di Port-au-Prince furono sbriciolati e sotto la macerie perirono 200mila persone. La provincia di Sichuan, in Cina, fu colpita nel 2008 da un terremoto che fece 70mila vittime. Una delle ragioni del gran numero di vittime fu il crollo di numerose scuole pubbliche costruite senza accorgimenti anti-sismici per la corruzione dei funzionari statali.
Lo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano fece circa 230.000 morti. L’epicentro del terremoto, di magnitudo 9,1, si trovava al largo della costa occidentale di Sumatra, ma non esisteva alcun sistema per avvertire le altre isole del sud-est asiatico dell’imminente pericolo. La storia dimostra che la ricchezza è importante quando si deve fronteggiare la furia della natura. Il grande sisma che colpì la regione di Kanto, in Giappone, nel 1923, aveva una magnitudo inferiore a quella del sisma dell’altro giorno, eppure provocò la morte di 140.000 persone. La differenza va individuata nel fatto che oggi il Giappone è più ricco e ha investito ingenti risorse in misure di sicurezza.
Nel 1995 un terremoto di magnitudo 6,8 colpì la città di Kobe e fece 6.500 vittime. Il bilancio dei danni fu stimato in qualcosa come il 2,5% del Pil dell’epoca. La risposta ufficiale non fu particolarmente efficace. Oggi le circostanze sono diverse. L’epicentro del terremoto di Kobe era in una zona urbana. Questa volta era in mare aperto. Non di meno la risposta ufficiale appare enormemente migliore. Quattro centrali nucleari si sono spente automaticamente non appena la terra ha cominciato a tremare. E i danni sono inferiori a quelli del 1995 dal momento che il governo ha incrementato gli investimenti per dotare il Paese di strutture ed edifici antisismici. La preparazione e la pianificazione hanno salvato migliaia di vite. Nella nostra disperata ricerca di una spiegazione, questa è probabilmente la sola lezione che possiamo trarre. Quando si tratta di disastri naturali, l’uomo può solo prepararsi ad affrontare al meglio un incubo quando diventa realtà.
*** Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Il dovere della paura
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 16 marzo 2011)
Ci sono momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l’emozione oltre che con la razionalità, perché l’emozione sveglia, incita a stare all’erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d’apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s’è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l’esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.
All’orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s’aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all’intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.
Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l’azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: «Diventa necessario il "fiuto" di un’euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che ne risulta»( Il principio di responsabilità, Einaudi ’90). Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi - come l’italiano, il francese - che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l’urgenza di correggere i piani nucleari.
Obama e Angela Merkel dicono ben altro: «Non si può fare come se nulla fosse». Non così il ministro francese dell’energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani. Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine «catastrofe», preferendo il meno allarmante «incidente grave». Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l’altro ieri a «non farsi prendere dalla paura», senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.
Apocalisse è vocabolo che s’espande come un virus, dall’inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l’omega che si ricongiunge all’alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all’oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s’esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d’ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati. In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell’uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d’un tratto s’immobilizzano, come morissero in piedi.
Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l’agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso checentrali vecchie quarant’anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventura e se la porta dentro come assillo, s’è fidata della tecnologia, non è corsa in tempo ai ripari? Ci sono grandi disastri che hanno quest’effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L’Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l’1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d’ un mondo: fondato sull’euforia tecnologica, sull’ottimismo, religioso o no.
La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolato Saggio sull’Uomo. Il verso ricorrente era: «What ever is, is right»: tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nel Candide di Voltaire: avanziamo «nel migliore dei mondi possibili».
Cadde anche l’illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la «rabbia del mare»), lo sguardo di Voltaire: «Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra». Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: «Non sempre una morte prematura è un male reale (...). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (...) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa».
Ma anch’egli pone domande che solo l’emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l’uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: «Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino», dunque la terra, perché questo tocca all’uomo. All’uomo descritto da Kant dopo il 1755: «legno storto», «mai più grande dell’uomo». Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s’è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che «il male è sulla terra», e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s’abbatte l’indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereo-avvoltoio (nell’Apocalisse griderebbe: «guai! guai!») che vola verso lo schianto.
Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un’epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s’è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell’orrore ma - all’ombra dello tsunami - visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano «Aiutami!», nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest’effigie di sé.
È la silhouette annerita dell’uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel ’45. L’incubo si stende sull’uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.
Alle radici del nostro pensiero la scossa che fermò l’Illuminismo
di Giuseppe Panissidi (Corriere della Sera, 14.03.2011)
Nel cuore pulsante della modernità, or sono due secoli e mezzo, un evento catastrofico innescò un movimento di pensiero e di coscienza che si situa alle radici vive della nostra contemporaneità: il terremoto di Lisbona del 1755. A causa della sua straordinaria potenza, pari al nono grado Richter, tra le devastazioni in Portogallo e nel Nord Africa, l’Europa tremò per sei interminabili minuti. E una straordinaria temperie spirituale, l’Illuminismo, d’un tratto si fermò, ripiegando su se stessa. A meditare intensamente e ripensare i suoi pur rigorosi paradigmi culturali, la sua stessa visione della storia e dell’uomo.
Quando migliaia di bambini muoiono sulla soglia della vita, gli uomini soffrono. E pensano. Il dibattito che si accese propone ancora domande di senso cui sarebbe difficile, oltre che insensato, sottrarsi. Classicamente, Jean-Jacques Rousseau non esita ad alzare la frusta contro la tracotanza e l’avidità degli uomini, i quali, da un lato, sfidano la natura attraverso un’ampia gamma di pratiche dissennate, come le costruzioni più ardite, destinate, presto o tardi, a rovinare su loro stessi; dall’altro, in caso di sisma, anziché cercare di mettersi subito in salvo, perdono tempo prezioso per salvare i loro averi. Eppure, secondo un emblema dell’eroismo e della gloria immortale, l’Achille omerico, «nulla vale (quanto) la vita» .
Di converso, Voltaire coglie l’opportunità storica per esaltare la dignità dell’uomo, la sua speciale capacità di elevarsi con il pensiero al di sopra di se stesso e di ogni sciagura, fino ad abbracciare il cosmo intero. Ogni responsabilità, pertanto, ricade sulla natura, che gli uomini purtroppo non possono interrogare perché muta. Sicché, contrariamente all’assunto di Leibniz, non vi sono «ragioni» per ogni cosa - «il naso non esiste per appoggiarvi gli occhiali» - in un mondo che non è «il migliore di quelli possibili» . Né punizioni divine: Candide è solo di fronte al silenzio di Dio. Ed ecco la mossa spiazzante di Rousseau: una morte prematura e «ingiusta» non è di per sé un disvalore, non è il «male», poiché può preservare da mali peggiori, i mali causati dagli uomini, i più difficili da comprendere e sopportare. Su questo terreno incrocia il percorso di Voltaire.
Il terremoto di Lisbona, invero, segna la fine di ogni ottimismo di maniera, le leopardiane «magnifiche sorti e progressive» e, nel contempo, l’alba del nostro disincanto, intriso di quella peculiare forma di realismo che Nietzsche, nella Nascita della tragedia (1872), chiamerà «pessimismo della forza» . Patente il rimando al sano e potente spirito vitale dei greci del V secolo, l’epoca delle tragedie, il cui «Sì!» alla Vita esprime la capacità di sostenere il pessimismo della tragedia, purificandosi - catarsi tragica- e attrezzandosi- pathei mathos: apprendimento mediante il dolore - di fronte alle «prevedibili imprevedibilità» della natura e della vita. Da qui anche il richiamo leopardiano alla necessità di realizzare un’istanza cooperativa interumana, un contro-movimento laterale e solidale, rispetto alla possibilità e al rischio dello «spaesamento» . E dell’annientamento.
Noi non abbiamo ancora l’esatta percezione della dimensione distruttiva del cataclisma in Giappone. E tuttavia le riflessioni meramente «tecniche» di queste ultime ore, impietosamente già tradiscono una radicale insufficienza e inadeguatezza: ri-scoperta della natura quale massima potenza, vulnerabilità della potenza tecnologica, analisi comparative condizionali (se fosse avvenuto da noi...), disquisizione sul tema della «prevedibilità» , controversia sul nucleare, «il terribile già accaduto» (Martin Heidegger), etc. Nell’oblio di un’elementare verità: credenti e non, ricchi e poveri, sani e malati, siamo ospiti (non sempre graditi), non signori del cosmo: enti naturali finiti e incompleti, fatti per (cercare di) conoscerlo e viverci nell’armonia possibile, affrancati da distopie di manipolazione e dominio, perseguite con lo scopo di «deviarne» con modalità improbabili e intrusive leggi e dinamiche. Se milioni di bambini nel mondo continuano a morire di stenti, ciò non è imputabile agli tsunami, ma a un legno storto che pretende di esibire le criticità del raddrizzamento come alibi per diventare sempre più marcio. Impunemente. Valga il vero: il marciume ci appartiene interamente, interpella e tradisce senza tregua la nostra tragica grandezza.
Con specifico riferimento al nostro angolo di mondo, il presidente della Cei ha recentemente evocato l’immagine del «disastro antropologico » e certamente alludeva anche alla nota varietà di psicodrammi. Come, vedi caso, il conflitto politica-giustizia. Dove, se il Novecento ci ha opportunamente istruiti, la vittoria della prima sulla seconda non può che tradursi in una sconfitta generale, non di questo o quel magistrato più o meno solerte. Bensì della civiltà, e di ogni pratica del rispetto: dell’idea profonda- da Cicerone a Montesquieu - del diritto e della legge come «mente» del corpo sociale e garanzia degli equilibri istituzionali. Nonché dello scopo prioritario di sostenere una comunità di condivisione sull’interpretazione dell’interesse collettivo di lungo termine della comunità civile e politica. Non sembra il modo migliore per celebrare il centocinquantesimo dell’Unità. Dopo, se e quando avremo adempiuto i nostri umanissimi doveri individuali e collettivi, morali e civili, avremo anche il diritto di imprecare contro i sismi. Non ora, non ancora, quando «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza» (George Orwell, 1984). Soltanto dopo.
Leopardi, un uomo verso l’infinito
Il cuore, la mente, il corpo e il desiderio di andare oltre il limite
di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 01.12.2010)
Da sempre, in tutti i suoi libri sugli scrittori, Pietro Citati è stato il «secondo» poeta o il «secondo» romanziere: il lettore che - come pensava Leopardi - legge un testo quasi lo avesse scritto lui, aggiungendo quello che manca, integrando, rendendo manifesto quello che il testo stesso nasconde. In questo suo ultimo libro, Leopardi (Mondadori, pagine 437, € 22), dedicato al poeta di Recanati (un libro che tutti quelli che amano e conoscono Leopardi dovrebbero leggere per poterlo conoscere e amare di più), Citati, con una furia, una passione e una umile dedizione difficili da trovare nei nostri giorni distratti dalle non-vicende della letteratura, ha superato se stesso. Perché, all’interno di una situazione carceraria terribile (quante volte corre nelle sue pagine questo aggettivo!), è riuscito a creare, o a portare alla luce, o a muovere, quello che di regola succede nei romanzi d’avventura. E cioè: l’avventura. E l’epos.
Il carcere è quello in cui Leopardi ha trascorso la sua breve e disgraziata vita: la famiglia ossessiva, il mondo chiuso di Recanati (che Citati non esita a definire «la peggiore incarnazione del male»), la malattia devastante, la sciagura del proprio corpo deforme ridotto a essere, negli ultimi anni tormentati dalla cecità e dalla impossibilità di leggere, un «tronco che sente e pena». L’avventura non è altro che l’avventura della meravigliosa mente di Leopardi e del suo cuore: essendo, la mente, quella che lo sospinge nella inesausta costruzione di un sistema del pensiero che ha l’ambizione di comprendere il Tutto e il mistero; laddove il cuore è il riparo nel quale l’anima precipita e si rifugia, nutrendosi delle sue «molli e morbide sensazioni», dopo lo scacco dell’Infinito, il rifugio nel quale, dopo il Vuoto e il Nulla, riappare la memoria (dolorosa, poiché perduta anche quella).
C’è un qualcosa di veramente maestoso (come nell’epos) e di veramente «tremendo», in questo conflitto inesauribile e continuamente contraddetto che Citati descrive: nella Resurrezione che è negata dal pensiero e risorge nel cuore; nella impresa impossibile di cogliere almeno «una goccia di infinito puro, senza che nulla di estraneo la contamini» (una impresa, scrive Citati, simile a quella di uno che «cercasse di immaginare Dio al di fuori di ogni parola, di ogni tempo, di ogni eternità, di ogni numero: un punto fermo e invisibile nel cielo»); nella volontà caparbia (e inevitabilmente contraddittoria) di dare esistenza solo ed esclusivamente al Nulla; nell’odio furioso che il poeta indirizza a se stesso, nel desiderio di autodistruggersi e abbandonarsi all’unica quiete possibile che è la quiete della morte, e insieme nel perduto, inconsolabile rinascere alla vita: segnalata dal tocco di un orologio, dal chiarore di neve in una stanza.
Il carcere dell’esistenza terrena, in una natura - dalla quale l’Età dell’Oro è scomparsa per sempre - che all’uomo è soltanto nemica e lo fissa muta semmai, di lontano, non garantisce altro che distruzione, infelicità e morte. Lo sforzo prodigioso del pensiero che contempla lo spettacolo tragico dell’universo e delle singole vite, e nel medesimo tempo cerca l’Infinito, è destinato al fallimento e si risolve in un fallimento. Il cuore, rappresentato dagli ondeggiamenti dell’anima che, dallo scacco dell’Infinito, precipita nel tempo - un viso, il suono di una voce, il canto di un uccello - non conosce che illusioni.
Tuttavia, nessuno di questi tre elementi del dramma (il carcere della vita, la mente, il cuore) avrebbe quella potenza dinamica che letteralmente lo schiaccia nell’anima di chi legge, se non ci fosse un quarto elemento a chiudere in modo inesorabile la prigione. Questo elemento, per dirla in parole semplici, è il limite. Il vero agente di ogni dramma che si svolge sulla terra. Ed è il limite che ci impedisce di vedere e di sapere (poiché il «culmine di ogni sapere è il riconoscere l’inutilità della ragione e di ogni filosofia»); il limite del ricordo che non si fa presente; il limite che contiene ogni parola e però ci garantisce che al di là di ogni al di là esiste un altrove.
GRANDE EMERGENZA, COMUNICATO DI ALVOL LOOKING HORSE
Abbiamo ricevuto questo importante messaggio di Arvol Looking Horse tramite Paula Horne. Vi invitiamo a riflettere su queste sue parole, e a onorarle. *
Ai Leaders Religiosi e Spirituali di tutto il mondo.
Parenti Miei,
E’ venuto il tempo di parlare ai cuori delle nostre Nazioni e ai loro Leaders. Io questo vi chiedo dal profondo del mio cuore: partendo dallo Spirito delle Vostre Nazioni, unitevi insieme in preghiera. Noi, dal cuore dell’Isola della Tartaruga, abbiamo un grande messaggio per il Mondo; ci spingono a parlare tutti gli Animali Bianchi che hanno mostrato il loro Sacro Colore, che sono per noi il segno che è necessario pregare per la sacra vita di tutte le cose.Mentre io vi invio questo messaggio, molti Popoli degli Animali sono minacciati: coloro che nuotano, coloro che strisciano, coloro che volano, i Popoli delle piante, tutti, alla fine, saranno danneggiati dal disastro (della perdita) di petrolio nel Golfo.
I pericoli che ci troviamo ad affrontare in questa ora non sono (dello spirito) causati dagli Spiriti. La catastrofe che si è verificata con la perdita di petrolio, simile al sanguinamento della Madre Terra, è causata da errori umani, errori che non possiamo permetterci di continuare a fare.
Io ho chiesto, come Leader Spirituale, che ci si riunisca insieme, insieme uniti in preghiera nella totalità e Globalità delle nostre Comunità. La mia preoccupazione è che questi gravi problemi continueranno a peggiorare, con quell’ “effetto domino” riguardo al quale i nostri Antenati ci hanno messo in guardia nelle loro Profezie.
Nel mio cuore, so bene che ci sono milioni di persone che pensano che l’unione delle nostre preghiere per amore della nostra Nonna Terra arrivi molto in ritardo.
Io credo che noi, come persone Spirituali, dobbiamo riunirci e concentrare i nostri pensieri e le nostre preghiere per permettere la guarigione delle molteplici ferite che abbiamo inferto alla Terra.
Poiché noi onoriamo il Ciclo della Vita, convochiamo i Cerchi di preghiera globalmente per contribuire alla guarigione di Nonna terra (la nostra Unc’I Maka in lakota).
Noi chiediamo che si preghi affinché questa perdita di petrolio, questa emorragia, finisca; affinché i venti stiano quieti, così da collaborare in questa opera.
Preghiamo affinché le persone siano guidate mentre tentano di riparare all’errore, e preghiamo perché tutti cerchiamo di vivere in armonia, nel momento in cui scegliamo di mutare il distruttivo sentiero sul quale ora stiamo camminando.
Pregando, arriveremo alla completa comprensione del fatto che siamo tutti connessi gli uni agli altri, e che quello che noi creiamo e facciamo ha effetti durevoli su tutto ciò che esiste. Quindi, uniamoci spiritualmente: Tutte le Nazioni, Tutte le Fedi, Una Preghiera.
Insieme con questa preghiera chiedo anche per favore di ricordare il 21 Giugno quale Giorno della Pace nel Mondo e Giorno in cui si onorano i Sacri Siti: sia che siano siti naturali, o templi, o chiese o sinagoghe o semplicemente il “vostro” particolare posto sacro, recitiamo una preghiera per tutto ciò che vive, perché le nostre Nazioni prendano buone decisioni, per il futuro e il benessere dei nostri figli e delle generazioni che verranno.
Onipikte (Così Che Noi Possiamo Vivere),
Chief Arvol Looking Horse, 19° Generazione dei Custodi della Sacra Pipa della Donna del Vitello di Bisonte Bianco
(Traduzione a cura di Camilla Novelli)
* Fonte: Nativi americani
Natura violenta e violentata
di LORENZO MONDO (La Stampa, /5/2010)
Il vulcano Eyjafjalla ha ripreso ad eruttare la sua nube di cenere in modo intenso e minaccioso. Già ci ha fatto assistere a un evento inaudito, quasi a una grandiosa simulazione di crisi: ha costretto cioè le nazioni d’Europa a sospendere per alcuni giorni il volo degli aerei, rimettendosi all’uso di treni e automobili. I disagi delle persone rimaste a terra e le gravi perdite economiche delle compagnie aeree hanno distratto dalla portata simbolica dell’avvenimento. Infatti è sembrato quasi un avvertimento, emesso da una esigua porzione di terra, impastata di ghiaccio e di fuoco, agli uomini che hanno orgogliosamente colonizzato il cielo. Si pensa a cosa potrebbe accadere nel consorzio civile se il fenomeno si estendesse per un maligno complotto di bocche vulcaniche, che aggiungesse nuovi disastri ai più consueti, devastanti terremoti o nubifragi.
Senza indulgere a visioni apocalittiche, siamo indotti a riflettere leopardianamente sulla precarietà delle «umane sorti e progressive», a rinnovare e rinforzare il patto di solidarietà nei confronti dell’«umana compagnia». Non altro ci è dato, apprestando i possibili ripari, contro una natura che sa rivelarsi matrigna. Ma un altro evento, verificatosi a breve distanza di tempo, colpisce a contrasto la nostra immaginazione. Nel Golfo del Messico è il fondo del mare, violato sconsideratamente dalle trivelle dell’uomo, che erutta petrolio. L’untuosa marea nera semina inquinamento e distruzione lungo le coste d’America, nel paradiso naturale costituito dal delta del Mississippi. Muoiono i delfini e i pellicani, gli alligatori e le tartarughe, si disperano le genti rivierasche private delle loro risorse ittiche e turistiche. Sembrerebbe che basti e avanzi l’imponderabile, senza che l’uomo ci metta del suo venendo meno, per avidità e tecnologica presunzione, a ogni senso del limite.
I responsabili dell’immane sciagura promettono di risarcire il danno, ma si tratta di un’altra manifestazione di tracotanza perché il male, già difficilmente quantificabile in termini finanziari, non può restituire alla vita ciò che è andato irrimediabilmente perduto. Là dove la natura mostra il suo volto innocente e benigno, provvede l’uomo a sfigurarla e, si direbbe, a provocarla.
Per i napoletani è una presenza familiare
IL VESUVIO SOPRA DI NOI
di Erri De Luca (la Repubblica, Diario - 22.04.2010)
Ce n’è di sommersi in dorsali oceaniche, di sparsi sulle coste del Mediterraneo e uno di loro occupava tutto il campo d’orizzonte di una mia finestra d’infanzia. Dormivo in una stanza piena dei libri di mio padre, impilati da pavimento a soffitto, ho avuto i sonni ovattati dal loro spessore. Al risveglio alla finestra c’era il Vesuvio, la sagoma arrotondata di un polipo di pietra accovacciato sopra un golfo perfetto. Alto 1200 metri sopra il mare, per tentacoli aveva le colate di lava irrigidita, che si allungavano fino alle rive. A giugno s’ingiallisce di ginestre.
La città Neapolis, prima greca, poi latina, bizantina, sveva, normanna, francese, spagnola, sdraiata alle pendici occidentali del vulcano, si era data un santo specializzato in lave. San Gennaro portato in processione incontro ai fiumi roventi, li arrestava. Lo squaglio miracoloso del suo sangue sotto vetro, simulava il liquido eruttivo e lo ammansiva.
L’ultima sua dimostrazione di esercizio fu nel marzo del ‘44, a guerra appena passata. Napoli aveva incassato il maggior numero di incursioni aeree, tra le città d’Italia, il Vesuvio non se la sentì di aggiungere altro fuoco. Eruttò senza effetto di catastrofe, ma con spargimento di ceneri, costringendo a salire sui tetti a scoparla via per non farli crollare.
Più della neve, la cenere, la polvere portano il peso del mondo. Le notti della prima primavera di pace avevano sulla cima del vulcano il lume rosso acceso, per mia madre il simbolo della libertà, molto più bello e grande di quello sulla statua innanzi al porto di New York.
Piazzato a oriente della città, il vulcano ne orientava gli incubi. Ogni napoletano, pure rinchiuso in una cella di Poggioreale, sa dove sta ‘o Vesuvio. Gli fa da bollettino: se ha nuvole a cappello, mette mano all’ombrello. Se lo sogna spento, gioca il 73, se in eruzione allora 84, se butta fumo gioca il 78. La città scherza, piglia in giro se stessa e il mondo intero, ma non si permette nessuna confidenza col vulcano. Sui fianchi si è ammucchiata la folla di un milione di abitanti d’azzardo. L’umanità si piazza spesso in avamposti avventurosi, lì sta a cavallo dell’orco.
La terra ha forze che buttano gambe all’aria la legge di gravità. Esiste energia che spinge dal basso verso l’alto, i vulcani sono questo slancio che scaraventa il sottosuolo al cielo. Una poeta russa, Marina Cvetaeva, chiama queste forze tiagà nebèsnaia, attrazione celeste. I vulcani aggiornano la notizia che la terra non appartiene alla specie umana. Essa è inquilina, sottoposta a sgomberi, a cancellazioni di residenze e anagrafi. La terra è piccola, un solo vulcano in Islanda sparge colonne di ceneri nel Mediterraneo.
La terra è un corpo vivo, sussulta, sposta continenti, innalza catene montuose, disfa isole e ne forma di nuove, innalza i mari o li prosciuga. La terra mischia l’impasto delle viscere in fiamme con il cielo. Da lì ha ricevuto semi di vita caduti dalla coda di ghiaccio di comete. La terra ha inventato la formula dell’acqua, combinando due parti di idrogeno con una di ossigeno. Due gas che se accostati esplodono, si sono ritrovati nella goccia, la materia prima della vita. L’acqua è il loro trattato di pace.
Buffa e triste la presunzione di chi ne pretende il possesso, mettendo alle sorgenti il cartello di proprietà privata. Vorrebbe dimostrare diritto di possesso sulle nuvole, sulla neve, sulla pioggia. Non vuole ammettere di essere uno sputo di passaggio, la creatura umana, ogni volta trasecola di fronte all’evidenza di essere una pulce ammaestrata. È mia, è mia, strepita come un bimbo con la palla. Invece niente è suo, niente dura nel pugno del possesso. Amo ogni forza che me lo ricorda, amo i vulcani e tutta la magnifica energia che costringe il ritorno all’umiltà.
Filosofia naturale Il cosmo rivelato dagli scrittori
Una «ininterrotta linea galileiana» da Dante all’Ariosto, da Leopardi a Calvino, fino a Gadda... I poeti sono strumenti di diffusione democratica del sapere. Ci spiega il perché un saggio del filosofo Mario Porro
di Pietro Greco, Gaspare Polizzi (l’Unità, 23.04.2010)
Se avesse scritto il suo saggio per la Letteratura italiana diretta da Asor Rosa per Einaudi - ricorda Mario Porro nel suo Letteratura come filosofia naturale (Medusa, Milano 2009) - Calvino lo avrebbe intitolato La letteratura e la filosofia naturale, e in un saggio del 1969 definiva Gadda l’ultimo «filosofo naturale». L’espressione per molto tempo è stata sinonimo di «scienza»: Newton scrisse i Principi matematici della filosofia naturale e ancora nel 1970 Monod sottotitolava la sua opera più nota - Il caso e la necessità - Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea. Ma la corrispondenza tra letteratura e «filosofia naturale» apparve allora, e lo è ancor oggi, provocatoria, forse soltanto perché molti «intellettuali» trascurano di guardare alla dimensione «naturale» presente in ogni narrazione.
Basterebbe ricordare come il rapporto tra cosmologia e letteratura permetta di ricostruire - è ancora Calvino che scrive - «una ininterrotta linea galileiana», che si estende da Dante ad Ariosto, Galileo, Leopardi e Calvino stesso, tutti scrittori cosmici e «lunari».
LUCREZIO
Dante è, con Lucrezio, il «poeta della scienza». Perché nella sua Commedia riesce a raccontare, come Lucrezio, tutta la scienza e tutto il dibattito scientifico del suo tempo. Un esempio per tutti: nel secondo Canto nel Paradiso ci sono tutte le conoscenze del tempo sulla Luna e sulla sua natura. Il Paradiso stesso è un compendio della cosmologia di Aristotele. Ma Dante è anche il primo e il più potente teorico di quel ménage a trois tra letteratura, filosofia e scienza di cui parla Calvino. E basta leggere il Convivio per rendersene conto. La conoscenza, inclusa la conoscenza della natura, spiega Dante, è l’aspirazione più nobile della natura umana: quella, razionale e angelica, che rende l’uomo simile a Dio.
Purtroppo molte ragioni impediscono all’uomo di indossare «l’abito di scienza». La letteratura e, in particolare la poesia, sono strumenti utili a coloro che sono impediti se non proprio di sedersi al tavolo degli angeli, almeno di gustare le briciole del pane della scienza che vi viene spezzato. Il poeta, dunque, è strumento di diffusione democratica del sapere.
Anche Galileo si porrà il tema della diffusione della scienza - della filosofia naturale - tra il pubblico dei non esperti. E soprattutto dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius, il 12 marzo 1610, svilupperà la sua pericolosa idea: «comunicare tutto a tutti». Perché intuisce che o la filosofia naturale diventerà patrimonio di quell’opinione pubblica che proprio nel Seicento inizia a nascere o rischierà di perdere la sua partita.
Galileo ha un legame molto stretto - da autentico studioso, da critico direbbe Panofsky - con Dante e con Ariosto. Peraltro anche il legame tra Galileo, Leopardi e Calvino è intrigante: Calvino esalta la dimensione cosmica e «lunare» di Leopardi, confessando ad Antonio Prete (1984) che le Operette morali «sono il libro da cui deriva tutto quello che scrivo» (e pensava alle Cosmicomiche), ma impara anche da Leopardi a scegliere tra i passi galileiani, come avviene con il saggio Le livre de la nature chez Galilée (1985), nel quale alcune scelte corrispondono a quelle di Leopardi nella Crestomazia della prosa (1827), la prima antologia letteraria italiana, contenente a sua volta la prima antologia di prose di Galilei.
Per Calvino «l’opera letteraria come mappa del mondo dello scibile» è «una vocazione profonda della letteratura italiana», effetto di «una spinta conoscitiva che è ora teologica ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di filosofia naturale ora di osservazione trasfigurante e visionaria» (1968). Ma non si tratta di una vocazione solo italiana.
Lo dimostra il prezioso Piccolo atlante celeste. Racconti di astronomia, curato da Giangiacomo Gandolfi e Stefano Sandrelli (Einaudi, Torino 2009), che ci conduce alle più diverse forme di narrazione cosmica, dall’Atlante celeste al Sentimento del cielo, alle figure di Astronomi e ai racconti di Cosmologie, in compagnia di Asimov, Bellamy, Bradbury, Collins, Cortázar, Daudet, Høeg, Lem, Munro, Queneau, Stifter, Theuriet, Updike, Vukcevich, Wells (per citare soltanto gli stranieri), «un piccolo atlante per orientarci negli abissi dello spazio, in bilico tra finta scienza, vera scienza, delicate emozioni, artificio poetico, conquista tecnologica e inventiva luddista» (p. VIII), nella convinzione che ciò che accomuna scienza e letteratura è «cercare la misura dell’uomo», «adagiare su un foglio l’incommensurabile», «guardare in faccia il mondo» (p. XIV).
GADDA E LEIBNIZ
Ma la «filosofia naturale» è ancora più ampiamente letteraria nelle grandi narrazioni, nel grand récit (proposto da Michel Serres), che ha da sempre convissuto con la scienza, bisognosa, quando esce dal formalismo algoritmico, di ricorrere al pensiero figurale, all’analogia e alla metafora. E lo dimostra bene ancora Porro seguendo Gadda nel suo pensiero della complessità, modellato su Leibniz e illuminato dalla teoria dei sistemi e dalla cibernetica, o Primo Levi nel suo materialismo chimico.
Abbiamo bisogno di nuove mitografie, per comprendere meglio qual è il nostro posto nella natura e per cancellare il mito di una scienza esente dal mito. E la letteratura ha visto bene come le costanti mitiche irrorano la conoscenza e la scienza, come l’immaginario viene sempre rinnovato e rimodellato dai nuovi spazi aperti dalla «filosofia naturale».
A sessant’anni dalla scoperta del laser, sarebbe curioso leggere nuove «osmicomiche», che narrino ad esempio la vicenda della valigia coperta di specchi speciali, depositata sulla superficie della Luna da Amstrong e Aldrin il 20 luglio 1969, e che ancora riflette i raggi laser lanciati dalla Terra per misurarne la distanza al centimetro.
Se l’inferno non fa notizia
di Moni Ovadia *
Le proporzioni apocalittiche dell’immane tragedia che ha percosso senza pietà l’isola di Haiti e la sua gente lasciano senza fiato, sgomenti. Una rabbia impotente ci assale di fronte alla terribile ingiustizia di una natura che colpisce con il vertice della sua brutalità l’indifesa sofferenza dei più poveri, dei vinti. Dalle nostre fibre più intime sorge una ribellione all’idea che qualcuno possa avere la tentazione di appellarsi alle ineffabili ragioni del trascendente.
Un terremoto di tale intensità probabilmente travolgerebbe anche le precauzioni antisimiche del più ricco dei Paesi, ma per i poveri che consumano la vita nella tragedia di un esistenza senza dignità e giustizia, la violenza della terra che si scuote come un bufalo impazzito è una violenza doppia perché illumina spietatamente anche la brutalità degli uomini di un potere che impone ai propri simili disperazione, povertà e soggezione. La tragedia provocata dalla natura indifferente alle sofferenze umane provoca un’immediata reazione di solidarietà per le vittime, una solidarietà immediata diffusa, sollecita anche nei più distratti una vocazione ad essere pietosi e generosi. L’identificazione con chi soffre è ineludibile, perché se è vero che la natura matrigna predilige gli ultimi, sa colpire anche i primi, non conosce i privilegi di classe.
Ciò che è frustrante davanti a tanto dolore è che non ci sia la stessa identificazione con l’orrore della morte per fame e per sete di milioni di bimbi che si ripete con puntualità inesorabile ogni anno, forse perché quella tragedia non è provocata dal cinismo della natura ma dalla ferocia di uomini che adorano il dio privilegio i quali riescono sempre a farsi assolvere grazie alla patologia percettiva della massa grigia: pietà davanti alla “spettacolarità” del terremoto, indifferenza per lo stillicidio dello sterminio provocato dai potenti.
* l’Unità, 16 gennaio 2010
Folin e il dolore di Leopardi nei canti dell’addio
di FRANCESCO TOMATIS (Avvenire, 17.01.2008)
È ancora possibile il saluto nell’età del nichilismo? Questo interrogativo viene posto da Alberto Folin, docente di Scritture e poetiche all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in un suo recente libro attraverso approfondite e suggestive letture di Giacomo Leopardi, autore a cui ha dedicato nel corso del tempo ampia parte dei suoi studi e scritti ( ricordiamo Leopardi e la notte chiara, 1994, e Pensare per affetti: Leopardi, la natura, l’immagine, 1996, come l’ultimo pubblicati da Marsilio).
Nel volume Leopardi e il canto dell’addio, Alberto Folin ricorda come la parola ’ saluto’ ricordi in sé la stessa tradizione cristiana, poi consacrata letterariamente nella poesia romanza. Infatti salutare qualcuno significa augurargli la salute, sperare nella sua salvezza dal nulla. Di più ancora, nel saluto estremo, quello dell’addio, ci si rimette alla fede in un comune destino, affidandosi alla resurrezione che vedrà dunque escatologicamente tutti affiancati e vicini accanto a Dio, amici diversi ugualmente fratelli presso il Padre.
Salutare comporta allora il riconoscimento della fragilità della nostra vita mortale, dell’amicizia fra persone e persino dell’amore più intenso e puro, tuttavia nella speranza dell’indissolubilità dell’unione spirituale, attraverso la fede nella resurrezione di tutti i corpi mortali accomunati uno ad uno e simultaneamente assieme in Dio. Ma oggigiorno, allora, è ancora possibile saluto vero?
Risuona tale interrogativo già, e quanto profondamente, in Giacomo Leopardi. Secondo Alberto Folin il poeta recanatese risulta ancora una volta cruciale nella comprensione non di sola superficie della modernità, la quale dall’illuminismo al nichilismo desertifica la fonte di salvezza e di saluto, decretando la ’ morte di Dio’ e l’impossibilità di sperare oltre la mortalità.
Facendosi canto, il dire leopardiano rinuncia alla piena comunicazione, eppure proprio per questo tanto più riesce a testimoniare del dolore umano, creaturale in genere, serbandolo e salvandolo ad un infinito imponderabile eppure imprescindibile.
Come l’usignolo virgiliano canta il lamento per i suoi piccoli perduti adagiato su di un ramo - suggerisce con fine filologia Alberto Folin -, così Giacomo Leopardi solleva i suoi Canti, il suo vero e proprio ’ canto dell’addio’, che rinunciando anticipatamente a qualsiasi risposta certa, grida di gioia e dolore assieme la propria condizione mortale, testimoniandone la fragilità e serbandone di fronte all’infinito la umile ricchezza.
Alberto Folin
Leopardi e il canto dell’addio
Marsilio
Pagine 216, Euro 22.00
IL CONVEGNO
A Recanati quattro giorni con studiosi di tutto il mondo
Leopardi antropologo. l’Oriente oltre la siepe
La scrittura del poeta muove spesso da una prospettiva antropologica, che si affida di volta in volta all’altro, all’antico, o al lontano... come accade per i versi orientali che scorrono nella sua lingua. È l’inzio di una nuova stagione di studi leopardiani? Forse sì...
di Antonio Prete (l’Unità, 23.09.2008)
Torna a Recanati, dopo quasi un decennio, un grande convegno internazionale organizzato dal Centro Nazionale di Studi Leopardiani. Da oggi a venerdì si discuterà su La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi. Aprirà il convegno, nell’aula Magna del Comune, Antonio Prete con un intervento su «Nomadismo dello sguardo e pensiero dell’alterità. Sull’antropologia poetica di Leopardi». A seguire Pietro Clemente («Comparazioni immaginative: Leopardi preantropologo»), Ernesto Miranda («Sulla natura degli uomini. Leopardi e l’antropologia filosofica»), Gilberto Lonardi («Prima della scrittura: il “qualunque”, il lontano, il canto con le ali del pastore dell’Asia»), Perle Abbrugiati («Se ben vi si guardasse. La critica leopardiana del pensiero a priori, tra filosofia e antropologia»). E ancora Marco Moneta («Dal bosco a civiltade. Antropologia e storia in Leopardi»), Alessandra Aloisi («Esperienza del sublime e dinamica del desiderio in Giacomo Leopardi»), Gilda Policastro («La ragion perché i morti ebber sotterra.... Per un’antropologia dell’Ade»). Nei giorni successivi interverranno, tra gli altri, Jean-Charles Vegliante, Joanna Ugniewska, Nicola Feo, Giulio Ferroni, Sebastian Neumeister, Massimo Natale, Michael Caesar, Gaspare Polizzi, Stefano Biancu, Maurizio Bettini, Gianni D’Elia, Alberto Folin, Marino Niola.
Il convegno che si apre oggi a Recanati ha per tema La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi. Per quattro giorni studiosi non solo italiani, e appartenenti a generazioni diverse, si incontreranno intorno alla grande esperienza di colui che della modernità ha colto, con straordinaria passione critica, il gioco delle maschere, il dominio dell’opinione e del danaro, le forme di astrazione e di violenza, la dimenticanza del «poetico», e dunque del vivente e corporeo, la trama resistente dell’egoismo e gli stili di sopraffazione.
Questo convegno, proposto dal Centro nazionale di studi leopardiani (ora rinnovato nel suo Comitato scientifico, diretto da Lucio Felici, e con la nuova presidenza del sindaco di Recanati, Fabio Corvatta) è dedicato alla memoria di Franco Foschi, che per vent’anni del Centro studi è stato Presidente attivissimo e solerte.
Nella grande Sala del Palazzo comunale di Recanati - inaugurata nel 1898 con una prolusione leopardiana di Carducci - si succederanno letture e interpretazioni: il vero soggetto della scena sarà, dunque, la scrittura leopardiana. Con la sua distanza da ogni sistematica e dottrinaria postura. Con le sue variabilissime forme (il testo poetico, il frammento teorico, il dialogo, il saggio, la lettera, l’indagine filologica, la traduzione). Con la sua libertà inventiva, che sempre prelude e domanda e mai si acquieta. Con la sua singolare capacità di unire meditazione e canto, interrogazione sul tragico dell’esistenza e invenzione poetica.
I convegni leopardiani a Recanati hanno scadenza quadriennale: per qualche giorno, nella città di vento e di pietra, dove la luce giunge, da una parte, dal mare, e dall’altra, dalla sconfinata onda collinare, accade che gli incontri di studiosi e le discussioni diano origine a solide amicizie intellettuali e anche a concreti progetti di ricerca. Molto devono gli studiosi a quegli incontri (quanto alla mia esperienza, tra tanti nomi, voglio fare quelli di Cesare Luporini e di Giuseppe Pacella).
Questo convegno cade in un momento in cui la presenza di Leopardi nelle diverse lingue appare consolidata nel solo modo per dir così duraturo, cioè attraverso le traduzioni, le edizioni, i commenti. Da pochi anni, presso Allia, è uscita l’edizione francese di tutto lo Zibaldone, nella traduzione di Bertrand Schefer. Le edizioni Allia - quasi in analogia a quello che in Italia hanno fatto Boringhieri per Freud e Adelphi per Nietzsche - hanno tradotto quasi tutto Leopardi: l’anno scorso è uscito l’intero Epistolario, nella bella traduzione di Monique Baccelli. È ora in corso la traduzione inglese dello Zibaldone, affidata a un’équipe diretta a Birmingham da Mike Caesar e Franco D’Intino. E il progetto di una traduzione spagnola dello Zibaldone sta per muovere i primi passi in Spagna, a cura di Blanca Muñiz che aveva già tradotto e commentato i Canti.
Tornando al tema del convegno, si potrebbe dire che nelle rappresentazioni dell’antico, della sua poesia, dei suoi miti, nella ricerca assidua intorno ai modi della civilizzazione, nello sguardo sui rapporti che intercorrono tra individui e nazioni, tra popoli e lingue, la riflessione di Leopardi muove spesso da una prospettiva antropologica. Anzi quella prospettiva per molti aspetti inaugura o contribuisce a definire. Ma, come accade per il rapporto tra filosofia e poesia, anche per il rapporto tra antropologia e poesia, ogni distinzione di genere è destinata a naufragare: lo sguardo antropologico, cioè quello sguardo capace di dislocarsi ogni volta nel punto di vista dell’altro, o del lontano, o dell’antico, o del fanciullo, o del cosiddetto primitivo, non si fissa in nessuna forma disciplinare o di sapere precostituito, e si affida di volta in volta alla narrazione, al dialogo, al frammento, al ritmo della poesia. Se le forme di questo sguardo hanno qualche precedente, esso va cercato nella capacità di incantamento degli antichi, nella grande tensione comparativa di Vico - nella sua genealogia della conoscenza -, nell’affabulazone critica di Montaigne, dei suoi Essais.
Per Leopardi la disposizione etnografica negli studi adolescenziali - dalle Dissertazioni filosofiche alla Storia della astronomia al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi - non è mai abbandonata, e l’interesse per le rappresentazioni di culture e popoli lontani trascorre in molti passaggi dello Zibaldone. Singolare è, in questo senso, l’attenzione alle cronache del Nuovo Mondo. Non solo è criticata in più occasioni la «pretesa perfezione» della nostra civiltà, la quale sulla miseria dei molti fonda il benessere dei pochi, ma è rifiutata l’opposizione tra barbarie e civiltà («E generalmente noi chiamiamo barbaro quel ch’è diverso dalle nostre assuefazioni ecc.» ). Ed è rovesciato il senso delle immagini che gli europei hanno dei «Californi»: in analogia a quanto aveva fatto Montaigne nel saggio su Les Cannibales, a proposito dell’idea europea di sauvage, idea riportata alla sua vera radice, cioè intesa come relazione spontanea con la natura, sottratta dunque all’opposizione con «civilizzato».
Per Leopardi non solo il lontano, ma anche il vicino è oggetto di un’attenzione antropologica: va ricordato il rilievo che il poeta dà alle tradizioni popolari, in particolare a quelle marchigiane, al loro rapporto con l’oralità, il canto, la musica, la poesia. Racconto fantastico dell’etnos e critica della civiltà, delle sue credenze, si uniscono nelle Operette morali: dalla Storia del genere umano alla Scommessa di Prometeo al dialogo della Moda e la Morte al Tristano il sapere della civiltà mostra la sua astrazione dal corpo, dai sensi, dal desiderio. E si dovrebbe ancora dire, nell’orizzonte di un’antropologia critica, del particolare orientalismo di Leopardi, di fatto assai poco studiato sino ad oggi. L’Oriente è per Leopardi una figura dello sguardo. Un principio di alterità. Da assumere come soglia per la critica. Ha la stessa funzione che ha la lontananza. Ci sono, nella scrittura leopardiana, passaggi rilevantissimi su un’idea di poesia «orientale» - accesa, piena di vita e di immaginazione, fortemente metaforica -, sulla poesia biblica e l’Oriente, sugli alfabeti orientali e il loro rapporto con le vocali, intese come le vere animatrici «di tutta la favella», e che di fatto scorrono in tutto il corpo della lingua «come il sangue per le vene degli animali». La stessa antropologia del male, quando nello Zibaldone si dispiega come meditazione sul «Tutto è male», è affidata allo sguardo di «un filosofo antico, indiano...».
L’origine, poi, della poesia, è osservata nella relazione tra memoria, oralità e canto. L’idea della radice musicale e popolare della poesia, del rapporto tra la voce e il ritmo, tra l’oralità e il verso non abbandonerà mai Leopardi e mostrerà del resto i suoi riflessi nella stessa poesia dei Canti. In particolare il Canto notturno di un pastore errante nell’Asia raccoglierà i tanti motivi fin qui esposti (l’occasione stessa di quel canto è dovuta, si sa, a una notizia antropologica sui canti lunari e malinconici dei nomadi Kirghisi). E si dovrebbe ricordare lo studio leopardiano, nello Zibaldone, sul ruolo che ha l’assuefazione nella formazione delle opinioni, del gusto, e nelle rappresentazioni dell’altro. E ancora: lo studio della lingua e delle lingue dal punto di vista dei rapporti tra le culture, i popoli, i caratteri nazionali. La comparazione tra la società italiana - usanze, convenzioni, caratteri, uniformità, morale pubblica - e le società di altre nazioni «civili», così come appare nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani. Infine la riscrittura dell’idea di animalità, di linguaggio e pensiero animale, come prende forma al margine della lettura dell’Histoire naturelle di Buffon. Tutti motivi che il convegno recanatese esplorerà, avviando, c’è da augurarsi, una nuova stagione di studi leopardiani.
Recanati, una studentessa, durante le ricerche per la tesi, scopre alcuni scritti sconosciuti del poeta. Testi dell’infanzia, con motivi biblici e cristiani, che assieme ad altri giacciono lontano da occhi indiscreti
Giallo Leopardi: gli inediti giovanili sui Salmi e i Vangeli
Un testo commenta il salmo 56: «Torbida, e fosca tra l’atre caligini, che d’ogni intorno la cingono volvesi taciturna la notte. Un cupo orrore si stende per tutto, e le più dense, e oscure tenebre regnano d’ogni parte...» Un altro scritto riguarda l’Ecclesiaste, un altro ancora il Vangelo di Marco
di Andrea Paganini (Avvenire, 22.09.2008) *
il sogno di tanti ricercatori: una scoperta dal sapore eclatante, un Èritrovamento dalle trame romanzesche; è storia dei nostri giorni. Il colpo grosso - e parlando di Giacomo Leopardi di un colpo sensazionale si tratta, pur avendo a che fare nello specifico con scritti minori e giovanili - è capitato a una giovane ricercatrice campana, Carla Pagliarulo, laureata in filologia moderna presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Durante le sue ricerche per la tesi ha infatti rinvenuto in Casa Leopardi alcuni scritti inediti del più grande poeta italiano dell’Ottocento. Si tratta di composizioni risalenti all’infanzia e, più precisamente, di alcune carte finora sconosciute apparentemente persino alla famiglia, raccolte in una cartella insieme alle riproduzioni fotografiche degli altri scritti puerili, già noti. Il ritrovamento è avvenuto, per così dire, sotto l’imprevedibile regia del ’ caso’ e la studiosa ha potuto consultare i documenti solo per poco tempo. Di norma non è in effetti ancora possibile prendere diretta visione dei manoscritti leopardiani di quei primi anni di attività creativa ( 1809- 1811), eccezion fatta per qualche quaderno portato alla luce da Maria Corti negli anni Settanta, attualmente sotto vetro in una delle stanze visitabili della casa di Recanati.
Le foto in questione sono state recentemente trasferite dal Centro Nazionale di Studi leopardiani alla Casa della famiglia Leopardi, forse a conoscenza di carte ancora inedite. D’altro canto a uno studioso che visita il Centro non è consentito consultare le fotoriproduzioni degli autografi, che pure sono lì conservate. C’è da chiedersi se tale riservatezza sia utile a qualche finalità scientifica o se non sarebbe più opportuno, da parte dei responsabili, agevolare l’accesso al fondo per favorire il lavoro dei ricercatori, anche ai fini di una doverosa conoscenza esaustiva di Leopardi.
Pagliarulo, che per la sua tesi di laurea ha effettuato uno studio approfondito sugli scritti puerili del Poeta di Recanati, ha immediatamente notato l’eccezionalità delle carte che - in modo inatteso e insperato - si è trovata tra le mani e che, a un’attenta analisi, sono risultate sconosciute e inedite.
Il primo scritto in questione occupa sette fogli in formato A4. Si tratta di un commento a dei versetti del Salmo 56 ( come indicato dall’autore in testa alla prosa), forse accostati nella Liturgia delle ore all’inno 27: « Notte, tenebre e nebbia, / fuggite: entra la luce, / viene Cristo Signore. II Il sole di giustizia / trasfigura ed accende / l’universo in attesa » .
Ecco le prime righe: « Torbida, e fosca tra l’atre caligini, che d’ogni intorno la cingono volvesi taciturna la notte. Un cupo orrore si stende per tutto, e le più dense, e oscure tenebre regnano d’ogni parte. Il cielo ricoperto di nere nubi più non diffonde splendore alcuno, e fra l’opaca nebbia, da cui mirasi avvolta la terra non odesi, che il gemito lamentevole del gufo urlante, o dell’upupa dogliosa.
Ma squarciasi ad un tratto all’apparire del lucido Pianeta l’orrido manto, che oscura, e ricopre l’azzurra faccia del cielo, e tosto vedonsi indorate dal vivido fulgore le rilevate cime de’ monti, e per ogni parte miransi diradate le nere caligini, e le opache tenebre della notte, che incalzata per ogni intorno dai splendidi raggi del sole, che sempre più crescendo tutto l’aspetto illuminano dell’emisfero fugge e sgombra lascia la terra fra i benefici influssi del sublime pianeta » ( corsivo della studiosa).
Importanti indizi lo fanno ritenere leopardiano: la grafia anzitutto, e poi la vicinanza non solo tematica, ma anche formale con altri componimenti risalenti agli anni del suo apprendistato letterario. Tra questi - osserva Pagliarulo - sono numerosissimi i notturni accostabili al nostro: dalle prime Prose - tra cui una Descrizione del sole e dei suoi effetti, dove « tramonta il sole, ed ecco spandersi le oscure tenebre. Tutto il bello sparisce, e mesto silenzio, e tetro orrore regna per tutto » - alla quinta delle canzonette su La Campagna - « d’opache e folte tenebre / già si adombra ogni altro monte » -. Anche nei primi idilli leopardiani in endecasillabi sciolti, La Spelonca e La Libertà latina difesa sulle mura del Campidoglio, che tutto hanno da invidiare agli Idilli successivi, non manca l’immagine della notte che ricopre ogni dove con il suo manto di tenebre.
Del resto l’incipit - rileva la giovane studiosa che desidererebbe poter indagare a fondo su questi documenti - non può non richiamarne un altro, quello della Tempesta notturna cantata nella sesta sezione del Catone in Affrica: « Fra l’atre, oscure tenebre, / fra il mesto, e cupo orrore / notte su l’ali tacite / avvanzasi dell’ore, / e sovra il mondo intero / superba stende il plumbeo scettro altero. / In dolce quiete placida / giace natura avvolta; / tutto d’intorno ottenebra / densa caligin folta; / un nubiloso velo / d’ogni parte ricuopre, e terra, e cielo » . Versi che pure si ripropongono nell’ottavo componimento della stessa raccolta: « S’asconde il sole; un nero / oscuro manto infra l’opaco orrore / vedesi intorno ottenebrare il cielo, / regna dal soglio altero, / e lo scettro leteo stende il sopore; / tutta cuopre natura un denso velo; / giace la terra in cieco obblìo sepolta » .
Conoscendo l’uso del poeta fanciullo di comporre prima in prosa le sue riflessioni per poi versificarle, le poche righe trascritte rivestono un notevole interesse filologico. Anche il secondo testo ritrovato dalla giovane ricercatrice ( otto fogli di prosa italiana) costituisce una riflessione che s’apre alla mente dell’autore prendendo le mosse da una citazione biblica: « In fide, et lenitate ipsius sanctum fecit illum » ( Eccl., XLV, 4). Pagliarulo rileva giustamente che le parole dell’incipit - « L’uomo la più nobil creatura, che uscita sia dalle mani dell’onnipotente [...] » - sono contenute in una delle Dissertazioni filosofiche, Sopra l’anima delle bestie, dove sono però inserite in corpo di testo e non seguono la frase latina citata. Il nostro testo potrebbe insomma costituire un primo ragionamento poi rielaborato nella Dissertazione, scritta in quegli stessi anni 1811- 1812, tanto prolifici di sperimentazioni.
Carla Pagliarulo segnala ancora un intero quaderno che sembra essere sfuggito agli occhi di quanti finora hanno compiuto ricerche leopardiane. È risaputo che il giovanissimo poeta raccoglieva i suoi scritti con ordine quasi maniacale in quaderni che dovevano assomigliare per quanto possibile a un libro, con frontespizio talvolta dotato di disegni geometrici o floreali a penna. Delle 24 carte fotografate che costituiscono il testo in questione, la prima reca il titolo: « Lo spettatore dello spettatore inglese. Quaderno I » . I fogli di carta da lettera sono piegati in due, sì da dar luogo a due carte ciascuno, per un totale di 45 fogli numerati da 3 a 47. Non si tratta però di un’opera completa: suscita infatti molti dubbi il fatto che la pagina tre si apra con l’indicazione « Num. 20 » e che le foto s’arrestino al « Num. 39 » , la cui incompletezza fa pensare all’esistenza di una continuazione.
Vi sono poi, tra i documenti visionati dalla studiosa, undici foto di altre carte mai pubblicate. Conoscendo la profonda preparazione religiosa dell’ « ateo » Leopardi, cui i costumi del tempo e la famiglia lo costrinsero, non stupiscono i numerosi interventi speculativi evocati da motivi cristiani, come ad esempio una riflessione sul versetto 26 del XXVII capitolo del Vangelo di Matteo.
Il ritrovamento, cui hanno concorso certamente tanto la fortuna quanto l’acume della giovane studiosa ormai esperta dei primi scritti leopardiani, ha senz’altro del clamoroso. Sorprende, per la verità, che tali documenti siano rimasti, e rimangano tuttora, segregati - e segretati - non si sa bene dove e per quale motivo ( benché, essendo stati fotografati, del tutto svaniti nel nulla non dovevano essere). L’augurio, e l’auspicio, è che essi possano presto vedere la luce ed essere valorizzati - magari proprio a cura di Carla Pagliarulo -, fornendo così un tassello in più alla conoscenza del mosaico della produzione letteraria di un gigante dell’era moderna.
* © Il Giornale del Popolo di Lugano e per l’Italia Avvenire
Già Leopardi traccia un parallelo tra i due verbi: chi non vede che l’esame dell’anima è analogo a quello del corpo?
MEDITARE, CIOÈ MEDICARE. L’ARTE DI CURARSI COL PENSIERO
Un convegno a Roma per riappropriarsi dell’antica pratica che è stata lasciata alla malinconia della psicoanalisi
di Carlo Ossola*
Tra le pagine più belle e profonde che il Leopardi abbia affidato al suo Zibaldone sono quelle ch’egli consacra alla etimologia e alla prossimità tra medeor ( « medicare » , « curare « ) e meditor, « meditare » : « Da medeor dunque, che poi passò a significare specialmente e unicamente il medicare [...], ma che da principio significò generalmente curo, curam gero, consulo; da medeor dico io che [...] fu fatto il verbo meditor. [...] Chi non vede che l’esercitare e il meditare una cosa è una continuazione del semplice averne o pigliarne cura? » ( 5 settembre 1823).
Queste osservazioni sono venute a concludere la bella giornata di studi che Benedetta Papasogli, con un eletto gruppo di studiosi francesi, belgi e italiani, ha dedicato venerdì sera in Roma, Università Lumssa, alle Meditazioni sacre, meditazioni profane. Lo stesso gruppo di studiosi aveva già allestito un ricco e affascinante volume monografico della « Rivista di Storia e Letteratura Religiosa » ( Firenze, Olschki, 2005) incentrato sulla Meditazione nella prima età moderna.
Medicare, meditare: prender cura, prendersi la cura di sé sino alla propria intima exercitatio. Il dialogo con noi stessi è la nostra prima cura: scriveva Guigo il Certosino, evocato dalla Papasogli: « La meditazione è l’investigazione accurata di una verità nascosta, con l’aiuto della ragione » ; esame clinico del corpo e scrutinio dell’anima partono dalle stesse procedure.
Riccardo di San Vittore è ancor più « medico » nel suo meditare: « La meditazione è il pensiero assiduo e riflessivo che cerca con prudenza di conoscere la causa, l’origine, la maniera d’essere e l’utilità di una cosa » . Questa medicina dell’anima che è la meditazione, è stata nei secoli talvolta congiunta e talvolta disgiunta dalla « contemplazione » .
Chi ha visto nella contemplazione il frutto di un amore che discende, in primis, dalla Grazia, ha spesso preferito non mescolarvi, neppure come propedeutica, l’attività del medico che prende cura di sé. Fénélon, ad esempio, nella sua Explication des maximes des saints - osserva ancora Benedetta Papasogli - detta « una asserzione severa: ’ Non si passa insensibilmente dalla meditazione - ove si esercitano atti metodici e discorsivi - alla contemplazione, i cui atti sono semplici e diretti, se non nella misura in cui si passi dall’amore interessato a quello disinteressato’ » .
Non basta conoscersi e curarsi attraverso la meditazione, se non si cede il passo all’irruzione dell’Amore. Ma anche, all’opposto: l’aver troppo allontanato meditazione e contemplazione ha finito per lasciare la prima quale territorio esclusivo dei « medici » della psiche, specie nel Novecento, da Freud a Lacan. La « medicazione » di sé è divenuto dialogo « deferito » ad altri, trasferito, senza guarigione, pieno di nostalgia dell’infanzia: infinita malinconia della psicoanalisi.
E per l’opposto il « puro amore » della contemplazione, esaltato dai mistici, ha acuito un territorio di eccezione, e di attesa, ove l’attività umana deve annichilirsi, auscultando il brusìo, a venire, dello Sposo dell’anima. In questo tempo che riduce ed eccita a fasci laser di discoteca le Illuminations del XVIII e XIX secolo, forse giova tornare all’antica, quotidiana, meditazione di tanti « orologi ascetici » : « La via spirituale altro non è che una catena di buoni esercizi, dal mattino alla sera, e dalla sera al mattino » (cardinale Bona, citato da Marco Maggi). Meditare è la continuità del somministrare a sé la miglior medicina: l’esercizio dell’anima.
* Avvenire, 14.09.2008.
Dopo il primo, pubblicato a febbraio, l’Ipcc ha varato il secondo capitolo del documento.
Lo studio si concentra sulle drammatiche conseguenze del riscaldamento globale
Clima, trovato l’accordo sul rapporto Onu
"A rischio 20-30% specie vegetali ed animali"
Tra le situazioni più a rischio, l’accesso all’acqua per milioni di persone e la tutela della biodiversità *
BRUXELLES - La scienza alla fine ha prevalso sulla politica, almeno per il momento. Dopo un temuto rinvio dovuto alle pressioni di Stati Uniti e Cina e Arabia Saudita, preoccupate per le conclusioni decisamente allarmanti, l’Ipcc, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dei cambiamenti climatici, ha finalmente trovato l’accordo sul secondo capitolo del rapporto 2007. Dopo il primo capitolo sulla fisica dei cambiamenti, pubblicato nel febbraio scorso, quello attuale è il dossier che prende in esame le conseguenze pratiche dei mutamenti.
E sono conseguenze che fanno paura. Un innalzamento della temperatura media globale di 2-2,5 gradi rispetto al presente, si legge nel testo approvato, "potrà causare un forte aumento degli impatti" con spostamenti geografici di specie, perdite totali di biodiversità, riduzione della produttività agricola e delle risorse idriche in vaste aree. E questo determinerà un maggiore rischio di estinzione per circa 20-30% delle specie vegetali ed animali. In Australia e Nuova Zelanda le proiezioni climatiche stimano una forte perdita di biodiversità entro il 2020.
Gli impatti dei cambiamenti climatici, dicono gli esperti dell’Ipcc, "sono già in atto a livello globale e regionale e saranno più forti nel futuro". Inoltre, "molti sistemi naturali in tutto il pianeta sono stati già affetti da cambiamenti climatici regionali, in particolare da aumenti di temperature".
"Alla fine abbiamo un documento che spero attirerà l’attenzione in tutto il mondo", ha annunciato il presidente dell’Ipcc, Rajendra Pachauri. "Stiamo facendo le ultime correzioni della bozza - ha aggiunto - il lavoro non è facile ed è un documento complesso". Nella notte, tra mille tensioni, è stata fatta un’estenuante opera di limatura, correggendo alcuni aggettivi e alcune definizioni ("alto rischio" riferito al timore di perdita di biodiversità è divenuto ad esempio "crescente rischio"), ma la sostanza delle conclusioni messe insieme dallo staff di oltre duemila scienziati coordinato dall’Ipcc non è cambiata ed è la stessa anticipata dalla stampa nei giorni scorsi.
L’allarme per le conseguenze pratiche sulla vita umana e gli ecosistemi portate dal riscaldamento globale lanciato nel documento è pesantissimo. Stando alle previsioni basate su proiezioni scientifiche, già tra venti anni centinaia di milioni di persone rimarranno senza acqua a causa della siccità, mentre epidemie come la malaria si estenderanno anche in zone non tropicali. Nel 2050 l’Europa potrebbe perdere tutti i suoi ghiacciai e nel 2100 metà della vegetazione mondiale potrebbe essere estinta. Inoltre si ripeteranno ondate di calore anomalo in grado di uccidere migliaia di persone ed eventi climatici estremi come inondazioni e alluvioni.
Rispetto al precedente rapporto, pubblicato dall’Ipcc nel 2001, quello attuale è molto più allarmato e circostanziato e soprattutto affronta il riscaldamento globale non più come una vaga minaccia per un futuro lontano, ma come un fenomeno che sta già producendo i suoi effetti. "I cambiamenti climatici - spiega Neil Adger, uno dei leader della delegazione britannica nell’organismo Onu - non è qualcosa che riguarda il futuro, è già tra noi". Dopo l’estate l’Ipcc pubblicherà anche il terzo capitolo del suo rapporto 2007 nel quale vengono affrontati i possibili rimedi per contrastare il riscaldamento globale e mitigarne gli effetti.
* la Repubblica, 6 aprile 2007
Leopardi, se Dio si nasconde nella solitudine
di BIANCA GARAVELLI (Avvenire, 19.07.2008).
«In Dante il cristianesimo è la forma di una civiltà, in Manzoni la visione di un mondo guidato dalla Provvidenza. In Leopardi il mondo - tutto: la storia, la società, il progresso - è scomparso. Non rimane che l’uomo, ma la solitudine dell’uomo è come il segno di una presenza ». Così Divo Barsotti delinea il ritratto di Leopardi poeta religioso, anzi il più profondamente religioso fra i poeti italiani. Lo fa attraversando con grande attenzione tutta la sua opera, in cerca della sua evoluzione esistenziale. Perciò La religione di Giacomo Leopardi assume il duplice ruolo di analisi letteraria, condotta con acuti strumenti e sensibilità, e di riflessione teologica non solo su Leopardi, ma sul suo secolo di crisi, profetico del tempo attuale. Un libro limpido, elegante, senza manierismi formali. Non accademico, e perciò accessibile anche ai lettori meno preparati. Massimo Naro, a sua volta sacerdote e teologo, nella Prefazione evidenzia l’attualità dell’ampio testo del sacerdote scrittore - nato in provincia di Pisa nel 1914 e scomparso nel 2006 dopo una vita dedicata alla spiritualità - già uscito per Morcelliana nel 1975.
Secondo Barsotti, Leopardi è il meno provinciale dei poeti italiani, tanto emblematico da rappresentare la moderna crisi religiosa dell’intera Europa: nato nel cuore d’Italia, ha però coltivato l’eredità del mondo classico, e ha saputo fonderla con le nuove idee laiche e scientifiche che hanno dato vita alla Rivoluzione Francese. In questa sintesi sta la sua centralità: Leopardi ha un respiro ampio, parla il linguaggio dei grandi autori, Shelley, Byron, ma con maggiore autenticità, quella che sarà poi di Dostoevskij. Che, sempre ragionando in termini universali, sarà il solo scrittore a superare questa crisi, raggiungendo una nuova, autentica spiritualità cristiana. Se le grandi testimonianze italiane di fede nell’Ottocento sono soprattutto rivolte all’azione - e Barsotti cita per tutti Giovanni Bosco - un’autentica voce di spiritualità non dovrebbe escludere i grandi conflitti che hanno segnato la dura crisi religiosa ottocentesca. Leopardi è questo, è «l’uomo della crisi», perché non ha «trovato troppo presto Dio» come Manzoni, convertito alla fede dopo l’educazione in una famiglia erede del pensiero illuministico. Al contrario, il poeta di Recanati è partito dall’angustia di una famiglia bigotta che gli ha fatto sentire la religiosità come una costrizione: questo ha provocato in lui una grande sfiducia nel cristianesimo come strumento di crescita e rinnovamento. Tuttavia, paradossalmente, lo ha reso più religioso di Manzoni, perché il rifiuto del cristianesimo, il senso di vuoto e solitudine, hanno dato a Leopardi una straordinaria forza di protesta contro Dio, che non è quindi negazione ma una personale e intensa forma di preghiera.
Barsotti riconosce nella poesia la più alta verticalità della parola, non solo testimone ma anche creatrice del mondo, e quindi nel poeta la massima consapevolezza che la parola ha questa doppia direzione: verso Dio e verso la profondità di sé. In quanto poeta, Leopardi perfeziona l’ultima attitudine della parola umana: essere preghiera, discorso non rivolto soltanto agli uomini, ma anche e soprattutto a Dio. E proprio il suo senso di abbandono da parte di Dio lo rende, come l’umanità stessa, la più alta testimonianza, il più alto indizio di Dio. È questo il centro, la ’radice’ dell’opera di Leopardi. Il suo grido contro Dio è a volte bestemmia, ma non per questo meno preghiera. La sua rinuncia a Dio è dichiarazione dell’impossibilità di vivere senza Dio.
In questa visione di Leopardi Barsotti è vicino al pensiero teologico di Romano Guardini e anticipa in parte le riflessioni di Emanuele Severino: Leopardi è molto più di uno scrittore, quanto piuttosto un pensatore, il più importante per l’Occidente contemporaneo, a cui ha ancora moltissimo da dire. Tuttavia, Barsotti non condivide l’idea di un radicale nichilismo leopardiano, perché per lui il nulla a cui arriva il suo pensiero è come ’impronta vuota’ di Dio.
In più, come si diceva, c’è l’attenzione ai testi: quella di Barsotti è una vera e propria interpretazione della nascita e dell’evoluzione della scrittura di Leopardi, passando dalla ’religione senza Dio’ delle Operette morali alla ’religione del mistero’ dei Canti recanatesi, fino a leggere in profondità l’ispirazione biblica dei Canti stessi, specialmente dalla figura di Giobbe, e in particolare di quello che è al centro di tutta la poesia leopardiana, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Divo Barsotti
LA RELIGIONE DI GIACOMO LEOPARDI
San Paolo. Pagine 286. Euro 17,00